SEZIONE I QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE

  • giudizio
  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • procedura civile
  • procedura penale
  • responsabilità penale
  • responsabilità civile

I)

L'ILLECITO CIVILE ALL'ESITO DELL'ACCERTAMENTO PENALE NEL QUADRO COSTITUZIONALE, CONVENZIONALE ED EUROPEO

(di Irene Ambrosi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 4 giugno 2021 n. 22065 “Cremonini”. - 2.1 La fattispecie. - 2.2 L’oggetto del contrasto. - 2.3 L’autonomia e separatezza dei giudizi civile e penale. - 2.4 La necessità del rinvio al giudice civile in caso di annullamento ai soli effetti civili ex art. 622 c.p.p. e mutamento delle regole probatorie. - 3 Corte costituzionale, sentenza n. 182 del 2021. - 3.1 I giudizi a quibus. - 3.2 La rilevanza e la non manifesta infondatezza della sollevata questione. - 3.3 La regola di accessorietà che governa l’esercizio dell’azione civile nel processo penale e le sue eccezioni; in particolare, l’ambito di applicazione dell’art. 578 c.p.p. nel sistema dei rapporti tra giudizio civile e penale. - 3.4 I canoni dell’accertamento dell’illecito civile secondo l’interpretazione conforme sia alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sia all’ordinamento euro unitario. - 4 La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 18 novembre 2021, Marinoni vs Italia. - 4.1 Il caso. - 4.2 Conformità delle decisioni dei giudici italiani alla regola della presunzione di innocenza come interpretata a livello convenzionale e europeo. - 5 Epilogo.

1. Premessa.

Nel corso dell’estate 2021, il tema dell’accertamento dell’illecito civile, una volta chiusa la fase processuale penale per il medesimo fatto, è stato oggetto di due rilevanti pronunce, l’una, resa in giugno, dalle Sezioni Unite della Suprema Corte le quali hanno risolto il contrasto insorto tra le sezioni penali in ordine all’individuazione del giudice civile o penale del rinvio a seguito dell’annullamento ai soli effetti civili della sentenza penale di condanna ex art. 622 c.p.p. (1) e, l’altra, interpretativa di rigetto, resa alla fine di luglio dalla Corte costituzionale (2), sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 c.p.p. per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 2, della CEDU, nonché per contrasto con lo stesso art. 117, primo comma e con l’art. 11 Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), “nella parte in cui stabilisce che, quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili”.

Nell’inverno dello stesso anno, sul tema della autonomia e compatibilità dell’accertamento della responsabilità civile sul medesimo fatto conosciuto dal giudice penale, è tornata anche la Corte EDU con la sentenza 18 novembre 2021, Marinoni vs Italia, chiarendo che i giudici nazionali, nel soddisfare le pretese risarcitorie del danneggiato, non avevano utilizzato termini idonei a rimettere in discussione l’assoluzione penale dell’imputato e ha osservato, su un piano più generale, che l’autonomia dell’accertamento dell’illecito aquiliano rispetto a quello del reato non viola il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU e come riconosciuto nell’ordinamento dell’Unione Europea.

In parallelo, le tre pronunce menzionate hanno fornito importanti indicazioni ermeneutiche sui rapporti tra illecito aquiliano e illecito da reato e il presente contributo tematico è volto a dare conto delle diverse soluzioni prospettate e a verificarne la sintonia alla luce dell’ordinamento costituzionale, convenzionale e euro unitario.

2. Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 4 giugno 2021 n. 22065 “Cremonini”.

Le Sezioni Unite penali, con la sentenza n. 22065 del 2021 hanno optato per la necessità del rinvio al giudice civile in caso di annullamento ai soli effetti civili da parte della Corte di cassazione ex art. 622 c.p.p., per la mancata rinnovazione di una prova ritenuta decisiva, della sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la decisione di assoluzione in primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno.

2.1. La fattispecie.

Era accaduto che in prime cure l’imputato era stato assolto dal Tribunale ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. perché il fatto non sussiste, in relazione al reato di cui all’art. 590, commi 2 e 3, c.p. per lesioni personali colpose dovute alla caduta di un operaio da un’impalcatura.

La Corte di appello aveva accolto il gravame della parte civile e ritenuto sussistente, senza lo svolgimento di alcuna attività istruttoria, la responsabilità del datore di lavoro sulla base di una diversa valutazione delle acquisizioni istruttorie (in particolare, valorizzando la deposizione della persona offesa, assunta nel giudizio penale, ritenuta attendibile perché riscontrata da una testimonianza e dagli accertamenti medico-legali) ai sensi dell’art. 2087 c.c. e del d.lgs. n. 81 del 2008 in tema di sicurezza sul lavoro.

Avverso tale decisione di appello, aveva proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro lamentando la violazione di legge e il vizio di motivazione per l’omessa rinnovazione, nel giudizio d’appello, della prova dichiarativa decisiva ai fini del ribaltamento, ai soli effetti civili, del giudizio di responsabilità operato dal giudice di prime cure, mediante la quale la Corte di appello era pervenuta alla valutazione della colpevolezza dell’imputato, sia pure ai soli effetti civili, senza aver, doverosamente, rinnovato l’istruttoria dibattimentale.

2.2. L’oggetto del contrasto.

In merito all’interpretazione e al controverso ambito di applicazione dell’art. 622 c.p.p., la IV Sezione penale n. 30858 del 20 ottobre 2020 aveva prospettato il contrasto sorto tra due orientamenti della giurisprudenza delle sezioni penali di legittimità sul seguente quesito: “Se, in caso di annullamento ai soli effetti civili da parte della Corte di cassazione, il rinvio per il nuovo giudizio vada disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello o al giudice penale”.

Per un primo orientamento, prevalente e rimasto immutato sino al 2019, fondato su un autorevole arresto delle Sezioni Unite penali, sentenza n. 40109 del 18 luglio 2013, Pres. Santacroce Est. Conti, Imp. Sciortino, la via dell’annullamento con rinvio al giudice penale (d’appello) era stata già ritenuta non percorribile né nella fattispecie allora esaminata di un ricorso dell’imputato che investa solo il capo relativo alla responsabilità civile “restando preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile”, ma neppure nell’ipotesi in cui l’imputato con il suo ricorso ritenga di investire formalmente, di riflesso, anche il capo penale, dovendosi in tal caso ritenere inammissibile quest’ultimo ricorso in virtù del principio, in particolare affermato dalle Sezioni Unite 28 maggio 2009, n. 35490, Pres. Gemelli, Est. Romis, Imp. Tettamanti, secondo cui “in presenza dell’accertamento di una causa di estinzione del reato non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale. Ammettere una riapertura del tema penale solo per effetto della incidenza che su esso potrebbe in via di mera ipotesi determinare la rivisitazione dell’accertamento sulla responsabilità civile equivarrebbe a stravolgere finalità e meccanismi decisori della giustizia penale in dipendenza da interessi civilistici ancora sub iudice che devono essere invece isolati e portati all’esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli” (3).

