PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE I - GIURISDIZIONE E COMPETENZA

  • reato
  • giurisdizione militare
  • giurisdizione penale
  • procedura penale
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO I

IL RIPARTO TRA POTESTÀ GIURISDIZIONALE ORDINARIA E MILITARE IN CASO DI REATI CONNESSI: QUESTIONE DI GIURISDIZIONE O COMPETENZA?

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 La questione. - 2 Il caso. - 3 Il contrasto. - 4 Art 264 cod. pen. mil. Pace, art. 103 Cost. e art. 13, comma 2, cod. proc. pen. - 5 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione.

Nel corso del 2021, le Sezioni Unite della Corte sono state chiamate a pronunciarsi su una questione rilevante in tema di giustizia militare.

Il quesito era posto nei termini seguenti:

Se, in caso di connessione tra un reato militare ed un reato ordinario più grave, la questione di competenza giurisdizionale derivante dall’applicazione della regola di cui all’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., soggiaccia alla disciplina di cui all’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., ossia alla regola della rilevabilità – o eccepibilità – a pena di decadenza soltanto prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen.

In sostanza, ed in senso più ampio, esso riguardava la questione se il riparto tra la giustizia ordinaria e quella militare attenga alla competenza, con sussistenza dei suddetti limiti alla rilevabilità dell’eventuale difetto, o alla giurisdizione, il cui difetto è, invece, ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen., rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

Si è trattato di una questione di non poco conto, essendo evidente che dalla risposta dipende l’estensione della “giurisdizione” militare rispetto a quella ordinaria.

2. Il caso.

Nel caso di specie, l’imputato era rinviato a giudizio davanti al Tribunale Militare per più episodi integranti ciascuno i reati di diserzione aggravata, simulazione di infermità aggravata, truffa militare aggravata, allontanamento illecito aggravato, tutti previsti dal codice penale militare di pace.

Dopo alcuni rinvii del dibattimento, comunque successivi alla sua apertura, ad una udienza il difensore depositava un avviso di conclusione delle indagini emesso dalla giurisdizione ordinaria per il reato di cui agli art. 81, 476 cod. pen. In sostanza, poiché alcuni tra i reati militari contestati erano avvenuti mediante presentazione di documentazione medica ritenuta falsa, il procedimento della giurisdizione ordinaria si riferiva, appunto, all’uso dei falsi certificati medici. Il reato per cui procedeva la A.G. ordinaria, poi, era più grave dei reati militari contestati.

A questo punto, il difensore eccepiva il difetto di giurisdizione dell’A.G. militare e chiedeva trasmettersi gli atti alla A.G. ordinaria.

Il Tribunale rigettava l’istanza ritenendo che il difetto di giurisdizione per connessione dovesse essere eccepito nel corso dell’udienza preliminare.

In una successiva udienza il difensore riproponeva l’eccezione di difetto di giurisdizione, facendo presente che non avrebbe potuto sottoporla al collegio in precedenza, perché all’epoca era ignaro dell’esistenza del procedimento pendente davanti alla A.G. ordinaria.

Il tribunale rigettava l’istanza anche sotto questo profilo ritenendo - in virtù del fatto che, con l’estrazione delle copie del fascicolo del procedimento militare, aveva avuto accesso all’informazione relativa alla trasmissione degli atti da quest’ultima alla A.G. ordinaria -, che il difensore fosse nella piena condizione di rendersi conto fin da allora della pendenza del procedimento davanti alla A.G. ordinaria, e quindi ben prima di avere ricevuto da quest’ultima l’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen.

L’imputato, parzialmente condannato in primo grado per alcuni dei reati a lui contestati, appellava la sentenza riproponendo la questione del difetto di giurisdizione, che la Corte Militare di Appello respingeva con articolata motivazione.

L’imputato ricorreva allora per cassazione deducendo, con il primo motivo, erronea applicazione ed interpretazione dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., evidenziando che, come ritenuto anche da una giurisprudenza di questa Corte, la questione sollevata atteneva alla giurisdizione e non alla competenza, cosicché la stessa non sarebbe stata soggetta ai limiti di rilevabilità previsti per quest’ultima.

La Prima Sezione della Corte, con l’ordinanza n. 29392 del 2021, ravvisato un contrasto di giurisprudenza sul punto, rimetteva gli atti al primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

3. Il contrasto.

Con la suddetta ordinanza, la Prima Sezione ha dato atto dell’esistenza di un contrasto sul punto nella giurisprudenza di legittimità.

Un primo orientamento, di cui, peraltro, risulta espressione pressoché esclusiva Sez. 1, n. 3975 del 28/11/2013, dep. 2014, Giantesani, n.m., ritiene che la regola dell’art 13, comma 2, cod. proc. pen. sulla connessione non sia funzionale a risolvere questioni di giurisdizione e quindi sia soggetta al limite di rivelabilità di cui all’art. 21, comma 3, cod. proc. pen. (a pena di decadenza, entro la conclusione dell’udienza preliminare oppure, ove questa manchi, entro il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen.). La previsione in oggetto non atterrebbe ad ipotesi di difetto di giurisdizione perché, quando il reato comune è quello più grave, questo resta in capo alla A.G. ordinaria, così come anche il reato rientrante, di per sé, nella giurisdizione militare continuerebbe ad essere trattato dalla A.G. militare. Ogni A.G., quindi, tratta i reati rientranti nella propria giurisdizione ed il mancato esercizio della connessione non avrebbe alcun effetto “distorsivo”, lasciando, appunto, che ciascuna A.G. tratti il “proprio” reato.

Altro effetto di questo orientamento sarebbe quello di salvaguardare un importante spazio alla cognizione della A.G. militare che, se l’eccezione relativa alla connessione non è esercitata nei termini, non corre il rischio di vedersi privata della trattazione di reati che sono, comunque, intrinsecamente militari.

La suddetta sentenza, concernente un caso di abbandono di posto (reato militare) e violazione di domicilio con furto (reati comuni), è derivata da un procedimento in cui la procura militare aveva trasmesso gli atti a quella ordinaria perché ricorreva un reato ordinario (furto); la procura ordinaria aveva istruito il procedimento per i reati ordinari con condanna in primo grado nel 2009, ma aveva anche ravvisato il reato militare (abbandono di posto) ritrasmettendo per esso gli atti alla procura militare. Quest’ultima aveva istruito il procedimento, giungendosi a condanna in primo grado nel marzo 2012, e in appello nel novembre 2012, con sentenza appunto impugnata in cassazione.

Innanzi al Tribunale militare si era eccepito il difetto di giurisdizione perché il reato militare era connesso col più grave ordinario, ma il Tribunale aveva affermato che la riunione non era più possibile perché il procedimento ordinario era ormai in appello.

La Corte di cassazione ha ritenuto errato quest’ultimo principio, non dipendendo la connessione dal grado in cui si trova il giudizio, ma comunque corretta la decisione di non procedere alla riunione non essendo stata la connessione predetta eccepita entro l’udienza preliminare, versandosi appunto non in ipotesi di difetto di giurisdizione (art. 20 cod. proc. pen.) ma di competenza; ha affermato, al riguardo, la sentenza, che “nel caso in esame non ricorre un’ipotesi di difetto di giurisdizione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art.20 cod. proc. pen., posto che il reato di abbandono di posto giudicato dal Tribunale militare è oggettivamente un reato previsto dal cod. pen. mil. Pace”.

La pronuncia in oggetto, quindi, vede il riparto di potestà tra giudice ordinario e militare come attinente alla competenza.

Un altro orientamento, rappresentato da Sez. fer. n. 47926 del 24/08/2017, Cardaropoli, Rv. 271058, ha, invece, affermato che la questione del riparto di autorità decisoria tra giustizia ordinaria e militare attiene alla giurisdizione, ed il suo eventuale difetto davanti all’autorità procedente è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

Nella specie, in particolare, si trattava dei reati di truffa militare continuata pluriaggravata e di falso continuato ed aggravato in foglio di licenza di via, contestati all’imputato militare per avere esposto nei fogli di viaggio relativi a missioni in Italia, orari di partenza e di rientro alla sede di servizio non rispondenti al vero ed ore di missione superiori a quelle effettuate, inducendo in errore l’Amministrazione militare ed ottenendo la liquidazione di importi non dovuti, con correlativo danno per l’Amministrazione stessa.

Dopo la condanna in primo grado da parte del Tribunale militare, la Corte militare di appello dichiarava il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria militare in ordine ai reati di falso, qualificati come falso ideologico, disponendo la trasmissione degli atti all’A.G. ordinaria. L’imputato ricorreva in cassazione sul punto, ed il sostituto p.g. eccepiva la tardività della questione, perché mai sollevata in precedenza e non più rilevabile in tale stadio del processo.

La decisione disattendeva l’eccezione, affermando che essa “confligge con la natura di questione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo e di conseguenza altrettanto liberamente deducibile dalle parti senza doversi attenere al rispetto di determinate e rigide cadenze processuali. L’art. 20 cod. proc. pen., infatti, impone al giudice la verifica della giurisdizione quale adempimento necessario e logicamente anticipato rispetto ad ogni altra indagine su questioni ad esso devolute, verifica da condursi in base ai fatti oggetto dell’imputazione e da rinnovarsi in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, con la conseguente declaratoria di difetto di giurisdizione qualora i presupposti fattuali e normativi subiscano mutamenti rispetto all’accusa originaria col progredire del corso del processo (Sez. 1, n. 4060 del 08/11/2007, Sommer e altri, rv. 239185)”.

Il tutto sul presupposto, esplicitamente affermato, che la questione attenesse alla giurisdizione e non alla competenza.

Le ragioni di tale secondo orientamento troverebbero fondamento anche in ulteriori decisioni, che, pur non affrontando la questione specifica oggetto del contrasto, hanno, in generale, ricostruito il rapporto tra autorità ordinaria e autorità militare come attinente alla giurisdizione.

L’ordinanza di rimessione ha, infatti, citato al riguardo: Sez. 1, n. 44514 del 28/9/2012, Nacca e altro, Rv. 253825; Sez. 1, n. 5680 del 15/10/2014, dep. 2015, D’Ambrosio, Rv. 262461; Sez. 1, n. 23372 del 15/5/2015, Miceli, Rv. 263616; Sez. 1, n. 36418 del 21/5/2002, Vito, Rv. 222526; Sez. 1 n. 48461 del 9/9/2019 n.m.; Sez. 1 n. 25352 del 15/1/2019 n.m.; Sez. 1 n. 11619 del 26/2/2021 n.m., quest’ultima, in particolare, contiene plurimi riferimenti giurisprudenziali e afferma chiaramente versarsi in ipotesi di questione di giurisdizione.

Peraltro, Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, dep. 2000, confl. in proc. Di Dona, Rv. 214694, hanno chiarito che, pur essendo il rapporto tra giudice ordinario e militare attinente alla giurisdizione, il riparto non è assoluto, come tra giurisdizione penale e civile o penale e amministrativa. Infatti, sia la giurisdizione ordinaria che quella militare si muovono nell’ambito del diritto penale, rappresentando, quindi, un riparto di giurisdizione particolare rispetto a quello classico tra diritto penale e civile o amministrativo, nel senso che, se violato, non rende l’atto del giudice inesistente, come negli altri casi.

Tuttavia, ciò non esclude che anche nel caso di difetto di giurisdizione tra giudice penale ordinario e militare, esso sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado, ma con l’unico limite del giudicato, che invece nel riparto “classico” non sussiste come limite.

Detta sentenza, intervenuta in tema di liquidazione degli onorari al difensore di imputato ammesso al patrocinio a spese dello Stato - in un caso in cui il gip del tribunale militare aveva emesso il provvedimento di primo grado, e il difensore interessato aveva proposto ricorso in appello al giudice del tribunale civile per pretesa violazione dei minimi tariffari nella misura dei compensi, con conseguente pronuncia del giudice ordinario civile, sì che il gip aveva, quindi, sollevato il conflitto di giurisdizione - parte dal concetto di “atto inesistente”, definendolo come “quel provvedimento giurisdizionale che, seppure materialmente esistente e ascrivibile a un "giudice", sia tuttavia privo del requisito minimo della provenienza da un organo giudiziario investito del potere di decisione in una materia riservata agli organi della "giurisdizione penale", e per ciò, siccome invasivo dello specifico campo riservato al giudice penale, risulti esorbitante i limiti interni ed oggettivi che alla stregua dell’ordinamento positivo discriminano il ramo civile e il ramo penale nella distribuzione della jurisdictio. Il difetto di giurisdizione, in tal caso, non appare, a ben vedere, relativo e interno ai confini delineati dall’art. 1 cod. proc. pen. per la "giurisdizione penale", bensì assoluto ed esterno al sistema chiuso che quella disposizione configura con funzione ricognitiva, analoga e simmetrica a quella assegnata dall’ordinamento alla norma dell’art. 1 per delineare i contorni del separato ramo della "giurisdizione civile".

La sentenza poi prosegue affermando:

“Una patologia, questa del "difetto assoluto di giurisdizione penale" (e cita al riguardo giurisprudenza relativa), della quale anche il legislatore mostra di avere una qualche consapevolezza, mediante il riferimento - sia pure ellittico - all’inciso "se del caso" nell’art. 20.2 cod. proc. pen., per l’eventualità che alla declaratoria del difetto di giurisdizione debba accompagnarsi l’ordine di trasmissione degli atti all’autorità competente (com’è chiarito nella Relazione al testo definitivo, p. 167), nonché in virtù delle previsioni contenute nelle disposizioni degli artt. 606.1 lett. a) e 620 lett. c) c.p.p., le quali, riproponendo sostanzialmente gli artt. 524 n. 2 e 539 n. 3 cod. proc. pen. abrogato, riguardano lo specifico vizio del c.d. "eccesso di potere giurisdizionale" come motivo di ricorso per cassazione che giustifica l’annullamento senza rinvio della decisione impugnata. Corollario di lineare conseguenzialità logico-giuridica di siffatto ragionamento è che il provvedimento de quo, in quanto pronunciato da un soggetto giusdicente affatto privo di giurisdizione penale e per ciò non legittimato a giudicare sul tema in esame (lo stesso sarebbe a dirsi qualora, viceversa, fosse il giudice penale a pronunziarsi in ordine a materie attribuite in via esclusiva alla potestà di cognizione e di decisione degli organi della giurisdizione civile), resta non eseguibile e denunciabile in ogni tempo, senza termini di decadenza, con un’azione destinata a risolversi in una pronuncia di accertamento della sua intrinseca natura di atto giuridicamente inesistente, che comporta la rilevabilità d’ufficio e - a differenza di quanto ritenuto per il provvedimento abnorme - la non convalescenza del vizio neppure per effetto del formarsi della cosa giudicata (Cass., Sez. U, 9.7.1997, Quarantelli, e 26.4.1989, Goria, citt.).

Di talché, l’ordinanza del tribunale civile di Roma in esame, sebbene non impugnata mediante ricorso per cassazione da alcuna delle parti che avevano la facoltà d’impugnarla, non ha tuttavia acquisito, siccome giuridicamente inesistente, il crisma della definitività e dell’irrevocabilità, con l’efficacia propria del giudicato in ordine alla sagoma dei diritti soggettivi azionati nella relativa procedura incidentale: situazione questa dalla quale sarebbe dovuta invece conseguire ex adverso, una volta formatosi il giudicato pure sotto il profilo della giurisdizione e della competenza del giudice che ha deciso la causa nel merito, la declaratoria d’inammissibilità del conflitto per carenza del necessario requisito dell’attualità (Cass., Sez. U, n. 4 del 23/1/1971, Femio; Sez. I, 25.3.1991, Ciabattoni, rv. 186955; Sez. I, 8.10.1992, Caracciolo, rv. 193166; Sez. I, 19.1.1993, Tedesco, rv. 193086; Sez. I, 25.5.1994, Dursun, rv. 198423)”.

4. Art 264 cod. pen. mil. Pace, art. 103 Cost. e art. 13, comma 2, cod. proc. pen.

Il regime del riparto tra quelle che sono abitualmente indicate come “le due giurisdizioni” in caso di reati connessi è oscillato da sempre tra il principio di prevalenza della giurisdizione militare e quello inverso. Nel codice Rocco si estendeva la giurisdizione militare anche a soggetti “estranei” e a fattispecie che non tutelavano interessi militari. Con l’entrata in vigore della Costituzione, quella prevalenza divenne inconciliabile con l’art. 103 Cost., e vi pose fine la l. 23.3.1956, n. 167 che riscrisse l’art. 264 cod. pen. mil. pace, che regola la connessione tra reati comuni e militari, riconoscendo alla giurisdizione ordinaria quella vis actractiva fino ad allora attribuita alla giurisdizione militare. Nell’attuale codice di rito, la prevalenza della giurisdizione ordinaria, risulta “temperata” dalla regola (art. 13, co. 2, cod. proc. pen.) per cui la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare; regola che mira ad evitare una riduzione eccessiva della giurisdizione militare, alla luce di un principio di ragionevolezza cui compie espresso riferimento l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 204 del 2001.

Infatti, come è stato rilevato anche da Sez. U, n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006, Maldera, Rv. 232661-01, il codice di rito vigente ha modificato radicalmente la disciplina della connessione tra reati di competenza del Giudice ordinario e reati di competenza del Giudice militare, quasi capovolgendola. L’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce, al riguardo, che «fra reati comuni e reati militari la connessione dei procedimenti opera soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare, avuto riguardo ai criteri previsti dall’art. 16, comma 3, cod. proc. pen. In tale caso, la competenza per tutti i reati è del Giudice ordinario». Ne risulta così una regolamentazione nella quale, da un lato, rientrano i casi, prima non previsti, del concorso formale e del reato continuato (costituendo ipotesi di connessione comprese nell’art. 12, comma 1 lett. b, cod. proc. pen., relativi a reati comuni e reati militari, ma «soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare»), e, dall’altro, sono esclusi casi già previsti dall’art. 264 cod. pen. mil. Pace, come quelli dei delitti commessi da più persone «in concorso tra loro, o da più persone in danno reciprocamente le une delle altre».

Gli autori che hanno commentato la nuova disposizione hanno generalmente ritenuto che essa regolasse interamente la materia, con l’effetto di abrogare, a norma dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, quella precedente dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace, e nello stesso senso si è inizialmente orientata la giurisprudenza della Corte di cassazione. La prima espressione di questo orientamento è rappresentata da Sez. 1, n. 12782 del 23/11/1995, De Marco, Rv. 203165-01, che, in presenza di un’imputazione di furto militare aggravato commesso in concorso con un civile, ha ritenuto infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione del Tribunale militare senza dubitare che ormai la regola sui rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare per ragioni di connessione fosse rinvenibile unicamente nell’art. 13 comma 2, cod. proc. pen. L’attribuzione al Tribunale militare del furto militare commesso in concorso con un civile è stata infatti giustificata con la considerazione che «la connessione di procedimenti prevista dall’alt. 13 cpv. cod. proc. pen. - che determina l’attribuzione di giurisdizione al giudice ordinario - opera solo nel caso che ci si trovi in presenza di reati comuni e di reati militari e che uno dei reati comuni sia più grave rispetto a quello militare». «Diverso - secondo la sentenza - è il caso di un unico fatto delittuoso commesso in concorso da un civile e da un militare, i cui elementi integrano soggettivamente e oggettivamente gli estremi di un reato militare. In tale ipotesi, trattandosi di un unico reato, non opera la connessione prevista dall’art. 13 cpv. cod. proc. pen., che richiede la presenza di più reati diversi». Sez. 1, n. 1399 del 15/12/1999, dep. 2000, Moccia, Rv. 215228-01 è stata ancora più chiara, con l’affermazione che «l’art. 264 cod. pen. mil. Pace, modificato dalla l. 23 marzo 1956, n. 167, art. 8, che prevedeva la competenza dell’autorità giudiziaria in caso di concorso di più persone nel reato e di nesso teleologico tra reati, risulta abrogato dalla successiva disposizione del codice di procedura penale del 1988».

Successivamente, però, nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono emersi orientamenti diversi, secondo i quali l’art. 264 cod. pen. mil. Pace e l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., disciplinano fattispecie non del tutto omogenee, posto che l’art. 264 riguarda soltanto le ipotesi di delitti e non di reati in genere, come è previsto dall’art. 13 cod. proc. pen., comma 2, e che i casi di connessione previsti dal codice militare sono parzialmente diversi da quelli indicati dall’art. 12 cod. proc. pen. Secondo Sez. 1, ord. n. 4527 del 20/1/2005, Rv. 230437 «la lettura della disposizione del codice rivela inequivocabilmente che all’art. 13, comma 2, non ha affatto abrogato l’art. 264 cod. pen. mil. Pace e che il suo campo di applicazione è unicamente circoscritto alla delimitazione della vis attractiva nella giurisdizione ordinaria di tutti i casi di connessione prefigurati dall’art. 264 cod. pen. mil. Pace. Il coordinamento tra le due disposizioni rende, dunque, evidente che l’art. 13 segna un limite all’operatività della disposizione dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace, nel senso che quest’ultima norma, che sancisce la prevalenza della giurisdizione ordinaria su quella militare, non si applica quando il reato più grave sia quello militare». Secondo la sentenza suddetta, l’art. 13 cod. proc. pen., comma 2, presuppone una pluralità di reati mentre nel caso del concorso di persone «il reato è unico» e si determina una fattispecie che non può essere regolata da tale articolo; perciò, a norma dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace, «deve trovare piena esplicazione la regola generale della devoluzione della cognizione dei procedimenti connessi alla giurisdizione ordinaria, in totale sintonia con la disciplina dell’art. 103 Cost., comma 3. Per contro la decisione ha considerato incompatibile con la normativa del nuovo codice la parte finale del secondo comma dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace (che dava alla Corte di cassazione il potere di “ordinare per ragioni di convenienza, con la sentenza, la separazione dei procedimenti”) e l’ha ritenuta “senz’altro abrogata a norma dell’art. 15 disp. gen. ».

Del resto, le stesse Sezioni Unite, 14 dicembre 1994, n. 1684, p.c. in proc. Trombetta, rv. 200041 avevano affermato che con il nuovo codice di rito “non può ritenersi l’abrogazione tacita di una disposizione normativa, non esplicitamente abrogata dal legislatore, ove non sia dimostrata la sua assoluta incompatibilità con norme sopravvenute. Tanto discende anche “dal corrente canone interpretativo, secondo il quale lex posterior generalis non derogat priori speciali”.

Con una pronuncia ancora successiva la Prima sezione della Corte (Sez. 1, n. 16439 del 3/3/2005, Tria, Rv. 231578-01) ha ribadito il “nuovo” orientamento aggiungendo che «il problema dell’abrogazione, totale o parziale, dell’art. 264 non ha decisiva influenza sulla definizione della questione relativa alla giurisdizione in caso di concorso di civili e di militari nello stesso delitto militare, per la precisa ragione che, una volta escluso che tale situazione rientri nell’ambito di operatività dell’art. 13 codice di rito, comma 2, è inevitabile riconoscere che la soluzione accolta dalla uniforme giurisprudenza di questa Corte discende direttamente dall’art. 103 comma 3 della Carta fondamentale. La piena fondatezza di tale enunciato risulta evidente quando si considera che la Corte costituzionale ha costantemente affermato la regola della tassatività della giurisdizione speciale e della prevalenza della giurisdizione ordinaria».

Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione parrebbero emersi dunque tre orientamenti:

1) l’art. 13 comma 2, cod. proc. pen. ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace e non vi sono casi di attribuzione di procedimenti connessi all’autorità giudiziaria ordinaria diversi da quello in cui «il reato comune è più grave di quello militare»; perciò nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione rispetto a queste ultime è del Giudice militare;

2) l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. non ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace; le due disposizioni risultano collegate e in applicazione della seconda nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione per tutte è del Giudice ordinario;

3) l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. presuppone una pluralità di reati, comuni e militari, ed è quindi inapplicabile nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari; in questo caso l’attribuzione al Giudice ordinario della giurisdizione rispetto a tutti i concorrenti «discende direttamente dall’art. 103 comma 3 della Carta fondamentale».

Il terzo orientamento tende a semplificare la questione: non sarebbe necessario stabilire se l’art. 264 cod. pen. mil. Pace è stato o meno abrogato, perché sarebbe la stessa norma costituzionale a fare escludere la giurisdizione del giudice militare, in favore di quello ordinario, nel caso di concorso di persone nel reato. Questa conclusione però si basa su un’interpretazione dell’art. 103, comma 3, Cost. resa difficoltosa dalla lettera della disposizione e dalla ricostruzione normativa che ne ha fatto la Corte costituzionale. Se si leggono in modo coordinato le diverse decisioni della Corte intervenute nel tempo parrebbe infatti doversi concludere nel senso che la disposizione costituzionale, da un lato, non assegna alla giurisdizione dei Tribunali militari un carattere di inderogabilità e impedisce l’attribuzione a questa giurisdizione di reati che non siano militari o non siano commessi da appartenenti alle Forze armate, e dall’altro, però, non impone alcuna specifica soluzione nel caso di procedimenti connessi e ne rimette la disciplina alla discrezionalità del legislatore.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

Secondo l’informazione provvisoria n. 19 del 2021 della Corte, all’udienza del 25.11.2021 le Sezioni Unite hanno ritenuto che, posto che il riparto di potestà in questione attiene alla giurisdizione e non alla competenza, anche il precetto di cui all’art 13, comma 2, cod. proc. pen. si inquadra nel medesimo riparto, con la conseguenza che la sua violazione integra un difetto di giurisdizione, deducibile o rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen.

Nel momento di redazione del presente testo, le motivazioni della decisione non sono state ancora depositate, ma la soluzione al quesito appare chiara.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 4 del 23/1/1971, Femio, Rv. 118019

Sez. 1, n. 1477 del 25/3/1991, Ciabattani, Rv. 186955

Sez. 1, n. 3928 del 8/10/1992, Caracciolo, Rv. 193166

Sez. 1, n. 177 del 19/1/1993, Tedesco, Rv. 193086

Sez. 1, n. 2495 del 25/5/1994, Dursun, Rv. 198423

Sez. U, n. 1684 del 14/12/1994, p.c. in proc. Trombetta, Rv. 200041

Sez. 1, n. 12782 del 23/11/1995, De Marco, Rv. 203165-01

Sez. 1, n. 1399 del 15/12/1999, dep. 2000, Moccia, Rv. 215228-01

Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, dep. 2000, confl. in proc. Di Dona, Rv. 214694

Sez. 1, n. 36418 del 21/5/2002, Vito, Rv. 222526

Sez. 1, ord. n. 4527 del 20/1/2005, Pm in proc. Cimoli, Rv. 230437

Sez. 1, n. 16439 del 3/3/2005, Tria, Rv. 231578-01

Sez. U, n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006, Maldera, Rv. 232661-01

Sez. 1, n. 4060 del 08/11/2007, Sommer e altri, Rv. 239185

Sez. 1, n. 44514 del 28/9/2012, Nacca, Rv. 253825

Sez. 1, n. 3975 del 28/11/2013, dep. 2014, Giantesani, n.m.

Sez. 1, n. 5680 del 15/10/2014, dep. 2015, D’Ambrosio, Rv. 262461

Sez. 1, n. 23372 del 15/5/2015, Miceli, Rv. 263616

Sez. fer., n. 47926 del 24/08/2017, Cardaropoli, Rv. 271058

Sez. 1, n. 48461 del 9/9/2019

Sez. 1, n. 25352 del 15/1/2019 n.m.

Sez. 1, n. 11619 del 26/2/2021 n.m.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE II - MISURE CAUTELARI

  • procedura penale
  • delitto contro la persona
  • violenza

CAPITOLO I

DELITTI COMMESSI CON VIOLENZA ALLA PERSONA, IL TEMA NOTIFICA DELLA RICHIESTA DI REVOCA O SOSTITUZIONE DELLE MISURE CAUTELARI DI CUI ALL’ART. 299, COMMA 4-BIS, COD. PROC. PEN. ALLA PERSONA OFFESA

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite. - 2 La vicenda processuale. - 3 I motivi di ricorso. - 4 L’ordinanza di rimessione. - 5 La giurisprudenza di legittimità sulla prima questione rimessa. - 6 La giurisprudenza di legittimità sulla seconda questione rimessa. - Indice delle sentenze citate

1. Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, come riportato nell’informazione provvisoria n. 14/2021, ric. Gallo, nell’ambito di un ampio confronto/contrasto giurisprudenziale relativo al se nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari di cui all’art. 299, comma 4 -bis, cod. proc. pen. debba essere notificata a cura della parte richiedente, alla persona offesa, anche in mancanza di sua dichiarazione od elezione di domicilio o di nomina di difensore, hanno affermato che: “Nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare deve essere notificata, a cura del richiedente, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa, a condizione, in quest’ultimo caso, che essa abbia dichiarato o eletto domicilio.”.

Sul secondo quesito proposto, relativo all’ipotesi di intervenuto decesso della persona offesa, le Sezioni Unite hanno affermato che: “ In ragione delle finalità eminentemente informative e partecipative al processo della notifica di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., essa, in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato, deve essere effettuata, con le stesse modalità previste per la vittima, ai prossimi congiunti o alla persona da quella legata da relazione affettiva e stabilmente convivente”.

2. La vicenda processuale.

Con ordinanza del 15 gennaio 2021 il Tribunale del riesame di Napoli ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto dalla difesa dell’imputato ex art. 310 cod. proc. pen. avverso il provvedimento con cui la Corte di assise di appello di Napoli il 14 ottobre 2020 aveva rigettato la richiesta presentata personalmente dall’imputato di sostituzione, con misura meno afflittiva, della custodia cautelare in carcere applicata allo stesso perché gravemente indiziato del delitto di duplice omicidio pluriaggravato e dei connessi reati in materia di armi e di occultamento di cadavere, per i quali è stato condannato in grado di appello alla pena di venti anni di reclusione.

Il Tribunale del riesame di Napoli ha richiamato le previsioni della l. n. 319 del 2013 e la conseguente introduzione di un’obbligatoria forma d’interlocuzione con la persona offesa dal reato, alla quale spetta la notifica della richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari previste dagli artt. 282-bis, 282-ter, 284, 285, 286 cod. pen., a pena di inammissibilità dell’istanza de libertate, nonché il disposto dell’art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen., che onera la parte che richiede la modifica dello stato cautelare, anche nella fase successiva alla chiusura delle indagini preliminari, di notificare la richiesta, contestualmente, al difensore della persona offesa e, in mancanza di questo, alla persona offesa, al fine di consentire alla vittima della violenza la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen.

L’istanza del Gallo è stata valutata dal Tribunale del riesame prendendo in considerazione la ratio della direttiva 2012/29/UE nel senso di assicurare, mediante la preventiva informazione, una maggiore protezione ed assistenza delle persone offese, garantendo l’interlocuzione con l’autorità giudiziaria attraverso un contraddittorio cartolare.

Il Tribunale del riesame, nonostante il rigetto della Corte di assise di appello, ha dichiarato l’inammissibilità dell’istanza per mancata notifica alle persone offese, da identificare, nel caso in esame, negli eredi delle persone vittime del delitto di omicidio, che non avevano né eletto domicilio, né nominato un difensore, ma i cui dati erano evincibili dal fascicolo d’ufficio.

Nel valutare l’interesse della persona sottoposta a misura cautelare detentiva, il Tribunale del riesame ha considerato come l’impostazione ermeneutica prescelta non influisca sul diritto di difesa dell’imputato e sull’esigenza di speditezza, tenuto conto dell’informalità della comunicazione da porre in essere nei confronti della persona offesa e dell’esonero dall’espletamento della stessa quando non sia noto il domicilio dell’offeso, in presenza di un invariato termine di legge di cinque giorni per la decisione. In tal senso, tenuto conto della previsione di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. ha ritenuto che l’uso della preposizione “salvo che” debba essere inteso nel senso evidenziato da Sez. 2, n. 19705 del 01/04/2016, Machì, Rv. 267295-01, chiarendo che, purché risulti dagli atti il luogo dove la persona offesa possa ricevere la notificazione dell’istanza de libertate, questa va, a pena d’inammissibilità, comunque effettuata. Tale interpretazione troverebbe fondamento nella lettera della legge, secondo la quale non ricorre alcun obbligo della persona offesa di eleggere domicilio, mentre è sufficiente, ad attivare il contraddittorio, anche una semplice dichiarazione di domicilio, normalmente contenuta nei verbali di sommarie informazioni o nelle denunce.

Nel caso concreto il Tribunale del riesame ha ritenuto non rispettata la condizione imposta relativa all’attivazione del contraddittorio nei confronti degli eredi delle vittime della condotta di omicidio oggetto di contestazione, atteso che nel caso di morte della vittima i diritti della persona offesa sono esercitati dai prossimi congiunti, richiamando in tal senso la definizione di vittima ai sensi dell’art. 2, §1 della direttiva 2012/29/UE, inclusiva non solo della persona che abbia subito un pregiudizio fisico, mentale, emotivo od economico a causa di reato, ma anche i familiari della persona la cui morte sia stata causata direttamente da un reato e che abbiano subito conseguentemente pregiudizio.

3. I motivi di ricorso.

Il difensore del Gallo ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico articolato motivo con il quale ha dedotto inosservanza di norme processuali previste a pena di inammissibilità, con specifico riferimento all’art. 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, cod. proc. pen. e carenza di motivazione quanto agli atti prodotti al momento della proposizione dell’istanza ex art. 310 cod. proc. pen.

Il ricorrente ha osservato che i prossimi congiunti delle vittime dell’omicidio contestato, pur debitamente informati della pendenza del procedimento, non avevano mai nominato un difensore o eletto domicilio ed ha sollecitato l’applicazione dell’orientamento contrapposto a quello seguito dal Tribunale del riesame. È stato, inoltre, evidenziato che una situazione del genere esonera l’istante dall’obbligo di instaurare il contraddittorio cartolare con gli eredi della vittima (e con la vittima in generale che abbia dimostrato disinteresse per il procedimento in corso). Nell’ambito del motivo di ricorso si è anche contestata: - la possibilità di riferire la qualità di persona offesa del reato agli eredi prossimi congiunti delle vittime dell’omicidio, abilitati eventualmente a promuovere in sede civile azioni risarcitorie o riparatorie, in assenza comunque di stretta relazione a carattere personale con l’autore del crimine, anche quanto all’eventuale ricorrenza di un rischio di vittimizzazione secondaria; - l’eccessiva onerosità e gravosità dell’onere di notificazione nei termini indicati dal Tribunale del riesame per l’imputato detenuto che abbia presentato “personalmente” l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare, tenuto a ricercare nel fascicolo la presenza di un’indicazione specifica quanto alla dimora delle persone offese.

4. L’ordinanza di rimessione.

La Prima Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’articolo 618 cod. proc. pen., con ordinanza in data 4 maggio 2021, depositata in data 8 giugno 2021. La Sezione ha individuato le ragioni della rimessione nel contrasto intervenuto tra decisioni della Corte con riferimento all’obbligo di notifica alla parte offesa di un delitto commesso con violenza alla persona dell’istanza di revoca o modifica di misura cautelare in atto, anche in mancanza, da parte della stessa, di dichiarazione ed elezione di domicilio (nel caso in esame, peraltro, essendo presenti, a fronte del decesso delle vittime dei reati di omicidio, gli eredi delle stesse). È stata anzitutto richiamata la ratio dell’intervento legislativo che ha introdotto il comma 4-bis dell’articolo 299 cod. proc. pen. e la genesi della sua attuale formulazione, evidenziando come la stessa derivi da una modifica intervenuta in sede di conversione del decreto-legge n. 93 del 2013 all’art. 2, comma 1, lett. b) n. 3, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119. Si è ritenuto pacifico e non controverso il fatto che il Gallo debba rispondere di un delitto con violenza alla persona, così come indiscussa è la mancata notifica alle persone offese dal delitto commesso dell’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, richiedendosi il vaglio di legittimità delle Sezioni Unite quanto all’ “ambito di operatività dell’obbligo di notificazione alla persona offesa dell’atto con cui l’imputato ha invocato la modifica in melius del regime cautelare”.

Richiamato, quindi, il disposto normativo dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. la Sezione rimettente ha chiarito come il punto interpretativo controverso sia rappresentato dall’inciso finale della disposizione che prevede l’obbligo della notifica dell’istanza di sostituzione misura cautelare, a cura della parte richiedente a pena di inammissibilità “presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio”. La Sezione ha, quindi, considerato gli orientamenti ermeneutici contrapposti sul tema della portata ed ambito della notifica alla persona offesa ai sensi del comma 4-bis dell’art. 299 cod. proc. pen.

Un primo orientamento si caratterizza per una prospettiva di ampia ed estesa tutela delle facoltà della vittima del reato, in un’ottica di piena e costante partecipazione ad ogni fase del processo, in attuazione delle previsioni della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 (con richiamo alla Convenzione di Istanbul). Ne consegue che l’istanza di revoca o di modifica deve “sempre” essere notificata alla persona offesa, anche nei casi in cui essa non abbia nominato un difensore, né eletto o dichiarato domicilio, spettando all’imputato instaurare il contraddittorio con la persona offesa, a prescindere dalla sua attiva partecipazione al processo e, soprattutto, dall’intervenuta nomina di un difensore o dichiarazione di domicilio, non potendo da ciò desumersi un disinteresse all’evoluzione e partecipazione al procedimento, anche considerato che la Direttiva UE non prevede nessun onere per la vittima di nominare un difensore o di dichiarare od eleggere domicilio per le notifiche, ma semplicemente un diritto ad essere informata (Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021, Castagna, Rv. 280999-01; Sez.5, n. 4485 del 08/01/2020, L., Rv. 278141-01; Sez. 3, n. 31191 del 21/07/2020, P., Rv. 280363-01; Sez. 2, n. 4877 del 28/10/2020, Castiglione, Rv. 280613-01; Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, A., 272216-01; Sez. 6, n. 18565 del 08/01/2016, Secci, Rv. 267292-01; Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016, Machì, Rv. 267295-01), salva ovviamente l’inesigibilità dell’adempimento (Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016, Grosso, Rv. 267236-01), considerando destinatari della notifica solo le persone offese i cui dati identificativi sono immediatamente ricavabili dal fascicolo processuale (Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, A., 272216-01, Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021, Castagna, Rv. 280999-01).

Un secondo orientamento ritiene invece, che nel caso in cui la persona offesa non abbia nominato un difensore, né eletto o dichiarato domicilio, la notificazione nei suoi confronti dell’istanza ex art. 299 cod. proc. pen. non sia necessaria, sicché la sua omissione non determina l’inammissibilità dell’istanza (Sez. 1, n. 1460 del 24/11/2020, Pipitone, Rv. 280219-01, Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020, Gangemi, Rv. 278483-01). Si privilegia, in tal senso, l’interpretazione letterale della norma, considerando sia la portata dell’art. 12 delle disposizioni della legge in generale, che la genesi della disposizione, introdotta in seconda battuta rispetto alla decretazione d’urgenza (d.l. 14 agosto 2013, n. 93) con l’approvazione della legge 15 ottobre 2013, n. 119. Il punto centrale di tale opzione ermeneutica, a parere della sezione rimettente, è rappresentato dal necessario contemperamento dei valori, ugualmente tutelati, del diritto di difesa dell’imputato e dell’interesse della parte offesa a conoscere le vicende processuali, anche a seguito delle osservazioni della dottrina, nell’ottica di valorizzare il diritto dell’indagato/imputato a non vedere ingiustificatamente negato o sospeso l’esame della propria istanza in materia particolarmente delicata come quella delle misure cautelari. In tale contesto la mancata nomina di un difensore o il non aver eletto domicilio sono ritenuti indici della carenza di interesse della persona offesa quanto alla partecipazione al procedimento (Sez. 5, n. 14028 del 12/02/2021, Pasca, Rv. 280828-01, Sez. 2, n. 26506 del 22/07/2020, Napoli; Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016, Spada, Rv. 266435-01). La Sezione rimettente ha, inoltre, sottolineato la particolarità del caso concreto quanto alla identificazione, ai sensi dell’art. 90, comma 3, cod. proc. pen., delle persone offese, ovvero, nella specie, i prossimi congiunti delle vittime dell’omicidio oggetto di imputazione, profilo da considerare per evidenti elementi di connessione, congiuntamente al punto principale oggetto di contrasto.

5. La giurisprudenza di legittimità sulla prima questione rimessa.

Come sottolineato dall’ordinanza di rimessione, quanto alla questione proposta all’attenzione delle Sezioni Unite era presente un oggettivo contrasto di giurisprudenza. La norma oggetto di contrasto interpretativo prevede che: “dopo la chiusura delle indagini preliminari, se l’imputato chiede la revoca o la sostituzione della misura con altra meno grave ovvero la sua applicazione con modalità meno gravose, il giudice, se la richiesta non è presentata in udienza, ne dà comunicazione al pubblico ministero, il quale, nei due giorni successivi, formula le proprie richieste. La richiesta di revoca o di sostituzione delle misure previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti di cui al comma 2-bis del presente articolo, deve essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente ed a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio” e si caratterizza, dunque, per la presenza nella parte finale della preposizione “salvo che”. È esattamente sulla portata e sulle caratteristiche interpretative conseguenti alla presenza di tale locuzione che si è sviluppato il contrasto interpretativo, portando ad interpretazioni contrapposte.

Un primo orientamento esclude l’obbligo di notifica; in particolare Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020, Gangemi, Rv. 278483-01, nonché Sez. 1, n. 1460 del 24/11/2020, Pipitone, Rv. 280219-01, rappresentano gli approdi più recenti nei quali si sostanzia l’orientamento interpretativo restrittivo quanto al previsto obbligo di notifica alla persona offesa ai sensi dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. La sentenza Gangemi è stata così massimata: “Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, l’istanza di revoca o di modifica della misura cautelare non proposta in sede di interrogatorio di garanzia non deve essere notificata alla persona offesa che non abbia provveduto a nominare un difensore o ad effettuare dichiarazione od elezione di domicilio”. La Corte, nel rilevare la presenza di un contrasto interpretativo (con particolare riferimento ai principi affermati rispettivamente da Sez. 2, n. 36167 del 03/05/2017, Adelfio, Rv. 270689-01 e Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, A., 272216-01) ha richiamato diverse ragioni a sostegno dell’interpretazione prescelta. In tal senso, la Prima sezione ha effettuato un ampio richiamo all’interpretazione letterale della norma, considerando che l’inciso “salvo che” sia di assoluta chiarezza e “non può essere inteso, a meno di non stravolgere la lingua italiana, nel senso che esso serve a prevedere distinte modalità di notifica dell’istanza”. Considerato, quindi, il disposto dell’art. 12 delle preleggi, nel senso che nell’applicare la legge non si può attribuire ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro ordinaria connessione e tenuto conto dell’intenzione del legislatore, la Corte ha rilevato che, anche secondo la costante analisi della dottrina, quando la lettera della legge è esplicita e quando l’intenzione del legislatore è fatta palese e inequivocabile attraverso i lavori parlamentari e la discussione del provvedimento legislativo, ogni diversa interpretazione, anche se volta a compensare lacune o inconvenienti, non può giungere ad immutare il senso fatto palese dalla legge stessa, sovrapponendosi così l’interpretazione alla volontà del legislatore.

Ciò premesso, la Prima Sezione ha sottolineato che anche l’evoluzione parlamentare della disposizione in questione è estremamente significativa, nel senso di escludere che la persona offesa abbia diritto alla notifica dell’istanza di modifica o sostituzione della misura cautelare in difetto di una sua nomina di difensore o di una sua dichiarazione o elezione di domicilio. L’aggiunta, infatti, in sede di conversione dell’inciso “salvo che…” non può essere intesa solo al fine di prescrivere la prevalenza della notifica nel luogo eventualmente eletto sulla notifica diretta, atteso che, comunque, anche con riferimento alla versione originaria della norma, l’eventuale elezione di domicilio da parte della persona offesa sarebbe comunque destinata a prevalere su altre forme di notificazione. Nell’accedere alla tesi restrittiva la Prima sezione ha evidenziato che la peculiarità della norma in esame è rappresentata dal fatto che l’onere dell’avviso rappresenta un forte condizionamento dell’istanza de libertate e, quindi, in concreto, dell’esercizio del diritto di difesa da parte dell’indagato o dell’imputato, oltre che del conseguente interesse di costoro a non vedere ingiustificatamente negato o sospeso l’esame delle loro richieste in una materia così rilevante e delicata come quella della libertà personale. Ne consegue che, nell’ottica di contemperamento di due diversi ordini di beni tutelati e costituzionalmente rilevanti (diritti di libertà e difesa delle persone indagate o imputate/diritti di tutela della vita privata e dell’incolumità personale ed esercizio delle proprie facoltà da parte delle persone offese), si deve ritenere raggiunto un equilibrio nel caso in cui la vittima del reato abbia provveduto agli adempimenti previsti dall’art. 299 cod. proc. pen., mostrando il proprio interesse a conoscere le vicende processuali di colui che ha esercitato o può continuare ad esercitare violenza nei suoi confronti, rendendo possibile al tempo stesso all’indagato una celere realizzazione delle notifiche per consentire la definizione del procedimento cautelare che lo riguarda, sia durante la fase delle indagini preliminari, che dopo. La stessa pronuncia ha contestato poi, nell’accedere a tale interpretazione restrittiva, anche la soluzione a carattere intermedio proposta nell’ambito della sentenza Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, A., 272216-01, secondo la quale si devono ritenere destinatari della notifica “solo le persone immediatamente ricavabili dal fascicolo processuale”, atteso che spetterebbe in ogni caso al richiedente la revoca o sostituzione della misura cautelare l’obbligo di attivarsi per reperire i dati necessari all’adempimento processuale, potendo essere evitata la notifica solo ed esclusivamente nel caso di accertata irreperibilità della persona offesa, per cui, nella sostanza, si tratterebbe pur sempre di un’eccessiva gravosità dell’obbligo ricadente in capo all’indagato/imputato (nello stesso senso si sono espresse, richiamando il canone dell’ordinaria diligenza esigibile, Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021, Castagna, Rv. 280999-01, Sez. 5, n. 4485 del 08/01/2020, L., Rv. 278141-01, Sez. 3, n. 31191 del 21/07/2020, P., Rv. 280363-01, Sez. 2, n. 4877 del 28/10/2020, Castiglione, Rv. 280613-01, Sez. 6, n. 18565 del 08/01/2016, Secci, Rv. 267292-01. Sez. 2, n. 31866 del 28/09/2020, Clemente).

Quanto a Sez. 1, n. 1460 del 24/11/2020, Pipitone, Rv. 280219-01, la stessa ha richiamato, nell’accedere al medesimo orientamento ermeneutico, anche Sez. U, n. 16 del 10/12/1957, Borsese, Rv. 097831-01 evidenziando la funzione di tradizionale strumento di orientamento interpretativo dei lavori preparatori, attesa l’introduzione dell’inciso al dichiarato scopo di escludere, in accoglimento degli auspici critici formulati da diversi osservatori, che alla persona offesa spettasse la notificazione della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare in difetto di sua nomina di un difensore o di una sua dichiarazione o elezione di domicilio.

Il contemperamento degli interessi costituzionalmente rilevanti è, dunque, reso possibile, secondo tale approdo ermeneutico, solo ove le persone offese provvedano agli adempimenti previsti dall’art. 299, comma 3, e richiamati dal comma 4-bis, cod. proc. pen., così mostrando il necessario concreto interesse a conoscere le vicende processuali dell’accusato.

In termini conformi si è espressa, dopo aver richiamato la necessità di considerare in senso ampio la platea dei destinatari degli obblighi di avviso, anche Sez. 5, n. 14029 del 12/02/2021, Mazzanares, che ha affermato che la notifica dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare è dovuta solo laddove la persona offesa abbia nominato un difensore di fiducia o abbia dichiarato o eletto domicilio. Occorre, dunque, che la persona offesa abbia effettivamente manifestato interesse al procedimento per consentire l’assolvimento di tali oneri in tempi molto brevi, precisandosi tuttavia, al contempo, che tale incombente può essere esteso a qualsiasi persona offesa e non solo a quelle che si trovino in relazione qualificata o a rischio di ulteriore vittimizzazione specifica, secondaria e ripetuta. Ciò che conta è che la parte manifesti il proprio interesse alla partecipazione al procedimento cautelare nominando un difensore o dichiarando o eleggendo domicilio.

In senso analogo si è espressa altresì Sez. 5, n. 14028 del 12/02/2021, Pasca, Rv. 280828-01, non massimata sul punto, che ha affermato che l’obbligo informativo a carico dell’indagato deve essere ritenuto operante solo laddove la persona offesa abbia nominato un difensore di fiducia, ovvero abbia dichiarato o eletto domicilio nell’ambito del procedimento, sottolineandosi che ciò che rileva al fine della considerazione di un’effettiva ricorrenza dell’obbligo di notifica in capo all’indagato/imputato è che la parte abbia manifestato interesse alla partecipazione nominando un difensore, dichiarando o eleggendo domicilio.

La Corte ha osservato che tale limitazione consentirebbe di escludere che l’indiscriminata subordinazione dell’ammissibilità dell’istanza cautelare al previo adempimento dell’onere informativo in favore della persona offesa, vittima di qualunque reato commesso con violenza alla persona, possa tradursi in una irrazionale ed ingiustificata compressione del diritto di difesa anche in quei casi in cui (come nella resistenza a pubblico ufficiale) non vi e` alcun pericolo che l’autore del reato torni ad aggredire, fisicamente o moralmente, la persona. Ne consegue che: “gli oneri informativi di cui all’art. 299 cod. proc. pen. potranno ritenersi operanti soltanto ove la persona offesa, nominando un proprio difensore o eleggendo o dichiarando domicilio in seno al procedimento, manifesti un suo concreto interesse per le sorti del procedimento che giustifichi l’imposizione degli oneri stessi.” Infine, in tale contesto interpretativo, si colloca anche Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016, Spada, Rv. 266435-01, che ha evidenziato, in epoca precedente all’esplicito consolidarsi del contrasto, come il riconoscimento di un diritto a partecipare al procedimento cautelare della persona offesa sia “condizionato alla manifestazione della volontà di esserne parte che si esprime attraverso la nomina di un difensore o l’elezione di domicilio, incombenti, entrambi, che assicurano la speditezza delle notifiche ed il contenimento dei tempi di emissione del provvedimento sulla cautela”. La decisione descrive puntualmente quello che deve essere ritenuto lo statuto della persona offesa dal reato, nel senso di configurare a carico della stessa un vero e proprio onere, rappresentato dalla nomina di un difensore o dalla dichiarazione o elezione di domicilio, che condiziona il suo diritto alla partecipazione all’incidente cautelare. Ne consegue, nell’ambito di tale direttrice ermeneutica, che il diritto di partecipazione della persona offesa “non condiziona in alcun modo la progressione processuale”, ma dipende, invece, dalla volontaria attivazione delle condizioni del suo esercizio, “ovvero a) nella fase procedimentale nella nomina del difensore o nell’elezione di domicilio, b) nella fase processuale nella partecipazione alle udienze, anche senza la costituzione di parte civile”. Si è sottolineato che “deve ritenersi che l’esercizio del diritto dell’offeso alla partecipazione al procedimento incidentale cautelare (attraverso l’intervento nel contraddittorio che precede l’emissione del provvedimento sulla cautela) esige la manifestazione dell’interesse all’esercizio del diritto, essendo l’offeso soggetto processuale la cui partecipazione non condiziona la progressione processuale”. È, dunque, esplicita l›affermazione del principio di diritto secondo il quale la persona offesa ha un diritto di partecipazione all›incidente cautelare condizionato alla manifestazione della volontà di esercitarlo, che si esprime attraverso la nomina del difensore o l›elezione di domicilio.

6. La giurisprudenza di legittimità sulla seconda questione rimessa.

Il tema proposto con il secondo quesito formulato è stato affrontato esplicitamente dalla giurisprudenza di legittimità in una sola occasione, in fattispecie analoga a quella oggetto di rimessione alle Sezioni Unite. In particolare, Sez. 1, n. 51402 del 28/06/2016, Zacheo, nell’aderire esplicitamente all’orientamento estensivo quanto alla nozione di delitti commessi con violenza alla persona, al fine di individuare l’ambito di applicabilità dell’obbligo di notifica alla persona offesa, ha ritenuto che gli eredi di persona deceduta a causa di condotta omicidiaria rientrino espressamente tra i destinatari della notifica dell’istanza di revoca o modifica della misura cautelare in atto, ma solo ed esclusivamente se sia presente la nomina di un difensore o una dichiarazione o elezione di domicilio.

Nel caso concreto esaminato la Corte ha disposto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza del tribunale, che aveva dichiarato inammissibili gli appelli proposti dalle persone offese della condotta di omicidio posta in essere nei confronti del loro congiunto. Il Tribunale aveva ritenuto che, pur rientrando l’omicidio tra le condotte commesse con violenza, una corretta interpretazione letterale e logico-sistematica, tenuto conto della ratio e finalità della disciplina in questione ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., doveva condurre ad escludere la sussistenza del diritto degli eredi ad essere informati, atteso che costoro non potevano essere ritenuti in senso stretto rientranti nella nozione di persone offese dal reato, dal quale si potevano al massimo ritenere danneggiati, ma non direttamente incisi nella lesione del bene vita, costituente il bene giuridico protetto dalla norma di cui era titolare esclusivamente la vittima. Inoltre, era da considerare l’eccessiva onerosità di una diversa interpretazione, tenuto conto del disposto dell’art. 307 cod. pen. in ordine alla nozione di prossimi congiunti, per la sua ampiezza incidente sul diritto di difesa dell’imputato e incompatibile con le esigenze di celerità del procedimento cautelare.

Secondo il Tribunale doveva essere rilevata l’inutilità della previsione di partecipazione al contraddittorio cautelare nell’ambito della contestata condotta di omicidio, atteso che era di fatto impossibile ipotizzare qualsiasi rapporto futuro con l’autore del reato da parte di chi era stato privato in via definitiva della vita. Considerato, inoltre, che i prossimi congiunti non avevano normalmente ragione di temere alcun pericolo dalla modifica dello status libertatis del reo, né avevano possibilità di apportare elementi in grado di accrescere il patrimonio conoscitivo del giudice chiamato a pronunciarsi sull’istanza, gli stessi venivano di fatto esclusi dal regime che caratterizza ordinariamente gli obblighi di informazione nei confronti delle parti offese. La Prima Sezione ha dissentito in modo netto dall’impostazione del Tribunale accogliendo il ricorso delle persone offese costituite parti civili.

La Corte ha esplicitamente aderito, nel valutare il caso concreto, all’orientamento restrittivo in tema di notifica ex art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. Preliminarmente, richiamando la Direttiva 2012/29/UE e le modifiche normative apportate al codice di procedura penale, ha precisato che gli eredi di persona defunta a seguito di condotta omicidiaria rientrano tra le persone offese dal reato destinatarie dell’obbligo di notifica, attesa la previsione di cui all’art. 90, comma 3, cod. proc. pen., che statuisce che le facoltà e i diritti riconosciuti dalla legge alla persona offesa dal reato, sono esercitati, qualora la stessa sia deceduta in conseguenza del reato, dai prossimi congiunti della vittima (categoria individuata dall’art. 307, quarto comma, cod. pen.). Si è sottolineato come tale notifica spetti solo ove gli stessi abbiano nominato un difensore o eletto o dichiarato domicilio. Nel ritenere giuridicamente infondate le argomentazioni del Tribunale, la Prima Sezione ha osservato che: “erronea, e contrastante con elementari principi logici, prima ancora che giuridici, e` l’affermazione del provvedimento gravato secondo cui il subentro, riconosciuto dall’art. 90, comma 3, cod. proc. pen. ai prossimi congiunti della vittima del reato, nella posizione giuridica di tipo attivo costituita dall’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa spettanti, non postula la successione dei medesimi soggetti anche nella titolarità della corrispondente situazione passiva (di cui era originariamente titolare la persona offesa), rappresentata dal diritto a ricevere gli avvisi, le notificazioni e le comunicazioni che sono preordinate e funzionali proprio all’esercizio di quei diritti e di quelle facoltà: la titolarità del diritto attivo a un facere presuppone logicamente (e necessariamente) quella del diritto (passivo) all’adempimento informativo che e` preordinato al relativo esercizio, come si ricava dai principi affermati da questa Corte in materia di avvisi propedeutici all’esercizio delle facoltà riconosciute ai prossimi congiunti della persona offesa nei confronti della richiesta del pubblico ministero di archiviazione del procedimento relativo al reato in conseguenza del quale la stessa sia deceduta (Sez. 6 n. 16715 del 26/02/2003, Rv. 224960; Sez. 5 n. 31921 del 2/07/2007, Rv. 237575)”. In tal senso è stato ritenuto inconferente l’argomento valorizzato dal Tribunale secondo cui, ai sensi dell’art. 307 cod. pen., un tale obbligo di notifica avrebbe finito per interessare un numero troppo ampio di destinatari, sottolineando che: “lo stesso testo dell’art. 299 comma 4-bis cod. proc. pen. esclude, invero, la paventata dilatazione del novero dei destinatari dell’adempimento informativo, delimitandolo ai soggetti - persone offese o prossimi congiunti delle stesse - che siano muniti di difensore ovvero (in mancanza) abbiano provveduto a dichiarare o eleggere domicilio, utilizzando una terminologia che, pur non dovendosi interpretare in senso tecnico (non prevedendo il codice di rito a carico di soggetti diversi dall’imputato formalità analoghe a quelle disciplinate dagli artt. 161 e segg.), individua come destinatari dell’obbligo di notifica solo quei prossimi congiunti che abbiano comunque interloquito nel processo, nominando un difensore ovvero depositando un atto che contenga le indicazioni necessarie all’esecuzione della notificazione”. Elemento, questo, ricorrente nel caso concreto, attesa la costituzione di parte civile degli eredi della persona deceduta. Di conseguenza è stato ritenuto erroneo ed indimostrato il postulato teorico proposto dal Tribunale secondo il quale i prossimi congiunti della vittima di un omicidio non avrebbero nulla da temere dalla modifica dello status libertatis, ricorrendo, dunque, una sostanziale carenza di interesse ad interloquire: infatti, attesi l’origine e il percorso legislativo della norma in questione non vi sarebbe alcuna possibilità per l’interprete di operare restrizioni di sorta all’interno della categoria dei reati commessi con violenza alle persone, escludendo così, dalle nuove forme di tutela del contraddittorio processuale, uno o più tipologie di delitti anche solo con riferimento al diritto a ricevere gli avvisi e le notificazioni (il cui obbligo è stato introdotto proprio al fine di garantire ed ampliare la facoltà di partecipazione). È stata esplicitamente richiamata la previsione di cui all’art. 2 della Direttiva 2012/29/UE, che ricomprende testualmente nella definizione di vittima anche il familiare di una persona la cui morte sia stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno quale conseguenza della morte di tale persona.

Nell’ambito di una diversa prospettiva ermeneutica, quanto alla seconda questione rimessa, può essere segnalata Sez. 2, n. 26150 del 22/05/2019, Galeffi, non mass., che, pur non essendosi occupata della questione oggetto del secondo quesito rimesso alle Sezioni Unite, tuttavia, analizzando in particolare il significato del concetto di “delitti commessi con violenza alla persona”, si è soffermata sugli obblighi di notifica affermando anzitutto che il giudice nazionale deve tenere conto delle norme interne alla luce delle indicazioni fornite dalle Direttive, anche dopo la loro attuazione, atteso che le stesse “costituiscono atti normativi di indirizzo che orientano l’interpretazione delle norme interne, sicché spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l’attuazione della Direttiva, in tutti casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, un’interpretazione ed un’applicazione conformi alle esigenze del diritto dell’Unione. In tale contesto, tenuto conto dei canoni interpretativi emergenti dalla Direttiva 2012/29/UE, si dovrebbero considerare, in via gradata, la tipologia della parte offesa (se è parte offesa di delitti di tratta di esseri umani, di terrorismo, di criminalità organizzata, di violenza o sfruttamento sessuale, di crimini di odio) o il movente del reato (se si sia trattato di violenza di genere), ovvero il contesto in cui il reato è stato commesso (se si sia trattato di violenza nelle relazioni strette); al di fuori di tali casi, si dovrebbe poi valutare se al delitto connotato da violenza si ricolleghi un concreto pericolo di intimidazione, ritorsioni o vittimizzazione secondaria ripetuta, tali da escludere che si tratti di un reato minore o che vi sia un debole rischio di danno per la vittima (in tal senso richiamando la già citata, Sez. 2, “Adelfio”, nonché Sez. 2, n. 46996 del 08/06/2017, Bruno, Rv. 271153-01). Le caratteristiche di vulnerabilità così declinate manifesterebbero allora, in altri termini, il pericolo di recidiva nei confronti della stessa vittima. Ciò tanto più tenuto conto della specificità del procedimento cautelare, ricorre la “necessità di operare un bilanciamento tra i diritti della vittima e quelli della persona ristretta almeno nei casi in cui emerga il rischio di un possibile danno per l’autore del reato correlato alla comunicazione di provvedimenti di scarcerazione, e in tal modo valorizza, seppur in modo indiretto, il fatto che il delitto si insedi nell’ambito di relazioni qualificate caratterizzate da un conflitto duraturo e patogeno”. Il che dovrebbe portare ad una considerazione del giudice del singolo caso, specialmente nell’ipotesi in cui ad essere coinvolte non fossero direttamente le persone offese, ma gli eredi. Il rischio al quale la vittima può essere esposta genererebbe inoltre, secondo tale prospettiva ermeneutica, il diritto della vittima a partecipare al procedimento cautelare e solo per questo motivo può apparire giustificato il protrarsi dei tempi di definizione dell’incidente cautelare (in termini Sez. 2, n. 51653 del 16/07/2017, Enciu, nonché Sez. 6, n. 9529 del 05/11/2020, Scalici, Rv. 281045-01, Sez. 2, n. 17335 del 28/03/2019, Ambrogio, Rv. 276953-01, Sez. 2, n. 46996 del 08/06/2017, Bruno, Rv. 271153-01, Sez. 2, n. 36680 del 04/05/2017, Ficarra, Rv. 270640-01).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 16 del 10/12/1957, Borsese, Rv. 097831-01

Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244191-01

Sez. 5, n. 18565 del 08/01/2016, Secci, Rv. 267292-01

Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016, P.O., Rv. 265893-01

Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016, Spada, Rv. 266435-01

Sez. 2, n. 43353 del 14/10/2015, Quadrelli, Rv. 265094-01

Sez. 1, n. 49339 del 29/10/2015, Gallani, Rv. 265732-01

Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016, Machì, Rv. 267295-01

Sez. 2, n. 21070 del 15/04/2016, Arpino

Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016, Grosso, Rv. 267236-01

Sez. 2, n. 30302 del 24/06/2016, Opera, Rv. 267718-01

Sez. 1, n. 51402 del 28/06/2016, Zacheo

Sez. 4, n. 29770 del 15/03/2017, Mura, Rv. 270185-01

Sez. 2, n. 36167 del 03/05/2017, Adelfio, Rv. 270689-01

Sez. 2, n. 36680 del 04/05/2017, Ficarra, Rv. 270640-01

Sez. 2, n. 46996 del 08/06/2017, Bruno, Rv. 271153-01

Sez. 5, n. 43103 del 12/06/2017, Urso, Rv. 271009-01

Sez. 2, n. 51653 del 16/07/2017, Enciu

Sez. 3, n. 5832 del 18/10/2017, D., Rv. 272114-01

Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, A., 272216-01

Sez. 4, n. 18816 del 12/03/2019, Storlazzi

Sez. 6, n. 27601 del 22/03/2019, Pascale, Rv. 276077-01

Sez. 2, n. 17335 del 28/03/2019, Ambrogio, Rv. 276953-01

Sez. 2, n. 26150 del 22/05/2019, Galeffi

Sez. 1, n. 1526 del 03/07/2019, Lagona

Sez. 5, n. 4485 del 08/01/2020, L., Rv. 278141-01

Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020, Gangemi, Rv. 278483-01

Sez. 2, n. 12800 del 13/02/2020, Cerrito

Sez. 5, n. 23127 del 03/07/2020, F., Rv. 279403-01

Sez. 3, n. 31191 del 21/07/2020, P., Rv. 280363-01

Sez. 2, n. 26506 del 22/07/2020, Napoli

Sez. 2, n. 31866 del 28/09/2020, Clemente

Sez. 5, n. 165 del 13/10/2020, La Cascia, Rv. 280325-01

Sez. 2, n. 4877 del 28/10/2020, Castiglione, Rv. 280613-01

Sez. 6, n. 9529 del 05/11/2020, Scalici, Rv. 281045-01

Sez. 1, n. 1460 del 24/11/2020, Pipitone, Rv. 280219-01

Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021, Castagna, Rv. 280999-01

Sez. 5, n. 14028 del 12/02/2021, Pasca, Rv. 280828-01

  • procedura penale
  • protezione della vita privata
  • aggressione fisica

CAPITOLO II

LE SEZIONI UNITE SUL DIVIETO DI AVVICINAMENTO AI LUOGHI FREQUENTATI DALLA PERSONA OFFESA

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni unite. - 3 I punti essenziali del contrasto. - 4 La decisione delle Sezioni unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa è una misura cautelare personale di tipo coercitivo istituita dall’art. 9 del d.l. n. 11 del 23 febbraio 2009 convertito, con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n. 38.

Tale misura è finalizzata ad interrompere le condotte persecutorie tenute dall’indagato già prima della verifica processuale e dell’accertamento della sua responsabilità penale e appare funzionale sia alla tutela dell’incolumità della persona offesa da aggressioni verbali o fisiche, sia alla protezione di quest’ultima dal turbamento derivante dall’incontro o dalla percezione della vicinanza con lo stalker.

Il suo contenuto è duplice potendo il giudice prescrivere all’intimato di non avvicinarsi a luoghi determinati, in funzione del fatto che sono abitualmente frequentati dalla persona offesa, o imporre al medesimo di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.

Esigenze di particolare tutela possono poi comportare, come previsto all’art. 282-ter, comma 2, cod. proc. pen., la necessità di prescrizioni ulteriori al divieto di avvicinamento alla vittima che può essere esteso anche ai luoghi abitualmente frequentati dai prossimi congiunti di questa o da suoi conviventi o ad essa legate da una relazione affettiva. Tale divieto generale appare speculare rispetto a quello di cui al primo comma e ad esso può accompagnarsi anche l’obbligo di mantenere da tali luoghi e da tali persone una determinata distanza.

È possibile, inoltre, disporre anche il divieto di comunicazione, con qualsiasi mezzo, con le persone protette.

Imprecisati temperamenti alle suddette restrizioni, del tutto rimessi alla discrezionalità del giudice, sono poi previsti nell’ultimo comma dell’art. 282-ter cod. proc. pen. quando la frequentazione dei luoghi da parte dell’imputato e della vittima sia necessaria per motivi di lavoro o esigenze abitative.

Anche se la misura cautelare di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen. è stata introdotta in concomitanza con la previsione del delitto di atti persecutori, si è ritenuto, da una parte della dottrina, che essa possa trovare applicazione generalizzata per qualsiasi delitto che preveda una pena superiore ai tre anni di reclusione avendo l’art. 282-ter cod. proc. pen. un ambito e una portata generale. A tal proposito, si è sottolineato che, nella disposizione in questione, sono assenti divieti legislativi e che ciò consentirebbe di ampliare il perimetro applicativo della misura al fine di evitare contatti che potrebbero essere causa di nuove violenze e di evitare ad un tempo la più grave misura degli arresti domiciliari. Ad ogni buon conto, non può non rilevarsi che, però, è abbastanza evidente che tale misura cautelare, essendo volta ad attuare la protezione del “soggetto debole”, possa, quantomeno, trovare applicazione anche per reati “affini” al delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen., come, ad esempio, per il delitto di lesioni aggravate, di estorsione (ove si presenti in forme attenuate di modesta gravità) e per delitti a sfondo sessuale. Sul punto, le Sezioni unite, nella sentenza in commento, hanno preso posizione chiara e inequivocabile avendo affermato, sia pure per incidens, che «non vi è ragione di escludere l’adozione della misura per reati obiettivamente di altra natura in cui risulta necessario tutelare la persona da aggressioni mirate. Quindi, non potrà mai ritenersi la misura formalmente applicabile esclusivamente per reati astrattamente conformi alla ratio del d.l. n.11 del 2009, come affermato, invece, da Sez. 4, n. 2147del 13/1/2021, Macellaro, Rv. 28048. Non vi è alcun dubbio, si legge nella sentenza, che la legge abbia introdotto la nuova misura avendo di mira determinate materie, ma la stessa legge, in modo altrettanto indiscutibile, ha scelto di inserire la disposizione nella materia generale delle misure coercitive senza alcuna limitazione.

L’articolo del codice che prevede tale misura cautelare precede quello del divieto e obbligo di dimora (art. 283 cod. proc. pen.), misura anch’essa specificamente finalizzata ad impedire che si ripetano le occasioni lesive per le vittime di atti dannosi ed offensivi, ma anche ad interrompere possibili complicità con residenti in un determinato ambiente. Quest’ultima misura, quindi, ha quale elemento di riferimento un preciso territorio dal quale l’indagato non può allontanarsi o nel quale non deve dimorare né accedervi senza l’autorizzazione del giudice ed è determinata dall’esigenza di tutela della collettività; la misura del divieto di avvicinamento, invece, prescinde da un preciso riferimento geografico in quanto riguarda, più genericamente, “determinati luoghi” da individuarsi con riferimento ad un preciso dato di fatto costituito dalla frequentazione di quei luoghi dalla persona offesa e mira a proteggere essenzialmente la persona offesa non solo dal pericolo di minacce e aggressioni fisiche, ma, anche, dal turbamento che le deriva dalla percezione dello stalker.

2. La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni unite.

Con un’articolata ordinanza, del 28.1.2021, dep. il 1.3.2021, la Sesta Sezione ha richiesto al Primo Presidente di valutare la rimessione degli atti alle Sezioni Unite sulla questione, oggetto di conflitto in giurisprudenza, così cristallizzata nella formulazione dell’Ufficio del Massimario: «Se, nel disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa, ex art. 282-ter cod. proc. pen., il giudice debba determinare specificatamente i luoghi oggetto di tale divieto».

Il Collegio, ricostruita la vicenda processuale, ha evidenziato la sussistenza di un contrasto interpretativo sulla questione concernente l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 282-ter, co. 1, cod. proc. pen: secondo un primo orientamento, formatasi soprattutto in riferimento al reato di maltrattamenti, occorre specificare i luoghi a cui l’intimato non deve avvicinarsi poiché in tal modo si assicura completezza e specificità al provvedimento, se ne favorisce l’esecuzione e si agevola il controllo in ordine al rispetto delle prescrizioni in esso contenute; secondo altra opzione interpretativa, formatosi soprattutto con riferimento al delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis cod. pen., ove la condotta si connoti per la persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, non occorre specificare i luoghi in relazione ai quali è fatto divieto di avvicinamento in quanto siffatto divieto è riferito non ai luoghi, ma alla persona offesa, ovunque essa si trovi. La specificazione dei luoghi, per tale orientamento, trova giustificazione solo quando le modalità della condotta non manifestino un campo di azione che esuli dai luoghi che costituiscono punti di riferimento della vita.

La Sezione rimettente ha osservato, preliminarmente, che la lettera della legge non offre indicazioni dirimenti circa la correttezza e l’adeguatezza dell’una o dell’altra opzione interpretativa e che la congiunzione «o» adoperata dal legislatore nell’art. 282-ter cod. proc. pen. — «con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, anche disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275-bis.» — non appare determinante in relazione alla scelta dell’una o dell’altra opzione interpretativa. Il Collegio, quindi, ha evidenziato che non necessariamente le due opzioni interpretative tratteggiate sono da intendersi in termini di alternatività occorrendo, piuttosto, «l’adozione delle opportune precisazioni circa i limiti di applicazione delle prescrizioni secondo le necessità richieste dalla specificità del caso» e che «l’art. 282-ter cod. proc. pen. consente di modulare il divieto di avvicinamento sia guardando ai luoghi frequentati dalla vittima che prendendo come parametro di riferimento direttamente il soggetto che ha patito l’azione delittuosa, potendo l’iniziativa cautelare essere strutturata imponendo all’indagato di tenersi ad una certa distanza dalla vittima». A tal proposito, ha richiamato la decisione adottata sempre dalla Sezione sesta, con la sentenza n. 2866 del 23/6/2015, J.A.K.W.S., che si pone in una posizione intermedia tra i due contrapposti orientamenti e che ritiene che i due profili di possibile intervento cautelare «ben possono convivere all’interno dello stesso provvedimento» in quanto non si tratta «di due misure, ma di un’unica misura con contenuto flessibile da declinare a seconda delle esigenze di neutralizzazione del rischio di reiterazione imposte dal caso di specie».

Lo sforzo interpretativo, si è affermato nell’ordinanza di rimessione, dovrà, dunque, misurarsi non necessariamente in termini di alternatività, ma piuttosto adottando opportune precisazioni circa i limiti di applicazione delle prescrizioni secondo le necessità del caso. Se il provvedimento si limita a fare riferimento alla persona offesa e non anche ai luoghi da questa frequentati, per la sezione rimettente, «non è necessario delimitare attraverso l’indicazione di luoghi ben individuati, il perimetro di operatività del divieto», mentre, quando fa riferimento anche ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, allora «il divieto di avvicinamento deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato». Il contenuto flessibile della norma in questione consente all’interprete di adattare la misura alle caratteristiche del fatto e alla pericolosità dell’indagato, sia guardando ai luoghi frequentati dalla vittima, sia prendendo come parametro di riferimento direttamente il soggetto che ha patito l’azione delittuosa. Nel primo caso, il divieto di avvicinamento dovrebbe necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato, mentre, nel secondo, non occorrerebbe delimitare il perimetro di operatività del divieto.

3. I punti essenziali del contrasto.

Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, è necessario determinare specificamente i luoghi oggetto del divieto di avvicinamento alla persona offesa.

Per tale opzione ermeneutica, siffatto principio trova la sua ragion d’essere non solo perché il dato normativo fa espresso riferimento a luoghi “determinati”, ma anche perché, diversamente ragionando, l’indagato verrebbe assoggettato a limitazioni della propria libertà personale di carattere indefinito. Solo tipizzando la misura, si afferma, il provvedimento cautelare assume una conformazione completa, che consente il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che la legge intende assicurare, garantendo, così, il giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza, improntate alla tutela della vittima, e il minor sacrificio della persona sottoposta ad indagini.

Tale filone interpretativo trova la sua prima espressione nella sentenza della Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011, C., , Rv. 250728-01, in cui si afferma che «il provvedimento con cui il giudice dispone, ex art. 282-ter cod. proc. pen., il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi oggetto del divieto, perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente l’esecuzione ed il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare». Nella specie, la Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata che poneva all’indagato, per i reati di atti persecutori, maltrattamenti e lesioni commessi ai danni del coniuge separato, il generico divieto di avvicinarsi “a tutti i luoghi frequentati dalla persona offesa”.

In linea con tale orientamento, si pongono, sia pure talvolta con alcune peculiarità, Sez. 5, n. 27798 del 4/4/2013, S., Rv. 257697-01; Sez. 6, n. 14766 del 18/3/2014, F., Rv. 261721-01; sez. 5, n. 495 del 21/10/2014, dep. 2015, S.G.N.; Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014, B., dep. 2015, Rv. 262149-01; Sez. 6, n. 8333 del 22/1/2015, R., Rv. 262456-01; Sez. 5, n. 28225 del 26/5/2015, Rv. 265297-01; Sez. 3, n. 1629 del 6/10/2015, dep. 2016, V. che, sempre con riferimento alla misura disposta in relazione ai reati di atti persecutori, maltrattamenti in famiglia e lesioni, esprimono sostanzialmente tutte il medesimo principio di cui si è detto.

Secondo l’orientamento in esame il generico riferimento ai “luoghi frequentati dalla persona offesa”, senza alcuna ulteriore individuazione, viola la prescrizione normativa là dove essa prevede che il divieto di avvicinamento si riferisca a luoghi determinati. È, quindi, necessaria un’opera di determinazione che il legislatore – a differenza che per le altre misure cautelari ordinarie il cui contenuto è interamente predeterminato – affida al giudice della cautela che dovrà formare un catalogo dei luoghi interdetti al destinatario della misura perché “abitualmente frequentati dalla persona offesa”. In altri termini, al giudice spetta il compito, «oltre che di verificare i presupposti applicativi ordinari, di riempire la misura di quelle prescrizioni essenziali per raggiungere l’obiettivo cautelare ovvero per limitare le conseguenze della misura stessa».

L’efficacia della misura cautelare ex art. 282-ter cod. proc. pen., preordinata ad evitare il pericolo di reiterazione delle condotte illecite è, pertanto, subordinata al contenuto delle prescrizioni imposte, nel senso che essa deve essere modellata in relazione alla situazione di fatto. Il tasso di determinatezza del provvedimento è, altresì, funzionale a garantirne l’esecuzione e a consentire il controllo delle relative prescrizioni. Completezza e specificità del provvedimento costituiscono, dunque, «una garanzia per il giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza, incentrate sulla tutela della vittima, e il minor sacrificio della persona sottoposta ad indagini». Viceversa, la misura cautelare ex art. 282-ter cod. proc. pen., riferita genericamente “a tutti i luoghi frequentati dalla vittima”, non rispetta il disposto normativo e si risolve nell’inaccettabile imposizione all’indagato di una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finisce per essere di fatto rimessa «alle decisioni (o anche al capriccio) dell’offeso, a cui sarebbe rimesso sostanzialmente di stabilire il contenuto della misura. Tanto … anche nel caso la frequentazione avvenga, con priorità, da parte della persona sottoposta ad indagini, con la conseguenza – a dir poco paradossale - di imporgli un facere (allontanarsi dal luogo) anche quando sia la persona offesa ad avvicinarsi ad esso» (cosi, Sez. 5, n. 5664/2014, dep. 2015, cit.).

Per tale opzione interpretativa, dunque, è illegittima l’ordinanza che dispone, ex art. 282-ter cod. proc. pen., il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa senza determinare specificamente i luoghi oggetto di divieto, considerato che, in tal caso, all’indagato non è consentito – ferma restando la necessità che egli non si accosti fisicamente alla persona offesa ovunque la possa intercettare – di conoscere preventivamente i luoghi ai quali gli è inibito l’accesso in via assoluta, in quanto frequentati dalla persona offesa, luoghi che, pertanto, devono essere esattamente indicati.

Si specifica, inoltre, che il giudice potrà efficacemente riempire di contenuti la misura ove il pubblico ministero nella propria richiesta (e ancor prima la polizia giudiziaria) rappresenti al giudice non solo gli elementi essenziali per l’applicazione della misura stessa, ma anche quelli «apparentemente di contorno» utili per individuare dettagliatamente i luoghi precisi abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi parenti e per meglio motivare il provvedimento cautelare (in termini, Sez. 5, n. 8333/2015, cit.).

Nella sentenza n. 26819/2011 si afferma, inoltre, che anche con riferimento all’altra prescrizione di “mantenere una determinata distanza” deve escludersi che tale ordine possa riferirsi ad incontri occasionali non cercati volontariamente dall’intimato poiché, ragionando diversamente, «si porrebbe a suo carico un divieto indeterminato, la cui inosservanza potrebbe risultare non voluta in quanto del tutto casuale».

In conclusione, dunque, la specificità e la determinatezza del provvedimento reso a norma dell’art. 282-ter cod. proc. pen. sono indispensabili per assicurare protezione efficace alla persona offesa e al tempo stesso per garantire la legalità delle restrizioni imposte alla libertà dell’indagato.

Secondo un diverso indirizzo interpretativo, formatosi, si ripete, prevalentemente con riferimento al delitto di atti persecutori, quando la condotta si connota per una persistente ricerca di avvicinamento della vittima, è legittimo il provvedimento che, ex art. 282-ter cod. proc. pen., dispone il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa senza indicare dettagliatamente i luoghi oggetto di divieto, dovendo la predetta individuazione avvenire con riferimento ai luoghi in cui, di volta in volta, venga a trovarsi l’offeso. Si è anche affermato che, sempre nel caso di persistente ricerca di avvicinamento della vittima, è legittimo il provvedimento che obblighi il destinatario della misura a mantenere una certa distanza dalla persona offesa, ovunque questa si trovi, senza specificare i luoghi oggetto del divieto.

Si sono espresse, in tal senso, sempre con talune peculiarità e sempre prevalentemente con riferimento alla misura disposta in tema di atti persecutori, Sez. 5, n. 13568 del 16/1/2012, V., Rv. 253296-01 e 253297-01; Sez. 5, n. 36887 del 16/1/2013, A., Rv. 257184-01; Sez. 5, n. 14297 del 27/2/2013, F.; Sez. 5, n.19552 del 26/3/2013, D.R., Rv.255512-01 e Rv.255513-01; Sez. 5, n. 48395 del 25/9/2014, P., Rv. 264210-01; Sez. 6, n. 28666 del 23/6/2015, I.A.K.W.S.; Sez. 5, n. 30926 dell’8/3/2016, S., Rv. 267792-01; Sez. 5, n. 28677 del 14/3/2016, C., Rv. 267371-01; Sez. 6, n. 42021 del 13/9/2016, C, Rv. 267898-01; Sez. 3, n. 19180 del 14/3/2018, Otranto; Sez. 5, n. 18139 del 26/3/2018, B., Rv. 273173-01; Sez. 5, n. 7633 del 29/1/2019, Singh; Sez. 6, n. 44906 del 18/9/2019, M.; Sez. 5, n. 1541 del 17/11/2020, dep. 2021, L., Rv. 280491-02; Sez. 6, n. 2242 del 19/1/2021, F.

Detta giurisprudenza pone in evidenza che l’individuazione dei luoghi non può che essere fatta per relationem con riferimento ai luoghi in cui, di volta in volta, venga a trovarsi la persona offesa in quanto, ragionando diversamente, non potendo a priori, da parte del giudice, individuarsi e, quindi, elencarsi, tutti i posti in cui quest’ultima potrebbe trovarsi, sarebbe legittima la compresenza nel medesimo luogo sia dell’imputato sia della vittima, con la conseguenza che verrebbe ad essere frustrata la ratio della norma che è quella di tutelare, nel modo più completo possibile, il diritto della persona offesa di circolare liberamente in condizioni di assoluta sicurezza.

In forza, dunque, di un provvedimento giudiziale che non elenchi in modo tassativo i luoghi non frequentabili dall’ imputato, questi dovrà immediatamente allontanarsi dal posto in cui sia pure casualmente venga a trovarsi anche la persona offesa. «L’indicazione specifica nel titolo cautelare dei luoghi oggetto del divieto attiene solo a quelli in cui l’accesso è inibito in via assoluta all’indagato» (cosi, da ultimo, Sez. 6, n. 2242/2021); solo in tal modo, si afferma, può essere adeguatamente tutelata l’incolumità della persona offesa e garantita la libertà di circolazione e il completo svolgimento, in sicurezza, della sua vita di relazione.

Nella citata sentenza n. 13568/2012 si evidenzia che «il divieto di avvicinamento previsto dall’art. 282-ter cod. proc. pen. riferendosi alla persona offesa in quanto tale, e non solo ai luoghi da questa frequentati, esprime una precisa scelta normativa di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo ovvero di priorità dell’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza, anche laddove la condotta di persistenza persecutoria non sia legata a particolari ambiti locali; con la conseguenza che il contenuto concreto della misura in questione deve modellarsi rispetto alla predetta esigenza e che la tutela della libertà di circolazione e di relazione della persona offesa non trova limitazioni nella sola sfera del lavoro, degli affetti familiari e degli ambiti ad essa assimilabili» e, ancora, che «la misura cautelare del divieto di avvicinamento, prevista dall’art. 282-ter cod. proc. pen., può contenere anche prescrizioni riferite direttamente alla persona offesa ed ai luoghi in cui essa si trovi, aventi un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell’imporre di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all’accesso dell’indagato».

Secondo questo orientamento, il presupposto della misura in questione è da individuarsi «nella sussistenza di esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa», e ciò sia su un piano prettamente statico e, quindi, limitato al luogo di abitazione della persona offesa, sia su un piano dinamico là dove le circostanze rendano concreto il pericolo di un’aggressione della stessa nel corso dello svolgimento della sua vita di relazione. La tutela “dinamica” della persona offesa rappresenta il naturale epilogo di un percorso normativo segnato da due interventi: il primo, attuato con l’art. 1 della legge 4 aprile 2001, n. 154 e il secondo che, con il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009, n. 38, ha introdotto la nuova fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis cod. pen. e previsto, altresì, all’art. 9, il divieto di avvicinamento di cui all’art. 282-ter, comma 1, cod. proc. pen. Alla luce del quadro normativo di riferimento, si è quindi affermato, nelle sentenze sopra riportate, che l’art. 282-ter cod. proc. pen. «si inserisce coerentemente nelle finalità di tutela che si è visto essere proprie della misura in esame nella preesistente previsione di cui all’art. 282-bis, con il palese scopo di rendere detta tutela più efficace in determinate situazioni » e si è evidenziato che è particolarmente significativo che la disposizione sia stata introdotta contestualmente alla previsione del delitto di atti persecutori, il quale ha quali manifestazioni tipiche il costante pedinamento della vittima nonché l’assunzione di atteggiamenti minacciosi e intimidatori anche in assenza di diretto contatto fisico con la persona offesa e pur tuttavia dalla stessa percepibili.

Ciò che si mette in risalto, in particolare, nelle suddette decisioni (si v., a proposito, Sez. 5, n. 13568 del 16/1/2012, V., Rv. 253296-01) è che le disposizioni di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen., a differenza di quelle di cui all’art. 282-bis cod. proc. pen., fanno testuale riferimento, nel disciplinare il divieto di avvicinamento, «non più solo ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma altresì alla persona offesa in quanto tale», e che, pertanto, costituiscono espressione di una precisa scelta normativa che privilegia la libertà di circolazione del soggetto passivo, garantendone l’incolumità anche quando la condotta dell’autore non sia legata a particolari ambiti locali. Con la conseguenza che «l’originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa rimane … significativa nel caso in cui le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo d’azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianità di vita, quali quelli indicati dall’art. 282-bis cod. proc. pen. nel luogo di lavoro o di domicilio della famiglia di provenienza. [Viceversa], laddove […], ed è situazione ricorrente per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, è prevista la possibilità di individuare la stessa persona offesa, e non i luoghi da essa frequentati, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento». In quest’ultimo caso, per l’orientamento in esame, non ha rilevanza l’individuazione di luoghi di abituale frequentazione della vittima, in quanto «dimensione essenziale della misura è […] a questo punto il divieto di avvicinamento a quest’ultima nel corso della sua vita quotidiana, ovunque essa si svolga». In questo senso, la giurisprudenza in esame precisa che «imporre una predeterminazione dei luoghi nel caso in cui sussista una persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, in qualsiasi luogo in cui essa si trovi, significherebbe porre un’inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma».

L’ambito di operatività dell’art. 282-ter cod. proc. pen., dunque, non si presta a censure di indeterminatezza giacché «le prescrizioni, anche nel generico riferimento al divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi in cui la stessa si trovi, mantengono […] un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell’essenziale imposizione di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all’accesso dell’indagato» (così espressamente le sentenze n. 13568/2012, e n. 48395/2014 nonché, sostanzialmente nei medesimi termini, le sentenze n. 19552/2013 e n. 36887/2013, tutte citate).

L’opzione ermeneutica privilegiata, si osserva, inoltre, non è smentita nelle previsioni della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio U.E. n. 2001 del 13 dicembre 2011, in tema di ordine di protezione Europeo, in quanto l’art. 5, lett. c) – che contempla il divieto di avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito - si attaglia alla previsione dell’art. 282-ter del codice di rito, richiedendo «soltanto che sia definito il perimetro all’interno del quale scatta la protezione», prescrizione che, tuttavia, come si è visto, per la giurisprudenza in esame, non sempre è possibile adottare, essendo talora imprevedibile la stessa evenienza che le due persone vengano occasionalmente in contatto. Ne consegue che appare più ragionevole, e di maggior garanzia per gli stessi diritti di colui che viene gravato dal divieto, la soluzione che impone allo stalker di non avvicinarsi a tutti i luoghi frequentati dalla vittima, e comunque di allontanarsi da detti luoghi ove quest’ultima, «anche al di là delle […] abitudini di vita», si trovi occasionalmente. In altri termini: «fermo restando che gli è proibito di avvicinarsi ai normali recapiti della vittima, lo stalker può recarsi dove vuole, salvo doversene allontanare qualora abbia ad incontrare – anche imprevedibilmente – le persone da tutelare».

4. La decisione delle Sezioni unite.

Le Sezioni unite, con la sentenza n. 3905 del 29/4/2021, Guercio, Rv. 281957, hanno affermato il seguente principio di diritto: «Il giudice che, con provvedimento specificamente motivato e nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, disponga, anche cumulativamente, le misure cautelari del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente, mentre, nel caso in cui reputi necessaria e sufficiente la sola misura dell’obbligo di mantenersi a distanza dalla persona offesa, non è tenuto ad indicare i relativi luoghi, potendo limitarsi a determinare la stessa».

Nella sentenza si osserva, in via preliminare, che, a ben vedere, la diversità di decisioni che ha dato luogo al contrasto appare determinata anche da differenti situazioni di fatto nelle singole vicende e che, conseguentemente, non necessariamente esse devono intendersi in termini di alternatività poiché il dettato normativo consente di «modulare il divieto di avvicinamento sia guardando ai luoghi frequentati dalla vittima che prendendo come parametro di riferimento il soggetto che ha patito l’azione delittuosa, potendo l’iniziativa cautelare essere strutturata imponendo all’indagato di tenersi ad una certa distanza dalla vittima».

Sottolineano, quindi, le Sezioni unite che la finalità a cui tende la previsione normativa in esame è unica ed è da ravvisarsi nell’esigenza di evitare il contatto tra indagato e persona offesa e che le due prescrizioni possibili, previste dall’art. 282-ter, comma 2, cod. pen, non hanno riguardo a due misure cautelari diverse, eventualmente subordinate tra loro, ma ad un’unica misura modulabile con più prescrizioni, la cui somma non ha l’effetto di creare «una ‘nuova’ misura non corrispondente al paradigma normativo tipico». Spetta, dunque, al giudice il compito di «determinare in concreto le modalità più idonee al caso concreto» in modo da tutelare, da un lato, le esigenze della vittima e, dall’altro, anche la libertà personale dell’indagato. La misura, in altri termini, deve essere graduata «secondo il concreto rischio del caso concreto» avuto riguardo al diritto della persona offesa di poter godere di tranquillità e libertà, di frequentare i luoghi a lei abituali e di muoversi, tranquillamente, anche al di fuori di un contesto predeterminato, libera dal timore che possa essere minacciata la sua libertà fisica e morale.

L’interpretazione letterale della disposizione in esame, osserva ancora la Corte, è lineare ed univoca poiché, al primo comma, viene correlato il divieto di avvicinamento a luoghi “determinati”, abitualmente frequentati dalla parte offesa ovvero l’obbligo di mantenimento di una determinata distanza da “tali luoghi”. All’interpretazione letterale deve, poi, seguire quella logico-sistematica e una valutazione di compatibilità con i principi fondamentali in tema di diritti costituzionali di libertà e locomozione che solo prima facie parrebbero giustificare una lettura “contraria” alla possibilità di un divieto “dinamico” di avvicinamento alla persona offesa (sostenuta dal primo degli orientamenti riportati secondo cui – così, Sez. 6, n. 26819/2011 –, quando la misura si fonda sulla posizione “mobile” e imprevedibile della persona offesa, diviene «sostanzialmente ineseguibile tanto da conferire natura quasi abnorme alla misura disposta, ancor più se si considera che l’obbligo troverebbe applicazione persino nel caso in cui non sia l’indagato a cercare volontariamente il contatto con la vittima»). Evidenziano, in senso opposto, le Sezioni unite che, quest’ultima obiezione è facilmente superabile in quanto, ove vengano fornite adeguate indicazioni sulla distanza da tenere, la misura risulta specifica ed esigibile. Del resto, rileva ancora la Corte, solo le violazioni dolose delle prescrizioni hanno rilevanza, di talché non vi è motivo per ipotizzare il pericolo di applicare una sanzione per un incontro involontario.

La misura del divieto di avvicinamento di cui all’art. 282-ter cod. proc. pen. comporta indubbiamente la limitazione della libertà di movimento dell’intimato e, pertanto, qualunque questione che a tale misura sia connessa non può prescindere dalle considerazioni che le Sezioni unite svolgono in ordine al nesso con le norme costituzionali che hanno riguardo ad uno dei valori primari dell’individuo e, cioè, la libertà.

Il concetto in parola richiama immediatamente alla mente l’art. 13 Cost. che esordisce affermando che «La libertà personale è inviolabile». La lettura di tale disposizione evoca, quindi, la rubrica di cui all’art. 272 cod. proc. pen. — primo tra gli articoli che, nel codice di rito, disciplinano le misure cautelari personali — così formulata «Limitazioni alle libertà della persona». Tale generico e ampio richiamo alle libertà della persona e non più alla libertà personale induce a ritenere che il legislatore codicistico abbia pensato, nel formulare siffatta disposizione di apertura del Titolo IV, dedicato alle misure cautelari personali, non solo a strumenti idonei ad incidere sulla libertà personale stricto sensu intesa, ma anche a misure volte a comprimere altri diritti fondamentali dell’individuo, quali la libertà di movimento e di circolazione. Le Sezioni unite, quindi, hanno sottolineato che la formulazione ampia e generalizzata del primo comma dell’art. 13 Cost. e il riferimento nella formula di chiusura del secondo comma a «qualsiasi altra restrizione della libertà personale» fa intendere che quest’ultima è qualcosa di altro delle restrizioni ivi specificate in modo esemplificativo e non certo tassativo e che l’inserimento nell’art. 13 del divieto esplicito di qualsiasi altra restrizione oltre quelle già elencate fa intendere che il Costituente ha voluto garantire non solo quelle restrizioni che annullano totalmente, attraverso misure coercitive, la disponibilità che l’individuo ha della propria persona fisica (detenzione, ispezione o perquisizione personale), ma anche altre privazioni della libertà personale che comprimono o restringono tale libertà. Sulla scorta della lettura dell’art. 13 Cost., le Sezioni unite, quindi, hanno affermato che non vi è ragione di dubitare della piena conformità della misura in questione, al pari delle altre misure degli arresti domiciliari e della custodia cautelare in carcere, ai principi costituzionali fondamentali che trovano disciplina nell’art. 13 Cost., sulle cui basi deve poggiare il provvedimento giudiziale che dovrà essere informato, quindi, ai principi di gradualità, adeguatezza e proporzionalità. La necessaria tipicità dei provvedimenti restrittivi e le necessarie garanzie della libertà personale richiedono, a fronte della scarna tipizzazione normativa dei contenuti della misura la necessaria “compensazione” di un provvedimento giudiziale particolarmente rigoroso e, pertanto, nel disporre e modulare la misura, il giudice dovrà considerare l’incidenza della stessa nelle sorti e nella vita dell’intimato. Pur non essendo di secondaria importanza la vera novità introdotta dall’art. 282-ter cod. proc. pen., che è costituita dall’aver creato «uno schermo di protezione» attorno alla vittima, si osserva nella sentenza in commento, che la misura in questione «ha un profilo di favore proprio per l’indagato che, certamente, vedrà una minore limitazione della propria libertà rispetto alle altre misure maggiormente afflittive (artt. 284 e ss. cod. proc. pen.) in grado di impedire il contatto fisico e visivo con la persona offesa.[…] Se, quindi, si dovesse affermare l’impossibilità di applicare un divieto di avvicinamento "mobile" ovunque si trovi la parte offesa, non può sottovalutarsi la tutela del diritto della persona nei cui confronti viene disposta la misura e la spiccata vocazione di siffatti provvedimenti alla funzione special-preventiva propria non del diritto processuale, quanto piuttosto del diritto penale sostanziale». Tali considerazioni portano, quindi, la Corte a poter superare agevolmente l’obiezione del primo degli orientamenti riportati in ordine all’ "eccessiva gravosità" della misura e ad affermare che essa «proprio per la sua peculiarità rispetto alle misure "generaliste", non solo non è troppo afflittiva ma, anzi, riduce al massimo la compressione dei diritti di libertà dell’indagato limitandoli, ben più di altre misure, a quanto strettamente utile alla tutela della vittima».

In conclusione, quindi, la prescrizione del divieto di avvicinamento ai "luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa" non può prescindere dalla chiara indicazione di quali siano tali luoghi in modo da garantire alla persona offesa la libertà nei suoi contesti quotidiani. In questo caso, è del tutto irrilevante che la persona offesa sia presente o meno: il divieto vale anche se all’indagato è noto che il soggetto protetto si trovi in tutt’altro posto; semplicemente, sia per la massima garanzia della vittima che per la facilità ed efficacia dei controlli, l’indagato deve sempre e comunque tenersi a distanza da tali luoghi che potranno anche essere indicati in forma indiretta, purché si raggiunga la finalità di dare certezza all’indagato sulla estensione del divieto. Ne consegue che, avendo l’indagato l’obbligo di non cercare il contatto con la persona offesa, persino in ipotesi d’incontro casuale, egli, acquisita la consapevolezza della presenza della persona offesa, è tenuto ad allontanarsi, ripristinando la distanza determinata a lui imposta.

In tal modo, dunque, le Sezioni unite hanno tracciato la via perché possa attuarsi il difficile equilibrio tra le esigenze di tutela della vittima e le imprescindibili esigenze di garanzia dei diritti costituzionali dell’indagato al fine di assicurare concreta efficacia alle misure utili per far fronte e prevenire sviluppi criminogeni potenzialmente degenerativi di cui è sempre più densa la cronaca quasi quotidiana.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011, C., , Rv. 250728-01

Sez. 5, n. 13568 del 16/1/2012, V., Rv. 253296-01 e 253297-01

Sez. 5, n. 36887 del 16/1/2013, A., Rv. 257184-01

Sez. 5, n. 14297 del 27/2/2013, F.

Sez. 5, n.19552 del 26/3/2013, D.R., Rv. 255512-01 e Rv. 255513-01

Sez. 5, n. 27798 del 4/4/2013, S., Rv. 257697-01

Sez. 6, n. 14766 del 18/3/2014, F., Rv. 261721-01

Sez. 5, n. 48395 del 25/9/2014, P., Rv. 264210-01

Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014, B., Rv. 262149-01

Sez. 5, n. 495 del 21/10/2014, dep. 2015, S.G.N.

Sez. 6, n. 8333 del 22/1/2015, R., Rv. 262456-01

Sez. 5, n. 28225 del 26/5/2015, Rv. 265297-01

Sez. 6, n. 28666 del 23/6/2015, I.A.K.W.S.

Sez. 3, n.1628 del 6/10/2015, V.

Sez. 5, n. 30926 dell’8/3/2016, S., Rv. 267792-01

Sez. 5, n. 28677 del 14/3/2016, C., Rv. 267371-01

Sez. 6, n. 42021 del 13/9/2016, C, Rv. 267898-01

Sez. 3, n. 19180 del 14/3/2018, Otranto

Sez. 5, n. 18139 del 26/3/2018, B., Rv. 273173-01

Sez. 5, n. 7633 del 29/1/2019, Singh

Sez. 6, n. 44906 del 19/9/2019, M.

Sez. 5, n. 1541 del 17/11/2020, dep. 2021, L., Rv. 280491-02

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE III - PARTECIPAZIONE AL PROCESSO

  • giudice
  • procedura penale
  • udienza giudiziaria
  • detenzione preventiva

CAPITOLO I

LA DETENZIONE DELL’IMPUTATO AGLI ARRESTI DOMICILIARI PER ALTRA CAUSA INTEGRA UN LEGITTIMO IMPEDIMENTO A COMPARIRE? UN NODO DA SCIOGLIERE

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite. - 2 Lo scenario del contrasto. - 3 La disciplina dell’assenza. - 4 La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. - 5 La sentenza delle Sezioni Unite “Arena”: una traccia per la soluzione della questione. - 6 La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa: i diversi orientamenti. - 7 La giurisprudenza di rilevanza indiretta. - 8 La decisione. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione volta a stabilire “Se la restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, comunicata in udienza, integri comunque un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire, così precludendo la celebrazione del giudizio in assenza, ovvero gravi sull’imputato il previo onere di richiedere al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per presenziare”.

La trattazione del ricorso era stata rimessa al Supremo consesso con ordinanza n. 23147 del 14/04/2021 dalla Sesta Sezione al fine di comporre il contrasto che si registrava nella giurisprudenza di legittimità in merito alla individuazione della detenzione per altra causa quale ipotesi di legittimo impedimento a comparire dell’imputato.

La Sesta Sezione, ricostruita brevemente la vicenda processuale - evidenziando che, a fronte della richiesta del difensore, il quale aveva rappresentato il sopravvenuto stato di detenzione domiciliare per altra causa dell’imputato, di disporre la traduzione del medesimo, il tribunale aveva disatteso l’istanza e celebrato il giudizio in assenza dell’imputato ritenendo che, in assenza di una richiesta di presenziare all’udienza, il titolo cautelare di detenzione domiciliare per altra causa non integrasse ex se un legittimo impedimento a comparire, né determinasse l’insorgere dell’obbligo del giudice procedente di disporre la traduzione dell’imputato -, sottolineava l’esistenza di orientamenti contrastanti sul tema.

Secondo un primo orientamento, le cui linee interpretative sono state tracciate da Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Arena, Rv. 234600 – 01, in assenza di qualsivoglia dichiarazione di rinuncia a comparire dell’imputato e in mancanza di un onere – normativamente non previsto – di previa comunicazione della condizione in cui versa il medesimo, l’accertata presenza di un legittimo impedimento, del quale il giudice sia a conoscenza, non sortisce alcun effetto abdicativo, sicché la dichiarazione di contumacia non sarebbe legittimamente resa.

Tale approccio ermeneutico, è condiviso anche da Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, F., Rv. 247837 – 01, secondo cui, diversamente dal giudizio camerale d’appello, nel quale “l’imputato detenuto ha l’onere di comunicare al giudice di appello la sua volontà di comparire […], nel giudizio ordinario deve essere sempre assicurata, in mancanza di un inequivoco rifiuto, la presenza dell’imputato”, per cui, qualora questi non si presenti e in qualche modo risulti (o appaia probabile) che l’assenza sia dovuta a caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, “spetta al giudice disporre, anche d’ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta dell’imputato in tal senso”, a meno che non vi sia stato un esplicito rifiuto a assistere all’udienza. Inoltre, si declinava nel principio secondo cui ricorre un’ipotesi di legittimo impedimento dell’imputato, già citato a giudizio in stato di libertà e successivamente tratto in arresto e detenuto per altra causa, del quale non sia stata ordinata la traduzione, sicché, fatta salva l’espressa rinuncia a presenziare al giudizio, non può procedersi in sua assenza, conseguendo altrimenti la nullità di tutti gli atti compiuti (Sez. 6, n. 2300 del 10/12/2013, dep. 2014, Deda, Rv. 258246 – 01; Sez. 4, n. 19130 del 14/10/2014, dep. 2015, Di Rocco, Rv. 263490 – 01; Sez. 2, n. 8098 del 10/02/2016, Moccia, Rv. 266217 – 01).

Di diverso avviso quella giurisprudenza di legittimità secondo cui incombe sull’imputato, regolarmente citato in stato di libertà e successivamente tratto in arresto, l’onere di segnalare tempestivamente al giudice il suo sopravvenuto stato di detenzione, non desumibile dagli atti né altrimenti comunicato, e la sua volontà di prendere parte al giudizio, dal cui mancato assolvimento conseguono sia la legittimità della dichiarazione di contumacia resa dal giudice, sia l’assenza di nullità della celebrazione dell’udienza, non potendo l’imputato invocare a posteriori la mancata partecipazione al processo (Sez. 2, n. 27817 del 22/3/2019, Tostelli, Rv. 276563 – 01; Sez. 2, n. 30258 del 14/03/2017, Minguzzi, Rv. 270594 – 01 e Sez. 2, n. 17810 del 9/4/2015, Milani, Rv 263532 – 01; Sez. 3, n. 33404 del 15/7/2015, Tota, Rv. 264204 – 01).

2. Lo scenario del contrasto.

Ad avviso del Collegio rimettente, “sullo sfondo” del contrasto si agita la questione relativa alla possibile equiparazione tra il trattamento riservato ai soggetti ristretti in carcere e quello riservato ai soggetti la cui libertà sia comunque sottoposta a vincoli.

Secondo un primo orientamento, che anche stavolta prende le mosse dalla pronuncia “Arena”, il sopravvenuto stato di detenzione per altra causa, anche non inframuraria, integra un’ipotesi di legittimo impedimento dell’imputato a comparire e preclude la corretta celebrazione del processo anche quando risulti che l’imputato avrebbe potuto informare il giudice del suo status in tempo utile per la traduzione. Tanto sia per l’assenza di una previsione normativa ad hoc e per l’eccezionalità del rito contumaciale (Sez. 5, n. 37658 del 20/11/2020, Ferri, 280139 – 01; Sez. 5, n. 47048 del 12/07/2019, F., Rv. 277113 – 01; Sez. 4, n. 18455 del 30/01/2014, P., Rv. 261562 – 01; Sez. 4, n. 1871 del 03/10/2013, dep. 2014, Santamaria, Rv. 258177 – 01), sia perché, nell’ottica di un processo di tipo accusatorio, la partecipazione dell’imputato afferisce al diritto di autodifesa, certamente rinunziabile, ma non “delegabile, né confiscabile”.

Di segno contrario quell’orientamento - seguito da Sez. 4, n. 10157 del 18/02/2020, Akhmedov, Rv. 278610 – 01; Sez. 4, n. 3905 del 21/01/2020, Huqi, Rv. 278289 – 01; Sez. 5, n. 6540 del 10/12/2018, dep. 2019, D., Rv.275498 - 01; Sez. 2, n. 7286 del 15/11/2018, Traini, Rv. 275608 – 01; Sez. 5, n. 48911 del 1/10/2018, N., Rv 274160-02; Sez. 5, n. 32667 del 16/7/2018, Saracino; Sez. 1, n. 39768 del 2/5/2018, Drago; Sez. 7, n. 20677 del 12/1/2018, Lambiase; Sez. 2, n. 48030 del 20/10/2016, Guercio; Sez. 3, n. 33404 del 15/7/2015, Tota, Rv. 264204 – 01; Sez. 5, n. 8876 del 22/12/2014, dep. 2015, Solchea, Rv. 263423 – 01; Sez. 5, n. 12690 del 10/11/2014, dep. 2015, Perrotta, Rv. 263887 – 01; Sez. 5, n. 30825 del 1/7/2014, Mondolo, Rv. 262402 – 01; Sez. 5, n. 42888 del 5/6/2014, S., Rv. 260677 – 01; Sez. 2, n. 21529 del 24/4/2008, Rosato, Rv. 240107 – 01; Sez. 5, n. 44922 del 14/11/2007, Gentile, Rv. 238505 – 01; Sez. 4, n. 28558 del 13/5/2005, Bruschi, Rv. 232436 – 01; Sez. 5, n. 7369 del 15/11/2002, dep. 2003, Giannone, Rv. 224859 – 01; Sez. 6, n. 77319 del 30/4/1997, Prinno, Rv. 209739 – 01 -, secondo cui, a differenza di quanto previsto per l’imputato in custodia intramuraria, nei confronti del quale incombe al giudice procedente di emettere l’ordine di traduzione, il detenuto agli arresti domiciliari per altra causa ha l’onere di chiedere tempestivamente al giudice della cautela (che normalmente non coincide con il giudice che procede) l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, sicché solo qualora questa gli venga negata per un qualsiasi motivo, ricorrerà l’ipotesi di “assoluta impossibilità a comparire” (Sez. 6, n. 36384 del 25/6/2014, B., Rv. 260620 - 01).

3. La disciplina dell’assenza.

Con legge 28 aprile 2014, n. 67 il Legislatore ha attribuito centralità alla conoscenza del dibattimento da parte dell’imputato che, tuttavia, può rinunciare ad assistervi con una manifestazione di volontà, purché espressa o tacita e ma mai presunta.

Al diritto dell’imputato di partecipare al processo è stato riconosciuto rango costituzionale e convenzionale, seppur, in entrambi i casi, in modo non esplicito.

Invero, l’art. 111 Cost., pur non contemplando esplicitamente il diritto, lo dà per presupposto attribuendo al Legislatore il compito di assicurare che un giudizio senza imputato possa essere celebrato solo a seguito di una opzione dell’imputato stesso e che nell’ordinamento siano previsti meccanismi di tutela del diritto alla presenza in vista dell’attendibilità dell’esito giudiziale.

Anche a livello convenzionale, la giurisprudenza si è orientata nel ritenere che la partecipazione personale dell’interessato costituisce il presupposto di un processo equo ex art. 6 C.E.D.U. (Sejdovic c. Italia, n. 56581/00/2006; Kovalev c. Russia, n. 78145/01/2007; Maksimov c. Azerbaigian, n. 38228/05/2009; Groshev c. Russia, n. 69889/01/2005; Mokrushina c. Russia, n. 23377/02/2006).

Sul tema del processo “in assenza”, le aspre critiche rivolte al nostro sistema dalla Corte di Strasburgo in occasione delle condanne per violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, fondate sull’assunto che, nell’ordinamento italiano, mancasse una disciplina volta a controbilanciare la fictio della conoscenza legale su cui si basava il sistema di notificazioni e a consentire all’autorità giudiziaria di valutare l’effettiva conoscenza, da parte dell’imputato, del processo e di sospendere il giudizio in caso di sussistenza di elementi sintomatici di mancata conoscenza, hanno trovato rimedio nella legge 28 aprile 2014, n. 67 che ha affiancato alla conoscenza formale del processo, derivante dalla notifica ritualmente eseguita e andata a buon fine, l’ulteriore requisito della “reale” conoscenza del procedimento da parte dell’imputato.

Il Legislatore della novella ha ravvisato tre diverse fattispecie di assenza, modulate a seconda del grado di conoscenza dell’imputato, previste rispettivamente:

– dall’art. 420-bis, comma 1, cod. proc. pen. che disciplina l’assenza che deriva dalla conoscenza certa o qualificata del processo;

– dall’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. che individua le ipotesi in cui l’assenza dell’imputato si basa sulla c.d. conoscenza non qualificata;

– dall’art. art. 420-quater cod. proc. pen. che, nello stabilire la sospensione del processo per irreperibilità dell’imputato, ricollega l’assenza del soggetto sottoposto a processo alla mancata conoscenza dell’udienza e del procedimento.

In forza del rinvio operato dall’art. 484 cod. proc. pen. (non modificato dalla legge n. 67 del 2014) alla disciplina dell’udienza preliminare, anche in sede dibattimentale, ai sensi del novellato art. 419, comma 1, cod. proc. pen., il giudice dovrà preliminarmente far notificare all’imputato l’avviso di fissazione dell’udienza avvertendolo che, in caso di mancata comparizione, sarà giudicato secondo le nuove norme introdotte dalla legge n. 67 del 2014.

Ciò posto, qualora all’udienza l’imputato non sia presente, il giudice procedente dovrà:

– verificare la regolare costituzione delle parti e, in caso di nullità di una notifica o di un avviso, disporne la rinnovazione e rinviare ad una nuova udienza ai sensi dell’art. 420 cod. proc. pen.;

– individuare, nel caso di notifiche esenti da vizi, la causa dell’assenza dell’imputato e verificare, ai sensi dell’art. 420-ter cod. proc. pen. (che non ha subito modifiche a seguito della legge n. 67 del 2014) se la mancata comparizione dipenda da una assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento;

– disporre il rinvio ad una nuova udienza, qualora ritenga provata o probabile l’assoluta impossibilità a comparire o, diversamente, procedere ai sensi e per gli effetti degli artt. 420-bis e ss. cod. proc. pen. nel caso in cui si accerti che la mancata comparizione dell’imputato non derivi da un legittimo impedimento.

Quanto, poi, alla fattispecie prevista dall’art. 420-quater cod. proc. pen. per l’imputato irreperibile, il giudice dovrà rinviare l’udienza e disporre che l’avviso di fissazione della nuova udienza sia notificato personalmente all’imputato ad opera della polizia giudiziaria, da ciò derivando due possibili scenari:

– se la notifica ha esito positivo e l’imputato non compare alla nuova udienza, il giudice, ai sensi dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., dovrà disporre che il processo prosegua in assenza dell’imputato;

– se, invece, la notifica ha esito negativo, il giudice dovrà, con ordinanza, disporre la sospensione del processo nei confronti dell’imputato non comparso (il c.d. irreperibile), salvo l’obbligo, ex art. 420-quinquies, comma 1, cod. proc. pen., di procedere annualmente a nuove ricerche per la notifica dell’avviso.

In conclusione, dunque, la sospensione del processo consegue alla mancata presenza dell’imputato in udienza e all’esito negativo della notifica dell’avviso dell’udienza fatta personalmente, soltanto qualora siano rispettate tre condizioni: la regolarità della notifica, l’assenza di una rinuncia espressa o implicita a comparire all’udienza e l’assenza di un legittimo impedimento che determina l’assoluta impossibilità a comparire.

4. La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa.

Sulla premessa che l’impedimento a comparire del soggetto debba essere inteso in termini di incapacità non solo fisica, ma anche di dignitosa ed attiva partecipazione all’udienza in vista dell’esercizio del diritto costituzionale alla difesa (Sez. 5, n. 15407 del 24/02/2020, Stretti, Rv. 279088 - 01), debba possedere i caratteri dell’assolutezza, effettività, legittimità ed essere riferibile ad una situazione non dominabile dall’imputato e a lui non ascrivibile (Sez. 5, n. 12056 del 20/01/2021, Profeta, Rv. 281022 – 01; Sez. 3, n. 11460 del 05/12/2018, dep. 2019, Salvucci, Rv. 275184 – 01; Sez. 3, n. 10482 del 15/12/2015, dep. 2016, Ingoglia, Rv. 266494 - 01), la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, qualora l’impedimento a comparire si verifichi nel corso del giudizio nel quale l’imputato ha scelto di rimanere estraneo, scelta conclamata dalla dichiarazione di contumacia, egli non potrà far valere un impedimento a comparire per la prosecuzione, senza aver prima richiesto di partecipare al processo (Sez. 2, n. 2559 del 19/12/2014, dep. 2015, D’Angelo, Rv. 262282 – 01).

Quanto alla prova dell’assoluta impossibilità a comparire, la giurisprudenza di legittimità è univocamente orientata nel ritenere che questa debba essere fornita dall’interessato, non ricorrendo a carico del giudice di merito alcun obbligo di disporre accertamenti nel caso in cui la documentazione prodotta sia insufficiente ad attestare l’assoluta impossibilità (Sez. 3, n. 28547 del 29/05/2014, Falconi, Rv. 259945 – 01; Sez. 2, n. 4300 del 12/12/2003, dep. 2004, Gabrielloni, Rv. 228153 – 01).

5. La sentenza delle Sezioni Unite “Arena”: una traccia per la soluzione della questione.

A fronte dei due opposti orientamenti che si registravano in ordine alla sussistenza o meno di un onere di tempestiva comunicazione da parte dell’imputato del suo status detentionis, preclusivo del giudizio contumaciale, Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Arena, Rv. 234600 – 01 ha affermato il principio di diritto secondo cui “la detenzione dell’imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento”, salvo che l’imputato stesso non acconsenta alla celebrazione dell’udienza in sua assenza o, se detenuto, rifiuti di assistervi.

La soluzione individuata si fonda su ragioni normative e sistematiche.

Le Sezioni Unite, partendo dalla duplice considerazione che il processo in contumacia presenta elementi di forte attrito con un modello di processo penale ispirato ai principi accusatori, il quale postula la presenza dell’imputato al fine di esercitare i diritti e le facoltà attribuitigli dalla legge, e che, alla luce delle fonti nazionali (art. 111 Cost.) e delle fonti internazionali (art. 6, par. 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e art. 14, comma 3, del Patto internazionale sui diritti civili e politici pattizie)-, il procedimento contumaciale si pone come ipotesi eccezionale, hanno aderito al più restrittivo degli orientamenti che si registravano sul tema, affermando che la detenzione dell’imputato per altra causa costituisce legittimo impedimento anche nel caso in cui questi avrebbe potuto comunicare al giudice il suo status in tempo utile per la traduzione e, sottolineata la rilevanza oggettiva dello stato detentivo al fine del rinvio dell’udienza, hanno evidenziato che il giudice potrà soltanto verificare la sussistenza o meno di una volontà dell’imputato a che si proceda in sua assenza, escludendo al carico dell’imputato un onere di preventiva informazione al giudice, normativamente non previsto.

La decisione “Arena”, inoltre, ha guidato le Sezioni Unite nella risoluzione del contrasto sviluppatosi in merito alla sussistenza o meno del diritto dell’imputato, detenuto o comunque soggetto a misure limitative della libertà personale, a presenziare al giudizio camerale d’appello, qualora abbia manifestato la volontà di comparire, e alla natura delle conseguenze che la mancata traduzione dell’imputato determina sulla decisione assunta.

Intervenendo su tale questione giuridica, Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, F., Rv. 247836 – 01 ha evidenziato, in motivazione, che la comparizione personale del prevenuto non riveste la medesima importanza decisiva nel giudizio di primo grado e in quello d’appello, nel quale la presenza dell’imputato non è necessaria, sicché soltanto “nel giudizio ordinario deve sempre essere assicurata, in mancanza di un inequivoco rifiuto, la presenza dell’imputato e, quindi, in virtù della norma generale fissata dall’art. 420-ter cod. proc. pen., qualora l’imputato non si presenti e in qualunque modo risulti (o appaia probabile) che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche d’ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta dell’imputato in tal senso” e la traduzione del medesimo, a meno che, ovviamente, non vi sia stato un rifiuto dell’imputato stesso di assistere all’udienza ai sensi dell’art. 420-quinquies cod. proc. pen.

6. La giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa: i diversi orientamenti.

Una delle prime risposte positive alla questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è stata fornita da Sez. 6, n. 17214 del 09/05/1989, Madonia, Rv. 182778 – 01, secondo cui “legittimamente il giudice del merito dichiara la contumacia dell’imputato che si trova agli arresti domiciliari per altra causa ed al quale è stato ritualmente notificato il decreto di citazione a giudizio a mani proprie; in tale ipotesi, infatti, incombe all’imputato stesso, e non ad altri, richiedere all’autorità competente l’autorizzazione necessaria per lasciare la propria abitazione per presenziare al dibattimento, se lo voglia, ben potendo consentire che questo si svolga in sua assenza”, che ha ravvisato nell’adempimento di tale onere uno strumento a garanzia della maggiore fluidità del processo.

In linea con tale principio, a distanza di circa un decennio Sez. 6, n. 7319 del 30/04/1997, Prinno, Rv. 209739 – 01, e, di seguito, Sez. 5, n. 7369 del 15/11/2002, dep. 2003, Giannone, Rv. 224859 – 01, Sez. 4, n. 28558 del 13/05/2005, Bruschi, Rv. 232436 – 01 e, ancora Sez. 5, n. 44922 del 14/11/2007, Gentile, Rv. 238505 – 01 hanno affermato che se è vero che “non esiste alcun onere a carico dell’imputato di comunicare tempestivamente al giudice procedente la propria sopravvenuta sottoposizione a privazione della libertà per altra causa”, è altrettanto vero che, nel caso di arresti domiciliari, sussiste a carico dell’imputato che intenda comparire, l’onere “di chiedere tempestivamente al giudice competente l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, non essendo al riguardo configurabile, per converso, un obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di disporre la traduzione, come invece deve dirsi nel caso di sopravvenuta detenzione ordinaria”.

Si è osservato in dottrina che la pronuncia “Gentile” solo apparentemente si pone in contrasto con il principio di diritto affermato dalla pronuncia “Arena”, in quanto nella vicenda sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite l’imputato, nelle more del giudizio, era stato sottoposto a regime carcerario per altro titolo di reato, mentre la vicenda decisa dalla Quinta sezione riguardava un imputato agli arresti domiciliari.

Sul punto si registrava un contrasto tra quella giurisprudenza di legittimità che parificava la posizione degli imputati privati a qualsiasi titolo della libertà personale e quella che, invece, valorizzava la diversità tra il regime carcerario e quello domiciliare.

All’indirizzo giurisprudenziale che. dalla differenza tra la situazione dell’imputato in custodia intramuraria e quella dell’imputato agli arresti domiciliari, fa conseguire a carico di quest’ultimo l’onere di attivarsi per chiedere l’autorizzazione ad allontanarsi per partecipare al processo e l’assenza di un assoluto impedimento a comparire, si sono allineate Sez. 2, n. 21529 del 24/04/2008, Rosato, Rv. 240107 – 01 e, in epoca successiva, Sez. 5, n. 30825 del 01/07/2014, Mondolo, Rv. 262402 – 01, secondo cui “l’imputato sottoposto ad arresti domiciliari per altra causa, che intende comparire in udienza, ha l’onere di chiedere tempestivamente al giudice competente l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, non essendo, in tal caso, configurabile un obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di disporne la traduzione”. L’indirizzo ha trovato conferma nelle pronunce di Sez. 5, n. 42888 del 05/06/2014, S., Rv. 260677 – 01; Sez. 6, n. 36384 del 25/06/2014, B., Rv. 260620 – 01 e Sez. 5, n. 12690 del 10/11/2014, dep. 2015, Perrotta, Rv. 263887 – 01; Sez. 5, n. 8876 del 22/12/2014, dep. 2015, Solchea, Rv. 263423 – 01; Sez. 3, n. 33404 del 15/07/2015, Tota, Rv. 264204 – 01; Sez. 2, n. 48030 del 20/01/2016, Guercio; Sez. 7, n. 20677 del 12/01/2018, Lambiase; Sez. 1, n. 39768 del 02/05/2018, Drago; Sez. 5, n. 32667 del 16/07/2018, Saracino; Sez. 5, n. 48911 del 01/10/2018, N., Rv. 274160 – 02; Sez. 2, n. 7286 del 15/11/2018, dep. 2019, Traini, Rv. 275608; Sez. 5, n. 6540 del 10/12/2018, dep. 2019, D., Rv. 275498 – 01 e, in tempi recenti, nelle decisioni di Sez. 4, n. 3905 del 21/01/2020, Huqi, Rv. 278289 - 01; Sez. 4, n. 10157 del 18/02/2020, Akhmedov, Rv. 278610 – 01.

Di diverso avviso è quell’orientamento che esclude l’onere dell’imputato di richiedere l’autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di detenzione sul presupposto che gli arresti domiciliari, al pari della detenzione in carcere, determinano una privazione della libertà personale (Sez. 1, n. 5164 del 05/03/1990, Tortora, Rv. 183950 – 01), sicché in capo al giudice procedente, cognito della condizione in cui versa l’imputato, sussista l’obbligo di un doveroso “controllo sull’impedimento allegato” (Sez. 4, n. 5834 del 14/02/1991, Mereu, Rv. 187279 – 01), già inaugurato da Sez. 4, n. 13715 del 28/05/1990, Millocca, Rv. 185529 – 01, ha trovato riscontro nelle decisioni assunte da Sez. 4, n. 5834 del 14/02/1991, Mereu, Rv. 187279 – 01 e, a distanza di qualche anno, da Sez. 6, n. 5989 del 10/03/1997, Valle, Rv. 209322 – 01, e, di lì a poco, da Sez. 1, n. 4230 del 03/03/1998, Di Mariano, Rv. 210205 – 01 che, nell’affrontare il diverso profilo concernente il potere-dovere di controllo del giudice sulle relate di notifica al fine di accertare la sussistenza o meno di uno stato di detenzione dell’imputato per altra causa, dopo aver affermato che “in caso di regolarità della notifica è correttamente dichiarata la contumacia dell’imputato detenuto per altra causa e del quale non sia stata disposta la traduzione in aula, quando lo stato di detenzione non sia conosciuto dal giudice”, sussistendo l’onere, per l’imputato detenuto per altra causa, di attivarsi, eventualmente tramite il proprio difensore, per far conoscere al giudice il suo stato e rendere possibile, con la traduzione disposta, il processo a suo carico, ha precisando, tuttavia, che qualora lo status detentionis risulti dagli atti – ed in particolare dalla relata di notifica –, incombe sul giudice procedente l’obbligo di disporre la traduzione dell’imputato medesimo.

In linea si sono poste Sez. 6, n. 5776 del 28/03/2000, Nacchio, Rv. 216861 – 01, Sez. 1, n. 13593 del 13/02/2001, Mormone, Rv. 218806 – 01 che, in motivazione ha precisato che “l’imputato che si trovi agli arresti domiciliari per altra causa e nei cui confronti, essendo nota al giudice procedente tale sua situazione, non sia stata disposta la traduzione, è da considerare legittimamente impedito a comparire e non può, quindi, essere dichiarato contumace; né rileva in contrario il fatto che egli non abbia manifestato tempestivamente la sua volontà di essere presente al dibattimento, chiedendo quindi al giudice la rimozione del suddetto impedimento, atteso che non è configurabile a suo carico un siffatto obbligo, mentre spetta comunque al giudice il dovere di porre l’imputato in grado di esercitare il suo diritto di essere presente al giudizio”, sul presupposto che ravvisando soltanto in capo all’imputato agli arresti domiciliari l’onere di manifestare la volontà di essere presente in dibattimento e di sollecitare il giudice della cautela a rimuovere l’impedimento a comparire, “non si comprenderebbe la ragione per la quale tale principio non dovrebbe valere anche nei confronti dell’imputato in stato di restrizione in carcere in considerazione che un allontanamento abusivo produrrebbe in entrambi i casi gli stessi effetti”, nonché Sez. 2, n. 41252 del 07/11/2002, Vallese, Rv. 223498 – 01 e, a distanza di qualche anno, Sez. 5, n. 37620 del 17/10/2006, Serra, Rv. 235227 – 01, secondo cui “lo stato di detenzione (o assimilati)” costituisce ex se una limitazione della libertà di locomozione e spostamento del soggetto, alla quale deve porsi rimedio mediante l’ordine di traduzione, rimanendo altrimenti l’imputato privato del diritto a intervenire e a difendersi, anche personalmente, che gli deve essere “incondizionatamente assicurato”, in ossequio alla normativa sovranazionale generalmente riconosciuta”, seguita da Sez. 6, n. 44421 del 13/11/2008, Apice, Rv. 241605 – 01 e da Sez. 6, n. 19733 del 19/03/2009, Ceccamese, Rv. 243965- 01 e, con riferimento al regime di semidetenzione, da Sez. 4, n. 1871 del 03/10/2013, dep. 2014, Santamaria, Rv. 258177 – 01 e Sez. 4, n. 18455 del 30/01/2014, P., Rv. 261562 – 01.

Poco prima, Sez. 6, n. 2300 del 10/12/2013, dep. 2014, Deda, Rv. 258246 – 01, riprendendo il ragionamento svolto di Sez. 5, n. 37620 del 17/10/2006, Serra, Rv. 235227 – 01, secondo cui “alla luce degli arresti della giurisprudenza CEDU”, l’esistenza di un oggettivo insormontabile impedimento a comparire dell’imputato potrebbe essere considerato irrilevante solo ove ricorrano le condizioni che rendono legittimo il processo penale contumaciale, ha escluso la possibilità di desumere implicitamente, in via sistematica, l’esistenza di un analogo onere di comunicazione all’autorità giudiziaria procedente a carico dell’imputato.

La configurabilità in capo al solo difensore di un onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento a comparire all’autorità giudiziaria e, per converso, la mancanza di un analogo onere per l’imputato anche nei casi in cui emerga che questi avrebbe potuto informare del proprio status detentionis il giudice in tempo utile per la traduzione, è stata ribadita da Sez. 2, n. 8098 del 10/02/2016, Moccia, Rv. 266217 – 01 e, prima ancora, da Sez. 4, n. 19130 del 14/10/2014, dep. 2015, Di Rocco, Rv. 263490 – 01, e, da ultimo, Sez. 5, n. 37658 del 20/11/2020, Ferri, Rv. 280139 – 01.

Analogamente, anche Sez. 5, n. 47048 del 12/07/2019, F., Rv. 277113 – 01, dopo aver rammentato che l’imputato ammesso al regime degli arresti domiciliari si trova pur sempre in stato di detenzione e che, quindi, può lasciare il luogo di detenzione solo previa autorizzazione del giudice competente o per disposizione dello stesso, che deve ordinarne la traduzione, ha precisato che non potrebbe ritenersi che, in caso di restrizione diversa dalla detenzione in carcere, l’impedimento non sarebbe più legittimo ed assoluto solo perché l’imputato potrebbe chiedere l’autorizzazione o l’accompagnamento o la traduzione al giudice competente, in quanto “chi viene ammesso al regime degli arresti domiciliari […] si trover[a] pur sempre, in stato di detenzione, cioè di privazione della libertà personale e può lasciare il luogo di arresto domiciliare solo previa autorizzazione del magistrato competente o per disposizione dello stesso che deve, in tal caso, ordinarne la traduzione”.

7. La giurisprudenza di rilevanza indiretta.

Utili spunti di riflessione si rinvengono nella pronuncia di Sez. 5, n. 5891 del 05/12/2005, dep. 2006, Del Pan, Rv. 233844 – 01, secondo cui “in tema di legittimo impedimento a comparire al dibattimento, l’imputato, citato a giudizio ritualmente, quando si trovi sottoposto per altro titolo alla misura di sicurezza della libertà vigilata con obbligo di soggiorno, ha l’onere di richiedere tempestivamente, ai fini della rimozione dell’impedimento, al giudice che ha disposto la misura la prescritta autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura o, in caso di ritardo nel rilascio della suddetta autorizzazione, fare conoscere al giudice procedente, prima del dibattimento, il motivo del suo impedimento”.

Nel diverso tema delle misure di prevenzione, in linea con Sez. 5, n. 38422 del 12/07/2010, La Marca, Rv. 248649 - 01; Sez. 2, n. 16352 del 06/04/2006, Longhitano, Rv. 234751 - 01; Sez. 6, n. 21561 del 29/01/2002, Buraglia, Rv. 222742 – 01; Sez. 6, n. 44764 del 28/11/2001, Bonaccorsi, Rv. 220527 – 01, secondo cui spetta all’autorità giudiziaria che ha applicato la misura di prevenzione il compito di autorizzare il sottoposto, che ne abbia fatta istanza, a recarsi davanti ad altra autorità giudiziaria per partecipare ad un procedimento penale a suo carico, Sez. 6, n. 12806 del 10/11/2011, dep. 2012, Buscemi, Rv. 252577 – 01 ha affermato che “è legittimo l’impedimento a comparire dell’imputato che, sottoposto alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno in un comune diverso da quello del luogo di svolgimento del giudizio, non abbia ottenuto, pur avendola richiesta, l’autorizzazione a recarsi in udienza da parte del Tribunale competente in materia di misure di prevenzione”, autorizzazione, in mancanza della quale, il procedimento non potrà essere trattato in assenza “se non a pena di trasgressione degli obblighi impostigli con il provvedimento di prevenzione” da parte del medesimo.

Ancora, Sez. 1, n. 49882 del 06/10/2015, Pernagallo, Rv. 265546 – 01, affrontando il tema dell’ambito di esplicazione del contraddittorio in sede di impugnazione dei provvedimenti applicativi delle misure cautelari alla luce dei cambiamenti apportati in materia dalla legge n. 47 del 2015, ha colto, quale elemento di novità della novella, il riconoscimento del diritto del detenuto (in generale) di partecipare al giudizio in funzione auto-difensiva, “atteso che il contatto diretto con il giudice può avere un’efficacia persuasiva delle argomentazioni difensive”, sempre che il detenuto, sia esso indagato o imputato, ne abbia fatto richiesta.

Ulteriore espressione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ravvisa nella manifestazione di volontà la condizione indefettibile per la partecipazione del detenuto al suo processo, si rinviene nella pronuncia di Sez. U, n. 11803 del 27/02/2020, Ramondo, Rv. 278491 – 01 che, nel risolvere il contrasto sorto in merito all’individuazione del momento in cui, nell’ambito del procedimento di riesame delle misure cautelari custodiali, debba essere formulata la richiesta di partecipazione all’udienza da parte dell’indagato detenuto, pur aderendo all’orientamento maggioritario che individua lo sbarramento processuale nella richiesta di riesame, ha tuttavia esteso il termine sino al momento della presentazione dell’istanza di differimento dell’udienza formulata dall’indagato che intenda essere sentito su temi specifici. Si coglie nella pronuncia il valore primario del diritto di partecipazione riconosciuto al "principe" del procedimento cautelare – vale a dire di colui che ha perso il diritto inviolabile della libertà personale” – sempre che ne abbia fatto richiesta, anche per il tramite del difensore, “in tempo utile per organizzare la sua traduzione”.

8. La decisione.

Con la decisione assunta all’udienza del 30 settembre 2021, della quale oggi si attende il deposito della motivazione per verificare le ragioni della soluzione prescelta e della quale è nota soltanto la soluzione adottata, le Sezioni Unite hanno affermato che “La restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione”.

Evidentemente le Sezioni Unite hanno condiviso l’orientamento giurisprudenziale che parifica la condizione dell’imputato agli arresti domiciliari a quella dell’imputato in regime di restrizione carceraria, sul presupposto che qualsiasi limitazione alla libertà personale, poiché non consente all’imputato di presenziare liberamente all’udienza, rappresenta in re ipsa un legittimo impedimento che impone al giudice - che, in qualunque modo e in qualunque tempo, sia venuto a conoscenza dello stato di restrizione della libertà, anche senza una richiesta dell’imputato - l’obbligo di rinviare il processo ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell’imputato, salvo un espresso rifiuto dell’imputato di assistere all’udienza, così da evitare il rischio che il giudice della cautela possa negare l’esercizio del “suo” diritto al protagonista del processo e da assicurare snellezza e celerità al processo, evitando non giustificate condotte dilatorie dell’imputato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze dalla Corte di cassazione

Sez. 6, n. 17214 del 09/05/1989, Madonia, Rv. 182778 – 01

Sez. 1, n. 5164 del 05/03/1990, Tortora, Rv. 183950 – 01

Sez. 4, n. 13715 del 28/05/1990, Millocca, Rv. 185529 – 01

Sez. 4, n. 35399 del 14/02/1991, Mereu, Rv. 187279 – 01

Sez. 6, n. 5989 del 10/03/1997, Valle, Rv. 209322 – 01

Sez. 6, n. 77319 del 30/4/1997, Prinno, Rv. 209739 – 01

Sez. 1, n. 4230 del 03/03/1998, Di Mariano, Rv. 210205 – 01

Sez. 6, n. 5776 del 28/03/2000, Nacchio, Rv. 216861 – 01

Sez. 1, n. 13593 del 13/02/2001, Mormone, Rv. 218806 – 01

Sez. 6, n. 44764 del 28/11/2001, Bonaccorsi, Rv. 220527 – 01

Sez. 6, n. 21561 del 29/01/2002, Buraglia, Rv. 222742 – 01

Sez. U, n. 41252 del 07/11/2002, Vallese, Rv. 223498 – 01

Sez. 5, n. 7369 del 15/11/2002, dep. 2003, Giannone, Rv. 224859 – 01

Sez. 2, n. 4300 del 12/12/2003, dep. 2004, Gabrielloni, Rv. 228153 – 01

Sez. 4, n. 28558 del 13/5/2005, Bruschi, Rv. 232436 – 01

Sez. 5, n. 5891 del 05/12/2005, dep. 2006, Del Pan, Rv. 233844 – 01

Sez. 2, n. 16352 del 06/04/2006, Longhitano, Rv. 234751 - 01

Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Arena, Rv. 234600 – 01 Sez. 5, n. 37620 del 17/10/2006, Serra, Rv. 235227 – 01

Sez. 5, n. 44922 del 14/11/2007, Gentile, Rv. 238505 – 01

Sez. 2, n. 21529 del 24/4/2008, Rosato, Rv. 240107 – 01

Sez. 6, n. 44421 del 13/11/2008, Apice, Rv. 241605 – 01

Sez. 6, n. 19733 del 19/03/2009, Ceccamese, Rv. 243965 – 01

Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, F., Rv. 247836 – 01

Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, F., Rv. 247837 – 01

Sez. 5, n. 38422 del 12/07/2010, La Marca, Rv. 248649 - 01

Sez. 6, n. 12806 del 10/11/2011, dep. 2012, Buscemi, Rv. 252577 – 01

Sez. 4, n. 1871 del 03/10/2013, dep. 2014, Santamaria, Rv. 258177 – 01

Sez. 6, n. 2300 del 10/12/2013, dep. 2014, Deda, Rv. 258246 – 01

Sez. 4, n. 18455  del 30/01/2014, P., Rv. 261562 – 01

Sez. 3, n. 28547 del 29/05/2014, Falconi, Rv. 259945 – 01

Sez. 5, n. 42888 del 5/6/2014, S., Rv. 260677 - 01

Sez. 6, n. 36384 del 25/6/2014, B., Rv. 260620 - 01

Sez. 5, n. 30825 del 1/7/2014, Mondolo, Rv. 262402 - 01

Sez. 4, n. 19130 del 14/10/2014, dep. 2015, Di Rocco, Rv. 263490 – 01

Sez. 5, n. 12690 del 10/11/2014, dep. 2015, Perrotta, Rv. 263887 – 01

Sez. 2, n. 2559  del 19/12/2014, dep. 2015, D'Angelo, Rv. 262282 – 01

Sez. 5, n. 8876 del 22/12/2014, dep. 2015, Solchea, Rv. 263423 – 01

Sez. 2, n. 17810 del 9/4/2015, Milani, Rv 263532 - 01

Sez. 3, n. 33404 del 15/7/2015, Tota, Rv. 264204-01

Sez. 1, n. 49882 del 06/10/2015, Pernagallo, Rv 265546 – 01

Sez. 3, n. 10482 del 15/12/2015, dep. 2016, Ingoglia, Rv. 266494 – 01

Sez. 2, n. 8098 del 10/02/2016, Moccia, Rv. 266217 – 01

Sez. 2, n. 48030 del 20/10/2016, Guercio;

Sez. 2, n. 30258 del 14/03/2017, Minguzzi, Rv. 270594 – 01

Sez. 7, n. 20677 del 12/1/2018, Lambiase

Sez. 1, n. 39768 del 2/5/2018, Drago

Sez. 5, n. 32667 del 16/7/2018, Saracino

Sez. 5, n. 48911 del 1/10/2018, N., Rv. 274160 – 02

Sez. 2, n. 7286 del 15/11/2018, dep. 2019, Traini, Rv. 275608 – 01

Sez. 3, n. 11460  del 05/12/2018, dep. 2019, Salvucci, Rv. 275184 – 01

Sez. 5, n. 6540 del 10/12/2018, dep. 2019, D., Rv.275498 - 01

Sez. 2, n. 27817 del 22/3/2019, Tostelli, Rv. 276563 - 01

Sez. 5, n. 47048 del 12/07/2019, F., Rv. 277113 – 01

Sez. 4, n. 3905 del 21/01/2020, Huqi, Rv. 278289 – 01

Sez. 4, n. 10157 del 18/02/2020, Akhmedov, Rv. 278610 – 01

Sez. 5, n. 15407  del 24/02/2020, Stretti, Rv. 279088 – 01

Sez. U, n. 11803 del 27/02/2020, Ramondo, Rv 278491 - 01

Sez. 5, n. 37658 del 20/11/2020, Ferri, 280139 – 01

Sez. 5, n. 12056 del 20/01/2021, Profeta, Rv. 281022 – 01

Sentenze dalla Corte EDU

Corte EDU, Groshev c. Russia, n. 69889/01/2005

Corte EDU, Sejdovic c. Italia, n. 56581/00/2006

Corte EDU, Mokrushina c. Russia, n. 23377/02/2006

Corte EDU, Kovalev c. Russia, n. 78145/01/2007

Corte EDU, Maksimov c. Azerbaigian, n. 38228/05/2009

  • procedura penale
  • udienza giudiziaria
  • avvocato
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO II

LA DEDUCIBILITÀ IN EXECUTIVIS DELLE NULLITÀ INSANABILI DERIVANTI DALL’OMESSA CITAZIONE IN GIUDIZIO

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 Le questioni controverse. - 2 I rapporti tra incidente di esecuzione e rescissione del giudicato: ambiti di applicazione e differenze. - 3 Limiti alla deducibilità “in executivis” delle nullità assolute ed insanabili verificatesi nel procedimento di cognizione. - 4 L’esclusione della possibilità di riqualificare l’istanza di incidente di esecuzione in richiesta di rescissione del giudicato. - Indice delle sentenze citate

1. Le questioni controverse.

La questione rimessa alle Sezioni Unite (Sez. U, n. 15498 del 26/11/2020, dep. 2021, Lovric, Rv. 28093101 – 28093102) trae origine da un contrasto di giurisprudenza in ordine alla possibilità, nel vigore della legge 28 aprile 2014 n. 67, che ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina del processo in assenza, di esperire incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. per far valere la non esecutività del titolo ove si verifichino nullità endoprocessuali assolute e insanabili derivanti dall’omessa citazione dell’imputato e del suo difensore nel giudizio di cognizione, ritenendo le stesse non coperte dal giudicato. Alle Sezioni Unite è stato richiesto, più in generale, di definire il rapporto tra l’incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. e la rescissione del giudicato ex art. 629-bis cod. proc. pen., anche in relazione alla prospettata possibilità di conversione dall’uno all’altro rimedio ex art. 568, comma 5, cod. proc. pen., stante la profonda diversità di finalità e presupposti.

Nel caso concreto la ricorrente ha promosso incidente di esecuzione avverso la sentenza di condanna pronunciata all’esito di un processo celebrato in sua assenza, per essere stati gli atti introduttivi erroneamente notificati al difensore di fiducia, domiciliatario in un diverso procedimento, situazione che le ha impedito in radice di avere conoscenza del procedimento. Il giudice dell’esecuzione ha rigettato l’istanza e, previa riqualificazione della stessa come richiesta di rescissione del giudicato ex art. 629-bis cod. proc. pen., disposto la trasmissione degli atti alla Corte di appello competente. Dagli atti è emerso, tuttavia, che l’interessata aveva già proposto autonomo ricorso per la rescissione del giudicato ex art. 625-ter cod. proc. pen., dichiarato inammissibile dalla Corte perchè presentato oltre i trenta giorni dalla conoscenza del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti nel quale era compreso il giudicato di condanna.

Il contrasto di giurisprudenza segnalato è maturato con riferimento all’abrogato giudizio contumaciale, ma conserva attualità anche dopo l’introduzione della nuova disciplina del processo in assenza, per effetto della legge n. 67 del 2014 ed il venir meno della notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza di condanna, soprattutto in relazione alla deducibilità ex art. 670 cod. proc. pen. delle nullità assolute sulla elezione di domicilio verificatesi nel giudizio di cognizione, che ridondino in una incolpevole mancata conoscenza del processo celebrato in assenza.

Un primo orientamento afferma che «in materia d’incidente di esecuzione, il giudice deve limitare il proprio accertamento alla regolarità formale e sostanziale del titolo su cui si fonda l’esecuzione, non potendo attribuire rilievo alle nullità eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente al passaggio in giudicato della sentenza, che devono essere fatte valere con i mezzi d’impugnazione» (il principio, così massimato, è espresso, da Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, Esposito, Rv. 27260401; in senso conforme, da Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004, Condenni, Rv. 22958001; Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006, Santarelli, Rv. 23422401; Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008, Lasco, Rv. 23950901, Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008 dep. 2009, Baratta, Rv. 24279101, e Sez. 1, n. 5880 del 11/12/2013, dep. 2014, Amore, Rv. 25876501). Nella vigenza del giudizio contumaciale, pur riconoscendo un chiaro limite di intervento del giudice dell’esecuzione, si ammette comunque la possibilità di contestare ex art. 670 cod. proc. pen. l’irrevocabilità del titolo, deducendo l’invalidità derivata del provvedimento notificatorio dell’estratto contumaciale di cui all’art. 548 cod. proc. pen. per la nullità dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio (in tal senso, Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017, Canalini, Rv. 26922801). L’eventuale dichiarazione di non esecutività del titolo, per effetto dell’accoglimento dell’incidente di esecuzione, consentirebbe l’accesso al giudizio di impugnazione, nel quale potevano essere assunti i provvedimenti di cui all’art. 604 cod. proc. pen., e, dunque, anche la questione di nullità della notificazione degli atti introduttivi che non era stata rilevata nel precedente giudizio.

Un opposto orientamento, di contro, ammette l’astratta possibilità di scrutinio in sede di giudizio di esecuzione delle nullità insanabili verificatesi nel giudizio di cognizione, ove rappresentino ipotesi d’iniquità del processo svoltosi nei confronti di imputato assente, comportante la non esecutività della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen.

Il principio è espresso, sia pur con una formulazione in termini negativi, da Sez. 1, n. 48723 del 18/10/2019, Piccolo, Rv. 27782201 e, con riferimento al giudizio contumaciale, da Sez. 1, n. 20989 del 23/06/2020, Barsotti, Rv. 27932002. In termini più espliciti, Sez. 1, n. 13647 del 12/02/2019, Triglia, ha affermato che «sono estranee al tema della conoscenza del processo le questioni, regolate dall’art. 420, comma 2, cod. proc. pen., concernenti la regolare citazione delle parti nel giudizio, cui corrisponde correlativamente nella fase esecutiva il rimedio di cui all’art. 670 cod. proc. pen.», valutando «anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato».

Si osserva che si tratta di fattispecie del tutto equiparabili ai vizi che interferiscono con la formazione del giudicato derivanti, nella fase antecedente alla legge n. 67 del 2014, alla rituale notifica all’imputato dell’estratto contumaciale, in quanto, incidendo in modo determinante sull’assistenza tecnica dell’imputato, sono in grado per tale via di riflettersi sul titolo, avendo compromesso la previa ed autonoma facoltà d’impugnazione riconosciuta al difensore. La possibilità di far valere mediante l’incidente di esecuzione la nullità della notificazione del decreto che dispone il giudizio, non rilevata dal giudice che ha erroneamente dichiarato l’assenza dell’imputato, consentirebbe di impedire l’ingiustificata compressione del diritto ad un processo equo, comprensivo del diritto di prendervi parte personalmente (in tal senso, Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 27538001).

La Sezione rimettente ha segnalato un’ulteriore questione, che investe la possibilità di conversione del rimedio rescissorio nell’incidente di esecuzione o viceversa, nel caso in cui l’imputato intenda dedurre un vizio radicale degli atti introduttivi del giudizio di cognizione.

Sul tema, un primo orientamento afferma che «il ricorso per cassazione proposto ex art. 625-ter (ora 629-bis) cod. proc. pen. avverso una sentenza divenuta irrevocabile per mancata impugnazione, nel caso in cui la parte abbia avuto notizia dell’esistenza del procedimento penale (nella specie, per essere stata destinataria di un provvedimento di sequestro e avere ricevuto l’avviso di conclusione indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen.) ma non abbia in seguito potuto partecipare al giudizio per la nullità della notifica del decreto di citazione, non deve essere dichiarato inammissibile, bensì, prospettando una questione sul titolo esecutivo ex art. 670 cod. proc. pen., convertito in incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.» (Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 27538001).

Di tenore diametralmente opposto è, invece, la soluzione che fa leva sulla natura non impugnatoria dell’incidente di esecuzione, perché non diretto ad ottenere la modifica in senso più favorevole della decisione assunta in sede di cognizioné e sulla differenza di presupposti ed oggetto giuridico rispetto alla rescissione del giudicato, mezzo straordinario di impugnazione. L’indirizzo è espresso da Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, Hercules, Rv. 27084001, che ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva respinto l’istanza di riqualificazione del ricorso ai sensi dell’art. 625-ter cod. proc. pen in incidente di esecuzione, non potendo trovare applicazione il principio di conservazione di cui all’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., perché l’incidente di esecuzione non ha natura di mezzo di impugnazione (in senso conforme, Sez. 6, n. 10000 del 14/02/2017, De Maio, Rv. 26966501, che definisce «ontologicamente diverse (…) la natura e la funzione dell’istituto della rescissione, quale mezzo straordinario di impugnazione»; Sez. 3, n. 19006 del 14/01/2015, Lazar, Rv. 26351001; Sez. 1, n. 23426 del 15/04/2015, Lahrac, Rv. 26379401, che esclude la possibilità di qualificare ex officio la richiesta di rescissione del giudicato poiché le due istanze si caratterizzano per diversità di "petitum").

L’articolata questione principale rimessa alle Sezioni Unite è stata così riformulata: «Se, e come, i rimedi di cui all’incidente di esecuzione ex art. 670 cod. proc. pen. e di cui alla rescissione del giudicato ex art. 629-bis cod. proc. pen. possano tra loro concorrere, essendo il primo rivolto ad eliminare la irrevocabilità della sentenza viziata dalla nullità assoluta insanabile, e, il secondo, avente invece come presupposto la legittimità formale del contraddittorio, rivolto a far valere specificamente l’incolpevole mancata conoscenza dell’accusa portata a giudizio.

Se, in particolare, in caso di sentenza pronunciata in assenza, le nullità insanabili derivanti dall’omessa citazione dell’imputato e del suo difensore siano deducibili a norma dell’art. 670 cod. proc. pen., ovvero restino coperte dal giudicato, essendo piuttosto esperibile il rimedio rescissorio di cui all’art. 629-bis cod. proc. pen. allo scopo di far valere l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo».

2. I rapporti tra incidente di esecuzione e rescissione del giudicato: ambiti di applicazione e differenze.

Le Sezioni Unite analizzano in via preliminare il rapporto di possibile “interferenza” tra incidente di esecuzione (art. 670 cod. proc. pen.) e rimedio rescissorio (art. 629-bis cod. proc. pen.) nei casi in cui il condannato, dichiarato assente nel procedimento di cognizione, intenda dedurre la nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione a giudizio.

Dal dato testuale e dalla collocazione sistematica dell’art. 670 cod. proc. pen. nel libro X del codice di rito si rileva che l’incidente di esecuzione non può essere classificato come mezzo di imougnazione, in quanto presuppone l’irrevocabilità del provvedimento costituente titolo da porre in esecuzione. Il suo ambito applicativo è circoscritto alle questioni relative alla mancanza del titolo, intesa in senso materiale o giuridico, ovvero alla sua non esecutività.

L’inesistenza del titolo, al di là dei casi di mancanza in senso oggettivo-naturalistico, si ravvisa allorchè l’atto, per difetto di alcuni elementi strutturali che devono contraddistinguerlo, si pone totalmente fuori dal sistema, tanto da non essere ad esso riferibile ed assolutamente inidoneo a produrre un qualsiasi effetto sia nell’ambito che al di fuori del processo. Si tratta di forma di patologia radicale che travolge lo sbarramento del giudicato ed il principio di tassatività proprio delle nullità e, come tale, può essere rilevato in qualsiasi momento attraverso un’azione di accertamento, che compete al giudice dell’esecuzione (in tal senso, Sez. 6, n. 3683 del 4/01/2000, P.g. in proc. Rizzo ed altro, Rv. 21584401).

La “non eseguibilità" del titolo è da intendersi quale inidoneità materiale o giuridica del provvedimento ad essere posto in esecuzione. In linea generale, l’esecutività del provvedimento discende dalla sua irrevocabilità, salvo che non sia diversamente disposto. La correlazione tra irrevocabilità ed esecutorietà del provvedimento può difettare quando esso, sebbene definitivo sul piano formale a seguito della conclusione del procedimento penale per mancata proposizione dell’impugnazione nel termine prescritto o per l’avvenuto esperimento con esito negativo dei mezzi di impugnazione, contenga un comando giurisdizionale non realizzabile. Sulla distinzione tra autorità di cosa giudicata ed esecutività della decisione giudiziale le Sezioni Unite richiamano il proprio recente arresto (Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 28026102) che, in via di sintesi, dissocia il concetto di autorità di cosa giudicata dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato.

Le Sezioni Unite affermano in modo netto che la giurisprudenza della Corte «non ha mai ammesso che in sede di incidente di esecuzione possa attribuirsi rilievo a nullità endoprocedimentali che avrebbero dovuto essere fatte valere nel corso del giudizio di cognizione», ivi compresa la irregolare costituzione del rapporto processuale, che deve essere denunciata attivando i mezzi d’impugnazione nei confronti della decisione che definisce il grado e che, per derivazione, ne è a sua volta inficiata, restando, in difetto, sanati dall’irrevocabilità della decisione (sul punto, Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv. 26359801 hanno affermato che «le nullità, pur se assolute ed insanabili, trovano il loro limite preclusivo nel perfezionarsi del giudicato»).

All’analisi del dato testuale si associa la ricostruzione storica dei rapporti tra incidente di esecuzione, restituzione nel termine per impugnare e rescissione del giudicato, attraverso le modifiche introdotte all’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. dal d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito con modificazioni dalla legge 22 aprile 2005, n. 60 - che ha subordinato la restitutio in integrum dell’imputato alle sole due condizioni che questi ne facesse richiesta e che non avesse già volontariamente rinunciato a comparire o ad impugnare – e, soprattutto, in seguito alla abrogazione del giudizio contumaciale e sostituzione con il processo in assenza, disciplinato dalla legge 28 aprile 2014, n. 67.

In conformità alle indicazioni della Corte EDU volte a garantire l’equità del processo e ad assicurare che la mancata partecipazione dell’imputato ad esso sia oggetto di determinazione volontaria e consapevole, il procedimento “in assenza” è subordinato all’effettiva informazione sul contenuto dell’accusa, sulla pendenza del procedimento e sui tempi e luoghi della sua celebrazione. L’incertezza circa la conoscenza del procedimento ne comporta la sospensione e ne inibisce l’ulteriore corso, compresa la pronuncia della sentenza, sino al verificarsi di una delle ipotesi alternativamente previste dall’art. 420- quinquies cod. proc. pen. Il giudice della cognizione è tenuto a verificare la regolare costituzione delle parti e, quindi, la validità del procedimento notificatorio degli atti introduttivi ai sensi dell’art. 420, comma 2, cod. proc. pen., postulando l’intera configurazione normativa del processo in assenza l’acquisizione della certezza della conoscenza, da parte dell’imputato, dell’accusa elevata e della data di udienza (Sez. U, n. 23948 del 28/11/2019, dep. 2020, Ismail, Rv. 27942001).

Nella interpretazione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, Rv. 25999001) la rescissione del giudicato, dapprima disciplinato dall’art. 625-ter cod. proc. pen., poi sostituito dall’art. 629-bis cod. proc. pen., assume natura di mezzo di impugnazione straordinario e si pone quale strumento di chiusura del sistema del giudizio in assenza, dato che con essa è perseguito l’obiettivo del travolgimento del giudicato e dell’instaurazione ab initio del processo, quando si accerti la violazione dei diritti partecipativi dell’imputato. L’istituto della rescissione non si limita, come già previsto dall’art. 175 cod. proc. pen., a restituire nel termine per impugnare la sentenza emessa nel processo in cui l’imputato sia rimasto assente, ma garantisce la celebrazione di un nuovo giudizio, se la sua mancata partecipazione non sia stata volontaria.

Il sistema disegnato dagli artt. 420-bis, 604 e 629-bis cod. proc. pen. appresta tutela in tutti i casi in cui la mancata comparizione in giudizio dell’imputato non sia frutto di una scelta volontaria, conseguente alla rituale conoscenza del provvedimento di vocatio in iudicium (Sez. U., “Ismail”, cit.; Sez. 5, n. 31201 del 15/09/2020, Ramadze, Rv. 28013701).

Alla luce di tali considerazioni le Sezioni Unite individuano una chiara «differenza concettuale, finalistica e regolamentativa dei due istituti a confronto: l’incidente di esecuzione (art. 670 cod. proc. pen.); la rescissione del giudicato (art. 629-bis cod. proc. pen.). […] Il primo si pone quale istanza volta a sollecitare il controllo giurisdizionale sull’esecuzione, non è soggetto al rispetto di termini e di forme rigide di proposizione, a vincoli particolari di legittimazione e di contenuto, né impone oneri probatori all’istante ed è rimedio idoneo a paralizzare il corso del rapporto esecutivo, che può essere sospeso. Il secondo costituisce un’impugnazione straordinaria, ammessa in favore di una categoria specifica di legittimati, da presentare entro un termine perentorio e per ragioni specifiche e tassativamente delineate dalla norma processuale, attinenti al diritto dell’imputato di partecipare al processo, con onere di allegazione a carico del proponente e con l’effetto che, se accolto, la relativa decisione rimuove il giudicato e fa ripartire il processo dal primo grado, consentendo di formulare richiesta di ammissione di prove a discarico, di rinnovata acquisizione di prove già assunte e di accesso ai riti alternativi».

3. Limiti alla deducibilità “in executivis” delle nullità assolute ed insanabili verificatesi nel procedimento di cognizione.

Alla questione principale, riguardante la deducibilità ex art. 670 cod. proc. pen. delle nullità assolute ed insanabili relative alla citazione in giudizio verificatesi nel procedimento di cognizione, le Sezioni Unite hanno risposto valorizzando due argomenti. In primo luogo, si pone l’accento sulla differente natura giuridica dell’incidente di esecuzione e della rescissione del giudicato e sulla assenza di interferenza reciproca tra i due rimedi, tale da escludere che, mediante le contestazioni sul titolo esecutivo ex art. 670 cod. proc. pen., possano farsi valere nullità assolute verificatesi nella fase introduttiva del giudizio di cognizione, stante la preclusione derivante dall’irrevocabilità della decisione. In secondo luogo, si sottolinea che l’istituto della rescissione costituisce, secondo un’interpretazione logico-sistematica, rimedio straordinario di impugnazione che offre una forma di tutela all’imputato non presente fisicamente in udienza. Tale mezzo impugnatorio è idoneo a realizzare, in stretta correlazione con le previsioni dell’art. 420-bis cod. proc. pen., la reazione ripristinatoria del corretto corso del processo per situazioni di mancata partecipazione del soggetto accusato, in dipendenza dell’ignoranza incolpevole della celebrazione del processo stesso – non allo stesso imputabile, né come voluta diserzione delle udienze, né come colposa trascuratezza e negligenza nel seguirne il procedere – che non siano state intercettate e risolte in precedenza in sede di cognizione.

Ciò in linea con il richiamato orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, formatosi prima che fosse introdotto il processo in assenza, espresso dalla citata Sez. 1, “Esposito”, cui hanno dato continuità nel tempo Sez. 1, n. 12823 del 13/02/2020, Lozzi; Sez. 1, n. 3265 del 07/05/2019, dep. 2020, Kassimi; Sez. 1, n. 1812 del 17/12/2019, dep. 2020, Ahmetovic; Sez. 1, n. 10877 del 17/01/2020, Sallaku; Sez. 1, n. 31051 del 22/05/2018, Buzzo, che hanno escluso la rilevanza, ai fini della contestazione sulla valida formazione del titolo esecutivo, delle nullità relative alla assistenza del difensore ovvero alla notifica del decreto di fissazione di udienza presso il difensore domiciliatario ovvero ancora del vizio del consenso, prestato dall’imputato a definire il processo con sentenza di patteggiamento.

Nella specie, le Sezioni Unite hanno affermato il principio così massimato: «Le nullità assolute ed insanabili derivanti, in giudizio celebrato in assenza, dall’omessa citazione dell’imputato e/o del suo difensore, non sono deducibili mediante incidente di esecuzione, ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., in ragione dell’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza, salva restando la possibilità di far valere, attraverso la richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell’art. 629-bis cod. proc. pen., l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che si assuma derivata dalle nullità stesse.» (Rv. 280931-01).

A tale approdo si perviene valorizzando, in conformità con i principi costituzionali e convenzionali, la prospettiva ermeneutica che ritiene esperibile il rimedio di cui all’art. 629-bis a prescindere dalla correttezza degli accertamenti condotti in fase di cognizione per procedere in assenza, con la conseguenza che, al di fuori di ogni presunzione, anche l’imputato dichiarato assente nel rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 420-bis cod. proc. pen. è legittimato ad allegare l’ignoranza del processo a lui non imputabile. Tale interpretazione esclude la necessità del ricorso all’incidente di esecuzione per la tutela del pregiudizio subito per la mancata partecipazione al processo nei casi in cui la declaratoria di assenza sia stata preceduta da notificazioni dell’atto di citazione a giudizio inficiate da nullità assoluta, non rilevate nel processo di cognizione.

Ulteriore conforto è fornito dalla richiamata prospettiva teleologica che ricollega l’Istituto della rescissione alla (tutela delle situazioni di) mancanza di prova della reale conoscenza del processo da parte dell’imputato che non vi abbia presenziato, non ritenuta dal giudice per effetto di erronea considerazione degli atti processuali e del mancato rilievo di eventuali nullità realmente occorse (in tal senso, seppur in via incidentale, la citata Sez. U, “Ismail”). Si afferma, dunque, la piena compatibilità con le finalità del rimedio straordinario degli ampi poteri cognitivi del giudice della rescissione sulla effettiva conoscenza della celebrazione del processo.

Infine, le Sezioni Unite osservano che gli effetti di demolizione del giudicato e di rinnovazione del processo, propri della rescissione ex art. 629-bis cod. proc. pen. - certamente più ampi, nel recupero delle facoltà difensive, rispetto alla restituzione nel termine di cui all’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. ed alla declaratoria di ineseguibilità del titolo ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen. - garantiscono il pieno rispetto dell’art. 6 della Convenzione EDU, come interpretato da Corte EDU, Grande Camera, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia (§ 82), che esige che al soggetto condannato in assenza e rimasto privo di conoscenza della condanna sia consentito di ottenere che una giurisdizione statuisca nuovamente, dopo averlo sentito e nel rispetto dei diritti convenzionali, sul merito dell’accusa.

Le Sezioni Unite non si sottraggono ad una ricognizione del quadro sistemico delle garanzie a tutela dell’imputato non presente.

In tal senso, si individua un residuo margine applicativo dell’art. 670 cod. proc. pen quando si deducano vizi attinenti alla notificazione del decreto penale di condanna (cui si riferisce la disciplina di cui al comma 3 dell’art. 670, quale unica ipotesi per la quale ancora è contemplata la restituzione nel termine ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen.) ovvero di omessa o illegittima notificazione dell’avviso di ritardato deposito della sentenza ai sensi dell’art. 548, comma 2, cod. proc. pen., oltre a quelli di omessa o illegittima notificazione dell’estratto della sentenza di condanna, emessa nei confronti dell’imputato contumace, ex art. 548, comma 3, cod. proc. pen., per i procedimenti soggetti alla disciplina transitoria di cui all’art. 15-bis della legge 11 agosto 2014, n. 118. In tal modo si giustifica uno spazio di autonoma rilevanza e di utilità processuale in funzione della contestazione della non esecutorietà del titolo.

Resta ferma, infine, la possibilità di formulare istanza di restituzione nel termine per impugnare la sentenza di appello in ipotesi di caso fortuito o forza maggiore (art. 175, comma 1, cod. prod. pen.), che abbia impedito ad imputato e difensore di partecipare al processo di appello e di avere conoscenza della sentenza che l’aveva definito. Sul tema si richiama l’indirizzo di recente espresso da Sez. 5, n. 29884 del 15/09/2020, Nocera, Rv. 27973801, che ha ritenuto non esperibile il rimedio della rescissione del giudicato, perché l’assenza si era verificata soltanto in un grado e non per tutto il corso del processo.

4. L’esclusione della possibilità di riqualificare l’istanza di incidente di esecuzione in richiesta di rescissione del giudicato.

Al secondo quesito posto dal Collegio rimettente, riguardante la possibilità di riqualificare quale istanza di rescissione del giudicato la richiesta del condannato formulata ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., perché sia dichiarata la non esecutività della sentenza resa nei suoi confronti, le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa, affermando il principio di diritto, così massimato: «La richiesta di incidente di esecuzione non può essere riqualificata, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., come richiesta di rescissione del giudicato, attesa la eterogeneità, per natura e funzione, dei due rimedi» (Rv. 28093102).

La soluzione si fonda sulla eterogeneità dei due istituti in esame, per natura e funzione («i due rimedi differiscono per petitum e per effetti conseguibili…»), tale da escludere la riconducibilità dell’incidente di esecuzione alla categoria delle impugnazioni, cui, invece, appartiene la rescissione del giudicato. Ne deriva l’assenza di margine applicativo dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., che, per il suo chiaro tenore letterale, si riferisce alla sola «impugnazione» consentendone la conservazione, attraverso la corretta qualificazione giuridica dell’atto da parte del giudice competente, in ipotesi di erronea denominazione (in tal senso, Sez. U, n. 27 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 21521201; Sez. U., n. 45371 del 31/10/2001, Bonaventura, Rv. 22022101; Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, Rv. 25999001).

Nel privilegiare l’indirizzo giurisprudenziale largamente maggioritario (ex multis, Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, Hercules, Rv. 27084001), le Sezioni Unite osservano che già la citata Sez. U, “Burba”, sul piano generale aveva escluso ogni possibilità di riqualificare la richiesta di rescissione del giudicato come restituzione nel termine ed anche quale incidente di esecuzione, tenuto conto del differente oggetto giuridico dei rimedi in questione. Del resto, l’affermazione della natura latamente impugnatoria dell’incidente di esecuzione che fonda l’opposto orientamento, «assolutamente minoritario ed isolato» (Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti Manola, Rv. 27538001), non trova a sostegno in argomenti oggettivamente valutabili sul piano dogmatico e normativo.