Per un secondo orientamento, minoritario e più recente, giustificato quale reazione ad un orientamento della III Sezione civile della Corte di cassazione secondo cui il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. deve assecondare le regole processuali, sostanziali e probatorie proprie del giudizio civile (4), il rinvio al giudice penale era necessario anche nel caso di annullamento dei capi civili ove non vi fosse stato un accertamento sull’an della responsabilità penale dell’imputato; la necessità di tale soluzione veniva spiegata attraverso un’interpretazione restrittiva dell’art. 622 c.p.p. con la valorizzazione dell’inciso “fermi gli effetti penali” e nell’attribuire alla dizione “quando occorre” un’ampia accezione volta ad escludere cioè i casi in cui non vi sia stato il definitivo accertamento sull’an della responsabilità.

Con tale restrittiva ricostruzione ermeneutica si garantirebbe il diritto dell’accusato ad ottenere una decisione che, anche in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell’accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto penale, prime fra tutte le regole, di rango costituzionale, del giusto processo, nelle sue diverse declinazioni (5). In tal prospettiva, dall’ambito applicativo dell’art. 622 c.p.p. resterebbero esclusi: l’annullamento delle sole statuizioni civili contenute in una sentenza di proscioglimento pronunciata dal giudice di appello ex art. 578 c.p.p., nonché l’annullamento della condanna al risarcimento pronunciata dal giudice di appello in accoglimento dell’impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado ai sensi dell’art. 576 c.p.p. e, infine, l’annullamento delle disposizioni civili contenute in una sentenza di condanna annullata senza rinvio anche agli effetti penali per sopravvenuta prescrizione del reato.

2.3. L’autonomia e separatezza dei giudizi civile e penale.

Le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione hanno escluso la fondatezza dell’orientamento minoritario valorizzando, in primo luogo, il carattere originario e paritario dei diversi ordini giurisdizionali ed il principio di sostanziale autonomia e separazione dei giudizi tra civile e penale. Quest’ultimo principio viene fatto discendere, per un verso, dal chiaro dettato dell’art. 652, comma 1, c.p.p. che esclude l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, ove il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p.; per altro verso, dalla regola generale dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale dettata dall’art. 538 c.p.p., secondo cui il giudice penale pronuncia sulla domanda avente ad oggetto le restituzioni e il risarcimento del danno, soltanto se pronuncia condanna dell’imputato, regola cui corrispondono due eccezioni contenute negli artt. 576 e 578 c.p.p..

A parere delle Sezioni Unite penali, l’esegesi del processo che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 622 c.p.p., disposizione di carattere eccezionale in cui ricadono le ipotesi, anch’esse eccezionali di cui agli artt. 576 e 578 c.p.p., non giustifica la tesi restrittiva propugnata dall’orientamento minoritario e neppure lo giustifica l’interpretazione datane dalla Corte costituzionale che, dagli anni 80’ sino ad oggi, si è espressa sotto diversi profili, per la compatibilità di tale assetto processuale in relazione ai principi costituzionali dettati dagli artt. 3 e 111 Cost.. (6)

Si richiamano così, ampiamente, le argomentazioni delle Sezioni Unite penali del 2013 “Sciortino”, che, come sopra accennato, avevano respinto l’orientamento che riteneva necessario che la Corte di cassazione annullasse la sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che aveva emesso il provvedimento impugnato e non a quello civile competente per valore in grado di appello ex art. 622 c.p.p.

La scelta normativa di rinvio al giudice civile in grado di appello era stata ritenuta soluzione equilibrata sia per il danneggiato che, in sede di rinvio, poteva sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile, sia per l’imputato/danneggiante in quanto il perseguimento dell’interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, poteva ben essere assicurato dall’opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma 7, c.p.) o all’amnistia (ex Corte cost., sentenza n. 175 del 1971).

La stessa pronuncia “Sciortino” aveva osservato che l’ampia dizione dell’art. 622 c.p.p. non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale, che potranno riguardare sia vizi di motivazione, in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso, sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall’azione civile nel processo penale.

Tanto richiamato, le Sezioni Unite del 2021 hanno ribadito che l’ambito applicativo dell’art. 622 c.p.p. è quello di una norma di eccezione, che legittima il coinvolgimento del giudice civile tutte le volte che siano venute meno le condizioni per radicare la decisione in capo al giudice penale, tenuto conto che l’incipit della stessa disposizione, nel dettare la locuzione “fermi gli effetti penali della sentenza”, significa che tutto ciò che riguarda il versante penale non può più essere posto in discussione, né la persistenza dell’interesse penalistico può essere giustificata ex art. 573 c.p.p. in quanto la cognizione delle questioni civilistiche passa, “quando occorre”, al giudice civile, competente per valore in grado di appello.

Di conseguenza, la definitività e l’intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell’imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l’azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero con cui accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell’imputato, provoca il “definitivo dissolvimento” delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell’azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento.

Con l’esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell’attrazione dell’illecito civile nell’ambito della competenza del giudice penale, risulta - secondo la pronuncia in esame - coerente con l’attuale assetto normativo interdisciplinare che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell’illecito aquiliano, dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima; l’annullamento e il conseguente rinvio al giudice civile competente comporta, in caso di riassunzione, l’assunzione della veste di attore-danneggiato della parte civile e di convenuto-danneggiante da parte di colui che nel processo penale rivestiva il ruolo di imputato.

La Corte ritiene non condivisibile il dubbio instillato dall’orientamento minoritario sull’effetto pregiudizievole derivante agli interessi della parte civile dal dover espletare dinanzi al giudice civile il proprio onere probatorio come se l’istruttoria già compiuta nella fase penale fosse stata azzerata; per sfatarlo, richiama la giurisprudenza civile di legittimità, la quale riconosce, senz’altro, al giudice civile adito per il risarcimento del danno, l’onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria (7).

2.4. La necessità del rinvio al giudice civile in caso di annullamento ai soli effetti civili ex art. 622 c.p.p. e mutamento delle regole probatorie.

In merito alla natura del giudizio di rinvio disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p., la Corte compie un ampio richiamo all’orientamento di legittimità affermatosi nella giurisprudenza della III Sezione civile (8) affermando di condividere, prima fra tutte, la ragione della ritenuta autonomia - sia in senso strutturale che funzionale - del giudizio civile di rinvio, una volta determinatasi la scissione a seguito della valutazione compiuta dal giudice nel giudizio penale; scissione, in ragione dalla quale, la Corte ritiene la non ipotizzabilità del potere della cassazione penale ex art. 622 c.p.p. di enunciare il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi, concludendo in proposito “verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all’illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all’individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale”.