In conclusione, sulla base della corretta ricostruzione dogmatica dei due istituti, si evidenzia che è improprio parlare non solo di riqualificazione, ma anche di conversione del mezzo d’impugnazione al di fuori dei casi previsti in via tassativa dal legislatore (ad esempio, ex artt. 580, 569, commi 2 e 3, cod. proc. pen.), quando non concorrano in via simultanea distinti rimedi impugnatori proposti per avversare uno stesso provvedimento giudiziale, ma sia stato esperito un unico strumento, potenzialmente riferibile a diversi modelli legali.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 3683 del 4/01/2000, P.g. in proc. Rizzo ed altro, Rv. 21584401

Sez. U, n. 27 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 21521201

Sez. U., n. 45371 del 31/10/2001, Bonaventura, Rv. 22022101

Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004, Condenni, Rv. 22958001

Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006, Santarelli, Rv. 23422401

Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008, Lasco, Rv. 23950901

Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008 dep. 2009, Baratta, Rv. 24279101

Sez. 1, n. 5880 del 11/12/2013, dep. 2014, Amore, Rv. 25876501

Sez. U, n. 36848 del 17/07/2014, Burba, Rv. 25999001

Sez. 3, n. 19006 del 14/01/2015, Lazar, Rv. 26351001

Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv. 26359801

Sez. 1, n. 23426 del 15/04/2015, Lahrac, Rv. 26379401

Sez. 1, n. 7430 del 17/01/2017, Canalini, Rv. 26922801

Sez. 6, n. 10000 del 14/02/2017, De Maio, Rv. 26966501

Sez. 1, n. 39321 del 18/07/2017, Hercules, Rv. 27084001

Sez. 1, n. 16958 del 23/02/2018, Esposito, Rv. 27260401

Sez. 1, n. 31051 del 22/05/2018, Buzzo

Sez. 5, n. 7818 del 27/11/2018, dep. 2019, Viti, Rv. 27538001

Sez. 1, n. 13647 del 12/02/2019, Triglia

Sez. 1, n. 48723 del 18/10/2019, Piccolo, Rv. 27782201

Sez. 1, n. 3265 del 07/05/2019, dep. 2020, Kassimi

Sez. 1, n. 1812 del 17/12/2019, dep. 2020, Ahmetovic

Sez. 1, n. 12823 del 13/02/2020, Lozzi

Sez. 1, n. 20989 del 23/06/2020, Barsotti, Rv. 27932002

Sez. U, n. 23948 del 28/11/2019, dep. 2020, Ismail, Rv. 27942001

Sez. 1, n. 10877 del 17/01/2020, Sallaku

Sez. 5, n. 29884 del 15/09/2020, Nocera, Rv. 27973801

Sez. 5, n. 31201 del 15/09/2020, Ramadze, Rv. 28013701

Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 28026102

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, Grande Camera, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE IV - PROCEDIMENTI SPECIALI

  • giudice
  • pubblico ministero
  • procedura penale
  • alleggerimento della pena

CAPITOLO I

IL PRINCIPIO DEVOLUTIVO E L’IMMODIFICABILITA’ DELLA PENA ILLEGALE DI FAVORE AD OPERA DEL GIUDICE DELL’IMPUGNAZIONE PROPOSTA DAL SOLO IMPUTATO: LE SEZIONI UNITE ACQUISTAPACE

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 Il contrasto risolto dalle Sezioni unite “Acquistapace”. - 2 La decisione delle Sezioni Unite - Indice delle sentenze citate

1. Il contrasto risolto dalle Sezioni unite “Acquistapace”.

Nell’anno in rassegna si registra un importante intervento delle Sezioni Unite penali della Corte in tema di principio devolutivo.

Con la sentenza “Acquistapace” (Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020 - dep.  2021 -, Rv. 280539) le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sulla questione relativa alla configurabilità o meno del potere del giudice d’appello, in caso di irrogazione in primo grado di una pena illegale vantaggiosa per l’imputato, di negare effetti di ulteriore favore, connessi all’accoglimento dell’impugnazione dell’imputato, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero.

Il principio di diritto espressamente enunciato in tale sentenza, coerentemente al tenore della specifica questione rimessa alle Sezioni Unite, afferma che: «Il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali, e sia di favore per l’imputato».

Tuttavia l’arresto in esame afferma principi di portata più generale rispetto alla fattispecie di accoglimento dell’appello del solo imputato per l’erronea applicazione della diminuente del rito abbreviato.

Il contrasto che si era registrato nella giurisprudenza della Corte atteneva, infatti, a fattispecie diverse da quella di cui al ricorso rimesso alle Sezioni Unite, e relative a casi esplicitamente riconducibili alle fattispecie previste dall’art. 597, comma 4, cod, proc. pen., secondo il quale «in ogni caso, se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita».

Un primo orientamento aveva sostenuto che l’applicazione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. presupponesse la determinazione della pena in misura non illegittimamente inferiore al minimo edittale (Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009; Sez. 4, n. 6966 del 20/11/2012, dep. 2013, Martinelli, Rv. 254538; Sez. 3, n. 7306 del 25/01/2007, Bougataya Assan, non mass. Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017, Pala, Rv. 271604), non potendo il divieto di reformatio in peius portare ad aggravare l’illegalità precedentemente commessa.

Un secondo orientamento (Sez. 5, n. 44088 del 09/05/2019, Dzemaili, Rv. 277845) aveva confutato tale interpretazione rilevandone il contrasto con il principio, affermato dalla stessa giurisprudenza della Corte, secondo cui «il giudice dell’impugnazione, in mancanza di uno specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, non può modificare la sentenza che abbia inflitto una pena illegale di maggior favore per il reo» (Sez.3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv 273677; Sez. 2, n. 30198 del 10/09/2020, Di Mauro, Rv. 279905).

2. La decisione delle Sezioni Unite

Le Sezioni unite hanno risolto il contrasto affermando il dovere del giudice d’appello, in caso di fondatezza dell’appello proposto dal solo imputato con riguardo a una componente del trattamento sanzionatorio, di ridurre la pena irrogata con la sentenza di primo grado, nonostante l’illegalità di favore di altra componente del medesimo trattamento non attinta da motivi di impugnazione, sulla base del principio devolutivo previsto dal comma 1 dell’art. 597 cod. proc. pen., nella sua duplice portata: negativa, nel senso del divieto di estendere la cognizione del giudice di appello a punti diversi da quelli oggetto dei motivi di impugnazione proposti; e positiva, nel senso di affermazione di un obbligo dello stesso giudice di provvedere sul contenuto del gravame.

L’interpretazione della norma di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. viene, invece, ritenuta non “direttamente risolutiva” della questione rimessa in quanto l’ipotesi dell’accoglimento dell’appello dell’imputato relativo al mancato riconoscimento della diminuente del rito abbreviato non è contemplata dalla lettera della disposizione.

Tuttavia le finalità dell’introduzione di tale norma nel sistema vengono ritenute confortare l’interpretazione prescelta dalle Sezioni Unite.

In particolare le Sezioni Unite, in linea di continuità con i principi affermati nella sentenza “Punzo” (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125) rilevano che il principio devolutivo «impone che, anche in materia di trattamento sanzionatorio, la cognizione del giudice di appello si eserciti unicamente sui punti relativi alle componenti di tale trattamento a cui si riferiscono specificamente i motivi di impugnazione proposti. Tanto, con riguardo al caso di specie, comporta che, una volta riconosciuta la fondatezza di un motivo di appello che lamenta l’illegittima riduzione della pena in misura inferiore a quella prevista dalla legge per la diminuente del rito abbreviato, il giudice di secondo grado debba limitarsi ad adottare le conseguenti determinazioni in ordine alla rideterminazione di tale riduzione nella misura corretta, omettendo di allargare la propria decisione ad altre componenti del trattamento sanzionatorio non investite dall’impugnazione».

In altri termini si ritiene che costituisca una «non consentita estensione della cognizione del giudice di appello» l’operazione che, nonostante la fondatezza dell’appello dell’imputato sull’erronea riduzione applicata per il rito, mantenga la pena complessiva nella dimensione stabilita con la sentenza appellata, in ragione di una ritenuta illegittimità in senso favorevole all’imputato della pena-base determinata in primo grado rispetto al limite minimo edittale: in tal modo, compensando di fatto la riduzione non applicata per la diminuente del rito con un corrispondente indiretto effetto di aumento della pena-base, la cognizione del giudice d’appello attingerebbe in senso sfavorevole all’imputato il tema della misura di quest’ultima e, quindi, un punto non devoluto con l’impugnazione.

D’altra parte alla immediata lettura del principio devolutivo in termini negativi, quale limite al potere di cognizione del giudice d’appello, si aggiunge un’altra lettura del medesimo principio in termini positivi, nel senso che esso pone un obbligo del giudice di provvedere sul contenuto del gravame, esaminando la questione dedotta con i motivi d’appello e, ove ritenuta fondata, adottando le conseguenti determinazioni.

La ratio di tale soluzione viene ritenuta confortata dalle finalità che hanno giustificato l’introduzione della previsione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., non direttamente applicabile al caso in esame, di cui la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha più volte sottolineato la portata integrativa e rafforzativa rispetto al generale divieto di reformatio in pejus di cui al precedente comma 3 della medesima disposizione, inteso come mero divieto di modifica della pena in senso peggiorativo per l’imputato, prevedendo: l’obbligo di diminuzione della pena, in termini corrispondenti all’accolto motivo di appello dell’imputato, anche quando l’impugnazione sia stata altresì proposta dal pubblico ministero (Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, P., Rv. 201034); il divieto di irrogazione, da parte del giudice di appello, di una pena più grave in mancanza di impugnazione del pubblico ministero; la doverosità della diminuzione della pena nelle ipotesi indicate (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066).

In ordine al significato effettivo della norma di cui al comma 4 dell’art. 597 cod. proc. pen., con particolare riguardo alla specificazione dei casi in cui ne è prevista l’operatività, viene richiamata la sentenza Sez. U, “Morales”, che, alla luce della Relazione preliminare al codice di procedura penale del 1988, aveva rilevato che il divieto di reformatio in pejus, sotto la vigenza del codice abrogato, veniva di fatto eluso da interpretazioni giurisprudenziali che lo consideravano riferibile unicamente alla pena complessivamente inflitta, consentendo di privare di conseguenze il proscioglimento dell’imputato da talune delle imputazioni contestate, l’esclusione di circostanze aggravanti o il riconoscimento di circostanze attenuanti, purchè detta pena non fosse aumentata.

La lettura logico-sistematica della previsione normativa, accompagnata dai lavori preparatori e dalla Relazione, consente alle Sezioni Unite di affermare che «il divieto di reformatio in pejus è norma, sì, eccezionale, rispetto al principio costituzionale di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.), ma che tale principio deve essere posto in bilanciamento con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., la cui pienezza ed effettività trova espressione (tra l’altro) nel diritto di proporre impugnazione. In questa prospettiva, quindi, l’accoglimento di censure validamente proposte mediante l’atto di impugnazione dell’imputato che lamenti l’inosservanza e la violazione di legge in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio (nel caso in esame la corretta entità della riduzione per il rito prevista per il reato contravvenzionale) non può essere neutralizzato da improprie forme di "compensazione" con altro punto ad esso inerente, quale l’erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice. In tal modo, infatti, oltre a violare le previsioni contenute nell’art. 597, commi 1 e 3, cod. proc. pen., si vanificherebbe l’effettività del diritto di difesa, che postula non solo l’accesso al mezzo di impugnazione, ma anche, a fronte di un motivo fondato ritualmente prospettato, un provvedimento giudiziale che offra reale risposta e concreto rimedio al vizio dedotto».

Peraltro l’ordinamento appresta, in situazioni analoghe, i fisiologici rimedi, attribuendo al pubblico ministero la facoltà di proporre impugnazione avverso una sentenza di condanna ad una pena che violi i minimi edittali, senza che la mancata iniziativa dell’organo funzionalmente competente possa essere surrogata da un intervento correttivo officioso del giudice di secondo grado, in quanto «si tradurrebbe, da un lato, nella non consentita estensione della cognizione oltre i limiti del tema devoluto, e, dall’altro, nella omissione del dovere di rispondere compiutamente al motivo di gravame proposto dall’imputato, dando piena attuazione alla richiesta con esso legittimamente dedotta».

Non pertinente viene ritenuto, infine, il richiamo, operato dal primo orientamento, ai poteri officiosi del giudice dell’impugnazione in presenza di una pena illegale, in quanto tali poteri sono stati riconosciuti dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento esclusivo ai casi in cui la sanzione applicata dal giudice sia di specie più grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati nella stessa, e ridondi, quindi, in senso sfavorevole all’imputato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995, P., Rv. 201034

Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, Morales, Rv. 232066

Sez. 3, n. 7306 del 25/01/2007, Bougataya Assan

Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009

Sez. 4, n. 6966 del 20/11/2012 - dep. 2013 -, Martinelli, Rv. 254538

Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125

Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017, Pala, Rv. 271604

Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018, Xhixha, Rv 273677;

Sez. 5, n. 44088 del 09/05/2019, Dzemaili, Rv. 277845

Sez. 2, n. 30198 del 10/09/2020, Di Mauro, Rv. 279905

Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020 - dep. 2021 -, Rv. 280539

  • giudice
  • procedura civile
  • procedura penale

CAPITOLO II

I RAPPORTI TRA PROCESSO PENALE PROCESSO CIVILE: LE SEZIONI UNITE CREMONINI E L’INDIVIDUAZIONE DEL GIUDICE DEL RINVIO IN CASO DI ANNULLAMENTO AI SOLI EFFETTI CIVILI; LA SENTENZA N. 182 DEL 2021 DELLA CORTE COSTITUZIONALE E LE REGOLE APPLICABILI NEL CASO DI CUI ALL’ART. 578 COD. PROC. PEN.

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 I contrasti risolti dalle Sezioni unite con la sentenza Cremonini. - 1.1 Il contrasto tra le sezioni civili e quelle penali della Corte attinente all’individuazione delle regole applicabili nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., e alla configurabilità o meno del potere della Corte di cassazione, nella sua articolazione penale, di porre vincoli al giudice civile del rinvio, con la sentenza di annullamento con rinvio a fini civili. - 1.2 Il contrasto, insorto tra le sezioni semplici della Corte di cassazione penale, in ordine all’individuazione del giudice (civile o penale) del rinvio, in conseguenza dell’annullamento ai fini civili della sentenza impugnata. - 2 I principi affermati dalle Sezioni unite. - 3 La sentenza n. 182 del 2021 della Corte costituzionale in tema di rapporti tra azione civile esercitata nel processo penale e poteri cognitivi del giudice penale. - Indice delle sentenze citate

1. I contrasti risolti dalle Sezioni unite con la sentenza Cremonini.

Nell’anno in rassegna si registra un importante intervento delle Sezioni unite penali della Corte in tema di rapporti tra processo civile e processo penale.

Con la sentenza Cremonini (Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228) le Sezioni Unite hanno risolto non soltanto il contrasto, insorto tra le sezioni semplici della Corte di cassazione penale, in ordine all’individuazione del giudice (civile o penale) del rinvio, in conseguenza dell’ annullamento ai fini civili della sentenza impugnata, irrevocabile agli effetti penali, ma anche un precedente contrasto di fatto apertosi tra le sezioni penali e quelle civili della Corte di cassazione in ordine alle regole applicabili al giudizio di rinvio innanzi al «giudice civile competente per valore in grado d’appello» ex art. 622 cod. proc. pen.

1.1. Il contrasto tra le sezioni civili e quelle penali della Corte attinente all’individuazione delle regole applicabili nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., e alla configurabilità o meno del potere della Corte di cassazione, nella sua articolazione penale, di porre vincoli al giudice civile del rinvio, con la sentenza di annullamento con rinvio a fini civili.

In epoca precedente all’insorgenza del contrasto, nell’ambito delle sezioni semplici della articolazione penale della Corte, in ordine all’individuazione del giudice (civile o penale) del rinvio, in caso di annullamento ai soli effetti civili, della sentenza penale si era, infatti, registrato un contrasto tra le sezioni civili e quelle penali della Corte attinente all’individuazione delle regole applicabili nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., e alla configurabilità o meno del potere della Corte di cassazione, nella sua articolazione penale, di porre vincoli al giudice civile del rinvio, con la sentenza di annullamento con rinvio a fini civili.

Alcune sentenze penali della Corte - presupponendo, verosimilmente, una configurazione del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. come fase rescissoria dell’impugnazione definita con l’annullamento delle statuizioni civili della sentenza penale o con l’accoglimento dell’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento - avevano ritenuto che nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., il giudice civile fosse tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità secondo i parametri e le regole probatorie del giudizio penale, e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile (Sez. 4 , n. 412 del 16/11/2018 -dep.  2019-, De Santis, Rv. 274831; Sez.4, n. 5898 del 17/01/2019, Borsi, Rv. 275266; Sez. 4 , n. 5901 del 18/01/2019, Oliva, Rv. 275122; Sez 4, n. 43896 del 8/02/2018, Luvaro, 274223-02; Sez. 4, n. 45786 dell’11/10/2016, Assaiante, Rv. 268517; Sez. 4, n. 34878 dell’8/06/ 2017, Soriano, Rv. 271065; Sez. 4, n. 27045 del 04/02/2016, Di Flaviano, Rv. 267730; Sez. 4, n. 11193, del 10/02/2015, Cortesi, Rv. 262708).

Inoltre, tali pronunce, nel disporre l’annullamento agli effetti civili, con rinvio al giudice civile, avevano enunciato il principio di diritto cui quest’ultimo avrebbe dovuto uniformarsi nella prosecuzione, in sede civile, del giudizio; statuendo, in alcuni casi, che il giudice civile accertasse la sussistenza del nesso causale secondo il criterio penalistico dell’«alto o elevato grado di credibilità razionale» in luogo di quello civilistico del «più probabile che non», (Sez. 4, n. 11193, del 10/02/2015, Cortesi, Rv. 262708; Sez. 4, n. 27045 del 04/02/2016, Di Flaviano, Rv. 267730; Sez.4, n. 5898 del 17/01/2019, Borsi, Rv. 275266; Sez. 4 , n. 5901 del 18/01/2019, Oliva, Rv. 275122); in altri casi che il giudice civile, attenendosi ai principî affermati dalla corte di Strasburgo e dalle Sezioni Unite, “Patalano” (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787) e “Dasgupta” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267489), dovesse procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa (Sez. 4, n. 45786 dell’11/10/2016, Assaiante, Rv. 268517; Sez. 4, n. 34878 dell’8/06/ 2017, Soriano, Rv. 271065); in altri ancora che nel giudizio civile di rinvio non fosse utilizzabile la «prova inutilizzabile nel processo penale, perché assunta in violazione di un espresso divieto probatorio» (Sez 4, n. 43896 del 8/02/2018, Luvaro, 274223-02); ed infine che anche nel giudizio civile di rinvio fossero applicabili gli artt. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 e 590-sexies cod. pen., introdotto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (Sez. 4 , n. 412 del 16/11/2018 - dep.  2019-, De Santis, Rv. 274831).

A tali interventi dell’articolazione penale della Corte avevano “reagito” una serie di sentenze della Terza sezione civile - pronunciatesi su ricorsi avverso sentenze del giudice civile competente per valore in grado d’appello al quale la Corte di cassazione penale aveva rinviato il giudizio a seguito di annullamento ai fini civili - che, configurando il giudizio “di rinvio” ex art. 622 cod. proc. pen. come autonomo da quello svoltosi in sede penale (ed escludendo che costituisse la fase rescissoria dell’impugnazione svoltasi davanti all’articolazione penale della Corte di cassazione), avevano affermato l’applicabilità in esso delle regole processuali civili, anche probatorie e di giudizio, ed escluso che la Corte di cassazione penale, in sede di annullamento con rinvio ai sensi della disposizione citata, avesse il potere di stabilire quali fossero le regole e le forme da applicare davanti al giudice civile del rinvio, con conseguente inefficacia dell’eventuale principio di diritto enunciato (Sez. 3, n. 517 del 15/01/2020, Rv. 656811; Sez. 3, n. 25918 del 15/10/2019, Rv. 655377; Sez. 3, n. 25917 del 15/10/2019, Rv. 655376; Sez. 3, n. 22729 del 12/09/2019, Rv. 655473; Sez. 3, n. 22520 del 10/09/2019, non mass.; Sez. 3, n. 22519 del 10/09/2019, non mass.; Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433; Sez. 3, n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290).

Richiamando la diversa funzione svolta dalla responsabilità civile rispetto alla responsabilità penale, che comporta la necessaria diversità delle regole applicabili, e i principi della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali, della separazione e dell’autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, la Terza sezione civile della Corte aveva ritenuto che con l’irrevocabilità della sentenza agli effetti penali venisse meno la giustificazione delle deroghe, previste dal codice di procedura penale, alle modalità di istruzione e accertamento dell’azione civile esercitata nel processo penale, ragionevoli, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, solo se e in quanto dipendenti dalle finalità tipiche del processo penale.

La giustificazione di tali deroghe è, infatti, individuata nel necessario collegamento, stabilito dall’art. 538 cod. proc. pen., tra la decisione sulla domanda della parte civile e la condanna dell’imputato e, in fase di impugnazione, nel potenziale persistere del conflitto sui capi penali, o nella circostanza che si tratta di una «decisione comunque emessa da un giudice penale, su un’impugnazione proposta avverso una sentenza penale e nel corso di un processo penale».

Con il passaggio in giudicato della sentenza penale, secondo tali pronunce, venendo meno le ragioni che avevano originariamente giustificato il sacrificio dell’azione civile alle ragioni dell’accertamento penale, si realizza «la definitiva scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la restituzione dell’azione civile - con il giudizio di ‘rinvio’, che più opportunamente andrebbe definito di rimessione - all’organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente”, e viene “rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato)».

Si era così aperto un contrasto tra le sezioni civili e quelle penali della Corte attinente non soltanto all’individuazione delle regole (di giudizio e probatorie, civili o penali) applicabili nel giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., ma, altresì, alla configurabilità o meno del potere della Corte di cassazione, nella sua articolazione penale, di formulare principi di diritto o comunque porre vincoli al giudice civile del rinvio, con la sentenza di annullamento con rinvio a fini civili.

1.2. Il contrasto, insorto tra le sezioni semplici della Corte di cassazione penale, in ordine all’individuazione del giudice (civile o penale) del rinvio, in conseguenza dell’annullamento ai fini civili della sentenza impugnata.

In tale situazione, una parte della giurisprudenza penale di legittimità - in linea di continuità con il dictum delle Sezioni Unite, “Sciortino” (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087) - aveva continuato a ritenere applicabile l’art. 622 cod. proc. pen. anche nei casi in cui il processo penale non si fosse concluso con un definitivo accertamento della responsabilità dell’imputato; smettendo, però, di enunciare, nella sentenza di annullamento, principi di diritto, e/o di porre esplicitamente vincoli implicanti l’applicazione da parte del giudice civile del rinvio delle regole probatorie o di giudizio penali (Sez. 4 n. 13869 del 05/02/2020, Sassi, Rv. 278761; Sez. 1 n. 14822 del 20/02/2020, Milanesi, Rv. 278943; Sez. 5, n. 28848 del 21.09.2020, D’Alessandro, Rv. 279599: tutte di annullamento per vizio di motivazione relativamente alla responsabilità, in punto di nesso causale; Sez. 5, n. 16988 del 18/02/2020, Novella, non mass; Sez. 5, n. 26217 del 13/07/2020, G., Rv. 279598; Sez. 5, n. 27565 del 21.09 2020, Piccoli, non mass.: tutte di annullamento per mancata rinnovazione di prova dichiarativa decisiva).

Un contrapposto orientamento della giurisprudenza penale di legittimità aveva, invece, iniziato a sviluppare un’interpretazione restrittiva dell’art. 622 cod. proc. pen., che ne escludeva l’applicabilità nel caso in cui nel processo penale non fosse stato definitivamente compiuto, anche agli effetti civili, l’accertamento relativo all’an della responsabilità, stante l’esigenza dell’applicazione delle regole processuali penali, nel prosieguo del giudizio, avente ad oggetto l’an del diritto al risarcimento del danno esercitato nel processo penale, avendo l’imputato improntato la sua strategia difensiva, anche in relazione all’azione civile esercitata nel processo penale, secondo lo statuto processuale penale, e la presa d’atto che, dopo l’intervento delle pronunce della Terza Sezione civile sopra citate, tali regole non erano applicabili nel giudizio di rinvio innanzi al giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen.

Nella giurisprudenza di legittimità si erano, pertanto, iniziati a registrare dei casi di annullamento dei capi civili della sentenza penale nei quali, nonostante l’irrevocabilità della sentenza agli effetti penali, la Corte disponeva il rinvio davanti al giudice penale (Sez. 6, n. 28215 del 25.09.2020, V., Rv. 279574; Sez. 4, n. 11958 del 13/02/2020, Vianello, Rv. 278746; Sez. 4, n. 12174 del 25/02/2020, Piali, non. mass.; Sez. 2, n. 9542 del 19/02/2020, G., Rv. 278589; Sez. 3, n. 142299 del 9/01/2020, H., Rv. 278762: tutte relative ad ipotesi di annullamento per la mancata rinnovazione della prova dichiarativa; Sez. 2, n. 8935 del 21/01/2020, Pulcrano, Rv. 278588, relativa ad un caso di annullamento della sentenza impugnata in ragione dell’illegittima dichiarazione dell’inammissibilità dell’impugnazione avverso la condanna di primo grado; Sez. 4 n. 2242 del 22/10/2019 – dep. 2020 –, D., Rv 278029: relativa all’annullamento ai soli effetti civili nei confronti di un imputato e annullamento con rinvio anche agli effetti penali nei confronti del coimputato rinunziante alla prescrizione) o annullava senza rinvio (Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019, De Angelis, Rv. 277285; Sez. 2, n. 18182 del 06/02/2020, S., Rv. 279431).

2. I principi affermati dalle Sezioni unite.

Con la sentenza “Cremonini” le Sezioni unite penali – dopo aver risolto positivamente, in forza del principio del giusto processo, di cui il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio costituisce un corollario, la questione circa la configurabilità dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel caso in cui il giudice d’appello riformi, anche su impugnazione della sola parte civile e ai soli effetti civili, la sentenza di proscioglimento di primo grado, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa - hanno espressamente enunciato, ai sensi dell’art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., il principio di diritto secondo cui «in caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di Cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello», così risolvendo il contrasto che si era aperto nella giurisprudenza penale della Corte in ordine all’individuazione del giudice del rinvio in tale specifica ipotesi.

Tuttavia, la sentenza esprime principi di portata più generale, in quanto le Sezioni unite sono addivenute alla decisione ripudiando l’interpretazione restrittiva dell’art. 622 cod. proc. pen., espressa da uno degli orientamenti in contrasto, ed hanno affermato che la norma «si riferisce senza eccezione ai casi di annullamento di capi o disposizioni riguardanti la responsabilità civile», ritenendo che la formulazione del suo incipit («fermi gli effetti penali della sentenza») stia a significare «che tutto ciò che riguarda il versante penale del fatto non può più essere posto in discussione» e ravvisando la ratio dell’art. 622 cod. proc. pen. «in linea con la richiamata autonomia e separatezza dell’azione civile, nella volontà di escludere la perdurante attrazione delle pretese civili nel processo penale una volta che siano definitive le statuizioni di carattere penale».

Le Sezioni unite hanno così dato un’interpretazione della disposizione di cui all’art. 622 cod. proc. pen. che la rende applicabile in tutti i casi di annullamento agli effetti civili di una sentenza divenuta irrevocabile agli effetti penali, anche se nel processo penale non sia stato definitivamente compiuto l’accertamento relativo all’an della responsabilità, e anche ove l’annullamento dipenda da vizi della sentenza impugnata diversi quello derivante dall’omessa rinnovazione di una prova dichiarativa decisiva.

Le Sezioni unite penali ritengono, infatti, che «la definitività e l’intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell’imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l’azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell’imputato, provoca il definitivo dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell’azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento. Con l’esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell’attrazione dell’illecito civile nell’ambito della competenza del giudice penale, risulta coerente con l’assetto normativo interdisciplinare sopra descritto che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell’illecito aquiliano, dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima».

D’altra parte, nell’ambito dell’interpretazione della disposizione di cui all’art. 622 cod. proc. pen., le Sezioni unite penali, aderendo alla tesi espressa dalle citate sentenze della Terza Sezione civile circa l’autonomia, strutturale e funzionale, del giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen., hanno espressamente escluso la configurabilità del potere della articolazione penale della Corte di enunciare, nella sentenza di annullamento, principi di diritto vincolanti per il giudice del rinvio, così determinando il superamento del contrasto che si era aperto tra una parte della giurisprudenza penale e quella civile di legittimità.

3. La sentenza n. 182 del 2021 della Corte costituzionale in tema di rapporti tra azione civile esercitata nel processo penale e poteri cognitivi del giudice penale.

Dopo il deposito della sentenza “Cremonini” è intervenuta un’importante pronuncia della Consulta in tema di rapporti tra azione civile esercitata nel processo penale e poteri cognitivi del giudice penale.

Con la sentenza n. 182 del 2021 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 578 cod. proc. pen. sollevate per contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 11 Cost. in relazione al principio della presunzione di innocenza operante nell’ambito dell’ordinamento sia convenzionale (art. 6, paragrafo 2, CEDU), sia europeo (art. 48 CDFUE, unitamente agli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE), il quale vieta che la persona, accusata di aver commesso un reato e sottoposta ad un procedimento penale conclusosi con proscioglimento (in rito o in merito), possa poi essere trattata dalle pubbliche autorità come se fosse colpevole del reato precedentemente contestatole.

La questione era stata sollevata avuto riguardo al “diritto vivente” risultante, tra l’altro, dalle sentenze delle Sezioni Unite “Tettamanti” (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275), “Sciortino” (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087) e “Milanesi” (Sez. U, n. 6141 del 25/10/2018 - dep. 2019 -, Milanesi, Rv. 274627) secondo cui il giudice penale, allorquando riscontrando una causa estintiva del reato, confermi le statuizioni civili della sentenza di primo grado, accerta, sia pure incidentalmente, la responsabilità penale dell’imputato.

3.1. Dopo avere ribadito che, nel sistema risultante dal codice di rito vigente, l’assetto delle relazioni tra processo civile e processo penale è informato ai principi dell’autonomia e della separazione (a differenza di quello delineato dal codice del 1930 improntato ai principi di unitarietà della funzione giurisdizionale e di preminenza della giurisdizione penale), non trovando più applicazione la regola della cosiddetta pregiudizialità penale né quella dell’efficacia preclusiva della sentenza penale di assoluzione del giudizio civile di danno, il Giudice delle Leggi ha rilevato che, allorquando la domanda risarcitoria venga proposta con la costituzione di parte civile nel processo penale, i rapporti tra azione civile e poteri cognitivi del giudice penale continuano ad essere informati, anche nel sistema accolto nel codice vigente, al principio dell’“accessorietà” dell’azione civile rispetto a quella penale.

Tale principio di accessorietà - che ha fondamento nelle «esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi», e quale naturale implicazione quella per cui l’azione civile, ove esercitata all’interno del processo penale, «è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura» di questo processo - trova la sua principale espressione nella regola di cui all’art. 538 cod. proc. pen., secondo la quale il giudice penale «decide» sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta con la costituzione di parte civile, «quando pronuncia sentenza di condanna», mentre se emette sentenza di proscioglimento, tanto in rito quanto nel merito, non deve provvedere sulla domanda civile.

Questa regola generale subisce delle deroghe nei gradi di impugnazione, a tutela del diritto di azione della parte civile perché norme particolari (artt. 576, 578 e 622 cod. proc. pen.) attribuiscono al giudice del gravame o al giudice del rinvio in seguito ad annullamento, il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur in presenza di una pronuncia di proscioglimento e quindi in assenza dell’accertamento della responsabilità penale.

In particolare, in ordine all’art. 576 cod. proc. pen. la Corte costituzionale richiama la propria precedente sentenza n. 176 del 2019 con la quale è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale di tale norma, con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui prevede che la parte civile debba proporre l’impugnazione ai soli effetti civili della sentenza di proscioglimento davanti al giudice penale anziché al giudice civile, ribadendo che «l’attribuzione alla parte civile della facoltà di impugnare, ai soli effetti civili, la sentenza di proscioglimento davanti al giudice penale non è irragionevole, avuto riguardo, sotto il profilo formale, alla circostanza che, “essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processualpenalistiche, anche il giudizio d’appello è devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito”; e, tenuto conto, sotto il profilo sostanziale, del rilievo che tale giudice, “lungi dall’essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell’imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado”».

Quanto all’art. 578 cod. proc. pen. la Consulta rileva che la norma «mira a soddisfare un’analoga esigenza di tutela della parte civile; quella che, quando il processo penale ha superato il primo grado ed è nella fase dell’impugnazione, una risposta di giustizia sia assicurata, in quella stessa sede, alle pretese risarcitorie o restitutorie della parte civile anche quando non possa più esserci un accertamento della responsabilità penale dell’imputato ove questa risulti riconosciuta in una sentenza di condanna, impugnata e destinata ad essere riformata o annullata per essere, nelle more, estinto il reato per prescrizione». Con tale norma «il legislatore ha voluto evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna, oggetto di impugnazione; finalità questa che si coniuga alla necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione».

Infine, rileva che, secondo quanto previsto dall’art. 622 cod. proc. pen., «nel giudizio di cassazione, se gli effetti penali della sentenza di merito sono ormai cristallizzati per essersi formato il giudicato sui relativi capi, la cognizione sulla pretesa risarcitoria e restitutoria si scinde dalla statuizione sulla responsabilità penale e viene compiuta, in sede rescindente, dal giudice di legittimità e, in sede rescissoria, dal giudice civile di merito competente per valore in grado di appello, all’esito di rinvio».

Tale norma, in ossequio all’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità, è applicabile non solo ai casi in cui la responsabilità penale sia stata definitivamente accertata con esito positivo e l’annullamento disposto solo per le statuizioni civili censurate dall’imputato ai sensi dell’art. 574 cod. proc. pen., ma anche ai casi di annullamento delle statuizioni civili rese dal giudice di appello all’esito dell’applicazione dell’art. 576 e dell’art. 578 cod. proc. pen.; inoltre, il rinvio al giudice civile, a seguito dell’annullamento delle statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata per cassazione, va disposto non solo allorché il giudizio assuma carattere meramente “prosecutorio”, ma anche quando assuma carattere “restitutorio”.

D’altra parte le Sezioni unite penali hanno statuito che nel giudizio rescissorio di “rinvio” dinanzi al giudice civile, avente in realtà natura di autonomo giudizio civile (non vincolato dal principio di diritto eventualmente enunciato dal giudice penale di legittimità in sede rescindente), trovano applicazione le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e che l’accertamento richiesto al giudice del “rinvio” ha ad oggetto gli elementi costitutivi dell’illecito civile, prescindendosi da ogni apprezzamento, sia pure incidentale, sulla responsabilità penale dell’imputato.

3.2. Svolta tale premessa, la Consulta, entrando nel merito della questione, rileva che viene in gioco la tutela della presunzione di innocenza al di fuori e dopo la conclusione del processo penale, allorquando penda un altro procedimento - legato a quello penale, conclusosi con l’assoluzione o con l’interruzione - all’esito del quale una pubblica autorità è chiamata ad assumere un nuovo provvedimento nei confronti della stessa persona.

Tale aspetto della presunzione di innocenza, che travalica la portata di garanzia endoprocessuale, secondo l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo - in fattispecie in cui, concluso il procedimento penale con un proscioglimento in merito (assoluzione) o in rito (interruzione), era residuata la necessità di provvedere sulla domanda civile di risarcimento del danno proposta nei confronti dell’imputato - comporta «una limitazione ai poteri cognitivi e dichiarativi dell’autorità investita del nuovo procedimento non avente natura penale. Questa autorità, infatti, non può emettere provvedimenti che presuppongano un giudizio di colpevolezza o che siano fondati su un nuovo apprezzamento della responsabilità penale della persona in ordine al reato precedentemente contestatole (ancora Corte EDU, sentenze Allen contro Regno Unito e Pasquini contro Repubblica di San Marino)».

La Corte europea ha altresì sottolineato che l’applicazione del diritto alla presunzione di innocenza in favore dell’imputato, che tutela anche la reputazione della persona, non deve ridondare a danno del diritto del danneggiato ad ottenere il risarcimento del pregiudizio cagionatogli dal reato, ammonendo, tuttavia, «se la decisione nazionale sul risarcimento dovesse contenere una dichiarazione che imputa la responsabilità penale alla parte convenuta, ciò solleverebbe una questione che rientra nell’ambito dell’articolo 6 [paragrafo] 2 della Convenzione» (Corte EDU, Pasquini contro Repubblica di San Marino).

In quest’ultima pronuncia la ritenuta violazione dell’art. 6, paragrafo 2, CEDU è stata affermata in una fattispecie in cui nel giudizio di appello nei confronti di un imputato condannato in primo grado per appropriazione indebita, con risarcimento del danno in favore della parte civile, il giudice, dopo aver dichiarato non doversi procedere per prescrizione del reato, nel provvedere sull’impugnazione ai soli effetti civili, non aveva contenuto l’accertamento nei limiti cognitivi e dichiarativi imposti dalla necessità di rispettare il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza, spingendosi a dichiarare, tra l’altro, sia pure al solo fine di confermare la condanna risarcitoria, che le condotte ascritte all’imputato, da ritenersi provate, integravano gli estremi del reato contestatogli.

Quanto al significato e alla portata della presunzione di innocenza nell’ordinamento europeo la Consulta ha rilevato la sovrapponibilità a quelli che il medesimo principio assume nell’ordinamento convenzionale, non potendo l’ordinamento dell’Unione riconoscere una protezione che sia meno estesa (art. 52, comma 3, CDFUE), e richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia secondo cui ai fini dell’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2016/343», occorre ispirarsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 6, paragrafo 2, CEDU (Corte di giustizia, sentenza 5 settembre 2019, in causa C-377/18).

3.3. Così ricostruita la portata della presunzione di innocenza nell’ordinamento convenzionale e in quello europeo la Consulta ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 cod. proc. pen., escludendo che il giudice dell’impugnazione che dichiari l’estinzione del reato per prescrizione sia chiamato a formulare, sia pure “incidenter tantum”, un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili.

Tale giudizio non viene, infatti, richiesto dal tenore testuale della disposizione censurata (art. 578 cod. proc. pen.) che, a differenza di quella immediatamente successiva (art. 578-bis cod. proc. pen.) relativa a provvedimenti aventi natura punitiva secondo la giurisprudenza di Strasburgo, non prevede il «previo accertamento della responsabilità dell’imputato».

D’altra parte, la Consulta ha rilevato che tale interpretazione non trova ostacolo nel diritto vivente relativo sia ai rapporti tra l’immediata declaratoria delle cause di non punibilità e l’assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova (artt. 129 e 530, comma 2, cod. proc. pen.) per come riconosciuti dalle Sezioni Unite “Tettamanti”, sia all’individuazione del giudice competente per il giudizio di rinvio in seguito a cassazione delle statuizioni civili (art. 622 cod. proc. pen. per come interpretato dalle Sezioni Unite con le sentenze “Sciortino” e “Cremonini”), sia all’impugnabilità con revisione (art. 630, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.) della sentenza del giudice di appello di conferma della condanna risarcitoria in seguito a proscioglimento dell’imputato per prescrizione del reato, affermata dalle Sezioni Unite, “Milanesi”.

Da una parte, il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite “Tettamanti” - secondo cui, in deroga alla regola generale, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta l’estinzione del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili – secondo la Consulta « presuppone, per un verso, il carattere “pieno” o “integrale” della cognizione del giudice dell’impugnazione penale (il quale non può limitarsi a confermare o riformare immotivatamente le statuizioni civili emesse in primo grado, ma deve esaminare compiutamente i motivi di gravame sottopostigli, avuto riguardo al compendio probatorio e dandone poi conto in motivazione)» ma «non presuppone (né implica) che il giudice, nel conoscere della domanda civile, debba altresì formulare, esplicitamente o meno, un giudizio sulla colpevolezza dell’imputato e debba effettuare un accertamento, principale o incidentale, sulla sua responsabilità penale, ben potendo contenere l’apprezzamento richiestogli entro i confini della responsabilità civile ».

Dall’altra parte viene valorizzato che con la sentenza “Sciortino” è stato affermato che in conseguenza del rilievo del vizio di motivazione che infici la sentenza del giudice d’appello emessa ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. «il rinvio debba essere fatto sempre al giudice civile e non al giudice penale, in applicazione dell’art. 622 cod. proc. pen., proprio in ragione, non già del mancato accertamento incidentale della responsabilità penale dell’imputato, ma dell’omesso esame dei motivi di gravame, ove la condanna risarcitoria confermata dal giudice di appello sia fondata sul mero presupposto della “non evidente estraneità” dell’imputato ai fatti di reato contestatigli».

Secondo la Consulta, quindi, la cognizione del giudice dell’impugnazione penale, ex art. 578 cod. proc. pen., è funzionale alla conferma delle statuizioni civili, attraverso il completo esame dei motivi di impugnazione volto all’accertamento dei requisiti costitutivi dell’illecito civile posto a fondamento della obbligazione risarcitoria o restitutoria. Il giudice penale dell’impugnazione è chiamato ad accertare i presupposti dell’illecito civile e nient’affatto la responsabilità penale dell’imputato, ormai prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione.

Infine, non osta a tale conclusione l’ammissibilità della revisione della sentenza di condanna al risarcimento del danno ex art. 578 cod. proc. pen. affermata dalle Sezioni unite, “Milanesi”, in quanto viene ritenuta dal Giudice delle Leggi «conseguenza dell’ibridazione delle regole processuali che rimangono quelle del rito penale anche quando nel giudizio residua soltanto una domanda civilistica in ordine alla quale si è pronunciato il giudice dell’impugnazione ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. (in generale, sentenza n. 176 del 2019). Ma dall’applicazione delle regole di rito non può inferirsi che il giudice della revisione ex art. 630 cod. proc. pen., non diversamente dal giudice d’appello o di cassazione ex art. 578 cod. proc. pen., debba pronunciarsi sulla responsabilità penale di chi è stato definitivamente prosciolto. La responsabilità, oggetto della cognizione del giudice, è pur sempre quella da atto illecito ex art. 2043 del codice civile».

Escluso ogni ostacolo sia nel dato testuale della disposizione censurata, sia nel diritto vivente risultante dalla giurisprudenza di legittimità, la Consulta procede a un’interpretazione conforme agli indicati parametri interposti, secondo la quale il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano, sulla base di un accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell’illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell’imputato per il reato estinto.

La differenza dell’accertamento di natura civilistica richiesto dalla disposizione censurata al giudice penale dell’impugnazione, quanto alle pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile, rispetto all’(ormai precluso) accertamento della responsabilità penale, emerge riguardo sia al nesso causale, sia all’elemento soggettivo dell’illecito.

Il giudice, in particolare, non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all’evento in base alla regola dell’«alto grado di probabilità logica» bensì in base al criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente” «che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell’ipotesi contraria».

D’altra parte, secondo la Consulta, l’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile non è revocata in dubbio dalla circostanza che esso si svolga dinanzi al giudice penale e sia condotto applicando le regole processuali e probatorie del processo penale (art. 573 cod. proc. pen.): «L’applicazione dello statuto della prova penale è pieno e concerne sia i mezzi di prova (sarà così ammissibile e utilizzabile, ad esempio, la testimonianza della persona offesa che nel processo civile sarebbe interdetta dall’art. 246 cod. proc. civ.), sia le modalità di assunzione della prova (le prove costituende saranno così assunte per cross examination ex art. 499 cod. proc. pen. e non per interrogatorio diretto del giudice), le quali ricalcheranno pedissequamente quelle da osservare nell’accertamento della responsabilità penale: ove ne ricorrano i presupposti, dunque, il giudice dell’appello penale, rilevata l’estinzione del reato, potrà – o talora dovrà – procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili (art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.)».

Tale interpretazione secondo il giudice delle leggi assicura all’imputato che la sua responsabilità penale non sia più rimessa in discussione, e alla parte civile il pieno accertamento dell’obbligazione risarcitoria.

3.4. L’applicazione dei principi affermati dalla Corte costituzionale in ordine alle regole applicabili all’azione civile esercitata nel processo penale allorquando nel processo di impugnazione debba essere dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia sembra essere soggetta a termine.

Infatti, la legge 27 settembre 2021 n. 134, nell’introdurre l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, con l’art. 2, comma 2, lett. b), ha dettato una norma immediatamente precettiva che va a modificare l’art. 578 mediante l’introduzione del comma 1-bis secondo cui «Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344 bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale».

La medesima legge, inoltre, con l’art. 1, comma 13, lett. d) ha dettato un principio e criterio direttivo che prevede che, nell’esercizio della delega, siano disciplinati i rapporti tra tale improcedibilità e l’azione civile esercitata nel processo penale, e conseguentemente adeguata la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili, assicurando una regolamentazione coerente della materia.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione – sezioni penali

Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275

Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087

Sez. 4, n. 11193, del 10 /02/2015, Cortesi, Rv. 262708

Sez. 4, n. 27045 del 04/02/2016, Di Flaviano, Rv. 267730

Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267489

Sez. 4, n. 45786 dell’11/10/2016, Assaiante, Rv. 268517

Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787

Sez. 4, dell’8/06/2017, n. 34878, Soriano, Rv. 271065

Sez. 4, n. 43896 del 8/02/2018, Luvaro, 274223-02

Sez. U, n. 6141 del 25/10/2018 - dep. 2019 -, Milanesi, Rv. 274627

Sez. 4, n. 412 del 16/11/2018 -dep. 2019-, De Santis, Rv. 274831

Sez. 4, n. 5898 del 17/01/2019, Borsi, Rv. 275266

Sez. 4, n. 5901 del 18/01/2019, Oliva, Rv. 275122

Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019, De Angelis, Rv. 277285

Sez. 3, n. 142299 del 9/01/2020, H., Rv. 278762

Sez. 2, n. 8935 del 21/01/2020, Pulcrano, Rv. 278588

Sez. 4, n. 13869 del 05/02/2020, Sassi, Rv. 278761

Sez. 2, n. 18182 del 06/02/2020, S., Rv. 279431

Sez. 4, n. 11958 del 13/02/2020, Vianello, Rv. 278746

Sez. 5, n. 16988 del 18/02/2020, Novella

Sez. 2, n. 9542 del 19/02/2020, G., Rv. 278589

Sez. 1, n. 14822 del 20/02/2020, Milanesi, Rv. 278943

Sez. 4, n. 12174 del 25/02/2020, Piali

Sez. 5, n. 26217 del 13/07/2020, G., Rv. 279598

Sez. 5, n. 27565 del 21.09 2020, Piccoli

Sez. 5, n. 28848 del 21.09.2020, D’Alessandro, Rv. 279599.

Sez. 6, n. 28215 del 25.09.2020, V., Rv. 279574

Sez. 4, n. 2242 del 22/10/2019 – dep. 2020 – D., Rv 278029

Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228

Sentenze della Corte di cassazione – sezioni civili

Sez. 3 civ., n. 15859 del 12/06/2019, Rv. 654290

Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019, Rv. 654433

Sez. 3, n. 22519 del 10/09/2019

Sez. 3, n. 22520 del 10/09/2019

Sez. 3 civ., n. 22729 del 12/09/2019, Rv. 655473

Sez. 3 civ., n. 25917 del 15/10/2019, Rv. 655376

Sez. 3 civ., n. 25918 del 15/10/2019, Rv. 655377

Sez. 3, n. 517 del 15/01/2020, Rv. 656811

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 176 del 2019

Corte cost., sent. n. 182 del 2021

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE V - IMPUGNAZIONI

  • giudice
  • procedura penale
  • mezzi di ricorso

CAPITOLO I

IL RICORSO CAUTELARE PER CASSAZIONE: INDIVIDUAZIONE DEL LUOGO DI PRESENTAZIONE E CONSEGUENZE IN CASO DI DEPOSITO IRREGOLARE

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione controversa. - 3 L’ordinanza di rimessione. - 4 Il luogo di presentazione del ricorso cautelare per cassazione: individuazione e ragioni. - 5 La sorte dell’atto di impugnazione irritualmente presentato presso una cancelleria diversa. - 6 La pronunzia delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 1626 del 24/09/2020, dep. 14/01/2021, Bottari, Rv. 280167 - 01, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di impugnazioni cautelari personali, il ricorso per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, del giudice che ha emesso la misura, deve essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale che ha emesso la decisione o, nel caso indicato dall’art. 311, comma 2, cod. proc. pen., del giudice che ha emesso l’ordinanza, ponendosi a carico del ricorrente il rischio che l’impugnazione, ove presentata ad un ufficio diverso, sia dichiarata inammissibile per tardività, in quanto, escluso comunque che sulla cancelleria incomba l’obbligo di trasmissione degli atti al giudice competente ex art. 582, comma 2, cod. proc. pen., la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo”. La pronuncia pone un argine al possibile affiorare di un contrasto in merito sia alla corretta individuazione del luogo presso il quale debba essere presentato il ricorso cautelare per cassazione avverso il provvedimento reso dal giudice del riesame o dell’appello cautelare, ovvero avverso l’ordinanza genetica della misura coercitiva, sia alla tempestività del ricorso che, qualora depositato presso un ufficio diverso, sia pervenuto, comunque, alla cancelleria del giudice competente a riceverlo entro il termini di cui all’art. 311, comma 1, cod. proc. pen.

2. La questione controversa.

La vicenda trae origine dal ricorso proposto avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame, in parziale accoglimento della richiesta dall’indagato, annullava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere del Giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria limitatamente a un solo addebito provvisorio, confermandola nel resto.

Il ricorrente, con il primo motivo, dedotta la violazione dell’art. 273 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione sul presupposto che, a suo dire, dall’ordinanza impugnata non emergesse un idoneo quadro di gravità indiziaria di partecipazione ad un’associazione a delinquere, eccepiva l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 13 e 111 Cost., dell’art. 309 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede un termine entro il quale la richiesta di riesame, depositata dinanzi ad un’autorità diversa da quella competente per il successivo giudizio, debba essere trasmessa al giudice competente, ovvero nella parte in cui non prevede che il termine di dieci giorni, entro il quale deve intervenire la decisione, possa valere anche nel caso di richiesta presentata ai sensi dell’art. 582, comma 2, cod. proc. pen.

3. L’ordinanza di rimessione.

La Terza sezione, investita del ricorso, con ordinanza n. 18582 del 21/05/2020 ha rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni unite rilevando il possibile affiorare di un contrasto.

Invero, sul presupposto che il regime delle impugnazioni cautelari non possa definirsi né come un sistema chiuso ed autonomo rispetto a quello riferibile alle altre tipologie impugnatorie, né come un sistema strutturato in maniera autosufficiente e, dunque, tale da non tollerare la possibilità di attingere alle regole comuni in materia di impugnazioni al fine di integrare la normativa particolare, il Collegio rimettente si è posto in dissenso con l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità che, ritenendo non applicabile al ricorso cautelare per cassazione la disciplina sulla presentazione dell’atto di impugnazione di cui agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., in assenza di un richiamo nell’art. 311 cod. proc. pen., avrebbe condotto alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso sottoposto al suo vaglio che, depositato presso la cancelleria di un tribunale diverso da quello che aveva reso il provvedimento in verifica, era pervenuto al tribunale del riesame oltre il termine di dieci giorni dalla notifica del medesimo, sebbene proposto entro il termine.

4. Il luogo di presentazione del ricorso cautelare per cassazione: individuazione e ragioni.

Le Sezioni unite, dopo un articolato excursus della normativa di riferimento, hanno evidenziato che la giurisprudenza di legittimità, nel rimarcare l’autonomia tra le modalità di presentazione dell’impugnazione di cui all’art. 311 cod. proc. pen. e la regola generale contenuta negli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., ha individuato per la presentazione del ricorso cautelare per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame o avverso l’ordinanza genetica, unicamente la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, pena l’inammissibilità del ricorso ove depositato presso la cancelleria del giudice ad quem.

Le Sezioni Unite hanno precisato che anche l’orientamento più "sostanzialista" (oramai maggioritario), secondo cui è ammissibile il ricorso cautelare presentato nella cancelleria del giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare impugnato, purché l’atto pervenga nella cancelleria del giudice a quo nel termine dei dieci giorni (Sez. 3, n. 14774 del 05/03/2020, Maniero, Rv. 278776; Sez. 6, n. 435 del 05/12/2019, Korshunov, cit.; Sez. 2 n. 3261 del 30/11/2018, Bossi, Rv. 274894; Sez. 1, n. 6912 del 14/10/2011, Nardo, Rv. 252072), non ha posto mai in discussione l’autonomia della regola dell’art. 311, comma 3, cod. proc. pen., limitandosi, in ossequio ai principi del favor impugnationis e di conservazione dell’atto, a fare salvi gli effetti dell’atto medesimo se, comunque, pervenuto nel termine dei dieci giorni nella cancelleria del giudice a quo.

Sul presupposto che l’art. 12 preleggi dispone che nell’applicare la legge «non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore», la Corte non ha condiviso la lettura prospettata dal collegio rimettente, secondo cui il comma 3 dell’art. 311 cod. proc. pen. è una norma autonoma, il cui contenuto è solo in parte coincidente con la disposizione generale di cui al comma 1 dell’art. 582 cod. proc. pen., sicché la coincidenza tra la modalità di presentazione del ricorso cautelare per cassazione di cui all’art. 311, comma 3, cod. proc. pen. e la modalità ordinariamente prevista per l’atto di impugnazione ai sensi dell’art. 582, comma 1, cod. proc. pen., sarebbe espressione dell’interesse dell’ordinamento alla massima celerità nell’avvio del giudizio di impugnazione (Sez. 1 n. 4096 del 10/12/2019, Condipero, Rv. 279031).

Osserva il Supremo Collegio che la lettura proposta dalla Terza sezione, che confina l’art. 311, comma 3, cod. proc. pen. a norma di mero richiamo alla disciplina ordinaria, non trova sostegno né nella littera legis, né nella utilità di una norma ad hoc che si porrebbe come inutile, (parzialmente) ripetitiva e priva di funzione precettiva o esplicativa, in quanto semplicemente volta a richiamare la disciplina generale.

Né a dare consistenza alla lettura prospettata dalla sezione rimettente potrebbe soccorrere il principio del favor impugnationis che, pur rappresentando una "indiscutibile regola generale" delle impugnazioni (Sez. 5, n. 41082 del 19/09/2014, Sforzato, Rv. 260766; Sez. 6, n. 9093 del 14/01/2013, Lattanzi, Rv. 255718), non potrebbe tradursi in una potestà integrativa della voluntas legis, al punto da consentire forme di presentazione del ricorso diverse da quelle volute dal Legislatore (Sez. U, n.8825 del 26/10/2016, Galtelli, Rv. 268823).

D’altro canto, precisano le Sezioni Unite, anche l’esistenza di una regolamentazione derogatoria specifica sarebbe foriera di un possibile contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. e con l’art. 6 Cedu in ragione di un’ingiustificata compressione del diritto di difesa del ricorrente, privato delle facoltà ordinariamente riconosciutegli di esercitare tempestivamente il diritto di difesa. Le forme di presentazione dell’impugnazione rappresentano il portato di una scelta insindacabile del legislatore (Sez. 1, n. 4096 del 10/12/2019 Condipero, Rv. 279031), sicché la concentrazione in un’unica sede del luogo di presentazione del ricorso coniuga le ragioni di urgenza della trattazione con le peculiarità del giudizio di legittimità, quali, ad esempio, la necessità di presentare il ricorso per cassazione con l’assistenza di un professionista abilitato, ai sensi dell’art. 613 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 8914 del 21/12/2017, Aiello, Rv 272010), là dove l’impugnazione cautelare di merito è proponibile direttamente dalla parte o da un avvocato non abilitato al patrocinio in cassazione.

Inoltre, ad avviso delle Sezioni unite si deve escludere qualsiasi lesione ai principi costituzionali derivante dalla diversa disciplina della presentazione tra riesame e ricorso per saltum, rappresentando quest’ultima un’opzione aggiuntiva per la difesa, alternativa al riesame.

Infine, si precisa che il differente regime non si pone in contrasto con le fonti sovranazionali sul giusto processo, vertendosi in tema di modalità di presentazione dell’impugnazione, campo nel quale la stessa Corte Edu riconosce agli Stati un ampio margine di apprezzamento che consente anche la imposizione di requisiti formali rigorosi per l’ammissibilità dell’impugnazione, sempre che non pregiudichino il "diritto a un tribunale" dell’individuo (in tal senso, Corte Edu, García Manibardo c. Spagna, n. 38695/97, § 36; Mortier c. Francia, n. 42195/98, § 33 e Trevisanato c. Italia n. 32610/07, § 36.).

5. La sorte dell’atto di impugnazione irritualmente presentato presso una cancelleria diversa.

Quanto alla sorte dell’atto di impugnazione, irritualmente presentato presso una cancelleria diversa, ma tempestivamente pervenuto alla cancelleria del giudice a quo, le Sezioni unite hanno rappresentato che l’orientamento di maggior rigore - secondo cui non è suscettibile di sanatoria l’inammissibilità dell’impugnazione derivante dalla presentazione del ricorso nella cancelleria del giudice ad quem anziché in quella del giudice a quo, in quanto l’art. 568, comma 5, cod. proc. pen. «disciplina il diverso caso in cui l’impugnazione sia proposta ad un giudice incompetente (cui fa obbligo di trasmettere gli atti a quello competente) e che, dunque, attenendo alla sola ipotesi della proposizione del gravame, non concerne quella relativa alle modalità della sua presentazione, disciplinate appunto dal ricordato art. 582, e la cui inosservanza, a tenore dell’art. 591, comma primo, lett. c) cod. proc. pen., determina l’inammissibilità dell’impugnazione» (Sez. 1, n. 4706 del 17/11/1992, Vittorio, Rv 192677; Sez. 6, n. 3718 del 12/11/1999, Longobardi, Rv. 215861; Sez. 3, n. 2737 del 10/07/2000, Rizzo, Rv. 217085) -, ha trovato un argine in quelle decisioni che hanno escluso la sanzione dell’inammissibilità per il solo errore di presentazione del ricorso, a condizione che la stessa, pur irritualmente proposta, venga poi rimessa nei termini di legge alla cancelleria dell’ufficio del giudice competente a riceverla (Sez. 4, n. 30060 del 20/06/2006 Naritelli, Rv. 235178; Sez. 5, n. 42401 del 22/09/2009 Ferrigno, Rv. 245391; Sez. 1, n. 6912 del 14/10/2011, Nardo, Rv 252072), ponendo il rischio di un ritardo solo a carico del ricorrente (Sez. 6, n. 435 del 05/12/2019, dep. 2020, Korshunov, Rv. 278094).

Con la decisione assunta, le Sezioni Unite hanno dato seguito all’orientamento secondo cui il termine di dieci giorni di cui all’art. 311, comma 1, cod. proc. pen. - che, al pari di tutti i termini di impugnazione, ha natura perentoria ed alla cui inosservanza consegue, sul piano soggettivo, la decadenza dal diritto di impugnazione e, sul piano degli effetti, l’inammissibilità del ricorso - va computato tenendo conto della data in cui l’atto perviene nella cancelleria del giudice a quo, sicché il ricorso depositato presso una cancelleria diversa rimane privo di effetti solo qualora, nel detto termine, non giunga anche nella cancelleria del giudice competente, senza che ciò configuri a carico dell’ufficio del giudice incompetente l’onere di attivarsi per una tempestiva trasmissione, stante il mancato richiamo nell’art. 311 cod. proc. pen. di quanto previsto dall’art. 582, comma 2, cod. proc. pen.

6. La pronunzia delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, nel risolvere il contrasto giurisprudenziale, hanno aderito all’orientamento di legittimità secondo il quale estendere il principio del favor impugnationis fino al punto da consentire, per il ricorso cautelare per cassazione, la presentazione e il deposito presso una cancelleria diversa da quella del tribunale che ha emesso la decisione o, nel caso indicato dall’art. 311, comma 2, cod. proc. pen., del giudice che ha emesso l’ordinanza, significherebbe superare i confini propri del mezzo di gravame e stabilire modalità di impugnazioni non previste dalla legge.

Con la decisione assunta, tuttavia, si è fatta salvezza di quelle impugnazioni che, irritualmente proposte, pervengano, nel termine di legge, presso l’ufficio competente a riceverle, rispetto alle quali il rischio di una tardiva trasmissione è posto, tuttavia, a carico del solo istante.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 4706 del 17/11/1992, dep. 1993, Vittorio, Rv. 192677 – 01

Sez. U, n. 10 del 22/03/2000, Solfrizzi, Rv. 215827 - 01,

Sez. 6, n. 3718 del 12/11/1999, dep. 2000, Longobardi, Rv. 215861 - 01

Sez. 3, n. 2737 del 10/07/2000, Rizzo, Rv. 217085 - 01

Sez. 6, n. 46823 del 15/11/2005, Tramonte, Rv. 232533 - 01

Sez. 4, n. 30060 del 20/06/2006, Naritelli, Rv. 235178 - 01

Sez. 5, n. 42401 del 4/11/2009, Ferrigno, Rv. 245391 -01

Sez. 1, n. 6912 del 14/10/2011, dep. 2012, Nardo, Rv. 252072 - 01

Sez. 6, n. 9093 del 14/01/2013, Lattanzi, Rv. 255718 - 01

Sez. 5, n. 41082 del 19/09/2014, Sforzato, Rv. 260766 - 01

Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823 - 01

Sez. U, n. 8914 del 21/12/2017, dep. 2018, Aiello, Rv. 272010 - 01

Sez. 6, n. 435 del 05/12/2019, dep. 2020, Korshunov, Rv. 278094 - 01

Sez. 1, n. 4096 del 10/12/2019, dep. 2020, Condipodero, Rv. 279031 - 01

Sez. 3, n. 14774 del 5/03/2020, Maniero, Rv. 278776 – 01

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, García Manibardo c. Spagna, n. 38695/97

Corte EDU, Mortier c. Francia, n. 42195/98

Corte EDU, Trevisanato c. Italia n. 32610/07

  • procedura penale
  • udienza giudiziaria

CAPITOLO II

LA SENTENZA DI PROSCIOGLIMENTO PREDIBATTIMENTALE ED IL REGIME DELL’IMPUGNAZIONE

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La tesi favorevole all’interpretazione non estensiva dell’art. 469 cod. proc. pen. - 2.1 L’incompatibilità tra la pronuncia sul merito dell’accusa e la sentenza predibattimentale. - 3 L’orientamento favorevole alla valorizzazione del momento di adozione della sentenza. - 4 Le pronunce sul tema della Sezioni Unite. - 5 La fase in cui può intervenire il proscioglimento predibattimentale. - 6 La soluzione adottata dalle Sezioni unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

La Quinta Sezione, con ordinanza n. 15922 depositata il 27 aprile 2021, ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite della questione concernente la possibilità di qualificare quale sentenza predibattimentale la pronuncia resa in pubblica udienza ed al di fuori dei casi disciplinati dall’art. 469 cod. proc. pen., fondata su una valutazione di merito.

L’ordinanza ha evidenziato due profili di criticità sul quale si registrano soluzioni interpretative difformi.

In primo luogo, infatti, si pone il problema di valutare se possa avere natura di proscioglimento predibattimentale anche la sentenza emessa non già nell’udienza camerale prevista dall’art. 469 cod. proc. pen., bensì in pubblica udienza e dopo la regolare costituzione delle parti.

A tale deviazione dallo schema tipico, nel caso di specie se ne aggiunge un altro, consistente nel fatto che la sentenza non ha rilevato un’ipotesi di estinzione del reato, di improcedibilità o di particolare tenuità del fatto, bensì si è pronunciata nel merito dell’accusa, assolvendo l’imputato per non aver commesso il fatto.

L’ordinanza di rimessione, nel dar conto dei diversi orientamenti formatisi sul tema, ha sottolineato come la soluzione del quesito in ordine alla qualificazione della sentenza ed al conseguente regime di impugnazione, possa risentire non solo della fase in cui la decisione viene adottata, ma anche del suo contenuto, prospettando la possibilità che una decisione “nel merito” potrebbe escludere la natura di proscioglimento predibattimentale della sentenza, con conseguente appellabilità della stessa.

L’ordinanza di rimessione individua due contrapposti orientamenti, il primo propenso a ritenere che la sentenza pronunciata in pubblica udienza, dopo la costituzione delle parti, non può essere ricondotta nell’alveo dell’art. 469 cod. proc. pen., anche quando è emessa con riferimento ad una delle ipotesi ivi disciplinate, a nulla rilevando né che la decisione sia stata adottata su conformi conclusioni delle parti, né che sia stata pronunciata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

Secondo tale impostazione – chiaramente improntata ad una interpretazione non estensiva dell’art. 469 cod. proc. pen. – il proscioglimento predibattimentale si inserisce in una fase ben delimitata, costituita dal momento antecedente l’udienza dibattimentale e, proprio per tale ragione, sarebbe richiesta la fissazione di un’apposita udienza camerale.

Tale conclusione sarebbe ancor più fondata in quei casi in cui la sentenza “predibattimentale” non solo viene pronunciata in dibattimento, ma assolve l’imputato nel merito dell’accusa, anziché limitarsi a prender atto della sussistenza di una delle tre ipotesi disciplinate dall’art. 469 cod. proc. pen.

Secondo altro orientamento, invece, la sentenza emessa prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, sia pur non conforme allo schema dettato dall’art. 469 cod. proc. pen., avrebbe sempre natura di proscioglimento predibattimentale e, in quanto tale, sarebbe esclusivamente ricorribile in cassazione.

L’ordinanza di rimessione, inoltre, ha dato anche atto dei principi affermati da Sez.U, n. 3027 del 19/12/2001, depo.2002, Angelucci, Rv. 220555, implicitamente ritenendo che tale pronuncia non consente di per sé di superare i dubbi ermeneutici evidenziati.

2. La tesi favorevole all’interpretazione non estensiva dell’art. 469 cod. proc. pen.

Plurime sono le pronunce con le quali è stata recepita una lettura formale del dettato dell’art. 469 cod. proc. pen., volto a circoscriverne l’ambito applicativo alle sole ipotesi in cui la sentenza di proscioglimento è stata pronunciata al di fuori dell’udienza pubblica dibattimentale.

Secondo tale impostazione, ribadita anche di recente, «La sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, resa in udienza pubblica dopo il controllo della costituzione delle parti e prima dell’apertura del dibattimento, non è qualificabile come sentenza predibattimentale ed è, pertanto, appellabile dal pubblico ministero nonché, ove ricorrano le condizioni di cui all’art. 593 cod. proc. pen., anche dall’imputato; pertanto, in caso di appellabilità della sentenza, il ricorso immediato in cassazione per violazione di legge costituisce ricorso "per saltum", con la conseguenza che, se il suo accoglimento comporta l’annullamento con rinvio, il giudice di rinvio è individuato in quello che sarebbe stato competente per l’appello» (Sez. 2, n.673 del 23/10/2019, dep.2020, Corigliano, Rv. 278224).

In altra pronuncia (Sez.4, n. 48310 del 28/11/2008, Pensalfini, Rv.242394), inoltre, si è anche sottolineato come la sentenza di proscioglimento resa ex art. 469 cod. proc. pen. richiede «un’udienza camerale ad hoc con le forme stabilite dall’art. 127 c.p.p.», il che renderebbe di per sè incompatibile lo schema delineato dall’art. 469 cod. proc. pen. con l’adozione di tale pronuncia nell’udienza dibattimentale. In buona sostanza, quindi, si evidenzia una vera e propria “incompatibilità di fase”, ritenendo che la peculiarità della sentenza predibattimentale è insita nella necessaria fissazione di una fase incidentale e necessariamente precedente e diversa rispetto all’udienza dibattimentale.

Tale principio, peraltro, è stato espressamente ritenuto valido anche nel caso in cui la sentenza sia stata resa su conforme richiesta delle parti, in tal modo evidenziandosi come la volontà dell’imputato e del pubblico ministero, pur costituendo uno dei requisiti essenziali della sentenza ex art. 469 cod. proc. pen., non è di per sé idonea a far qualificare quale proscoglimento predibattimentale la sentenza resa in pubblica udienza.

In particolare, Sez. 2, ord. n. 51513 el 4/12/2013, Di Marco, Rv. 258075 ha affermato che «La sentenza che dichiara l’improcedibilità dell’azione penale o l’estinzione del reato, quantunque resa su conformi conclusioni del P.M. e della difesa, se pronunciata in pubblica udienza dopo la costituzione delle parti, va comunque considerata come sentenza dibattimentale ed è, pertanto, soggetta all’appello, qualunque sia il "nomen iuris" attribuitole dal giudice. (Fattispecie relativa a sentenza di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione)» (in senso conforme si veda Sez.2, n. 48340 del 17/11/2004, Carducci, Rv. 230535; Sez.1, n.48124 del 3/12/2008, Piscitello, Rv. 242486; Sez.2, n. 2153 del 16/12/2016, dep.2017, Vicario, Rv. 269002).

2.1. L’incompatibilità tra la pronuncia sul merito dell’accusa e la sentenza predibattimentale.

Nell’ambito dell’orientamento contrario a qualificare come “predibattimentali” le sentenze rese nell’udienza pubblica e dopo la costituzione delle parti, va richiamata l’attenzione su quelle pronunce che hanno espressamente stigmatizzato l’incompatibilità tra il contenuto della sentenza ex art. 469 cod. proc. pen. e la pronuncia di sentenze sul merito dell’imputazione.

Secondo tale impostazione, la pronuncia sul merito dell’accusa costituirebbe di per sé un elemento di incompatibilità rispetto alla sentenza predibattimentale, proprio perché quest’ultima può essere emessa solo per rilevare l’estinzione del reato, una causa di improcedibilità dell’azione ovvero la particolare tenuità del fatto.

In tal senso si è espressa Sez. 2, n. 32449 del 18/9/2020, Manca, Rv. 280065, evidenziando come non solo la pronuncia era stata resa nell’udienza dibattimentale, dopo la costituzione delle parti e prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, ma aveva riguardato un tipico profilo di merito, acquisendo e valutato un atto prodotto dall’imputato e valorizzandolo al fine di ritenere l’insussistenza del fatto. La pronuncia “nel merito” è stata espressamente ritenuta incompatibile con lo schema della sentenza predibattimentale, proprio perché tale tipologia di sentenza può essere emessa esclusivamente nell’ipotesi della sussistenza di una causa estintiva del reato o di improcedibilità.

Argomentazioni sostanzialmente analoghe sono state recepite anche da Sez. 5, n. 14690 del 21/2/2020, Gloria, Rv. 279077, lì dove, pur essendo stata dichiarata l’estinzione del reato, il giudice era giunto a tale conclusione solo dopo aver escluso la sussistenza di una determinata aggravante «operando una specifica valutazione del merito sulla base di quanto risultava dagli atti del processo, il che esclude che tale decisione integri una sentenza predibattimentale».

3. L’orientamento favorevole alla valorizzazione del momento di adozione della sentenza.

Nella giurisprudenza di legittimità si è formato un cospicuo orientamento giurisprudenziale che è tendenzialmente incline a qualificare come sentenza predibattimentale e, conseguentemente, ad escludere l’appellabilità di quelle pronunce comunque rese prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

Va precisato che le Sezioni unite si sono già pronunciate, sia pur implicitamente, in ordine alla possibilità che la sentenza pronunciata prima dell’apertura del dibattimento sia ricondotta nello schema di cui all’art. 469 cod. proc. pen.

In particolare, tale fattispecie è stata esaminata da Sez.U, n.42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093 che, proprio con riguardo ad una sentenza resa in pubblica udienza, dopo la verifica della costituzione delle parti, ma prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, ha ritenuto che la stessa andasse qualificata quale sentenza predibattimentale ex art. 469 cod. proc. pen.

Si tratta di una soluzione che evidentemente privilegia il dato sistematico secondo cui è solo con la formale dichiarazione di apertura del dibattimento che si determina la chiusura della fase degli atti preliminari, sicchè tale momento costituirebbe l’unico elemento certo per la qualificazione della sentenza e l’individuazione del regime di impugnazione.

Tale principio, pur non sempre esplicitato compiutamente, ha trovato affermazione in plurime pronunce, tra le quali si segnala Sez.1, n.2441 del 16/12/2008, dep. 2009, Forte, Rv. 242707, che in motivazione espressamente si è espressa nel senso che «alcun rilievo assume la circostanza della pronuncia in pubblica udienza, piuttosto che nella sede camerale specificamente deputata, secondo la previsione dell’art. 469 c.p.p. Ciò che, ai fini del regime delle impugnazioni (in relazione alla inappellabilità della sentenza espressamente sancita dall’art.469 c.p.p.), costituisce l’assoluto discrimen è esclusivamente il compimento della formalità della apertura del dibattimento che scandisce l’inizio della relativa sub fase. Sicchè le sentenze pronunciate in pubblica udienza, pur dopo la verifica della costituzione delle parti, ma sempre nella fase degli atti introduttivi e, comunque, prima della apertura del dibattimento, sono a tutti gli effetti predibattimentali e inappellabili».

Sviluppando tale argomento, in una successiva sentenza resa da Sez.5, n. 19517 del 15/4/2016, Zennaro, Rv. 267241 si è evidenziato come la fase propriamente dibattimentale inizia formalmente solo con la dichiarazione di cui all’art. 492 cod. proc. pen., sottolineandosi come la «possibilità di pronunciare sentenza ex art. 469 cod. proc. pen. nel segmento processuale immediatamente anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento è pienamente in linea con la finalità deflattiva dell’istituto», salvo restando che anche nel momento dell’udienza pubblica dedicata agli atti preliminari, rimane valida la disciplina dei presupposti e dei contenuti decisori della sentenza predibattimentale, collegati all’inibizione, per il giudice che la conosce, degli atti di indagine sulla cui base è stata formulata l’imputazione. Afferma la Quinta Sezione che «tale ratio si pone nei medesimi termini per la sub-fase degli atti preliminari e per quella in questione, sicchè nell’una e nell’altra il riconoscimento della più ampia formula liberatoria impone l’approdo alla fase dibattimentale propriamente detta».

In buona sostanza, quindi, si è ritenuto che le sentenze predibattimentali di proscioglimento nel merito, quantunque emesse al di fuori delle ipotesi consentite dall’art. 469 cod. proc. pen., sono ugualmente inappellabili ed unicamente ricorribili in cassazione (Sez. 6, n. 1571 dell’11/11/2020, dep.2021, P., Rv. 280339).

Per completezza, pur essendo parzialmente diversa la fattispecie esaminata, analoghe argomentazioni sono state recepite anche da Sez.6, n. 26819 del 24/3/2015, Fantozzi, Rv. 263927, secondo cui «è inammissibile il ricorso per cassazione presentato dalla parte civile avverso la sentenza predibattimentale di proscioglimento, trattandosi di decisione inidonea a pregiudicare in alcun modo le ragioni della parte civile, coltivabili dinanzi al giudice civile», nella quale si è ulteriormente evidenziato che la parte civile non ha titolo di interloquire sulla pronuncia resa ai sensi dell’art. 469 cod. proc. pen., posto che i soli soggetti legittimati ad interloquire sono il pubblico ministero e l’imputato.

4. Le pronunce sul tema della Sezioni Unite.

La disciplina dettata dall’art. 469 cod. proc. pen. è stata già oggetto di scrutinio da parte delle Sezioni Unite che, con la sentenza “Angelucci”, hanno affermato il principio secondo cui «La sentenza di proscioglimento predibattimentale di cui all’art. 469 cod. proc. pen. può essere emessa solo ove ricorrano i presupposti in esso previsti (mancanza di una condizione di procedibilità o proseguibilità dell’azione penale ovvero presenza di una causa di estinzione del reato per il cui accertamento non occorra procedere al dibattimento) e sempre che le parti, messe in condizione di interloquire, non si siano opposte, in quanto non può trovare applicazione, in detta fase, la disposizione dell’art. 129 stesso codice che presuppone necessariamente l’instaurazione di un giudizio in senso proprio. Avverso la predetta sentenza, anche se deliberata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, l’unica impugnazione ammessa è il ricorso per cassazione. (Nella specie, la Corte, in accoglimento dell’impugnazione del P.M., denominata appello, ma qualificata come ricorso per cassazione, ha annullato senza rinvio la sentenza di improcedibilità dell’azione penale pronunciata prima dell’apertura del dibattimento senza l’audizione preventiva delle parti)».

Nella fattispecie sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, il giudice di primo grado aveva espressamente qualificato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. la sentenza di proscioglimento emessa, sul presupposto che difettasse la querela, in pubblica udienza e senza che le parti fossero state interpellate sulla questione ritenuta dirimente.

L’oggetto del giudizio, pertanto, riguardava essenzialmente la possibilità di qualificare quale proscioglimento predibattimentale una sentenza emessa senza che ricorresse uno dei due requisiti richiesti dall’art. 469 cod. proc. pen. e, cioè, la non opposizione del pubblico ministero e dell’imputato.

Pur nella diversità del profilo di diritto oggetto di accertamento, la sentenza “Angelucci” ha sviluppato argomenti che risultano funzionali anche alla risoluzione del quesito attualmente sottoposto alla decisione delle Sezioni Unite.

La sentenza “Angelucci”, infatti, ha affrontato la questione se sia o meno inappellabile la sentenza di proscioglimento predibattimentale emessa al di fuori dei casi previsti e, pertanto, la risposta a tale quesito potrebbe eventualmente assumere una valenza generale e valida in occasione di qualsivoglia discostamento tra la pronuncia resa e lo schema tipico delineato dall’art. 469 cod. proc. pen.

Le Sezioni Unite sono partite dalla premessa secondo cui «Considerando il tenore letterale dell’articolo 469 c.p.p., si osserva che il legislatore ha inserito tale norma nel libro settimo del codice, intitolato al "giudizio" ed esattamente negli "atti preliminari al dibattimento", ossia funzionali dell’ordinario giudizio. Si può osservare che solo in via eccezionale il legislatore consente un "proscioglimento prima del dibattimento", e ciò a precise condizioni: a) che sussista una causa di improcedibilità dell’azione penale o di estinzione del reato; b) che siano stati sentiti il P.M. e l’imputato e non si siano apposti. Per espressa previsione legislativa la sentenza di proscioglimento è dichiarata "inappellabile" e, quindi, solo ricorribile in Cassazione. Resta da chiedersi quale significato abbia il richiamo: "Salvo quanto previsto dall’articolo 129, comma 2", con il quale inizia il testo dello art. 469 c.p.p., se cioè questo rinvio implichi una "esclusione" od una “inclusione" dei poteri conferiti al giudice all’art. 129 c.p.p. (che, come è noto contempla più ampi poteri di declaratoria di cause di non punibilità, estesi anche al merito e prescinde dal consenso delle parti). Le Sezioni Unite ritengono che i limiti di applicabilità della sentenza di proscioglimento anticipato nella fase predibattimentale siano stati fissati tassativamente dalla legge e che, di conseguenza, il giudice ex art. 469 c.p.p. può pronunciare il proscioglimento soltanto nelle ipotesi espressamente indicate e solo se vi sia stato l’interpello delle parti e la non opposizione delle stesse. Non vi è spazio per un proscioglimento da parte del giudice ex art.129 c.p.p., quale sia stato l’atteggiamento delle parti, con sentenza predibattimentale. Il riferimento nell’art. 469 c.p.p. all’art. 129 c.p.p. deve ritenersi effettuato solo per escluderne l’applicabilità in sede predibattimentale».

In tal modo, pertanto, è stata esclusa in radice la possibilità che, nella fase che precede l’apertura del dibattimento, possano coesistere due diverse tipologie di proscioglimento, l’una limitata ai casi previsti dall’art. 469 cod. proc. pen. e necessitante della non opposizione delle parti e l’altra, basata sul dettato dell’art. 129 cod. proc. pen., che consentirebbe al giudice di dichiarare unilateralmente e senza contraddittorio il proscioglimento, eventualmente anche nel merito.

Le Sezioni Unite hanno sottolineato che «A voler ipotizzare la compatibilità ci si imbatterebbe in una illogicità del sistema difficilmente comprensibile:

a) nella stessa fase predibattimentale e allo stesso tempo, il codice - ex art. 469 c.p.p. escluderebbe che possa instaurarsi un procedimento per cause diverse dalla estinzione del reato o difetto delle condizioni per l’inizio o la prosecuzione dell’azione penale; invece - ex art. 129 c.p.p. - ammetterebbe un procedimento parallelo anche per le cause in precedenza escluse;

b) per la medesima fase (predibattimento) e nello stesso tempo, il codice farebbe assurgere il medesimo evento processuale (la mancata opposizione delle parti) a condizione necessaria (art. 469 c.p.p.) o condizione irrilevante (art. 129 c.p.p.).

Non appare razionale che il legislatore giudichi lo stesso fatto in modo opposto nello stesso tempo e nella stessa fase. Occorre sottolineare che l’articolo 129 c.p.p. ha una portata generale, prevedendo la possibilità della declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità (non solo di ordine processuale, ma anche di merito), facendo riferimento al ruolo del giudice e non anche a quello delle parti, mentre l’art. 469c.p.p. enfatizza proprio la volontà delle parti. Se l’articolo 469 c.p.p. non escludesse la contemporanea applicazione dell’art. 129 c.p.p., costituirebbe un inutile doppione nel sistema».

Considerazioni analoghe sono state recepite anche dalla recente pronuncia resa da Sez.U, n.28954 del 27/4/2017, Iannelli, Rv. 269809 che, in motivazione, ha ribadito che la sentenza resa ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. presuppone l’esercizio della giurisdizione con pienezza del contraddittorio, per cui il richiamo contenuto in quest’ultima disposizione ad “ogni stato e grado del processo” deve essere riferito al giudizio in senso tecnico, ossia al dibattimento di primo grado o ai giudizi di appello e in cassazione, atteso che sono in tali ambiti il giudice dispone di tuti gli elementi per la scelta della formula assolutoria più favorevole per l’imputato.

Dall’esame delle predette decisioni ed, in particolare, dalla sentenza “Angelucci”, pare che si possa desumere il principio secondo cui la sentenza di proscioglimento predibattimentale può essere emessa fino al momento in cui non interviene la dichiarazione di apertura del dibattimento (tale era, infatti, la fattispecie concreta esaminata dalle Sezioni Unite).

Per quanto concerne, invece, la qualificazione giuridica della sentenza ed il conseguente regime dell’impugnazione, la sentenza “Angelucci” propende per ritenere una radicale incompatibilità del proscioglimento nella fase predibattimentale con lo schema dettato dall’art. 129 cod. proc. pen., il che comporterebbe che la sentenza – comunque qualificata dal giudice – andrebbe in ogni caso ricondotta nella previsione dell’art. 469 cod. proc. pen., con l’ulteriore conseguenza che l’unico mezzo di impugnazione consentito sarebbe il ricorso per cassazione, con il quale andrebbe fatto valere qualsivoglia discostamento della sentenza rispetto ai presupposti tipici delineati dal legislatore (non opposizione delle parti e specifiche cause di improcedibilità o estinzione del reato).

5. La fase in cui può intervenire il proscioglimento predibattimentale.

Altro aspetto, rilevatosi centrale per la soluzione della questione rimessa alle Sezioni unite, è quello concernente l’individuazione del momento in cui può essere adottata la sentenza predibattimentale.

Seguendo la sistematica del codice di rito, infatti, sembrerebbe che tale epilogo è confinato in una fase ben delimitata, che si colloca prima dell’inizio dell’udienza dibattimentale, tant’è che l’art. 469 cod. proc. pen. stabilisce che il giudice proceda, in camera di consiglio, sentiti il pubblico ministero e l’imputato.

L’istituto, per come tipizzato nella norma, sembrerebbe richiedere la fissazione di un’udienza camerale ad hoc, diversa da quella dibattimentale ed in quanto tale non richiedente né la pubblicità dell’udienza, né la necessaria citazione di tutte le parti processuali. Tanto ciò è vero che, nell’estendere l’istituto alla declaratoria della particolare tenuità del fatto, è stato appositamente introdotto il comma 1-bis, il quale richiede l’audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare.

In definitiva, quindi, può affermarsi che il codice di rito assegna una collocazione ben precisa dell’istituto, addirittura prevedendo l’instaurazione di una sorta di sub-procedimento, comportante la fissazione di un’udienza camerale, evidentemente distinta rispetto a quella dibattimentale indicata nella vocatio in iudicium, alla quale è ammessa la partecipazione delle sole parti necessarie – imputato e pubblico ministero – salvo la diversa previsione recentemente introdotta in relazione alla tenuità del fatto.