Dalla natura autonoma del giudizio civile conseguente all’annullamento in sede penale agli effetti civili ex art. 622 c.p.p. discendono due ulteriori rilevanti effetti: per un verso, la possibilità che le parti possano allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno, diversi da quelli posti a fondamento di quelli in ordine ai quali si è svolto il giudizio penale, consentendo l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione di elementi costitutivi dell’illecito penale; da ciò, a parere delle Sezioni unite penali, conseguirebbe un’attenuazione degli effetti negativi della perdita di un grado di giudizio quale conseguenza della scelta della controparte di ottenere l’annullamento; per l’altro verso, la diversa configurazione delle regole processuali applicabili sia in tema di nesso causale sia di prove, in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi fattori in gioco nei due sistemi di responsabilità. Sul piano del nesso di causa, viene chiarito che la regola di giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma secondo, Cost., cogente in ambito penalistico, ogniqualvolta il processo ritorni alla sede sua propria ai sensi dell’art. 622 c.p.p., non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, i quali - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno – sono governati dalla diversa regola probatoria del più probabile che non e ciò, tanto più ove venga richiesta in appello l’affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (ad esempio, in caso di responsabilità da circolazione stradale, responsabilità medica, etc.). Sul piano del diritto di difesa delle parti, saranno applicabili le regole processuali che governano l’istruzione probatoria nel processo civile ovvero il principio di disponibilità della prova e quello del libero convincimento del giudice che ne giustificano il prudente apprezzamento anche mediante prove cd. atipiche, idonee a concorrere all’accertamento dei fatti di causa.

Il mutamento delle regole probatorie a seguito dell’annullamento ex art. 622 c.p.p., pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’orientamento minoritario, “non pone problemi sotto il profilo delle esigenze difensive delle parti, danneggiato e danneggiante, che sino ad allora hanno scelto e commisurato la loro attività difensive a regole probatorie diverse”.

In conclusione, secondo le Sezioni unite penali, la norma permette la restituzione della cognizione dell’azione civile al giudice naturale, confermando che il fatto integra illecito civile, così preservando intatte le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale.

Con ampia e puntuale motivazione le Sezioni Unite hanno confermato la compatibilità di tale assetto ermeneutico concernente l’art. 622 c.p.p. rispetto alla giurisprudenza della Corte EDU; in proposito, viene ribadito, che “neanche la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU lascia ipotizzare scenari che chiamino in causa la violazione dell’art. 117 Cost. quale parametro interposto, dovendosi considerare che, sebbene l’art. 6, § 1, della Convenzione sia stato interpretato reiteratamente come fonte di "un diritto di carattere civile" della vittima del reato a vedersi riconosciuta la possibilità di intervenire nel processo penale per difendere i propri interessi tramite la costituzione di parte civile (v. fra le molte, Corte EDU, 20 marzo 2009, Gorou c. Grecia), tuttavia, con riferimento al caso della mancata valutazione della domanda della parte civile per essersi il processo penale chiuso con provvedimento diverso dalla condanna dell’imputato, la Corte EDU non ha individuato alcuna violazione del diritto di accesso ad un tribunale: violazione che, invece, viene ritenuta ravvisabile solo quando la vittima del reato non disponga di rimedi alternativi concreti ed efficaci per far valere le sue pretese (Corte EDU, Sez. 3, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema S.C. Ronnpetrol S.A. e S.C. Geonnin S.A. e altri contro Romania)”. (9)

In relazione al caso in esame, pertanto, si sottolinea che, del tutto in linea con il diritto vivente sovranazionale, l’ordinamento interno prevede la possibilità di rivolgersi al giudice civile.

Inoltre, questo meccanismo di restituzione appare rispettoso sia dei principi che governano il giusto processo che di quelli inerenti allo statuto dell’imputato-convenuto danneggiante. Sotto quest’ultimo aspetto, viene ribadito che la regola del contraddittorio permea il giudizio civile al pari di quello penale sicché nel rispetto del principio del contraddittorio avverrà il confronto tra la tesi del danneggiante e quella, avversa, del danneggiato. Sotto il profilo del giusto processo, oltre a rimarcare che, anch’esso è principio immanente sia all’ambito processuale civile sia a quello penale, la decisione in esame richiama quanto espresso dalla Corte costituzionale a proposito della compatibilità del vigente assetto con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto “la preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa - compreso il vizio totale di mente - se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico (e dello stesso imputato) alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti. Ciò, in linea, una volta ancora, con il favore per la separazione dei giudizi cui è ispirato il vigente sistema processuale” (10).

Conclude, pertanto, la decisione in esame, di non condividere l’orientamento minoritario che, evocando il principio del giusto processo, ha teorizzato che il rinvio ex art. 622 c.p.p. dovesse essere necessariamente disposto al giudice penale, in quanto tenuto alla rinnovazione della prova, perché tale tesi si risolve in “una forzatura ermeneutica nell’individuazione del giudice, non supportata nel sistema processuale vigente”.

3. Corte costituzionale, sentenza n. 182 del 2021.

Come accennato in premessa, la Corte costituzionale, con la rilevantissima pronuncia interpretativa di rigetto 30 luglio 2021 n. 182, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 578 c.p.p. sollevata con due ordinanze, sostanzialmente sovrapponibili, dalla Corte di appello di lecce. (11)

In particolare, i giudici a quibus sospettano la denunciata norma nella parte in cui stabilisce che “quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili”.

Il dubbio di legittimità costituzionale si fonda sul rilievo che, alla stregua della giurisprudenza formatasi in ordine all’interpretazione della norma codicistica, il giudice dell’appello penale, nel momento in cui è chiamato a dichiarare non doversi procedere per la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione, sarebbe comunque tenuto a svolgere, sia pure in via incidentale, e al fine di provvedere sul gravame ai soli effetti della domanda risarcitoria o restitutoria della parte civile, un nuovo accertamento sulla responsabilità penale dell’imputato, in mancanza del quale la decisione sarebbe viziata da difetto di motivazione e destinata ad essere annullata (con rinvio) nel successivo grado di legittimità. “In tal modo, la disposizione censurata lederebbe il principio di presunzione di innocenza garantito all’imputato dalla norma convenzionale e da quelle europee, tutte assunte a parametri interposti, in quanto la prima, come interpretata dalla Corte EDU, escluderebbe la possibilità che in un procedimento successivo a quello penale conclusosi con un risultato diverso da una condanna, possano essere emessi provvedimenti che presuppongono un giudizio di colpevolezza della persona in or-dine al reato precedentemente contestatole; parimenti le seconde, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, imporrebbero agli Stati membri di garantire che le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino una persona come colpevole finché la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata” (12).

3.1. I giudizi a quibus.

La questione è stata prospettata nell’ambito di due distinti processi penali, pendenti in grado di appello, a seguito di impugnazione proposta dagli imputati, condannati in primo grado sia alle sanzioni penali per i reati loro rispettivamente contestati sia, conseguentemente, al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite.

«Nell’ordinanza del 6 novembre 2020, relativa al primo processo, il rimettente espone che l’unico imputato, P.P. N., all’esito del primo grado di giudizio, è stato riconosciuto colpevole dell’ascritto reato di calunnia ed è stato condannato alla pena di due anni di reclusione, nonché a risarcire alla persona offesa, costituita parte civile, un danno liquidato in euro 10.000.

Invece, nell’ordinanza dell’11 dicembre 2020, relativa al secondo processo, si riferisce che più imputati (tra cui A. B. e V. C.) sono stati riconosciuti colpevoli del delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro il patrimonio, oltre che di una serie di truffe, e sono stati condannati alla pena della reclusione diversamente commisurata per ciascuno di essi, nonché, in solido, a risarcire il danno cagionato alle persone offese dai reati-fine, da liquidarsi in se-parata sede, con provvisionali di diversa misura.

In entrambi i processi, peraltro, nelle more dell’impugnazione sarebbe maturata la prescrizione dei reati in relazione ai quali è stata emessa la condanna risarcitoria in favore delle parti civili.” (13).

3.2. La rilevanza e la non manifesta infondatezza della sollevata questione.

Sul versante della rilevanza, le ordinanze di rimessione osservano che in entrambi i giudizi a quibus sussistono i presupposti per l’applicabilità dell’art. 578 c.p.p. che impone al giudice di appello, nel dichiarare il non doversi procedere per estinzione del reato a causa della prescrizione sopravvenuta alla sentenza di condanna di primo grado, di provvedere comunque sul gravame ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili.

Sul versante della non manifesta infondatezza, osservano che il necessario esame dei motivi di impugnazione, comportando una rivalutazione del compendio probatorio, non potrebbe che tradursi in un nuovo apprezzamento, sia pure incidenter tantum, della colpevolezza dell’imputato. In proposito, richiamano il “diritto vivente” espresso da arresti della Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite, che interpretano il dettato dell’art. 578 c.p.p. nel senso di ritenere necessaria, in funzione della conferma delle statuizioni civili contenute nella pronuncia di primo grado da parte del giudice di appello che pure abbia riscontrato l’esistenza di una causa estintiva del reato, l’incidentale riaffermazione della responsabilità penale dell’imputato, pena l’annullamento con rinvio della sentenza. (14) A conferma del consolidarsi di tale orientamento, richiamano altresì la pronuncia resa nel 2019 dalla Suprema Corte a Sezioni unite penali (15) che, risolvendo in senso positivo il contrasto, circa l’impugnabilità con il rimedio straordinario della revisione, della sentenza di appello contenente, unitamente alla dichiarazione di estinzione del reato, la conferma delle statuizioni civili restitutorie o risarcitorie, l’avrebbe equiparata, nella sostanza, ad una vera e propria sentenza di “condanna”.

L’orientamento interpretativo di legittimità così ricordato si porrebbe in contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., per violazione sia degli obblighi convenzionali assunti con la CEDU sia dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, in quanto la sua concreta applicazione in giudizio lederebbe il diritto dell’imputato alla presunzione di innocenza, come riconosciuto e garantito, sotto il primo versante, dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU e, sotto il secondo versante, dall’art. 48 CDFUE, nonché dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2016/343/UE, emanata, ai sensi dell’art. 82, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, proprio in funzione del rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. A parere dei rimettenti, i richiamati parametri evidenzierebbero un duplice profilo di garanzia del diritto alla presunzione di innocenza; un primo profilo operante come garanzia procedurale nel contesto di un processo penale, con implicazioni in ordine all’onere della prova, all’applicabilità di presunzioni di fatto e di diritto, al privilegio contro l’autoincriminazione, alla pubblicità pre-processuale e alle espressioni premature da parte della corte processuale o di altri funzionari; un secondo profilo profilantesi una volta che il procedimento penale sia terminato con una pronuncia di assoluzione o con una interruzione (e dunque senza che la responsabilità penale sia stata accertata), con la conseguenza che all’imputato verrebbe attribuito il diritto di essere trattato dalle pubbliche autorità e dai pubblici ufficiali come persona innocente, impedendo che, nel contesto di un procedimento successivo, possano essere emessi provvedimenti che presuppongano la sua responsabilità in ordine al reato che gli era stato contestato.

A parere del rimettente, il diritto vivente interno si porrebbe in modo problematico e non convenzionalmente conforme, rispetto al secondo profilo della presunzione di innocenza, secondo l’interpretazione datane dalla Corte EDU, sentenza Pasquini, (16) evidenziando come, in quella fattispecie, il giudice penale di appello sammarinese, in applicazione di una norma perfettamente sovrapponibile all’art. 578 c.p.p. - in seguito al gravame proposto dall’imputato avverso la sentenza di primo grado che lo aveva ritenuto colpevole di appropriazione indebita aggravata e continuata, condannandolo al risarcimento del danno in favore della parte civile - aveva dichiarato l’avvenuta prescrizione del reato, confermando nel contempo la condanna risarcitoria, sul rilievo che la condotta dell’imputato integrava i fatti di appropriazione indebita di cui era stato accusato, che questi fatti erano stati commessi con dolo e che da essi era derivato un danno alla vittima. In tal caso la Corte EDU ha ritenuto violato dal giudice sammarinese il secondo profilo della presunzione di innocenza, avendo egli emesso un provvedimento che rifletteva una indebita opinione di colpevolezza, e quindi una oggettiva imputazione di responsabilità penale, nonostante questa non fosse stata accertata in ragione della declaratoria di prescrizione del reato.

A parere del rimettente, lo stesso orientamento interpretativo interno si porrebbe in violazione dell’ordinamento dell’Unione europea che riconosce il secondo aspetto del diritto alla presunzione di innocenza con la medesima portata di quello garantito dall’ordinamento convenzionale (17) “talché l’art. 578 c.p.p.– dando luogo, nel suo necessitato snodo applicativo, reso ineludibile dall’indirizzo esegetico consolidatosi nel diritto vivente giurisprudenziale, a decisioni giudiziarie, emesse in grado di appello, che, nel confermare le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado, presentano l’imputato come colpevole, sebbene la sua responsabilità penale sia stata esclusa dal proscioglimento in rito – sarebbe in evi-dente contrasto, anche sotto questo profilo, con l’art. 117, primo comma, nonché con l’art. 11 Cost.”. (18)

3.3. La regola di accessorietà che governa l’esercizio dell’azione civile nel processo penale e le sue eccezioni; in particolare, l’ambito di applicazione dell’art. 578 c.p.p. nel sistema dei rapporti tra giudizio civile e penale.

La Corte costituzionale premette all’esame del merito delle questioni una sintetica e più che opportuna ricostruzione del quadro normativo di riferimento nel quale si colloca l’art. 578 c.p.p. sottolineando come la regola di accessorietà, che governa l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, consente al giudice penale di prime cure di provvedere sulla domanda risarcitoria proposta con la costituzione di parte civile solo se emette sentenza di condanna penale (art.538, comma 1, c.p.p.); viceversa, se emette sentenza di proscioglimento, tanto in rito (non doversi procedere: 529 e 531 c.p.p.) quanto nel merito (assoluzione: 530 c.p.p.), non provvede sulla domanda civile e quindi non può violare la presunzione di innocenza.

La regola dell’accessorietà non soccorre invece il giudice dell’impugnazione penale, tenuto conto che nella valutazione discrezionale del legislatore, l’interesse pubblicistico alla rapida definizione del processo penale (che costituisce il fondamento della richiamata regola generale dell’accessorietà di cui all’art.538, comma 1, c.p.p.) viene sacrificato alla tutela dell’interesse della parte civile ad ottenere l’accertamento del suo diritto in sede penale.