Ove si valorizzasse tale dato, potrebbe sostenersi che la qualificazione della decisione ai sensi dell’art. 469 cod. proc. pen. presuppone necessariamente che la pronuncia sia scaturita all’esito della procedura dettata da tale norma e, conseguentemente, la sentenza resa in pubblica udienza, dopo la costituzione delle parti per il dibattimento, non potrebbe in alcun caso essere qualificata quale predibattimentale.

Tale lettura, valorizza un’interpretazione formalistica del dato normativo, che non ha trovato conferma nella prevalente dottrina, propensa a far coincidere con la dichiarazione di apertura del dibattimento, ai sensi dell’art. 492 cod. proc. pen., il momento in cui si chiude la fase degli atti preliminari.

Si è osservato, infatti, che la fase degli atti preliminari o introduttivi al dibattimento va identificata in quella complessiva fase processuale che, prendendo le mosse dal decreto di rinvio a giudizio o dalla citazione, si conclude con la dichiarazione di apertura del dibattimento, fungendo questa da vero e proprio spartiacque tra il momento preparatorio ed il giudizio vero e proprio.

Ne consegue che tutte le sentenze – comunque denominate – pronunciate prima di tale momento e, quindi, anche in pubblica udienza, anziché nell’udienza camerale prevista dall’art. 469 cod. proc. pen., sarebbero ugualmente qualificabili come sentenze di proscioglimento predibattimentale.

Vi è anche chi ha sostenuto che la fase processuale, entro la quale dovrebbe intervenire la sentenza ex art. 469 cod. proc. pen., è quella che ha termine all’atto del controllo sulla costituzione delle parti nell’udienza fissata nella vocatio in iudicium, implicitamente ritenendosi che la mera dichiarazione formale di apertura del dibattimento non sarebbe di per sé un adempimento idoneo a fungere da discrimine sostanziale tra la fase preliminare e quella del giudizio vero e proprio.

6. La soluzione adottata dalle Sezioni unite.

Con la sentenza adottata all’udienza del 28/10/2021, di cui è disponibile l’informazione provvisoria, la Corte ha stabilito che la sentenza adottata dopo la regolare costituzione delle parti e prima della dichiarazione di apertura del dibattimento non è riconducibile allo schema della sentenza predibattimentale ex art. 469 cod. proc. pen., sicchè contro di essa è esperibile l’appello.

Sulla base di tale principio, è plausibile ritenere che le Sezioni unite hanno optato per una soluzione che valorizzi la collocazione sistematica dell’art. 469 cod. proc. pen. e la previsione di una specifica disciplina, in base alla quale il proscioglimento predibattimentale va pronunciato in apposita udienza camerale e, quindi, al di fuori della fase tipica del dibattimento.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez.U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093

Sez.U, n. 3027 del 19/12/2001, depo.2002, Angelucci, Rv. 220555

Sez. 2, n. 48340 del 17/11/2004, Carducci, Rv. 230535

Sez. 4, n. 48310 del 28/11/2008, Pensalfini, Rv.242394

Sez. 1, n. 48124 del 3/12/2008, Piscitello, Rv. 242486

Sez. 1, n.2441 del 16/12/2008, dep. 2009, Forte, Rv. 242707

Sez. 2, ord. n. 51513 el 4/12/2013, Di Marco, Rv. 258075

Sez. 2, n. 2153 del 16/12/2016, dep.2017, Vicario, Rv. 269002

Sez. 5, n. 19517 del 15/4/2016, Zennaro, Rv. 267241

Sez. 6, n. 26819 del 24/3/2015, Fantozzi, Rv. 263927

Sez. U, n. 28954 del 27/4/2017, Iannelli, Rv.269809

Sez. 2, n. 673 del 23/10/2019, dep.2020, Corigliano, Rv. 278224

Sez. 2, n. 32449 del 18/9/2020, Manca, Rv. 280065

Sez. 5, n. 14690 del 21/2/2020, Gloria, Rv.279077

Sez. 6, n. 1571 dell’11/11/2020, dep.2021, P., Rv. 280339

  • procedura penale
  • testimonianza
  • prova

CAPITOLO III

RIFORMA IN APPELLO DELLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE E “GARANZIE COMPENSATIVE” NEL CASO IN CUI SIA IMPOSSIBILE PROCEDERE ALLA RINNOVAZIONE DELLA PROVA DICHIARATIVA PER DECESSO, IRREPERIBILITÀ O INFERMITÀ DEL TESTE

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 L’interpretazione della c.d. “regola Dasgupta” alla luce del mutato quadro normativo. - 3 Obbligo di rinnovazione e lettura delle dichiarazioni predibattimentali. - 4 Considerazioni di sintesi. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

La questione rimessa alle Sezioni Unite trae origine da un potenziale contrasto interpretativo in ordine all’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva nel giudizio di appello ed alla preclusione alla decisione di riforma della sentenza assolutoria di primo grado nel caso in cui si verifichi l’impossibilità di procedervi (nel caso di specie, a causa del decesso del soggetto da esaminare).

Il contrasto nasce dalla affermazione, contenuta in Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 26749001 - non condivisa dal Collegio rimettente - secondo cui è preclusa la possibilità della riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado “ex actis” in caso di impossibilità di riascolto del dichiarante (il principio è stato così massimato: «Nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione della concludenza delle dichiarazioni ritenute decisive, l’impossibilità di procedere alla necessaria rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa - ad esempio per irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare - preclude il ribaltamento del giudizio assolutorio "ex actis", fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all’esame non dipenda né dalla volontà di favorire l’imputato né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte.»).

Nel caso concreto, a seguito della decisione di annullamento della condanna dell’imputato, in riforma della decisione assolutoria di primo grado, per la riscontrata violazione del principio espresso da Sez. U, “Dasgupta”, in ragione della erronea rivalutazione, meramente cartolare in secondo grado, del contributo narrativo offerto al processo dalla coimputata (Sez. 1, n. 48293 del 13/07/2017), il giudice del rinvio si è trovato nell’impossibilità di applicare la regola di diritto enunciata, non potendo procedere al nuovo esame della dichiarante, perché nelle more deceduta. Ha, quindi, disposto l’acquisizione ex art. 512 cod. proc. pen. dei verbali delle dichiarazioni predibattimentali rese dalla coimputata. Nell’ordinanza istruttoria il giudice del rinvio ha osservato che l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa «non esclude espressamente l’applicabilità al giudizio di appello degli artt. 512 e 513 cod. proc. pen., in linea con l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 603 c.p.p., commi 3 e comma 3-bis, in relazione all’art. 111 Cost., comma 5». Di qui, pervenendo ad una decisione di riforma sfavorevole per l’imputato, il potenziale contrasto con la c.d. “regola Dasgupta” enunciata nella sentenza di annullamento, in cui si fa riferimento al divieto di “conseguenze pregiudizievoli” per l’imputato in caso di "eventuale rifiuto" del dichiarante di sottoporsi a esame.

Al fine prevenire un possibile disallineamento o contrasto all’interno della giurisprudenza di legittimità, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia la necessità di salvaguardare, sul piano ermeneutico e nel rispetto della funzione nomofilattica del giudice di legittimità ex art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., la linea di sostanziale continuità del rinnovato quadro normativo voluto dal legislatore del 2017 con i principi espressi da Sez. U, “Dasgupta” e da Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 26978701, proponendo una lettura del nuovo comma 3 bis dell’art. 603 cod. proc. pen. allineata al diritto vivente espresso, in forma di obiter, da Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430-01.

Si osserva, in primo luogo, che il principio espresso da Sez. U, “Dasgupta”, Rv. 267490-01, si riferisce in via principale all’ipotesi di impossibilità di rinnovazione della prova dichiarativa del c.d. teste vulnerabile, restando affidata al giudice la valutazione circa l’insuperabile necessità della reiterazione dell’atto istruttorio, così introducendo una flessibilità che mitiga l’apparente formulazione in termini assoluti dell’obbligo istruttorio. Si propone una interpretazione costituzionalmente orientata del nuovo art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., consentendo l’art. 111, comma 5, Cost. che eccezionalmente, nei casi regolati dalla legge, "la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita"» (Corte Cost., sentenza n. 440 del 2000; Corte Cost., ord. n. 375 del 2001, ove si è precisato che l’oggettiva impossibilità di ripetizione dell’atto dichiarativo, rientrante nella sfera dell’art. 512 cod. proc. pen. potrebbe «derivare da morte, irreperibilità, infermità che determina una totale amnesia del testimone»).

Inoltre, la soluzione alla questione non può non tener conto della scelta del legislatore di introdurre il nuovo comma 3 bis dell’art. 603 cod. proc. pen., che disciplina l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in appello, indizio significativo della estraneità a tale obbligo di una supposta preclusione assoluta all’overturning sfavorevole per l’ipotesi che la rinnovazione dell’esame del dichiarante sia divenuta impossibile (a causa del suo decesso), nei termini indicati da Sez. U, “Dasgupta”, potendo l’obbligo di rinnovazione, essere soddisfatto attraverso la lettura di atti predibattimentali ex art. 512 cod. proc. pen.

Di qui l’osservazione che la preclusione per il giudice di appello alla riforma della sentenza di assoluzione si tradurrebbe in “una sorta di "regola di esclusione probatoria", che non trova alcun riscontro nella disciplina positiva, ivi compresa quella di cui alla legge n. 103 del 2017, né è prevista o imposta dall’art. 111, comma 5, Cost., nella richiamata interpretazione che ammette la deroga al principio del contraddittorio per i casi di accertata impossibilità oggettiva, riferibili a "fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante”, tra i quali rientra la morte dello stesso.

Del resto, la possibilità di una deroga al principio del contraddittorio viene ammessa anche da Corte EDU, sia nella sentenza Corte EDU, 05/07/2011, Dan c. Moldavia (sub § 33, ove in via incidentale si afferma che «vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perché, per esempio, egli o ella è deceduto/a»), sia in successive pronunce (Corte EDU, Sez. I, sentenza 29/06/2017, Lorefice c. Italia; Corte EDU, Sez. II, 10/11/2020, Dan c. Moldavia n. 2). In particolare, si segnalano due pronunce della Grande Camera (Corte EDU, 15/12/2011, Al-Khawaja e Tahery contro Regno Unito e Corte EDU, 15/12/2015, Schatschaschwili contro Germania) che hanno interpretato in modo più flessibile la regola basata sulla "prova sola o determinante", tale da far ritenere, nell’interpretazione del diritto vivente (Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531-01), «compatibile con le garanzie convenzionali la condanna fondata su dichiarazioni decisive assunte in via unilaterale, ogni volta che il sacrificio del diritto di difesa (ovvero l’impossibilità di interrogare direttamente il teste fondamentale) sia bilanciato da "adeguate garanzie procedurali"[...]».

Ove ricorrano idonee garanzie procedurali (cfr. Sez. 6, n. 50994 del 26/03/2019, D., Rv. 278195-03; conf. Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148-01), anche nel caso in cui la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia impedita dal sopravvenuto decesso del teste, la dichiarazione non sottoposta al vaglio del contraddittorio può comunque giustificare la decisione di condanna e, quindi, il superamento della presunzione di innocenza, ma la presenza di una sentenza assolutoria di primo grado configura la necessità di un "rafforzamento" degli oneri motivazionali in quanto la decisione assolutoria del primo giudice è sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa (in tal senso, la citata Sez. U, “Troise”).

Nell’ordinanza di rimessione la Quinta Sezione si sforza di fornire possibili soluzioni applicative, alternative o cumulative, alla non condivisa "regola di esclusione probatoria" espressa da Sez. U, “Dasgupta”, tali da assicurare che l’overturning sfavorevole su prova cartolare sia bilanciato da una base probatoria ed un apparato giustificativo, in linea con le garanzie processuali richieste dai prìncipi costituzionali e con quelli convenzionali.

L’obbligo di motivazione “rafforzata” dell’overturning sfavorevole, nel caso di impossibilità di procedere alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa per il decesso del soggetto da esaminare, potrebbe in concreto: richiedere una confutazione dell’opposta valutazione della prova dichiarativa in quanto collegata a sue evidenti fratture logico-argomentative ovvero al suo fondarsi su accadimenti o rapporti considerati dal giudice di primo grado sulla base di un travisamento di dati probatori; inoltre, in applicazione della regola b.a.r.d., imporre al giudice di appello un incisivo esercizio dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.; infine, dover dar conto di elementi di riscontro alla prova dichiarativa non rinnovata dotati di peculiare attitudine confermativa, così da superare la presunzione d’innocenza "rafforzata" connessa alla assoluzione in primo grado e sopperire al mancato riascolto del dichiarante.

2. L’interpretazione della c.d. “regola Dasgupta” alla luce del mutato quadro normativo.

Il quesito posto alle Sezioni Unite, che investe la perdurante attualità del principio espresso da Sez. U, “Dasgupta”, in relazione alle conseguenze processuali della sopravvenuta impossibilità della rinnovazione della prova dichiarativa in caso di overturning sfavorevole in appello, è stato così formulato: “Se, in caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive, l’impossibilità di procedere alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa a causa del decesso del soggetto da esaminare precluda, di per sé sola, il ribaltamento del suddetto giudizio”.

In applicazione delle linee interpretative dettate da Corte Edu EDU, 5 novembre 2011, Dan c. Moldavia (in precedenza, Corte EDU, 7 luglio 1989 Bricmont c. Belgio, e poi, ex plurimis, in quelle Corte EDU, 27 giugno 2000, Constantinescu c. Romania; Corte EDU, 15 luglio 2003, Sigurbòr Arnarsson c. Islanda; Corte EDU, 18 maggio 2004, Destrehem c. Francia; Corte EDU, 21 gennaio 1999, Garcia Ruiz c. Spagna), Sez. U, “Dasgupta” qualifica come “assolutamente necessaria” la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. in caso di overturning sfavorevole in ragione della esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del “ragionevole dubbio”, replichi l’andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte. Ove si verifichi l’impossibilità di procedere alla rinnovazione, ad esempio a causa di irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare, «non vi sono ragioni per consentire un ribaltamento ex actis», fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all’esame non dipenda dalla volontà di favorire l’imputato, né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte. La violazione di tale obbligo configura, secondo Sez. U, “Dasgupta”, un vizio di motivazione della decisione di appello e non una violazione di legge.

L’assetto normativo nel quale è maturato il principio espresso da Sez. U, “Dasgupta”, è stato profondamente mofificato dalla legge n. 103 del 2017, che ha introdotto il comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen. La disposizione, con la quale il legislatore ha inteso recepire le regole del giusto processo secondo l’interpretazione dell’art. 6 Convenzione EDU - come necessità dell’organo giurisdizionale di esaminare il comportamento del propalante nella sua complessità, al fine di pervenire ad una giusta decisione -, prevede che, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone (sempre) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

La littera legis del nuovo comma 3 bis s’ispira sicuramente a quelle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno ritenuto violato l’art. 6 §§, 1 e 3 lett. d, Conv. EDU nel caso di condanna per la prima volta in appello di un imputato, già prosciolto in primo grado, sulla scorta di una mera rivalutazione delle prove dichiarative, senza che siano stati riesaminati i testimoni (o i dichiaranti in genere) a richiesta di parte o di ufficio (Corte EDU, 29 giugno 2017, Lorefice c. Italia). Nulla dice la nuova disposizione circa l’ambito di estensione dell’obbligo di rinnovazione: se l’immediatezza debba essere sempre garantita ovvero siano ammesse ipotesi derogatorie; ovvero se l’ascolto delle fonti orali sia divenuto conditio sine qua non per rovesciare l’esito assolutorio; ovvero ancora, se, in talune situazioni - ed eventualmente quali - si possa pronunciare condanna ex actis.

In realtà, già Sez. U, “Dasgupta”, aveva già individuato una deroga all’obbligo di rinnovazione nel caso in cui il propalante sia un soggetto vulnerabile (ad es., il minore, soprattutto se vittima di reati), per il quale è fatta salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporlo, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress, ovvero alla possibilità di fondare il proprio convincimento sulle dichiarazioni precedentemente rese, quando sia provato che la sottrazione all’esame non dipenda da attività illecite poste in essere da terzi.

Una ulteriore ipotesi di deroga all’obbligo di rinnovazione viene ravvisata dalla giurisprudenza della Corte nella possibilità di acquisizione, a determinate condizioni, della prova dichiarativa cartolare ai sensi dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 55068 del 26/09/2017, Panariello, Rv. 271552-01, nel caso in cui sia accertata la subornazione del testimone e non sussistano elementi indicativi di una successiva modifica di tale condizione; Sez. 2, n. 50035 del 19/09/2018, Gentiluomo, Rv. 247619-01, secondo cui la fattispecie di cui all’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. rientra nell’ambito di quelle eccezioni al principio di oralità ipotizzate dalla stessa Corte EDU e previste dall’art. 111, comma 5, Cost. a norma del quale «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».).

La stessa Corte EDU (Corte EDU, 15/12/2011, Tahery e Al-Kawaja c. Regno Unito; Corte EDU, 22/11/2012, Tseber c. Repubblica Ceca; Corte EDU, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania) afferma che il preteso obbligo di rinnovazione non promana – né è imposto - dal diritto convenzionale. La Corte europea reputa in contrasto con la garanzia convenzionale «non tanto l’uso della testimonianza documentale, quanto l’operazione di overturning effettuata su un compendio probatorio deprivato rispetto a quello esaminato dai giudici di prima istanza». Di qui l’ammissibilità di una pronuncia di condanna fondata su dichiarazioni predibattimentali cartolari (Corte EDU, Dan c. Moldavia, ammette la possibilità di celebrare un giudizio cartolare in situazioni di irripetibilità oggettiva, come la morte del testimone ed anche ove il dichiarante abbia esercitato il diritto al silenzio su circostanze che potrebbero condurlo alla sua incriminazione), qualora esse risultino accompagnate da adeguate garanzie procedurali (Corte EDU, Sez. II, Kashlev v. Estonia del 26 aprile 2016 e Sez. IV, 27 giugno 2017 Chiper c. Romania).

I parametri elaborati dalla giurisprudenza della Grande Camera sono stati recepiti nella citata sentenza Corte EDU, “Dan n. 2” nella parte in cui si ribadisce che il giudizio di appello deve essere un processo a tutti gli effetti, connotato da oralità e immediatezza nell’assunzione della prova, salva la possibilità di rinuncia dell’interessato, e si affida al giudice dell’impugnazione l’attribuzione della qualifica di main evidence o meno ad una prova testimoniale, e a dover motivare la conseguente necessità di procedere alla rinnovazione (in senso conforme, Corte EDU, Sez. III, 28 gennaio 2020, sul caso Lobarev ed altri c. Russia).

Inoltre, Corte EDU, Sez. I, 22 ottobre 2020, Tondo c. Italia, ha evidenziato che il diritto ad un processo equo esige che ad una prima condanna dell’imputato in appello si possa pervenire soltanto previa riassunzione delle prove decisive in virtù dell’art. 6, § 1, Conv. EDU, quando il giudice di appello non si limiti ad una nuova valutazione di elementi di natura puramente giuridica, ma allorché si pronunci su una questione fattuale come la credibilità del testimone, la cui valutazione è un atto complesso che merita una nuova escussione.

Infine, Corte EDU, Sez. I, 25/03/2021, Di Martino e Molinari c. Italia (ric. n. 15931/15 e 16459/15) attesta il disallineamento tra il principio dell’equo processo di matrice convenzionale e l’interpretazione del diritto “vivente” delle norme processuali. Con la sentenza in esame, la Corte europea, pur ribadendo che l’overturning dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado deve passare attraverso la rinnovazione della prova decisiva ai fini della condanna, quale condizione necessaria dell’equità del procedimento, ha escluso che nel caso di giudizio abbreviato si realizzi necessariamente una violazione della norma convenzionale nel caso in cui non si proceda a rinnovazione della prova cartolare, per le peculiari dinamiche del giudizio a prova contratta. Il diritto al confronto nell’assunzione della prova dichiarativa viene meno alla luce della opzione per il rito alternativo e delle eventuali integrazioni probatorie disposte dal giudice in primo grado.

Del resto, l’art. 111 Cost. non tutela il principio di immediatezza in via diretta ma all’interno del processo accusatorio e fa parte di quella gamma di principi necessariamente da porre a raffronto con l’intero quadro dei valori ricavabili dalla stessa Costituzione. La Corte costituzionale, in ragione della natura non assoluta ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) del diritto della parte alla nuova audizione, che secondo l’interpretazione convenzionale “ammette eccezioni”, ha sollecitato il legislatore ad introdurre «presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio» del diritto in questione (C. Cost., n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007).

Il rinnovato quadro normativo e le aperture della Corte EDU fanno da sfondo agli interventi delle Sezioni Unite per dirimere i dubbi di compatibilità tra l’art. 6 Convenzione EDU ed il principio del fair trial, declinato dalla giurisprudenza delle Corti europee, con il sistema di nuova assunzione della prova dichiarativa in appello nel caso in cui si intenda riformare l’esito assolutorio di primo grado, vincolando l’adempimento a determinate condizioni. Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, Troise, Rv. 272430/272431 ha affermato che, anche nel caso di overturning assolutorio, pur non sussistendo un obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, il giudice d’appello è comunque tenuto ad un preciso onere motivazionale, offrendo una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, valutando la possibilità anche di riassumere, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (il principio è massimato in Rv. 272430-01). Le Sezioni unite si sono spinte ad offrire una lettura interpretativa della nuova previsione del comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen., certamente funzionale alla conclusione di insussistenza dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di overturning assolutorio, rafforzata dal fatto che lo stesso legislatore ha voluto un simile obbligo solo nel caso di decisione di condanna.

La pronuncia si pone in linea di continuità con le precedenti sentenze Sez. U, “Dasgupta” e “Patalano”, calando i principi ivi espressi nel rinnovato quadro normativo. Lo spazio operativo dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa imposto dalla norma viene individuato sia con riferimento al caso in cui l’impugnazione del pubblico ministero si riferisca ad un giudizio ordinario, sia all’ipotesi in cui essa si innesti su un rito abbreviato, non sussistendo preclusioni all’esercizio dei poteri officiosi assegnati al giudice d’appello dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. in tale tipo di giudizio su prova “contratta”, il cui scopo, nel caso di condanna in appello, rimane comunque il superamento di ogni ragionevole dubbio, in ragione del principio del giusto processo.

L’obbligo di rinnovazione, nel caso di overturning di condanna, ha un ambito di applicazione circoscritto rispetto a quello ipotizzabile in astratto: da un lato, in relazione ai casi concreti oggetto di giudizio, atteso che l’orientamento maggioritario di legittimità esclude l’applicabilità dei “criteri Dasgupta” nell’ipotesi in cui il giudice abbia riformato la sentenza assolutoria di primo grado non già in base al diverso apprezzamento di una prova dichiarativa, bensì all’esito della differente interpretazione della fattispecie concreta, fondata su una complessiva valutazione dell’intero compendio probatorio; dall’altro, perché le Sezioni Unite escludono che il principio di immediatezza abbia un ruolo assorbente e prevalente, costituendo piuttosto, in quanto privo di autonoma garanzia costituzionale, un fondamentale carattere del contraddittorio, modulabile dal legislatore sulla base dell’incidenza dell’oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere. Ne deriva che tale principio diviene recessivo dove non venga in questione il relativo canone applicativo.

La stessa giurisprudenza della Corte costituzionale non individua nel principio di immediatezza un diritto assoluto della parte, ma ne ammette regolamentazioni volte ad impedirne usi strumentali e dilatori (C. cost., ordinanze n. 205 del 2010, n. 318 del 2008; n. 67 del 2007; n. 124 del 2019).

Infine, Sez. U, “Pavan Devis”, nell’estendere l’obbligo di rinnovazione alla prova tecnica, e nella specie alle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, costituenti prova dichiarativa in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, hanno segnato, come già anticipato sopra, una nuova tappa nel percorso risolutivo del problema della «ontologica contraddittorietà della decisione sulla colpevolezza dell’imputato derivante da due sentenze dal contenuto antitetico [...] fondate sulle medesime prove» e «sulla modalità processuale, con la quale si deve garantire il diritto di difesa e del contraddittorio [...]» (§2 del Considerato in diritto).

3. Obbligo di rinnovazione e lettura delle dichiarazioni predibattimentali.

Nei casi in cui sia divenuta impossibile la ripetizione in giudizio delle dichiarazioni testimoniali, ove si disponga l’acquisizione mediante lettura delle dichiarazioni rese in fase predibattimentale non si verificano violazioni.

Gli arresti della Corte offrono una soluzione, in tema di letture dibattimentali, a possibili punti di frizione dell’esigenza di evitare la dispersione di materiali cognitivi con la garanzia del contraddittorio nella formazione della prova, inteso nella duplice declinazione, oggettiva e soggettiva, quale metodo euristico, di accertamento giudiziale, e quale diritto dell’imputato al confronto con le fonti di accusa.

Sul tema, Sez. 6, n. 2296 del 13/11/2013, Frangiamore, Rv. 257771 – 01, ha ritenuto non configurabile la violazione dell’art. 6 Conv. EDU in un caso in cui le dichiarazioni predibattimentali, acquisite in dibattimento ex art. 512-bis cod. proc. pen., non possono considerarsi determinanti al fine di sostenere la fondatezza dell’accusa, la quale era risultata provata alla luce di ulteriori emergenze processuali; Sez. 6, n. 43899 del 28/06/2018, Tropeano, Rv. 274278 – 01, ha attribuito rilevanza probatoria secondaria alle dichiarazioni, acquisite ex art. 512 cod. proc. pen., provenienti da soggetto non reperibile, con la conseguenza che non possono essere poste a fondamento della condanna in mancanza di altri elementi di prova, essendo necessario inquadrarle in un ambito più ampio nel quale non assumano rilievo decisivo o preponderante. Infine, Sez. 6, n. 50094 del 26/03/2019, D., Rv. 278195 – 03, ha affermato che “le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. possono costituire, conformemente all’interpretazione espressa dalla Grande Camera della Corte EDU con le sentenze 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c/ Regno Unito e 15 dicembre 2015, Schatschaachwili c/ Germania, la base determinante dell’accertamento di responsabilità, purché l’assenza di contraddittorio sia controbilanciata da solide garanzie procedurali, individuabili nella esistenza di elementi di riscontro, che corroborino quei contenuti dichiarativi”.

In altri arresti (Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531–01; Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148 – 01) si puntualizza la nozione di “garanzie procedurali” idonee a compensare il deficit di contraddittorio. Queste si sostanziano, da un lato, nell’accurato vaglio di credibilità dei contenuti accusatori, effettuato anche attraverso lo scrutinio delle modalità di raccolta, e, dall’altro, nella compatibilità di tali contenuti con i dati di contesto. La verifica di tali garanzie si presenta alternativa a quella dell’esistenza di elementi di conferma esterna ai contenuti accusatori.

Le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. possono, dunque, costituire, in armonia con i canoni interpretativi espressi dalla Grande Camera della Corte EDU, la base determinante dell’accertamento di responsabilità purché l’assenza di contraddittorio sia controbilanciata da solide garanzie procedurali, individuabili nell’esistenza di elementi di riscontro, che corroborino quei contenuti dichiarativi sotto il profilo della attendibilità della fonte.

4. Considerazioni di sintesi.

In attesa della motivazione della decisione delle Sezioni Unite (Ud. 30.09.2021), possono essere svolte alcune considerazioni di sintesi alla luce della articolata risposta fornita alle questioni sollevate.

Al quesito principale le Sezioni Unite hanno dato risposta sostanzialmente negativa, ritenendo, secondo quanto riportato nella informazione provvisoria che «la riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso, irreperibilità o infermità del dichiarante. Nondimeno la motivazione della sentenza che si fondi sulla prova già acquisita, deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori - idonei compensare il sacrificio del contraddittorio - che il giudice ha l’onere di ricercare e acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603 cod. proc. pen.».

La soluzione prende atto del mutato quadro normativo, per effetto della introduzione del comma 3-bis nel corpo dell’art. 603 cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, applicabile nel giudizio di rinvio, e del consolidarsi dell’interpretazione convenzionale del principio di complessiva equità del processo. Si legittima la previsione di una specifica fattispecie derogatoria all’obbligo di riassunzione della prova dichiarativa, nei casi di accertata impossibilità oggettiva della rinnovazione, come nel caso di sopravvenuto decesso della propalante, in linea con l’art. 111, comma 5, Cost., trattandosi di casi riferibili a "fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni rese in precedenza, a prescindere dall’atteggiamento soggettivo" (Corte Cost., sent. n. 440 del 2000) ed in accordo con la linea tracciata dalla giurisprudenza della Corte EDU, che invidua uno iato tra la fattispecie convenzionale di “complessiva equità” del processo (nei termini indicati nelle due sentenze della Corte EDU, Grande Camera, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito e Schatschaschwili c. Germania, cit.) e l’elaborazione interna del principio di immediatezza istruttoria. In tal modo sarebbero espressamente sottratti all’obbligo di rinnovazione i casi di impossibilità materiale (ad es., morte del testimone), o di tipo giuridico, di riassunzione della prova, ed in cui non vi sarebbe margine per la lesione della garanzia convenzionale, dovendo il giudice limitarsi ad accertare la causa di impedimento, senza svolgere osservazioni sul comportamento del testimone e sulla sua incidenza sull’esito del processo.

Espresso è il richiamo alla necessità di “adeguate garanzie compensative, che si sostanziano in un obbligo di motivazione “rafforzata” della sentenza che si fondi sulla prova già acquisita e su elementi ulteriori, idonei compensare il sacrificio del contraddittorio.

Elemento centrale del giudizio è rappresentato dal canone dell’ ”oltre ogni ragionevole dubbio”, come cristallizzato dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., che, nel formulare in termini assoluti l’obbligo di rinnovazione, sia pur circoscritto alle ipotesi di gravame esperito dal p.m. avverso la sentenza di proscioglimento, sembra aver voluto porre una garanzia più rigida a salvaguardia dell’imputato assolto in primo grado, al fine di consentirgli di partecipare nuovamente all’esame incrociato della fonte di prova dinanzi al giudice chiamato a rivalutarne la responsabilità. Diverso è, infatti, il tenore del nuovo comma 3-bis, che impone (in via automatica) la riassunzione della prova dichiarativa unicamente in caso di appello dell’accusa, a fronte della eventualità di un ulteriore segmento istruttorio ai sensi del comma 3 dell’art. 603 cod. proc. pen., che può essere disposto solo ove il giudice lo ritenga assolutamente necessario.

Si pone, infine, l’accento sull’onere del giudice di ricercare e acquisire, anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603 cod. proc. pen., gli ulteriori elementi compensativi della prova dichiarativa divenuta impossibile. Resta immutata, in tale prospettiva, la funzione dell’appello come mezzo di controllo, che consente al giudice di arricchire, a richiesta di parte o di ufficio, il compendio probatorio valutabile oggetto di acquisizione della prova dichiarativa cartolare.

A tali condizioni, non si giustificherebbe alcuna preclusione alla decisione di condanna in appello soggettivamente orientata (in favore dell’imputato) ove il giudice (del rinvio) abbia legittimamente provveduto, alla acquisizione, ex art. 512 cod. proc. pen., dei verbali di dichiarazioni predibattimentali rese dal testimone, nelle more deceduto, e valutato, in difformità dal giudice di primo grado, la attendibilità della fonte alla luce del nuovo compendio probatorio.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 2296 del 13/11/2013, Frangiamore, Rv. 25777101

Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 26749001

Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 26978701

Sez. 2, n. 55068 del 26/09/2017, Panariello, Rv. 27155201

Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 27243001 - 27243101

Sez. 6, n. 43899 del 28/06/2018, Tropeano, Rv. 27427801

Sez. 2, n. 50035 del 19/09/2018, Gentiluomo, Rv. 24761901

Sez. 6, n. 50994 del 26/03/2019, D., Rv. 27819503

Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 27653101

Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 27914801

Sentenze della Corte costituzionale

C. cost., n. 205 del 2010,

C. cost., n. 318 del 2008

C. cost., n. 67 del 2007

C. cost., n. 124 del 2019

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU, 7/07/1989 Bricmont c. Belgio

Corte EDU, 21/01/1999, Garcia Ruiz c. Spagna

Corte EDU, 27/06/ 2000, Constantinescu c. Romania

Corte EDU, 15/07/2003, Sigurbòr Arnarsson c. Islanda

Corte EDU, 18/05/2004, Destrehem c. Francia

Corte EDU, 05/07/2011, Dan c. Moldavia

Corte EDU, Grande Camera, 15/12/2011, Al-Khawaja e Tahery contro Regno Unito

Corte EDU, 22/11/2012, Tseber c. Repubblica Ceca

Corte EDU, Grande Camera, 15/12/2015, Schatschaschwili contro Germania

Corte EDU, Sez. II, 26/04/2016, Kashlev v. Estonia

Corte EDU, Sez. IV, 27/06/2017 Chiper c. Romania

Corte EDU, Sez. I, sentenza 29/06/2017, Lorefice c. Italia

Corte EDU, Sez. III, 28/01/2020, Lobarev ed altri c. Russia

Corte EDU, Sez. I, 22/10/2020, Tondo c. Italia

Corte EDU, Sez. II, 10/11/2020, Dan c. Moldavia (n. 2)

Corte EDU, Sez. I, 25/03/2021, Di Martino e Molinari c. Italia

  • reato
  • procedura penale
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO IV

L’ESEGUIBILITA’ DEL GIUDICATO PARZIALE

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contrasto ermeneutico. - 3 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite: l’eseguibilità del giudicato parziale solo in caso di “completezza” della decisione sul singolo capo. - 3.1 (segue) Le sue ricadute in caso di custodia cautelare e in tema di reato continuato. - 3.2 (Segue) L’esclusione della rilevanza ostativa dell’annullamento con rinvio relativo ai punti concernenti le misure di sicurezza, le pene accessorie o le confische. - 3.4 (Segue) Il giudice competente ai fini della determinazione della pena da eseguire. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno in corso è stata depositata la sentenza n. 3423 emessa dalle Sezioni Unite all’udienza del 29/10/2020, ric. Gialluisi, in cui il Supremo Consesso ha affermato i seguenti principi di diritto, così massimati:

- In caso di annullamento parziale della sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., è eseguibile la pena principale irrogata in relazione ad un capo (o a più capi), non in connessione essenziale con quelli attinti dall’annullamento, per il quale abbiano acquistato autorità di cosa giudicata i punti relativi all’affermazione di responsabilità, anche in relazione alle circostanze del reato, ed alla determinazione della pena principale, individuata alla stregua delle sentenze pronunciate in sede di cognizione ed immodificabile nel giudizio di rinvio. (Rv. 280261 – 01);

In caso di annullamento parziale della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., spetta agli organi dell’esecuzione l’accertamento relativo ad eventuali questioni sulla eseguibilità e sulla specifica individuazione della pena inflitta in relazione al capo, o ai capi, non in connessione essenziale con quelli attinti dall’annullamento, potendo la Corte di cassazione, con la sentenza rescindente o con l’ordinanza di cui all’art 624, comma 2, cod. proc. pen., solo dichiarare, quando occorre, quali parti della sentenza parzialmente annullata siano diventate irrevocabili. (Rv. 280261 – 02);

- In caso di annullamento parziale di una sentenza di condanna in relazione ad uno o più capi per i quali sia stata ravvisata la continuazione con quello, o con quelli, che, ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., hanno acquistato autorità di cosa giudicata, la pena inflitta in relazione al capo, o ai capi, divenuti irrevocabili può essere posta in esecuzione solo a condizione che in esso sia stato irrevocabilmente individuato il reato più grave, anche in relazione alle circostanze, e la pena stessa presenti i caratteri della completezza, essendo insuscettibile di modifiche nel giudizio di rinvio, e della certezza, in quanto individuabile sulla base delle sentenze rese nel giudizio di cognizione e non attraverso ragionamenti ipotetici. (Rv. 280261 – 03).

La questione controversa si inserisce nell’ambito del tema relativo ai rapporti tra giudicato parziale conseguente alla sentenza di annullamento parziale (art. 624 cod. proc. pen.) ed esecutività della sentenza (artt. 648 e 650 cod. proc. pen.).

Sul tema si sono registrati numerosi arresti nomofilattici delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, - dep. 1991, Agnese, Rv. 186165; Sez. U, n. 6019 del 11/5/1993, Ligresti, Rv. 193419; Sez. U, n. 4460 del 19/1/1994, Cellerini, Rv. 196888; Sez. U, n. 20 del 9/10/1996, Vitale, Rv. 206170; Sez. U, n. 4904 del 26/3/1997, Attinà, Rv. 207640) il cui contenuto è già stato analizzato nel contributo di questo Ufficio nella Rassegna della giurisprudenza di legittimità. Gli orientamenti delle sezioni Penali. Vol. II, 499 e ss., cui si rimanda.

Ripercorrendo sinteticamente le coordinate ermeneutiche tracciate da tali arresti, possono individuarsi due fondamentali direttrici lungo le quali si è snodato il ragionamento della Supremo Consesso: da un lato, la definizione del sintagma “parti della sentenza”, costantemente riferito a qualunque statuizione dotata di autonomia giuridico-concettuale e, quindi, non solo alle decisioni che concludono il giudizio in relazione ad un capo di imputazione, ma anche a quelle che, nell’ambito della stessa contestazione, individuano aspetti non più suscettibili di riesame; dall’altra, la distinzione tra l’autorità di cosa giudicata, attribuibile al singolo punto in funzione di limite alla cognizione del giudice di rinvio, e l’eseguibilità della sentenza, riconoscibile solo con la formazione di un vero e proprio titolo esecutivo.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche le Sezioni Unite, “Agnese”, hanno escluso che nel giudizio di rinvio avente ad oggetto statuizioni diverse dal riconoscimento della sussistenza del fatto-reato e della responsabilità dell’accusato possa essere dichiarata la causa estintiva di un reato (nella specie, la prescrizione) sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale della cassazione (il medesimo principio è stato successivamente esteso anche alle cause di estinzione del reato preesistenti alla pronuncia rescindente e non valutate dalla Corte da Sez. U., n. 6019 del 11/5/1993, Ligresti, Rv. 193418).

Quanto al profilo dell’eseguibilità del giudicato progressivo, le Sezioni Unite, pur distinguendo costantemente tra l’autorità di cosa giudicata, predicato del giudicato progressivo, e la eseguibilità che, ai sensi dell’art. 650 cod. proc. pen., connota le sentenze e i decreti penali “quando sono divenuti irrevocabili”, hanno sostanzialmente ammesso che anche il giudicato parziale può avere forza esecutiva qualora si tratti di una sentenza cumulativa ed intervenga in relazione a uno o più capi di cui questa si compone. In particolare, le Sezioni Unite, “Cellerini”, hanno ribadito la dicotomia che la formazione del giudicato progressivo implica tra la “irrevocabilità” e la “eseguibilità” della sentenza, «differita in tal caso “in un tempo successivo e condizionato».

Riprendendo il principio già affermato dalle Sezioni Unite, “Agnese”, in merito alla eseguibilità differita del giudicato progressivo, le Sezioni Unite, “Cellerini” hanno, pertanto, affermato che, con riferimento all’ipotesi della formazione progressiva del giudicato, conseguente ad annullamento parziale dell’impugnata sentenza da parte della Corte di cassazione, il differimento della “eseguibilità” della sentenza anche nelle parti non annullate ad un tempo successivo - ossia a quello in cui la sentenza sia divenuta definitiva in ogni sua parte - deve ritenersi del tutto legittimo giacché mentre la eseguibilità della sentenza di condanna va posta in relazione alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo e, quindi, alla materiale e giuridica possibilità della esecuzione della sentenza nei confronti di un determinato soggetto, l’autorità di cosa giudicata attribuita ad una o più statuizioni contenute nella stessa sentenza di annullamento parziale è conseguente all’esaurimento del relativo giudizio e prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato (Rv. 196888).

2. Il contrasto ermeneutico.

Un primo orientamento ermeneutico, ponendosi sostanzialmente in linea di continuità con tali principi di diritto, ha ritenuto eseguibile solo il giudicato progressivo formatosi, in caso di sentenza cumulativa, sui singoli capi di imputazione.

Si afferma, infatti, che nel caso in cui la sentenza ricomprenda una pluralità di capi a carico dello stesso imputato, dalla autonomia di ciascuno di essi deriva il passaggio in giudicato di quei capi della sentenza non investiti dall’annullamento con rinvio; ciò determina l’obbligo per la competente autorità giudiziaria di porre in esecuzione il titolo penale per la parte divenuta irrevocabile, nonostante il processo, in conseguenza dell’annullamento parziale, debba proseguire, in sede di rinvio, per la nuova decisione sui capi annullati (Sez. 1, n. 4506 del 10/12/1990. dep. 1991, Teardo, Rv. 186838). In termini conformi anche Sez. 1, n. 575 del 12/2/1993, Fracapane, Rv. 193656 ha affermato che l’irrevocabilità e la conseguente esecutività della sentenza penale di condanna, ai sensi del combinato disposto degli artt. 648 e 650 cod. proc. pen., debbono necessariamente riguardare il capo d’imputazione nella sua interezza, essendo irrilevante, in contrario, la possibilità di formazione di un giudicato parziale prevista, nel caso di annullamento con rinvio, dall’art. 624, comma 1, cod. proc. pen., giacché, in tale ultima ipotesi, si tratta di una irrevocabilità connessa allo sviluppo del rapporto processuale e limitata ad una o più statuizioni aventi un’autonomia giuridico - concettuale anche nell’ambito di un singolo capo d’imputazione, senza che però ciò incida sulla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato, richiedendo questa pur sempre la formazione di un giudicato di condanna che non può dirsi realizzato finché il soggetto rivesta, comunque, la qualifica di imputato.

Altro più recente orientamento ha, invece, ritenuto l’eseguibilità del giudicato parziale, anche nel caso in cui l’annullamento riguardi la misura del trattamento sanzionatorio, qualora sia già determinata la pena detentiva minima da porre in esecuzione e questa sia insuscettibile di modificazioni in melius all’esito del giudizio di rinvio (Sez. 1, n. 41941 del 21/9/2012, Pitarà, Rv. 253622; Sez. 1, n. 25881 del 12/5/2015, Neri; Sez. 1, n. 3273 del 19/12/2016, dep. 2017, Gallo; Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, Centonze, Rv. 272610; Sez. 1 n. 43824 del 12/4/2018, Milito, Rv. 274639).

Altri recenti arresti hanno ulteriormente sviluppato la tesi sopra esaminata ammettendo l’eseguibilità del giudicato interno al singolo capo di imputazione, formatosi sulla affermazione della penale responsabilità dell’imputato, anche nell’ipotesi in cui la pena minima non sia determinata, ma determinabile secondo precisi criteri logico-giuridici (Sez. 1, n. 19644 del 9/4/2019, Gallo, Rv. 275605; Sez. 1, n. 33154 del 15/5/2019, Chirico, Rv. 277226; Sez. 1, n. 42728 del 20/9/2019, Buonavoglia).

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite: l’eseguibilità del giudicato parziale solo in caso di “completezza” della decisione sul singolo capo.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire, sia pure con le puntualizzazioni di seguito riportate, al primo orientamento che, in linea di continuità con il “diritto vivente”, riconosce l’eseguibilità del giudicato progressivo solo in caso di “completezza” della decisione concernente la singola imputazione (in punto sia di affermazione della responsabilità che di determinazione del relativo trattamento sanzionatorio), purché non connessa con la parte oggetto di annullamento (principio affermato anche in tema di reato continuato, tra le altre, da Sez. 1, n. 6189 del 27/12/2019, dep. 2020, Castiglione, Rv. 278473 e da Sez. 1, n. 32477 del 19/6/2013, Dello Russo, Rv. 257003).

La questione controversa è stata esaminata alla luce della ricostruzione sistematica della nozione di giudicato progressivo sopra analizzata e, in particolare, degli spunti ermeneutici offerti dalle sentenze delle Sezioni Unite “Vitale” ed “Attinà” in merito: 1) alla correlazione tra l’autorità di cosa giudicata attribuita ad un capo e l’esecutività della decisione irrevocabile ad esso relativa, qualora non in connessione essenziale con la parte oggetto di annullamento con rinvio (Sez. U, “Vitale”); 2) alla insussistenza della esaustività della regiudicata, elemento necessario per l’esecuzione della parte della sentenza divenuta irrevocabile, allorché permanga un residuo potere cognitivo del giudice di rinvio in ordine alla determinazione della pena (Sez. U, “Attinà”).

Il ragionamento svolto dalle Sezioni Unite muove dalla precisa individuazione del perimetro del titolo necessario ai fini dell’eseguibilità della “parte della sentenza” divenuta irrevocabile per effetto dell’annullamento parziale. Pur ribadendo che tale nozione comprende sia il capo che i punti ad esso afferenti, le Sezioni Unite hanno chiaramente affermato che, dalla lettura degli artt. 624, 648 e 650 cod. proc. pen. può desumersi che la formazione del titolo esecutivo consegue all’irrevocabilità delle parti della sentenza concernenti sia l’accertamento del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato che la determinazione della pena.

Tale affermazione costituisce il necessario sviluppo logico della riconosciuta dicotomia che può conseguire alla sentenza di annullamento parziale tra l’autorità di cosa giudicata, riferibile alla parte della sentenza su cui si è esaurito il potere decisorio, e la sua eseguibilità. Si afferma, infatti, che la prima, oltre a definire il perimetro cognitivo e decisorio del giudizio di rinvio, introduce una “barriera” alla rilevazione di alcune cause estintive del reato e «dà corpo a quella “condanna definitiva” che, in forza dell’art. 27, secondo comma Cost., segna a quei fini, il superamento della presunzione di innocenza» (si richiamano, a conferma della conformità costituzionale e convenzionale di tale considerazione, Corte cost. n. 367 del 1996 e le sentenze della Corte Edu, tra le altre, quella dell’8/10/2009, Previti c. Italia, in cui è stata esclusa l’applicabilità dell’art. 6, §2, CEDU, al procedimento volto alla commisurazione della pena dopo la condanna, sulla base della considerazione che la disposizione convenzionale restringe la portata della presunzione di innocenza al mero accertamento legale della colpevolezza).

Tale considerazione consente, dunque, alla Corte di ribadire che l’autorità di cosa giudicata può essere riconosciuta, a norma dell’art. 624 cod. proc. pen., anche a punti relativi a un capo della sentenza oggetto di annullamento parziale e, segnatamente, a quelli relativi all’affermazione di responsabilità per un fatto reato, non legati da connessione essenziale – intesa come interdipendenza logico-giuridica tra le diverse statuizioni - con la parte annullata.

Diversamente, ai fini della eseguibilità, si richiede che tale irrevocabilità investa tutti i profili del fatto reato e della relativa affermazione di responsabilità, compresi quelli relativi alle circostanze ed alla determinazione della pena (sempre che, si ribadisce, non sussistano vincoli connettivi con le parti oggetto di annullamento).

Ad avviso del Supremo Consesso, tale irrevocabilità, pur costituendo condizione necessaria dell’eseguibilità del titolo, non è tuttavia, sufficiente: affinché il giudicato parziale avente ad oggetto la pena relativa ad un capo costituisca anche un vero e proprio titolo esecutivo, è necessario che la pena sia “completa”, ossia non suscettibile di modifiche all’esito del giudizio di rinvio, e “certa”, in quanto individuabile sulla base delle sentenze rese in sede di cognizione e non ricostruibile attraverso ragionamenti ipotetici. Tale conclusione, prosegue ancora la Corte, risulta coerente con la funzione rieducativa della pena e consente di superare le incongruenze sistematiche che potrebbero derivare nell’applicazione di taluni istituti propri dell’esecuzione delle pene detentive - soprattutto in tema di sospensione dell’ordine di esecuzione e di misure alternative, quali l’affidamento in prova al servizio sociale - la cui applicabilità in relazione ad una pena non ancora irrevocabilmente definita risulterebbe potenzialmente incompatibile con i presupposi legali di ciascuno.

3.1. (segue) Le sue ricadute in caso di custodia cautelare e in tema di reato continuato.

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, analizzato le immediate ricadute di tale perimetrazione del titolo esecutivo con riferimento all’ipotesi in cui l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare ed in tema di reato continuato.

Quanto al primo aspetto, le Sezioni Unite hanno ritenuto coerente con le coordinate ermeneutiche sulla formazione del titolo esecutivo la soluzione che ritiene che, in caso di giudicato progressivo limitato al punto concernente l’accertamento del fatto-reato e la responsabilità, la detenzione dell’imputato deve essere considerata come custodia cautelare con conseguente applicazione dei termini di durata della custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. (tra le tante, Sez.4, n. 10674 del 19/2/2013, Macrì, Rv. 254940). In tal caso, infatti, ribadiscono le Sezioni Unite, l’assenza di “certezza” e “completezza” della pena, la cui determinazione costituisce oggetto del giudizio di rinvio, impedisce la formazione di un titolo esecutivo e, con essa, l’attribuzione alla detenzione della qualificazione di esecuzione della pena.

Con riferimento al tema del reato continuato, le Sezioni Unite hanno, invece, ritenuto necessaria una puntualizzazione della soluzione ermeneutica adottata.

È stata, infatti, esclusa la completezza e certezza della pena determinata in relazione ad un capo interamente investito dalla formazione del giudicato progressivo nel caso in cui il giudizio di rinvio possa determinare un mutamento della struttura del reato continuato e, dunque, l’individuazione di un diverso reato più grave.

Simmetricamente, è stata, pertanto, riconosciuta l’eseguibilità del giudicato progressivo formatosi sul reato qualificato irrevocabilmente come reato più grave, rispetto al quale la pena determinata sia “certa” e “completa”, nel caso in cui il giudizio di rinvio abbia ad oggetto alcuni o tutti i reati-satellite.

Va, tuttavia, considerato che anche in tal caso, precisa la Corte, potrebbero prospettarsi delle ipotesi ostative all’eseguibilità del capo. Ciò potrebbe, ad esempio, accadere nel caso (concretamente affrontato da Sez. 1, n. 45340 del 10/9/2019, Vinciguerra, Rv. 277915) in cui la concedibilità della sospensione condizionale della pena richieda il completamento dell’iter processuale relativo al capo oggetto di annullamento con rinvio.

3.2. (Segue) L’esclusione della rilevanza ostativa dell’annullamento con rinvio relativo ai punti concernenti le misure di sicurezza, le pene accessorie o le confische.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto necessaria un’ulteriore puntualizzazione anche con riferimento all’ipotesi in cui il giudicato progressivo si formi all’interno di un singolo capo.

Fermi restando i presupposti sopra esaminati ai fini della formazione di un titolo esecutivo, la Corte ha chiarito che ove l’annullamento con rinvio riguardi i punti concernenti le misure di sicurezza, le pene accessorie o le confische non aventi natura di misura di sicurezza, ciò non osta all’eseguibilità della pena determinata con la formazione del giudicato progressivo, trattandosi di punti che, quanto alle prime, non influiscono sui connotati che devono caratterizzare la pena suscettibile di esecuzione né sulla sua finalità rieducativa, e, quanto alle altre, non determinano incongruenze sistematiche in fase esecutiva, né incidono sul discrimen tra cautela personale ed esecuzione o sul completo accertamento del fatto criminoso anche nelle sue componenti circostanziali, funzionali all’avvio di un percorso di reinserimento sociale.

In particolare, quanto alle pene accessorie, rilevano le Sezioni Unite che le stesse non hanno alcuna influenza sull’esecuzione della pena principale e, in quanto conseguenti di diritto alla sentenza di condanna, possono essere eseguite in qualsiasi momento dalla formazione del giudicato, non essendo, peraltro, soggette a prescrizione (si richiama Sez. 1, n. 33541 del 6/7/2016, Altamura, Rv. 267463). Quanto alle confische, si richiama, a conferma dell’autonomia delle relative statuizioni, l’art. 578-bis cod. proc. pen.

Alla luce di tale precisazione, la Corte ha, pertanto, chiarito che deve considerarsi esecutiva la pena principale irrogata in relazione ad un capo (o a più capi) – non in connessione essenziale con quelli attinti dall’annullamento parziale – per il quale siano passati in giudicato tutti i punti, ad eccezione di quelli attinenti alle pene accessorie, alle misure di sicurezza ordinate con sentenza ed alle confische non aventi natura di misura di sicurezza. È stato, infine, aggiunto che restano, estranee al tema dell’esecutività della pena principale le questioni attinenti alle statuizioni civili, in quanto afferenti ad un capo autonomo della sentenza.

3.4. (Segue) Il giudice competente ai fini della determinazione della pena da eseguire.

L’ultima questione esaminata dalle Sezioni Unite attiene al tema, posto dall’ordinanza di rimessione, relativo alla competenza, se della Corte di cassazione o degli organi dell’esecuzione, ai fini della determinazione della pena da eseguire in relazione al giudicato parziale.

Preliminarmente la Corte ha ribadito la natura dichiarativa, e non costitutiva, della declaratoria relativa alle parti della sentenza divenute irrevocabili, che la Corte di cassazione può effettuare contestualmente alla pronuncia rescindente, o successivamente, secondo la procedura descritta dall’art. 624, commi 2 e 3, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 6287 del 15/12/1999, dep. 2000, Piconi, Rv. 217857; Sez. 2, n. 46419 del 16/10/2014, Barchetta, Rv. 261050; Sez. 4, n. 29186 del 29/5/2018, Marangio, Rv. 272966; Sez. 1, n. 10880 del 17/1/2020, Toscano).

Ferma restando tale competenza della Corte di cassazione, le Sezioni Unite hanno affermato che spetta, invece, agli organi dell’esecuzione l’accertamento relativo all’eseguibilità della pena ed alla sua specifica individuazione.

A fondamento di tale conclusione, si considerano: a) il chiaro tenore letterale dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen.; b) l’assenza di previsioni che legittimino l’esclusione degli organi dell’esecuzione penale dall’esercizio di una funzione tipicamente rientrante nel genus dell’esecuzione stessa; c) la necessità di non sottrarre l’accertamento relativo all’eseguibilità della pena al procedimento esecutivo ed alle garanzie che, attraverso la sua articolazione (anche con rimedi impugnatori), esso è in grado di apprestare.

In particolare, ad avviso delle Sezioni Unite l’esclusione dell’accertamento in esame dalla competenza degli organi dell’esecuzione non si concilierebbe con la valorizzazione della fase esecutiva voluta dal legislatore codicistico che, secondo quanto si legge nella Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, ha visto in essa lo «strumento per l’attuazione del principio costituzionale dell’umanizzazione della pena da cui deriva quello di adeguatezza della medesima al fine della possibile rieducazione del condannato». In tale prospettiva, concludono le Sezioni Unite, spetta al pubblico ministero il ruolo di «promotore dell’esecuzione penale» ed al giudice dell’esecuzione quello di organo chiamato a risolvere i problemi posti dal titolo esecutivo, cui spetta il potere-dovere di interpretare il giudicato e di renderne espliciti il contenuto ed i limiti.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 373 del 23/11/1990, dep. 1991, Agnese, Rv. 186165

Sez. U, n. 6019 del 11/5/1993, Ligresti, Rv. 193418 – 193421

Sez. U, n. 4460 del 19/1/1994, Cellerini, Rv. 196887 - 196888

Sez. U, n. 20 del 9/10/1996, Vitale, Rv. 206170

Sez. U, n. 4904 del 26/3/1997, Attinà, Rv. 207640

Sez. 2, n. 6287 del 15/12/1999, dep. 2000, Piconi, Rv. 217857

Sez. 1, n. 41941 del 21/9/2012, Pitarà, Rv. 253622

Sez. 4, n. 10674 del 19/2/2013, Macrì, Rv. 254940

Sez. 1, n. 32477 del 19/6/2013, Dello Russo, Rv. 257003

Sez. 2, n. 46419 del 16/10/2014, Barchetta, Rv. 261050

Sez. 1, n. 25881 del 12/5/2015, Neri

Sez. 1, n. 33541 del 6/7/2016, Altamura, Rv. 267463

Sez. 1, n. 3273 del 19/12/2016, dep. 2017, Gallo

Sez. 2, n. 45095 del 4/7/2017, Assinnata, Rv. 272260

Sez. 5, n. 46431 del 13/9/2017, P.G. in proc. Licciardi

Sez. 1, n. 12904 del 10/11/2017, Centonze, Rv. 272610

Sez. 1, n. 43824 del 12/4/2018, Milito, Rv. 274639

Sez. 4, n. 29186 del 29/5/2018, Marangio, Rv. 272966

Sez. 1, n. 14984 del 13/3/2019, Versaci, Rv. 275063

Sez. 1, n. 19644 del 9/4/2019, Gallo, Rv. 275605

Sez. 1, n. 33154 del 15/5/2019, Chirico, Rv. 277226

Sez. 1, n. 45340 del 10/9/2019, Vinciguerra, Rv. 277915

Sez. 1, n. 42728 del 20/9/2019, Buonavoglia,

Sez. 1, n. 6189 del 17/12/2019, dep. 2020, Castiglione, Rv. 278473

Sez. 1, n. 10880 del 17/1/2020, Toscano

Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 280261-01/02/03

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE VI - ESECUZIONE

  • reato
  • giudice
  • sospensione di pena
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO I

LA COMPETENZA DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE IN TEMA DI SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA E DI CONTINUAZIONE

(di Fulvio Filocamo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La revoca della sospensione condizionale della pena in sede di esecuzione. - 3 Il contrasto emerso nel 2021. - 4 La competenza del giudice dell’esecuzione in tema di continuazione. - 5 Il contrasto sull’obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento di pena per i reati satelliti ritenuti legati dal vincolo della continuazione risolto dalle Sez. U. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Il giudice dell’esecuzione è individuato, ai sensi dell’art. 665 cod. proc. pen., in quello che ha deliberato il provvedimento da eseguire e, in caso di giudizio di impugnazione che abbia confermato o riformato la sentenza solamente in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, nel giudice di primo grado; è il giudice di secondo grado, invece, se in sede d’appello vi sia stata un’effettiva riforma della decisione impugnata, come nel caso di avvenuta variazione di fattori circostanziali determinativi di aumenti o riduzioni di pena (con il riconoscimento di attenuanti o aggravanti diverse ovvero con la modifica del giudizio di comparazione) per il diverso apprezzamento di elementi fattuali o per la diversa ricostruzione della personalità dell’imputato.

Nel caso di concessione della sospensione condizionale della pena in appello, la competenza non muta poiché la valutazione operata dal giudice di secondo grado, ai sensi dell’art. 163 cod. pen., si sostanzia in un mero giudizio prognostico favorevole sulla condotta del reo successiva al giudizio e non in una variazione sostanziale della decisione di primo grado. Detta valutazione, infatti, operata ai sensi dell’art. 163 cod. pen., non comporta una modifica sostanziale della decisione impugnata, ma si sostanzia (al di la` delle condizioni legali inerenti all’entità della pena complessiva e l’assenza di cause ostative) nella formulazione di un giudizio prognostico favorevole sulle condotte del reo posteriori al giudizio che si basa sulle medesime condizioni descritte nell’art. 133 cod. pen. le quali incidono sulla determinazione della pena (Sez. 1, n. 34030 del 1/10/2020, Rv. 279998 - 01; nello stesso senso Sez. 1, n. 36260 del 8/7/2004, Rv. 229885 - 01; Sez. 1, n. 1745 del 28/2/1997, Rv. 207191 - 01 e Sez. 1, n. 5888 del 13/2/1997, Rv. 207046 - 01), anche nel caso in cui il giudice d’appello abbia eliso la condizione apposta per la concessione della sospensione condizionale della pena (Sez. 3, n. 34613 del 21/6/2011, Rv. 251083 - 01). Analogamente, ai fini dell’individuazione del giudice dell’esecuzione nel caso previsto dall’art. 665, comma 4, cod. proc. pen. di più provvedimenti emessi da giudici diversi, il giudice competente è quello che ha pronunciato la sentenza divenuta irrevocabile per ultima, anche nel caso in cui questa non sia, allo stato, suscettibile di esecuzione per la concessione della sospensione condizionale della pena, e ciò in quanto in sede esecutiva la posizione del condannato deve essere unitariamente considerata tenendosi conto di tutte le pene irrogategli a prescindere dall’eseguibilità delle medesime (Sez. 1, n. 5888 del 7/12/1994, Rv. 200545 - 01).

2. La revoca della sospensione condizionale della pena in sede di esecuzione.

L’art. 168 cod. pen. disciplina le cause di revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena può essere revocato, senza distinguere se detta revoca debba intervenire in sede di cognizione o di esecuzione, salva l’indicazione resa dall’art. 674 cod. proc. pen. che prevede la revoca in sede esecutiva “qualora non sia disposta con la sentenza di condanna per altro reato” ovvero quando rilevi “l’esistenza delle condizioni di cui al terzo comma dell’art. 168 cod. pen.”, ovvero sia stata “concessa in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen. in presenza di cause ostative” ovvero “concessa ai sensi del comma 3 dell’art. 444 cod. proc. pen.”, sempre in presenza di cause ostative.

Al primo comma dell’art. 168 cod. pen. sono previsti i casi di revoca obbligatoria di diritto a cui provvede il giudice dell’esecuzione, a prescindere dal fatto che la sussistenza di detta causa di revoca di diritto del beneficio fosse o meno rilevabile dagli atti in possesso del giudice della cognizione, semplicemente facoltizzato alla revoca (Sez. 1, n. 14853 del 2020, Jandoubi, Rv. 279053 - 01; Sez. 1, n. 34237 del 29/05/2015, Are, Rv. 264156 - 01). Secondo le più risalenti pronunce di legittimità, la revoca della sospensione condizionale della pena prevista in sede di esecuzione dall’art. 674 cod. proc. pen. è solo la revoca di diritto di cui al comma primo dell’art. 168 cod. pen. e non anche quella discrezionale di cui al secondo comma, la quale presuppone valutazioni di natura, appunto, discrezionale, che la legge rimette solo al giudice della cognizione (Sez. 5, n. 1989 del 17/11/1992, Guidetti, Rv. 193205 - 01; Sez. 1, n. 1257 del 15/3/1994, Cortini, Rv. 197527 - 01). Così, seguendo detto principio, è stato affermato che “competente a disporre la revoca facoltativa della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 168, comma secondo, cod. pen. è unicamente il giudice della cognizione e non anche quello dell’esecuzione, trattandosi di provvedimento implicante un apprezzamento discrezionale esulante dai poteri di quest’ultimo, la cui competenza funzionale è limitata ai soli casi di revoca di diritto” (Sez. 1, n. 42363 del 25/9/2019, Stabile, Rv. 277142 - 01; Sez. 1, n. 19936 del 8/10/2013, Medina, Rv. 262329 - 01; Sez. 1, n. 22639 del 28/4/2004, Bagozza, Rv. 228912 - 01).

Più recentemente, la Corte ha ribadito che, in tema di condanna a pena non sospesa per un delitto commesso successivamente a quello per il quale sia stata già accordato il beneficio, la revoca della sospensione condizionale della pena deve essere obbligatoriamente disposta dal giudice dell’esecuzione, anche se il cumulo delle pene inflitte con le due decisioni rientri nei limiti che consentono la reiterazione della misura, poiché la valutazione di meritevolezza per la concessione di questa compete al solo giudice della cognizione (Sez. 1, n. 11612 del 25/2/2021, Ahmetovic, Rv. 280682 - 01; nello stesso senso, Sez.1, n. 24639 del 27/5/2015, Badanac, Rv. 263973 - 01; Sez. 1, n. 8465 del 27/1/2009, P.M. in proc. Safranovych, Rv. 244398 - 01 e Sez. 1, n. 12388 del 14/12/2000, Scialò, Rv. 218453 - 01).

Nel caso in cui il beneficio venga subordinato all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, il giudice della cognizione non è tenuto a svolgere alcun accertamento sulle condizioni economiche dell’imputato atteso che la verifica dell’eventuale impossibilità ad adempiere del condannato (il cui onere probatorio incombe al medesimo) rientra nella competenza del giudice dell’esecuzione il quale dovrà, invece, svolgere gli accertamenti necessari per verificare detta impossibilità ai fini di assumere la decisione relativa alla revoca del beneficio già concesso (Sez.4, n. 4626 del 8/11/2019, Sgrò, Rv. 278290 - 01; Sez. 4, n. 50028 del 4/10/2017, Pastorelli, Rv. 271179 - 01; Sez. 5, n. 15800 del 17/11/2015, dep. 15/4/2016, Foddi e altro, Rv. 266690 - 01; Sez. 3, n. 38345 del 25/6/2013, Corsano, Rv. 256385 - 01; Sez. 3, n. 3197 del 13/11/2008, Calandra, Rv. 242177 - 01).

3. Il contrasto emerso nel 2021.

La Prima Sezione, con le sentenze n. 24103 del 08/04/2021, Fosco, Rv. 281432-01 e n. 39190 del 9/7/2021, Stambazzi, Rv. 282076 - 01, ha affermato il principio di diritto così massimato: «È legittima la revoca “in executivis” della sospensione condizionale della pena riconosciuta in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen. in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, che non sia stato investito dell’impugnazione del pubblico ministero né, comunque, di formale sollecitazione di questi in ordine all’illegittimità del beneficio, atteso che il potere di revoca che, in tal caso, il giudice d’appello può esercitare anche d’ufficio, ha natura meramente facoltativa e surrogatoria rispetto a quello del giudice dell’esecuzione. (In motivazione la Corte ha sottolineato che, in tal caso, non può ritenersi che la questione relativa alla sussistenza della causa ostativa al riconoscimento del beneficio sia oggetto una valutazione “implicita” da parte del giudice dell’appello che, ove non impugnata, determini la formazione del giudicato sul punto con conseguente preclusione della revoca in fase esecutiva)». La decisione affronta il tema ermeneutico relativo alla possibilità di revocare in sede esecutiva la sospensione condizionale della pena riconosciuta in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen., in mancanza di impugnazione o sollecitazione del pubblico ministero. Nell’affrontare i motivi di ricorso, la Corte ha richiamato in senso adesivo le argomentazioni di Sez. 1, n. 30709 del 12/07/2019, Coccia, Rv. 276504 - 01, secondo la quale il potere del giudice di appello di revocare la sospensione condizionale della pena, applicata dalla sentenza impugnata in difetto dei presupposti di legge - tanto se il punto sia oggetto di censura da parte del pubblico ministero che abbia proposto appello, quanto se il giudice di secondo grado intervenga d’ufficio e di propria iniziativa - rappresenta una statuizione a carattere facoltativo e surrogatorio rispetto a quello del giudice dell’esecuzione, la cui competenza a disporre la revoca, in alternativa e in autonomia rispetto al giudice della cognizione anche di appello è prevista dall’art. 674, comma 1-bis, cod. proc. pen. Si tratterebbe, dunque, di una statuizione eventuale e del tutto svincolata dall’effetto devolutivo tipico del giudizio di appello e la cui omissione non è censurabile con uno specifico mezzo di impugnazione, ma rimediabile dalla competenza autonoma del giudice dell’esecuzione. Analizzando la portata della disciplina in questione la Corte ha, inoltre, richiamato, mediante una ricognizione sintetica, i principi espressi dalle Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381 - 01, che hanno sottolineato come, con la legge di riforma 26 marzo 2001, n. 128, mediante l’introduzione del comma 1-bis dell’art. 674 cod. proc. pen., siano state incrementate le attribuzioni del giudice dell’esecuzione, abilitandolo a rimuovere la statuizione illegale, contenuta nella sentenza irrevocabile, di applicazione della sospensione condizionale della pena in violazione dei limiti fissati dalla legge, perseguendo una “chiara finalità riparatoria”. Tale finalità deve, tuttavia, essere sempre considerata nell’ambito del fondamentale principio della preclusione processuale, e del correlato divieto di bis in idem, che permeano e informano il procedimento in ogni grado, stato e fase, compresa quella dell’esecuzione, anche ai sensi dell’art. 674, comma 1-bis, cod. proc. pen., con il conseguente divieto della rinnovazione dello scrutinio delle questioni esaminate e decise nella fase del giudizio. Le Sez. U, secondo la prospettiva interpretativa proposta, sono cosi` pervenute ad individuare i limiti dell’intervento del giudice dell’esecuzione, nel senso che debba essere esclusa la possibilità di revoca del beneficio nel caso in cui al giudice della cognizione fossero noti i precedenti penali che ostavano alla concessione, mentre non è possibile giungere ad una soluzione del genere nel caso in cui gli stessi fossero soltanto conoscibili attraverso un certificato del casellario giudiziale aggiornato che li avesse riportati.

La Prima Sezione osserva che il passaggio di maggior rilievo della decisione delle Sez. U Longo contiene l’affermazione per cui, per autorizzare la revoca in sede esecutiva, l’elemento di novità deve essere stato oggetto di mancata considerazione espressa o di valutazione implicita da parte del giudice della cognizione, in quanto se “la causa ostativa alla concessione del beneficio risulti documentata in atti e sia, quindi, oggettivamente compresa nel perimetro dell’oggetto dello scrutinio del giudice della cognizione, il dato (esistente ex actis) del quale sia stata indebitamente omessa la doverosa valutazione, non e` suscettibile di essere ricondotto nell’ambito dei nova. Gli è che la previsione di uno specifico mezzo di impugnazione (col rigoroso regime della perentorietà dei termini e delle forme relative) consente - in virtù del postulato della intrinseca coerenza e logicità dell’ordinamento - di stabilire con nettezza la linea di confine dei nova nel senso che, laddove si configura la acquiescenza, resta simmetricamente esclusa la possibilità a di far valere, per vincere la preclusione, quanto doveva essere dedotto colla impugnazione, la cui mancata proposizione ha comportato l’effetto della preclusione stessa”.

Secondo detta decisione, deve essere condivisa l’interpretazione offerta sul punto da Sez. 1, “Coccia”, e da altre decisioni recenti intervenute in senso conforme (Sez. 1, n. 30710 del 10/05/2019, Dinar, Rv. 276408 - 01; Sez. 1, n. 31998 del 30/10/2020 Cattafi; Sez. 1, n. 917 del 17/10/2019, dep. 2020, Karmeshtna), atteso che: “per i limiti propri dei poteri di cognizione conferiti al giudice di appello e per le caratteristiche dell’intervento giudiziale di revoca di ufficio, previsto dal combinato disposto degli artt. 168, comma terzo, in relazione all’art. 164, comma quarto, cod. pen. e 674, comma 1-bis, cod. proc. pen., non può dirsi che, in assenza di impugnazione del pubblico ministero, l’omessa valutazione della causa ostativa al riconoscimento del beneficio, pur esistente e risultante dagli atti, costituisca una forma di acquiescenza idonea a precludere la possibilità di revoca in sede esecutiva. Tale acquiescenza non impedisce al giudice di appello di intervenire d’ufficio a revocare il beneficio della sospensione condizionale della pena, decisione che non e` assimilabile alla analoga statuizione adottata a seguito di impugnazione del pubblico ministero o di richiesta del pubblico ministero non impugnante (Sez. 1, n. 12817 del 31/01/2017, Oliveri, Rv. 269516 - 01). Essa, infatti, costituisce il risultato dell’esercizio di un potere che e` facoltativo ed esercitabile in via concorrente ed autonoma rispetto a quello analogo conferito in via generale al giudice dell’esecuzione dall’art. 674, comma 1-bis, cod. proc. pen.”. Si sottolinea, ancora una volta, che la natura eventuale della decisione di revoca e` svincolata dall’effetto devolutivo tipico del giudizio di appello, per cui la sua omissione non e` censurabile con uno specifico mezzo d’impugnazione, ma trova rimedio grazie alla competenza autonoma del giudice dell’esecuzione, precisando, inoltre, che non è comprensibile come, in difetto di impugnazione da parte del pubblico ministero o di sollecitazione ad esercitare d’ufficio il potere di revoca, possa dirsi che la relativa questione sia stata oggetto di una valutazione “implicita” quando il giudice di appello nella sua sentenza non vi provveda e non faccia nemmeno cenno in alcun modo alla sospensione condizionale o ai suoi presupposti applicativi, ne´ a precedenti ostativi alla sua concessione.

La Corte ha, infine, osservato che l’estraneità del tema al dibattito processuale, sviluppatosi in concreto tra le parti, e l’assenza di riferimenti ad esso nella sentenza, cosi` come l’astratta possibilità della revoca per la sussistenza delle relative condizioni, di cui pero` il giudice di secondo grado non offra indicazioni del loro effettivo apprezzamento, non consentono di ravvisare un diniego che, se non impugnato, consenta la formazione del giudicato sul punto con conseguente preclusione della revoca in un momento ad esso successivo.

In particolare, si è considerato che «tale conclusione e`, del resto, coerente con quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza Longo in merito alla natura “debole” della preclusione alla riproposizione in sede esecutiva di questioni già trattate e risolte nel corso del processo di cognizione, che, come tale, riguarda soltanto il dedotto e non il deducibile». Se il punto della decisione, riguardante la concessione della sospensione condizionale pur in contrasto con i limiti di legge, non sia stata sollevata e decisa, non opera nemmeno la preclusione per il giudice dell’esecuzione ad esercitare il potere attribuitogli dall’art. 674 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 84 del 1/12/2020, dep. 2021, Consulo ed altro, non massimata).

In senso difforme si sono espresse Sez. 5, n. 23133 del 09/07/2020, Bordonaro, Rv. 279906, così massimata: «È illegittima la revoca “in executivis” della sospensione condizionale della pena riconosciuta in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., in presenza di una causa ostativa nota al giudice d’appello, anche se non sia stato investito dell’impugnazione o da formale sollecitazione del pubblico ministero in ordine all’illegittimità del beneficio, non essendo precluso al giudice dell’impugnazione il potere di revoca, esercitabile anche d’ufficio», nonchè Sez. 1, n. 19547 del 16/01/2018, Signoretto, Rv. 272832 - 01, che ha affermato che il giudice dell’esecuzione può revocare la sospensione condizionale della pena riconosciuta in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen. in presenza di cause ostative, a meno che tali cause non fossero note documentalmente al giudice della cognizione all’atto della concessione del beneficio.

Con argomentazioni che si contrappongono alle ragioni proposte dalla decisione in commento, si è osservato che, se dal certificato penale, presente negli atti del giudizio di appello, erano desumibili precedenti ostativi alla concessione del beneficio, il potere di revoca dello stesso, esercitabile anche d’ufficio ed in termini doverosi, “realizza senz’altro il presupposto dell’inclusione della questione della revocabilità del beneficio nel perimetro valutativo del giudice”, atteso che le Sezioni Unite Longo hanno letto la mancata impugnazione da parte del pubblico ministero sul punto quale elemento dimostrativo dell’acquiescenza dell’ordinamento alla concessione del beneficio e quale dato rafforzativo dell’effetto preclusivo per un successivo intervento di revoca del giudice dell’esecuzione (nel caso concreto nel fascicolo di secondo grado risultava inserito il certificato penale aggiornato nel quale erano stati riportati i precedenti ostativi alla concessione della sospensione condizionale della pena).

4. La competenza del giudice dell’esecuzione in tema di continuazione.

Preliminarmente va ricordato che, anche in tema di continuazione, la competenza del giudice dell’esecuzione segue le regole generali dettate dal codice di rito penale. Così “il giudice dell’esecuzione difetta della competenza funzionale ad accertare la continuazione in relazione ad un reato per il quale non sia passata in giudicato la relativa condanna” (Sez. 1, n. 19778 del 19/01/2021, Alvaro, Rv. 281222 - 01; Sez. 1, n. 422999 del 10/11/2010, P.M. in proc. Puglia, Rv. 249022 - 01). Inoltre, “in materia di esecuzione, il giudice competente a provvedere sulla richiesta di riconoscimento della continuazione tra sentenze di condanna emesse da giudici diversi è sempre quello che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, anche se la questione proposta non riguardi la sentenza da lui emessa” (Sez. 1, n. 15856 del 11/02/2014, P.M. in proc. Jadid, Rv. 259600 - 01; Sez. 1, n. 4321 del 20/10/1993, P.M. in proc. Vincon, Rv. 195918 - 01) “anche quando non si tratti di sentenza ricompresa tra quelle per le quali invoca la disciplina della continuazione” (Sez.1, n. 291 del 12/01/1999, Confl. comp. in proc. Cara Damiani, Rv. 212868 - 01) nonché quando l’ultima pronuncia passata in giudicato non sia eseguibile perché condizionalmente sospesa (Sez. 1, n. 5888 del 07/12/1994, dep. 27/2/1995, Confl. comp. GIP Trib. Monza e Trib. Milano in proc. Febbraio, Rv. 200545 - 01).

La competenza funzionale del giudice dell’esecuzione a provvedere sull’istanza di riconoscimento della continuazione si radica al momento della presentazione della domanda e non subisce mutamenti per effetto del successivo passaggio in giudicato di altra sentenza di condanna, in ossequio al principio della “perpetuatio jurisdictionis” (Sez. 1 n. 51271 del 30/9/2019, Trib. sez. dist. Portoferraio, Rv. 277733; Sez. 1, n. 6739 del 30/01/2014, P.M. in proc. Santaniello, Rv. 259171 - 01).

Va distinta, inoltre, la competenza del giudice dell’esecuzione da quella del magistrato di sorveglianza nel caso di cumulo di pene riguardanti delitti unificati per la continuazione, tra i quali sia compreso un reato ostativo alla fruizione dei benefici penitenziari, infatti, la sua scissione, funzionale alla concessione del beneficio, è di esclusiva competenza della magistratura di sorveglianza (Sez. 1, n. 52182 del 29/11/2016, Besiri, Rv. 269045 - 01; Sez. 1, n. 41340 del 15/10/2009, De Lido, Rv. 245075 - 01).

Il giudice dell’esecuzione può ritenere il vincolo della continuazione tra i fatti oggetto di diverse sentenze, purché le stesse non lo abbiano già escluso nella fase di cognizione. Sul tema, la Corte ha affermato che “ai fini dell’applicazione della disciplina della continuazione tra più delitti giudicati in separati processi, si configura l’onere dell’interessato di farne richiesta già al giudice della cognizione, con conseguente impossibilità di proporla per la prima volta a quello dell’esecuzione, solo quando il riconoscimento del medesimo disegno criminoso dipenda da circostanze di fatto mai oggetto di precedente accertamento, che, come tale, esorbita dalle competenze del giudice dell’esecuzione” (Sez. 1, n. 28978 del 22/6/2017, Martino, Rv. 273292 - 01). È, inoltre, “irrilevante che in separata sede cognitiva o di esecuzione il vincolo ex art. 81, comma secondo, cod. pen. sia stato riconosciuto in favore di concorrenti nei reati plurisoggettivi oggetto della richiesta” (Sez. 1, n. 14824 del 08/01/2021, Zonno, Rv. 281186 - 01) e “non è possibile valutare elementi di giudizio (nella specie, la parziale incapacità di intendere e di volere conseguente ad abuso cronico di sostanze stupefacenti) che non sono stati considerati nelle sentenze di merito” (Sez. 1, Sentenza n. 6777 del 08/01/2021, Portoghese, Rv. 280529 - 01). In ogni caso, l’efficacia preclusiva del giudicato di esclusione del vincolo tra due reati si estende a tutti gli altri reati già ritenuti avvinti dal vincolo della continuazione con i primi (Sez. 1, Sentenza n. 35460 del 11/05/2021, Petrone, Rv. 282001 - 01).

Relativamente all’onere del giudice dell’esecuzione sulla motivazione dei provvedimenti in tema di continuazione sembra superato il contrasto, già segnalato in passato, sulla possibilità di pronunciarsi sulla base delle sole risultanze del certificato del casellario giudiziale anziché dell’esame delle decisioni di condanna, acquisibili d’ufficio ai sensi dell’art. 186 disp. att. cod. proc. pen., in favore della necessità di valutare queste ultime e non solo le annotazioni del Casellario (Sez. 1, n. 14822 del 8/01/2021, Dedgjonaj, Rv. 281185 - 01; Sez. 1, n. 35125 del 20/06/2017 Guta, Rv. 271174 - 01 e Sez. 1, Sentenza n. 19987 del 29/04/2010, Oussaifi, Rv. 247593 - 01; in senso difforme la più remota Sez. 1, n. 44535 del 24/10/2012, Carbone, Rv. 254460 - 01).

Va segnalato anche che “in tema di riconoscimento della continuazione in sede esecutiva, è insindacabile da parte del giudice dell’esecuzione la sussistenza dell’interesse della parte all’accoglimento della richiesta, atteso che la relativa istanza non introduce un giudizio di impugnazione” (Sez. 1, n. 10380 del 25/2/2021, Primavera, Rv. 280740 - 01).

Infine, giova segnalare i seguenti ulteriori arresti della Prima Sezione sul tema in esame.

In ordine all’applicazione dell’art. 188 disp. att. cod. proc. pen. (“fermo quanto previsto dall’articolo 137, nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciate in procedimenti distinti contro la stessa persona, questa e il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, quando concordano sulla entità della sanzione sostitutiva o della pena detentiva, sempre che quest’ultima non superi complessivamente cinque anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, ovvero due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, nei casi previsti nel comma 1-bis dell’articolo 444 del codice”) si è affermato che tale disposto non opera nel caso in cui l’istanza di applicazione della disciplina del reato continuato riguardi in parte sentenze emesse a seguito d’applicazione della pena su richiesta delle parti e in parte sentenze emesse a seguito di giudizio ordinario. In motivazione, la Corte ha specificato che esso trova tuttavia applicazione in relazione al riconoscimento, anche parziale, della continuazione tra i reati oggetto delle sole sentenze emesse in sede di patteggiamento (Sez. 1, n. 16456 del 12/03/2021, El Azhary, Rv. 281194 - 01). Sempre in tema di continuazione tra sentenze applicative della pena concordata dalle parti e altre emesse a seguito di rito ordinario, si è affermato che “il giudice, nel determinare la pena unica, deve applicare la riduzione concessa ex art. 444 cod. proc. pen., cosicché, ove valuti come reato più grave quello giudicato con il rito speciale, dovrà porre a base del calcolo la relativa pena ridotta; ove, invece, ritenga tale reato come satellite, dovrà commisurare l’aumento alla pena determinata in sede di cognizione, comprensiva della riduzione per il rito” (Sez. 1, Sentenza n. 30119 del 07/04/2021, Dinari, Rv. 281679 - 01). Sul riconoscimento della continuazione "in executivis", qualora il giudizio relativo al reato satellite sia stato celebrato con il rito abbreviato, si è affermato che “l’aumento di pena inflitto in applicazione dell’art. 81 cod. pen. è soggetto alla riduzione premiale di cui all’art. 442 cod. proc. pen., ed il giudice deve specificare in motivazione di aver tenuto conto di tale riduzione, la quale, essendo aritmeticamente predeterminata, non necessita di alcuna motivazione in ordine al quantum” (Sez. 1, Sentenza n. 26269 del 08/04/2021, De Rita, Rv. 281617 - 01).

In conclusione sulla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per effetto dell’applicazione della disciplina del reato continuato, il giudice dell’esecuzione “può quantificare un aumento di pena per i reati-satellite in misura superiore a quello fissato in altro provvedimento precedentemente adottato in sede esecutiva, atteso che la discrezionalità del giudice dell’esecuzione incontra un limite solo con riferimento alla valutazione effettuata in sede di cognizione, rispetto alla quale si è formato il giudicato in favore del condannato” (Sez. 1, Sentenza n. 28135 del 28/05/2021, Naddeo, Rv. 281678 - 01).

5. Il contrasto sull’obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento di pena per i reati satelliti ritenuti legati dal vincolo della continuazione risolto dalle Sez. U.

La Terza Sezione della Corte, con un’articolata ordinanza, ha rilevato un contrasto di giurisprudenza sul tema della perimetrazione dell’obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento di pena per i reati satelliti ritenuti legati dal vincolo della continuazione, oggetto di rimessione alle Sezioni Unite.