Derivano da tale assetto tre deroghe al principio di accessorietà, con conseguente necessità che il giudice penale in grado di appello decida sulla domanda civile pur dopo l’emissione di una sentenza di proscioglimento sul capo penale.

La prima è quella dell’art.576 c.p.p. (impugnazione, ai soli effetti civili, della sentenza di proscioglimento da parte della parte civile), ipotesi nella quale il legislatore ha previsto la possibilità di impugnare una sentenza, ai soli effetti civili, pur in mancanza del relativo capo (19); pertanto, il giudice di secondo grado può pronunciare sulla domanda civile pur in presenza del proscioglimento sul capo penale, che, ove non vi sia anche l’impugnazione del PM, non può essere modificato, pena la violazione del divieto di reformatio in pejus.

In questa fattispecie, la deviazione dal principio di accessorietà, pur essendovi, è minima, perché l’impossibilità di modificare in pejus la decisione di proscioglimento sul capo penale non preclude l’accertamento (meramente incidentale) della relativa responsabilità, purché condotto ai soli fini della responsabilità civile, né si rischia di violare la presunzione di innocenza, perché la responsabilità penale è ancora sub judice essendo la sentenza di proscioglimento di primo grado sottoposta al controllo fisiologico del giudice di secondo grado. Sul piano sostanziale, dunque il giudice dell’impugnazione penale accerta la responsabilità penale (sia pure ai fini civili) e, sul piano processuale, applica interamente lo statuto della prova penale (art. 573 c.p.p.).

La seconda eccezione è quella dell’art. 622 c.p.p., a proposito della quale la deviazione dalla regola di accessorietà è massima perché sul capo penale è sceso il giudicato e, dopo il giudizio rescindente della Cassazione penale, il giudice civile del rinvio deve accertare solo la responsabilità civile; e ciò non solo quando su quella penale vi sia un immodificabile accertamento positivo (art. 574 c.p.p.), ma anche, secondo quanto stabilito da SU Sciortino del 2013, quando vi sia un immodificabile accertamento negativo per proscioglimento in appello in seguito alle impugnazioni della sentenza di condanna di primo grado dell’imputato o del PM (art. 578) o della sentenza di proscioglimento ai fini civili della parte civile (art. 576).

In questa ipotesi viene richiamata la soluzione adottata dal diritto vivente (Corte di cassazione Sezioni Unite penali, “Cremonini” del 4 giugno 2021, cit., che, a sua volta, ha condiviso l’orientamento che si è affermato presso la III Sezione civile) che, sul piano sostanziale, ha ritenuto come al giudice civile di rinvio spetta condurre l’accertamento solo sull’illecito civile e che, sul piano processuale, spetta di applicare integralmente lo statuto della prova civile, senza essere tenuto a rispettare il principio di diritto eventualmente - ma indebitamente - fissato dalla Cassazione penale in sede di rinvio, posto che il giudizio si configura come autonomo giudizio civile. In proposito, l’applicazione dello statuto della prova civile è integrale e concerne sia i mezzi di prova propriamente detti, sia le modalità di assunzione, sia i criteri funzionali elaborati dalla giurisprudenza ai fini del riscontro dei requisiti costitutivi dell’illecito civile e cioè, in tema di causalità, il criterio del più probabile che non (invece che quello penalistico dell’alto grado di credibilità logica).

La terza eccezione alla regola dell’accessorietà è costituita dall’art.578 c.p.p. che, come sistematicamente evidenzia la Corte costituzionale, si trova in una posizione intermedia tra i due estremi costituiti, come visto, da un lato, dall’art. 576 (deviazione minima) e dall’altro, dall’art. 622 (deviazione massima). In proposito, la deroga al principio dell’accessorietà sancito dall’art. 576 c.p.p. condivide, rispetto alla deroga posta dall’art. 622 c.p.p., la necessità di tenere fermo un giudizio sulla responsabilità penale che, per ragioni diverse, è tuttavia immodificabile, non perché passato in giudicato (art.622 c.p.p.) ma perché contestualmente formulato dallo stesso giudice chiamato ad accertare la responsabilità civile.

3.4. I canoni dell’accertamento dell’illecito civile secondo l’interpretazione conforme sia alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sia all’ordinamento euro unitario.

La Corte costituzionale, nel ritenere infondate le questioni sollevate in relazione all’art. 578 c.p.p., ha pienamente valorizzato l’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile che dovrà essere contenuto entro i canoni sostanziali della responsabilità aquiliana, sebbene lo svolga il giudice penale e affermato che “il giudice dell’appello penale, rilevata l’estinzione del reato, potrà – o talora dovrà (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio- 4 giugno 2021, n. 22065) – procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili (art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen.)” (20).

Il giudice dell’impugnazione penale, dunque, quanto al fatto e su un profilo sostanziale, non farà il duplice accertamento della fattispecie tipica del reato (ormai dichiarato estinto) e delle sue conseguenze civili (art. 185 c.p.), ma accerterà l’unica fattispecie atipica dell’illecito civile (2043 c.c.). In particolare, quanto al danno, il giudice accerterà il danno-evento e il danno-conseguenza, identificandoli con le rispettive regole di struttura (artt. 40 e 41 c.p., 1223 c.c.).

Sul punto, la Corte costituzionale ha opportunamente precisato che il primo non coincide con l’evento penalistico (la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice) ma con la lesione della situazione giuridica soggettiva sanzionabile con il risarcimento cioè, con il “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 c.c. e che, sebbene l’accertamento si svolga davanti al giudice penale, egli dovrà quindi, ad es., applicare il criterio del “più probabile che non” anziché quello penalistico imposto dall’art.533 c.p.p. perché non deve accertare l’illecito penale ma quello civile. La medesima regola varrà per l’elemento psicologico, esso non sarà quello specifico e tassativo del reato, ma quello generico e atipico dell’illecito civile.

Ulteriore rilevante precisazione concerne il profilo processuale: la Corte costituzionale ritiene che l’accertamento dell’illecito civile debba essere condotto dal giudice penale applicando le regole processuali e probatorie proprie del processo penale a norma dell’art. 573 c.p.p. sino al limite costituito, come veduto, dai criteri di giudizio elaborati al fine di accertare gli elementi costitutivi dell’illecito. Ciò conferma l’autonomia dell’accertamento dell’illecito civile e risolve i numerosi dubbi e criticità concernenti l’applicazione dello statuto della prova penale “(ad esempio, la testimonianza della persona offesa che nel processo civile sarebbe interdetta dall’art. 246 cod. proc. civ.), sia le modalità di assunzione della prova (le prove costituende saranno così assunte per cross examination ex art. 499 cod. proc. pen. e non per interrogatorio diretto del giudice)”.

Pertanto, se sotto il profilo sostanziale prevale la similitudine della fattispecie dell’art 578 c.p.p. con quella dell’art. 622 c.p.p., sotto il profilo processuale prevale la similitudine con l’art.576 c.p.p.: come nel 576 c.p.p., infatti, l’accertamento si svolge dinanzi al giudice penale e, dunque, dovranno applicarsi le regole processuali e probatorie penalistiche.

La Corte, infine, assicura che l’approdo dell’interpretazione logico-sistematica compiuta della norma censura scioglie, per un verso, il dubbio che in tal modo il giudice non possa riconoscere il danno non patrimoniale ex art.185 c.p. (ma solo quello da lesione grave di valori costituzionali o ex 2059 c.c., nei casi in cui la legge espressamente lo preveda al di fuori di fattispecie penali), con la precisazione che altro è l’accertamento incidentale della specifica responsabilità penale esclusa dalla sentenza di proscioglimento (che violerebbe la presunzione di innocenza), altro è l’accertamento generico del perimetro di coincidenza dell’ illecito civile con una fattispecie di reato (accertamento consentito proprio al fine dell’integrale risarcimento del danno non patrimoniale ex art.185 c.p.). Per altro verso, assicura la conformità del sistema complessivo dei rapporti tra azione penale e azione civile di responsabilità, alla interpretazione convenzionalmente e comunitariamente orientata delle regole processuali e sostanziali nella prospettiva della presunzione di innocenza evocata dallo stesso giudice rimettente.

Spiega in proposito la Corte costituzionale che “una volta dichiarata la sopravvenuta causa estintiva del reato, in applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., l’imputato avrà diritto a che la sua responsabilità penale non sia più rimessa in discussione, ma la parte civile avrà diritto al pieno accertamento dell’obbligazione risarcitoria.

Con la disposizione censurata il legislatore ha operato un bilanciamento tra le esigenze sottese all’operatività del principio generale di accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale (che esclude la decisione sul capo civile nell’ipotesi di proscioglimento) e le esigenze di tutela dell’interesse del danneggiato, costituito parte civile.”.

Pertanto, la Corte dà un’importante conclusiva indicazione per le ipotesi in cui il proscioglimento viene pronunciato in grado di appello o di legittimità in seguito ad una valida condanna emessa nei gradi precedenti; in tali casi, la regola dell’accessorietà (che comporta il sacrificio dell’interesse della parte civile) subisce dei temperamenti, poiché essa continua ad essere applicabile nelle ipotesi di assoluzione nel merito e di sopravvenienza di cause estintive del reato riconducibili alla volontà delle parti (ad esempio remissione di querela), ma non trova applicazione allorché la dichiarazione di non doversi procedere dipenda dalla sopravvenienza di una causa estintiva del reato riconducibile a prescrizione o ad amnistia, nel qual caso prevale l’interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo, che continua dinanzi allo stesso giudice penale, sebbene sia mutato l’ambito della cognizione richiestagli, che va circoscritta alla responsabilità civile.

4. La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 18 novembre 2021, Marinoni vs Italia.

Esaminando il caso Marinoni, la Corte di Strasburgo è tornata ad occuparsi, tra l’altro, della presunzione di innocenza della quale l’imputato - definitivamente assolto ai fini penali - beneficia nel giudizio civile di danno. In proposito, ha fornito indicazioni di sicuro rilievo nello stesso ambito in cui si sono già espresse le Corti nazionali, come sopra meglio ricostruito.

4.1. Il caso.

Nella fattispecie, era accaduto che l’autore di un libro, nel quale venivano ricostruite le circostanze della vicenda, nota come strage di Rovetta, concernente l’esecuzione sommaria di 43 prigionieri appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, aveva sovrapposto circostanze storiche ai suoi ricordi intimi di bambino. In particolare, aveva utilizzato alcune espressioni nei confronti di una famiglia, considerata politicamente rivale rispetto alla sua, che erano state percepite dagli eredi come diffamatorie, che avevano perciò sporto denuncia. Assolto nel giudizio penale in primo grado, a seguito dell’impugnazione presentata dalle parti civili, è stato ritenuto civilmente responsabile. Il ricorrente presentava, dunque, ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, il carattere contraddittorio della motivazione della sentenza resa dalla Corte territoriale. Con sentenza del 24 ottobre 2011, la Corte di cassazione respingeva il ricorso e il ricorrente adiva, così, la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 6, § 2 (presunzione di innocenza) e dell’art. 10 (libertà di espressione) della Convenzione EDU.

4.2. Conformità delle decisioni dei giudici italiani alla regola della presunzione di innocenza come interpretata a livello convenzionale e europeo.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza sul caso Marinoni ha dichiarato che le decisioni dei giudici italiani di merito e di legittimità sono conformi sia alla regola della presunzione di innocenza sia alla libertà di espressione. In particolare, ha premesso che la ratio dell’art. 6 (presunzione di innocenza) è quella di garantire che ciascun individuo sia ritenuto innocente, fino a prova contraria, e impone alle autorità nazionali di trattare qualsiasi persona che sia stata assolta o comunque non dichiarata colpevole, come se fosse innocente; ha poi osservato come le norme italiane che consentono alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento ai soli fini civili, non contrastano con l’art. 6 § 2 della Convenzione, considerata la diversità tra i criteri di accertamento della responsabilità civile e quelli di accertamento della responsabilità penale dell’imputato.

La Corte di Strasburgo, ritenuto che nel caso di specie sia stata esclusa la punibilità del ricorrente perché agendo nel legittimo esercizio del diritto di cronaca e critica storica ha beneficiato della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., ha tuttavia, considerato il carattere di “microstoria” dell’opera, in cui la parte della narrazione attribuita ai soli ricordi personali dell’autore doveva ritenersi effettivamente lesiva della reputazione della persona citata, tant’è che i giudici nazionali gli hanno attribuito la responsabilità civile per i danni cagionati dalla pubblicazione stessa. A parere della Corte Edu, in conclusione, il ricorrente è stato assolto nel procedimento penale ed è stato trattato come imputato assolto - conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza convenzionale, anche a seguito della sentenza della Corte di Appello di Bergamo che lo aveva condannato al risarcimento dei danni provocati dal fatto illecito della pubblicazione. Ciò in quanto i giudici italiani si sono limitati a giudicare secondo le regole della responsabilità civile, senza rimettere in discussione l’assoluzione del ricorrente.

5. Epilogo.

Il rilievo delle affermazioni contenute nelle tre richiamate pronunce consente di fissare alcuni punti fermi in tema di illecito civile, una volta conclusosi l’accertamento sulla concorrente responsabilità penale.

Innanzitutto, l’aver affermato con forza, componendo il contrasto insorto tra gli orientamenti civili e penali di legittimità, per un verso, l’inesistenza di un potere della Corte di cassazione penale, in sede di annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili, di vincolare il giudice civile del rinvio ad un principio di diritto e, per l’altro, l’aver chiarito che le regole processuali e probatorie proprie del giudizio civile si riespandono, all’esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale a quella civile, sia in tema di istruzione probatoria sia in ordine al criterio causale applicabile, tenuto conto della diversità dell’ambito entro cui l’attività difensiva viene a svolgersi, nel diverso prospettare le relative questioni (e al giudice del rinvio di deciderle) sotto il profilo non del reato, ma dell’illecito civile ex art. 2043 c.c..