Nell’ordinanza si è rilevato che, secondo una prima soluzione interpretativa, in tema di determinazione della pena per il reato satellite, non sussiste un obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena base. Una seconda linea interpretativa modula l’obbligo motivazionale ritenendolo soddisfatto con il solo riferimento all’art. 133 cod. pen. o rapportandolo al grado di entità della pena per il reato satellite. In particolare, si richiama la sentenza che afferma che, “in tema di reato continuato, nel caso in cui il giudice, inflitta la pena nella misura minima edittale, l’abbia aumentata per la continuazione in modo esiguo, non è tenuto a giustificare con motivazione esplicita il suo operato”. Le ragioni a fondamento di tale lettura sono incentrate sulla considerazione che, in ragione dell’esiguità dell’aumento, deve escludersi che il giudice, così facendo, abbia abusato del potere discrezionale conferitogli dall’art. 132 cod. pen., dovendo anche ritenersi che egli abbia implicitamente valutato gli elementi obbiettivi e subiettivi del reato risultanti dal contesto complessivo della sua decisione. (Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 05/06/2018, F., Rv. 273533 - 01). In motivazione si precisa, tuttavia che, quando, la pena-base è quantificata a livelli che non si discostano dai minimi edittali o coincidono con essi, mentre quella fissata in aumento per la continuazione è tale da configurare, sia pure in astratto, una ipotesi di cumulo materiale di reati, il giudice deve specificare dettagliatamente le ragioni che lo hanno indotto a tale decisione, al fine di rendere possibile il controllo della motivazione sottesa alla deliberazione sul punto, giacché, nello stabilire l’aumento di pena per la continuazione in ordine al reato meno grave, il giudice non può – a meno che non giustifichi il diverso trattamento - adottare criteri contraddittori rispetto a quelli seguiti nella determinazione della pena-base, incorrendo altrimenti nel vizio di motivazione. Seppur sulla stessa linea di tale ultima decisione, l’ordinanza di rimessione ha posto in evidenza anche la recente Sez. 5, n. 32511 del 14/10/2020, Radosavljevic, Rv. 279770 - 01, secondo la quale non sussiste un obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base, vieppiù quando non sia possibile dubitare del rispetto del limite legale del triplo della pena base ex art. 81, comma primo, cod. pen., in considerazione della misura contenuta degli aumenti di pena irrogati, e i reati posti in continuazione siano integrati da condotte criminose seriali ed omogenee.

La tesi della non necessità di motivazione specifica per i singoli aumenti di pena operati per la continuazione risulta inoltre sostenuta anche da pronunce non massimate (ex multis, Sez. 2, n. 29826 del 7/6/2016, Stricagnoli; Sez. 2, n. 29824 del 7/6/2016, De Gaetano; Sez. 5, n. 27914 del 10/2/2016, Spicuzza).

Altro sub-orientamento considerato dall’ordinanza di rimessione riguarda una variante di tale prospettiva interpretativa, emergente dalla sentenza Sez. 5, n. 29829 del 13/3/2015, Pedercini, Rv. 265141 - 01, la quale muove dall’assunto principale secondo cui, in tema di determinazione della pena nel reato continuato, “non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti di pena relativi ai reati satellite, valendo a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (cfr. ex plurimis, Sez. 2, n.4707 del 21/11/2014, Di Palma, Rv. 262313 - 01)”. A tale affermazione aggiunge, però, la precisazione che “l’aumento per la continuazione operato sul reato più grave (e quindi sulla pena base) può essere determinato anche in termini cumulativi, senza che sia necessario indicare specificamente l’aumento di pena correlato a ciascun reato satellite, non previsto dalla vigente normativa, per cui non dà luogo a nessuna nullità l’aumento di pena per i reati satelliti determinato in termini unitari e complessivi, e non distintamente, in relazione a ciascuna delle violazioni” (nello stesso senso, le sentenze: Sez. 5, n. 7164 del 13/1/2011, De Felice, Rv. 249710 - 01; Sez. 1, n. 3100 del 27/11/2009, dep. 2010, Amatrice, Rv. 245958 - 01; Sez. 2, n. 32586 del 3/6/2010, Ben Ali, Rv. 247978 - 01; Sez. 2, n. 4984 del 21/1/2015, Giannone, Rv. 262290 - 01; Sez. 5, n. 17081 del 26/11/2014, dep. 2015, Bruni, Rv. 263700 - 01).

Infine, si richiama l’orientamento che ritiene soddisfatto l’obbligo di motivazione solo se l’indicazione di pena avvenga compiutamente per ciascun reato satellite in continuazione, anziché unitariamente (segnatamente, Sez. 5, n. 16015 del 18/2/2015, Nuzzo, Rv. 263591 - 01, Sez. 1, n. 27198 del 28/5/2013, Margherito, Rv. 256616 - 01, e Sez. 3, n. 4209 del 16/12/2008, dep. 2009, Pandolfi, Rv. 242873 - 01; Sez. 3, n. 1446 del 13/09/2017, dep. 15/01/2018, S., Rv. 271830 - 01; Sez. 6, n. 48009 del 28/09/2016, Cocomazzi, Rv. 268131 - 01).

Si aggiunge che le Sezioni Unite, nel 1995, erano intervenute con una pronuncia sul tema, che affermava la nullità della sentenza con cui la pena complessiva sia stata determinata senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, di quella per il reato più grave e dell’aumento per la continuazione (Sez. U, n. 7930 del 21/4/1995, Zouine, Rv. 201549 - 01). Su questa linea si collocano alcune pronunce (Sez. 4, n. 28139 del 23/6/2015, Puggillo, Rv.264101 - 01; Sez. 2, n. 51731 del 19/11/2013, Foria, Rv. 258108 - 01; Sez. 6, n. 7777 del 29/1/2013, Bardeggia, Rv. 255052 - 01), che sembrano richiedere un obbligo di motivazione più stringente al giudice in relazione alla quantificazione di ciascuna porzione di aumento per il reato continuato.

Pertanto, tutto ciò premesso, la Sezione remittente ha ritenuto di porre al Supremo Collegio la questione se il giudice, nella determinazione della pena complessiva per il reato continuato, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, debba anche calcolare l’aumento di pena in modo distinto per i singoli reati satellite o possa semplicemente determinarlo in maniera unitaria per il complesso di tali reati, come avvenuto nel caso di specie.

Le Sez. U., con decisione depositata il 24/12/2021, hanno risolto il contrasto loro sottoposto con decisione così massimata “In tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite. (Sez. U, Sentenza n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01; Conf. Sez. U, Sentenza n. 7930 del 21/04/1995, P.M. in proc. Zouine, Rv. 201549 - 01). La Corte, nel suo massimo consesso, ha precisato che il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all’entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 1989 del 17/11/1992, Guidetti, Rv. 193205 - 01

Sez. 1, n. 4321 del 20/10/1993, P.M. in proc. Vincon, Rv. 195918 - 01

Sez. 1, n. 1257 del 15/03/1994, Cortini, Rv. 197527 - 01

Sez. 1, n. 5888 del 7/12/1994, Confl. comp. G.I.P. Trib. Monza e Trib. Milano in proc. Febbraio, Rv. 200545 - 01

Sez. 1, n. 5888 del 07/12/1994, dep. 27/2/1995, Confl. comp. GIP Trib. Monza e Trib. Milano in proc. Febbraio, Rv. 200545 - 01

Sez. U, n. 7930 del 21/4/1995, Zouine, Rv. 201549 - 01

Sez. 1, n. 5888 del 13/02/1997, Novello, Rv. 207046 - 01

Sez. 1, n. 1745 del 28/02/1997, Confl. comp. in proc. Cassaro e altro, Rv. 207191 - 01

Sez.1, n. 291 del 12/01/1999, Confl. comp. in proc. Cara Damiani, Rv. 212868 - 01

Sez. 1, n. 12388 del 14/12/2000, Scialò, Rv. 218453 - 01

Sez. 1, n. 22639 del 28/04/2004, Bagozza, Rv. 228912 - 01

Sez. 1, n. 36260 del 8/07/2004, Amadio ed altro, Rv. 229885 - 01

Sez. 3, n. 3197 del 13/11/2008, Calandra, Rv. 242177 - 01

Sez. 3, n. 4209 del 16/12/2008, dep. 2009, Pandolfi, Rv. 242873 - 01

Sez. 1, n. 8465 del 27/01/2009, P.M. in proc. Safranovych, Rv. 244398 - 01

Sez. 1, n. 41340 del 15/10/2009, De Lido, Rv. 245075 - 01

Sez. 1, n. 3100 del 27/11/2009, dep. 2010, Amatrice, Rv. 245958 - 01

Sez. 1, n. 19987 del 29/04/2010, Oussaifi, Rv. 247593 - 01

Sez. 2, n. 32586 del 03/06/2010, Ben Ali, Rv. 247978 - 01

Sez. 1, n. 422999 del 10/11/2010, P.M. in proc. Puglia, Rv. 249022 - 01

Sez. 3, n. 34613 del 21/06/2011, P.G. in proc. Muoio, Rv. 251083 - 01

Sez. 5, n. 7164 del 13/01/2011, De Felice, Rv. 249710 - 01

Sez. 1, n. 44535 del 24/10/2012, Carbone, Rv. 254460 - 01

Sez. 6, n. 7777 del 29/01/2013, Bardeggia, Rv. 255052 - 01

Sez. 1, n. 27198 del 28/05/2013, Margherito, Rv. 256616 - 01

Sez. 3, n. 38345 del 25/06/2013, Corsano, Rv. 256385 - 01

Sez. 1, n. 19936 del 08/10/2013, Medina, Rv. 262329 - 01

Sez. 2, n. 51731 del 19/11/2013, Foria, Rv. 258108 - 01

Sez. 1, n. 6739 del 30/01/2014, P.M. in proc. Santaniello, Rv. 259171 - 01

Sez. 1, n. 15856 del 11/02/2014, P.M. in proc. Jadid, Rv. 259600 - 01

Sez. 2, n.4707 del 21/11/2014, Di Palma, Rv. 262313 - 01

Sez. 5, n. 17081 del 26/11/2014, dep. 2015, Bruni, Rv. 263700 - 01

Sez. 2, n. 4984 del 21/1/2015, Giannone, Rv. 262290 - 01

Sez. 5, n. 16015 del 18/02/2015, Nuzzo, Rv. 263591 - 01

Sez. 5, n. 29829 del 13/03/2015, Pedercini, Rv. 265141 - 01

Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381 - 01

Sez. 1, n. 24639 del 27/05/2015, Badanac, Rv. 263973 - 01

Sez. 1, n. 34237 del 29/05/2015, Are, Rv. 264156 - 01

Sez. 4, n. 28139 del 23/06/2015, Puggillo, Rv.264101 - 01

Sez. 5, n. 15800 del 17/11/2015, dep. 15/4/2016, Foddi e altro, Rv. 266690 - 01

Sez. 5, n. 27914 del 10/2/2016, Spicuzza

Sez. 2, n. 29826 del 07/06/2016, Stricagnoli,

Sez. 2, n. 29824 del 07/06/2016, De Gaetano

Sez. 6, n. 48009 del 28/09/2016, Cocomazzi, Rv. 268131 - 01

Sez. 1, n. 52182 del 29/11/2016, Besiri, Rv. 269045 - 01

Sez. 1, n. 12817 del 31/01/2017, Oliveri, Rv. 269516 - 01

Sez. 1, n. 35125 del 20/06/2017 Guta, Rv. 271174 - 01

Sez. 1, n. 28978 del 22/06/2017, Martino, Rv. 273292 - 01

Sez. 3, n. 1446 del 13/09/2017, dep. 15/01/2018, S., Rv. 271830 - 01

Sez. 4, n. 50028 del 4/10/2017, Pastorelli, Rv. 271179 - 01

Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 05/06/2018, F., Rv. 273533 - 01

Sez. 1, n. 19547 del 16/01/2018, Signoretto, Rv. 272832 - 01

Sez. 1, n. 30710 del 10/05/2019, Dinar, Rv. 276408 - 01

Sez. 1, n. 30709 del 12/07/2019, Coccia, Rv. 276504 - 01

Sez. 1, n. 42363 del 25/09/2019, Stabile, Rv. 277142 - 01

Sez. 1 n. 51271 del 30/09/2019, Trib. sez. dist. Portoferraio, Rv. 277733 - 01

Sez. 4, n. 4626 del 08/11/2019, Sgrò, Rv. 278290 - 01;

Sez. 1, n. 917 del 17/10/2019, dep. 2020, Karmeshtna

Sez. 1, n. 14853 del 12/02/2020, Jandoubi, Rv. 279053 - 01

Sez. 5, n. 23133 del 09/07/2020, Bordonaro, Rv. 279906 -01

Sez. 1, n. 34030 del 01/10/2020, Corte appello Torino, Rv. 279998 - 01

Sez. 5, n. 32511 del 14/10/2020, Radosavljevic, Rv. 279770 - 01

Sez. 5, n. 84 del 1/12/2020, dep. 2021, Consulo ed altro,

Sez. 1, n. 6777 del 08/01/2021, Portoghese, Rv. 280529 - 01

Sez. 1, n. 14822 del 08/01/2021, Dedgjonaj, Rv. 281185 - 01

Sez. 1, n. 14824 del 08/01/2021, Zonno, Rv. 281186 - 01

Sez. 1, n. 19778 del 19/01/2021, Alvaro, Rv. 281222 - 01

Sez. 1, n. 10380 del 25/02/2021, Primavera, Rv. 280740 - 01

Sez. 1, n. 11612 del 25/02/2021, Ahmetovic, Rv. 280682 - 01

Sez. 1, n. 16456 del 12/03/2021, El Azhary, Rv. 281194 - 01

Sez. 1, n. 30119 del 07/04/2021, Dinari, Rv. 281679 - 01

Sez. 1 n. 24103 del 08/04/2021, Fosco, Rv. 281432 - 01

Sez. 1, n. 26269 del 08/04/2021, De Rita, Rv. 281617 - 01

Sez. 1, n. 35460 del 11/05/2021, Petrone, Rv. 282001 - 01

Sez. 1, n. 28135 del 28/05/2021, Naddeo, Rv. 281678 - 01

Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01

Sez. 1, n. 39190 del 09/07/2021, Stambazzi, Rv. 282076 – 01

  • prescrizione della pena
  • sospensione di pena
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO II

LE SEZIONI UNITE SULLA PRESCRIZONE DELLE PENE DETENTIVE BREVI SOGGETTE AL PROCEDIMENTO DI SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE AI SENSI DELL’ART. 656, COMMA 5, COD. PROC. PEN.

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le ragioni del contrasto. - 3 L’orientamento maggioritario. - 3.1 L’interpretazione contrastante. - 3.2 La soluzione resa dalle Sezioni Unite. - 4 La prescrizione della pena: i tre momenti di decorrenza del termine. - 4.1 Irrevocabilità ed esecutività della decisione giudiziale: profili differenziali. - 4.2 L’individuazione dell’inizio dell’esecuzione della pena ai fini del computo del termine di prescrizione: le regole processuali in cui si inserisce l’art. 172 cod. pen. - 4.3 La sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen come deroga alla regola generale della esecuzione delle pene. - 4.4 L’incidenza della sospensione temporanea dell’esecuzione delle pene detentive brevi sull’estinzione della pena per decorso del tempo. - 4.5 L’inapplicabilità dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. alla sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi disposta ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. - 5 L’assenza del condannato dal territorio dello Stato quale causa di sospensione dell’esecuzione. - 6 Osservazioni conclusive. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite sono state investite della questione della decorrenza della prescrizione della pena detentiva in presenza di sospensione temporanea dell’ordine di esecuzione ai sensi dell’art. 656, comma 5 cod. proc. pen.

In particolare, le questioni interpretative controverse erano le seguenti:

«Se, ai fini dell’applicazione dell’art. 172 cod. pen., l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva breve ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. vada individuato nel momento di emissione dell’ordine di esecuzione con contestuale decreto di sospensione, ovvero in quello di materiale apprensione del condannato con la conseguente limitazione della libertà personale.»;

«Se, nel caso previsto dall›art. 656, comma 5, cod. proc. pen. la sospensione temporanea dell›esecuzione per consentire al condannato di richiedere al Tribunale di sorveglianza l›applicazione di una misura alternativa alla carcerazione per il periodo di trenta giorni, o comunque sino a che intervenga la relativa decisione, rientri nelle ipotesi previste dall›art. 172, comma 5, cod. proc. pen., secondo cui, se l›esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per l›estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine sia scaduto o la condizione si sia verificata».

La vicenda processuale traeva origine dall’opposizione proposta dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere che - in veste di giudice dell’esecuzione – in data 14 maggio 2020 aveva dichiarato l’estinzione per prescrizione, ai sensi dell’art. 172 cod. pen., della pena di anni due di reclusione ed euro 3.000,00 di multa, inflitta a Scott Uhuwamangho con sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, irrevocabile il 21 dicembre 2007, ed aveva disposto la scarcerazione del condannato.

Brevemente i presupposti di fatto della complessa vicenda.

Il pubblico ministero aveva emesso ordine di esecuzione per la carcerazione con contestuale decreto di sospensione in data 16 maggio 2013, notificato in data 10 giugno 2013 al difensore del condannato, in quanto quest’ultimo, all’esito delle ricerche condotte, era risultato espulso dal territorio dello Stato sin dal 17 marzo 2006 in forza del decreto emesso dal Prefetto di Caserta.

In data 6 marzo 2017, quindi a più di nove anni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, il condannato, appena rientrato in Italia, aveva ricevuto la notificazione a mani proprie dell’ordine di esecuzione. In seguito, poiché non aveva presentato domanda di accesso ad una delle misure alternative alla carcerazione nel termine prescritto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. in data 9 maggio 2017 il pubblico ministero aveva revocato il decreto di sospensione dell’esecuzione, che, però, non aveva potuto trovare concreta attuazione per essersi l’imputato reso nuovamente irreperibile. Soltanto il 12 febbraio 2020 egli era stato rintracciato e tradotto in carcere per espiare la predetta pena detentiva.

Il giudice dell’esecuzione in sede di opposizione confermava la precedente decisione, e, conseguentemente, rigettava l’impugnazione del pubblico ministero, ritenendo che la pena si fosse estinta il 21 dicembre 2017, con il decorso di dieci anni dalla data di irrevocabilità della sentenza, per la impossibilità di individuare quale fatto interruttivo del corso della prescrizione la notificazione dell’ordine di esecuzione con sospensione, che non segna l’inizio dell’esecuzione, giacché dopo l’emissione di tale ordine si era avuta la successiva irreperibilità del condannato. A tal fine riteneva che l’inizio effettivo dell’esecuzione fosse determinato soltanto dalla carcerazione del condannato e che non fosse consentita l’interpretazione analogica in malam partem.

Sotto diverso profilo, escludeva l’applicabilità, al caso specifico, della disposizione di cui all’art. 7, comma 12-quater, d.l. 30 dicembre 1989 n. 416, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio del 1990 n. 39, per la quale l’esecuzione della pena resta sospesa nel periodo compreso tra l’esecuzione dell’espulsione dello straniero dal territorio nazionale ed il momento della sua risottoposizione a detenzione a seguito del rientro in Italia. Sul punto argomentava che nel caso in esame il condannato non aveva mai iniziato ad espiare la pena detentiva ed era stato espulso in attuazione di decreto prefettizio in epoca antecedente al passaggio in giudicato della sentenza che ne aveva pronunciato la condanna.

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere proponeva ricorso per cassazione avverso detto provvedimento, deducendo violazione dell’art. 172 cod. pen. e 656, comma 5, cod. proc. pen. con riferimento alla individuazione del dies a quo dal quale computare il termine di prescrizione della pena.

In primo luogo, contestava che il giudice avesse escluso che la notifica mediante consegna a mani proprie del condannato dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione, avesse interrotto il corso del termine della prescrizione della pena, considerato che il soggetto si era reso in seguito irreperibile, dimostrando l’intenzione di sottrarsi alla carcerazione. Il ricorrente sosteneva che nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 172, quarto comma, cod. pen., per il quale il termine di prescrizione della pena decorre dal «giorno in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla esecuzione già iniziata della pena». Ed invero, a seguito dell’introduzione dell’inderogabile meccanismo previsto dal novellato art. 656, comma 5, cod. proc. pen., per le pene detentive brevi il pubblico ministero deve emettere in ogni caso l’ordine di carcerazione con contestuale decreto di sospensione, che deve essere immediatamente revocato quando, scaduto il termine di trenta giorni, non sia presentata istanza di ammissione a misure alternative o questa sia respinta o dichiarata inammissibile. Di conseguenza, l’inizio dell’esecuzione per tali pene deve poter coincidere con la notifica al condannato dell’ordine di esecuzione e sospensione, poiché è in tale momento che si manifesta la volontà punitiva statuale, anche ai fini dell’individuazione del momento di decorrenza del termine di prescrizione della pena nei casi di successiva sottrazione volontaria ad essa, facendo, appunto, decorrere da tale momento un nuovo termine per l’estinzione della pena. Tale soluzione, non solo non costituirebbe una interpretazione in malam partem ma sarebbe coerente con la natura eccezionale delle disposizioni in tema di prescrizione della pena, che derogano al principio generale di esecuzione della pena inflitta nei confronti di tutti i condannati, mentre la soluzione opposta accolta dal giudice finirebbe per incentivare condotte elusive del condannato volte a conseguire la caducazione del titolo esecutivo.

In secondo luogo, lamentava che il giudice dell’esecuzione non aveva considerato che il decorso del termine di trenta giorni per la proposizione della richiesta di accesso a misure alternative e la consequenziale revoca del decreto di sospensione con emissione dell’ordine di carcerazione, integravano una delle ipotesi previste dall’art. 172, quinto comma, cod. pen. secondo cui l’esecuzione (in questo caso intesa come carcerazione del condannato) è subordinata alla scadenza di un termine, con la conseguente decorrenza della prescrizione dalla scadenza di quest’ultimo. Il ricorrente evidenziava come l’indirizzo interpretativo, secondo il quale le cause di sospensione del termine di prescrizione, di cui all’art. 172, quinto comma, cod. pen., sono esclusivamente quelle riferite alla sentenza di condanna e non all’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione (Sez. 6, n. 21627 del 29/04/2014, Antoszek, Rv. 259700), doveva essere rimeditato alla luce dei principi elaborati in merito alla questione dell’applicabilità delle modifiche introdotte dalla legge n. 3 del 2019, recanti l’ampliamento del catalogo dei reati c.d. ostativi di cui all’art. 4-bis Ord. pen. ai reati contro la p.a., giudicati con sentenze per i quali siano stati emessi gli ordini di carcerazione con relativi decreti di sospensione. Più precisamente, Sez. 6, n. 12541 del 14/03/2019, Ferraresi, Rv. 275925 (in motivazione) e la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 6, della legge n. 3 del 2019, consentirebbero di leggere diversamente anche l’art. 172, quinto comma, cod. pen., nel senso che tra i casi in cui la condanna a pena detentiva non sia eseguibile per un termine o una condizione deve essere compreso anche quello di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., che contiene disposizioni che incidono sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile con incidenza sullo stato di libertà personale.

In definitiva, il ricorrente assumeva che, nella presente vicenda, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto individuare, il dies a quo del termine di prescrizione della pena, in assenza di alcuna istanza da parte del condannato volta all’ammissione ad una misura alternativa alla detenzione, nel trentesimo giorno successivo alla notifica dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione, avvenuta il 6 marzo 2017.

Infine, con il terzo motivo di ricorso, il Procuratore della Repubblica censurava, in via subordinata, la mancata applicazione del principio affermato dalla sentenza Sez. 1, n. 26300 del 19/04/2011, Abduli, Rv. 250698, secondo cui il termine di prescrizione della pena resta sospeso tra la data dell’esecuzione dell’espulsione dello straniero e quella del ripristino della detenzione in caso di rientro in Italia dello straniero espulso, espressione di un principio generale, posto che l’esecuzione si è resa giuridicamente possibile ed esigibile solo a partire dal momento in cui il condannato ha fatto illegittimamente rientro nel paese.

La Sezione Prima, rilevata l’esistenza di un contrasto su una questione di indubbio rilievo pratico e giuridico, ha rimesso la decisione alla Sezioni Unite sulla base dei quesiti soprariportati, stante la necessità dell’individuazione di una soluzione sistematica coerente per l’esecuzione di qualsiasi pena detentiva temporanea.

2. Le ragioni del contrasto.

L’ordinanza di rimessione trova ragione nel contrasto giurisprudenziale esistente in ordine all’individuazione del dies a quo nel computo del termine di prescrizione della pena detentiva ex art. 172 cod. pen. nei casi di volontaria sottrazione alla già iniziata esecuzione della stessa.

Invero, l’art. 172 cod. pen. attribuisce efficacia estintiva della pena principale, diversa dall’ergastolo, al prodursi del fenomeno naturale del decorso del tempo, individuando tre diverse decorrenze: a) dalla data di irrevocabilità della condanna; b) dalla data in cui il condannato si è volontariamente sottratto alla esecuzione della pena, nel caso di esecuzione già iniziata (art. 172, quarto comma, cod. pen.); dalla scadenza del termine o dal verificarsi della condizione, nel caso in cui l’esecuzione della pena sia subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione (art. 172, quinto comma, cod. pen.).

Le Sezioni Unite erano chiamate a pronunciarsi con riferimento alla determinazione del momento discriminante costituito dall’inizio dell’esecuzione della pena.

3. L’orientamento maggioritario.

Sin degli anni ‘90 (cfr., Sez. 1, n. 5205 del 16/12/1992, dep. 1993, Cursio, Rv. 192975 e Sez. 1, n. 4060 del 10/06/1997, Gallo, Rv. 207956) la giurisprudenza prevalente sosteneva che per individuare il momento di inizio dell’esecuzione non era sufficiente che il provvedimento di carcerazione fosse stato emesso, ma era necessario che l’esecuzione della pena fosse di fatto già iniziata, in mancanza di che la pena non poteva che prescriversi per il semplice fatto del decorso del tempo, misurato dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna (nei medesimi termini si erano, più di recente, espresse Sez. 1, n. 21963 del 6/07/2020, El Misri; Sez.1, n. 1460 del 9/11/2016, dep. 2017, Abazaj; Sez. 1, n. 6297 del 4/11/2014, dep. 2015, Filippini; Sez. 1, n. 23571 del 6/05/2008, Conti, Rv. 240129).

Secondo questa prospettiva, pertanto, non assumono rilevanza né l’attività o l’inattività degli organi deputati all’esecuzione, né l’eventuale irreperibilità o latitanza derivanti dal comportamento del condannato essendo momenti antecedenti l’inizio dell’esecuzione (Sez. 1, n. 21963 del 6/07/2020 El Misri; Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018, Kaja, Rv. 274536; Sez. 1, n. 19795 del 25/01/2018, Gezim; Sez. 1, n. 31196, 17704/2004, Giorgetta, Rv. 229286).

Tale ricostruzione ermeneutica sottolineava come l’art. 172 cod. pen. non preveda né l’istituto della sospensione, né quello della interruzione della prescrizione della pena, nell’accezione propria della disciplina della prescrizione del reato, in quanto dà rilievo solo all’inizio dell’esecuzione come momento impeditivo del decorso del termine e nessuna rilevanza, inoltre, assume la circostanza se tale inizio sia avvenuto coattivamente o con la collaborazione del condannato in mancanza di una previsione legislativa in tal senso (Sez. 3, n. 17831 del 27/05/2020, Mita; Sez. 3, n. 15589 del 10/12/2020, Monossi, Rv. 278838; Sez. 3, n. 17228 del 3/11/2016, dep. 2017, Ghidini, Rv. 269981).

La suddetta linea interpretativa rimarcava che la fissazione della decorrenza del temine di prescrizione della pena dalla data di irrevocabilità della sentenza, senza attribuire alcun rilievo al momento di emissione/notifica dell’ordine di esecuzione, risponde ad un principio di civiltà giuridica che discende dalla necessità di porre un termine certo alla possibilità di eseguire la pena detentiva, diversa da quella perpetua, perché, altrimenti, il condannato sarebbe indefinitamente soggetto alla pretesa punitiva dello Stato anche quando questo, per mezzo degli organi preposti all’esecuzione, abbia di fatto manifestato l’incapacità di eseguire la pena ovvero il proprio disinteresse. Compete, infatti, agli organi che devono curare l’esecuzione della pena – in primis il pubblico ministero ex art. 655 cod. proc. pen. - di assumere tutte le iniziative (tra cui spiccano per importanza le ricerche in campo internazionale, la richiesta di estradizione e il mandato di arresto europeo) che si palesino opportune per individuare il condannato e, quindi, sottoporlo all’autorità dello Stato, sicché non può tornare a danno del condannato il tempo impiegato dalle autorità pubbliche per portare a compimento il compito loro affidato dalla legge. In sostanza, in ragione dei principi di ragionevolezza e di tempestività nella esecuzione delle pene, di cui agli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, non può porsi a carico del condannato l’eventuale ritardo del pubblico ministero incaricato dell’esecuzione, anche perché, al fine di perseguire l’effetto rieducativo, l’esecuzione di una pena deve essere tendenzialmente prossima alla definitività della condanna (Sez. 1, n. 26748 del 21/05/2009, Papallo).

Nella cornice ermeneutica descritta si inscrivevano diverse sentenze intervenute nel procedimento di estradizione rispetto al quale, come noto, costituisce causa ostativa all’accoglimento della richiesta l’ipotesi di intervenuta prescrizione della pena, da accertarsi in virtù della clausola del trattamento di miglior favore nei confronti dell’imputato tra le legislazioni nazionali a confronto. In particolare, Sez. 6, n. 21627 del 29/04/2014, Antoseszk, Rv. 259700 ha annullato senza rinvio la decisione che aveva accolto la domanda di estradizione presentata dalla Repubblica della Polonia, rimarcando come, nella specie, l’esecuzione della condanna nei confronti del condannato non fosse mai iniziata, di tal che il dies a quo andava individuato nel momento del passaggio in giudicato della sentenza, senza che potesse rilevare, ex art. 172 comma 3, cod. pen., la "sospensione" della esecuzione disposta dalle Autorità polacche.

In altra fattispecie, inoltre, Sez. 1, n. 40966 del 22/09/2011, Dell’Orto, ha escluso che fosse intervenuta la prescrizione della pena, in quanto il soggetto era stato provvisoriamente arrestato nel Paese estradante a fini di estradizione entro il termine di dieci anni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna dal cui momento, quindi, aveva avuto inizio l’esecuzione con decorrenza del termine di prescrizione della pena, escludendo che avesse rilievo la notifica dell’ordine di esecuzione da parte dell’autorità giudiziaria italiana, avvenuta in data successiva, oltre la scadenza decennale.

I principi sostenuti dall’orientamento sopra esposto sono stati ribaditi anche a seguito della novella dell’art. 656 cod. proc. pen. apportata dalla cd. Legge Simeone - Saraceni, legge 27 maggio 1998, n. 165, e successive modifiche, che ha introdotto per le pene detentive brevi l’obbligo per il pubblico ministero di notificare al condannato l’ordine di esecuzione con contestuale decreto di sospensione, per un periodo di trenta giorni, per permettergli di presentare al tribunale di sorveglianza istanza di concessione di una delle misure alternative di cui agli artt. 47, 47-ter, 50 legge 26 luglio 1975 n. 354; artt. 90, 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

E difatti, è stato puntualizzato che la sospensione ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non ha influenza sul diverso termine di prescrizione della pena che, anche in questi casi, decorre dalla data di irrevocabilità della condanna, ai sensi dell’art. 172, quarto comma, cod. pen. e non da quella del provvedimento di revoca della sospensione (Sez. 1, n. 21963 del 6/07/2020 El Misri; Sez. 3, n. 17831 del 27/05/2020, Mita; Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018, Kaja, Rv. 274536).

Ebbene, come chiaramente precisato da Sez. 3, n. 17831 del 27/05/2020, Mita: «L’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena, in quanto applicabile solo al caso di condanna già eseguibile, è estraneo alla ratio dell’art. 172, comma 5 cod. pen, che disciplina esclusivamente casi di condanna non eseguibile per la pendenza di un termine o di una condizione; né lo stesso configura alcuna causa di sospensione del predetto termine prescrizionale». Si è, quindi, rimarcato che la ratio di tale norma consiste nel determinare la decorrenza del termine di prescrizione della pena «dal momento della eseguibilità della condanna», mentre «la procedura disciplinata dall’art. 656 cod. proc. pen. presuppone, invece, l’esecutività della condanna e, al fine di consentire l’accesso alle misure alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, impone una sospensione dell’esecutività limitata al termine di giorni trenta, concesso per proporre la richiesta di misure alternative.».

Di conseguenza, il quinto comma dell’art. 172 cod. pen. è applicabile soltanto nei casi di differimento dell’esecuzione della pena nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., di condanna a pena condizionalmente sospesa e di pena condonata, qualora la legge di indulto preveda la revocabilità del beneficio (Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018, Kaja, Rv. 274536). Trattandosi di norma sostanziale, non è infatti consentito estendere l’ambito di applicazione di tale disposizione anche al caso di sospensione dell’esecuzione della condanna imposta dalla legge, integrando una interpretazione contra reum in via analogica. In questa prospettiva, allora, l’interprete non può che riconoscere che il legislatore, pur avendo introdotto il meccanismo ex art. 656 cod. proc. pen., non ha integrato l’art. 172 cod. pen., prevedendo una specifica causa di sospensione del termine di prescrizione della pena, lasciando così immutata la disciplina organica dettata dal legislatore del 1930, pur in un diverso contesto processuale (Sez. 3, n. 17831 del 27/05/2020, Mita; Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018, Kaja, Rv. 274536).

3.1. L’interpretazione contrastante.

Altra impostazione esegetica, invece, affermava che «per la decorrenza del termine di estinzione per decorso del tempo sono previste cause differenti di sospensione o di slittamento: per la pena detentiva, in caso di sospensione dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il Tribunale accerti la causa di inammissibilità o il rigetto dell’applicazione della misura alternativa, perché solo in tale data si ha la certezza sulle modalità di espiazione della pena» (Sez. 1, n. 8166 del 16/01/2018, Esposito, Rv. 272418; negli stessi termini, cfr. Sez. 1, n. 35537 del 2/07/2012, Perna). Tale interpretazione muove da Sez.1, n. 9854 del 16/01/2007, Corio, Rv. 236289 che ha così argomentato: «A seguito delle modifiche apportate all’art. 656 dalla legge n. 165 del 1998, il pubblico ministero non è esonerato dall’emettere l’ordine di carcerazione, ma deve, contestualmente e con separato provvedimento, sospenderne l’esecuzione; ove non sia adottato il provvedimento di sospensione l’interessato può chiedere al giudice dell’esecuzione la declaratoria di temporanea efficacia del provvedimento che dispone la carcerazione (Sez. 2, 04 novembre 1999, ric. Magnani; Sez. Un. 27 giugno 2001, ric. Iacono). Il suddetto provvedimento è soggetto a revoca immediata, ai sensi dell’art. 656, comma ottavo, c.p.p., in presenza di un provvedimento del Tribunale di sorveglianza che dichiari inammissibile o rigetti l’istanza di applicazione di una delle misure alternative alla detenzione, presentata dal condannato nel rispetto delle forme e dei termini stabiliti dall’art 656 comma quinto, c.p.p., a seguito del provvedimento di sospensione del pubblico ministero. Sulla base di quanto sinora esposto, è possibile affermare che tra le ipotesi di subordinazione dell’esecuzione della pena alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, previste dal quinto comma dell’art. 172 c.p. è ricompresa anche la sospensione dell’esecuzione della pena disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma quinto, c.p.p. In tale caso il termine di prescrizione della pena decorre dalla data in cui il Tribunale accerti la causa di inammissibilità o di rigetto di applicazione della misura alternativa alla detenzione, cui è finalisticamente preordinato il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena, obbligatoriamente adottato dal pubblico ministero, poiché solo in tale momento si ha la certezza giudiziale circa le modalità di espiazione della pena e soltanto da tale data, pertanto, può essere dato corso alla concreta esecuzione della pena medesima.».

Secondo tale ricostruzione, pertanto, il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui l’espiazione della pena è possibile; di conseguenza, viene ritenuto erroneo affermare che la previsione contenuta nell’art. 172, quinto comma, cod. pen. vada limitata alle sole ipotesi di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen., nonché nei casi di revoca della sospensione condizionale della pena e dell’indulto condizionato; ciò che rileva, in questi casi, infatti, è che la sentenza di condanna, non essendo eseguibile, non fa decorrere il termine utile alla estinzione della pena. Ed allora, quelle generalmente indicate costituirebbero solamente le più comuni applicazioni delle disposizioni di cui all’art. 172 cod. pen. senza tuttavia esaurirle, riguardando invece, più in generale, tutte quelle situazioni in cui la pendenza di un termine o il verificarsi di una condizione inibiscano l’esecuzione della pena (in questi termini, Sez. 5, n. 32021, del 14/04/2003, Costanzo, Rv. 226501).

In applicazione di tali principi, la appena citata sentenza Sez. 1, “Costanzo”, in una fattispecie in cui l’ordine di esecuzione era stato sospeso per permettere al condannato di presentare istanza di affidamento in prova ai sensi dell’art. 47 ord. pen., poi rigettata dal tribunale di sorveglianza con successiva irreperibilità del condannato, ha ritenuto che il termine di prescrizione della pena andasse individuato alla data in cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di misura alternativa, per essersi il soggetto reso irreperibile emigrando all’estero. In motivazione, inoltre, viene puntualizzato che in tal caso non ricorre un’ipotesi di sospensione del termine di esecuzione della pena, bensì di una diversa decorrenza del giorno iniziale del termine di estinzione. Più precisamente, il provvedimento di sospensione del pubblico ministero aveva reso ineseguibile la sentenza di condanna inflitta, in quanto con la richiesta avanzata al tribunale di sorveglianza l’esecuzione della pena era rimasta sottoposta ad un termine iniziale di efficacia, costituito, appunto, dalla decisione stessa.

Si registravano anche alcune pronunce in tema di computo dei termini di prescrizione della pena in pendenza di una procedura di estradizione o di m.a.e. per l’estero che hanno precisato la differenza tra dies a quo e dies ad quem del termine di prescrizione (Sez. 6, 58531 del 28/12/2018, Kluzinski, Rv. 275506).

In particolare, hanno individuato quale termine finale per il calcolo della prescrizione della pena, la data di presentazione della richiesta di estradizione, e non quella di emissione della sentenza con cui la corte di appello dichiara sussistenti le condizioni per il relativo accoglimento (Sez. 6, n. 2189 del 11/12/2018, dep. 2019, Benini; Sez. 6, 17999 del 29/03/2018 Reut, Rv. 272892; Sez. 6, n. 44604 del 15/09/2015, Wozniak, Rv. 265454), costituente il primo atto esecutivo della pretesa punitiva dello Stato richiedente, oppure quella di arresto dell’estradando, quale primo atto “nazionale” del Paese richiesto (Sez. 6, n. 54664 del 30/10/2018, Vicol).

In particolare, Sez. 1, n. 54337 del 20/11/2018, Bertulazzi, Rv. 274543, nel ribadire l’inapplicabilità degli istituti della sospensione e della interruzione alla prescrizione della pena, ha riaffermato che l’avvenuto arresto del condannato in esecuzione di una richiesta di estradizione determina l’inizio dell’esecuzione della pena e la decorrenza ex novo del termine di prescrizione della stessa, a nulla rilevando la successiva scarcerazione del condannato per mancata concessione dell’estradizione da parte dell’autorità giudiziaria estera, allineandosi così alla giurisprudenza formatasi in tema di mandato di arresto europeo, secondo cui la cattura del condannato in esecuzione del provvedimento restrittivo « [...] determina l’inizio dell’esecuzione della pena e la decorrenza ex novo del termine di prescrizione [...], a nulla rilevando la successiva decisione dell’autorità estera di non estradare e revocare il m.a.e., proprio in quanto tale determinazione attiene al rapporto di collaborazione interstatuale ma non incide su quello tra cittadino e Stato italiano» (Sez. 1, n. 3883 del 05/05/2016, dep. 2017, S., Rv. 268923).

Infine, Sez. 3, n. 3736 del 24/11/2000, dep.  2001, Di Ruocco, Rv. 218533, in un caso di richiesta di rimessione nei termini per proporre appello, ai sensi dell›art. 175 cod. proc. pen., dichiarata inammissibile, ha disatteso la prospettazione del giudice dell’esecuzione che aveva ritenuto di calcolare la decorrenza della prescrizione della pena dalla data in cui era divenuta definitiva la decisione di inammissibilità, ai sensi dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., affermando: «In base alla regola stabilita dalla norma suddetta è in coincidenza con il passaggio in giudicato della sentenza che può dirsi esaurito l’accertamento giurisdizionale della responsabilità dell’imputato in ordine al reato che gli è stato contestato ed è da quel preciso momento che nasce il rapporto di punibilità in concreto, con conseguente obbligo, per gli organi ai quali è affidata la funzione di esecuzione della condanna, di dare ad essa attuazione pratica entro termini prefissati, scaduti inutilmente i quali si verifica l›effetto prescrittivo della pena, collegato al mancato esercizio della potestà di attuare la pretesa punitiva nascente dal giudicato irrevocabile. Nella specie è la disposizione normativa posta dal comma 3 dell’art. 172 cod. pen. che deve trovare applicazione e non quella del successivo comma 4, che stabilisce una diversa decorrenza del termine di prescrizione nei casi particolari, espressamente indicati, in cui l›esecuzione della condanna sia subordinata alla scadenza di un termine (vedi, ad esempio, l›art. 174 cod. pen.) ovvero al verificarsi di una condizione (vedi, ad esempio, l’art. 173, cod. pen.), disponendo che il tempo necessario all’estinzione della pena inizia il suo corso dal giorno in cui il termine si è compiuto o la condizione si è avverata.» Trattandosi di una previsione tassativa, in base a tale decisione «il tempo trascorso per la definizione dell’iter procedimentale previsto dallo stesso art. 175 cod. proc. pen. va computato agli effetti prescrittivi delle pene irrogate con la sentenza non impugnata e passata in giudicato, la quale - come si evince anche dalle previsioni del comma 7 della norma in esame e dell›art. 670 cod. proc. pen. - ben può essere eseguita in pendenza della procedura in oggetto».

3.2. La soluzione resa dalle Sezioni Unite.

Sez. U, n. 46387 del 15/07/2021, Uhuwamangho, ha aderito alla ricostruzione esegetica secondo la quale:

«Il decorso del tempo necessario ai fini dell›estinzione della pena detentiva, ai sensi dell›art. 172, quarto comma, cod. pen., ha inizio il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile e termina con la carcerazione del condannato, ricominciando a decorrere dal giorno in cui il medesimo vi si sottragga volontariamente con condotta di evasione.» (Rv. 282225-01).

«Il procedimento di sospensione temporanea di esecuzione della pena detentiva disciplinato dall›art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non rientra tra le ipotesi riguardanti l›estinzione della pena in caso di esecuzione subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione previste dall›art. 172, quinto comma, cod. pen.» (Rv. 282225-02).

4. La prescrizione della pena: i tre momenti di decorrenza del termine.

L’articolato percorso argomentativo della decisione in esame si sviluppa attraverso diversi snodi tematici.

In primo luogo, viene analizzato l’istituto della prescrizione della pena delineato dagli artt. 172 e 173 cod. pen., al quale, a differenza di quanto previsto per la prescrizione del reato, non sono applicabili gli istituti della sospensione e dell’interruzione (cfr. Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, Maiorella, Rv. 261399), né quello della rinuncia da parte del condannato. Viene ribadito che tale disciplina si fonda su una duplice ratio: «da una parte, l’attenuarsi dell’interesse dello Stato alla punizione di reati risalenti nel tempo per il diminuito ricordo sociale del fatto, dall’altra la necessità di non tenere il condannato per un periodo eccessivo in uno stato di incertezza in ordine all’esecuzione della pena unita alla considerazione che l’esecuzione perde la sua funzione rieducativa se avviene a grande distanza di tempo dalla commissione del reato».

La pronuncia si sofferma, quindi, a mettere in luce come operano i tre diversi momenti di decorrenza del termine della prescrizione previsti dall’art. 172 cod. pen.

In particolare, il primo, fissato al giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile, è coerente con il principio, stabilito dall’art. 650, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui «salvo che sia diversamente disposto, le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili». Il sistema dell’esecuzione penale, sottolineano le Sezioni Unite, presuppone la formazione del giudicato che, ai sensi dell’art. 648 cod. proc. pen., si realizza quando contro le sentenze pronunciate in giudizio non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione, oppure quando l’impugnazione consentita non è proposta, o, se presentata, è dichiarata inammissibile o rigettata; se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che lo dichiara inammissibile o lo rigetta.

Gli altri due momenti di decorrenza del termine producono l’effetto di ritardare l’estinzione della pena rispetto alla previsione generale, pur operando in maniera distinta: mentre la norma del quinto comma dell’art. 172 cod. pen. fa slittare il dies a quo del termine di estinzione ad una data successiva a quella di irrevocabilità della sentenza di condanna senza che l’esecuzione abbia avuto inizio - essendo subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione - l’ipotesi contemplata dalla seconda parte del quarto comma dell’art. 172 cod. pen. contempla la volontaria sottrazione del condannato all’esecuzione già iniziata.

4.1. Irrevocabilità ed esecutività della decisione giudiziale: profili differenziali.

Ciò che rileva, quindi, è l’esecutività della decisione - che presuppone la formazione del titolo esecutivo e la definitività del provvedimento -, da differenziare sul piano sistematico dal concetto di autorità di cosa giudicata, come chiarito dagli interventi nomofilattici della Corte di cassazione secondo cui l’autorità di cosa giudicata prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato, in quanto è il risultato conseguente alla conclusione del processo nel suo sviluppo per gradi ed all’esaurimento del potere decisionale sulla regiudicanda, in modo tale da impedire che sul medesimo oggetto possa intervenire ulteriore pronuncia (da ultimo, Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 280261).

Alla luce della elaborazione giurisprudenziale in tema di irrevocabilità ed esecutorietà della decisione giudiziale, il Supremo consesso giunge ad affermare che quando l’art. 172, quarto comma, cod. pen. individua come termine di decorrenza per l’estinzione della pena per decorso del tempo il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile, intende fare riferimento al momento in cui la sentenza è concretamente utilizzabile come titolo esecutivo (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196889), precisando, inoltre, che, alla luce di Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640, «l’irrevocabilità può non coincidere con la definitività del decisum quando [...] si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell’imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo (arg. ex artt. 624, 648, 650 cod. pen.). Il fatto che, esclusa la prescrizione del reato per il giudicato progressivo formatosi, non cominci ancora a decorrere la prescrizione della pena fino all’esaurimento del giudizio di rinvio con l’inflizione della sanzione, dipende dall’inattualità di una condanna irrevocabile per l’impossibilità di dare esecuzione ad una pena non ancora determinata».

Osserva, inoltre, che sulla medesima distinzione si basa anche il principio affermato da Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, Maiorella, Rv. 261399, secondo cui, nel caso in cui l’esecuzione della pena sia subordinata alla revoca dell’indulto, il termine di prescrizione della pena decorre dalla data d’irrevocabilità della sentenza di condanna, quale presupposto della revoca del beneficio, atteso che da tale data la pena è eseguibile e il pubblico ministero è tenuto a porla in esecuzione, mentre l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che revoca l’indulto ha natura meramente formale e ricognitiva.

Con particolare riferimento alla possibile non coincidenza tra l’irrevocabilità e l’esecutorietà della sentenza, Sez. U, “Uhuwamangho”, ricorda quanto affermato da Sez. U, n. 9 del 24/03/1995, Cacciapuoti, Rv. 201305, ovvero che «il vincolo inscindibile tra irrevocabilità ed esecutorietà della sentenza, in uno al principio generale di indefettibilità della esecutorietà della sentenza penale al momento della formazione dell’irrevocabilità, non consente di ipotizzare casi di sospensione (a qualsiasi titolo) al di fuori di quelli, eccezionali e, quindi, di stretta interpretazione, previsti dalla legge sostanziale e da quella processuale», con la conseguenza, pertanto, che al giudice non spetta il potere di sospendere l’esecuzione in casi non previsti.

4.2. L’individuazione dell’inizio dell’esecuzione della pena ai fini del computo del termine di prescrizione: le regole processuali in cui si inserisce l’art. 172 cod. pen.

Il Supremo consesso prende le mosse dall’esame delle disposizioni del codice di rito del 1930 contemporaneo alla previsione dell’art. 172 cod. pen.

L’art. 581 del previgente cod. proc. pen. stabiliva: «Il pubblico ministero o il pretore, competente per l’esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva, trasmette all’autorità di pubblica sicurezza l’ordine di carcerazione del condannato, se questi non è già detenuto.». Alla luce di tale disposizione, osserva Sez. U., “Uhuwamangho”, il riferimento alla esecuzione della pena già iniziata, contenuto nel quarto comma dell’art. 172 cod. pen., non può che riferirsi all’ipotesi dell’evasione, proprio in quanto l’inizio dell’esecuzione avveniva con la cattura del condannato e la sua carcerazione (oppure con la notifica dell’ordine di esecuzione al condannato già detenuto).

L’emissione dell’ordine di carcerazione con la quale si manifesta la formale volontà dello Stato di dare esecuzione alla sentenza di condanna, risultava, pertanto, del tutto irrilevante ai fini della decorso dei termini di estinzione della pena, anche in considerazione della circostanza che nel codice di rito del 1930, non è stata riprodotta la disposizione contenuta nel Codice Zanardelli (Regio Decreto 30 giugno 1889, n. 6133) che, all’art. 96, secondo comma, prevedeva, espressamente, che «qualunque atto dell’Autorità competente per la esecuzione della sentenza, legalmente reso noto al condannato, interrompe la prescrizione».

Anche l’art. 656, comma 1, cod. proc. pen. dell’attuale codice di procedura penale stabilisce che l’esecuzione delle pene detentive avviene con la carcerazione del condannato, prevedendo che, per l’esecuzione delle pene detentive, che il pubblico ministero «emette ordine di esecuzione con il quale (ne) dispone la carcerazione», con l’eccezione del condannato già detenuto al quale viene notificato l’ordine di esecuzione. Particolare menzione merita il periodo finale del primo comma della medesima disposizione, in base al quale «copia dell’ordine è consegnata all’interessato»: la persona condannata viene fisicamente arrestata e tradotta in carcere e contestualmente le viene effettuata la notificazione dell’ordine che dispone la carcerazione.

4.3. La sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen come deroga alla regola generale della esecuzione delle pene.

L’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. dispone che, in presenza di determinate condizioni, il pubblico ministero, in deroga alla regola generale sull’esecuzione delle pene detentive stabilita dal primo comma, non debba ordinare la carcerazione del condannato, ma sia tenuto a notificare al condannato l’ordine di esecuzione e il contestuale decreto di sospensione; la presentazione da parte del condannato al pubblico ministero, entro il termine di trenta giorni, di un’istanza di una delle misure alternative alla detenzione di previste dall’ordinamento penitenziario ovvero dell’affidamento in prova in casi particolari previsto dall’art. 94 del testo unico sugli stupefacenti ovvero istanza di sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi all’art. 90 dello stesso testo unico, comporta la ulteriore protrazione della sospensione dell’ordine di esecuzione fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il pubblico ministero deve trasmettere gli atti. Il pubblico ministero revoca immediatamente il decreto di sospensione dell’esecuzione al decorso di tale termine di trenta giorni senza che il condannato abbia presentato alcuna istanza.

Tuttavia, dalla revoca della sospensione non consegue sempre la carcerazione del condannato. Si deve, infatti, ricordare che, in forza della legge 26 novembre 2010, n. 199 (Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi), se la pena detentiva non è superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, il pubblico ministero è tenuto a sospendere l›ordine di carcerazione e a trasmettere senza ritardo gli atti al magistrato di sorveglianza affinché disponga che la pena venga eseguita presso il domicilio (art. 1, comma 3, legge n. 199 del 2010 come modificato dall›art. 3, comma 1, lett. a) del d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9). È consolidato nella giurisprudenza di legittimità, peraltro, che il pubblico ministero deve disporre tale ulteriore sospensione dell’esecuzione, in presenza delle condizioni previste, anche nei confronti del condannato che abbia già beneficiato della sospensione dell’esecuzione della pena in forza dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. e non abbia avanzato richiesta di misura alternativa (Sez. 1, n. 14987 del 13/03/2019, Mihai, Rv. 275330; Sez. 1, n. 4971 del 09/12/2014, dep. 2015, Vullo, Rv. 262642).

4.4. L’incidenza della sospensione temporanea dell’esecuzione delle pene detentive brevi sull’estinzione della pena per decorso del tempo.

Sez. U, “Uhuwamangho”, compie, quindi, un’analisi del funzionamento del procedimento di esecuzione ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., individuando quattro segmenti temporali intercorrenti tra la data di irrevocabilità della decisione di condanna a pena detentiva e l’eventuale carcerazione del condannato, che possono protrarsi per tempi significativi, in considerazione dei diversi, e a volte complessi, adempimenti a carico degli organi preposti all’esecuzione, soggetti, peraltro, a termini meramente ordinatori: 1) preparazione e notificazione dell’ordine di esecuzione, che può presupporre anche l’adozione di un provvedimento di cumulo ex art. art. 663 cod. proc. pen. e l’applicazione del beneficio della liberazione anticipata da parte del magistrato di sorveglianza sugli accertati periodi di custodia cautelare presofferta o di pena fungibile riguardanti il titolo da eseguire; 2) presentazione dell’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione, nel termine di trenta giorni, che decorre dalla notificazione del decreto del Pubblico ministero, detratto anche il periodo di sospensione feriale prevista dalla legge 7 ottobre 1969, n. 742 (Sez. 5, n. 483 del 25/01/2000, Militano, Rv. 215487; Sez. 5, n. 5504 del 16/11/1999 dep. 2000, Quacquarelli, Rv. 215961; Sez. 2, n. 3933 del 22/09/1999, Salamida, Rv. 215085); 3) decisione del tribunale di sorveglianza che rigetta o dichiara inammissibile l’istanza presentata o scadenza del termine di trenta giorni in assenza di presentazione di alcuna istanza di concessione di misura alternativa; 4) revoca del decreto di sospensione dell’esecuzione da parte del pubblico ministero ex art. 656, comma 8, cod. proc. pen. da notificarsi al condannato.

Le Sezioni Unite evidenziano che per tutto il tempo in cui si svolgono le fasi indicate, il condannato è libero da qualsiasi forma di limitazione alla propria libertà, cosicché il suo rintraccio ai fini della carcerazione può non risultare agevole e, quindi, eventualmente ritardato, senza che l’eventuale condizione oggettiva di irreperibilità -data l’assenza di alcun restrizione a carico dell’interessato - possa in alcun modo equipararsi alla nozione di "volontaria sottrazione all’esecuzione già iniziata" di cui all’art. 172, quarto comma, seconda parte, cod. pen., per segnare una nuova decorrenza del termine di prescrizione il cui dies a quo iniziale è fissato alla data di irrevocabilità della sentenza di condanna.

Da quanto sopra esposto, consegue la conclusione che l’emissione del provvedimento previsto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non costituisce l’inizio dell’esecuzione della pena, considerato che il pubblico ministero, contestualmente all’ordine di esecuzione, deve adottare il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva per permettere al condannato, ove sussistano le condizioni, di espiare la pena in forma alternativa alla carcerazione.

Il principio per cui in mancanza di effettiva carcerazione non si ha inizio dell’esecuzione della pena è suffragato da una serie di argomentazioni analiticamente esposte dalla sentenza in esame.

In primo luogo, dalla previsione legislativa di cui all’art. 656, comma 10, cod. proc. pen., che ha dovuto espressamente stabilire che, nell’ipotesi di condannato che si trovi agli arresti domiciliari per il fatto della condanna da eseguire, quando il Pubblico ministero sospende l’ordine di carcerazione e trasmette gli atti al tribunale di sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di una delle misure alternative richieste, il tempo trascorso in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza, «è considerato come pena espiata a tutti gli effetti», proprio in quanto la sospensione dell’ordine di carcerazione non fa cominciare l’esecuzione della pena.

Inoltre, sul piano sistematico, è coerente sia con quanto prevede, in termini generali, lo stesso art. 172, primo comma, cod. pen., per cui la prescrizione della pena continua, comunque, a decorrere dalla data di irrevocabilità della sentenza anche se il condannato sfugge all’estero o si rende irreperibile (Sez. 1, n. 5205 del 16/12/1992, dep. 1993, Cursio, Rv. 192975), sia con il fatto che l’inizio dell’esecuzione non coincide con il sorgere del rapporto esecutivo, che consegue alla notificazione del provvedimento del pubblico ministero una volta che la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile e che costituisce il presupposto per l’eventuale adozione di diversificati provvedimenti incidenti il titolo esecutivo tramite l’incidente di esecuzione, a prescindere dall’inizio dell’esecuzione (artt. 670, 663, 657, 674, 671, 673).

In terzo luogo, evita di sostituire un termine fisso e certo - quale quello della irrevocabilità della sentenza di condanna - con uno mobile ed incerto in quanto condizionato da diverse variabili, considerato che l’effettuazione della notificazione al condannato dell’ordine di carcerazione e del contestuale decreto di sospensione dipende dal tempo necessario al pubblico ministero per emetterlo e da quello occorrente per il rintraccio e la notifica al condannato con modalità tali da far ritenere che egli ne abbia avuto «effettiva conoscenza» (art. 656, comma 8-bis, cod. proc. pen.). Ancorare il termine di decorrenza della prescrizione della pena per i condannati a pene detentive brevi al momento della notificazione dei provvedimenti sopraindicati, spostando in avanti tale dies a quo, con inevitabile allungamento dei termini di estinzione della pena, determina una ingiustificabile diversità di trattamento in senso deteriore rispetto a coloro che, condannati a pene detentive più severe cui volontariamente si sottraggono, possono confidare sul termine fisso della irrevocabilità della sentenza, previsto dall’art. 172, primo comma, cod. pen., non essendo previsto alcun meccanismo sospensivo.

Ed ancora, osservano le Sezioni unite in esame, la questione della estinzione della pena è rilevante anche in ambito di estradizione essendo ostativa all’accoglimento della domanda, sia che dipenda dalla legislazione della parte richiedente sia che sia ascrivibile alla legislazione della parte richiesta (art. 10 della Convezione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957 ratificata in forza della legge n. 300 del 30 gennaio 1963; l’articolo è stato, peraltro, recentemente modificato dall’art. 1 del Quarto protocollo addizionale alla Convenzione, ratificato in forza della legge 24 luglio 2019, n. 88). Ebbene, evidenzia il Supremo consesso la soluzione adottata è confermata dagli arresti di legittimità in tema di estradizione e di esecuzione di mandato di arresto europeo – richiamati dalla ordinanza di remissione, in quanto individuano il dies a quo del termine di estinzione della pena per decorso del tempo nel giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile o in quella in cui il condannato si sottrae alla esecuzione già iniziata (Sez. 6, n. 21627 del 29/04/2014, Antoszek, Rv. 259700; Sez. 1, n. 54337 del 20/11/2018, Bertulazzi, Rv. 274543; Sez. 1, n. 3883 del 05/05/2016, dep. 2017, S., Rv. 268923). Le altre pronunce menzionate nell’ordinanza di rimessione (Sez. 6, n. 44604 del 15/09/2015, Wozniak, Rv. 265454; Sez. 6, n. 17999 del 29/03/2018, Reut, Rv. 272892), non dando conto dell’avvenuto arresto del condannato a fini estradizionali, non paiono smentire i principi sopra espressi.

Infine, anche i principi affermati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020, non incidono sul profilo dell’inizio dell’esecuzione della pena.

In particolare, nell’affermare: «non v’è dubbio che l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. - nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis ordin. penit. - produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite - per l’intera durata della pena inflitta - sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto», non ha associato l’inizio dell’esecuzione all’emissione dell’ordine di carcerazione, anche sospeso ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.

Invero, la Corte costituzionale, chiamata a valutare il profilo del mutamento della pena applicabile per effetto di una legge sopravvenuta alla consumazione del reato - nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione, previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale – si è limitata a descrivere il meccanismo di funzionamento dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. rispetto alla norma generale del comma 1, senza affrontare affatto la questione riguardante la diversa ipotesi che l’ordine di carcerazione non sospeso emesso dal pubblico ministero possa non essere eseguito per latitanza del condannato con conseguente impossibilità di esecuzione della pena mediante carcerazione.

4.5. L’inapplicabilità dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. alla sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi disposta ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.

Il secondo quesito si riferiva alla possibilità di ricondurre la sospensione dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., ad una ipotesi di subordinazione dell’esecuzione della pena alla scadenza di un termine prevista dall’art. 172, quinto comma, cod. pen.

Sez. U, “Uhuwamangho”, esclude tale ricostruzione interpretativa sulla base di diverse argomentazioni che prendono spunto, innanzitutto, dalla considerazione del dato testuale: il legislatore del 1998, disegnando il nuovo istituto in forza del quale, pur in presenza di sentenza di condanna irrevocabile, la esecuzione viene obbligatoriamente sospesa, non è intervenuto sull’art. 172 cod. pen. e non ha, quindi, stabilito espressamente che la sospensione dell’esecuzione disposta in forza all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. introduce un termine o una condizione inquadrabili in quelli previsti dal quinto comma della norma sostanziale.

Inoltre, le diverse cause rientranti nella disciplina della sospensione ex art. 172, quinto comma, cod. pen. si riferiscono sempre a circostanze indipendenti dall’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione della sentenza di condanna (sospensione condizionale della pena; revoca dell’indulto; rinvio obbligatorio o facoltativo nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen; autorizzazione all’esecuzione prescritta dall’art. 655, comma 4, cod. proc. pen.; esecuzione all’estero di sentenze italiane ex art. 746, comma 1, cod. proc. pen.), quando invece la disciplina di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., configura una procedimentalizzazione dell’esecuzione delle pene che ricadono nei limiti previsti, scandita da diversi adempimenti, soggetti a termini ordinatori, che possono perfezionarsi nella pratica in tempi variabili e spesso imponderabili.

Del resto, lo stesso legislatore, nella Relazione al Progetto definitivo del codice penale, giustificava la sospensione della prescrizione di cui all’art. 172, quinto comma, cod. pen. distinguendo tra i fatti ostativi all’esecuzione posti volontariamente dalla persona del condannato e gli eventi ostativi indipendenti dalla volontà dello stesso, escludendo per i secondi il differimento del termine di estinzione della pena («[...] sarebbe eccessivo il rigore della legge, se in simili casi rimanesse anche sospeso il decorso del tempo per l’estinzione della pena; se, cioè, esso non iniziasse il suo svolgimento o, dopo essersi iniziato, subisse un arresto a danno del condannato incolpevole dell’impedimento sopravenuto. E questa considerazione mi ha indotto a temperare il rigore del principio, dichiarando l’irrilevanza giuridica di siffatto impedimento, nel calcolo del periodo estintivo, dovendo valere la regola generale, che fissa la decorrenza di esso alla data della sentenza di condanna divenuta irrevocabile»).

Anche Sez. U, “Maiorella”, già citata - che in caso di revoca dell’indulto ha individuato la decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo nella data di irrevocabilità della sentenza di condanna che costituisce il presupposto della revoca del beneficio e non, invece, in quella in cui è divenuta definitiva la decisione che abbia accertato la sussistenza della causa di revoca dell’indulto – ha precisato che «l’art. 172 cod. pen. prevede diversi dies a quibus (a seconda dei casi: condannato che si sottrae volontariamente all’esecuzione già iniziata; verificarsi di una condizione), ma non, come appena detto, ipotesi di sospensione del corso della prescrizione rispetto ad un inizio fissato per legge». Il ragionamento svolto viene completato, quindi, mediante l’affermazione, sia pure incidentale, che la procedura prevista dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non determina la sospensione del termine di estinzione della pena per decorso del tempo.

Infine, la soluzione accolta da Sez. U, “Uhuwamangho”, trova giustificazione anche nei principi costituzionali e convenzionali di ragionevole durata del processo, di sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile per il condannato e di finalità rieducativa della pena, evincibili dagli artt. 111, secondo comma, 27, terzo comma, Cost.; 5 e 6 CEDU, evitando che il condannato sopporti l’incertezza di una decorrenza soggetta alle variabili contingenze processuali, sulle quali non può in alcun modo incidere, e che l’esecuzione avvenga a grande distanza di tempo dalla data di commissione del reato e dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna.

Invero, l’interpretazione che intende applicare l’art. 172, quinto comma, nel caso di sospensione dell’esecuzione ex art. 665, comma 5, cod. proc. pen., entrerebbe in tensione anche con il principio costituzionale di uguaglianza secondo due prospettive. In primo luogo, con riferimento ai condannati nella medesima posizione, rispetto ai quali l’inizio dell’esecuzione della sentenza di condanna o della misura alternativa alla detenzione potrebbe realizzarsi in momenti differenti, in conseguenza di circostanze del tutto indipendenti dalla loro volontà, quale il tempo necessario per la notifica del decreto del pubblico ministero di carcerazione e contestuale sospensione dell’esecuzione, ovvero quello di decisione sull’istanza di misure alternative alla detenzione da parte del tribunale di sorveglianza. In secondo luogo, creerebbe una irragionevole disparità di disciplina a sfavore dei condannati che possono accedere alla procedura di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. rispetto a quelli per i quali l’esecuzione della pena non può essere sospesa, ai sensi dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. - in quanto responsabili di reati di maggior allarme sociale - in quanto solo questi ultimi possono beneficiare dei ritardi nell’emissione dell’ordine di carcerazione o sulla incapacità della polizia giudiziaria di darvi esecuzione, perché il termine di estinzione della pena decorre indefettibilmente dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna.

5. L’assenza del condannato dal territorio dello Stato quale causa di sospensione dell’esecuzione.

Le Sezioni Unite in esame hanno infine escluso che nel caso di specie potesse trovare applicazione la disciplina della espulsione dal territorio dello Stato del cittadino extracomunitario, quale motivo di sospensione del termine di prescrizione della pena, dedotta come terzo motivo dal ricorrente richiamando Sez. 1, n. 26300 del 19/04/2011, Abduli, Rv. 250698.

Il Supremo consesso ha puntualizzato che nel caso in esame non è applicabile la specifica disciplina prevista dall’art. 7, commi 12-bis, 12-ter e 12-quater del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e di soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39 e modificato dal d.l. 14 giugno 1993, n. 187 (Nuove misure in materia di trattamento penitenziario nonché sull’espulsione del cittadini stranieri) convertito, con modificazioni, dalla legge 12 agosto 1993, n. 206, che stabilisce l’immediata espulsione, da parte del giudice dell’esecuzione, dello straniero in stato di detenzione condannato con sentenza passata in giudicato, ad una pena non superiore a tre anni di reclusione, anche se costituente parte residua di maggior pena. E ciò in quanto l’interessato era stato espulso in forza di un provvedimento amministrativo, non era ancora stato condannato con sentenza irrevocabile e non si trovava in stato di detenzione.

Il Collegio ha altresì rimarcato, per le ragioni già esposte nella motivazione, che l’invocata applicabilità della disciplina di cui all’art. 172, quinto comma, cod. pen. non ha alcun fondamento giuridico, in mancanza di una norma espressa che sospenda l’esecuzione fino al verificarsi della condizione di rientro del condannato sul territorio dello Stato.

6. Osservazioni conclusive.

La questione decisa dalle Sezioni Unite involge diverse problematiche e ciò, soprattutto, per il fatto che, nonostante negli ultimi anni siano intervenute importanti modifiche che hanno inciso sul procedimento di messa in esecuzione delle pene detentive brevi, il legislatore si è astenuto dal normare gli effetti di tali novelle sull’istituto della prescrizione della pena, la cui disciplina è rimasta immodificata nell’art. 172 cod. pen. Tale norma, come noto, si focalizza, da un lato, sul principio dell’effetto estintivo della pena per decorso del tempo in caso di incapacità dell’autorità statuale, per inerzia ovvero per difetto di adeguatezza dei mezzi, di assicurare il colpevole alla giustizia e, dall’altro, sull’inverso concetto per cui in caso di esercizio della potestà punitiva, che dimostra l’attualità dell’interesse dello Stato a perseguire il condannato, costui non può giovarsi del mero decorso del tempo sottraendosi all’esecuzione e beneficiare, dopo un certo periodo, della caducazione del titolo esecutivo posto in esecuzione dagli organi preposti. Vengono quindi in rilievo, da un lato, il dies a quo e, dall’altro, il dies ad quem della prescrizione.

Secondo la rigorosa ricostruzione svolta, rimane a carico dello Stato l’eventuale incapacità della cattura entro il termine fissato dal legislatore, nel caso di volontaria irreperibilità del condannato durante le fasi che cadenzano il complesso procedimento di messa in esecuzione delle pene detentive brevi.

Alla luce dell’attenta analisi testuale e sistematica compiuta, le Sezioni Unite hanno rimarcato come la soluzione accolta risponda ad un principio di civiltà giuridica che scongiura qualsiasi rischio di “rallentamento” delle attività da parte degli organi dell’esecuzione, che potrebbero beneficiare di un maggiore lasso temporale per mettere in esecuzione una condanna, se il dies ad quem della prescrizione venisse individuato al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione sospeso, dato che sarebbe sufficiente che tale adempimento si compia entro il termine di prescrizione della pena.

L’inesorabile decorso della prescrizione, dalla data di irrevocabilità della sentenza sino alla carcerazione del condannato, garantisce, nel rispetto del principio di uguaglianza, tutti i coloro che sono soggetti alla procedura esecutiva a non vedersi computare un termine di prescrizione condizionato dalla maggiore o minore tempestività di azione degli organi incaricati dell’esecuzione. E ciò in linea con gli arresti di legittimità in tema di decorrenza del termine di prescrizione nel caso di revoca dell’indulto o di sospensione condizionale della pena che, appunto, hanno affermato che le contingenti determinazioni dell’autorità giudiziaria non devono incidere sul computo della prescrizione della pena.

Sulla base di tale interpretazione, pertanto, rimangono distinti i piani, da un lato, dell’inizio del rapporto esecutivo, che si instaura con la notifica dell’ordine di esecuzione, e, dall’altro, dell’inizio dell’esecuzione della pena, cui è strumentalmente finalizzata la complessa procedura di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.

Il Supremo Collegio ha, quindi, chiarito che gli unici termini o condizioni che possono incidere sul dies a quo del termine di prescrizione della pena ai sensi dell’art. 172, quinto comma, cod. pen., sono quelli che indipendenti dall’attività degli organi incaricati dell’esecuzione, e, quindi, diversi dagli adempimenti che presuppongono, comunque, l’avvio della fase procedimentale strumentale all’esecuzione della pena.

Peraltro, stante la natura eccezionale e tassativa delle ipotesi di sospensione dell’esecuzione, che costituiscono una eccezione al principio della indefettibilità della esecuzione della condanna definitiva, non sarebbe ammissibile l’introduzione, per via ermeneutica, di ulteriori casi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore, trattandosi di previsioni sfavorevoli al condannato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 5205 del 16/12/1992, dep. 1993, Cursio, Rv. 192975

Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196889

Sez. U, n. 9 del 24/03/1995, Cacciapuoti, Rv. 201305

Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640

Sez. 1, n. 4060 del 10/06/1997, Gallo, Rv. 207956

Sez. 2, n. 3933 del 22/09/1999, Salamida, Rv. 215085

Sez. 5, n. 5504 del 16/11/1999 dep. 2000, Quacquarelli, Rv. 215961

Sez. 5, n. 483 del 25/01/2000, Militano, Rv. 215487

Sez. 3, n. 3736 del 24/11/2000, dep. 2001, Di Ruocco, Rv. 218533

Sez. 3, n. 3736 del 24/11/2000, dep. 2001, Di Ruocco, Rv. 218533

Sez. U, n. 29025 del 27/06/2001, Iacono, Rv. 219228

Sez. 5, n. 32021, del 14/04/2003, Costanzo, Rv. 226501

Sez. 1, n. 31196, 17704/2004, Giorgetta, Rv. 229286

Sez. 1, n. 9854 del 16/01/2007, Corio, Rv. 23628

Sez. 1, n. 23571 del 6/05/2008, Conti, Rv. 240129

Sez. 1, n. 26748 del 21/05/2009, Papallo

Sez. 1, n. 26300 del 19/04/2011, Abduli, Rv. 250698.

Sez. 1, n. 40966 del 22/09/2011, Dell’Orto

Sez. 1, n. 35537 del 2/07/2012, Perna

Sez. 6, n. 21627 del 29/04/2014, Antoszek, Rv. 259700

Sez. 1, n. 6297 del 4/11/2014, dep. 2015, Filippini

Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, Maiorella, Rv. 261399

Sez. 1, n. 4971 del 09/12/2014, dep. 2015, Vullo, Rv. 262642

Sez. 6, n. 44604 del 15/09/2015, Wozniak, Rv. 265454

Sez. 1, n. 3883 del 05/05/2016, dep. 2017, S., Rv. 268923

Sez. 3, n. 17228 del 3/11/2016, dep. 2017, Ghidini, Rv. 269981

Sez. 1, n. 1460 del 9/11/2016, dep. 2017, Abazaj

Sez. 1, n. 8166 del 16/01/2018, Esposito, Rv. 272418

Sez. 1, n. 19795 del 25/01/2018, Gezim

Sez. 6, 17999 del 29/03/2018 Reut, Rv. 272892

Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018, Kaja, Rv. 274536

Sez. 6, n. 54664 del 30/10/2018, Vicol

Sez. 1, n. 54337 del 20/11/2018, Bertulazzi, Rv. 274543

Sez. 6, n. 2189 del 11/12/2018, dep. 2019, Benini

Sez. 6, 58531 del 28/12/2018, Kluzinski, Rv. 275506

Sez. 1, n. 14987 del 13/03/2019, Mihai, Rv. 275330

Sez. 6, n. 12541 del 14/03/2019, Ferraresi, Rv. 275925

Sez. 3, n. 17831 del 27/05/2020, Mita

Sez. 1, n. 21963 del 6/07/2020, El Misri.

Sez. 3, n. 15589 del 10/12/2020, Monossi, Rv. 278838

Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 280261

Sentenze della Corte costituzionale n. 32 del 2020

  • carcerazione
  • detenuto
  • regime penitenziario
  • pentito
  • lavoro del detenuto

CAPITOLO III

GLI SVILUPPI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ IN TEMA DI DETENUTI IN REGIME DIFFERENZIATO EX ART. 41-BIS ORD. PEN. - IL TRATTAMENTO PENITENZIARIO DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Premessa. - 2 I permessi premio. - 3 Detenzione di CD musicali. - 4 I colloqui. - 5 L’acquisto e la cottura dei cibi. - 6 Il cumulo delle pene ed i limiti all’applicazione del principio di irretroattività di cui all’art. 25, comma 2 Cost. - 7 Alcune questioni processuali - 8 Il divieto di abbonamento a giornali e riviste. - 9 La violazione dei divieti. - 10 La violazione dell’art. 3 CEDU. - 11 L’applicazione del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. agli internati. La sentenza n. 197 del 2021 della Corte costituzionale. - 11 I benefici penitenziari per i collaboratori di giustizia. - 12 La questione di legittimità costituzionale sulla censura della corrispondenza tra detenuti e difensori. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

In relazione alla natura giuridica del regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis, ord. pen. ed alla sua funzione, non può che essere operato un rinvio preliminare alla Rassegna della giurisprudenza di legittimità dell’anno 2020, Volume II, pagg. 482 e seguenti ove, con specifico riferimento alle sentenze di legittimità intervenute nell’anno 2020, sono state compiute ampie considerazioni circa lo scopo perseguito dal legislatore nella individuazione delle specifiche modalità esecutive definite nella norma indicata.

2. I permessi premio.

Sul tema si registra un arresto della Corte di cassazione con il quale è stato affermato che in tema di permessi premio, è illegittima la decisione del Tribunale di sorveglianza che dichiari il regime differenziato, ai sensi dell’art. 41-bis legge 26 luglio 1975 n. 354, di per sé incompatibile con la concessione dei permessi premio, in quanto, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019 e della disciplina della revoca di tale regime speciale, il giudice deve comunque valutare, in concreto, se il detenuto abbia collaborato con la giustizia o versi in un’ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile, e non sussista il pericolo di ristabilimento dei collegamenti con la criminalità organizzata (Sez. 1, n. 42723 del 07/10/2021, Zagaria, Rv. 282155). La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che aveva rigettato un reclamo proposto a norma dell’art. 30-bis ord. pen. avverso un decreto del Magistrato di sorveglianza che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di un permesso premio formulata nell’interesse di un condannato sottoposto al regime penitenziario differenziato ritenuto incompatibile con il beneficio premiale.

Nel percorso argomentativo è stata inizialmente riaffermata l’illegittimità del provvedimento del Tribunale di sorveglianza che ritenga il regime detentivo speciale incompatibile con la concessione del permesso premio richiamando, sostanzialmente, quanto deciso, recentemente, da Sez. 1, n. 21946 del 08/06/2020, Apicella, Rv. 279373.

L’incompatibilità, infatti, benchè astrattamente ipotizzabile, non è prevista da alcuna disposizione e ciò vale, a maggior ragione, secondo quanto evidenziato nella decisione intervenuta sul punto, sebbene limitatamente ai permessi premio, dopo il venir meno delle presunzioni di cui all’art. 4-bis ord. pen. a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019.

In particolare, è stato sottolineato come il venir meno delle condizioni per l’applicazione del regime detentivo differenziato comporti la revoca dello stesso e che, avverso il provvedimento che rigetta l’istanza di revoca, sia sempre consentito il reclamo al Tribunale di sorveglianza, nonostante l’intervenuta abrogazione della normativa che disciplinava tale impugnazione per effetto della legge 15 luglio 2009, n. 94.

Da ciò la Corte ha tratto una prima conclusione affermando che, pur in presenza di un provvedimento applicativo del regime differenziato formalmente in vigore, potrebbero darsi situazioni in cui ne sia venuta meno la ratio, «con la necessità, pertanto, di addivenire, comunque, a una pronuncia di merito che spieghi le ragioni per le quali il beneficio richiesto non possa essere, in concreto, accordato».

In merito ai principi genericamente applicabili alla disciplina dei permessi, è stato richiamato quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019 in relazione agli artt. 4-bis e 30-ter ord. pen.in relazione ai quali è stato delineato il doppio regime distinguendo (nell’ambito di coloro che non hanno collaborato con la giustizia) i soggetti che, pur potendolo fare, non lo abbiano fatto, da coloro che ne siano stati impossibilitati o per i quali la collaborazione sia inesigibile. Per i primi è necessario accertare il presupposto dell’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti con l’associazione di appartenenza; per i secondi è sufficiente dimostrare la mancanza attuale di collegamenti.

Operata tale duplice considerazione, l’ordinanza impugnata è stata annullata demandando al Tribunale di sorveglianza la verifica dell’esistenza della situazione di incompatibilità tra il regime differenziato ed i permessi premio, previo accertamento, così come imposto dalla Corte costituzionale, dell’eventuale collaborazione o, nel caso di collaborazione impossibile o inesigibile, del pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata.

3. Detenzione di CD musicali.

Con due decisioni, rispetto alle quali non si rinvengono precedenti specifici, la Corte ha affermato che, in tema di regime penitenziario differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., è legittimo il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria di diniego di autorizzazione all’acquisto ed alla detenzione di "compact disk" musicali e dei relativi lettori digitali, qualora, per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto, in termini di impiego di risorse umane e materiali, non sia possibile assicurare la messa in sicurezza di detti dispositivi e supporti (Sez. 1, n. 43484 del 30/09/2021, Viscido, Rv. 282213).

Nella fattispecie, il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che aveva confermato la decisione del Magistrato di sorveglianza con la quale era stato accolto il reclamo giurisdizionale avverso il divieto di acquisto e detenzione nella camera di pernottamento di compact disk musicali e relativi lettori digitali.

Il divieto di utilizzare tali strumenti, secondo il Tribunale, poteva pregiudicare il diritto del detenuto al trattamento rieducativo nell’ottica di salvaguardare (anche garantendo la possibilità di scegliere brani e generi non trasmessi dai normali canali radiofonici e televisivi) i «piccoli gesti di normalità quotidiana» che la Corte costituzionale individua come gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà della persona ristretta in un istituto di pena.

La Corte ha premesso alla decisione la considerazione preliminare secondo cui non è configurabile una preclusione assoluta all’utilizzo dell’uso dei lettori di compact disk per scopi diversi da quelli della consultazione di testi, senza, tuttavia, che tale soluzione possa trovare ingresso in ogni situazione e contesto, dovendo bilanciarsi l’esigenza del detenuto con quella di controllo dell’Amministrazione penitenziaria, con specifico riguardo ai detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato.

Tali esigenze riguardano, principalmente, la necessità di evitare forme di comunicazione tra il detenuto e l’organizzazione di appartenenza.

Per salvaguardare tale necessità occorre che sia consentito all’Amministrazione di mettere in sicurezza i dispositivi per evitare sia manomissioni che l’accesso agevole ai relativi contenuti digitali.

Occorre, tuttavia, valutare l’effettiva praticabilità di tali interventi e la loro eventuale incidenza sull’organizzazione del carcere per cui, qualora l’impiego di quegli strumenti comporti adempimenti dell’Amministrazione che non siano esigibili, la scelta di non autorizzare l’ingresso nei reparti ove vige il regime penitenziario differenziato è da ritenersi ragionevole.

Il medesimo principio è stato affermato da Sez. 1, n. 29819 del 29/06/2021, Ferraro che ha ricondotto la possibilità di coltivare gli interessi culturali del detenuto all’art. 15, ord. pen. secondo cui il trattamento è svolto avvalendosi principalmente «dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia» ed all’art. 12, ord. pen. a mente del quale negli istituti penitenziari, «sono approntate attrezzature per lo svolgimento di attività lavorative, di istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di ogni altra attività in comune».

4. I colloqui.

Sulla questione dei colloqui dei detenuti sottoposti al regime detentivo differenziato, Sez. 1, n. 19290 del 09/04/2021, Emmanuello, Rv. 281221 ha affermato il principio generale secondo cui il detenuto sottoposto a regime differenziato, ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., può essere autorizzato ad avere colloqui visivi con i familiari - in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare i colloqui in presenza - mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, secondo modalità esecutive idonee ad assicurare il rispetto delle cautele imposte dal citato art. 41-bis.

Si è così assicurato continuità ai precedenti arresti costituiti da Sez. 1, n. 7654 del 12/12/2014, dep. 2015, Trigila, Rv. 262417 e Sez. 1, Sentenza n. 23819 del 22/06/2020, Madonia, Rv. 279577 con i quali il medesimo principio era stato già affermato.

Peraltro, la prima delle due sentenze citateconformi ha riguardato l’ipotesi che il soggetto con il quale il detenuto doveva avere il colloquio fosse, anch’egli, sottoposto al regime detentivo di cui all’art. 41-bis, ord. pen.

Sul punto si registra il precedente difforme costituito da Sez. 1, n. 16557 del 22/03/2019, Pesce, Rv. 275669 con il quale è stato affermato che è illegittimo il provvedimento di autorizzazione del detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, ad avere colloqui audiovisivi con un altro detenuto (nella specie, il fratello) mediante il sistema della videoconferenza e l’impiego di tecniche comunicative di uso comune, difettando un’espressa disciplina normativa che, in relazione sia ai detenuti in regime ordinario che a quelli in regime differenziato, individui i presupposti di una siffatta forma di comunicazione a distanza e ne detti una specifica regolamentazione quanto agli strumenti da adottare in condizioni di sicurezza, ai poteri di controllo delle Autorità penitenziarie ed alle necessarie coperture di spesa.