In secondo luogo, l’aver ricostruito il sistema dei rapporti tra azione penale e azione civile di responsabilità sia sul piano sostanziale che su quello probatorio-processuale. In ordine al primo piano, la struttura dell’illecito penale appare speculare a quella dell’illecito civile e si compone degli stessi elementi costitutivi di quella: ovvero la condotta, l’evento di danno e il nesso di causalità tra la prima ed il secondo. Sul piano probatorio-processuale, invece, possono cogliersi differenze rilevanti; ad esempio, nell’illecito civile, a differenza della responsabilità da reato, l’elemento soggettivo della condotta contempla ipotesi di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, e le nozioni di dolo e colpa non collimano con quelle previste per il fatto reato; inoltre, la nozione di fatto, che nella responsabilità penale viene tipicamente e tassativamente ricondotta all’interno di una fattispecie normativa, mentre in quella civile corrisponde ad una fattispecie atipica ovvero a qualunque fatto colposo o doloso idoneo a cagionare un danno ingiusto; con una rilevante ulteriore differenza in quanto nella responsabilità penale il fatto è ex lege antigiuridico, mentre nella responsabilità civile il requisito dell’ingiustizia è riferito al danno e non al fatto; ulteriore terreno di disomogeneità è quello dei criteri di accertamento del nesso causale, in merito al quale le soluzioni proposte dalla giurisprudenza evidenziano che la questione non è ancora compiutamente risolta e sconta - quali fattori di criticità - la disomogeneità tra gli orientamenti adottati in ambito sia penalistico sia civilistico e la complessità di materie assai delicate, come l’infortunistica o la responsabilità professionale, le cui peculiarità specifiche hanno posto in discussione la tenuta di una ricostruzione sistematica unitaria.

Inoltre, l’aver sistematicamente verificato la compatibilità delle ipotesi di deroga alla regola dell’accessorietà dell’azione civile nel giudizio penale alla luce del quadro costituzionale e del diritto vivente nazionale e sovranazionale; rilevantissimo sforzo ermeneutico compiuto dalla Corte costituzionale in una prospettiva di garanzia della regola della presunzione di innocenza mediante la verifica della tenuta delle regole sostanziali, processuali e probatorie in materia, fissando l’importante principio secondo cui tutte le volte in cui il giudice comune sarà chiamato ad accertare la responsabilità civile di una persona che ha già subito per il medesimo fatto, un accertamento della responsabilità penale con esito negativo, non potrà in ossequio alla regola della presunzione di innocenza più rimettere in discussione la sua colpevolezza in ordine al reato, neppure incidenter tantum ai fini della pronuncia sulla domanda risarcitoria.

In proposito, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è da ultimo intervenuta nuovamente, proprio con riferimento al rispetto della regola della presunzione di innocenza da parte dei giudici italiani, affermando che nell’ipotesi in cui l’esercizio del diritto di critica e cronaca storica scrimini il reato di diffamazione, l’esame del medesimo fatto possa non escludere la responsabilità del soggetto ai fini del risarcimento del danno ingiusto cagionato dalla pubblicazione di circostanze offensive per l’altrui reputazione e che ciò, non violi la predetta regola.

Indicazioni provenienti dalle tre Corti che, come sopra accennato, appaiono tutte in linea e conformi ai principi, più volte affermati sia dal giudice nazionale che sovranazionale in tema di garanzia della regola della presunzione di innocenza e di ragionevolezza, effettività della tutela e di bilanciamento di interessi tra danneggiato e danneggiante.

Per completezza, de iure condito, si segnala che, in sintonia con quanto indicato dal quadro delle fonti costituzionali, convenzionali e europee e dagli orientamenti espressi dalle giurisprudenze nazionali e sovranazionali, è stato emanato il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188 (recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali) che ha introdotto nel codice di procedura penale l’art. 115-bis, rubricato “Garanzia della presunzione di innocenza”, ove si prevede che nei provvedimenti che, pur non essendo diretti alla decisione sul merito della responsabilità penale dell’imputato, presuppongano comunque “la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza”, l’autorità giudiziaria sia tenuta a “limita[re] i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”.

  • Corte di giustizia dell'Unione europea
  • procedimento pregiudiziale
  • diritto dell'UE-diritto nazionale

II)

IL RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA LUCE DELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA DELLA CGUE (RIFLESSIONI SULLA SENTENZA DELLA GRANDE CAMERA DEL 6 OTTOBRE 2021, CAUSA C-561/19, CONSORZIO ITALIAN MANAGEMENT)

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Premessa. - 2 La sentenza della Grande Sezione del 6 ottobre 2021 e le conclusioni dell’Avvocato generale. - 3 Considerazioni conclusive.

1. Premessa.

Con sentenza pubblicata il 6 ottobre 2021 la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha affrontato la questione della persistenza dei criteri fissati dalla nota sentenza CILFIT per il rinvio pregiudiziale del giudice nazionale di ultima istanza, prendendo spunto da una questione posta dal Consiglio di Stato italiano.

Per l’esattezza, la controversia aveva visto il Consiglio di Stato sottoporre già un primo rinvio alla Corte di giustizia, ove si chiedeva di valutare la conformità al diritto dell’Unione dell’esclusione, a danno della società ricorrente, della possibilità di revisione del prezzo in alcuni contratti di appalto di servizi. Alla luce dell’avvenuta risposta della Corte, le parti del giudizio a quo avevano domandato, al giudice amministrativo, di sollevare ulteriori questioni pregiudiziali sulle quali ritenevano necessario si pronunciasse il giudice “comunitario”. In questo modo, dunque, la Corte è stata chiamata a esprimersi sulla sussistenza dell’obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza anche nel caso in cui analogo rinvio sia stato proposto in precedenza nell’ambito del medesimo giudizio.

L’art. 267 del TFUE recita: “La Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale:

a) sull’interpretazione dei trattati;

b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.

Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione.

Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte.

Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile”.

Nella specie, ad assumere rilievo è il comma 3 del citato art. 267, il quale impone alle autorità giudiziarie nazionali di ultima istanza di rivolgersi alla Corte di giustizia qualora una delle questioni indicate nel medesimo art. 267 sia prospettata.

L’obbligo di rinvio pregiudiziale mira ad impedire il formarsi o il consolidarsi di una giurisprudenza nazionale che rechi errori di interpretazione o un’erronea applicazione del diritto UE (Corte giust., 15 settembre 2005, causa C495/03, Intermodal Transports; Corte giust., 24 maggio 1977, causa C107/76, Hoffman-La Roche).

Ciò si spiega con il fatto che sono le corti supreme, all’interno dei singoli Stati Membri, a dovere garantire l’unificazione del diritto ed il suo rispetto da parte degli altri giudici nazionali, nella specie con riguardo al diritto eurounitario.

D’altronde, l’Unione europea è ancora un’organizzazione di Stati indipendenti, che deve ottenere il rispetto del proprio diritto da ciascuno di essi. Per realizzare un simile obiettivo, è necessario che le Corti supreme vigilino sull’operato di quelle di merito, poiché è dopo la formazione del giudicato che il decisum diviene definitivo e, quindi, idoneo ad esprimere irrevocabilmente, anche in ambito internazionale, la sovranità nazionale. Peraltro, è proprio questo giudicato che, eventualmente, può integrare una violazione del diritto UE e, di conseguenza, giustificare una responsabilità dello Stato membro e l’apertura di una procedura d’infrazione.