L’illegittimità del provvedimento di diniego, nel caso più recentemente deciso, è stata affermata sia perché assunto de plano e, dunque, senza contraddittorio, sia perché contrastante con i precedenti, ai quali è stata prestata adesione, favorevoli a forme di collegamento da remoto, tenuto conto dell’esigenza di contemperare le esigenze di sicurezza ed i diritti del detenuto a mantenere le relazioni familiari.

Sempre in tema di colloqui, Sez. 1, n. 28260 del 09/04/2021, Mangone, Rv. 281754 ha affermato che, in tema di regime penitenziario differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., è legittima la disposizione dell’Amministrazione penitenziaria che, in attuazione dell’art. 16 della circolare del DAP del 2 ottobre 2017, preveda che il colloquio visivo avvenga senza vetro divisorio solo nel caso in cui esso abbia luogo con il figlio o i nipoti in linea retta minori di 12 anni oppure, con le cautele ordinarie, nel caso di parenti e affini entro il terzo grado, in quanto detta regolamentazione costituisce un ragionevole esercizio del potere amministrativo in funzione del contemperamento tra le esigenze di mantenimento delle relazioni familiari e quelle di particolare controllo richieste dal regime penitenziario.

Il caso esaminato riguardava un provvedimento di diniego della richiesta di autorizzazione ai colloqui, senza vetro divisorio, tra detenuto e nipoti ex fratre minori di dodici anni e con le modalità ordinarie con i cugini.

Il reclamo proposto avverso il provvedimento era stato rigettato dal Magistrato di sorveglianza e la relativa decisione era stata confermata dal Tribunale di sorveglianza.

La Corte, nel decidere il ricorso proposto avverso la predetta decisione, fondato sull’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 1 e 18 ord. pen., in relazione agli artt. 3, 27 Cost. e 3 ed 8 CEDU, ha indicato le fonti normative costituzionali (artt. 29, 30 e 31), sovranazionali (art. 8 Convenzione europea dei diritti dell’Uomo) ed ordinarie (artt. 28, 18, comma 3, 1, comma 6 e 15 ord. pen., 61, comma 1, lett. a) e 73, comma 3, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) del diritto del detenuto alla vita familiare ed al mantenimento delle relazioni con i più stretti congiunti.

Secondo la Corte, non vi sono ragioni per escludere tale diritto per i detenuti sottoposti al regime differenziato per i quali lo stesso trova una specifica disciplina nell’art. 41-bis, comma 1-quater, lett. b), ord. pen.

Inoltre l’art. 16 della circolare del D.A.P. del 2 ottobre 2007 stabilisce che il colloquio si svolga senza vetro divisorio solo nel caso avvenga con figli e nipoti in linea retta minori di dodici anni e che i colloqui visivi sono circoscritti ai familiari, ossia a parenti ed affini entro il terzo grado.

La scelta è stata ritenuta esercizio non irragionevole della discrezionalità riconosciuta all’Amministrazione, anche perché la stessa circolare prevede che il detenuto possa chiedere alla direzione dell’istituto penitenziario l’autorizzazione ad essere eccezionalmente ammesso al colloquio con terze persone, categoria nella quale potrebbero rientrare i soggetti legati da un rapporto parentale oltre il terzo grado, con conseguente accesso ad una più estesa fruizione del diritto al mantenimento delle relazioni familiari.

Ricorrente nelle sentenze rese in materia di disciplina del trattamento penitenziario di cui all’art. 41-bis ord. pen., il tema del bilanciamento di contrapposti interessi e diritti e della congruità delle limitazioni poste dalla norma rispetto agli scopi perseguiti è stato affrontato in Sez. 1, n. 10349 del 04/12/2020, dep. 2021, Mignolo, Rv. 280652 con la quale è stato enunciato il principio di diritto per cui, in tema di regime penitenziario differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., è illegittima l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che disapplichi la circolare del DAP del 2 ottobre 2017 con cui si vieta la consegna diretta di oggetti a figli e familiari durante i colloqui, ove emessa senza avere previamente accertato che la traditio non presenti rischi concreti per le esigenze di sicurezza sociale e per l’ordine e la sicurezza pubblica.

L’autorità giurisdizionale aveva disapplicato automaticamente la circolare senza porsi il problema della congruità dello scopo perseguito con la disposizione e dell’esistenza di rischi per la tutela dell’ordine e della sicurezza a tutela dei quali si pone il regime detentivo speciale.

Nell’ottica interpretativa fatta propria dalla Corte, il diritto del detenuto al mantenimento delle relazioni familiari tutelato dagli artt. 26 e 45 ord. pen. e 94 reg. es. ord. pen. pone un problema di coordinamento con la previsione di cui all’art. 41-bis cit. secondo cui le regole comuni di trattamento, nel regime ivi disciplinato, sono sospese in vista del perseguimento dello scopo di evitare l’elusione del divieto di comunicazione con l’esterno della struttura.

Il divieto di scambi di oggetti nel corso dei colloqui persegue tale obiettivo, pur nell’ambito della medesima normativa che sancisce la centralità dei rapporti familiari.

In tale prospettiva, la Corte ha evidenziato come la relazione familiare non sia automaticamente recessiva rispetto all’obiettivo di garantire l’ordine pubblico e ciò fin quando è possibile conciliare i contrapposti interessi.

E proprio nella previsione che la consegna dell’oggetto possa avvenire attraverso la mediazione dell’operatore che assiste al colloquio è stato individuato il punto di bilanciamento per salvaguardare il diritto del minore e di esplicazione della genitorialità con la previsione legislativa che sancisce il divieto di consegna.

Nello stesso senso Sez. 1, n. 10350 del 04/12/2020, dep. 2021, Pagano.

Interseca il tema della disciplina dei colloqui tra detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. e difensore la decisione assunta da Sez. 1, n. 38360 del 16/07/2021, Vottari, Rv. 282047 che ha dichiarato l’inammissibilità della richiesta di declaratoria di ineseguibilità della sentenza di condanna pronunciata all’esito di processo celebrato durante la vigenza della disciplina limitativa dei colloqui con i difensori di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ultimo periodo, legge 26 luglio 1975, n. 354, successivamente dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 143 del 2013, per asserita iniquità del processo, secondo l’interpretazione adottata dalla Corte EDU nella sentenza Ocalan c. Turchia, atteso che detta pronuncia non ha natura di "sentenza pilota" e la disciplina in questione riguarda esclusivamente le modalità di esecuzione della pena detentiva inflitta nei confronti di soggetti ritenuti di particolare pericolosità.

È stato confermato l’orientamento già espresso da Sez. 7, n. 6548 del 14/01/2016, Mandalà, Rv. 265748 che aveva reso identica pronuncia in relazione alla esclusione dell’incidenza della disciplina relativa ai colloqui in funzione della eseguibilità della sentenza non riguardano la stessa l’accertamento del reato, né la determinazione del relativo trattamento sanzionatorio, ma le modalità di esecuzione della pena detentiva inflitta nei confronti di soggetti ritenuti di particolare pericolosità.

Nel ribadire l’ininfluenza della sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 2013 sul giudicato, la Suprema Corte ha evidenziato la coerenza di tale conclusione con l’art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87 circa l’efficacia erga omnes e retroattiva della pronuncia di incostituzionalità in quanto riferito ai rapporti pendenti e non esauriti che rimangono disciplinati dalla normativa dichiarata incostituzionale, dovendo essere intesi come esauriti quei rapporti che abbiano trovato la loro definizione con sentenza passata in giudicato e quelli per i quali sia decorso il termine di prescrizione o decadenza per l’esercizio dei relativi diritti.

Non rientra in tale complesso assetto la disciplina penale sostanziale, in base a quanto previsto dallo stesso art. 30 cit.

Ha affrontato la questione dei colloqui tra detenuto e difensori anche Sez. 1, n. 46021 del 21/10/2021, Attanasio, massimata su altro punto.

Alla Corte era stato posto un motivo di ricorso in punto di disapplicazione dell’art. 16.3. della circolare D.A.P. del 6 ottobre 2017 che regola i colloqui tra detenuto e difensori ai quali è imposto di recarsi in un istituto penitenziario prossimo al domicilio o al luogo ove esercitano l’attività forense.

La previsione è stata ritenuta «conforme al generale canone della ragionevolezza delle restrizioni», tenuto conto del fatto che l’esigenza di identificare il soggetto ammesso al colloquio (ragione posta alla base della disciplina contestata) sarebbe suscettibile di elusione presso lo studio del difensore che potrebbe essere fatto oggetto di minaccia o violenza e sostituito con soggetto terzo privo di titolo alla conversazione.

L’incidenza sull’esercizio del diritto di difesa della predetta disciplina (con conseguente minore fluidità del relativo esercizio) è stata ritenuta giustificata dalla necessità di impedire i collegamenti dei detenuti con l’esterno, in coerenza con quanto affermato dalla Corte costituzionale che nella sentenza n. 143 del 2013 cit. ha evidenziato che al decremento di tutela di un diritto fondamentale deve fare necessario riscontro un corrispondente incremento di tutela di interesse di pari rango.

5. L’acquisto e la cottura dei cibi.

Plurimi interventi si sono registrati durante l’anno in punto di disciplina dell’acquisto di generi alimentari e di regolamentazione dell’orario di cottura dei cibi.

Con un gruppo di sentenze conformi, delle quali è stata massimata Sez. 1, n. 4030 del 04/12/2020, dep. 2021, Gallo, Rv. 280532, è stato affermato il principio per cui, in tema di ordinamento penitenziario, è legittima la disposizione del regolamento d›istituto che, incidendo sulle sole modalità di esercizio del relativo diritto, stabilisca il divieto di cottura dei cibi in determinate fasce orarie a condizione che riguardi tutti i detenuti e non solo quelli sottoposti al regime detentivo di cui all›art. 41-bis, ord. pen., risolvendosi, in tal caso, in un’ingiustificata differenziazione del regime penitenziario tale da assumere, in concreto, un carattere sostanzialmente vessatorio.

In tal senso anche Sez.1, n. 4031 del 04/12/2020, dep. 2021, Greco, Sez. 1, n. 7192 del 19/01/2021, Bellocco, Sez. 1, n. 7193 del 19/01/2021, Palazzotto, Sez. 1, n. 7194 del 19/01/2021, Audino, Sez. 1, n. 22056 del 21/04/2021, Polverino, Sez. 1, n. 21120 del 15/02/2021, Gatto.

Con la decisione in esame la Corte ha, dapprima, evidenziato che le questioni che attengono alla cottura dei cibi ed all’acquisto di generi alimentari riguardano profili afferenti il diritto ad alimentarsi ed hanno influenza anche sul diritto alla salute.

Conseguentemente, le relative posizioni soggettive sono suscettibili di essere tutelate davanti al Magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen.

Inoltre, la Corte ha premesso che dalla condizione detentiva derivano, necessariamente, limitazioni significative ai diritti soggettivi dei ristretti e che tali limitazioni, per essere ritenute legittime, devono, comunque, essere rispettose dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità la cui violazione determina vizi di legittimità dell’atto amministrativo che le contempla.

Con riguardo specifico alla disciplina degli orari di cottura dei cibi, è richiamata la disciplina contenuta nell’art. 36, lett. b), d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 in base al quale «il regolamento interno disciplina gli orari relativi all’organizzazione della vita quotidiana della popolazione detenuta o internata».

In tale ottica, la scelta dell’Amministrazione di disciplinare gli orari in cui tale attività può essere compiuta è stata ritenuta coerente rispetto alla possibilità di preparazione di determinati cibi (in base a quanto riconosciuto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018) da contemperarsi con le esigenze organizzative interne degli istituti penitenziari (salubrità degli ambienti, salvaguardia della convivenza, regolare espletamento delle attività trattamentali).

La previsione di una specifica regolamentazione è stata ritenuta legittima, tuttavia, a condizione che essa riguardi non solo i detenuti sottoposti a regime differenziato, ma anche gli altri detenuti appartenenti a circuiti diversi, sostanziandosi, in caso contrario, la (astrattamente) legittima previsione in un provvedimento di carattere vessatorio.

La Corte ha affrontato anche la questione attinente all’esistenza di eventuali limiti all’approvvigionamento di generi alimentari al sopravitto, ritenendo, anche in questo caso astrattamente, legittime le limitazioni alla possibilità di acquisto e/o detenzione di determinati cibi, nei limiti in cui sia volta ad evitare l’acquisizione di una posizione di potere da parte del detenuto.

Conclusivamente, è stato annullato con rinvio il provvedimento dei giudici di merito con il quale era stato accolto il reclamo del detenuto avverso il provvedimento che aveva disposto il mancato inserimento a modello 72 di generi alimentari consentiti ai detenuti comuni e previsto fasce orarie per la cottura dei cibi demandando al Tribunale di sorveglianza la verifica degli elementi di fatto indispensabili per valutare la ragionevolezza delle limitazioni nei termini indicati.

Il profilo della limitazione all’acquisto di generi alimentari da parte dei detenuti sottoposti al regime differenziato è stato affrontato in altre decisioni della Corte nell’anno di interesse.

In particolare, riprendendo, sostanzialmente, quanto già affermato nella motivazione dell’arresto precedentemente citato, Sez. 1, n. 26274 del 21/04/2021, Mazzei, Rv. 281618 ha precisato che, in tema di regime detentivo differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., è illegittima la disposizione dell’amministrazione penitenziaria che, nell’individuazione dei generi alimentari disponibili come sopravitto, vieti l’acquisto di quelli compresi nel "modello 72" dei detenuti ordinari, qualora la loro acquisizione non contrasti con le esigenze proprie del regime differenziato, costituite dalla necessità di impedire le comunicazioni con l’esterno o di evitare la possibilità di distinguere la posizione del detenuto ex art. 41-bis ord. pen. all’interno del gruppo di socialità, accrescendone il carisma o lo spessore criminale. Il caso di specie ha avuto riguardo alla richiesta di acquisto di generi alimentari consentiti ai detenuti ordinari, ma vietati a quelli sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen.

In ordine a tali beni, i giudici di merito hanno escluso la configurabilità di alcun pregiudizio alle esigenze del regime differenziato, che sono costituite dalla necessità di impedire comunicazioni con l’esterno o il perpetuarsi di logiche associative, «anche attraverso l’acquisizione di una posizione di supremazia nei confronti degli altri detenuti».

In tale situazione, il ricorso dell’Amministrazione è stato ritenuto inammissibile poiché reiterativo di censure di merito e, comunque, manifestamente infondato essendo il divieto di acquistare beni di lusso riferito a tutti i detenuti e prevedendo la normativa vigente specifiche limitazioni quantitative agli acquisti per evitare «anomale acquisizioni di beni».

Nel senso sin qui indicato, sia con riferimento alla previsione di fasce orarie per la cottura dei cibi, sia per la possibilità di acquisto dei beni in sopravitto per i detenuti sottoposti al regime differenziato, si segnala anche Sez. 1, n. 33917 del 15/07/2021, Gallico, Rv. 281794 (massimata in relazione al secondo profilo) che ha ribadito che, in tema di regime penitenziario differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., è illegittima la disposizione dell’amministrazione penitenziaria che, nell’individuazione dei generi alimentari acquistabili al sopravitto, vieti l’acquisto di quelli compresi nel "modello 72" dei detenuti ordinari, in quanto la previsione di un regime differenziato, quanto ai beni alimentari acquistabili, è ingiustificata e si risolve in un irragionevole surplus di afflittività del regime carcerario differenziato.

6. Il cumulo delle pene ed i limiti all’applicazione del principio di irretroattività di cui all’art. 25, comma 2 Cost.

Di rilievo sul tema la fattispecie esaminata da Sez. 1, n. 36706 del 15/06/2021, Tornese, Rv. 281906.

La Corte è stata sollecitata a pronunciarsi sul caso di un detenuto sottoposto al regime differenziato rispetto al quale era stata disposta la proroga della particolare modalità esecutiva della detenzione ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., nonostante l’avvenuta espiazione della pena per i reati ostativi ai sensi dell’art. 4-bis ord. pen. e che si trovava in espiazione pena per reati commessi in epoca precedente all’introduzione dell’art. 41-bis ord. pen.

Non avrebbe potuto trovare applicazione la previsione contenuta nella predetta norma laddove stabilisce che, in caso di unificazione di pene concorrenti, la sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario può essere disposta anche quando sia espiata la parte di pena relativa ai delitti indicati dall’art. 4-bis ord. pen., trattandosi di disposizione introdotta con legge 15 luglio 2009, n. 94.

Le argomentazioni difensive sono state disattese e la Corte è pervenuta all’affermazione del principio per cui, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ultima parte, ord. pen., il regime detentivo differenziato può essere disposto o prorogato anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti di cui all’art. 4-bis della stessa legge e la pena residua da espiare riguardi reati non ostativi commessi anteriormente all’introduzione del citato regime, dovendosi escludere, in tal caso, una violazione del divieto di retroattività della legge penale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2020, atteso che: 1) con il provvedimento di unificazione delle pene concorrenti, la pena deve essere considerata, ai fini del regime speciale, quale pena unica; 2) la disciplina relativa al regime speciale incide sulle sole modalità esecutive della pena senza comportare la trasformazione della sua natura.

Nell’articolato percorso argomentativo seguito, la Corte ha premesso l’adesione al precedente per cui la disciplina relativa alle modalità del trattamento penitenziario dei condannati per delitti di mafia, si applica anche quando il fatto oggetto di condanna sia stato commesso prima dell’introduzione nel cod. pen. del reato di associazione di tipo mafioso ad opera della legge 13 settembre 1982 n. 646, ove l’illecito sia inquadrabile in un contesto di criminalità mafiosa per metodo e finalità, poichè tale regime normativo non riguarda l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma solo l’esecuzione di quest’ultima (Sez. 1, n. 45137 del 20/06/2014, Greco, Rv. 161130).

È stata, altresì, richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020 a mente della quale, in punto di applicazione dell’art. 25, comma 2, Cost., è necessario distinguere la normativa sopravvenuta che incide solo sulle modalità esecutive della pena previste al momento di commissione del reato e quelle che operano una vera e propria trasformazione della stessa, «con effetti non marginali sulla libertà personale del condannato».

Nel primo caso (ricorrente nel caso di specie) le pene devono essere eseguite sulla base della normativa vigente al momento dell’esecuzione; nel secondo caso opera il disposto della norma costituzionale richiamata.

La Corte ha escluso che la proroga del regime speciale nei confronti dei condannati che abbiano in esecuzione una porzione di pena per fatti commessi prima della sua entrata in vigore integri una violazione del divieto di applicazione retroattiva.

L’assunto poggia, principalmente, sul fatto che, intervenuto il provvedimento di unificazione, la pena inflitta deve considerarsi unica, a prescindere dalla ostatività di alcuni titoli di reato.

Né la ridetta previsione potrebbe ritenersi violativa del limite indicato dalla citata sentenza della Corte costituzionale (che ha segnalato l’esigenza di garantire l’irretroattività delle modifiche normative che determinano una trasformazione della natura della pena) atteso che la differenza tra il regime differenziato e quello ordinario non comporta tale trasformazione ravvisabile nel solo caso in cui l’esecuzione della pena deve avvenire fuori dal carcere o dentro l’istituto.

In tal senso depone, secondo la lettura della Corte, il fatto che il regime speciale è caratterizzato dalla sospensione delle regole trattamentali comuni, «persegue finalità di prevenzione dei reati indipendentemente dalla espiazione della pena e non impedisce al detenuto né di continuare ad usufruire dei benefici penitenziari, sia pure con i limiti più rigorosi, né di partecipare al percorso rieducativo che non viene interrotto, ma anzi agevolato dalla rescissione dei “collegamenti” con l’organizzazione di appartenenza».

7. Alcune questioni processuali

Un importante arresto va registrato in punto di individuazione dei provvedimenti impugnabili davanti al Magistrato di sorveglianza.

Sez. 1, n. 6740 del 27/10/2020, dep. 2021, Cuccaro, Rv. 280527 ha infatti deciso che il provvedimento di collocazione in "area riservata" del detenuto sottoposto al regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen. può essere oggetto di reclamo al magistrato di sorveglianza, ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen., ove determini una lesione di un suo diritto soggettivo.

Si tratta di fattispecie in cui la Corte, rigettando l’eccezione di difetto di giurisdizione, ha ritenuto legittimo il provvedimento che, in considerazione delle informazioni fornite dai sanitari in merito all’incidenza negativa delle condizioni di areazione e di rumorosità della camera detentiva sullo stato di salute del detenuto, in accoglimento del reclamo, aveva disposto la sua allocazione nella sezione ordinaria per i detenuti in regime detentivo speciale.

È stata data continuità ai più recenti precedenti della Corte di legittimità e, segnatamente, a Sez. 1, n. 16911 del 21/12/2017, dep. 2018, Fabiano, Rv. 272704 e Sez. 1, n. 43858 del 30/09/2019, Marino, Rv. 277147.

Premessa l’illustrazione della normativa rilevante nella materia della destinazione dei detenuti all’interno del circuito carcerario (artt. 13 e 14 ord. pen., artt. 31 e 32 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 41-bis, comma 2-bis, lett. f), ord. pen.), la Corte ha inteso superare l’orientamento più risalente secondo cui «il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria di inserimento del detenuto nel circuito E.I.V. (elevato indice di vigilanza), non eccedente la funzione tipica che gli è propria, non è in sé suscettibile di ledere diritti soggettivi e si sottrae quindi al controllo del magistrato di sorveglianza, mentre possono tuttavia costituire oggetto di reclamo le singole disposizioni che lo accompagnano o lo seguono o gli atti esecutivi che siano in concreto lesivi di diritti» (Sez. 1, n. 49988 del 24/11/2009, Lo Piccolo, Rv. 245969, ed anche Sez. 1, n. 29 del 6/11/2008, dep. 2009, Musumeci, Rv. 242380; Sez. 1, n. 47423 del 28/11/2007, Barreca, Rv. 238173).

Ha giustificato il consolidato mutamento di giurisprudenza con il fatto che i precedenti difformi sono stati pronunciati prima dell’introduzione nell’ordinamento penitenziario del rimedio giurisdizionale previsto dagli artt. 35-bis e 69, comma 6, lett. b), ord. pen. che consente la tutela davanti al magistrato di sorveglianza delle situazioni soggettive qualificabili in termini di «diritto».

La previsione di un regime differenziato caratterizzato da particolari limitazioni, volte a tutelare l’ordine e la sicurezza interna degli istituti, comporta l’applicazione di un trattamento penitenziario meno completo e rispetto a tale determinazione il detenuto vanta una posizione di diritto soggettivo tutelabile in sede di reclamo ex art. 35-bis ord. pen.

La Corte ha altresì enunciato un principio di diritto in punto di poteri cognitivi spettanti al Tribunale di sorveglianza sui provvedimenti di applicazione o proroga del regime detentivo differenziato.

Ha escluso, con riguardo specifico alla proroga, che il potere di intervento della giurisdizione di merito sia limitato a profili di legittimità in ordine alla congruità della motivazione del decreto sulla base degli elementi informativi posseduti dal Ministero.

In particolare, la Corte ha richiamato la giurisprudenza costituzionale degli anni ‘90 in punto di esperibilità del reclamo ex art. 14 -ter ord. pen. in relazione ad ogni provvedimento che comporti un inasprimento del regime detentivo attraverso l’imposizione di specifiche prescrizioni.

Ha segnalato l’evoluzione normativa che ha progressivamente introdotto nel corpo dell’art. 41-bis ord. pen. la previsione di rimedi giurisdizionali avverso i provvedimenti applicativi o di proroga del regime speciale, fino alla previsione del comma 2-sexies a mente del quale compete al giudice la verifica della sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento e sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al secondo comma della norma.

L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità è giunta ad esigere dal Tribunale di sorveglianza in relazione al reclamo proposto dal condannato una autonoma e congrua motivazione sulla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure mirano a prevenire (sul punto è stata richiamata Sez. 1, n. 22721 del 26/03/2013, Di Grazia, Rv. 256495).

La legge 15 luglio 2009, n. 94 ha nuovamente modificato, fra l’altro, il comma 2- sexies eliminando quale oggetto del controllo giudiziale il controllo sulla congruità del contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza pubblica; controllo da esercitarsi, dunque, solo sui presupposti applicativi.

La Corte costituzionale ha ritenuto tale modifica non tale da determinarne l’incostituzionalità, in ragione della permanenza del rimedio di cui all’art. 14-ter ord. pen.

Sono state, a tale proposito, richiamate le ordinanze nn. 220 e 313 del 2009 e le sentenze n. 266 del 2009 e n. 190 del 2010.

In tal senso anche Sez. 1, n. 22721 del 2013 cit. alla quale si è consapevolmente assicurata continuità (in termini anche Sez. 7, n. 19290 del 10/03/2016, Giuliano, Rv. 267248).

Operato tale complesso excursus, la Corte è pervenuta all’affermazione per cui il controllo del Tribunale di sorveglianza in materia di proroga del regime detentivo speciale deve essere inteso alla luce del principio di diritto enunciato, nel senso che, anche a seguito delle modifiche introdotte all’art. 41-bis ord. pen. dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, tale controllo, diversamente dal sindacato conducibile nel giudizio di legittimità, non è limitato ai profili di violazione della legge, ma si estende alla motivazione del provvedimento di proroga ed alla sussistenza, sulla base delle circostanze di fatto indicate nel provvedimento, dei requisiti della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e del collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza (Sez. 1, n. 18434 del 23/04/2021, Mulè, Rv. 281361).

Sempre in materia di procedimento di impugnazione del provvedimento di proroga, Sez. 1, n. 23540 del 20/05/2021, Messina, Rv. 281418, ha affermato che l’omessa indicazione, nel decreto ministeriale di proroga del regime di detenzione differenziato di cui all’art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, del termine per proporre reclamo è irrilevante ove l’interessato abbia tempestivamente proposto reclamo avverso il provvedimento, perché tale indicazione è funzionale a consentire l’impugnazione al destinatario della misura detentiva speciale, con la conseguenza che, in tal caso, la relativa mancanza non comporta alcun pregiudizio delle sue prerogative difensive.

In motivazione la Corte ha precisato che l’omissione non determina la nullità assoluta e insanabile, ai sensi degli artt. 178 e 179 cod. proc. pen., del decreto ministeriale, trattandosi di provvedimento adottato all’esito di un procedimento amministrativo, con conseguente inapplicabilità delle garanzie giurisdizionali, segnalando, altresì, come nel caso di specie, l’omissione lamentata fosse, concretamente, priva di rilievo in quanto il detenuto si era avvalso dei poteri riconosciutigli dall’art. 4-bis ord. pen. proponendo impugnazione davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma, dotato di competenza funzionale.

La Corte ha reso, inoltre, una pronuncia con la quale (dando continuità a Sez. 1, n. 41316 del 23/09/2009, Zagaria, Rv. 245048) ha segnalato alcune particolarità del procedimento instaurato per impugnare il silenzio-rifiuto del Ministero della Giustizia a seguito della richiesta di revoca anticipata del regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ord. pen. Il principio enunciato è il seguente: “la decisione sulla richiesta di revoca anticipata del regime di detenzione differenziato a norma dell’art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 costituisce provvedimento diverso da quelli che lo applicano o ne prorogano la durata, in quanto, per questi ultimi, sussiste, a carico dell’Amministrazione, l’onere di indicare i positivi elementi che fondano il pericolo di collegamenti con l’associazione mafiosa di provenienza e il dovere, per il tribunale di sorveglianza, di valutare, in sede di reclamo, gli indici di pericolosità qualificata prospettati e di motivare sulla sussistenza ed effettiva permanenza delle ragioni che legittimano la sospensione del trattamento, mentre, nel caso di richiesta di revoca anticipata, l’onere di dimostrare che le condizioni per l’applicazione o la proroga sono venute meno incombe sul ricorrente, sottoposto al trattamento differenziato con provvedimento non impugnato o divenuto definitivo a seguito di impugnazione, secondo la regola che assiste ogni azione o domanda” (Sez. 1, n. 36707 del 15/06/2021, Gualtieri, Rv. 282042).

In punto di termini di impugnazione avverso il decreto di applicazione o proroga del regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ord. pen., Sez. 1, n. 38935 del 04/05/2021, Palomba, Rv. 282074, ha assicurato continuità all’indirizzo espresso da Sez. 1, n. 3634 del 19/12/2011, dep. 2012, Coluccio, Rv. 251851 statuendo che il termine per il difensore per proporre reclamo avverso il decreto di applicazione o di proroga del regime di detenzione differenziata di cui all’art. 41-bis ord. pen. decorre dal momento della comunicazione allo stesso del provvedimento.

Sono state richiamate anche le conformi Sez. 1, n. 31875 del 27/10/2020, Forastefano, Sez. 1, n. 19336 del 07/02/2019, Dominante, Sez. 1, n. 47224 del 10/06/2016, Guerrera.

Sembra quindi definitivamente abbandonato l’opposto orientamento secondo cui il termine per la proposizione del reclamo avverso il D.M. adottato a norma dell’art. 41-bis, comma secondo, della legge 26 luglio 1975 n. 354 decorre, sia per il detenuto che per il difensore, dalla data di comunicazione del provvedimento al primo (Sez. 1, n. 5392 del 13/01/2010, Smorta, Rv. 246066).

8. Il divieto di abbonamento a giornali e riviste.

Sez. 1, n. 11601 del 27/01/2021, Rao, Rv. 280680 ha affermato che è legittimo il divieto, imposto ai sensi dell’art. 18-ter ord. pen., ad un detenuto sottoposto a regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., di ricevere tutta la stampa riportante la cronaca locale, anche diversa dalla sua zona di appartenenza, qualora tale provvedimento, lungi dal comprimere in modo assoluto il fondamentale diritto all’informazione, comunque assicurato dalla ricezione della stampa nazionale, sia giustificato da esigenze di sicurezza pubblica, relative alla finalità di impedire che la consultazione della stampa locale possa fungere da "canale di collegamento con l’esterno".

La fattispecie esaminata era relativa ad un provvedimento adottato sulla base, oltre che della pericolosità del detenuto e della operatività della consorteria mafiosa di appartenenza, anche della segnalazione del DAP relativa alla prassi dei detenuti in regime detentivo speciale di chiedere l’abbonamento a stampa locale relativa ad area diversa da quella di appartenenza ed alla possibilità di scambio di tali informazioni nei momenti di socialità.

Nel pervenire alla conclusione riportata, la Corte ha compiuto un’analitica disamina delle norme rilevanti nella materia, segnatamente gli artt. 18-quater e 41-bis ord. pen.

La pima prevede che, per esigenze investigative, preventive, di sicurezza o ordine dell’istituto, possono essere disposte limitazioni alla corrispondenza dei detenuti o degli internati o, ancora, nella ricezione della stampa periodica per un periodo di sei mesi prorogabile per periodi non superiori e tre mesi.

L’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e) ord. pen. prevede la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza per esigenze di ordine o sicurezza pubblica e per impedire i collegamenti del detenuto con il sodalizio criminale esterno al quale sia ritenuto intraneo.

Le lett. a) e c) della stessa norma consentono di adottare il provvedimento con il quale si stabilisce il divieto di ricevere dall’esterno e spedire all’esterno libri, riviste e stampa in genere.

La ratio della previsione risiede nel fatto che libri e riviste possono costituire veicolo di comunicazioni illecite tra detenuto e sodali all’esterno.

Nel caso di specie, rispettando le previsioni della disciplina descritta, il provvedimento giurisdizionale con il quale è tato imposto il divieto di ricevere la stampa locale è stato ritenuto esente da censure, in continuità con il precedente conforme costituito da Sez. 1, n. 32904 del 02/07/2014, Li Bergolis, Rv. 261715.

Sempre in tema di ricezione di riviste o periodici, va ricordato quanto deciso da Sez. 1, n. 36865 del 08/06/2021, Strangio, Rv. 281907 secondo cui è legittimo il provvedimento con cui l’Amministrazione penitenziaria respinga la richiesta del detenuto sottoposto a regime differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen. di ricevere in abbonamento riviste per soli adulti, non inserite nell’apposito elenco delle pubblicazioni acquistabili mediante sopravvitto.

In motivazione la Corte ha ritenuto che le ragioni poste a fondamento del diniego opposto dall’Amministrazione penitenziaria, in particolare l’obiettiva facilità con cui all’interno di riviste pornografiche cartacee possano nascondersi messaggi criptici, camuffati da annunci, aventi in realtà contenuto pregiudizievole per l’ordine e la sicurezza pubblica, rispondessero alla finalità di tutela delle esigenze di prevenzione proprie del regime differenziato, ed ha escluso che da ciò possa derivare una lesione del diritto alla sessualità del detenuto, rispetto alla cui realizzazione la fruizione di materiale pornografico non costituisce presupposto ineludibile.

In definitiva, il diniego è stato ritenuto coerente rispetto all’assetto complessivo del sistema che contempla la possibilità di porre limitazioni alla circolazione di libri, riviste e stampa nel contesto dei soggetti destinatari del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. in quanto volto, secondo quanto affermato anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 2013, a far fronte alle esigenze di sicurezza esterne al carcere anche impedendo il collegamento tra detenuti e sodali fuori dal carcere ed, in particolare, che dai luoghi di detenzione vengano fatti pervenire all’esterno direttive o comandi funzionali al controllo delle attività delittuose dell’organizzazione delinquenziale.

Rileva, sul tema, anche quanto deciso dalla Corte di legittimità in merito al procedimento di controllo della stampa e della corrispondenza in arrivo al detenuto.

A tale proposito è stato ribadito il consolidato orientamento in base al quale nel procedimento di controllo della corrispondenza e della stampa in arrivo al detenuto non sussiste un diritto del difensore alla visione e alla estrazione di copia della comunicazione trattenuta e non inoltrata, essendo sufficiente il richiamo, anche non analiticamente esplicitato, da parte del provvedimento giudiziale al contenuto della comunicazione, che dovrà avvenire con modalità idonee ad assicurare il corretto bilanciamento tra le finalità di pubblico interesse volte a salvaguardare le esigenze investigative o di prevenzione soddisfatte dal trattenimento e il diritto di difesa del detenuto sulle ragioni della limitazione (Sez. 1, n. 17805 del 05/03/2021, Mezzasalma, Rv. 281278).

Si tratta di arresto conforme a Sez. 1, n. 38632 del 23/09/2010, Bosti, Rv. 248677; Sez. 1, n. 7505 del 25/01/2011, Trigila, Rv. 249803 e Sez. 1 n. 4478 del 05/12/2011, Lo Piccolo, Rv. 252188).

9. La violazione dei divieti.

In punto di rilevanza della violazione delle prescrizioni che riguardano i condannati sottoposti al regime differenziale e, segnatamente, di rapporto tra le stesse e la richiesta di accesso alla liberazione anticipata, la Corte ha ribadito un principio affermato nell’anno precedente, sia pure con qualche precisazione.

È stato presa in esame un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza con la quale era stato rigettato il reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza che aveva parzialmente respinto l’istanza di liberazione anticipata motivando tale rigetto con la commissione di alcuni illeciti disciplinari consistiti nel passaggio di beni (anche generi alimentari) da una cella all’altra.

Lo scambio è avvenuto con detenuti dello stesso gruppo di socialità, ristretti a norma dell’art. 41-bis ord. pen.

La Corte ha preso in considerazione la sentenza della Corte costituzionale n. 97 del 2020 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ord. pen. nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti», anziché la «assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

In sostanza, è stata reputata illegittima la disposizione nella parte in cui consente di vietare incondizionatamente lo scambio di oggetti tra detenuti appartenenti alla medesima socialità, in quanto disposizione con valenza puramente afflittiva.

La Corte (Sez. 1, n. 35601 del 24/03/2021, Pompeo, Rv. 281899) ha richiamato e ribadito l’arresto costituito da Sez. 5, n. 23111 del 15/06/2020, Amato, Rv. 279402 con il quale è stato affermato che, a seguito della predetta sentenza della Corte costituzionale, lo scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità non può essere posto a fondamento del diniego di concessione del beneficio della liberazione anticipata, a meno che il divieto non discenda da specifici provvedimenti della direzione carceraria.

Inoltre, ha operato l’ulteriore precisazione individuando altra clausola di salvezza nella esistenza di comportamenti, anche ulteriori rispetto al solo scambio di oggetti o generi alimentari, che siano sintomatici di un’elusione del divieto sorretta da scaltrezza e da malizia.

In sostanza, è stata individuata nelle particolari modalità del comportamento, più che nello scambio vero e proprio, la ragione sulla base della quale desumere la mancata partecipazione alle attività trattamentali e, dunque, il motivo di rigetto dell’istanza di liberazione anticipata.

10. La violazione dell’art. 3 CEDU.

La Corte (Sez. 1, n. 11602 del 27/01/2021, Vitale, Rv. 280681) ha affrontato il tema della configurabilità del trattamento contrario all’art. 3 CEDU nell’ipotesi della mancata fruizione, da parte del detenuto in regime detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen., di due ore effettive all’aria aperta.

Passando in rassegna le norme rilevanti, è stato evidenziato come l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen. preveda la possibilità di limitare la permanenza all’aperto, contrariamente a quanto previsto per gli altri detenuti, e che tale permanenza non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, potendo avere una durata non superiore a due ore al giorno.

Il limite orario può essere oggetto di modifiche più favorevoli da parte del regolamento interno di ogni istituto.

Inoltre, è stato evidenziato come, secondo il costante orientamento della Corte di cassazione, è illegittima l’eventuale equiparazione della permanenza all’aperto con la c.d. socialità.

Di particolare interesse il passaggio della motivazione con il quale, operando un richiamo alla giurisprudenza più recente della Sezione e delle Sezioni Unite (Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220; Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898; Sez. U, n. 6551 del 24/09/2020, Commisso, in motivazione), è stato ribadito che la situazione non conforme all’art. 3 CEDU legittima il ricorso ai rimedi risarcitori solo ove si concretizzi in un fatto denotante un livello di gravità tale da determinare una afflittività non giustificata e non tollerabile nel comune sentire e in una condizione di civile vita del detenuto.

È stata, quindi, richiamata la giurisprudenza della Corte EDU in punto di soglia minima di gravità allo scopo di precisare il principio di diritto per cui, in tema di rimedi nei confronti di soggetti detenuti o internati, previsti dall’art. 35-ter ord. pen, non costituisce trattamento inumano o degradante, rilevante ai sensi dell’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, la mancata fruizione, da parte di un detenuto in regime detentivo differenziato, di due ore effettive d’aria per tutto l’arco della detenzione (nella specie, si trattava della fruizione di un’ora all’aria aperta e di un’ora di socialità), atteso che non ogni lesione astrattamente tutelabile con l’azione inibitoria di cui all’art. 35-bis ord. pen., può costituire la base giuridica per il riconoscimento dello speciale rimedio compensativo, ma solo quelle che sono idonee a provocare all’interessato uno sconforto e un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione.

Per valutare il superamento di detta soglia, occorre prendere in considerazione le condizioni concrete di detenzione con particolare riferimento alla durata del trattamento, i suoi effetti fisici e psichici, il sesso, l’età, le condizioni di salute delle vittime.

Con altra decisione intervenuta sul tema dei trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte di legittimità ha ribadito un principio già affermato nell’anno precedente con Sez. 1, n. 30030 del 11/09/2020, Adinolfi, Rv. 279793.

Oggetto del giudizio è stata un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che, per quanto di interesse in questa sede, ha ritenuto la natura non degradante della detenzione subita dal detenuto in regime di art. 41-bis ord. pen. non costituendo tale regime, di per sé, un trattamento inumano, omettendo di valutare le ulteriori condizioni di detenzione.

Ebbene, Sez. 1, n. 16116 del 27/01/2021, Fragapane, Rv. 281356, ha ribadito che, in tema di rimedi ex art. 35-bis ord. pen. nei confronti di detenuti sottoposti al regime detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen., non è sufficiente, al fine di escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, che la cella abbia dimensioni superiori a 3/4 mq., dovendosi altresì tener conto delle ulteriori condizioni che possono rendere, comunque, degradante il trattamento detentivo.

La Corte ha quindi annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di rigetto del reclamo del detenuto per non aver valutato in una complessiva ottica multifattoriale - indipendentemente dall’ampiezza della cella, nella specie di gran lunga superiore ai 4 mq. - le ulteriori allegazioni del medesimo in ordine all’impossibilità di utilizzare l’acqua corrente per la presenza di arsenico ed alle precarie condizioni igieniche degli ambienti, in guisa da porle in correlazione con le concrete modalità detentive.

A tale proposito la Corte ha richiamato alcuni arresti della Corte EDU, 20/10/2016, Mursic c. Croazia, 20/10/2015 Story e altri c. Malta, 14/01/2021 Kargakis c. Grecia.

In linea con quanto sostenuto da S.U, n. 6551 del 2021 cit. (in motivazione), è stato sostenuto che il riconoscimento del trattamento inumano costituisce il frutto di una valutazione multifattoriale che, qualora non possa fondarsi su parametri spaziali, può essere basata su altri fattori caratterizzanti la condizione carceraria del detenuto.

11. L’applicazione del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. agli internati. La sentenza n. 197 del 2021 della Corte costituzionale.

A seguito della proposizione della questione di legittimità costituzionale illustrata nella Rassegna della giurisprudenza di legittimità per l’anno 2020 (Volume II, Sezione VII, Capitolo II, par. 9) la Corte costituzionale ha emesso la sentenza n. 197 del 2021 con la quale ha dichiarato, in parte non fondata la questione, in parte inammissibile.

La questione sollevata dalla Prima Sezione Penale della Corte di cassazione si è fondata, essenzialmente, sulla sostanziale equiparazione, ai fini esecutivi, tra detenuti e sottoposti alla misura di sicurezza con conseguente esclusione, per tutti, dall’accesso alle misure alternative o premiali e dalla sottoposizione alle medesime restrizioni nei colloqui, nella corrispondenza e nella vita intramuraria. Ciò determinerebbe una serie di frizioni con i principi costituzionali a causa dell’irragionevole trasformazione della misura di sicurezza in pena (artt. 3 e 117 Cost. anche sotto il profilo della violazione del principio del ne bis in idem) e dell’incidenza della mancanza di occasioni rieducative (dovuta all’applicazione del regime differenziale) sulla impossibilità di dimostrare progressi trattamentali con conseguente proroga necessitata della misura di sicurezza (artt. 3, 25, 27, 111 e 117, comma primo, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU).

I passaggi principali del percorso motivazionale seguito dalla Corte costituzionale si snodano attraverso la considerazione preliminare in base alla quale l’art. 41-bis, comma 2, ord. pen. prevede la sospensione delle regole ordinarie di trattamento penitenziario in funzione delle «restrizioni necessarie» per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza e per impedire collegamenti con le associazioni criminali.

Il richiamo alla «necessità» è stato ritenuto evocativo dei parametri di proporzionalità e congruità nella individuazione delle misure e delle prescrizioni proprie del regime differenziale che deve essere adeguato alla situazione considerata ed alla soggettività del detenuto.

A tale proposito è stata richiamata la costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale è indispensabile operare un costante bilanciamento delle esigenze di prevenzione speciale perseguite dalla legislazione penitenziaria che deve sempre e comunque considerare la finalità rieducativa della pena e delle misure di sicurezza.

La Corte ha quindi affermato che ogni soggetto coinvolto nella determinazione del trattamento (legislatore, autorità amministrativa ed autorità giudiziaria) deve operare secondo criteri di proporzionalità e congruità.

È necessario che le relative restrizioni siano assistite, da un lato, dalla necessità effettiva ed attuale di un regime differenziato per l’interessato e, dall’altro, dalla migliore scelta esecutiva che favorisca un efficace programma di recupero.

Sul tema la Corte costituzionale ha richiamato le precedenti sentenze nn. 349 del 1993, 410 del 1993, 351 del 1996 e 376 del 1997 con specifico riferimento, quanto a quest’ultima, all’affermazione per cui il regime differenziato non può impedire la partecipazione del soggetto alle attività risocializzanti.

Tale interpretazione è stata ritenuta, sostanzialmente, tuttora percorribile, nonostante la significativa sottrazione della discrezionalità amministrativa nella determinazione concreta delle misure applicabili, per effetto della modifica introdotta con legge n. 94 del 2009 all’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen.

A tale proposito è stato ricordato come, anche di recente, è stata valutata l’effettiva funzionalità di alcune fra le restrizioni elencate al comma 2-quater rispetto all’obiettivo della prevenzione di contatti tra l’interessato e determinate organizzazioni criminali.

In particolare, è stato affermato che la sospensione delle regole trattamentali può riguardare solo quelle che siano in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, escludendo quelle che tali non sono perché integrerebbero misure incongrue o inidonee rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato. Sul punto vi è un esplicito richiamo alle sentenze n. 97 del 2020 e n. 186 del 2018.

La Corte ha, altresì, segnalato come il citato comma 2-quater indichi solo in due occasioni gli internati come destinatari delle misure (lett. a) e lett. f)), mentre le altre disposizioni dello stesso art. 41-bis ord. pen. menzionano indifferentemente detenuti e internati.

Da ciò deriva che non tutte le prescrizioni di cui al comma 2-quater trovano applicazione per gli internati, ma solo quelle effettivamente necessarie che devono essere individuate secondo i citati criteri di proporzionalità e congruità rispetto alla condizione del soggetto cui il regime differenziale si riferisce.

La Corte ha, dunque, desunto l’infondatezza della questione posta con riferimento all’art. 3 Cost. in quanto l’interpretazione accolta (che presuppone la differenziazione dei trattamenti tra detenuti e internati) smentisce l’esistenza di una indebita equiparazione.

In riferimento alla prospettata violazione dell’art. 27, comma terzo, Cost., la questione è stata rigettata in quanto, alla luce della predetta interpretazione, la funzione risocializzante è garantita dalla individualizzazione del trattamento.

I profili relativi alla sostenuta creazione di una sorta di circolo vizioso tra dinego del trattamento risocializzante e permanenza della pericolosità, con conseguente violazione degli artt. 3, 25, 27, 117, comma primo e 111 Cost. sono stati ritenuti, sostanzialmente, infondati tenuto conto, ancora una volta, che il regime differenziale non esclude il dovere e il potere dell’amministrazione di dare concreta attuazione all’attività che caratterizza la misura di sicurezza e che, constatata la cessazione della pericolosità, dovrebbe essere comunque dichiarata cessata o interrotta la misura.

In relazione alla dedotta violazione del principio di legalità, la Corte ha evidenziato che la sentenza della Corte EDU posta a fondamento dell’ordinanza di rimessione (sentenza 17/10/2019, M. contro Germania) ha stabilito il principio di non retroattività della lex superveniens a carattere peggiorativo anche con riguardo alla c.d. «custodia di sicurezza», senza affermare il principio di necessaria predeterminazione della durata della restrizione di sicurezza.

La Corte ha, infine, dichiarato inammissibile la questione relativa alla violazione del c.d. ne bis in idem, stante la mancata adeguata illustrazione del presupposto (affermato) dell’eadem factum.

11. I benefici penitenziari per i collaboratori di giustizia.

Nell’anno si sono registrate alcune pronunce in punto di benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia e la Corte di legittimità ha avuto modo di enunciare, in sostanziale continuità con altre precedenti decisioni, che, ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell’art. art. 16-nonies, d.l. 15 gennaio 1991 n. 8, il giudice, nel valutare il sicuro ravvedimento dell’istante, deve tener conto di indici sintomatici del "sicuro ravvedimento", quali l’ampiezza dell’arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime dei reati commessi (Sez. 1, n. 17831 del 20/04/2021, Celona, Rv. 281360).

La liberazione condizionale prevista dall’art. 16-nonies d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82 è subordinata alla condizione che l’istante abbia espiato una parte di pena in corso di esecuzione, che sia acquisita la prova del «sicuro ravvedimento» del condannato e che non vi siano elementi tali da fare ritenere persistenti collegamenti con la criminalità organizzata.

Il requisito presuppone, nella lettura offerta dalla Corte quanto ai collaboratori di giustizia, un comportamento attivo in adesione all’opera di rieducazione e la valutazione delle modalità di esecuzione della pena che (come nel caso di specie, nel quale la pena era scontata in regime di detenzione domiciliare) potrebbe essere indicativa dell’avvio proficuo di un processo rieducativo.

Né, in tale ottica, può assumere rilievo decisivo il mancato avvio di iniziative risarcitorie verso le vittime dei reati commessi, non costituendo tale assenza, di per sé, ostacolo alla concessione della liberazione condizionale.

Si tratta di arresto con il quale è stata data continuità a Sez. 1, n. 19854 del 22/06/2020, Licata, Rv. 279321.

In materia più strettamente processuale, Sez. 1, n. 23545 del 20/05/2021, Mammoliti, Rv. 281397, ha affermato che, in tema di collaboratori di giustizia, il provvedimento di rigetto dell’istanza di differimento della pena per motivi di salute ovvero di concessione della detenzione domiciliare ex art. 16-nonies del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, qualora adottato senza previa acquisizione del parere del Procuratore della Repubblica del capoluogo del distretto dove era stata pronunciata la sentenza di condanna costituente titolo esecutivo, prescritto dall’art. 47-ter, comma 1-quinquies, ord. pen., introdotto dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, è affetto da nullità generale a regime intermedio, in quanto attinente alla "partecipazione al procedimento" del pubblico ministero ex art. 178, lett. b), ultima parte, cod. proc. pen., soggetta al regime di deducibilità previsto dagli artt. 180 e 182 cod. proc. pen., cosicché, ove non sia stata eccepita al più tardi entro l’udienza avanti il tribunale di sorveglianza, detta nullità non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità.

Nel caso esaminato, era accaduto che le istanze del collaboratore di giustizia erano state decise senza la previa acquisizione del parere del Procuratore della Repubblica come individuato dall’art. 47-ter, comma 1-quinquies, ord. pen. che, tuttavia, non contiene alcuna indicazione circa la patologia processuale che determina tale omissione.

La Corte è pervenuta alla conclusione che si tratta di una nullità generale a regime intermedio a norma degli artt. 180 e 182 cod. proc. pen. e che deve, conseguentemente, avrebbe dovuto essere eccepita, al più tardi, entro l’udienza davanti al Tribunale di sorveglianza nella quale si erano discusse le istanze.

Pertanto, doveva ritenersi preclusa la possibilità di sollevare la questione, per la prima volta, in sede di legittimità.

A supporto della predetta conclusione, la Corte ha richiamato il proprio precedente arresto con il quale è stato affermato analogo principio con riguardo al provvedimento sulla richiesta, ex art. 299 cod. proc. pen., di revoca o sostituzione della misura cautelare applicata al collaboratore di giustizia adottato senza l’acquisizione del parere del Procuratore Nazionale Antimafia; omissione, anch’essa ritenuta afferente al profilo della «partecipazione al procedimento» del pubblico ministero ai sensi dell’art. 178, lett. b), ultima parte, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 13994 del 27/03/2020, Arlotta, Rv. 278959).

12. La questione di legittimità costituzionale sulla censura della corrispondenza tra detenuti e difensori.

Con ordinanza n. 20338 del 19/03/2021, Jerinò, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 , in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime di cui al comma 2 e seguenti dello stesso art. 41-bis ord. pen., la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori.

Ricostruito il panorama normativo nel quale si colloca la norma in esame, la Corte ha segnalato come il controllo sulla corrispondenza dei detenuti e degli internati sia disciplinato, in via generale, dall’art. 18-ter ord. pen., che esclude, al comma 2, ogni forma di controllo e di limitazione della corrispondenza indirizzata ai soggetti indicati dall’art. 103, comma 5, del codice di procedura penale, tra cui i difensori.

Deroga a tale disciplina l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ord. pen., che prevede la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza dei detenuti e internati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., con l’eccezione solo di «quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia».

Al di fuori di queste ipotesi tassative, la norma permette all’autorità preposta di prendere visione della generalità della corrispondenza del detenuto o dell’internato, compresa quella con il proprio difensore e di bloccarne, altresì, l’inoltro, ovvero di non procedere alla sua consegna al detenuto o all’internato.

Il tutto in deroga alla previsione dell’art. 103, comma 6, cod. proc. pen. (reputata norma non inderogabile in quanto non espressamente previsto) che vieta, tra l’altro, «ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore».

Secondo la Corte, la norma si porrebbe in contrasto con i principi di libertà e segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 Cost., così come con il diritto di difesa e con quello all’equo processo tutelati a livello costituzionale e sovranazionale.

Sostanzialmente, la disciplina assume quale irragionevole punto di partenza che il difensore costituisca una sorta di canale privilegiato per le comunicazioni illecite tra detenuto e organizzazione criminale pervenendo alla conseguente compressione del diritto di difesa.

L’irragionevolezza di tale presunzione è stata affermata anche alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 143 del 2013 con la quale è stato riconosciuto il diritto del detenuto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata ritenendo tale diritto connaturato alla difesa tecnica che rientra nella garanzia dell’art. 24 Cost. e nei diritti fondamentali dell’equo processo a norma dell’art. 6, paragrafo 3, lett. c) CEDU.

Inoltre, la regolamentazione sarebbe ulteriormente irragionevole laddove confrontata con quella dei colloqui visivi e telefonici con i difensori che sono sottratti al controllo auditivo e alla videoregistrazione, pur potendo avvenire lo sviamento deontologico del difensore anche in tali occasioni.

Di conseguenza la disciplina in esame penalizzerebbe irragionevolmente e inutilmente il diritto di difesa e quello al processo equo senza riuscire però a «neutralizzare l’astratto pericolo che un ipotetico scambio di direttive e informazioni per mezzo del difensore avvenga con altro mezzo».

Con sentenza del 24 gennaio 2022, n. 18 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

La questione è stata ritenuta fondata sotto il profilo della violazione dell’art. 24 Cost.

La Corte ha premesso come di diritto di difesa sia stato già descritto, in altri precedenti decisioni, quale ricomprendente quello di conferire con il difensore funzionale a «predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti» (sentenze nn. 216 del 1996 e 212 del 1997).

Inoltre, la sentenza n. 143 del 2013 ha evidenziato come tale diritto «assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà difensive».

Ampi richiami sono stati compiuti anche alla giurisprudenza ed alla normativa sovranazionale.

Innegabilmente, la previsione della limitazione della cui legittimità si è dubitato, prevedeva una limitazione del diritto di difesa.

Tale limitazione, secondo la giurisprudenza costituzionale richiamata, deve essere, comunque, proporzionata rispetto agli interessi (ugualmente costituzionalmente garantiti) che la norma di prefigge di perseguire.

È necessario, quindi, quanto al diritto di difesa, che lo stesso non risulti compromesso nella sua effettività e che le limitazioni siano funzionali, in concreto, agli obiettivi cui è preordinato il regime differenziato: evitare che possano esservi collegamenti dei detenuti con altri appartenenti alle medesime organizzazioni anch’essi detenuti o che si trovino in libertà.

Riprendendo la motivazione di cui alla, già ricordata, sentenza n. 143 del 2013 in punto di limitazione quantitativa dei colloqui dei detenuti in regime differenziato con i difensori (limitazione ritenuta tale da determinare un irragionevole decremento del diritto di difesa, senza un corrispondente incremento di un interesse di pari rango), la Corte ha ritenuto, da un lato, la previsione non adeguata rispetto allo scopo perseguito atteso che «nel contesto delle altre misure previste dal comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit., la disposizione in esame si appalesa del tutto inidonea (…), dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo».

La mancata previsione di limiti quantitativi è stata giudicata eccessiva (essendo stata prevista su una sorta di presunzione di collusione tra difensore e organizzazione criminale) rispetto alle finalità perseguite in quanto implicante la sottoposizione a controllo di «tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore. E ciò in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte di quest’ultimo».

Infine, la disposizione è stata ritenuta idonea a rendere più gravosa la condizione dei detenuti meno abbienti che potrebbero vedersi pregiudicati in quanto, laddove trasferiti in luoghi di detenzione più distanti dal proprio difensore, potrebbero essere maggiormente in difficoltà nel garantire il rimborso delle spese e degli onorari ai difensori per i colloqui, a fronte della impossibilità di comunicare per corrispondenza.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 47423 del 28/11/2007, Barreca, Rv. 238173

Sez. 1, n. 29 del 6/11/2008, dep. 2009, Musumeci, Rv. 242380

Sez. 1, n. 41316 del 23/09/2009, Zagaria, Rv. 245048

Sez. 1, n. 49988 del 24/11/2009, Lo Piccolo, Rv. 245969

Sez. 1, n. 5392 del 13/01/2010, Smorta, Rv. 246066

Sez. 1, n. 38632 del 23/09/2010, Bosti, Rv. 248677

Sez. 1, n. 7505 del 25/01/2011, Trigila, Rv. 249803

Sez. 1 n. 4478 del 05/12/2011, Lo Piccolo, Rv. 252188

Sez. 1, n. 22721 del 26/03/2013, Di Grazia, Rv. 256495

Sez. 1, n. 45137 del 20/06/2014, Greco, Rv. 161130

Sez. 1, n. 32904 del 02/07/2014, Li Bergolis, Rv. 261715

Sez. 1, n. 7654 del 12/12/2014, dep. 2015, Trigila, Rv. 262417

Sez. 7, n. 6548 del 14/01/2016, Mandalà, Rv. 265748

Sez. 1, n. 47224 del 10/06/2016, Guerrera

Sez. 1, n. 16911 del 21/12/2017, dep. 2018, Fabiano, Rv. 272704

Sez. 1, n. 19336 del 07/02/2019, Dominante

Sez. 1, n. 16557 del 22/03/2019, Pesce, Rv. 275669

Sez. 1, n. 43858 del 30/09/2019, Marino, Rv. 277147

Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898

Sez. 1, n. 13994 del 27/03/2020, Arlotta, Rv. 278959

Sez. 1, n. 21946 del 08/06/2020, Apicella, Rv. 279373

Sez. 5, n. 23111 del 15/06/2020, Amato, Rv. 279402

Sez. 1, n. 19854 del 22/06/2020, Licata, Rv. 279321

Sez. 1, n. 23819 del 22/06/2020, Madonia, Rv. 279577

Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220

Sez. 1, n. 30030 del 11/09/2020, Adinolfi, Rv. 279793

Sez. U, n. 6551 del 24/09/2020, Commisso

Sez. 1, n. 4030 del 04/12/2020, dep. 2021, Gallo, Rv. 280532

Sez. 1, n. 31875 del 27/10/2020, Forastefano

Sez. 1, n. 6740 del 27/10/2020, dep. 2021, Cuccaro, Rv. 280527

Sez. 1, n. 10349 del 04/12/2020, dep. 2021, Mignolo, Rv. 280652

Sez. 1, n. 11601 del 27/01/2021, Rao, Rv. 280680

Sez. 1, n. 11602 del 27/01/2021, Vitale, Rv. 280681

Sez. 1, n. 16116 del 27/01/2021, Fragapane, Rv. 281356

Sez. 1, n. 17805 del 05/03/2021, Mezzasalma, Rv. 281278

Sez. 1, n. 17831 del 20/04/2021, Celona, Rv. 281360

Sez. 1, n. 18434 del 23/04/2021, Mulè, Rv. 281361

Sez. 1, n. 19290 del 09/04/2021, Emmanuello, Rv. 281221

Sez. 1, n. 23540 del 20/05/2021, Messina, Rv. 281418

Sez. 1, n. 23545 del 20/05/2021, Mammoliti, Rv. 281397

Sez. 1, n. 26274 del 21/04/2021, Mazzei, Rv. 281618

Sez. 1, n. 28260 del 09/04/2021, Mangone, Rv. 281754

Sez. 1, n. 33917 del 15/07/2021, Gallico, Rv. 281794

Sez. 1, n. 35601 del 24/03/2021, Pompeo, Rv. 281899

Sez. 1, n. 36706 del 15/06/2021, Tornese, Rv. 281906

Sez. 1, n. 36707 del 15/06/2021, Gualtieri, Rv. 282042

Sez. 1, n. 36865 del 08/06/2021, Strangio, Rv. 281907

Sez. 1, n. 38360 del 16/07/2021, Vottari, Rv. 282047

Sez. 1, n. 38935 del 04/05/2021, Palomba, Rv. 282074

Sez. 1, n. 42723 del 07/10/2021, Zagaria, Rv. 282155

Sez. 1, n. 43484 del 30/09/2021, Viscido, Rv. 282213

Sez. 1, n. 46021 del 21/10/2021, Attanasio, Rv. 282217

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 143 del 2013

Corte cost., sent. n. 186 del 2018

Corte cost., sent. n. 253 del 2019

Corte cost., sent. n. 32 del 2020

Corte cost., sent. n. 97 del 2020

Corte cost., sent. n. 197 del 2021

Corte cost., sent. n. 18 del 2022

Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo

Corte EDU, 20/10/2015 Story e altri c. Malta

Corte EDU, 20/10/2016, Mursic c. Croazia

Corte EDU, 17/10/2019, M. contro Germania

Corte EDU, 14/01/2021 Kargakis c. Grecia

  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • carcerazione
  • detenuto
  • regime penitenziario
  • diritti umani

CAPITOLO IV

LA DETERMINAZIONE DELLO “SPAZIO MINIMO VITALE” NELLE CELLE: LA RICOSTRUZIONE CONVENZIONALMENTE E COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA ACCOLTA DALLE SEZIONI UNITE

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite. - 2 Le ragioni della questione controversa. - 3 Gli orientamenti in campo. - 4 La soluzione accolta dalle Sezioni Unite. - 4.1 Il percorso metodologico seguito. - 4.2 Il rapporto tra giudici nazionali e giurisprudenza della Corte EDU. - 4.3 Le pronunce della Corte EDU sul sovraffollamento carcerario analizzate dalle Sezioni Unite. - 4.4 Il rilievo dei fattori compensativi rispetto alla superficie della cella. - 5 I successivi arresti delle Sezioni penali. - 6 Osservazioni finali. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite.

Tra le decisioni di maggior rilievo emesse dalle Sezioni Unite penali, nel corso del 2021, deve certamente essere annoverata Sez. U, n. 6551 del 20/09/2020, dep. 2021, Commisso, Rv. 28043301 - Rv. 28043302, che rappresenta un significativo arresto nel segno della effettività della tutela dei diritti fondamentali delle persone in stato di detenzione.

L’occasione per l’intervento delle Sezioni Unite è stata offerta da un’ordinanza di rimessione della Prima Sezione (n. 14260 del 21/02/2020), chiamata a pronunciarsi su un ricorso presentato dal Ministero della giustizia avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di l’Aquila, che aveva confermato la decisione del Magistrato di sorveglianza di accoglimento del reclamo, ai sensi dell’art. 35-ter l. 26 luglio 1975 n. 354 (ord. pen), con applicazione del previsto rimedio risarcitorio per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), a causa del sovraffollamento intramurario, a favore di un soggetto detenuto.

Nel caso di specie, il magistrato di sorveglianza, aveva accolto parzialmente il reclamo del detenuto, con attribuzione della somma di 4.568 euro a titolo risarcitorio - sulla considerazione che lo stesso, nella cella cui era stato assegnato in determinate strutture, per un periodo pari a 571 giorni, aveva potuto disporre di uno spazio minimo individuale sempre inferiore a 3 metri quadrati, al netto dello spazio occupato dai servizi igienici e dagli arredi fissi o non immediatamente rimuovibili (quali il letto e gli armadi).

Con riferimento alla detenzione espiata presso altro istituto, il trattamento inumano e degradante veniva identificato nell’assenza di riservatezza nell’uso del servizio igienico in dotazione nella stanza condivisa con altri detenuti (WC alla turca separato da una porta di plastica trasparente).

Il Tribunale di sorveglianza di l’Aquila respingeva l’impugnazione proposta dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - (DAP), confermando il primo provvedimento, ritenendo che il Magistrato avesse fatto corretta applicazione dei criteri fissati dalla Corte di cassazione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU).

Il Ministero della giustizia ricorreva per cassazione lamentando violazione di legge e non corretta interpretazione della normativa di cui agli artt. 35 e segg. Ord. pen., anche in relazione ai principi espressi sul punto dalla Corte EDU, avuto riguardo al criterio applicato dal Tribunale di sorveglianza che aveva determinato lo spazio minimo disponibile per ciascun detenuto al netto, non soltanto dell’area occupata dai servizi igienici ma anche di quella occupata dai mobili fissi o non immediatamente rimuovibili dalla cella, discostandosi così da quanto affermato dalla Grande Camera della Corte EDU (Corte EDU, 20/10/2016, Murši c. Croazia) che, invece, ha previsto detto computo al lordo del mobilio, soluzione, ad avviso del ricorrente, da ritenersi vincolante per i giudici nazionali. In secondo luogo, l’Amministrazione ricorrente, deduceva vizio di motivazione, osservando che la decisione aveva trasformato, in senso negativo, quale indice di disumanità della carcerazione, la comodità offerta al detenuto dagli arredi presenti nella cella.

La Prima Sezione, investita del ricorso, rimetteva il procedimento alle Sezioni Unite, ravvisando l’esistenza di un contrasto interpretativo sulle seguenti questioni di diritto: «se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero solo quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo»;

«se i cosiddetti fattori compensativi (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella, dignitose condizioni carcerarie), rilevino, al fine di escludere la violazione dell›art. 3 CEDU, anche nel caso di spazio comunque inferiore a quello minimo di tre metri quadrati ovvero solo quando detto spazio sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati».

2. Le ragioni della questione controversa.

La questio iuris rimessa alle Sezioni Unite riguarda l’interpretazione del contenuto precettivo dell’art. 35-ter ord. pen. (introdotto con il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117) che disciplina rimedi specificamente diretti a riparare il pregiudizio derivante a detenuti ed internati da condizioni detentive contrarie all’art. 3 della CEDU.

Come noto, tale disposizione costituisce una delle risposte dello Stato italiano alla vincolante sollecitazione della Corte EDU, contenuta nella sentenza 08/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia, che ha certificato il malfunzionamento strutturale dell’allora vigente sistema penitenziario italiano, accertando, nei casi esaminati, la violazione dell’art. 3 della Convenzione a causa della situazione di “grave sovraffollamento” carcerario in cui i ricorrenti si erano trovati. Tale rimedio, si è aggiunto a quello previsto dagli artt. 69, 35, 35-bis Ord. pen. (frutto del precedente intervento legislativo per effetto del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10), che prevede il diritto del detenuto a presentare reclamo al magistrato di sorveglianza in tutti i casi di violazioni della normativa penitenziaria da parte dell’Amministrazione da cui derivi un grave ed attuale pregiudizio all’esercizio dei suoi diritti.

Ed invero, grazie ai provvedimenti legislativi degli anni 2013 e 2014, il sistema di tutela a favore dei detenuti è stato rafforzato concretizzandosi in due azioni, autonome e complementari, disciplinate, rispettivamente, agli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., che consentono al detenuto di essere, ad un tempo, sottratto in modo tempestivo ad una condizione detentiva contraria al senso di umanità – per effetto di un intervento di tipo preventivo-inibitorio, con possibilità di esecuzione coattiva, in base all’art.35-bis - e, dall’altro, di conseguire un ristoro per la violazione già subita, grazie alla tutela risarcitorio-compensativa di cui all’art. 35-ter.

Nello specifico, l’art. 35-ter prevede due tipologie di rimedi compensativi.

Il primo (disciplinato nei commi 1 e 2) è destinato ai detenuti e agli internati che abbiano patito un pregiudizio grave ed attuale ai propri diritti, in conseguenza delle condizioni detentive. Costoro possono rivolgersi al magistrato di sorveglianza, al fine di ottenere una riparazione in forma specifica, consistente in uno ‘sconto’ della pena ancora da espiare, pari ad 1 giorno ogni 10 giorni di pregiudizio subito, o, in alternativa - nel caso in cui il pregiudizio sia stato inferiore ai 15 giorni o nel caso in cui lo ‘sconto’ sia maggiore del residuo di pena - un risarcimento in forma monetaria, pari a 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

Il secondo (disciplinato nel comma 3) si rivolge a coloro che abbiano terminato di scontare la pena detentiva o abbiano subito il pregiudizio durante un periodo di custodia cautelare non computabile nella pena da espiare. In questo caso, i soggetti possono rivolgersi, entro sei mesi dalla cessazione della pena detentiva o della custodia cautelare, al tribunale civile, al fine di ottenere, secondo le forme del procedimento ex art. 737 c.p.c., un risarcimento in forma monetaria, sempre nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio subito.

La violazione del diritto individuale, riconosciuto in modo assoluto sia dalla Convenzione EDU (Corte EDU, 15/11/1996, Chahal c. Regno Unito, §79; Corte EDU, Grande Camera, 28/02/2008, Saadi c. Italia § 127) che dalla Costituzione, a non subire, nel corso dell›esecuzione di una misura restrittiva, trattamenti contrari al senso di umanità, costituisce, ai sensi dell›art. 35-ter Ord. pen., titolo per ottenere, da un lato e in via prioritaria, la riduzione della pena ancora da espiare, e dall’altro una ‘riparazione’ economica predeterminata circa il quantum, in favore di colui che subisce le conseguenze della violazione, al di là della rimozione del fatto da cui deriva la lesione.

Ebbene, l’essenziale caratteristica della disposizione è di aver innovativamente introdotto rimedi di tipo compensativo/risarcitorio, con estensione dei poteri di verifica e di intervento del magistrato di sorveglianza, allo scopo di rafforzare gli strumenti tesi alla riaffermazione della «legalità della detenzione»; si tratta, in sostanza, di misure che rappresentano un quid pluris rispetto al previgente sistema di tutele, essenzialmente incentrato sul potere del magistrato di sorveglianza di inibire la prosecuzione dell’attività contra legem, in ottemperanza al monito derivante dalla Corte EDU di introdurre ricorsi tali «che le violazioni dei diritti tratti dalla Convenzione possano essere riparate in maniera realmente effettiva» (Corte EDU, 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia, §98).

Nondimeno, è importante precisare che, a differenza dell’ambito di applicazione dei rimedi preventivi di cui all’art. 35-bis, i nuovi rimedi non sono esperibili avverso una qualsiasi violazione dei diritti del soggetto detenuto, ma esclusivamente in caso di violazioni di tale entità da comportare la compromissione del diritto a condizioni detentive non inumane né degradanti protrattesi per almeno 15 giorni (cfr. Sez.1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220; Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898; Sez. 1, n. 43722 del 11/06/2015, Salierno).

Utilizzando un’originale tecnica di formulazione normativa, il legislatore ha perimetrato il pregiudizio risarcibile ai sensi dell’art. 35-ter al fatto di aver subito «condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».

Di conseguenza, il contenuto precettivo della norma è determinato per relationem, tramite un meccanismo di rinvio mobile, agli indirizzi interpretativi elaborati dalla Corte EDU sull’art. 3 della Convenzione proprio in quanto, secondo il sistema della CEDU, le sentenze e le decisioni della Corte hanno il compito non solo di dirimere le cause di cui essa è investita, ma, in modo più ampio, anche di chiarire, salvaguardare e approfondire le norme della Convenzione, svolgendo, quindi, un ruolo chiave nella definizione e concretizzazione dei diritti e delle libertà elencati (generalmente con formule aperte) nel testo. Per precisa scelta legislativa, pertanto, il giudice nazionale è chiamato ad applicare i rimedi risarcitori a favore del detenuto nei casi in cui la Corte EDU, qualora adita direttamente del detenuto, potrebbe condannare lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 della Convenzione.

Si tratta del primo caso di espressa integrazione diretta del sistema normativo interno ai contenuti della giurisprudenza sovranazionale, elevati a parametro normativo in subiecta materia, vincolante erga omnes per l’interpretazione e qualificazione della condotta (Sez. 1, n. 52819, 09/09/2016, Sciuto, RV 268231; Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 06/09/2017, Triki; Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 2018, Peciccia; Sez. 1, n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov).

In base a tale scelta legislativa, pertanto, gli orientamenti tratti dalle pronunce della Corte EDU non assolvono all’ordinaria finalità di orientamento sul modus interpretativo della disposizione, cui sono ordinariamente tenuti i giudici nazionali, in virtù dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali riconosciuti dal nostro ordinamento ex art. 117, comma 1, Cost. (Corte cost., sent. n. 348 e n. 349 del 2007; Corte cost., sent. n. 68 del 2017; n. 49 del 2015; n. 276 del 2016; n. 36 del 2016), ma, tramite una clausola di rinvio formale, fanno ingresso nell’ordinamento quale fonte cui è demandata la determinazione della fattispecie in chiave sincronica (attribuendo al testo uno dei possibili significati alternativi possibili) e diacronica (riconducendo entro i confini della norma diritti e garanzie originariamente non riconosciuti), imponendo, al giudice interno, la costante conoscenza ed analisi delle decisioni emesse dalla Corte EDU sul tema in questione.

La sopraesposta peculiarità del contenuto precettivo dell’art. 35-ter ord. pen. ha consentito il formarsi di diverse ricostruzioni esegetiche sulla base delle pronunce della Corte EDU e sulla loro interpretazione.

3. Gli orientamenti in campo.

L’indirizzo prevalente affermatosi nella giurisprudenza di legittimità sin dai primi anni successivi alla pronuncia sentenza Corte EDU 08/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia ha adottato il criterio del computo della superficie lorda della cella e argomentato che da essa doveva essere detratta l’area occupata dagli arredi (Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924; Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Vecchina, Rv 262352, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 2014, Carnoli). Nello specifico, la sentenza Torreggiani ed altri, ispiratrice di tale ricostruzione interpretativa, attiene alla vicenda riguardante la condizione di tre ricorrenti che avevano condiviso una cella di superficie complessiva di nove metri quadri: la Corte europea, nel ritenere fondata la domanda dei ricorrenti, aveva rimarcato che i ricorrenti non avevano beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri ritenuti accettabili con la propria giurisprudenza, rammentando «che in questo contesto la norma in materia di spazio abitabile nelle celle collettive raccomandata dal CPT [Comitato per la prevenzione della tortura] è di quattro metri quadrati” (§76) sottolineando, inoltre, che «tale spazio era peraltro ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle».

In seguito, i principi espressi dalla Grande Camera della Corte EDU nella sentenza 20/10/2016, Muršic´ c. Croazia sono divenuti importante punto di riferimento della giurisprudenza della Suprema Corte. L’interpretazione maggioritaria consolidatasi ha affermato che lo spazio fruibile all’interno della camera detentiva, non contenibile al di sotto della soglia minima dei 3 metri quadrati, debba essere inteso come superficie libera, che consenta la possibilità di muoversi e non di svolgere altre attività, intellettive o manuali, che implichino la stazione eretta o distesa. Da qui la conclusione che lo spazio minimo, necessario per assicurare al soggetto ristretto il movimento all’interno della cella, deve essere calcolato al netto degli ingombri degli arredi fissi che, in quanto tali, impediscono il moto. Tra gli arredi fissi, inoltre, va compreso anche il letto "a castello", che non può essere facilmente spostato, risultando irrilevante la "vivibilità" del letto per l’assolvimento di altre funzioni. (Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv. 269514; Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 2017, Agretti; e Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087). In particolare, Sez. 1, n. 52819 del 09/09/2016, Sciuto, Rv. 268231, ha approfondito il tema relativo allo spazio occupato dal letto, rispetto al quale, per la verità, la sentenza Muršic´ non aveva espresso una posizione specifica. La Corte ha ribadito la necessità di escludere dal computo quelle superfici occupate da struttura tendenzialmente fisse (tra cui il letto, normalmente “a castello” nelle celle collettive), considerando irrilevanti le diverse possibili modalità di utilizzo del letto, trattandosi di funzioni che non soddisfano la primaria esigenza di movimento.

Principi analoghi sono stati espressi da un’altra decisione in tema di mandato di arresto europeo (Sez. F., n. 39207 del 17/8/2017, Gongola), la quale ha rimarcato, richiamando la sentenza Torreggiani c. Italia, che dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili. Nella fattispecie, la sentenza ha annullato con rinvio la decisione che aveva disposto la consegna del soggetto, sulla base della motivazione che lo Stato richiedente, nel fornire le informazioni sulle condizioni di detenzione che sarebbero state riservate al soggetto, aveva calcolato la superficie della cella «al lordo del letto e di altri non precisati arredi mobili».

Accogliendo una interpretazione più avanzata a favore dei soggetti ristretti, inoltre, la giurisprudenza prevalente delle singole Sezioni civili della Corte (Sez. 1 civ., n. 4096 del 20/02/2018, Rv. 647236) ha espressamente ritenuto di dover sottrarre dal calcolo della superficie complessiva lo spazio del letto, sia "a castello" che singolo, rilevando come in entrambi i casi sia compromesso il "movimento" del detenuto nella cella. In particolare, ha sottolineato che se è vero che lo spazio occupato dal letto singolo è usufruibile per il riposo e l’attività sedentaria, è anche vero che tali funzioni organiche vitali sono fisiologicamente diverse dal "movimento", il quale postula, per il suo naturale esplicarsi, uno spazio ordinariamente "libero" (in senso conforme, Cass. Sez. 3 civile, ord. n. 16896 del 04/12/2018, dep. 2019; Sez. 3 civile, ord. n. 25408 del 13/03/2019; Sez. 3 civile, ord. n. 1170 del 27/11/2019, dep. 2020, Rv. 656636–01).

Decisamente maggioritario nella Cassazione penale, invece, era l’indirizzo interpretativo secondo il quale i letti sono da ritenersi ostativi al libero movimento e alla piena fruizione da parte del detenuto soltanto quando presentino la struttura "a castello", che non ne permette lo spostamento e che, quindi, restringe l’area di libero movimento. Al contrario, i letti singoli sono da ritenersi amovibili al pari di sgabelli o tavoli. (Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep.  06/09/2017, Triki; Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 15/05/2017, Agostini; Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti; Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 2017, Lorefice).

Una divergente prospettiva veniva, infine, accolta da diverse sentenze pronunciate in tema di consegna di soggetti colpiti da mandato di arresto europeo, che, accedendo alla nozione di superficie lorda della cella, con la sola esclusione dell’area riservata ai servizi igienici, computavano anche lo spazio occupato dagli arredi, di qualunque tipo.

In particolare, si trattava di affermazioni incidentali nell’ambito di una valutazione generale delle complessive condizioni detentive che lo Stato di consegna avrebbe assicurato al soggetto consegnato, tenuto conto dei fattori compensativi e di un regime detentivo non "chiuso", ma "semi-aperto" (Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296; Sez. 6, n. 18016 del 18/04/2018, Breaz; Sez. Fer, n. 37610 del 31/07/2018, Ibra; Sez. F, n. 38920 del 21/08/2018, Astratinei; Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, RV. 271513; Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu; Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211).

4. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite hanno aderito alla ricostruzione ermeneutica secondo la quale: «Nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello.» (Rv. 280433 – 01);

«In tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati, previsti dall’art. 35-ter ord. pen, i fattori compensativi, costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se congiuntamente ricorrenti, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati, mentre, nel caso di disponibilità di uno spazio individuale compreso fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi concorrono, unitamente ad altri di carattere negativo, alla valutazione unitaria delle condizioni complessive di detenzione.» Rv. 280433 - 02).

4.1. Il percorso metodologico seguito.

Il percorso argomentativo seguito dalla Corte per giungere a tale soluzione si è articolato, da un lato, nell’individuare le decisioni della Corte EDU da adottare come elementi integrativi del contenuto precettivo dell’art. 35-ter Ord. pen. e, dall’altro, nel perimetrare il vincolo derivante da dette pronunce per il giudice nazionale.

Invero, l’operazione volta ad estrarre dalla sequenza delle decisioni emesse dalla Corte di Strasburgo linee ricostruttive sistematiche coerenti, come osservato dalle stesse Sezioni Unite, è operazione di particolare complessità, stante l’approccio casistico della Corte europea, che, a differenza del giudice di legittimità, è giudice del fatto, e, pertanto, quando verifica il rispetto della Convenzione da parte del singolo Stato, scende all’esame specifico delle circostanze che hanno caratterizzato la singola fattispecie, valutando se “nel caso concreto” si sia verificata la violazione prospettata dal ricorrente. Conseguentemente, le soluzioni adottate sono strettamente connesse alla dimensione fattuale della vicenda esaminata, ed inoltre, inevitabilmente soggette a mutamenti nel tempo, proprio per effetto dell’evoluzione della cultura e sensibilità nella società, che, appunto, si riflette nel tenore dei ricorsi individuali presentati alla Corte.

4.2. Il rapporto tra giudici nazionali e giurisprudenza della Corte EDU.

Il Supremo consesso ha richiamato gli insegnamenti tratti dagli ultimi arresti della Corte costituzionale in tema di rapporti tra giudice nazionale e giurisprudenza sovranazionale, alla luce dei quali se alla Corte europea è riservato la "parola ultima", essendole affidata una "funzione interpretativa eminente" in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU, proprio al fine di assicurare la certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell’uomo, tuttavia, i giudici nazionali non sono «passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale» e non possono spogliarsi della funzione che è assegnata loro dall’art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si «esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto» (Corte cost., n. 348 e 349 del 2007; n. 15 del 2012; n. 311 del 2009; n. 303 del 2011; 236 del 2011).

Inoltre, la sentenza Corte cost., n. 49 del 2015 ha precisato che l’effetto vincolante per i giudici nazionali è da limitare alle decisioni che esprimono principi consolidati nella giurisprudenza sovranazionale, situazione da escludersi alla luce dei parametri declinati dalla stessa Corte costituzionale, ovvero: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano».

4.3. Le pronunce della Corte EDU sul sovraffollamento carcerario analizzate dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, nel ricostruire il diritto consolidato in tema di violazione del divieto assoluto stabilito dall’art. 3 Conv. EDU, riferito al fenomeno del sovraffollamento carcerario, hanno evidenziato la crescente attenzione della Corte europea su tale problematica che costituisce uno degli aspetti rilevanti dei casi di detenzione in condizioni disumani e degradanti.

Punto di partenza è la progressiva presa di consapevolezza da parte dei giudici di Strasburgo del fatto che la privazione della libertà personale non comporta, di per sé, il venir meno dei diritti riconosciuti dalla Conv. EDU (Corte EDU, 21/02/1975, Golder c. Regno Unito) che, al contrario, assumono specifica rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità della persona che si trova interamente sotto la responsabilità dello Stato. In questa prospettiva, pertanto, costituisce principio convenzionale consolidato che i diritti delle persone recluse possono essere sottoposti a restrizioni solo ove queste siano giustificate dalle normali e ragionevoli esigenze della detenzione e le modalità di esecuzione della restrizione in carcere non devono provocare all’interessato uno sconforto e un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione, secondo il criterio della "soglia minima di gravità", adottato dalla Corte europea per selezionare le condotte messe al bando dell’art. 3 della Convenzione, in assenza di una codificata tipizzazione delle stesse. (Corte EDU, 15/7/2002, Kalachnikov c. Russia; Corte EDU, 8/2/2006, Alver c. Estonia, § 49).

Con specifico riguardo allo spazio da riconoscersi a ciascun detenuto, il Supremo consesso, quindi, ha passato in rassegna l’evoluzione della giurisprudenza convenzionale, richiamando le sentenze Corte EDU, 19/07/2007, Trepachkine c. Russia, § 92; Corte EDU, 6/12/2007, Lind c. Russia - che, ai fini del riconoscimento della violazione dell›art. 3 CEDU, hanno valutato l›elemento spaziale unitamente ad altri fattori ambientali; la decisione Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia – che ha adottato una sorta di automatismo di violazione dell›art. 3 CEDU in caso di mancato rispetto del parametro dei tre metri quadrati; le sentenze Corte EDU 8/01/2013 Torreggiani e altri c. Italia e 5/3/2013, Tellissi c. Italia – che hanno ritenuto uno spazio inferiore ai tre metri quadrati elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità convenzionale della detenzione all›art. 3, mentre per uno spazio superiore ai tre ma inferiore ai quattro metri quadrati sono da valutare altri elementi inerenti le concrete modalità di esecuzione della misura custodiale; la sentenza Corte EDU del 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia che, superando il criterio meramente geometrico puro, ha individuato tre fattori che devono congiuntamente sussistere per riconoscere la conformità della detenzione all›art. 3 CEDU: uno spazio individuale destinato al riposo dentro la cella, la disponibilità di almeno 3 metri quadrati di superficie, la possibilità di movimento libero fra gli arredi. La mancanza di uno di essi (tra cui lo spazio individuale inferiore a tre metri quadrati) non determina una automatica violazione dell›art. 3 CEDU, ma crea una forte presunzione che le condizioni di detenzione integrino un trattamento degradante, lasciando allo Stato la possibilità di confutazione in base ad altri elementi compensativi.

Centrale è l’arresto della Grande Camera del 20/10/2016 Muršic´ c. Croazia. Con tale pronuncia i giudici di Strasburgo, – seppure non all’unanimità – muovendo dai principi fissati nella sentenza Ananyev, hanno approfondito e chiarito la propria posizione sull’area minima da garantire a ogni detenuto e sugli indici di accertamento della violazione dell’articolo 3 CEDU.

In primo luogo, la Grande Camera ha confermato il requisito dei 3 metri quadrati di superficie calpestabile (floor space) per detenuto in una cella collettiva come standard minimo. In merito, i giudici europei hanno precisato di non adottare gli indici delineati dal Comitato Prevenzione Tortura, sottolineando la differenza concettuale del proprio ruolo rispetto a quello affidato al suddetto organismo. Il CPT opera in funzione preventiva, che tende per sua stessa natura verso un grado di protezione più elevato rispetto a quello che applica la Corte, allorquando statuisce sulle concrete condizioni di detenzione di un richiedente ed è incaricata di verificare giudiziariamente se determinati casi violino il divieto assoluto di torture di trattamenti inumani o degradanti posti dall’articolo 3 della Convenzione.

In secondo luogo, la Corte europea ha chiarito che la valutazione della compatibilità con la CEDU delle condizioni di detenzione non può ridursi al calcolo geometrico dei metri quadri assegnati ai reclusi (§123). Ne discende che la costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a 3 metri quadrati in una cella collettiva fa nascere una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU (§124). La “forte presunzione” di violazione non è quindi inconfutabile, integrando piuttosto una praesumptio iuris tantum. Di conseguenza, lo Stato convenuto avrà la possibilità di dimostrare in modo convincente (convincingly) l’esistenza di fattori che, cumulativamente, siano in grado di compensare la mancanza di spazio vitale, ovvero: a) la brevità, l’occasionalità e la modesta entità della riduzione dello spazio personale; b) la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di attività all’esterno della cella; c) l’adeguatezza della struttura, in assenza di altri aspetti che aggravino le condizioni generali di detenzione del ricorrente (§126, 135 e 138).

Quando, invece, lo spazio personale in una cella collettiva si attesta tra i 3 e i 4 metri quadrati, il fattore spaziale rimane un elemento che influisce pesantemente sulla conformità delle condizioni di detenzione alla Convenzione ma, in tal caso, sussiste violazione dell’art. 3 Conv. EDU solo se l’esiguità della superficie si affianca ad altri fattori d’inadeguatezza del regime penitenziario (impossibilità di fare esercizio all’aria aperta e di avere accesso alla luce naturale e all’aria, insufficiente sistema di riscaldamento, non rispetto di basilari requisiti igienico-sanitari, ecc.) (§139).

Infine, quando la persona ristretta ha a disposizione più di 4 metri quadrati, non sorge una questione di spazio personale ma altri aspetti relativi alle condizioni materiali di detenzione possono rilevare per riconoscere l’eventuale violazione dell’art. 3 Conv. EDU (§140).

Alla luce di quanto esposto, le Sezioni Unite hanno osservato che la Grande Camera ha optato per una valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui anche il dato temporale gioca un ruolo rilevante, specialmente se il detenuto ha subito condizioni di ristrettezza per periodi non consecutivi. Da ricordare, infatti, che mentre nel caso Muršic´, i giudici europei hanno rilevato la violazione per il periodo in cui il ricorrente ha trascorso ventisette giorni consecutivi in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, nel caso Corte EDU, 17/10/2013, Belyayev v. Russia, la Corte ha escluso che 26 giorni consecutivi espiati in uno spazio di poco inferiore ai 3 metri quadrati (2,97 al lordo) avessero raggiunto quella soglia di gravità da integrare la violazione dell’art. 3 Conv. EDU, in presenza di altri aspetti trattamentali allevianti.

Particolarmente rilevante, ai fini della soluzione della questio iuris rimessa al Supremo consesso, è la modalità di calcolo dello spazio minimo adottata dalla Corte EDU. Ed infatti, la Grande Camera ha condiviso il metodo utilizzato dal CPT, ovvero la superficie va considerata al netto dei servizi igienici ma comprensiva degli arredi, senza distinzione. Ciò che è importante in tale accertamento, ha sottolineato la Corte europea, è verificare se i detenuti abbiano o meno la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella («detainees had a possibility to move around within the cell normally»; «détenus avaient la possibilité de se mouvoir normalement dans la cellule» (§ 114).

Ebbene, l’attenzione del Supremo consesso si è concentrata sui sopra riportati passaggi argomentativi, ritenuti espressione di principi consolidati a livello europeo, atteso che sono stati ribaditi anche in sentenze successive al caso Muršic´ (Cfr. Corte EDU, sentenza-pilota 25/04/2017, Rezmivese e altri c. Romania (§77): «77. La Cour a récemment confirmé que l’exigence de 3 m² de surface au sol par détenu (incluant l’espace occupé par les meubles, mais non celui occupé par les sanitaires) dans une cellule collective doit demeurer la norme minimale pertinente aux fins de l’appréciation des conditions de détention au regard de l’article 3 de la Convention (Muršic´, précité, §§ 110 et 114)»; Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e Nollomont c. Belgio, §27; Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. et autres c. France, §147); Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza della Grande Sezione, 15/10/2019, Dumitru-Tudor Dorobantu).

Andando in contrasto con la ricostruzione operata dal Procuratore generale e dall’Avvocatura dello Stato per il Ministero ricorrente, il Collegio ha ritenuto che le due proposizioni - ovvero: a) « [...] il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili [….]» e b) «è importante determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella» - debbano essere lette congiuntamente, sì da attribuire loro, sulla base di una lettura sistematica, un significato conforme alle finalità perseguite dalla Corte e dalla legge in relazione al divieto di pene inumane e degradanti. Più precisamente, hanno osservato le Sezioni Unite, l’interpretazione separata delle due proposizioni, sganciando il calcolo metrico dalla verifica della possibilità del libero movimento in cella, renderebbe quello della possibilità di muoversi normalmente nella cella assai generico e di difficile applicazione da parte del magistrato di sorveglianza, se non in casi eclatanti di manifesta impossibilità di spostamento. A sostengo di tale impostazione, il Collegio ha sottolineato come sia indicativo il fatto che la Corte EDU, sia nella sentenza Ananyev c. Russia che nella decisione Muršic´ c. Croazia, utilizzi alternativamente due termini: «normalmente» (normally) e «liberamente» (freely), espressivi dell’evanescenza del criterio se adottato autonomamente, con conseguente rischio di penalizzazione del detenuto. In definitiva, solo la lettura combinata delle due proposizioni permette, invece, di attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, quale è la cella, ad un armadio fisso oppure ad un pesante letto a castello che equivalgono ad una parete: in tale ottica, la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile. Ne consegue, pertanto che quando la Corte europea afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella, essendo, al contrario, escluso dal calcolo lo spazio occupato dagli arredi fissi, tra cui rientra anche il letto a castello.

Ad avviso delle Sezioni Unite la legittimità di tale ricostruzione ermeneutica è avvalorata, non solo dal punto di vista linguistico – in quanto il sostantivo francese meuble (mobile) utilizzato nella traduzione ufficiale della sentenza, indica, appunto, un oggetto che può essere spostato all’interno della cella – ma, soprattutto, dal contenuto della sentenza Torreggiani ed altri c. Italia - che ha natura direttamente vincolante per l’Italia, trattandosi di sentenza-pilota - in cui, la Corte EDU ha riservato specifico rilievo all’incidenza del mobilio sullo spazio disponibile in una cella occupata da più detenuti. L’esegesi accolta, inoltre, è coerente con l’obiettivo di attribuire effettività e pienezza al principio di necessario rispetto della dignità della persona durante l’espiazione della pena, garantendo uno spazio concretamente utile al movimento rispetto a quello ricavabile dalla soluzione opposta.

Secondo il Collegio, inoltre, l’eventuale obiezione della possibile strumentale allocazione fuori dalla cella di alcuni arredi fissi, quali gli armadi, per consentire di allocarvi un maggior numero di persone, con conseguente peggioramento sostanziale delle condizioni di detenzione, privando il soggetto ristretto del minimo conforto rappresentato dal mobilio, è inconferente per due ordini di motivi: da una parte, le istanze di rimedi risarcitori ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. vengono avanzate con riferimento a periodi di detenzione già trascorsi, e, pertanto, non sono ipotizzabili manovre dirette ad alterare il dato dello spazio minimo inferiore a tre metri quadrati posto a base della domanda; dall’altra, la legge fornisce, comunque, un rimedio al magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 35-bis, comma 3, ord. pen. per ordinare all’Amministrazione penitenziaria di porre rimedio ad eventuali violazioni alla disciplina penitenziaria, accertate la sussistenza e l’attualità del pregiudizio arrecato al detenuto. In sostanza, il magistrato potrà sempre verificare se, concretamente - nonostante il formale rispetto dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati - la disposizione dei mobili all’interno della cella renda del tutto difficoltoso il normale movimento dei detenuti, ovvero se essi siano penalizzati dalla mancanza di armadi, dove riporre gli oggetti personali all’interno della cella (sui rapporti tra i due strumenti, cfr. Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220).

4.4. Il rilievo dei fattori compensativi rispetto alla superficie della cella.

Ai fini della soluzione del secondo quesito, le Sezioni Unite hanno preliminarmente osservato che, in base alla valutazione multifattoriale accolta dalla Corte EDU, pur in presenza di uno spazio vitale inferiore a tre metri quadrati, si può giungere a riconoscere che le complessive condizioni dell’offerta trattamentale siano conformi agli standard convenzionali. Infatti, nella citata sentenza Muršic´, viene ribadito che l’attribuzione di uno spazio individuale inferiore al minimo di tre metri quadrati non comporta inevitabilmente e di per sé la violazione dell’art. 3 CEDU, ma fa sorgere soltanto una "forte presunzione", non assoluta, di violazione. Viene, inoltre, stabilito che tale presunzione può essere vinta dalla presenza congiunta di altri aspetti delle condizioni di detenzione, costituiti da: breve durata della restrizione; sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella grazie allo svolgimento di adeguate attività trattamentali; condizioni dignitose della detenzione in generale (§ 132, § 138).

Il Collegio ha, quindi, sottolineato che la problematica relativa all’incidenza da riconoscere ai c.d. fattori compensativi, assume specifico rilievo soprattutto nell’ambito della procedura di consegna ad altri Stati di persone arrestato in forza di MAE e, quindi, nei rapporti con Autorità Giudiziarie straniere. In proposito, infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riconosciuto, a determinate condizioni, l’obbligo per l’autorità giudiziaria dell’esecuzione di sospendere o porre fine alla procedura di consegna, qualora questa rischi, in concreto, di esporre la persona colpita dal mandato ad un trattamento inumano o degradante. Quando è presente tale rischio, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve rimandare la decisione sulla consegna della persona fino a quando non riceva informazioni che consentano di escluderlo. Ebbene, la Corte di cassazione si è trovata decidere sulla legittimità della disposta consegna a favore di Paesi dell’Unione in cui le condizioni detentive prevedono uno spazio vitale effettivo, al netto degli arredi fissi, inferiore a tre metri quadrati. In diversi casi si è esclusa la violazione dell’art. 3 Conv. EDU sulla base del riconoscimento di positivi fattori che compensavano l’insufficienza dello spazio (Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355, che ha valorizzato il congruo numero di ore da trascorrere quotidianamente all’esterno delle celle, le adeguate condizioni di igiene, e, dopo l’espiazione di un quinto della pena, la possibilità di accedere al regime di detenzione cd. aperto; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296, che ha dato importanza al ridotto lasso di tempo – limitato alle ore notturne - trascorso in cella, all’igiene personale, ai pasti, all’areazione, a condizioni di illuminazione e climatizzazione adeguate, nonché all’accesso all’acqua corrente ed ai servizi sanitari e, ancora alla possibilità di accedere a postazioni telefoniche ed informatiche, all’acquisto di generi di necessità, alle visite, alla possibilità di lavoro, allo svolgimento di attività educative, sportive, terapeutiche, con accesso agli spazi aperti).

Le Sezioni Unite hanno confermato la correttezza di tale impostazione, accedendo all’interpretazione secondo la quale, se il detenuto è sottoposto al regime c.d. "chiuso", è necessario che gli venga assicurato uno spazio minimo di tre metri quadrati, detratto quello impegnato da strutture sanitarie e arredi fissi; se, al contrario, è sottoposto al regime c.d. "semiaperto", ove gli venga riservato uno spazio inferiore altre metri quadrati, è necessario, al fine di escludere o di contenere il pericolo di violazione dell’art. 3 Conv. EDU, che concorrano congiuntamente i seguenti fattori: 1) breve durata della detenzione; 2) sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella assicurata dallo svolgimento di adeguate attività; 3) dignitose condizioni carcerarie (Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, Petrica, Rv. 271577).

Le Sezioni Unite, quindi, hanno ulteriormente sviluppato tale ricostruzione esegetica, applicandola anche a situazioni diverse dalla fruizione di uno spazio minimo inferiore a tre metri quadrati. In linea con i principi espressi dalla consolidata giurisprudenza sovranazionale, hanno precisato che in caso di restrizione in una cella collettiva in cui lo spazio sia uguale o superiore al livello minimo di tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati e, quindi, pur non violando la regola “spaziale” dettata dalla Corte EDU, l’incidenza di altri fattori negativi - quali la mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, la cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, l’assenza di riservatezza nelle toilette, le cattive condizioni sanitarie e igieniche) - può portare a ritenere, comunque, violato l’art. 3 della Convenzione (§ 139).

Sarà, dunque, importante che nella presentazione dell’istanza, ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., l’interessato deduca, oltre alla sofferta detenzione in celle collettive con uno spazio individuale inferiore a quattro metri quadrati, anche l’esistenza di alcuni dei fattori negativi sopra indicati, dei quali, hanno precisato le Sezioni Unite, non è, comunque, richiesta la presenza cumulativa.

Infine, se lo spazio individuale in una cella collettiva è stato superiore a quattro metri quadrati, le Sezioni Unite non hanno escluso la possibilità di riconoscere trattamenti carcerari contrari all’art. 3 Conv. EDU; hanno, comunque, specificato che il fattore sovraffollamento non rileverà in una domanda proposta ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. che, pertanto, dovrà essere basata su fattori differenti (§ 140).

Alla luce delle considerazioni sopraesposte, il Supremo collegio ha enunciato i principi di diritto come sopra riportati e, applicandoli al caso esaminato, ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero della giustizia, ritenuto fondato su una diversa modalità di computo dello spazio minimo individuale.

5. I successivi arresti delle Sezioni penali.

Nel corso del 2021, gli arresti successivi alla decisione delle Sezioni Unite hanno ulteriormente precisato la portata dei principi affermati.

In particolare, si ricordano le pronunce che hanno ritenuto del tutto corrette le decisioni di merito che, nella valutazione dello spazio minimo di 3 metri quadrati fruito in cella dal detenuto, hanno detratto, la superficie occupata dai letti a castello e non quella relativa ai letti singoli, sulla base della considerazione che «la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile». (così, Sez. 1, n. 45181 del 16/09/2021 Arena; Sez. 1, n. 35616 del 10/06/2021, Emeka); che hanno escluso dal computo, gli armadietti appesi alle pareti e, in generale, il cd. mobilio pensile, non trattandosi di arredi che occupano un’area calpestabile sottratta alla libera fruizione degli spazi (Sez. 1, n. 43741 del 21/10/2021, Mitrea; Sez. 1, n. 23282 del 29/04/2021, Di Vincenzo), gli sgabelli e i tavoli (Sez. 1, n. 35616 del 10/06/2021, cit).

Quanto alla rilevanza dei fattori c.d. compensativi, sono da menzionare le sentenze che, nel ravvisare la violazione dell’art. 3 Conv. EDU in presenza di uno spazio intramurario inferiore ai 3 metri quadrati, sottratti i letti a castello, hanno puntualizzato che l’ordinaria offerta trattamentale non può rappresentare elemento in grado di sovvertire l’effetto della ‘forte presunzione’ di trattamento inumano o degradante, specie considerando l’ampiezza del periodo detentivo in cui si è riscontrata la carenza di spazi adeguati (cfr., Sez. 1, n. 33894 del 12/02/2021, Morandi; Sez. 1, n. 31182 del 31/03/2021, Pagnotta; Sez. 1, n. 20579 04/12/2020, dep. 2021, Lattuca).

Sul punto, Sez. 1, n. 33332 del 12/02/2021, Bosti, ha, inoltre, affermato che in caso di spazio vitale inferiore ai 3 metri quadrati il primo parametro, indicato dalla Corte EDU, del possibile «riequilibrio», è rappresentato dalla brevità del periodo trascorso in condizione di sovraffollamento, da valutarsi in concreto, congiuntamente agli ulteriori fattori compensativi - costituiti dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività - con motivazione specifica e tale da far emergere la neutralizzazione del disagio dovuto al sovraffollamento, non essendo sufficiente un generico riferimento alla mera tempistica di permanenza in locali esterni.

In linea con i principi espressi dalle Sezioni Unite, si è, inoltre, ribadito che la possibilità di fruire di uno spazio in cella anche superiore ai 4 metri quadrati non esclude di per sé la configurabilità di una violazione dell’art. 3 Conv. EDU, «dovendosi altresì tener conto delle ulteriori condizioni che possono rendere comunque degradante il trattamento detentivo. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di rigetto del reclamo del detenuto per non aver valutato in una complessiva ottica multifattoriale - indipendentemente dall’ampiezza della cella, nella specie di gran lunga superiore ai 4 metri quadrati. - altresì le ulteriori allegazioni del medesimo in ordine all’impossibilità di utilizzare l’acqua corrente per la presenza di arsenico ed alle precarie condizioni igieniche degli ambienti, in guisa da porle in correlazione con le concrete modalità detentive)» (cfr., Sez. 1, n. 16116 del 27/01/2021, Fragapane, Rv. 281356).

In ogni caso, quando è rispettato il parametro spaziale, si è puntualizzato, il riconoscimento di un trattamento contrario al senso di umanità deve fondarsi su specifiche allegazioni in merito a criticità che concretizzino precisi fattori negativi della restante offerta trattamentale (Sez. 1, n. 33895 12/02/2021, Nicchi).

Per quanto attiene ai riflessi di tale approdo interpretativo sul piano della cooperazione giudiziaria nello spazio comune europeo, si richiama Sez. 2, n. 27661 del 13/07/2021, Zlotea, Rv. 281554 che ha precisato: «in tema di mandato di arresto europeo "esecutivo", nella valutazione del trattamento che sarà riservato al consegnando, i fattori compensativi - costituiti, congiuntamente, dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività - possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati, solo nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cd. regime "semiaperto" e non anche nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cd. regime "chiuso"».

6. Osservazioni finali.

Sez. U, “Commisso” ha specificato che la soluzione ermeneutica accolta è coerente con il generale vincolo di non adottare un’interpretazione difforme dal diritto consolidato della giurisprudenza europea.

Peraltro, il particolare rinvio contenuto nell’art. 35-ter ord. pen, impedisce al giudice nazionale, per non incorrere nel vizio di violazione di legge, di adottare soluzioni differenti, anche più favorevoli, rispetto a quelle fissate dalla Corte EDU, in quanto la specifica struttura della norma ha elevato la giurisprudenza sovranazionale consolidata a fonte del precetto.

Tuttavia, ha osservato il Supremo collegio, la lettura delle diverse sentenze della Corte europea in materia rende doverosa, per il giudice nazionale, una fisiologica attività interpretativa, in quanto tali decisioni, lungi dal fissare regole o misure – per la loro funzione di dare risposta ai singoli casi sottoposti ad esame – possono legittimare soluzioni esegetiche differenti potenzialmente compatibili. È pertanto necessario, che il giudice nazionale operi una lettura sistematica dei principi enucleabili dalla giurisprudenza convenzionale per attribuire loro un significato coerente alle finalità di tutela della dignità delle persone ristrette nel rispetto del divieto assoluto di pene inumane e degradanti.

La ricostruzione accolta dalla sentenza in esame, pertanto, non comporta un ampliamento del sistema di tutela ricavabile dalle regole giurisprudenziali europee, ma, aderendo ad una prospettiva multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive, attribuisce alle stesse un significato secondo cui lo spazio individuale minimo di tre metri quadrati deve effettivamente consentire al detenuto di “muoversi liberamente” nella cella.

Pare potersi affermare, pertanto, che tale soluzione costituisce una coerente applicazione del generale approccio attento alla sostanza dei fenomeni, a cui si ispira anche la Corte EDU nella valorizzazione dei fattori cd. compensativi per superare la forte presunzione di violazione dell’art. 3 Conv. EDU nei casi in cui lo spazio sia inferiore al minimo dei 3 metri quadrati. Nel riempire di contenuto il dato formale della regola “spaziale”, rappresenta, quindi, un’esegesi costituzionalmente e convenzionalmente conforme, tale cioè da attribuire alle affermazioni contenute negli arresti un senso logico coerente con le finalità perseguite dai giudici sovranazionali nella decisione del singolo caso, con pieno rispetto dell’obbligo di recepimento, da parte dell’interprete nazionale, dei principi espressi.

Rimane aperta la riflessione se l’applicazione dei principi sopraesposti possa giustificare l’esclusione dal computo dello spazio minimo vitale anche della superficie (space floor) occupata dal letto singolo, arredo che oggettivamente, per ingombro e peso, non è facilmente rimovibile e, pertanto, tale da limitare il libero movimento all’interno della cella.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924

Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 05/02/2014, Carnoli

Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Vecchina, Rv. 262352

Sez. 1, n. 43722 del 11/06/2015, Salierno

Sez. 1, n. 52992 del 9/09/2016, Gallo, Rv. 268655

Sez. 1, n. 52819, 09/09/2016, Sciuto, RV 268231

Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 2017, Agretti

Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv. 269514

Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 2017, Lorefice

Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 2017, Agostini

Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 2017, Triki;

Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211,

Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008

Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti

Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087

Sez. F, n. 39207 del 17/8/2017, Gongola

Sez. 1, n. 13378 del 10/10/2017, dep. 22/03/2018, Peciccia

Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu

Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, Petrica, Rv. 271577

Sez. 1 civ., 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 647236

Sez. 6, n. 18016 del 18/04/2018, Breaz

Sez. F, n. 37610 del 31/07/2018, Ibra

Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296

Sez. 3 civ., n. 16896 del 04/12/2018, dep. 2019

Sez. F, n. 38920 del 21/08/2018, Astratinei

Sez. 1, n. 5835 del 15/11/2018, dep. 2019, Marsano, Rv. 274874

Sez. 3 civ., n. 25408 del 13/03/2019

Sez. 1, n. 35537 del 30/05/2019, Fragalà

Sez. 3 civ., n. 1170 del 27/11/2019, dep. 2020, Rv. 656636–01

Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898

Sez. 1, n. 17656 del 12/02/2020, Skripeliov

Sez. 1, n. 14260 del 21/02/2020, Commisso

Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355

Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 348 del 2007

Corte cost., sent n. 349 del 2007

Corte cost., sent. n. 311 del 2009

Corte cost., sent. n. 303 del 2011

Corte cost, sent. n. 236 del 2011

Corte cost., sent. n. 15 del 2012

Corte cost., sent n. 49 del 2015

Corte cost., sent. n. 276 del 2016

Corte cost., sent. n. 36 del 2016

Corte cost., sent. n. 68 del 2017

Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo

Corte EDU, 21/02/1975, Golder c. Regno Unito

Corte EDU, 25/03/1993 Costello-Roberts c. Regno Unito

Corte EDU, 15/11/1996, Chahal c. Regno Unito

Corte EDU, 15/07/2002, Kalachnikov c. Russia

Corte EDU, 8/02/2006 Alver c. Estonia

Corte EDU, 19/07/2007, Trepachkine c. Russia

Corte EDU, 6/12/2007, Lind c. Russia

Corte EDU, 28/02/2008, Grande Camera, Saadi c. Italia

Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia

Corte EDU, 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia

Corte EDU, 23/10/2012, Dimitry c. Russia

Corte EDU, 27/11/2012, Kulikov c. Russia

Corte EDU, 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia

Corte EDU, 27/06/2013 Yepishin c. Russia

Corte EDU, 17/10/2013, Belyayev v. Russia

Corte EDU, 5/03/2013, Tellissi c. Italia

Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016, Muršic´ c. Croazia

Corte EDU, 16/12/2016, Grande Camera, Khlaufia ed altri c. Italia

Corte EDU, 25/04/2017, Rezmivese e altri c. Romania

Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e Nollomont c. Belgio

Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. et autres c. France

Sentenze Corte di giustizia dell’Unione europea

Corte di Giustizia, Grande Sezione, 15/10/2019, C 128/18, Dumitru-Tudor Dorobantu

  • magistrato
  • ordinanza
  • detenuto
  • avvocato

CAPITOLO V

NATURA GIURIDICA DEL RECLAMO EX ART. 69-BIS ORD. PEN. E CONSEGUENZE DEL SUO INQUADRAMENTO NELLA CATEGORIA DEI MERI ATTI DI SOLLECITAZIONE AD UN CONTRADDITTORIO PIENO O IN QUELLA DEI VERI E PROPRI ATTI DI IMPUGNAZIONE

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 2 L’orientamento giurisprudenziale secondo cui il reclamo ex art. 69-bis ord. pen. ha natura di mero atto di sollecito a un contraddittorio pieno. - 3 La decisione delle Sezioni unite. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Nel corso dell’anno 2021 ha formato oggetto di esame da parte delle Sezioni unite la seguente questione controversa: «Se il reclamo ex art. 69-bis ord. pen. avverso il provvedimento in materia di liberazione anticipata debba essere considerato quale mero atto di sollecitazione ad un contraddittorio pieno, sì che detto provvedimento deve essere notificato ai soli soggetti che, al momento della decisione, risultano legittimati a proporre reclamo, senza alcun conseguente onere, da parte del magistrato, di designazione, in favore del detenuto che ne sia privo, di un difensore di ufficio, ovvero vada invece considerato quale vero e proprio atto di impugnazione, conseguendone quindi, da un lato, l’obbligo di nomina del difensore di ufficio predetto cui notificare il provvedimento e, dall’altro, altresì, l’applicazione, a tale strumento, della disciplina delle impugnazioni, ivi compresa la previsione sulla necessaria esposizione dei motivi ex art. 581, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.».

Il delinearsi di un potenziale contrasto nella giurisprudenza di legittimità sul tema della necessità della notifica al difensore del detenuto, se del caso a tal fine nominato, dell’ordinanza del magistrato di sorveglianza resa ai sensi dell’art. 69-bis ord. pen. – tema che presuppone la scelta in ordine all’inquadramento giuridico del reclamo in termini di mero atto di sollecitazione del contraddittorio differito o di vero e proprio atto di impugnazione – ha reso necessario l’intervento della Corte a Sezioni unite.

La trattazione del ricorso è stata rimessa al supremo consesso con ordinanza della Prima Sezione penale n. 35782 del 14/11/2020 (dep. il successivo 14/12/2020).

Nello specifico, i giudici remittenti hanno rilevato che, nella vicenda sottoposta a giudizio, l’ordinanza del magistrato di sorveglianza era stata notificata al solo detenuto, che, al momento della presentazione dell’istanza di concessione della liberazione anticipata, non era assistito da un difensore di fiducia, essendone intervenuta la nomina all’atto della successiva proposizione del reclamo.

Nel provvedimento di remissione si è, quindi, evidenziato che l’art. 69-bis ord. pen. prevede che «… l›ordinanza… è comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nell›art. 127 cod. proc. pen.» e che tale ultima norma stabilisce, a sua volta, che «… quando si deve procedere in camera di consiglio, il giudice… fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori», aggiungendo che «se l›imputato è privo di un difensore, l›avviso è dato a quello di ufficio».

Si è osservato, inoltre, che, in base alle norme richiamate, sia il ricorrente che il Procuratore generale avevano dedotto l’omessa notifica al difensore dell’ordinanza del magistrato di sorveglianza, censura, questa, involgente anche l’omessa nomina, da parte del predetto, di un difensore di ufficio al richiedente (privo, come s’è detto, del difensore di fiducia), al fine di notificargli l’ordinanza emessa de plano ai sensi dell’art. 69-bis ord. pen. e di consentire, in tal modo, la decorrenza, anche nei suoi confronti, del termine di dieci giorni per la presentazione del reclamo.

Ciò in quanto l’art. 585, comma 3, cod. proc. pen. stabilisce che «quando la decorrenza del termine per proporre impugnazione è diversa per l›imputato e per il suo difensore, opera per entrambi il termine che scade per ultimo» e la previsione riguarda, all›evidenza, anche la notifica dell›avviso di deposito dei provvedimenti emessi all›esito di procedimento in camera di consiglio, categoria in cui rientra l›ordinanza resa dal magistrato di sorveglianza a norma dell›art. 69-bis ord. pen.

Tanto premesso, nel provvedimento di rimessione si è posto in rilievo che il consolidato orientamento della Corte contrasta con la prospettazione del ricorrente, essendosi affermato in sede di legittimità che, nel procedimento relativo alla liberazione anticipata, il giudice, in mancanza di nomina fiduciaria, non è tenuto a designare un difensore d’ufficio e che le comunicazioni e le notifiche ex art. 69-bis, comma 1, ord. pen. del provvedimento deliberato all’esito dell’udienza camerale devono essere limitate ai soggetti che, al momento della decisione, risultano legittimati a proporre reclamo e dànno luogo alla decorrenza del termine breve di dieci giorni per la proposizione del gravame, che non può essere riaperto per effetto della nomina, da parte dell’interessato, di un difensore di fiducia, in epoca successiva alla celebrazione dell’udienza (così Sez. 1, n. 47481 del 06/10/2015, Teano, Rv. 265376-01).

Si è osservato, quindi, che, secondo l’anzidetto orientamento, al difensore di fiducia non è dovuta la notifica dell’ordinanza resa dal magistrato di sorveglianza, in quanto nel procedimento ex art. 69-bis ord. pen. l’intervento del difensore non è necessario, con l’ulteriore conseguenza che il giudice procedente, in mancanza di nomina fiduciaria, non sarebbe tenuto a designare al condannato un difensore di ufficio, dovendo essere limitate ai soggetti legittimati a proporre reclamo al momento della decisione le comunicazioni e le notifiche previste dalla norma citata.

Si è aggiunto, infine, che costituisce ulteriore conseguenza dell’asserto l’impossibilità di riaprire il termine per la proposizione del reclamo – ove decorso – su iniziativa unilaterale dell’interessato, attraverso la nomina tardiva di un difensore di fiducia in epoca successiva all’udienza, atteso che ciò comporterebbe la vanificazione di termini perentori stabiliti dalla legge a pena di decadenza, incidendo sulla certezza dei rapporti processuali e sui tempi di definizione delle procedure.

Delineati nei termini esposti i tratti salienti dell’orientamento in oggetto, il provvedimento di rimessione ha posto in rilievo che sono ad esso riconducibili altre quattro pronunzie, per lo più precedenti (in specie Sez. 1, n. 21350 del 06/05/2008, Drago, Rv. 240089-01, Sez. 7, n. 45260 del 20/10/2009, Ierinò, Sez. 7, n. 49859 del 26/06/2014, Imparato e Sez. 7, n. 9623 del 17/06/2015, dep. 08/03/2016, Traorè), nonché un’ulteriore decisione (Sez. 1, n. 92 del 27/09/2011, dep. 09/01/2012, Bianco), con la quale la Corte ha, tuttavia, disposto l’annullamento con rinvio del provvedimento gravato, in quanto il detenuto aveva nominato un difensore di fiducia già con l’istanza di concessione della liberazione anticipata, chiarendo, nel contempo, che l’ordinanza del magistrato di sorveglianza, oltre a dover essere comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato, andava notificata al già nominato difensore, onde consentire anche alla parte tecnica la proposizione del reclamo nel breve termine di legge di dieci giorni, come desumibile dall’art. 69-bis, comma 1, ord. pen., che fa richiamo all’art. 127 cod. proc. pen.

Concluso l’esame dell’orientamento formatosi in tema nella giurisprudenza di legittimità, i giudici della Prima Sezione penale, ritenendolo non condivisibile, hanno rimesso il ricorso alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc., onde evitare l’insorgere di un contrasto.

Il provvedimento di rimessione ha esposto, quindi, le ragioni fondanti il diverso orientamento.

In particolare, si è rilevato che, dovendo il magistrato di sorveglianza provvedere de plano sull’istanza di concessione della liberazione anticipata, potrebbe riconoscersi al reclamo al Tribunale di sorveglianza natura di atto che sollecita il contraddittorio pieno differito, a fronte di un provvedimento adottato senza la presenza delle parti.

Si è osservato, nel contempo, che, laddove si riconoscesse, invece, al reclamo natura di impugnazione – come indurrebbero a ritenere la denominazione dell’istituto e la previsione di incompatibilità per il magistrato di sorveglianza, che non può far parte del collegio che provvede sul reclamo ex art. 69-bis, comma 4, secondo periodo, ord. pen. – si porrebbe la questione del pieno rispetto dei diritti di difesa dell’interessato.

Il detenuto, infatti, verrebbe indiscutibilmente privato dell’assistenza difensiva nella fase dell’impugnazione del provvedimento reiettivo del magistrato di Sorveglianza ove non nominasse un difensore di fiducia all’atto della presentazione, in prima persona, del reclamo, atteso che il difensore di ufficio verrebbe designato solo in vista della partecipazione all’udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza e, solo a tal fine, sarebbe contemplato l’avviso al predetto nei dieci giorni precedenti (così ex art. 666, comma 3, cod. proc. pen., applicabile in conseguenza del richiamo operato dall’art. 678 cod. proc. pen., norma a sua volta richiamata dall’art. 69-bis, comma 4, primo periodo, ord. pen.).

I giudici remittenti hanno, comunque, posto in rilievo che la Consulta, nel definire questioni di legittimità costituzionale afferenti all’art. 69-bis ord. pen., si è orientata per una ricostruzione del reclamo in termini di atto di sollecito del contraddittorio differito.

Hanno osservato al riguardo che, con ordinanza n. 352 del 2003, la Corte costituzionale, pronunciando su questione di legittimità della norma per violazione del diritto di difesa, ha osservato che è stata «… avvertita come fonte di ingiustificato aggravio la previsione di un procedimento in contraddittorio, in vista dell’adozione di un provvedimento che ben poteva essere… di segno positivo e, dunque, consentaneo alla richiesta dello stesso interessato, apparendo, di contro, assai più ragionevole che l’instaurazione di un contraddittorio pieno fosse contemplata solo nel caso di eventuale insoddisfazione del richiedente (o del pubblico ministero) per la decisione assunta…»; ha rilevato, inoltre, che è stata «… reiteratamente riconosciuta la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito, i quali,… in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza, adottino lo schema della decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum…»; ha aggiunto che «… tale conclusione si innesta sul consolidato principio secondo cui l’esercizio del diritto di difesa è suscettibile di essere regolato in modo diverso, onde adattarlo alle esigenze e alle specifiche caratteristiche dei singoli procedimenti, purché di tale diritto siano assicurati lo scopo e la funzione…»; ha rimarcato, ancora, che «… le affermazioni di principio… ricordate sono a maggior ragione riferibili al procedimento in esame, nel quale il giudice è chiamato a decidere su una domanda proposta dalla stessa parte del cui diritto di difesa si discute …» e ha concluso, infine, che «… lo stesso valore del contraddittorio… presuppone un contrasto tra parti e non… tra soggetto richiedente e organo decidente…», con la conseguenza che «… più che una violazione del principio del contraddittorio, potrebbe venire… in rilievo, dal lato del richiedente,… un diretto sacrificio del diritto di difesa, evenienza che, peraltro, non può dirsi realizzata, posto che il condannato… è in grado di illustrare… la propria domanda di liberazione anticipata e… di opporsi a una eventuale decisione reiettiva…».

Si è altresì osservato nel provvedimento di remissione che la Consulta, con ordinanza n. 291 del 2005, ha sostanzialmente ribadito le medesime considerazioni, rilevando che «… la previsione del procedimento de plano giova senz’altro alla rapidità della decisione in rapporto al complesso delle istanze in parola, rispetto alle quali… è in fatto nettamente preponderante la percentuale dei provvedimenti di accoglimento…», evidenziando, nel contempo, che si evita in tal modo «… che i tempi più lunghi, richiesti al fine di una decisione in contraddittorio già in prima battuta, danneggino i condannati con pena da espiare prossima alla conclusione…» e aggiungendo, infine, che «… proprio attraverso il meccanismo censurato, viene assicurato, in sostanza, al condannato un doppio scrutinio nel merito della sua istanza…».

I giudici remittenti hanno avuto quindi cura di evidenziare che il sistema previsto dalla norma è stato ritenuto costituzionalmente legittimo perché, con riguardo alla fase successiva all’adozione del provvedimento de plano da parte del magistrato di sorveglianza, assicura l’espletamento pieno del diritto di difesa, comprensivo dell’illustrazione dei motivi della richiesta di liberazione anticipata e dei motivi di censura al provvedimento adottato, oltre che della produzione documentale necessaria.

Nel contempo, hanno segnalato che, qualora si accogliesse la nozione di reclamo quale sollecitazione a un contraddittorio pieno, non potrebbe dichiararsene l’inammissibilità per mancanza di motivi, in quanto non troverebbero applicazione i principi in tema di impugnazione.

Alla stregua di tali considerazioni, hanno ritenuto maggiormente corretto l’inquadramento del reclamo ex art. 69-bis ord. pen. nel novero degli atti di impugnazione, rilevando che ciò comporta la piena garanzia dei diritti di difesa dell’interessato anche nella fase iniziale.

Hanno aggiunto, da ultimo, che tale garanzia è resa possibile mediante l’interpretazione del richiamo effettuato dall’art. 69-bis, comma 1, ord. pen. come riferito a tutti i soggetti indicati nell’art. 127 cod. proc. pen. e, quindi, anche al difensore, sostenendo che le pronunce di cui al contrapposto orientamento escludono la necessità della nomina di un difensore di ufficio al detenuto, da parte del magistrato di sorveglianza, in base alla considerazione che, davanti a quel giudice, nessuna udienza deve svolgersi, senza però tener conto del fatto che la nomina di un difensore di ufficio, nel caso di mancanza di un difensore di fiducia, non è prevista solo al fine della celebrazione dell’udienza (ex art. 127, comma 1, cod. proc. pen.), ma anche per far decorrere il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento (ex art. 127, comma 7, cod. proc. pen.), esigenza, quest’ultima, che permane anche quando il magistrato di sorveglianza provvede de plano e che non riguarda la regolarità formale della procedura, ma, piuttosto, la possibilità, per il richiedente, di essere assistito, anche in questa fase, da un difensore.

2. L’orientamento giurisprudenziale secondo cui il reclamo ex art. 69-bis ord. pen. ha natura di mero atto di sollecito a un contraddittorio pieno.

L’orientamento secondo cui il reclamo avverso il provvedimento in materia di liberazione anticipata, proposto ai sensi dell’art. 69-bis ord. pen., costituisce un mero atto di sollecitazione a un contraddittorio pieno trae origine da una pronunzia resa dalla Suprema Corte sul finire del primo decennio di questo secolo, in cui si è affermato che non è necessario l’intervento del difensore nel procedimento ex art. 69-bis della legge n. 354 del 1975, concernente l’istanza di liberazione anticipata e si è aggiunto che il giudice procedente, in mancanza di nomina fiduciaria, non è tenuto a designare un difensore d’ufficio, in quanto le comunicazioni e notifiche sono necessariamente limitate, ex art. 69-bis, comma 1, succitato, ai soggetti legittimati al reclamo (interessato e pubblico ministero) e dànno luogo alla decorrenza del breve termine di dieci giorni, concesso dalla legge, per la proposizione del gravame, mentre non è consentito riaprire detto termine con la nomina tardiva di un difensore (così Sez. 1, n. 21350 del 06/05/2008, Drago, Rv. 240089-01).

Nel medesimo filone si collocano poi, nel corso degli anni successivi, altre pronunzie che hanno fatto pedissequa applicazione dei principi enunciati (così Sez. 7, n. 45260 del 20/10/2009, Ierinò, Sez. 7, n. 49859 del 26/06/2014, Imparato e Sez. 7, n. 9623 del 17/06/2015, dep. 08/03/2016, Traorè).

Riconducibile al medesimo orientamento risulta, ancora, un’ulteriore decisione, con la quale la Corte ha, tuttavia, disposto l’annullamento con rinvio del provvedimento gravato, in quanto il detenuto reclamante aveva nominato un difensore di fiducia all’atto della formulazione dell’istanza di concessione della liberazione anticipata, chiarendo all’uopo che l’ordinanza del magistrato di sorveglianza, oltre a dover essere comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato, dev’essere notificata anche al difensore già nominato, onde consentirgli la proposizione del reclamo nel breve termine di dieci giorni, previsto dalla legge, come si ricava dall’art. 69-bis, comma 1, ord. pen., che fa richiamo all’art. 127 cod. proc. pen. (così Sez. 1, n. 92 del 27/09/2011, dep. 09/01/2012, Bianco).

Da ultimo, è egualmente riconducibile all’orientamento in disamina una più recente pronunzia – Sez. 1, n. 47481 del 06/10/2015, Teano, Rv. 265376-01 – in cui la Corte ha affermato che, nel procedimento relativo alla liberazione anticipata, il giudice, in mancanza di nomina fiduciaria, non è tenuto a designare un difensore d’ufficio, soggiungendo che le comunicazioni e le notifiche, ex art. 69-bis, comma 1, ord. pen., del provvedimento deliberato all’esito dell’udienza camerale devono essere limitate ai soggetti che, al momento della decisione, risultano legittimati a proporre reclamo e dànno luogo alla decorrenza del termine breve di dieci giorni per la proposizione del gravame, termine che non può essere riaperto per effetto della nomina, da parte dell’interessato, di un difensore di fiducia in epoca successiva alla celebrazione dell’udienza.

La costante giurisprudenza di legittimità afferma, quindi, che al difensore di fiducia non è dovuta la notifica dell’ordinanza resa dal magistrato di sorveglianza, in quanto nel procedimento ex art. 69-bis ord. pen. l’intervento del difensore non è necessario, sostenendo, altresì, che il giudice procedente, in mancanza di nomina fiduciaria, non è tenuto a designare al condannato un difensore di ufficio, perché le comunicazioni e le notifiche previste dalla norma citata devono essere limitate ai soggetti legittimati a proporre reclamo al momento della decisione.

Aggiunge, inoltre, che consegue a tale asserto che il termine per la proposizione del reclamo, ove decorso, non può essere riaperto su iniziativa dell’interessato, mediante la nomina di un difensore di fiducia in epoca successiva all’udienza, atteso che ciò comporterebbe la vanificazione di termini perentori, stabiliti a pena di decadenza, incidendo sulla certezza dei rapporti processuali e sui tempi di definizione delle procedure.

3. La decisione delle Sezioni unite.

Con la decisione assunta all’udienza del 25/02/2021, le Sezioni unite hanno dato risposta al quesito dianzi riportato, affermando che «l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che decide sull’istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis, comma 1, ord. pen.) deve essere in ogni caso notificata al difensore del condannato, se del caso nominato d’ufficio, legittimato a proporre reclamo» e che tale rimedio è «… soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni».

Ha premesso innanzitutto il Supremo consesso che, a seguito delle modifiche apportate al procedimento per la concessione della liberazione anticipata dalla legge 19 dicembre 2002, n. 277, è divenuto competente a decidere sulla relativa istanza il magistrato di sorveglianza, che pronunzia con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, in esito a un procedimento caratterizzato dalla peculiarità che la decisione non può essere resa prima di quindici giorni dalla richiesta di parere al pubblico ministero, termine il cui decorso fa sì che il giudicante possa decidere anche in assenza di detto parere.

Ha aggiunto, quindi, che il contraddittorio pieno è stato assicurato dalla fase eventuale successiva, introdotta dal reclamo al tribunale di sorveglianza, organismo giudicante di cui non può far parte il magistrato di sorveglianza già pronunciatosi sull’istanza.

Fatta tale premessa, il Supremo consesso ha rilevato che il primo segmento del procedimento bifasico disciplinato dall’art. 69-bis ord. pen. ha suscitato, fin da subito, dubbi di legittimità costituzionale, disattesi, tuttavia, dal giudice delle leggi, che, muovendo dal rilievo che la novella del 2002 rispondeva a esigenze di snellimento procedurale fortemente avvertite nella prassi, ha rimarcato come fosse «… avvertita quale fonte di ingiustificato aggravio la previsione di un procedimento in contraddittorio, in vista dell’adozione di un provvedimento che ben poteva essere (ed in larga parte dei casi era) di segno positivo e, dunque, consentaneo alla richiesta dello stesso interessato» e apparisse, invece, «assai più ragionevole che l’instaurazione di un contraddittorio pieno fosse contemplata solo nel caso di eventuale insoddisfazione del richiedente (o del pubblico ministero) per la decisione assunta», giungendo ad affermare «la piena compatibilità con il diritto di difesa di modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito, i quali… in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza, adottino lo schema della decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum» (così Corte cost., ord. n. 352 del 2003).

Onde consentire un migliore inquadramento della disciplina de qua, la Suprema Corte ha, poi, proceduto a una rapida disamina di talune figure di reclamo previste dall’ordinamento penitenziario e caratterizzate da profili distintivi più o meno accentuati rispetto al modello tipico di procedimento di sorveglianza, delineato, a far data dall’entrata in vigore del nuovo codice di rito, dagli artt. 678 e 666 cod. proc. pen., in conformità alla garanzia di giurisdizionalità sancita dal legislatore delegante.

In quest’ottica, ha scrutinato, innanzitutto, i procedimenti di reclamo relativi a provvedimenti adottati dall’autorità penitenziaria e, segnatamente, quello afferente il provvedimento dell’amministrazione che abbia disposto o prorogato il regime di sorveglianza particolare (di cui all’art. 14-ter ord. pen.) e quello relativo al provvedimento amministrativo con cui sia stata disposta o prorogata l’applicazione del regime di detenzione speciale (di cui all’art. 41-bis, comma 2-quinquies, ord. pen.).

Al riguardo, ha evidenziato che, diversamente dal procedimento di reclamo ex art. 69-bis ord. pen., nei casi indicati il provvedimento oggetto di doglianza non promana dal magistrato di sorveglianza, ma risulta emesso dall’autorità penitenziaria, sicchè il gravame assume la fisionomia dell’impugnativa di un atto amministrativo, la qual cosa esclude ex se l’ipotizzabilità di un procedimento giurisdizionale bifasico.

Ha osservato, invece, che maggiori affinità rispetto al procedimento in oggetto si riscontrano in quello delineato dall’art. 30-bis ord. pen. in tema di permessi, che risulta egualmente articolato in due fasi, delle quali la prima davanti al magistrato di sorveglianza e la seconda introdotta da un reclamo alla sezione di sorveglianza, cui è comunemente riconosciuta natura di mezzo di impugnazione (così, ex plurimis, Sez. 1, n. 15982 del 17/09/2013, dep. 14/04/2014, Greco, Rv. 261989-01; Sez. 1, n. 37332 del 26/09/2007, Esposito, Rv. 237505-01) e che la più recente e consolidata giurisprudenza di legittimità esclude possa essere definito con procedura de plano (in tal senso, ex plurimis, Sez. 1, n. 37044 del 20/11/2020, Nicastro, Rv. 280097-01; Sez. 1, n. 37527 del 07/10/2010, Casile, Rv. 248694-01).

Ha aggiunto, inoltre, che la disciplina in materia non contiene alcun rinvio al procedimento camerale ex art. 127 cod. proc. pen., ponendo in rilievo che, sulla scorta della pronunzia della Consulta dichiarativa dell’incostituzionalità dell’art. 30-bis ord. pen., nella parte in cui non consentiva «l’applicazione degli artt. 666 e 678 cod. proc. pen. nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso-premio» (Corte cost., sent. n. 53 del 1993), la giurisprudenza di legittimità ritiene attualmente che il reclamo nella subiecta materia segua il procedimento di sorveglianza tipico, disciplinato dalle norme processuali richiamate (così Sez. 1, n. 4867 del 07/10/1998, Natoli, Rv. 211503-01 e Sez. 1, n. 49343 del 17/11/2009, Bontempo Scavo, Rv. 245641-01).

Esaurita la disamina delle altre figure di reclamo, il Supremo consesso è passato ad analizzare le ragioni che militano a sostegno dell’inquadramento del rimedio previsto dall’art. 69-bis, comma 3, ord. pen. nel novero degli atti di impugnazione.

Ha, pertanto, rilevato che, secondo il disposto della norma evocata, l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che ha deciso sull’istanza di concessione della liberazione anticipata è comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 cod. proc. pen., chiarendo che il rinvio deve essere necessariamente inteso come riferito al primo comma di tale disposizione, che indica, quali destinatari dell’avviso dell’udienza in camera di consiglio, le parti e i difensori e precisa che, se l’imputato è privo del difensore di fiducia, l’avviso è dato a quello di ufficio.

Tali circostanze costituiscono – a parere della Corte – una significativa indicazione in favore della tesi secondo cui tra i destinatari della notificazione dell’ordinanza reiettiva dell’istanza di concessione della liberazione anticipata deve essere incluso anche il difensore di ufficio, nominato dal magistrato di sorveglianza al condannato che sia privo di un difensore di fiducia, comportando la tesi opposta un’ingiustificata “amputazione” del rinvio all’art. 127, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen., che prevede, per l’appunto, la necessaria nomina del difensore di ufficio al condannato privo di difesa fiduciaria.

Il Supremo consesso ha osservato, ancora, che l’esposta conclusione trova riscontro nell’indicazione dei soggetti legittimati all’impugnazione del provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza, che l’art. 69-bis, comma 3, ord. pen. individua segnatamente nell’interessato, nel pubblico ministero e nel difensore, figura, questa, comprensiva non solo del difensore di fiducia designato dal condannato prima della decisione sull’istanza, ma anche – ove costui non abbia provveduto alla nomina fiduciaria – di quello di ufficio nominato dal magistrato di sorveglianza e destinatario della notificazione del suo provvedimento.

Vagliate le ragioni di ordine testuale a sostegno della tesi propugnata, la Corte ha analizzato il profilo sistematico, evidenziando che sia l’orientamento finora seguito, sia quello contrapposto, caldeggiato nell’ordinanza di rimessione, riconoscono al reclamo ex art. 69-bis, comma 3, ord. pen. natura di mezzo di impugnazione.

In tale ottica, ha, quindi, osservato che la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che il reclamo, in quanto assoggettato alle regole generali in tema di impugnazioni, deve essere basato, a pena di inammissibilità, su motivi (così Sez. 1, n. 993 del 05/12/2011, dep. 13/01/2021, P.G. in proc. Parisi, Rv. 251678-01 e Sez. 1, n. 48152 del 18/11/2008, Trasmondi, Rv. 242655-01), che trovano applicazione, con riguardo ad esso, le norme relative alle modalità di presentazione delle impugnazioni (così Sez. 1, n. 23371 del 15/05/2015, Piacente, Rv. 263614-01 e Sez. 1, n. 2150 dell’11/10/2018, dep. 17/01/2019, Natale, Rv. 276384-01) e che al tribunale di sorveglianza spettano poteri istruttori integrativi (così Sez. 1, n. 23934 del 17/05/2013, Nardi, Rv. 256142-01).

Alla stregua di tali premesse, il Supremo consesso ha osservato che la natura impugnatoria del reclamo ex art. 69-bis, comma 3, ord. pen. si salda perfettamente con la centralità ad esso riconosciuta, al fine di assicurare la necessaria consonanza con i principi costituzionali e, segnatamente, con il diritto di difesa della disciplina introdotta dalla legge n. 277 del 2002, aggiungendo che, in tema, la Consulta ha chiarito che, nella materia dell’esecuzione penale, il diritto di difesa «comprende in sé, oltre la facoltà di difendersi riconosciuta al cittadino, anche, ove egli non la eserciti, l’obbligo per lo Stato di provvedere alla sua difesa, con la nomina di un difensore» e ha precisato, inoltre, che tale esigenza trova copertura costituzionale «… nell’art. 24 Cost., ove questo sia letto in collegamento con l’art. 13 Cost., che proclama l’inviolabilità della libertà personale e con l’art. 3 Cost., che, tutelando il principio di eguaglianza, postula che, in quel processo, la difesa di ufficio debba essere sempre, sussidiariamente, presente, in tutti i casi che siano da considerarsi equivalenti sul piano della tutela della libertà dell’inquisito» (in tal senso Corte cost., sent. n. 69 del 1970, che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del previgente codice di rito, nella parte in cui non prevedeva che, nel procedimento per incidenti di esecuzione, all’interessato fosse nominato d’ufficio un difensore, ove egli non avesse provveduto a nominarne uno di fiducia).

Da ultimo, la Corte ha rimarcato che il punto 96 dell’art. 2 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»), prescriveva «garanzie di giurisdizionalità nella fase della esecuzione, con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza», «necessità del contraddittorio nei procedimenti incidentali, in materia di esecuzione» e «impugnabilità dei provvedimenti del giudice», in una prospettiva che la Consulta ha descritto come finalizzata al rispetto integrale delle «garanzie costituzionali del diritto di difesa e della tutela della libertà personale anche nella fase esecutiva della pena, in coerenza con il progetto rieducativo che questa sottende» (così Corte cost., sent. n. 53 del 1993) e che, pertanto, postula la presenza del difensore, se del caso di ufficio, al momento sia della determinazione relativa alla presentazione del reclamo avverso l’ordinanza reiettiva dell’istanza di concessione della liberazione anticipata, sia dell’individuazione dei contenuti del reclamo stesso, che il condannato abbia deciso di presentare.

Alla luce delle osservazioni complessivamente esposte, il Supremo consesso ha concluso, quindi, che «l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che decide sull’istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis, comma 1, ord. pen.) deve essere in ogni caso notificata al difensore del condannato, se del caso nominato d’ufficio, legittimato a proporre reclamo» e che tale rimedio è «… soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 4867 del 07/10/1998, Natoli, Rv. 211503-01

Sez. 1, n. 37332 del 26/09/2007, Esposito, Rv. 237505-01

Sez. 1, n. 21350 del 06/05/2008, Drago, Rv. 240089-01

Sez. 7, n. 45260 del 20/10/2009, Ierinò

Sez. 1, n. 48152 del 18/11/2008, Trasmondi, Rv. 242655-01

Sez. 1, n. 49343 del 17/11/2009, Bontempo Scavo, Rv. 245641-01)

Sez. 1, n. 37527 del 07/10/2010, Casile, Rv. 248694-01)

Sez. 1, n. 92 del 27/09/2011, dep. 09.01.2012, Bianco

Sez. 1, n. 993 del 05/12/2011, dep. 13/01/2021, P.G. in proc. Parisi, Rv. 251678-01

Sez. 1, n. 23934 del 17/05/2013, Nardi, Rv. 256142-01)

Sez. 1, n. 15982 del 17/09/2013, dep. 14/04/2014, Greco, Rv. 261989-01

Sez. 7, n. 49859 del 26/06/2014, Imparato

Sez. 1, n. 23371 del 15/05/2015, Piacente, Rv. 263614-01

Sez. 1, n. 47481 del 06/10/2015, Teano, Rv. 265376-01

Sez. 7, n. 9623 del 17/06/2015, dep. 08/03/2016, Traorè

Sez. 1, n. 2150 dell’11/10/2018, dep. 17/01/2019, Natale, Rv. 276384-01

Sez. 1, n. 37044 del 20/11/2020, Nicastro, Rv. 280097-01

Decisioni della Corte costituzionale

Sent. n. 69 del 1970

Sent. n. 53 del 1993

Ord. n. 352 del 2003

Ord. n. 291 del 2005

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE VII - RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

  • arresto
  • mandato di cattura europeo
  • estradizione

CAPITOLO I

RAPPORTI CON LE A. G. STRANIERE E PRINCIPALI QUESTIONI IN TEMA DI ESTRADIZIONE E MANDATO DI ARRESTO EUROPEO

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 “Ne bis in idem” da sentenza di ordinamento straniero. - 2 Mandato d’arresto europeo. - 2.1 Il d. lgs. 2 febbraio 2021, n. 10. - 2.2 La giurisprudenza. - 2.2.1 Motivi di rifiuto - 2.2.2 Questioni procedurali. - 2.2.3 M.a.e. e Brexit. - 2.2.4 Principio di specialità. - 3 Estradizione. - 3.1 Questioni processuali. - 3.2 Estradizione e Brexit. - 3.3 Motivi di rifiuto. - 3.3.1 Motivi di salute. - 3.3.2 Trattamenti inumani e degradanti. - 3.3.3 Violazioni processuali nello Stato richiedente. - 3.3.4 Ne bis in idem. - 3.3.5 Prescrizione del reato. - 3.3.6 Allontanamento dalla famiglia. - 3.4 Estradizione del cittadino o di cittadini UE. - 3.5 Estradizione condizionata e suppletiva. - 3.6 Poteri del giudice. - 3.7 Principio di specialità. - Indice delle sentenze citate

1. “Ne bis in idem” da sentenza di ordinamento straniero.

In tema di rapporti tra ordinamento italiano e ordinamenti stranieri, si segnala una vicenda particolare attinente all’eccezione di violazione del divieto di “ne bis in idem” proposta in un caso in cui l’imputato aveva già subito delle sanzioni dall’ordinamento canonico per gli stessi fatti per i quali è stato giudicato in Italia, trattandosi di reati avvenuti in territorio italiano.

Della fattispecie si è occupata Sez. 3, n. 34576 del 18/5/2021, Imp. C., Rv. 282796-01 che ha respinto l’eccezione ribadendo che il divieto di "bis in idem" di cui all’art. 4 del protocollo n. 7 della Convenzione Edu non opera qualora in due Stati diversi vengano instaurati due procedimenti penali nei confronti della stessa persona, riguardanti il medesimo fatto storico, poiché il dato testuale della norma si riferisce a due procedimenti in uno stesso Stato. In particolare, la decisione ha ulteriormente precisato che il "ne bis in idem", non essendo principio generale del diritto internazionale, trova applicazione solo in presenza di convenzioni, ratificate e rese esecutive, vincolanti esclusivamente i Paesi contraenti, nei limiti dell’accordo raggiunto.

Di conseguenza, ha ancora affermato la sentenza, il cittadino italiano soggetto anche alla giurisdizione ecclesiastica della Santa Sede, giudicato in sede canonica per un reato commesso nel territorio nazionale, può essere sottoposto a giudizio in Italia per lo stesso fatto, non sussistendo la violazione del principio del "ne bis in idem", compreso quello regolato dall’art. 4 del protocollo n. 7 della Convenzione EDU, non applicabile nei casi di duplice procedimento in due Stati diversi.

2. Mandato d’arresto europeo.

2.1. Il d. lgs. 2 febbraio 2021, n. 10.

L’anno in corso ha portato significative novità in tema di mandato di arresto europeo, la più rilevante delle quali è l’adozione di una normativa nazionale che ha ulteriormente adeguato il nostro ordinamento alla originaria decisione quadro del 2002.

Si tratta del d. lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, con il quale è stata esercitata la delega di cui all’art. 6 della legge n. 117 del 2019 “per il più compiuto adeguamento della normativa nazionale alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione europea, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, apportando le opportune modifiche alla legge 22 aprile 2005, n. 69”.

Tra le novità introdotte con la nuova normativa è necessario rimarcare almeno le seguenti:

- il nuovo art. 1 comma 3-ter della legge 69 del 2005, secondo il quale l’Italia non darà esecuzione ai mandati di arresto europei emessi da uno Stato membro nei cui confronti il Consiglio dell’Unione europea abbia sospeso l’attuazione del meccanismo del mandato di arresto europeo per grave e persistente violazione dei princìpi sanciti all’articolo 6, paragrafo l, del trattato sull’Unione europea ai sensi del par. 10 del Considerando del preambolo della decisione quadro;

- il nuovo art. 2 secondo cui l’esecuzione del mandato di arresto europeo (hinc, M.A.E.) non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, dei diritti fondamentali e dei fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea o dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione EDU;

- la nuova disciplina dell’esecuzione del M.A.E. emesso a seguito di processo in absentia (art. 6 legge 69 del 2005);

- l’eliminazione delle fattispecie di reato con cui la legge n. 69 del 2005 aveva riprodotto i trentadue reati menzionati nella decisione quadro, per i quali non opera il principio di doppia incriminazione, sostituite con un diretto riferimento al testo della decisione quadro (art. 8 legge 69 del 2005);

- modifiche ai termini della procedura passiva, e la specifica informazione alla persona interessata della irrevocabilità del consenso;

- la radicale riscrittura dell’art. 18 legge 69 del 2005, con la limitazione dei motivi obbligatori di rifiuto a quelli previsti dalla decisione quadro (estinzione del reato per amnistia, ne bis in idem, età minore di anni 14);

- la riscrittura dell’art. 18-bis legge 69 del 2005 sui motivi facoltativi di rifiuto;

- la trasmissione con modalità telematica degli atti tra gli uffici giudiziari (art. 27-bis legge 69 del 2005).

Queste ulteriori, significative novità dimostrano ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, la vivacità del tema ed il suo continuo evolversi, così come, in generale, la vivacità del diritto penale europeo, una materia dove norme e giurisprudenza si intrecciano e si completano come in poche altre, una materia moderna che non può non appassionare lo studioso del diritto penale.

2.2. La giurisprudenza.

Sul fronte della giurisprudenza, molte sono, come sempre, le questioni trattate dalla Corte in tema di mandato di arresto europeo nel corso del 2021, ed alcune di esse riguardano proprio la rilevanza nei casi concreti delle suddette modifiche normative.

2.2.1. Motivi di rifiuto

I vari motivi di rifiuto della consegna occupano sempre un posto rilevante nella giurisprudenza sul M.A.E.

La prospettazione di un trattamento inumano e degradante nel Paese richiedente è uno dei principali, sebbene la normativa al riguardo sia stata nel corso dell’anno, come già evidenziato, modificata. Infatti, il motivo di rifiuto per il pericolo di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti non è più previsto nell’art. 18, ma è ricavabile dal nuovo art. 2 della legge n. 69 del 2005, secondo il quale “L’esecuzione del mandato di arresto europeo non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, dei diritti fondamentali e dei fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea o dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, e dai Protocolli addizionali alla stessa”.

Sez 6, n. 41075 del 10/11/2021, Sarwari Zahir Khan, Rv. 282120 – 01, ha affermato, a proposito di un M.A.E. esecutivo, che è onere del ricorrente che voglia ottenere un provvedimento di rifiuto della consegna, ex art. 18, comma primo, lett. h), L. n. 69 del 2005, (e, quindi, prima della riforma del 2021, ma con affermazione di principio che può valere anche nel nuovo quadro normativo) allegare fonti attendibili, specifiche ed aggiornate su cui poter fondare la ragionevole affermazione dell’esistenza di un concreto pericolo di trattamento inumano e degradante determinato dalle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto, così, prive dell’indicata attendibilità notizie riportate da un blog di un quotidiano e da un documento di un’associazione politico-culturale nazionale.

La Corte di appello è, comunque, tenuta ad acquisire informazioni in ordine al trattamento che sarà riservato al consegnando qualora questi abbia allegato elementi oggettivi, precisi ed aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente (Sez. 6, n. 10822 del 16/3/2021, Istrate Florin, Rv. 280852-01). Nella specie, la Corte ha ritenuto che, a seguito della sentenza della Corte EDU del 25 aprile 2017, ric. Rezmives e dell’adozione, da parte dello Stato emittente, di un piano di azione per la rimozione delle rilevate criticità in tema di condizioni carcerarie, il Comitato dei Ministri ha esaminato le modifiche poste in essere, dando atto dei consistenti progressi che, tuttavia, non hanno condotto alla risoluzione definitiva dei problemi strutturali, sì che, dedotta dalla parte la sussistenza di un "serio pericolo" di trattamenti inumani o degradanti, si è ritenuto necessario acquisire informazioni aggiornate.

Di un caso particolare di trattamento inumano e degradante, e cioè quello delle condizioni specifiche di detenzione, si occupa Sez. 2, n. 27661 del 13/7/2021, Zlotea Marian, Rv. 281554 – 01, secondo cui, nella valutazione del trattamento che sarà riservato al consegnando, i fattori compensativi - costituiti, congiuntamente, dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività - possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati, solo nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cd. regime "semiaperto" e non anche nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cd. regime "chiuso".

Sez. 6, n. 22124 del 3/6/2021, Tonuzi, Rv. 281349 – 01, si è invece occupata della consegna di madre di prole di età non superiore a sei anni, affermando che è necessario che l’ordinamento dello Stato richiedente riconosca delle modalità di detenzione assimilabili a quelle interne, tali da escludere che l’interessata possa essere sottoposta a condizioni incompatibili con la tutela della condizione di madre, a salvaguardia degli interessi del minore. In motivazione, la Corte ha precisato che, qualora l’ordinamento esterno non contempli forme di tutela del diritto dei figli a non essere privati del ruolo della madre, secondo modalità comparabili a quelle previste dall’ordinamento interno, si determinerebbe una lesione di diritti fondamentali, previsti sia dalla Costituzione che dalla CEDU, il che imporrebbe il rifiuto della consegna ai sensi dell’art. 2, legge n. 69 del 2005.

Comunque, Sez. 6, n. 18126 del 6/5/2021, Scutaru Cornel, Rv. 281305 – 01, ha affermato che, ai fini della decisione sulla consegna per l’estero, l’onere del consegnando di allegare gli elementi e le circostanze idonei a fondare il timore di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, può essere assolto anche nella fase di impugnazione dinanzi alla Corte di cassazione trattandosi di elementi suscettibili di apprezzamento nel merito da parte del giudice di legittimità, in base alla originaria previsione dell’art. 22 legge n. 69 del 2005, applicabile "ratione temporis". In motivazione la Corte ha precisato che, non disponendo la corte di legittimità di poteri istruttori e integrativi, compete pur sempre alla corte d’appello, in sede di annullamento con rinvio, di provvedere alla richiesta di informazioni integrative sul trattamento penitenziario riservato alla persona richiesta in consegna.

Secondo Sez. 2, n. 6633 del 17/2/2021, Mokrzycki Yanusz, Rv. 280657 – 01, tuttavia, il motivo di rifiuto della consegna non può basarsi sull’"evidente rischio di violazione dello Stato di diritto" rilevato nello Stato di emissione, posto che - fin tanto che il mandato d’arresto europeo non sia sospeso, ai sensi dell’art. 7, par. 2, T.U.E., nei confronti dello Stato membro – la possibilità di rifiutare la consegna va riconosciuta soltanto "in circostanze eccezionali", in cui l’autorità giudiziaria di esecuzione accerti, ad esito di una valutazione concreta dello specifico caso, che vi sono motivi seri e comprovati per ritenere che la persona richiesta corra, a seguito della consegna, un rischio reale di violazione dei suoi diritti fondamentali. Nel caso di specie era stato paventato il rischio di violazione dello Stato di diritto rilevato dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 17 settembre 2020 in merito alla mancanza di indipendenza della magistratura in Polonia.

Sez. 6, n. 9821 dell’11/3/2021, Gazi Karim Goran alias Ghazi Kareem Goran, Rv. 281110-01, ha invece ritenuto che il riconoscimento del diritto di protezione sussidiaria da parte dello Stato italiano non costituisce causa ostativa alla consegna ad altro paese dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 2 della legge 22 aprile 2005, n. 69, sul rilievo che, ivi, il consegnando non potrebbe fruire delle stesse garanzie costituzionali in tema di asilo, atteso che, da un lato, l’art. 33 della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati sancisce che il principio del "non refoulement" riguarda soltanto i territori in cui la vita o la libertà del soggetto sarebbero minacciate a motivo della razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale, opinioni politiche, e, dall’altro, lo status di asilo o di protezione internazionale attribuito nell’ambito dell’Unione europea ha natura uniforme ed è valido in tutti gli Stati Membri. La fattispecie era relativa a mandato processuale emesso dalla Francia.

Infine, Sez. 6, n. 1268 del 12/1/2021, Tatar Nicolae, Rv. 280478 – 01, in tema di mandato di arresto europeo esecutivo, ha ritenuto che non costituisca motivo ostativo alla consegna la proposizione da parte del condannato del giudizio di revisione dinanzi alla autorità estera, potendo l’interessato esclusivamente chiedere - ove ne ricorrano i presupposti - che la consegna sia subordinata al rinvio in Italia per l’esecuzione della pena eventualmente ribadita al termine del nuovo giudizio.

Come detto, poi, la giurisprudenza ha iniziato a confrontarsi con le novità apportate dal d. lgs 2 febbraio 2021, n. 10 in tema di motivi di rifiuto alla consegna.

Secondo Sez. 6, n. 39196 del 28/10/2021, Ferrari Michele, Rv. 282118 – 01, l’eliminazione, ad opera della suddetta normativa, dal testo dell’art. 17, comma 4, legge 22 aprile 2005, n. 69 del riferimento ai gravi indizi di colpevolezza comporta che la mancata indicazione di essi non costituisce legittimo motivo di rifiuto alla consegna, nemmeno di carattere facoltativo, e secondo Sez. 6, n. 35462 del 23/9/2021, Imp. M., Rv. 282253 – 01, l’intervenuta abrogazione, ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, dei commi 3,4,5,6 dell’art. 6 della legge n. 69 del 2005 preclude la possibilità di ritenere legittimo motivo di rifiuto alla consegna la mancata allegazione della documentazione indicata negli indicati commi.

Ancora, Sez. 6, n. 25333 del 25/6/2021, Eminovic Emiy, Rv. 281533 – 01, ha affermato che la pronuncia che disponga la consegna precedentemente negata con decisione definitiva non configura violazione del principio del "ne bis in idem" qualora sia intervenuta una modifica della normativa interna applicabile. La pronuncia si basa, in particolare, proprio sulla abrogazione, successiva al primo rifiuto di consegna, dell’art. 18, lett. p), legge n. 69 del 22 aprile 2005 ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, che ha eliminato l’ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna relativa all’esistenza di prole di età inferiore ai tre anni.

Sez. 6, n. 18124 del 6/5/2021, Hathazi Alexandru, Rv. 281271 – 01, ha ritenuto, poi, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 2, legge 22 aprile 2005, n. 69, come modificato dall’art. 15 d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., nella parte in cui esclude dal beneficio del rifiuto facoltativo della consegna i cittadini di altro Stato membro dell’Unione Europea che non abbiano maturato una permanenza sul territorio italiano di almeno cinque anni, in quanto la scelta non contrasta né con il parametro della ragionevolezza, né con il principio di eguaglianza, nè con la finalità di reinserimento sociale del condannato.

2.2.2. Questioni procedurali.

Numerose sono, poi, le questioni processuali che si pongono in tema di M.A.E.

Il mandato di arresto europeo esecutivo può essere emesso sulla base del mero dispositivo della sentenza, ove questo, secondo la normativa dello Stato richiedente, costituisca titolo esecutivo ancor prima del deposito della motivazione e del passaggio in giudicato della decisione (Sez. 6, n. 14220 del 14/4/2021, Zlotea Marian, Rv. 280878-02). In particolare, la Corte ha precisato che, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, all’art. 6 della legge 22 aprile 2005, n. 69, non è necessaria l’allegazione della sentenza di condanna, né è necessario che questa sia irrevocabile.

Tuttavia, può essere motivo di non esecuzione il vizio genetico di carenza di motivazione della sentenza straniera che ne è a fondamento. In tal caso, secondo Sez. 2, n. 33558 del 7/9/2021, Bisori Mario, Rv. 281863 – 01, tale vizio è idoneo a determinare la non esecuzione del M.A.E., atteso che l’ambito del controllo sul requisito della non contrarietà ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato non riguarda solo il dispositivo, ma deve investire anche la motivazione della sentenza straniera, attraverso la quale è possibile vagliare la sua conformità ai canoni del giusto processo. È interessante notare che in motivazione la Corte, decidendo su mandato di arresto europeo disciplinato dalle norme anteriormente vigenti ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 28 del 2021, ha sottolineato come il principio enunciato si debba considerare riferibile anche alla nuova disciplina di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 10 del 2021, che ha aggiunto il comma 1-bis all’art. 6 della legge n. 69 del 2005.

In ordine alla cognizione della Corte di cassazione nella procedura sul m.a.e., che può essere adita con l’impugnazione della sentenza della Corte di appello sulla consegna, è stato poi affermato che le censure che involgono l’accertamento del radicamento del soggetto nel territorio dello Stato, che costituisce motivo di rifiuto, sono inammissibili nel giudizio di legittimità, in quanto, pur dedotte quale vizio di violazione di legge, attengono in realtà alla motivazione della decisione, atteso che l’art. 22 della legge 22 aprile 2005, n. 69, come modificato dall’art. 18 del d. lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, non ammette avverso la sentenza resa dalla corte di appello sulla richiesta di consegna il ricorso per cassazione per vizi di motivazione (Sez. 6, n. 41074, del 10/11/2021, Huzu Ioan, Rv.282260-01).

Sempre a proposito del giudizio di cassazione, Sez. 6, n. 19138 del 12/5/2021, Zbranca Mihai, Rv. 281160-01, ha affermato che, quando si controverta di un m.a.e. esecutivo, non è deducibile per la prima volta in sede di legittimità la questione del mancato rispetto, nel processo svoltosi nello Stato richiedente, delle garanzie previste dall’art. 6 della legge 22 aprile 2005, n. 69, per la cui risoluzione è necessaria un’attività istruttoria, incompatibile con la cognizione attribuita alla Corte di Cassazione che, pur potendo verificare gli apprezzamenti di fatto operati dal giudice della consegna, non ha poteri di tipo sostitutivo o integrativo, né istruttori, a fronte di carenze documentali ed informative su aspetti determinanti ai fini della consegna.

Una volta divenuta definitiva la decisione favorevole alla consegna della persona richiesta, poi, si instaura una fase meramente esecutiva nell’ambito della quale, entro rigorosi e brevissimi termini, e salve cause di forza maggiore, l’interessato deve essere materialmente consegnato allo Stato estero, senza che possa venire in questione la sussistenza di "pericula libertatis"; la Corte ha, pertanto, ritenuto che, in tale fase, non sussiste l’interesse a proporre il ricorso per cassazione avverso il rigetto di sostituzione della misura coercitiva (Sez. 6, n. 33280 del 6/9/2021, Goldoni Ornello, Rv. 281845-01).

Altra questione procedurale riguarda il caso di più mandati nei confronti della stessa persona emessi da diverse autorità dello stesso Stato. In tal caso, Sez. F, n. 30029 del 29/07/2021, Glica Sicu, Rv. 281707 – 01, ha affermato che non si applica la procedura di cui all’art. 20 legge 22 aprile 2005, n. 69, che è relativa alla diversa ipotesi in cui due o più Stati membri abbiano emesso un mandato d’arresto europeo nei confronti della stessa persona. Nell’affermare tale principio, la Corte ha chiarito che, venendo la persona consegnata, come da art. 23, comma primo, legge n. 69 del 2005, "allo Stato membro di emissione", spetta a quest’ultimo regolare gli adempimenti conseguenti alla consegna e le competenze delle singole autorità giudiziarie richiedenti.

In tema di termine a difesa nella procedura passiva, Sez. F, n. 29895 del 27/7/2021, Chighini Antonio, Rv. 281706-01, ha affermato che la sua concessione di un termine a difesa va comunque correlata all’esigenza di assicurare il rispetto delle cadenze temporali previste dall’art. 17, comma 2, della legge n. 69 del 2005. Nella fattispecie, a fronte di traduzione in italiano del mandato di arresto pervenuta solo il giorno dell’udienza, quale ultimo giorno disponibile per decidere sulla consegna, veniva concesso il termine di un’ora per l’esame dello stesso.

Anche a seguito della modifica dell’art. 7 della legge 22 aprile 2005, n. 69, per effetto del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, poi, Sez. 6, n. 21336 del 26/5/2021, Brocai Massimiliano, Rv. 281509-01, ha ritenuto che il requisito della doppia punibilità costituisce presupposto indispensabile per potersi far luogo alla consegna, fermo restando che non è necessario che coincidano la qualificazione giuridica ed i singoli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici previste dallo Stato richiedente e da quello richiesto. In applicazione del principio, la Corte ha escluso la ricorrenza della doppia punibilità con riferimento a condotte di contrabbando inquadrabili negli artt. 292 e 294 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, trattandosi di reati depenalizzati dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8.

A proposito di m.a.e. emesso a seguito di condanna definitiva “in absentia”, Sez. 6, n. 18125 del 6/5/2021, Salerno Alessandro, Rv. 281663-01, ha affermato che il mandato va qualificato come esecutivo e non processuale, a nulla rilevando che l’ordinamento francese riconosca in tali casi la possibilità di proporre un giudizio di opposizione, cui può conseguire la rinnovazione del processo. Nella fattispecie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che, avendo qualificato il mandato di arresto come processuale, aveva disposto la consegna subordinandola al rinvio dell’interessato in Italia per l’esecuzione della pena all’esito del giudizio di opposizione, anziché accogliere la richiesta difensiva volta ad ottenere il riconoscimento del motivo di rifiuto di cui all’art. 18-bis legge n. 69 del 2005 ai fini dell’esecuzione della pena in Italia.

Sez. 6, n. 7275 del 23/2/2021, Delic Carly alias, Rv. 280842-01, sempre a proposito del m.a.e. esecutivo, ha ritenuto che sussistano le condizioni, ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. a), legge 22 aprile 2005, n. 69, per la consegna di una persona condannata in "absentia" qualora l’interessato abbia volontariamente rinunciato alla partecipazione, ex art.4-bis, par. 1, lett. a) e b) della decisione quadro 2002/584, ovvero nel caso in cui l’interessato abbia rinunciato a chiedere un nuovo giudizio, ex art.4-bis, par. 1, lett.c), o laddove sia previsto che egli sia espressamente informato del diritto ad essere nuovamente giudicato ex art.4-bis, par. 1, lett.d). In tal senso, si è fatto riferimento a Corte giustizia UE, 10 agosto 2017, Tupikas, C-270/17; Corte giustizia UE, 17 dicembre 2020, TR, C-416/20.

In materia poi di garanzie difensive nella procedura passiva, Sez. 6, n. 7025 dell’8/1/2021, Jovanovic Jugoslav, Rv. 280633-01, ha affermato che non è previsto il rispetto di un termine di preavviso per la comunicazione al difensore dell’udienza di convalida dell’arresto, in quanto l’esigenza di favorire la partecipazione del difensore di fiducia deve essere contemperata con le caratteristiche di urgenza proprie della procedura, sicchè nessuna nullità può ravvisarsi nel caso in cui il difensore non si sia posto in condizione di partecipare all’udienza o, quanto meno, di nominare un sostituto. Nel caso di specie, la Corte ha escluso la violazione del diritto di difesa rilevando che il difensore, residente in una diversa sede ed essendo stato avvertito tempestivamente dell’arresto del proprio assistito, non si era attivato in alcun modo per partecipare all’udienza.

Sez. 6, n. 14220 del 14/4/2021, Zlotea Marian, Rv. 280878-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, per violazione degli artt. 3 e 25 Cost. e 7 CEDU, nella parte in cui non consente la prosecuzione del procedimento con l’applicazione della normativa anteriormente vigente, nei casi in cui sia già stato emesso il mandato di arresto alla data di entrata in vigore della novella, in quanto la scelta di applicare la nuova disciplina ai m.a.e. ricevuti dalla Corte di appello dal 21 febbraio 2021, ovvero a quelli per i quali l’arresto è avvenuto a partire da tale data, non contrasta né con il parametro della ragionevolezza, né con il principio di legalità.

Sempre in tema di procedura passiva, Sez. 6, n. 10105 del 11/3/2021, Thaler Benno, Rv. 280722-01, ha precisato che la consegna allo Stato emittente del cittadino o di persona residente dello Stato italiano, ai fini dell’esercizio di un’azione penale, è subordinata alla garanzia che la persona consegnata deve essere restituita una volta esaurito il processo a suo carico con l’emissione di una sentenza esecutiva, in quanto l’espressione "dopo essere stata ascoltata", contenuta nell’art. 19, lett. c) legge 22 aprile 2005, n. 69, va intesa non nel senso che la consegna è finalizzata alla mera audizione, bensì alla celebrazione del giudizio, all’esito del quale il consegnato dovrà rientrare nello Stato di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà, eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro emittente.

Infine, secondo Sez. 1, n. 8521 del 18/12/2020, dep. 2021, Demaj Emanuel, Rv. 280558-01 la disposizione di cui all’art. 31 legge 22 aprile 2005 n. 69, secondo cui il m.a.e. perde efficacia quando il provvedimento restrittivo sulla base del quale è stato emesso è revocato o annullato ovvero divenuto inefficace, si riferisce all’ipotesi in cui il m.a.e. non abbia ancora esaurito la propria funzione, cioè quando non sia ancora avvenuta la consegna della persona richiesta. La Corte ha, così, ritenuto non influente sull’ordine di esecuzione la perdita di efficacia del titolo cautelare sulla base del quale era stato emesso il mandato di arresto europeo successivamente alla sua esecuzione.

2.2.3. M.a.e. e Brexit.

Anche nell’anno in corso, la situazione venutasi a creare con il recesso del Regno Unito dall’Unione Europea (c.d. Brexit) è stata oggetto di attenzione della giurisprudenza in materia di m.a.e.

Sez. F, n. 34466 del 24/8/2021, Dragos Stefan Damian, Rv. 282036 – 01, ha affermato che, a seguito della entrata in vigore dell’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’Unione Europea e il Regno Unito di Gran Bretagna del 24 dicembre 2020, la decisione sulla esecuzione di un mandato d’arresto emesso dall’autorità giudiziaria del Regno Unito, deve essere assunta applicando le regole previste dall’Accordo e, solo sul piano procedimentale, quanto alle modalità e ai tempi di assunzione della decisione, devono trovare applicazione le norme previste dalla legge 22 aprile 2005, n. 69, in tema di mandato d’arresto europeo, in quanto compatibili.

Sez. F, n. 31862 del 19/8/2021, Imp. P., Rv. 282035-01, ha analogamente affermato che le richieste di consegna da parte del Regno Unito verso uno Stato dell’Unione Europea per reati commessi prima del 7 agosto 2002, presentate successivamente alla fine del periodo di transizione dell’applicabilità della decisione quadro, devono essere trattate secondo la disciplina dell’Accordo conseguente al recesso del primo dall’Unione (c.d. Brexit) e non secondo la disciplina della Convenzione Europea di estradizione del 1957, atteso che, nonostante il principio dell’art. 40, comma 2, legge 69 del 2005, secondo cui le domande per fatti anteriori alla suddetta data sono trattate secondo la disciplna estradizionale, per le domande presentate dopo la fine del periodo di transizione opera, in base al suddetto Accordo tra Regno Unito ed U.E., l’equipollenza della domanda di consegna in base al m.a.e. rispetto alla domanda di estradizione.

Intanto, Sez. 6, n. 20183 del 18/5/2021, Moroni Franco, Rv. 281504 – 01, aveva precisato che il recesso del Regno Unito dall’Unione Europea non legittima il rifiuto della consegna a detto Stato, essendo rimasta vigente la decisione quadro sul m.a.e fino al 31 dicembre 2020, ai sensi della disposizione transitoria dell’art. 62 dell’Accordo sul recesso concluso il 24 gennaio 2020, e dal 1 gennaio al 30 aprile 2021, come previsto dalla disposizione transitoria dell’art. 632 dell’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’Unione Europea e il Regno Unito del 24 dicembre 2020. Nella fattispecie, pertanto, la Corte ha confermato la sentenza che aveva disposto la consegna del ricorrente, essendo stato questi arrestato ai fini di consegna l’11 dicembre 2020 e, quindi, nella vigenza dell’art. 62 dell’Accordo sul recesso.

2.2.4. Principio di specialità.

In tema di principio di specialità applicato al mandato di arresto europeo, Sez. 6. n. 17609 del 25/3/2021, Jovanovic Djuliano, Rv. 281304-01, ne ha ravvisato la violazione nel caso in cui lo Stato richiedente consegni l’interessato ad uno Stato terzo, in esecuzione di una successiva domanda di estradizione, senza il preventivo assenso da parte dell’autorità giudiziaria dello Stato richiesto, sempre che l’interessato non abbia espressamente consentito alla riestradizione o non ricorra taluna delle condizioni contemplate dall’art. 28, par. 2, della decisione quadro 2002/584/GAI.

3. Estradizione.

3.1. Questioni processuali.

Nell’anno in corso la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di affrontare varie questioni processuali in materia di estradizione.

La prima di cui occorre dar conto riguarda la composizione della Corte d’Appello in materia cautelare.

Sez. 6, n 443 del 21/10/2020, dep. 2021, Banjac Ognjen, Rv. 280553 – 01, ha affrontato il problema, affermando che sussiste la competenza funzionale della corte d’appello, in composizione collegiale, a provvedere sulla richiesta di revoca o sostituzione della misura coercitiva disposta nei confronti dell’estradando, con procedura "partecipata" prevista dall’art. 127 cod. proc. pen., sicché è affetta da nullità l’ordinanza adottata "de plano" dal giudice monocratico che sia stato a tanto delegato dal presidente della corte.

Sez.6, n. 40298 del 20/10/2021, Georgiev Bogomil, Rv. 282256-01, in materia di estradizione per l’estero, e quindi di procedura “passiva”, ha affermato che il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti in tema di revoca o sostituzione delle misure cautelari strumentali all’estradizione è consentito per violazione di legge e non anche per vizio di motivazione.

Sez. 6, n. 38169 del 05/10/2021, Krasniqi Kujtim, Rv. 282117–01, in tema di estradizione avverso i provvedimenti relativi a misure cautelari personali emesse nell’ambito della procedura di consegna, ha invece affermato che è ammesso unicamente il ricorso per cassazione ex art. 719 cod. pen. e non è possibile riqualificare come ricorso l’istanza di riesame erroneamente proposta, quando la stessa non sia redatta da un difensore iscritto all’albo speciale dei difensori abilitati al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione e non risponda ai requisiti di cui all’art. 311, commi 2, 3 e 4 cod. proc. pen., anche in relazione a termini e formalità di presentazione. Nella fattispecie, pertanto, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato presso il tribunale del riesame, anziché presso la corte di appello entro il termine di dieci giorni decorrenti dalla pubblicazione dell’ordinanza.

Sempre in tema di procedura passiva, e quindi di richiesta allo Stato italiano di estradizione per l’estero, Sez. 6, n. 35273 del 29/04/2021, Krasniqi Kujtim, Rv. 282177 – 01, ha ritenuto che nell’ipotesi in cui la corte di appello, ai sensi dell’art. 704, comma 2, cod. proc. pen., faccia richiesta di informazioni integrative, deve fissare una successiva udienza camerale per l’esame e la discussione delle informazioni pervenute al fine di consentire il contraddittorio tra le parti. In applicazione del principio, pertanto, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale erano state dichiarate sussistenti le condizioni per l’estradizione in favore della Repubblica del Kosovo, sul rilievo che, una volta pervenuti gli esiti dei disposti accertamenti, la Corte di appello si era limitata a sciogliere la riserva assunta nella precedenza udienza e ad emettere, senza sentire le parti, l’impugnata sentenza.

In tema di applicazione delle misure cautelari nella procedura di estradizione passiva, Sez. 6, n. 23252 del 04/06/2021, De Francesco Eduardo, Rv. 281523 – 01, riprendendo una giurisprudenza piuttosto datata (Sez. 6, n. 846 del 04/03/1991, Rv. 187532), ha affermato che la richiesta ministeriale di applicazione della custodia cautelare, formulata a seguito della decisione favorevole alla consegna nell’ipotesi prevista dall’art. 704, comma 3, cod. proc. pen., non è vincolante per l’autorità giudiziaria, dovendo la misura cautelare essere comunque disposta in vista delle esigenze cautelari afferenti al procedimento di estradizione, da valutarsi ai sensi dell’art. 714, comma 2, cod. proc. pen.

Sez. 6, n. 26310 del 26/05/2021, Klug Walther, Rv. 281543 – 02, si è occupata, invece, della partecipazione dell’interessato in videoconferenza all’udienza dinanzi alla Corte di appello, dichiarando, in un caso di estradizione suppletiva, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 710, comma 2, cod. proc. pen. per violazione dell’art. 24, comma 2, Cost., nella parte in cui non consente tale adempimento, trattandosi di una possibilità consentita nei soli casi in cui sia espressamente contemplata da accordi internazionali e la cui mancata previsione in via generalizzata rientra nella discrezionalità del legislatore di modulare le modalità di esercizio del diritto di difesa. (In motivazione, la Corte ha precisato che il diritto di difesa è assicurato dalla facoltà di nominare un difensore di fiducia dinanzi all’organo giurisdizionale procedente nello Stato richiesto e dalla possibilità di rendere dichiarazioni dinanzi a un giudice dello Stato richiedente in ordine ai fatti relativi alla domanda di estensione dell’estradizione).

Sez. 2, n. 15702 del 01/04/2021, Lula Bardh alias Coric Mustafa, Rv. 281121 – 01, ha, invece, ritenuto che il principio di immutabilità del giudice, sancita dall’art. 525, comma 2, cod. proc. pen., in quanto espressione di un principio generale, è estensibile anche alle decisioni assunte all’udienza camerale celebrata ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen., tra cui quelle in materia di estradizione, ed, in applicazione del principio, ha annullato la decisione che aveva deliberato sulla richiesta di estradizione sul rilievo che il collegio era in composizione differente rispetto a quella davanti alla quale si era svolta l’udienza con riserva di decisione.

In tema di misure cautelari nel procedimento di estradizione, Sez. 6, n. 18603 del 23/2/2021, Medici Toscano Felipe, Rv. 281095 – 01, ha ritenuto che il termine di tre mesi, di cui all’art. 714, comma 4-bis, cod. proc. pen., decorso il quale la misura cautelare è revocata se la consegna non è stata effettuata, deve computarsi non dal giorno di emissione del provvedimento del Ministero della Giustizia che concede l’estradizione, ma solo da quando esso diventi eseguibile, in seguito alla intervenuta definizione della fase giurisdizionale.

3.2. Estradizione e Brexit.

Sempre controverso il tema delle consegne verso il Regno Unito, a seguito del recesso di quest’ultimo dall’Unione Europea (c.d. Brexit), anche in campo estradizionale.

Sez. F, n. 31862 del 19/08/2021, imp. P., Rv. 282035 – 01, ha affermato che le richieste di consegna da parte del Regno Unito verso uno Stato dell’Unione Europea per reati commessi prima del 7 agosto 2002, presentate successivamente alla fine del periodo di transizione dell’applicabilità della decisione quadro, devono essere trattate secondo la disciplina dell’Accordo conseguente al recesso del primo dall’Unione (c.d. Brexit) e non secondo la disciplina della Convenzione Europea di estradizione del 1957, atteso che, nonostante il principio dell’art. 40, comma 2, legge 69 del 2005, secondo cui le domande per fatti anteriori alla suddetta data sono trattate secondo la disciplna estradizionale, per le domande presentate dopo la fine del periodo di transizione opera, in base al suddetto Accordo tra Regno Unito ed U.E., l’equipollenza della domanda di consegna in base al ma.a.e. rispetto alla domanda di estradizione.

3.3. Motivi di rifiuto.

3.3.1. Motivi di salute.

In tema di estradizione passiva, cioè per l’estero, Sez. 6, n. 33781 del 25/06/2021, PG c. Macchiavelli Luca, Rv. 281934-01, ha stabilito che, ai fini dell’apprezzamento della causa ostativa correlata alle condizioni di salute del soggetto, prevista dall’art. 705, comma 2, lett. c-bis), cod. proc. pen., la Corte di appello non può limitarsi a verificare se nel Paese richiedente i presidi sanitari siano adeguati a far fronte alle esigenze terapeutiche dell’estradando, ma deve tenere conto anche della concreta incidenza negativa che può avere la procedura esecutiva di consegna, per le complicanze patologiche connesse al trasferimento all’estero in sé nonché in rapporto all’esigenza di non interrompere le terapie in atto.

3.3.2. Trattamenti inumani e degradanti.

Sez. 6, n. 26742 del 20/04/2021, Akdag Habib, Rv. 281820-01, si è occupata di un’estradizione passiva verso la Turchia, affermando che devono essere valutate in concreto, in relazione al disposto di cui all’art. 705, comma 2, cod. proc. pen., le condizioni detentive che saranno assicurate al soggetto richiesto, essendo formalmente sospesa in quello Stato, dal luglio 2016, l’applicazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo ed essendosi ivi riscontrate detenzioni arbitrarie e pratiche di tortura generalizzate all’interno delle strutture penitenziarie, che determinano un livello elevato di rischio di trattamenti inumani e degradanti non limitato ai soli detenuti politici.

Secondo Sez. 6, n. 8078 del 09/02/2021, Olgesashvili Tamila, Rv. 280709-02, comunque, la Corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, le circostanze allegate dall’interessato in merito al rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante, acquisendo informazioni "individualizzate" sul regime di detenzione che sarà riservato all’estradando, valutando, oltre alle condizioni generali di detenzione esistenti nelle carceri dello Stato richiedente, anche le condizioni di salute e di età dell’estradando in relazione alle specifiche condizioni di detenzione ed eventualmente richiedendo garanzie in ordine alla possibilità che l’interessato possa continuare ad essere curato nelle strutture penitenziarie dello Stato richiedente.

Qualora, invece, risulti a carico dell’estradando la pendenza di un procedimento per reati, diversi da quello per il quale si chiede la consegna, rispetto al quale sussiste il serio rischio di sottoposizione a tortura, la Corte di appello deve acquisire elementi di conoscenza sulla natura delle ulteriori imputazioni ipotizzate a carico dell’estradando, da valutare unitamente all’acquisizione di informazioni aggiornate in ordine alla pratica della tortura nell’ambito del sistema carcerario del paese richiedente (Sez. 6, n. 18122 dell’1/4/2021, Sandu Simranjit Singh, Rv. 281159-01). Nella specie, si trattava di una richiesta di estradizione verso l’India per reati in materia di stupefacenti a carico di un soggetto, appartenente ad una minoranza separatista, nei cui confronti la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva rilevato l’esistenza di un ulteriore procedimento per terrorismo, in relazione al quale doveva ritenersi sussistente il rischio per l’estradando di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, in considerazione della mancata ratifica da parte dell’India della convenzione contro la tortura, nonché di quanto riferito da plurime fonti internazionali quali: interrogazione scritta del Parlamento europeo; documento di Human Rights Asia sulla pratica della tortura in India; rapporto della Law Commission of India del 30/10/2017; rapporto del Comitato di vigilanza per i diritti umani sulla tortura in India del 2008.

3.3.3. Violazioni processuali nello Stato richiedente.

Sez. 6, n. 26310 del 26/05/2021, Klug Walther, Rv. 281543 – 03, ha ritenuto che la prospettata violazione, da parte della pronunzia emessa dallo Stato richiedente, della regola processuale stabilita dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., nonché del divieto di "reformatio in pejus", non è ostativa a una decisione favorevole alla consegna, in quanto tali regole non attengono alla tutela del nucleo essenziale dei diritti di difesa dell’imputato, così come riconosciuti nell’ordinamento giuridico italiano. Nella specie si trattava di richiesta di consegna avanzata dal Cile, rispetto alla quale il Trattato di estradizione consente il rifiuto nel solo caso in cui la persona richiesta verrebbe sottoposta "ad un procedimento che non garantisce il rispetto dei diritti minimi della difesa", ipotesi non riconosciuta in concreto.

3.3.4. Ne bis in idem.

Sez. 6, n. 10085 del 14/1/2021, Burca Elena, Rv. 280720-01, ha ritenuto che il divieto di "bis in idem" internazionale operi solo in presenza di una pronuncia giurisdizionale estera definitiva sulla responsabilità dello stesso individuo per il medesimo fatto di reato per il quale è stata avanzata la domanda estradizionale. Nella fattispecie, pertanto, la Corte ha ritenuto non ostativa all’estradizione verso la Moldavia, la circostanza che l’estradando fosse già stato tratto in arresto in Francia, nell’ambito di procedura estradizionale emessa per lo stesso reato, e successivamente rimesso in libertà, in ragione del mancato inoltro da parte dello Stato richiedente della documentazione necessaria.

3.3.5. Prescrizione del reato.

Sez. 6, n. 5497 del 02/02/2021, Imp. Q., Rv. 280630-01, si è occupata del problema della prescrizione del reato per cui si procede quale motivo di rifiuto, concludendo che le condizioni in presenza delle quali procedere alla consegna devono essere valutate al momento della presentazione della domanda, sicché la disposizione introdotta dall’art.8, comma 1, della Convenzione di Dublino del 1996, ratificata dall’Italia con legge 21 luglio 2019, n. 66, in base alla quale non è più motivo di rifiuto l’intervenuta prescrizione del reato secondo la legislazione dello Stato richiesto, si applica anche ai procedimenti estradizionali riguardanti reati commessi prima della suddetta modifica normativa. In motivazione, la Corte ha precisato che la disciplina in materia di estradizione contiene disposizioni di carattere processuale alle quali non si adattano gli istituti di carattere sostanziale dell’ordinamento, se non nei limiti di rilevanza riconosciuti dalle norme pattizie.

3.3.6. Allontanamento dalla famiglia.

La situazione di difficoltà e di disagio derivante dall’allontanamento dell’estradando dalla sua famiglia radicata in Italia, invece, non integra alcuna delle condizioni ostative all’estradizione previste dall’art. 705, comma 2, cod. proc. pen., in quanto la valutazione demandata alla Corte di appello concerne esclusivamente la legale possibilità della estradizione passiva, esulando dalle sue attribuzioni ogni valutazione di opportunità, che rientra, invece, nell’esclusiva sfera di competenza del Ministro della Giustizia. (Sez. 6, n. 8078 del 9/2/2021, Olgesashvili Tamila, Rv. 280709-01).

3.4. Estradizione del cittadino o di cittadini UE.

Tema assai delicato è quello della estradizione da parte di uno Stato di propri cittadini.

Sez. 6, n. 28032 del 30/04/2021, Simbari Abramina, Rv. 281694-01, in tema di estradizione “passiva”, e quindi per l’estero, ha ritenuto che sia consentita l’estradizione del cittadino italiano richiesta sulla base dell’art.6 della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, resa esecutiva con la legge 30 gennaio 1963, n. 300, trattandosi di una possibilità espressamente contemplata in conformità all’art. 26 della Costituzione che ammette l’estradizione del cittadino quando sia prevista dalle convenzioni internazionali, salva restando la possibilità del rifiuto facoltativo della consegna sulla base di una valutazione discrezionale demandata all’organo di governo e sottratta alla deliberazione dell’autorità giudiziaria.

Nel caso, invece, di estradizione di cittadini di un altro Stato membro dell’Unione Europea verso un Paese terzo, Sez. 6, n. 26310 del 26/5/2021, Klug Walther, Rv. 281543-01, ha ritenuto che sussiste l’obbligo di informare lo Stato membro della richiesta di estradizione solo ove la persona di cui è reclamata la consegna soggiorni di fatto nel territorio dell’Unione nel momento in cui la richiesta è presentata, e non quando si trovi al di fuori di tale spazio territoriale perché già materialmente consegnata allo Stato richiedente, in quanto destinataria di un precedente provvedimento definitivo di estradizione. La fattispecie era relativa ad un cittadino di nazionalità tedesca, già estradato in Cile, nei cui confronti veniva attivata una procedura estradizionale suppletiva per altro fatto di reato.

3.5. Estradizione condizionata e suppletiva.

Nell’anno in corso anche le Sezioni Unite della Corte hanno avuto modo di occuparsi di estradizione, occupandosi di un caso particolare per il quale si rinvia anche all’apposito contributo in altra parte di questa rassegna.

In sostanza, e molto in sintesi ai fini di questa sezione, si trattava di stabilire se, richiesta dall’Italia una prima estradizione ad uno Stato che non ammette nel proprio sistema la pena perpetua (e quindi in un caso di estradizione attiva), e da quest’ultimo concessa senza alcuna condizione espressa, ma con il solo con il vincolo della riconsegna del soggetto al termine del processo, e chiesta poi dall’Italia una seconda estradizione suppletiva dello stesso soggetto per altro reato, alla quale il Paese richiesto applicava la espressa condizione di non applicazione dell’ergastolo, quest’ultima condizione potesse applicarsi, eventualmente anche in sede esecutiva, anche alla prima consegna, sebbene in occasione di essa non espressamente prevista.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 30305 del 25/03/2021, De Falco, Rv. 281558-01), hanno concluso nel senso che la condizione, posta, in accoglimento di una domanda di estensione dell’estradizione, dallo Stato richiesto, di commutazione della pena dell’ergastolo in pena temporanea, non opera con riguardo ad altra pena dell’ergastolo - oggetto di cumulo con la prima - irrogata in diverso procedimento per il quale sia stato, in precedenza, emesso altro provvedimento di estradizione non condizionato.

3.6. Poteri del giudice.

Sempre controversa è la valutazione che il giudice italiano può e deve compiere sui gravi indizi del reato nella procedura passiva.

Sez. 6, n. 25526 del 03/06/2021, Mezini Artan, Rv. 281534-01, a proposito di una estradizione esecutiva per l’estero, proposta dalle autorità albanesi, nel regime di consegna disciplinato dalla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, ha affermato che è inibita ogni rivalutazione del materiale probatorio sul quale si fonda la decisione esecutiva emessa dall’autorità giudiziaria straniera, dovendo il giudice nazionale compiere un esame solo formale del titolo esecutivo straniero, in quanto l’adesione alla convenzione presuppone il reciproco affidamento degli Stati contraenti e l’impegno a riconoscere la validità ed efficacia delle rispettive sentenze.

3.7. Principio di specialità.

Sui rapporti tra mandato di arresto europeo ed estradizione, che possono incidere anche sul principio di specialità, Sez. 6, n. 17609 del 25/03/2021, Jovanovic Djuliano, Rv. 281304-01, ha ravvisato la violazione di quest’ultimo, trattando di una questione in tema di mandato di arresto europeo, nel caso in cui lo Stato richiedente consegni l’interessato ad uno Stato terzo, in esecuzione di una successiva domanda di estradizione, senza il preventivo assenso da parte dell’autorità giudiziaria dello Stato richiesto, sempre che l’interessato non abbia espressamente consentito alla riestradizione o non ricorra taluna delle condizioni contemplate dall’art. 28, par. 2, della decisione quadro 2002/584/GAI.

Secondo Sez. 3, n. 16355 del 11/01/2021, Provini Luigi, Rv. 281007-01, poi, in tema di estradizione dall’estero, è legittimo disporre una misura cautelare personale in relazione a reati anteriori alla consegna, coperti dal principio di specialità, per cui sussistano gravi indizi di colpevolezza onde chiedere l’estensione ad essi dell’estradizione, ma l’esecuzione dell’ordinanza che dispone la misura resta sospesa fino alla concessione dell’estradizione da parte dello Stato richiesto.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n 443 del 21/10/2020, dep. 2021, Banjac Ognjen, Rv. 280553 – 01

Sez. 1, n. 8521 del 18/12/2020, dep. 3/3/2021, Demaj Emanuel, Rv. 280558-01

Sez. 6, n. 7025 dell’8/1/2021, Jovanovic Jugoslav, Rv. 280633-01

Sez. 3, n. 16355 del 11/01/2021, Provini Luigi, Rv. 281007 – 01

Sez. 6, n. 1268 del 12/1/2021, Tatar Nicolae, Rv. 280478 – 01

Sez. 6, n. 10085 del 14/1/2021, Burca Elena, Rv. 280720-01

Sez. 6, n. 5497 del 02/02/2021, Imp. Q., Rv. 280630 – 01

Sez. 6, n. 8078 del 9/2/2021, Olgesashvili Tamila, Rv. 280709-01

Sez. 6, n. 8078 del 9/2/2021, Olgesashvili Tamila, Rv. 280709 – 02

Sez. 2, n. 6633 del 17/2/2021, Mokrzycki Yanusz, Rv. 280657 – 01

Sez. 6, n. 18603 del 23/2/2021, Medici Toscano Felipe, Rv. 281095 – 01

Sez. 6, n. 7275 del 23/2/2021, Delic Carly alias, Rv. 280842-01

Sez. 6, n. 9821 dell’11/3/2021, Gazi Karim Goran alias Ghazi Kareem Goran, Rv. 281110-01

Sez. 6, n. 10105 del 11/3/2021, Thaler Benno, Rv. 280722-01

Sez. 6, n. 10822 del 16/3/2021, Istrate Florin, Rv. 280852-01

Sez. 6, n. 17609 del 25/3/2021, Jovanovic Djuliano, Rv. 281304-01

Sez. U, n. 30305 del 25/3/2021, De Falco, Rv. 281558 – 01

Sez. 2, n. 15702 del 1/4/2021, Lula Bardh alias Coric Mustafa, Rv. 281121 – 01

Sez. 6, n. 18122 dell’1/4/2021, Sandu Simranjit Singh, Rv. 281159-01

Sez. 6, n. 14220 del 14/4/2021, Zlotea Marian, Rv. 280878-01,

Sez. 6, n. 14220 del 14/4/2021, Zlotea Marian, Rv. 280878-02

Sez. 6, n. 26742 del 20/04/2021, Akdag Habib, Rv. 281820 – 01

Sez. 6, n. 35273 del 29/04/2021, Krasniqi Kujtim, Rv. 282177 – 01

Sez. 6, n. 28032 del 30/04/2021, Simbari Abramina, Rv. 281694 – 01

Sez. 6, n. 18125 del 6/5/2021, Salerno Alessandro, Rv. 281663-01

Sez. 6, n. 18124 del 6/5/2021, Hathazi Alexandru, Rv. 281271 – 01

Sez. 6, n. 18126 del 6/5/2021, Scutaru Cornel, Rv. 281305 – 01,

Sez. 6, n. 19138 del 12/5/2021, Zbranca Mihai, Rv. 281160-01

Sez. 6, n. 20183 del 18/5/2021, Moroni Franco, Rv. 281504 – 01

Sez. 3, n. 34576 del 18/5/2021, Imp. C., Rv. 282796 - 01

Sez. 6, n. 21336 del 26/5/2021, Brocai Massimiliano, Rv. 281509 - 01

Sez. 6, n. 26310 del 26/5/2021, Klug Walther, Rv. 281543 - 01

Sez. 6, n. 26310 del 26/5/2021, Klug Walther, Rv. 281543 – 02

Sez. 6, n. 26310 del 26/5/2021, Klug Walther, Rv. 281543 – 03

Sez. 6, n. 22124 del 3/6/2021, Tonuzi, Rv. 281349 – 01

Sez. 6, n. 25526 del 3/6/2021, Mezini Artan, Rv. 281534 – 01

Sez. 6, n. 23252 del 4/6/2021, De Francesco Eduardo, Rv. 281523 – 01

Sez. 6, n. 25333 del 25/6/2021, Eminovic Emiy, Rv. 281533 – 01

Sez. 6, n. 33781 del 25/6/2021, PG c. Macchiavelli Luca, Rv. 281934 – 01

Sez. 2, n. 27661 del 13/7/2021, Zlotea Marian, Rv. 281554 – 01

Sez. F, n. 29895 del 27/7/2021, Chighini Antonio, Rv. 281706-01

Sez. F, n. 30029 del 29/7/2021, Glica Sicu, Rv. 281707 – 01

Sez. F, n. 31862 del 19/8/2021, Imp. P., Rv. 282035-01

Sez. F, n. 34466 del 24/8/2021, Dragos Stefan Damian, Rv. 282036 – 01

Sez. 6, n. 33280 del 6/9/2021, Goldoni Ornello, Rv. 281845-01

Sez. 2, n. 33558 del 7/9/2021, Bisori Mario, Rv. 281863 – 01

Sez. 6, n. 35462 del 23/9/2021, Imp. M Rv. 282253 – 01

Sez. 6, n. 38169 del 5/10/2021, Krasniqi Kujtim, Rv. 282117 – 01

Sez. 6, n. 40298 del 20/10/2021, Georgiev Bogomil, Rv. 282256 – 01

Sez. 6, n. 39196 del 28/10/2021, Ferrari Michele, Rv. 282118 – 01

Sez. 6, n. 41074 del 10/11/2021, Huzu Ioan, Rv. 282260-01

Sez 6, n. 41075 del 10/11/2021, Sarwari Zahir Khan, Rv. 282120 – 01

  • detenuto
  • esecuzione della pena
  • estradizione

CAPITOLO II

ESTRADIZIONE CONDIZIONATA ED APPLICAZIONE DELL’ERGASTOLO IN SEDE ESECUTIVA: UN CASO COMPLESSO ALL’ESAME DELLE SEZIONI UNITE

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 La vicenda. - 2 I motivi di ricorso. - 3 La questione rimessa alle Sezioni Unite. - 4 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La vicenda.

La questione rimessa alle Sezioni Unite, in tema di estradizione, riguarda la vicenda di un imputato, cittadino italiano, detenuto in Spagna per un procedimento spagnolo, il quale, nel 1997, diveniva destinatario di una ordinanza di custodia cautelare da parte dell’A.G. italiana per un omicidio commesso in Italia nel marzo 1994. L’Italia ne aveva richiesto l’estradizione per consentirgli di partecipare al processo. Il 23.4.1999 la Spagna autorizzava la consegna temporanea a condizione che al termine del processo egli fosse ivi ritrasferito.

L’imputato giunse, quindi, in Italia l’11.4.2000, e partecipò al processo, venendo condannato all’ergastolo il 23.1.2003 con sentenza della Corte d’Assise, irrevocabile l’1.12.2010.

Fu riconsegnato alla Spagna il 26.1.2004. Pertanto, restò sul territorio italiano dal 2000 al 2004.

Nel frattempo, era divenuto destinatario di altra ordinanza di custodia cautelare emessa dall’A.G. italiana nel 2002 per un omicidio commesso all’estero, ma punibile in Italia, nel 1991.

Nel dicembre 2003, in particolare, l’Italia chiedeva nuovamente alla Spagna l’estradizione in estensione per tale fatto.

Nelle more della trattazione di questa richiesta, infatti, l’imputato – come evidenziato sopra - era stato riconsegnato alla Spagna, sulla base di quanto previsto in occasione della precedente consegna.

Nell’ottobre 2004 la Spagna autorizzava l’estensione dell’estradizione concessa con provvedimento del 23.4.1999, a condizione che la pena eventualmente inflitta non comportasse la privazione della libertà per tutta la vita. L’ordinamento spagnolo, infatti, in sostanza non prevedeva più in quel momento la pena perpetua.

L’imputato fu condannato all’ergastolo per questo fatto l’8.7.2009, con sentenza della Corte di Assise, irrevocabile il 27.3.2012.

Il difensore chiese che entrambi gli ergastoli fossero convertiti, in sede esecutiva, in condanne a trenta anni di reclusione, sul presupposto che la condizione posta esplicitamente in occasione dell’estensione dell’estradizione (ottobre 2004) valesse anche per la prima consegna del 23.4.1999 in cui, invece, essa non era stata espressamente menzionata.

La Corte d’Assise rigettò la domanda relativamente all’ergastolo inflitto con la prima sentenza, perché l’estradizione concessa per tale processo non prevedeva la condizione del divieto di sottoporre l’imputato all’ergastolo; accolse, invece, la domanda in relazione al secondo ergastolo, atteso che, in occasione dell’estensione dell’estradizione per il reato relativo, la condizione di non applicazione della pena perpetua era stata espressamente posta dalla Spagna.

2. I motivi di ricorso.

L’imputato ha proposto ricorso articolando due motivi di doglianza.

Col primo motivo ha dedotto la nullità dell’ordinanza impugnata per violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 720 e 721 dello stesso codice e delle relative norme della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, e successive modifiche.

In esso ha contestato la scissione del cumulo esecutivo e la non sostituzione della pena dell’ergastolo con pena temporanea in relazione alla prima estradizione. Sottolineava che la prima estradizione era solo temporanea, finalizzata a partecipare al primo processo, con ritorno in Spagna, per cui non vi era necessità di prevedere in quella sede la condizione sul divieto di ergastolo.

La condizione, invece, era stata posta quando si era trattato di chiudere definitivamente la procedura con l’estensione dell’estradizione, e quindi la clausola posta in tale occasione avrebbe dovuto valere anche per la prima consegna. In latri termini, la condizione apposta dalla Spagna all’atto della definitiva dell’imputato – che aveva chiuso le sue pendenze in quel Paese - doveva estendersi anche al primo ergastolo, e non valere solo per il secondo.

Col secondo motivo deduceva nullità dell’ordinanza per violazione di legge in relazione all’art. 73 cod. pen., asserendo che, indebitamente, la Corte di Assise aveva proceduto alla scissione del cumulo in pregiudizio del condannato.

3. La questione rimessa alle Sezioni Unite.

Con ordinanza Sez. 1, n. 31052 del 22/10/2020 veniva rimessa alle Sezioni Unite della Corte la seguente questione:

Se, concessa da parte di uno Stato che non ammette nel proprio ordinamento l’ergastolo, una prima estradizione verso l’Italia di un imputato con la sola condizione della temporaneità della consegna per il processo, e, successivamente, in occasione dell’estensione dell’estradizione per altro reato, concessa nuovamente l’estradizione dello stesso imputato, con la condizione espressa della non sottoposizione del medesimo alla pena dell’ergastolo, tale condizione valga anche per la prima estradizione, e, nel caso di condanna all’ergastolo per il reato della prima estradizione, possa essere fatta valere in sede esecutiva.

Nell’ordinanza di rimessione si premette che non è più in contestazione nella giurisprudenza della Corte il principio secondo cui l’applicazione dell’ergastolo in un caso in cui lo Stato richiesto dell’estradizione non ammette la detenzione perpetua (e, deve ritenersi, abbia consegnato la persona sulla base di tale presupposto), qualora ritenuta in concreto pena illegale, possa essere corretta in sede di incidente di esecuzione. Si citano, al riguardo, le decisioni di Sez. 1, n. 6278 del 16/7/2014, dep. 2015, Esposito, Rv. 262646-01, e Sez. 1, n. 1776 del 30/11/2017, dep. 2018, Burzotta, Rv. 272053-01, che hanno superato il precedente indirizzo giurisprudenziale che riteneva la violazione del principio assorbita dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Ciò, peraltro, non ha impedito di ritenere (in particolare Sez. 1, n. 24066 del 10/3/2009, Noschese, Rv. 244009-01) che, nel caso di reati puniti con l’ergastolo, anche se la pena eseguibile non possa superare il limite stabilito nella procedura di estradizione, la stessa vada in concreto, a tutti gli altri effetti, considerata come pena perpetua con le relative conseguenze in termini di applicazione dell’indulto e di concessione dei benefici premiali.

Quanto alla ricorrenza di più provvedimenti di estradizione, dei quali uno solo condizionato alla non applicazione dell’ergastolo, l’ordinanza ricorda che Sez. 1, n. 47935 del 11/10/2016, Cianciaruso, non mass., ha escluso l’efficacia espansiva di tale condizione anche alla diversa consegna in cui la condizione non era stata espressamente apposta.

Tuttavia, l’ordinanza osserva che la fattispecie oggetto di Sez. 1, “Cianciaruso”, era leggermente diversa da quella della presente vicenda, perché in quel caso la condizione era stata apposta con il primo provvedimento e non era stata reiterata con la seconda estradizione, per cui questa circostanza fu interpretata come un mutamento di orientamento da parte delle autorità spagnole.

Sez. 1, n. 12655 del 24/1/2019, Esposito, Rv. 276174-01, è giunta ad una conclusione sostanzialmente diversa, affermando che la condizione di commutazione dell’ergastolo posta dalla Spagna deve essere applicata alla pena complessiva risultante dall’unificazione dei titoli relativi a fatti anteriori alla consegna per la cui esecuzione è stata concessa l’estensione dell’estradizione pur senza la reiterazione della condizione. In tal modo ha superato la questione dell’interpretazione del silenzio dello Stato estradante in una delle due procedure.

Questa soluzione sembrerebbe trovare conforto, secondo il Collegio rimettente, anche nell’orientamento giurisprudenziale (Sez. 1, n. 47005 del 28/10/2008. Esposito, Rv. 242056-01) secondo cui, in sede esecutiva, quando concorrono due diverse modalità di esecuzione tra loro incompatibili (per esempio, una rappresentata dalla detenzione carceraria e l’altra caratterizzata dalla sospensione della detenzione con prescrizioni), non è possibile operare una scissione delle pene concorrenti ed il cumulo non può essere scomposto, determinandosi così un effetto che, a seconda delle circostanze del caso concreto, può anche essere meno favorevole per il condannato. Il Collegio ha, quindi, ritenuto di discostarsi da Sez. 1, “Esposito” per la determinante ragione che “occorre valorizzare, ai fini della soluzione della questione, l’autonomia di ciascun provvedimento di estradizione, non importando che taluno sia richiesto in estensione”.

Attesa la rilevanza generale della questione, che ha certamente ricadute anche su istituti di consegna analoghi intervenuti successivamente e che oggi, nell’Unione Europea, hanno sostituito l’estradizione, ed in particolare il mandato di arresto europeo esecutivo, l’ordinanza ritiene, quindi, che la questione sia meritevole di esame da parte delle Sezioni Unite.

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione con la sentenza Sez. U, n. 30305 del 25/3/2021, De Falco, Rv. 281558-01, affermando il principio così massimato:

In tema di estradizione dall’estero, la condizione, posta, in accoglimento di una domanda di estensione dell’estradizione, dallo Stato richiesto, di commutazione della pena dell’ergastolo in pena temporanea, non opera con riguardo ad altra pena dell’ergastolo - oggetto di cumulo con la prima - irrogata in diverso procedimento per il quale sia stato, in precedenza, emesso altro provvedimento di estradizione non condizionato. (Fattispecie di estradizione dalla Spagna il cui ordinamento non ammette la pena perpetua).

In sostanza, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la condizione di non applicazione della pena perpetua valesse solo per la specifica procedura nella quale era stata espressamente apposta.

Va premesso che, pur trattandosi di una procedura di consegna che coinvolgeva un altro Stato dell’Unione Europea (la Spagna), nella specie era applicabile ancora la procedura estradizionale e non quella dell’Unione, ed in particolare la decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo.

Infatti, sia ai sensi dell’art. 32 della suddetta decisione quadro - secondo cui le richieste di estradizione ricevute anteriormente all’1 gennaio 2004 sarebbero state disciplinate dagli strumenti esistenti all’epoca in materia di estradizione -, sia ai sensi dell’art. 40 della disciplina nazionale rappresentata dalla legge 22 aprile 2005, n. 69 - secondo cui alle richieste relative a reati commessi prima del 7 agosto 2002 sarebbero state applicabili le norme in materia di estradizione -, alla vicenda di specie, dove i due reati erano anteriori a quest’ultima data ed anche le due richieste di consegna erano anteriori all’1 gennaio 2004, la disciplina applicabile non poteva essere quella del mandato di arresto europeo. Pertanto, la domanda di consegna in esame è stata esaminata sulla base delle regole dettate dalla pertinente normativa pattizia (Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, e successive modifiche, vigente tra le parti dal 9 dicembre 1997, e convenzioni bilaterali) e dalle normative nazionali.

Nel merito, le Sezioni Unite hanno ricordato i due diversi orientamenti giurisprudenziali sul tema oggetto della questione.

Così, hanno ripercorso il primo indirizzo interpretativo secondo cui, in presenza di plurimi provvedimenti di estradizione, dei quali uno solo condizionato alla non applicazione dell’ergastolo, deve ritenersi esclusa l’efficacia espansiva di tale condizione anche alla diversa consegna in cui la condizione non sia stata espressamente apposta, ed hanno citato al riguardo Sez. 1, n. 47935 del 11/10/2016, Cianciaruso, e Sez. 5, n. 21761 del 29/01/2019, Burzotta.

Hanno poi ricordato il diverso orientamento giurisprudenziale che ha, invece, affermato che l’esclusione della pena perpetua non può essere relegata nell’ambito della sola condanna alla pena dell’ergastolo a cui formalmente accede la condizione di commutazione nella pena temporanea. Se così fosse, il significato di garanzia della condizione in parola sarebbe vanificato, qualora, in applicazione della regola sull’unicità del rapporto esecutivo e sulla necessaria unificazione dei plurimi titoli, si dovesse ritenere che la commutazione della pena è un adempimento i cui effetti si disperdano non appena si proceda al cumulo con le altre pene perpetue, tutte irrogate per fatti anteriori alla consegna e per le quali si è pertanto reso necessario il ricorso all’estensione dell’estradizione. In altre parole, una volta formato il cumulo delle pene per la cui esecuzione l’estradizione è stata reiteratamente richiesta, la condizione posta in relazione ad una di esse estende la sua forza preclusiva anche sulle altre (Sez. 1, n. 12655 del 24/01/2019, Esposito, Rv. 276164-01).

La decisione delle sezioni unite valorizza il fatto che l’apposizione di condizioni nella procedura estradizionale, riconosciuta anche dal nostro Stato all’art. 720, comma 4, cod. proc. pen., ha un valore determinante nell’ambito della stessa, nel senso che se dallo Stato richiesto non è formulata una espressa manifestazione di volontà in ordine ad una consegna condizionata, essa non è affatto desumibile sulla base di elementi presuntivi, nemmeno quando questi abbiano natura dispositiva e condizionino la effettività della tutela di diritti costituzionalmente garantiti dall’ordinamento straniero.

Solo se posta, la condizione comporta una responsabilità dello Stato richiedente, come evidenziato dalla dottrina, sicché non può esservi alcuna interferenza tra onere e responsabilità della condizione: il primo, infatti, resta nell’ambito della competenza funzionale dello Stato richiesto, la seconda invece segue le regole stabilite dall’ordinamento dello Stato richiedente.

In altri termini, solo se la condizione viene espressamente posta, lo Stato richiedente, nell’accettarne il contenuto in quanto compatibile con i principi fondamentali, può ritenersi impegnato a garantirne il rispetto a livello internazionale.

L’estradando, se ritiene che non sia stata apposta dallo Stato richiesto una condizione a tutela di un suo diritto (nel caso di specie, il divieto di applicazione della pena perpetua), può eventualmente attivare i rimedi giurisdizionali appositamente previsti nell’ordinamento dello Stato medesimo. Ma, nell’ipotesi in cui quei rimedi interni non siano stati utilizzati e il provvedimento di estradizione non contenga alcuna condizione, non è consentito al giudice italiano sindacare il provvedimento estero, nè apporre arbitrariamente in via interpretativa una condizione o una limitazione che lo Stato estero non ha previsto.

Il tutto, sul presupposto che quella che viene generalmente chiamata “estradizione suppletiva” non costituisce, in realtà, un’appendice della precedente procedura, ma un procedimento del tutto autonomo.

Nel caso di specie, quindi, secondo le Sezioni Unite, ciascuna procedura estradizionale era indipendente e l’apposizione di una condizione doveva essere esaminata singolarmente, senza possibilità di “estendere” quella apposta in una procedura all’altra.

Né, a tal fine, può essere attribuito valore determinate al fatto che, nella specie, la prima consegna fosse stata qualificata come “temporanea”, atteso che la previsione dell’obbligo di riconsegna non fa venire meno il principio per cui, una volta consegnata alle autorità dello Stato richiedente la persona oggetto della relativa domanda, il procedimento di estradizione, anche nella sua appendice propriamente esecutiva, deve considerarsi ormai esaurito.

In conclusione, le sezioni unite hanno affermato il seguente principio: «La commutazione dell’ergastolo in attuazione di una condizione apposta in un provvedimento di estensione dell’estradizione, adottato da uno Stato estero il cui ordinamento non ammette la pena perpetua, esplica i suoi effetti soltanto in relazione alla pena oggetto della condizione, nell’ambito della relativa procedura di estensione, senza operare con riguardo ad altra pena dell’ergastolo - oggetto di cumulo con la prima - irrogata con una condanna per la cui esecuzione sia stato in precedenza emesso altro provvedimento di estradizione non condizionato».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 1, n. 47005 del 28/10/2008. Esposito, Rv. 242056-01

Sez. 1, n. 24066 del 10/3/2009, Noschese, Rv. 244009-01

Sez. 1, n. 6278 del 16/7/2014, dep. 2015, Esposito, Rv. 262646-01

Sez. 1, n. 47935 del 11/10/2016, Cianciaruso

Sez. 1, n. 1776 del 30/11/2017, dep. 2018, Burzotta, Rv. 272053-01

Sez. 1, n. 12655 del 24/1/2019, Esposito, Rv. 276174-01

Sez. U, n. 30305 del 25/3/2021, De Falco, Rv. 281558-01

PARTE QUARTA LEGISLAZIONE EMERGENZIALE

  • legislazione sanitaria
  • malattia infettiva
  • procedura penale
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO I

LE PRINCIPALI QUESTIONI IN TEMA DI DISCIPLINA EMERGENZIALE

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Le disciplina emergenziale dettata nella “seconda fase” della pandemia da Covid-19. - 2 L’attuazione del contraddittorio nelle ipotesi di trattazione scritta. - 3 La richiesta di trattazione orale. - 4 Le impugnazioni proposte mediante p.e.c. - Indice delle sentenze citate

1. Le disciplina emergenziale dettata nella “seconda fase” della pandemia da Covid-19.

La legislazione dettata per far fronte all’esigenza di contenere i contagi da Covid-19, dopo la prima fase contraddistinta dal sostanziale “blocco” dell’attività giurisdizionale, ha seguito una diversa impostazione, evidentemente finalizzata a permettere la prosecuzione dell’attività pur adottando idonee cautele per limitare gli spostamenti ed i contatti tra i vari protagonisti del processo penale.

Tali esigenze hanno trovato risposta nella disciplina dettata dall’art.23 d.l. 28 ottobre 2020, n.137, che ha parzialmente riproposto soluzioni già sperimentate dal previgente art.83, d.l. 17 marzo 2020, n.18, pur ispirandosi ad una logica generale completamente diversa.

La norma in commento, infatti, non prevede né la sospensione dei procedimenti (e la conseguente necessità del rinvio dell’udienze), né la sospensione dei termini processuali, essendo state adottate apposite cautele solo per quanto concerne le modalità di svolgimento di quelle fasi processuali che richiedono la partecipazione delle parti.

A tal fine, l’impostazione generale della norma in esame mira chiaramente a limitare le necessità di spostamento e di accesso agli uffici giudiziari, privilegiando – salvo specifiche eccezioni – la celebrazione delle udienze da “remoto” e rimettendo alle parti l’eventuale opzione per la partecipazione in presenza.

Per quanto riguarda, in particolare, i giudizi pendenti in Cassazione, l’art.23, comma 8, d.l. 137 del 2020, ha previsto, quale regola ordinaria e generale, che i procedimenti da trattarsi nelle forme della camera di consiglio partecipata (art.127 cod.proc.pen.) ed in pubblica udienza (art.614 cod.proc.pen.) si svolgano senza l’intervento delle parti e del procuratore generale, salvo che una delle suddette parti faccia richiesta di discussione orale.

Disciplina sostanzialmente analoga è stata introdotta anche per i giudizi pendenti dinanzi alle Corti di appello.

Un’altra rilevantissima modifica, infine, è stata apportata con la legge di conversione del d.l. n. 137 del 2020 che, superando i dubbi emersi in giurisprudenza, ha affermato ce tutti gli atti di impugnazione, comunque denominati, possono essere presentati mediante p.e.c., indicando anche le regole cui la parte deve attenersi e le cause di inammissibilità.

2. L’attuazione del contraddittorio nelle ipotesi di trattazione scritta.

Procedendo all’esame delle principali questioni emerse con riferimento alla disciplina emergenziale sopra indicata, si rileva come la Corte sia stata chiamata a risolvere plurimi punti dubbi in ordine al concreto svolgimento del contraddittorio cartolare.

Si è posto, in particolare, il dubbio in ordine all’eventuale nullità conseguente dalla mancata formulazione delle richieste da parte del Procuratore generale, ovvero all’omesso invio delle stesse al difensore dell’imputato.

Con riguardo alla prima problematica, si è ritenuto che la mancata formulazione da parte del pubblico ministero delle conclusioni nel giudizio di appello, previste dall’art. 23-bis, comma 2, d.l. 28 ottobre 2020 n. 137, integra un’ipotesi di nullità generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. b), e non la nullità prevista alla lettera c) del medesimo articolo, poiché non pregiudica il diritto della difesa di formulare le proprie conclusioni (Sez.6, n. 26459 del 25/5/2021, Iannone, Rv. 282175-01).

Si tratta di una soluzione che si pone in contrasto con la precedente affermazione (Sez.2, n. 24629 del 2/7/2020, Vertinelli, Rv. 279552) secondo cui l’omessa formulazione, in tutto o in parte, delle conclusioni da parte del procuratore generale, prevista dall’art. 611, comma 1, cod. proc. pen., non impedisce la decisione del collegio, atteso che ricorre la nullità ex art. 178, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. unicamente nel caso in cui il pubblico ministero non sia stato messo nelle condizioni di concludere. (Fattispecie in cui il procuratore generale, nella requisitoria scritta, aveva formulato le proprie conclusioni soltanto nei confronti di alcuni ricorrenti).

Una diversa problematica si è posta con riguardo al caso in cui le conclusioni del Procuratore generale siano state formulate, sia pur tardivamente.

In tal caso, infatti, si è affermato che nel vigore della disciplina emergenziale relativa alla pandemia da Covid-19, il mancato rispetto dei termini per il deposito delle conclusioni del Procuratore generale, di cui all’articolo 23, comma 8. d.l. 28 ottobre 2020 n. 137, non integra un’ipotesi di nullità generale ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen., salvo che ciò abbia comportato per le altre parti la impossibilità di concludere. (Fattispecie in cui, nonostante il tardivo invio della requisitoria scritta, il difensore aveva depositato tempestivamente una memoria contenente ampie repliche alle argomentazioni sostenute dalla pubblica accusa) (Sez.6, n. 28032 del 30/4/2021, Simbari, Rv. 281694-02).

Ulteriore questione si è posta nel caso in cui le conclusioni, pur essendo state ritualmente depositate, non siano state comunicate tempestivamente al difensore dell’imputato.

In tal caso si è affermato che «In tema di giudizio d’appello celebrato con le forme del contraddittorio scritto, ai sensi dell’art. 23-bis del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, la trasmissione non immediata delle conclusioni del pubblico ministero al difensore dell’imputato, come disposto dal comma 2 del predetto articolo non integra di per sé una violazione del diritto di difesa, in quanto, stante il carattere tassativo delle nullità e l’assenza di una sanzione processuale per tale ipotesi, è necessario specificare il concreto pregiudizio derivatone alle ragioni della difesa, come - a titolo esemplificativo - la necessità di approfondimenti per la laboriosità delle imputazioni o per la complessità delle tesi avversarie» (Sez.2, n. 34914 del 7/9/2021, Carlino, Rv. 281941).

Viceversa, qualora le conclusioni non siano state comunicate alle altre parti, è stata ritenuta sussistente una nullità per violazione del diritto di difesa, sul presupposto che « nel vigore della disciplina emergenziale pandemica, la mancata comunicazione in via telematica delle conclusioni del pubblico ministero alla difesa dell’imputato, prevista dall’art. 23-bis, comma 2, del d.l. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito in legge 18 dicembre 2020 n. 176, integra un’ipotesi di nullità generale a regime intermedio ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. (In motivazione la Corte, in funzione del carattere "cartolare" del giudizio, ha precisato che la nozione di intervento dell’imputato non può essere intesa restrittivamente nel senso di presenza fisica, ma come partecipazione attiva e cosciente, con garanzia effettiva dei diritti e facoltà di cui è titolare)» (Sez.5, n. 20885 del 28/4/2021, Rv. 281152; in senso conforme anche Sez. 3, n. 38177 del 7/9/2021, n.m.).

3. La richiesta di trattazione orale.

La disciplina emergenziale ha diversificato le modalità di trattazione dei procedimenti in appello ed in cassazione, introducendo sostanzialmente due riti alternativi tra di loro, il primo basato sulla trattazione scritta, mediante scambio di memorie e repliche, il secondo, invece, consistente nell’ordinaria discussione in presenza.

Quest’ultima soluzione, tuttavia, è divenuta recessiva, nel senso che la trattazione avviene, in via ordinaria, in forma scritta, salva restando la possibilità per il ricorrente di chiedere la discussione orale, cui consegue il diritto alla trattazione nelle forme dell’udienza partecipata.

Si è affermato, infatti, che nel vigore della disciplina emergenziale di contenimento della pandemia da Covid-19, ove il difensore dell’imputato abbia inoltrato rituale e tempestiva richiesta di trattazione orale, lo svolgimento del processo con rito camerale non partecipato determina una nullità generale a regime intermedio per violazione del contraddittorio, deducibile con ricorso per cassazione (Sez.5, n. 44646 del 14/1/2021, Giaconi, Rv. 282172). In senso conforme, si è ritenuto che la celebrazione del giudizio di appello in camera di consiglio, senza l’intervento delle parti, integra un’ipotesi di nullità generale a regime intermedio ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., qualora la richiesta di trattazione orale sia stata trasmessa tempestivamente in cancelleria ad un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato dall’art. 23, comma 2, d.l. 9 novembre 2020 n. 149, in quanto non ancora operativo (Sez.2, n. 35243 dell’8/7/2021, Cialdella, Rv. 282014).

La richiesta di trattazione orale, inoltre, è stata ritenuta idonea a determinare la celebrazione dell’udienza in presenza anche qualora, a fronte di una pluralità di ricorsi proposti avverso lo stesso provvedimento, la richiesta di discussione sia stata formulata tempestivamente solo da alcune delle parti legittimate (Sez.1, n.8863 del 4/3/2021, Rv. 280605).

A fronte della tempestiva richiesta di discussione orale, si è posta l’ulteriore problematica concernente la revocabilità della stessa.

La Cassazione ha escluso la possibilità della revoca della richiesta di discussione orale, affermando che la rinuncia alla richiesta di discussione orale, formulata ai sensi dell’art. 23, comma 4, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, non determina il mutamento del rito in quello cartolare, sicché la parte non rinunciante ha diritto di concludere oralmente in udienza. (In motivazione la Corte ha precisato che, ove si consentisse il mutamento del rito per effetto della rinuncia unilaterale alla discussione, verrebbero leso il diritto di difesa delle altre parti che hanno riposto legittimo affidamento sulla possibilità di rassegnare conclusioni orali, non provvedendo al deposito di conclusioni scritte) (Sez. 6, n. 22248 del 18/5/2021, Rv. 281520).

Il principio è stato successivamente ribadito, osservandosi come la richiesta di trattazione orale deve considerarsi irretrattabile, atteso che in caso contrario non sarebbe possibile rispettare i termini previsti dall’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, per la forma di trattazione alternativa, caratterizzata dall’instaurazione di un contraddittorio meramente cartolare, con necessità di differire ulteriormente la trattazione, incidendo sulla durata del procedimento in pregiudizio del bene tutelato dall’art. 111, comma secondo, Cost. (Sez. 2, n. 42410 del 17/6/2021, Basile, Rv. 282207).

4. Le impugnazioni proposte mediante p.e.c.

Come anticipato in premessa, uno degli interventi emergenziali di maggior rilievo ha riguardato la disciplina della proposizione delle impugnazioni, per le quali è stata espressamente ammessa la possibilità dell’invio mediante p.e.c. ex art. 24 d.l. n. 137 del 2020, come modificato dalla legge di conversione n. 178 del 18 dicembre 2020.

L’importanza della normativa in esame è data non solo dall’incidenza sui procedimenti in corso, ma anche e soprattutto dal fatto di costituire una sorta di sperimentazione di quello che potrebbe divenire, a regime, lo strumento ordinario per la proposizione delle impugnazioni.

Nella prima fase di applicazione dell’istituto, i principali dubbi interpretativi hanno riguardato essenzialmente le modalità di presentazione delle impugnazioni ed i requsiti di ammissibilità.

Con riguardo all’individuazione dell’indirizzo di p.e.c. cui inviare l’atto, sono sorte plurime questioni, posto che gli indirizzi abilitati sono solo quelli indicati con apposito provvedimento del DGISIA. In alcuni casi l’atto è stato inviato ad indirizzi diversi (anche indicati in provvedimenti organizzativi interni all’ufficio giudiziario), dal che è sorto il dubbio in ordine all’ammissibilità dell’impugnazione.

Si è sostenuto che nei procedimenti cautelari è inammissibile la richiesta di riesame trasmessa ad una casella di posta elettronica certificata diversa da quella indicata dal provvedimento del 9 novembre 2020 emesso dal direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, ai sensi del comma 4 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazione dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, non rilevando neppure che l’invio sia stato effettuato al diverso indirizzo di posta elettronica indicato con provvedimento del Presidente del Tribunale, non potendo questi derogare alla previsione di legge (Sez.6, n. 46119 del 9/11/2021, n.m.; in senso conforme si veda anche Sez.3, n. 26009 del 29/4/2021, Rv. 281734).

Per converso, si è ritenuto che nei procedimenti cautelari, non costituisce causa di inammissibilità dell’impugnazione la sua trasmissione ad un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) dell’ufficio giudiziario diverso da quello indicato come abilitato dal provvedimento organizzativo del presidente del tribunale, ma compreso nell’elenco allegato al provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, contenente l’individuazione degli indirizzi PEC degli uffici giudiziari destinatari dei depositi di cui all’art. 24, comma 4, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in quanto tale sanzione processuale è prevista dall’art. 24, comma 6-sexies, lett. e), d.l. cit. esclusivamente in caso di utilizzo di indirizzi PEC di destinazione non ricompresi neppure nell’allegato del citato provvedimento direttoriale (Sez.5, n. 24953 del 10/5/2021, Garcia, Rv. 281414).

La medesima ratio ha indotto anche ad affermare che sono inammissibili i motivi nuovi del ricorso per cassazione trasmessi a una casella di posta elettronica certificata diversa da quella individuata dal provvedimento del 9 novembre 2020 emesso dal direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, ai sensi dell’art. 24, comma 4, d.l.28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazione dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 (Sez.1, n. 17052 del 2/3/2021, Bloise, Rv. 281386).

A fronte della inequivoca previsione che ha consentito alle parti private l’utilizzo della p.e.c. per l’invio delle impugnazioni, altrettanto non è stato previsto per la parte pubblica.

La Corte, infatti, ha chiarito che è inammissibile l’impugnazione inviata dal pubblico ministero a mezzo PEC, in quanto l’art. 24 del d.l. 28 ottobre 2020, n.137, come modificato dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176, consente tale modalità di deposito alle sole parti private, cui testualmente si riferisce la norma in esame, richiedendo anche che l’atto sia sottoscritto con firma digitale, strumento di cui attualmente non dispongono gli uffici di Procura (Sez.6, n. 24714 dell’11/5/2021, Sinatra, Rv. 281529). In altra coeva pronuncia, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente, in riferimento agli art. 3, 32 e 111 Cost., costituendo la norma, ad operatività temporalmente limitata al perdurare della emergenza pandemica, un ragionevole punto di compromesso tra esigenze concorrenti, avuto riguardo alle difficoltà tecniche legate all’implementazione dello strumento della firma digitale ed ai flussi enormemente più contenuti degli accessi agli uffici giudiziari legati ai depositi della parte pubblica, rispetto a quelli relativi all’utenza privata (Sez. 6, n. 29199 dell’11/5/2021, Adamo, n.m.).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 24629 del 2/7/2020. Vertinelli, Rv. 279552

Sez. 5, n. 44646 del 14/1/2021, Giaconi, Rv. 282172

Sez. 1, n. 8863 del 4/3/2021, Rv. 280605

Sez. 1, n. 17052 del 2/3/2021, Bloise, Rv. 281386

Sez. 5, n. 20885 del 28/4/2021, Rv. 281152

Sez. 3, n. 26009 del 29/4/2021, Rv. 281734

Sez. 6, n. 28032 del 30/4/2021, Simbari, Rv. 281694-02

Sez. 5, n. 24953 del 10/5/2021, Garcia, Rv. 281414

Sez. 6, n. 24714 dell’11/5/2021, Sinatra, Rv. 281529

Sez. 6, n. 29199 dell’11/5/2021, Adamo

Sez. 6, n. 22248 del 18/5/2021, Rv. 281520

Sez. 6, n. 26459 del 25/5/2021, Iannone, Rv. 282175-01

Sez. 2, n. 42410 del 17/6/2021, Basile, Rv. 282207

Sez. 2, n. 35243 dell’8/7/2021, Cialdella, Rv. 282014

Sez. 2, n. 34914 del 7/9/2021, Carlino, Rv. 281941

Sez. 3, n. 38177 del 7/9/2021, n.m.

Sez. 6, n. 46119 del 9/11/2021, n.m.

  • malattia infettiva
  • procedura penale
  • prescrizione dell'azione
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO II

IL REGIME DELLA PRESCRIZIONE INTRODOTTO DALLA DISCIPLINA EMERGENZIALE

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La soluzione delle Sezioni Unite: l’interpretazione letterale. - 2.1 L’interpretazione sistematica. - 3 Il necessario collegamento tra “stasi” del procedimento e sospensione della prescrizione. - 4 La delimitazione temporale dell’effetto sospensivo. - 5 La sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 4. - 6 La sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 9. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

Al fine di fronteggiare la pandemia da Covid-19, il Legislatore è intervenuto al fine di disciplinare le modalità di svolgimento dei procedimenti ritenuti indifferibili, imponendo il rinvio d’ufficio e la sospensione di tutti i termini processuali per la gran parte dei giudizi penali.

Dopo una iniziale disciplina unitaria, applicabile a tutte le diverse fasi del procedimento, con la legge di conversione del d.l. n.18 del 2020, il Legislatore ha introdotto una previsione speciale destinata ai soli giudizi pendenti in sede di legittimità, stabilendo che – per quelli pendenti e pervenuti in cancelleria nel periodo emergenziale (9 marzo-30 giugno) – la prescrizione rimanesse sospesa fino al 31 dicembre 2020 (art.83, comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020).

La norma sopra indicata ha dato luogo, fin dalle prime letture, a dubbi interpretativi in merito all’individuazione dei presupposti legittimanti l’assoggettamento ad un periodo di sospensione della prescrizione più ampio di quello previsto in via generale dall’art.83, commi 4 e 9.

Ancor prima che sorgesse un contrasto, l’Ufficio spoglio della Prima sezione ha chiesto fossero le Sezioni Unite a pronunciarsi, data la speciale rilevanza della questione, in ordine alla possibilità di applicare la sospensione della prescrizione disciplinata dall’art.3-bis dell’art.83 a tutti i procedimenti pendenti in Cassazione, ritenendo che l’ulteriore specificazione contenuta nella norma – facente riferimento alla data in cui il ricorso è pervenuto alla cancelleria della Corte – costituirebbe un mero completamento, senza assurgere a requisito autonomo e necessariamente compresente rispetto alla pendenza del ricorso.

Sottolineava la nota dell’Ufficio spoglio che risultava già il formarsi di un diverso e più restrittivo orientamento, recepito dalla Quinta Sezione, pertanto, si è ritenuto opportuno investire le Sezioni Unite in ordine al quesito se la sospensione della prescrizione di cui all’art. 83, comma 3-bis, d.l. n. 18 del 2020 operi con riferimento ai soli procedimenti che, tra quelli pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione, siano pervenuti alla cancelleria della stessa nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, ovvero con riferimento a tutti i procedimenti comunque pendenti in detto periodo, anche se non pervenuti alla cancelleria tra le suddette date.

2. La soluzione delle Sezioni Unite: l’interpretazione letterale.

Al quesito in esame, le Sezioni Unite (Sez.U, n. 5292 del 26/11/2020 – dep.2021, Sanna) hanno risposto valorizzando sia il dato letterale che l’interpretazione logico-sistematica del complesso degli interventi emergenziali susseguitisi nella primavera del 2020, affermando che «In tema di disciplina della prescrizione a seguito dell’emergenza pandemica da Covid-19, la sospensione del corso della prescrizione nel giudizio di legittimità, prevista dal comma 3-bis dell’art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, si applica ai procedimenti per i quali ricorra la duplice condizione dell’essere pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e di essere pervenuti alla cancelleria della stessa nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020. (In motivazione, la Corte ha precisato che, per i procedimenti pervenuti dal 9 marzo, l’effetto sospensivo si produce a partire dal 30 aprile 2020, data di entrata in vigore della legge di conversione che ha introdotto il comma 3-bis dell’art.83, mentre per quelli iscritti in data successiva al 30 aprile 2020, la sospensione opera fin dal momento della loro iscrizione)» (Rv. 280432 - 01).

Le Sezioni unite hanno valorizzato la centralità dell’interpretazione letterale della norma, lì dove prevede che la sospensione della prescrizione fino al 31 dicembre 2020 si applica ai soli procedimenti “pendenti” dinanzi alla Corte di cassazione “e” pervenuti nel periodo emergenziale.

Si afferma, infatti, che la formulazione utilizzata al comma 3-bis dell’art.83 intende chiaramente cumulare il requisito della pendenza del procedimento e quello dell’essere lo stesso pervenuto alla cancelleria della Corte nel periodo emergenziale, posto che i sintagmi che li esprimono sono collegati dalla congiunzione “e”, in funzione copulativa, come desumibile dal fatto che, altrimenti, il secondo attributo risulterebbe privo di un soggetto.

In buona sostanza, la norma in esame si sarebbe prestata ad una diversa interpretazione letterale solo se ci si fosse riferiti ai “procedimenti pendenti” e ai “procedimenti pervenuti”, nel qual caso si sarebbe potuto sostenere che vi era una duplice categoria di procedimenti soggetti alla sospensione della prescrizione. La diversa locuzione utilizzata, invece, rende evidente come la norma individua un’unica categoria di procedimenti, rispetto ai quale è richiesto il concomitante requisito della pendenza e della “pervenienza” nel periodo considerato.

Accanto all’argomento strettamente letterale, le Sezioni unite hanno valorizzato anche l’interpretazione logica della norma, sottolineando come, qualora non si ritenesse che l’iscrizione del procedimento in un dato periodo costituisca un autonomo requisito, ne conseguirebbe l’assoluta inutilità della previsione normativa, posto che sarebbe stato sufficiente precisare che per il regime di cui al comma 3-bis si applica ai procedimenti pendenti in Cassazione.

Viceversa, l’aver introdotto il riferimento alla data in cui tali procedimenti sono stati iscritti, rende evidente che si sia voluto circoscrivere l’ambito applicativo della sospensione della prescrizione ai soli procedimenti che, proprio perché iscritti nel periodo emergenziale, hanno subito un inevitabile rallentamento nella trattazione.

Se, pertanto, il riferimento all’epoca di iscrizione dei procedimenti non è certamente privo di portata normativa, le Sezioni Unite si sono fatte anche carico di attribuire un autonomo valore semantico al requisito della pendenza, a fronte dell’obiezione secondo cui – essendo i procedimenti iscritti per ciò solo “pendenti” – non si giustificherebbe l’espresso richiamo a quest’ultimo elemento.

Invero, le Sezioni Unite hanno segnalato come anche il requisito della “pendenza” ha un ruolo autonomo e diverso rispetto a quello della data in cui il procedimento è pervenuto.

Il fatto che la disciplina della sospensione della prescrizione faccia riferimento anche alla pendenza del procedimento si giustifica in ragione della possibilità che il ricorso, pur iscritto nel periodo emergenziale, sia stato immediatamente definito e, per tale ragione, non sia più pendente dinanzi alla Corte di Cassazione ma, eventualmente, sia ritornato dinanzi al giudice di merito per effetto di un annullamento con rinvio. In questa eventualità, il tenore dell’art.83, comma 3-bis, esclude che la sospensione della prescrizione possa restare sospesa fino alla data del 31 dicembre 2020, proprio perché la norma ricollega tale estensione della sospensione al duplice requisito della pendenza – evidentemente attuale rispetto al momento in cui si valuta la prescrizione – e dell’iscrizione nell’arco del periodo temporale.

Sottolineano le Sezioni Unite come in tal senso si è già espressa Sez.5, n.26215 del 13/07/2020, Aloi, Rv.279766, secondo cui l’intenzione del Legislatore è stata quella di limitare la sospensione del decorso della prescrizione a quei procedimenti effettivamente gravanti sul ruolo della Cassazione e non a quelli che, seppur pervenuti nel periodo emergenziale, siano stati già trattati al momento dell’entrata in vigore della norma.

La necessità di tale specificazione, peraltro, consegue anche dal fatto che il comma 3-bis è stato aggiunto all’art. 83, d.l. n.18 del 2020 solo dalla legge di conversione – in vigore dal 30 aprile 2020 – sicchè ben era possibile che vi fossero procedimenti, pervenuti nel periodo emergenziale (e quindi dopo il 9 marzo), ma già definiti eventualmente con rinvio a seguito di annullamento.

In definitiva, l’interpretazione che le Sezioni Unite hanno recepito è l’unica che consente di attribuire al dato letterale un compiuto portato normativo, evitando di operare un’indebita elisione del riferimento alla data di iscrizione del ricorso.

Peraltro, la soluzione recepita dal massimo organo nomofilattico, è quella che è stata recepita dalla giurisprudenza sostanzialmente unanime delle sezioni semplici, pronunciatesi sulla questione nelle more della decisione delle Sezioni Unite (in tal senso si veda Sez.5, n.25222 del 14/07/2020, Lungaro, Rv.279596; Sez.3, n.25808 del 3/7/2020, Pianeta, Rv.279891; Sez.5, n.26215 del 13/07/2020, Aloi, Rv.279766 e Sez.5, n.26217 del 13/7/2020, G., Rv.279598; analogo principio è stato recepito, pur senza approfondire la problematica in esame, da Sez.5, n.28558 del 14/7/2020, Cafagna, n.m.; Sez.5, n.29967 del 15/9/2020, La Vigna, n.m.; Sez.2, n.26590 dell’11/09/2020, Capiniti, n.m.; Sez.2, n.25967 del 16/07/2020, Rusiello, n.m.; Sez.1, n.31013 del 30/10/2020, n.m.).

2.1. L’interpretazione sistematica.

Accanto agli argomenti desunti dall’interpretazione letterale della norma, le Sezioni Unite hanno individuato ragioni di sistema che giustificano una lettura restrittiva dell’art. 83, comma 3-bis, d.l. n.83 del 2020.

La motivazione della sentenza in commento contiene una esaustiva disamina di tutti i provvedimenti emergenziali che – a volte anche in maniera convulsa – si sono accavallati nella primavera del 2020, per effetto dei quali si è passati da una iniziale limitazione territoriale delle misure volte a prevenire il diffondersi della pandemia ad una estensione delle stesse a tutto il territorio nazionale. Parimenti, anche l’ambito temporale dell’emergenza ha subito plurimi rimaneggiamenti, essendo stato spostato sempre più in avanti il termine della fase emergenziale.

Dall’esame della normativa, le Sezioni Unite hanno tratto alcuni elementi caratterizzanti consistenti in primo luogo nel ritenere che il Legislatore ha inteso introdurre non già un mero differimento di determinate attività processuali (ed in particolare delle udienze), bensì ha individuato una vera e propria ipotesi di sospensione del processo.

A tale conclusione le Sezioni Unite sono giunte sottolineando come non solo è stato previsto il rinvio delle udienze ricadenti nel primo e secondo periodo emergenziale, ma è stata anche introdotta un’ipotesi generalizzata di sospensione di tutti i termini processuali che andavano a scadenza del suddetto periodo. Ciò ha comportato una “stasi” dell’attività giudiziaria – salve le eccezioni espressamente previste – funzionale al contenimento dell’emergenza pandemica, sicchè non si è ritenuto necessario specificare che le misure adottate integrassero un’ipotesi di sospensione dei procedimenti, essendo tale conclusione implicitamente desumibile dal blocco integrale dell’attività giudiziaria.

Argomentando in tal senso e richiamando le convergenti conclusioni cui è giunta Corte cost., sent. n. 278 del 2020, le Sezioni Unite hanno concluso nel senso di ritenere che le previsioni contenute all’art. 83, commi 1, 2 e 7, d.l. n.18 del 2020, nella misura in cui hanno determinato una vera e propria sospensione del procedimento, comportano l’applicazione della sospensione della prescrizione in conformità a quanto previsto in via generale dall’art.159 cod.pen., ritenendo che le disposizioni processuali in esame costituiscono un mero elemento normativo della fattispecie disciplinata dalla norma sostanziale.

3. Il necessario collegamento tra “stasi” del procedimento e sospensione della prescrizione.

L’iter argomentativo seguito dalle Sezioni Unite, pienamente collimante con quanto ritenuto anche dalla Corte costituzionale, si fonda evidentemente sulla necessità di ancorare la sospensione della prescrizione all’impedimento assoluto alla trattazione dei procedimenti.

Sul piano della legittimità costituzionale dell’art. 83, d.l. n.18 del 2020, la Corte costituzionale ha fatto leva proprio sul presupposto secondo cui a fronte della “stasi” imposta da una norma di legge, non possa che conseguire anche la sospensione della prescrizione, proprio perché l’impedimento alla prosecuzione dei procedimenti è imposto dalla norma.

Tale elemento è stato valorizzato dalle Sezioni Unite non solo per fornire la corretta interpretazione dell’art. 83, comma 3-bis, ma più in generale per disegnare il regime della sospensione della prescrizione prevista dalla normativa emergenziale per tutti i procedimenti e, quindi, anche per quelli non rientranti nella sottocategoria descritta dal citato comma 3-bis.

Per quanto attiene al primo aspetto, le Sezioni Unite hanno sottolineato come l’interpretazione secondo cui l’art.83, comma 3-bis, consentirebbe di estendere la sospensione della prescrizione fino al 31 dicembre 2020 per tutti i procedimenti “pendenti” in Cassazione, comporterebbe una frattura rispetto al principio secondo cui la sospensione è necessariamente legata all’impedimento della trattazione.

Si afferma testualmente che «estendendosi l’ambito di operatività della norma, dovrebbe sospendersi il corso della prescrizione anche ai procedimenti pervenuti ben prima del 9 marzo in cui sia stata fissata udienza per una data successiva al 30 giugno 2020 e questa sia stata poi regolarmente celebrata. Il che renderebbe difficilmente giustificabile sul piano della ragionevolezza l’intervento normativo, risultando evidente che in tale ipotesi – tutt’altro che residuale ovviamente – l’emergenza pandemica non ha avuto alcun concreto riflesso sui tempi della decisione del procedimento».

Viceversa, ove si interpreti l’art. 83, comma 3-bis, nel senso di richiedere, oltre alla pendenza, anche l’avvenuta iscrizione nel periodo emergenziale, la norma risulta pienamente conforme all’ispirazione di fondo che vuole la sospensione della prescrizione collegata all’impossibilità di trattazione.

Osserva la Corte, infatti, come l’esigenza di differire i procedimenti già fissati ha comportato l’impossibilità di procedere alla tempestiva fissazione di quelli pervenuti successivamente ed in concomitanza del periodo emergenziale i quali, pertanto, hanno subito un inevitabile rallentamento.

Partendo da tale osservazione, si è ritenuto che la disciplina dettata dal comma 3-bis svolge una funzione complementare rispetto alla complessiva disciplina della sospensione della prescrizione prevista dall’art. 83, consentendo di evitare l’effetto pregiudizievole derivante dal rinvio dei procedimenti già pendenti che ha inevitabilmente determinando uno slittamento della fissazione di quelli sopravvenuti nel periodo emergenziale.

Peraltro, è stato anche sottolineato come la necessità di prevedere una sospensione della prescrizione più ampia per i soli procedimenti pervenuti nel periodo emergenziale, si giustifica appieno in considerazione del fatto che i giudizi approdano in fase di legittimità quando gran parte del tempo necessario al maturare della prescrizione è già trascorso.

4. La delimitazione temporale dell’effetto sospensivo.

Il principio affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui l’art.83, comma 3-bis, d.l. n.18 del 2020 si applica ai soli procedimenti pervenuti in Cassazione nel periodo emergenziale, è stato ulteriormente circoscritto.

Le Sezioni Unite, infatti, hanno evidenziato come il comma 3-bis non era contenuto nell’originaria formulazione del’art.83, essendo stato aggiunto solo in sede di conversione dalla l.n 27 del 2020, entrata in vigore il 30 aprile 2020.

Ciò comporta che con riferimento ai procedimenti pervenuti prima di quella data, pur essendo assoggettati alla norma in questione, l’effetto sospensivo si produce solo a decorrere dall’entrata in vigore del comma 3-bis.

Per i procedimenti che, invece, sono pervenuti in Cassazione a decorrere dal 30 aprile 2020, l’effetto sospensivo si applica per l’intero periodo e, quindi, dalla data dell’iscrizione fino al 31 dicembre 2020.

5. La sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 4.

La pronuncia in esame non si è limitata ad affrontare il solo quesito relativo all’interpretazione dell’art.83, comma 3-bis, ma ha anche verificato se ed a quali condizioni fosse applicabile l’ipotesi più generale di sospensione della prescrizione dettata dal comma 4. Nel compiere tale vaglio e nell’evidente consapevolezza di come la normativa emergenziale non sia di agevole lettura, le Sezioni Unite hanno tracciato un percorso complessivo volto ad indicare a quali condizioni e con quali modalità si computa la sospensione della prescrizione.

Il dato di partenza è costituito dall’espressa previsione contenuta all’art. 83, comma 4, lì dove la sospensione della prescrizione viene direttamente ricollegata alla sospensione dei termini previsti dall’art. 83, comma 2. Al contempo, le Sezioni Unite evidenziano come analogo effetto si verifica anche qualora, nel periodo emergenziale, ricadeva un’udienza per la quale si è reso necessario il rinvio d’ufficio.

Quanto detto comporta che i presupposti che determinano la sospensione del procedimento sono essenzialmente due e, cioè, il differimento dell’udienza, ovvero la sospensione di un termine processuale con scadenza nel periodo emergenziale.

Ciò posto, la sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020, potrà operare solo ed esclusivamente nel caso in cui ricorra una delle suddette condizioni.

Con specifico riguardo al giudizio di cassazione, le Sezioni Unite sottolineano come la fissazione di un’udienza nell’intervallo compreso tra il 9 marzo e l’11 maggio 2020 costituisce, di fatto, l’ineludibile condizione affinché operi la sospensione della prescrizione e ciò perché, in quel giudizio, non vi sono termini suscettibili di autonoma sospensione ex art.83, comma 2, se non quelli espressamente previsti per il deposito di memorie ex art.611 cod.proc.pen.

Altro termine suscettibile di sospensione ai sensi del comma 2 e, quindi, rilevante per l’eventuale sospensione della prescrizione, è quello previsto dall’art.617, comma 2, cod.proc.pen. relativo al deposito della sentenza. La sospensione del suddetto termine nel periodo emergenziale potrà assumere rilievo ai fini della sospensione della prescrizione esclusivamente nell’ipotesi in cui sia stato disposto l’annullamento con rinvio, posto che nei restanti casi il giudizio deve ritenersi definito.

Sulla base di tali argomentazioni, le Sezioni Unite hanno concluso nel senso che la sospensione ex art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020 può operare esclusivamente nel caso in cui il procedimento abbia concretamente subito una “stasi”, derivante dal rinvio dell’udienza o dalla sospensione di un termine procedurale.

Al di fuori di tali ipotesi, invece, non è configurabile la sospensione del procedimento, proprio perché non si è determinato alcun “rallentamento” nella trattazione del procedimento. In tal modo, le Sezioni Unite hanno ritenuto non corretta la diversa soluzione che era stata recepita da Sez.2, n.22506 del 16/7/2020, Chiacchio, Rv.279288, secondo cui la sospensione della prescrizione la sospensione della decorrenza dei termini, prevista dalla legge n. 27 del 2020 per il periodo ricompreso tra il 9 marzo ed il 30 giugno 2020, si applica a tutti i procedimenti pendenti e, quindi, anche a quelli per i quali l’udienza di trattazione era stata già fissata per una data successiva al periodo emergenziale.

Sottolineano le Sezioni Unite come la soluzione recepita dalla Seconda Sezione non solo risulta in contrasto con il dato letterale, ma anche con la ratio della norma, che è quella di limitare la moratoria della causa estintiva del reato al tempo in cui il procedimento ha subito una effettiva stasi a causa delle misure adottate per arginare la diffusione della pandemia.

Tale affermazione, peraltro, assume particolare rilevanza anche nei giudizi di merito, rispetto ai quali – pur potendosi individuare una molteplicità di termini suscettibili di sospensione ex art.83, comma 2 – dovrà pur sempre applicarsi il principio secondo cui la sospensione della prescrizione di cui al comma 4 potrà operare solo ed esclusivamente con riferimento a quei processi la cui udienza è stata differita, ovvero per i quali era prevista la scadenza di un termine perentorio nel periodo emergenziale.

Solo a tali condizioni, infatti, si può individuare una diretta correlazione tra causa di sospensione del procedimento e della prescrizione, di modo da poter far ritenere che vi è stata l’obiettiva impossibilità di proseguire nella trattazione del procedimento.

È stato, pertanto, affermato il principio secondo cui «In tema di disciplina della prescrizione a seguito dell›emergenza pandemica da Covid-19, la sospensione del termine per complessivi sessantaquattro giorni, prevista dall›art. 83, comma 4, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, si applica ai procedimenti la cui udienza sia stata fissata nel periodo compreso dal 9 marzo all›11 maggio 2020, nonché a quelli per i quali fosse prevista la decorrenza, nel predetto periodo, di un termine processuale. (In motivazione, la Corte ha escluso che la sospensione della prescrizione possa operare in maniera generalizzata, per tutti i procedimenti pendenti, in quanto la disciplina introdotta all›art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020, presuppone che il procedimento abbia subito una effettiva stasi a causa delle misure adottate per arginare la pandemia)» (Rv. 280432 - 02).

6. La sospensione della prescrizione prevista dall’art.83, comma 9.

L’ulteriore aspetto esaminato dalle Sezioni Unite concerne il regime della sospensione della prescrizione disciplinato dal comma 9 dell’art.83, che si riferisce al c.d. “secondo periodo emergenziale” e, cioè, all’intervallo di tempo tra il 12 maggio ed il 30 giugno 2020, rispetto al quale il comma 7 ha demandato ai presidenti degli uffici giurisdizionali di stabilire – a seconda delle condizioni epidemiche locali – se e quali procedimenti trattare.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato come la logica sottesa alla sospensione della prescrizione dettata dal comma 9 presuppone, al pari del comma 4, una “stasi” del procedimento che ne abbia impedito la prosecuzione. Tuttavia, il comma 9 non ricalca appieno la disciplina dettata per il primo periodo emergenziale.

Mentre il comma 4 dell’art.83 ha collegato la sospensione della prescrizione non necessariamente al rinvio dell’udienza, ma più in generale alla sospensione dei termini disposta dal comma 2, il comma 9 ha previsto una «inscindibile connessione tra sospensione della prescrizione, data di fissazione dell’udienza rinviata e durata degli intervalli temporali normativamente determinati».

Si tratta di una ricostruzione pienamente rispettosa del dato letterale, posto che il comma 9 testualmente prevede che il termine di prescrizione rimane sospeso «per il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lettera g), e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020».

Una volta acclarato che il presupposto della sospensione della prescrizione ex art.83, comma 9, è costituito esclusivamente dal rinvio di un’udienza ricadente nel c.d. “secondo periodo emergenziale”, ne conseguono rilevanti conseguenze in ordine al computo del periodo complessivo di sospensione con riguardo a quei procedimenti che, originariamente destinati ad essere trattati nel “primo periodo”, sono stati rinviati direttamente a data successiva al 30 giugno 2020, in tal modo scavalcando integralmente il secondo periodo emergenziale.

Le Sezioni Unite hanno escluso che, in tali casi, si potesse procedere alla indistinta sommatoria dei due periodi di sospensione della prescrizione, proprio perché il comma 4 ed il comma 9 dell’art.83 prevedono presupposti destinati ad operare in maniera autonoma ed indipendente.

Ragionando in tal senso, si è affermato che «per i procedimenti rinviati con udienza fissata nella "prima fase" dell’emergenza (periodo dal 9 marzo all’11 maggio 2020) si applica per intero la sospensione della prescrizione prevista dall’art. 83, comma 4, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, pari a sessantaquattro giorni, ma non anche la disciplina della sospensione di cui al comma 9 del citato art. 83, dettata per la seconda fase dell’emergenza (periodo dal 12 maggio al 30 giugno 2020), che concerne i soli procedimenti, rinviati d’ufficio, per i quali l’udienza fosse già stata fissata in tale successivo periodo. (In motivazione, la Corte ha precisato che i periodi di sospensione previsti dal comma 4 e dal comma 9 dell’art.83, d.l. n.18 del 2020, si sommano esclusivamente qualora, per la trattazione del procedimento, sia stata fissata udienza in entrambi i periodi rispettivamente considerati dalle disposizioni citate)» (Rv. 280432 - 03).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 3, n.25808 del 3/7/2020, Pianeta, Rv.279891

Sez. 5, n.26215 del 13/07/2020, Aloi, Rv.279766

Sez. 5, n.26217 del 13/7/2020, G., Rv.279598

Sez. 5, n.25222 del 14/07/2020, Lungaro, Rv.279596

Sez. 5, n.28558 del 14/7/2020, Cafagna, n.m.

Sez. 5, n.29967 del 15/9/2020, La Vigna, n.m.

Sez. 2, n.22506 del 16/7/2020, Chiacchio, Rv.279288

Sez. 2, n.25967 del 16/07/2020, Rusiello, n.m.

Sez. 2, n.26590 dell’11/09/2020, Capiniti, n.m.

Sez. 1, n.31013 del 30/10/2020, n.m.

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 278 del 2020