Fin dall’inizio è stato attuale il problema della portata del menzionato obbligo e ci si è domandati se le giurisdizioni superiori fossero tenute ad investire della relativa questione pregiudiziale la Corte di Lussemburgo in presenza di ogni discussione o di una qualsiasi eccezione di parte che trovasse fondamento nell’interpretazione del diritto oggi chiamato eurounitario.

Il dubbio non è, da un punto di vista logico, di facile soluzione, atteso che, proprio in ragione della natura non nazionale del diritto dell’Unione europea, non dovrebbe potere essere un giudice nazionale a fornirne l’interpretazione definitiva, neppure nel singolo caso, anche perché le parti dei vari giudizi non possono impugnare le decisioni delle corti statali davanti alla Corte di giustizia. D’altronde, in termini pratici, affermare l’inderogabilità dell’obbligo di rinvio potrebbe allungare non poco i tempi di decisione delle controversie e condurre ad un sovraccarico di lavoro per la Corte di giustizia.

La sentenza CILFIT della Corte di giustizia del 6 ottobre 1982 ha chiarito ormai da tempo che i giudici nazionali, le cui decisioni non possono costituire oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno, “sono tenuti, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essi, ad adempiere il loro obbligo di rinvio, salvo che abbiano constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi”.

In concreto, decidendo la causa C-283/81, CILFIT c. Ministero della Sanità, la Corte di giustizia ha enunciato le tre circostanze che, ancora oggi, sollevano il giudice “avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno” da un adempimento altrimenti obbligatorio (punti 12-16 della sentenza).

Tali circostanze si possono riassumere come segue:

a) l’identità materiale della fattispecie rispetto ad altra su cui la Corte di giustizia si sia già espressa;

b) la presenza di una giurisprudenza consolidata della Corte stessa sul medesimo punto di diritto all’esame del giudice nazionale, anche in assenza di identità materiale della fattispecie (c.d. teoria dell’acte éclairé);

c) la mancanza di ogni ragionevole dubbio sull’applicazione delle norme rilevanti di diritto dell’Unione (c.d. teoria dell’acte clair).

Negli anni si è spesso discusso in ordine alla portata dei criteri sopraelencati, in particolare con riferimento a quello sub c).

È questo il contesto nel quale è maturata la decisione del 6 ottobre 2021, nella causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, affidata alla Grande Sezione per l’importanza del tema trattato.

2. La sentenza della Grande Sezione del 6 ottobre 2021 e le conclusioni dell’Avvocato generale.

La sentenza in esame, molto attesa, ha affermato i seguenti principi:

“L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione. Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività”.

A prima vista, la decisione qui commentata sembra collocarsi in una prospettiva di apparente continuità rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia.

L’Avvocato generale Bobek, peraltro, aveva depositato, nell’ambito del procedimento definito con la sentenza in esame, delle conclusioni che avevano suscitato un vivace dibattito.

Il percorso argomentativo dell’avvocato generale Bobek prendeva le mosse da una forte critica soprattutto all’ultima delle condizioni CILFIT, la c.d. teoria dell’acte clair (punti 88-128 delle conclusioni), la cui funzionalità era considerata insufficiente tanto sul piano concettuale quanto, soprattutto, su quello pratico.

Dal punto di vista concettuale, l’avvocato generale evidenziava come, già a partire dalla sua formulazione, la teoria dell’acte clair proponesse una mescolanza di elementi soggettivi e oggettivi.

Da un lato, era il convincimento personale del giudice del rinvio a dovere escludere la sussistenza di qualsivoglia dubbio interpretativo del diritto dell’Unione.

Dall’altro lato, però, si richiedeva che lo stesso tipo di “chiarezza” potesse riscontrarsi, ugualmente, nell’intero ordinamento dell’UE (punti 89-98).

Secondo l’avvocato generale Bobek, questo tipo di costruzione non poteva che produrre effetti distorsivi nella prassi applicativa, atteso che, se i criteri CILFIT avessero dovuto essere applicati con il massimo rigore, ogni giudice di ultima istanza avrebbe dovuto, per potersi liberare dall’obbligo di rinvio, compiere una verifica dell’interpretazione della norma rilevante in ciascuna delle sue versioni linguistiche e presso tutti gli altri giudici dell’Unione (punti 99-110).

Il risultato di questo approccio avrebbe comportato che la giurisprudenza CILFIT sarebbe stata formalmente richiamata, senza, però, essere veramente applicabile (punti 103, 105 e 128).

Da siffatte critiche derivava, quindi, la proposta di una revisione completa delle condizioni di esenzione dall’obbligo di rinvio, riformulate in modo da renderle più applicabili da parte del giudice nazionale e concettualmente più adatte a quello che sembrava essere inteso come il nuovo ruolo del rinvio pregiudiziale nell’ordinamento dell’Unione (punti 131-165).

Nello specifico, la proposta prevedeva che il giudice di ultima istanza dovesse effettuare il rinvio in presenza di tre presupposti, vale a dire “purché la causa sollevi (i) una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione […]; (ii) su cui esistono oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili; (iii) per la quale la risposta non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte (o riguardo alla quale il giudice del rinvio intende discostarsi da tale giurisprudenza)” (punto 134).

L’avvocato generale, quindi, sembrava avere abbandonato la visione del rinvio pregiudiziale come strumentale alla risoluzione di singole controversie.

Le sue conclusioni ponevano questo aspetto in relazione con una pretesa evoluzione del meccanismo ex art. 267 TFUE quanto alla sua finalità (punti 122-128).

Infatti, se, inizialmente, il rinvio presupponeva una collaborazione paritetica tra giudice nazionale e Corte di giustizia nell’interpretazione e applicazione, al caso specifico, di un diritto nuovo e poco conosciuto, oggi siffatto rinvio si sarebbe evoluto in uno strumento a valenza sistematica, quasi pubblicistica, il cui scopo preminente sarebbe quello di garantire, attraverso un rapporto di tipo pseudo-gerarchico, l’uniformità giurisprudenziale generale nell’intero ordinamento dell’Unione (spec. punto 124).

Questa evoluzione, nel pensiero dell’avvocato generale, giustificava una ridefinizione dell’obbligo di rinvio in chiave generale e non più attenta alla singola controversia.

Era una visione dell’assetto giudiziario europeo che si discostava dalla prassi applicativa, che aveva visto nel rinvio pregiudiziale uno strumento capace di contemperare, da una parte, l’esigenza generale di uniformità del diritto dell’Unione e, dall’altra, la possibilità per la Corte di giustizia di dare al singolo una tutela giurisdizionale concreta anche nell’ordinamento dell’Unione.

Si trattava di un cambiamento di impostazione non di poco conto, atteso che, nel passato, l’integrazione europea era passata attraverso l’utilizzo del rinvio pregiudiziale, che aveva condotto la Corte di giustizia, di concerto con i giudici nazionali, ad attribuire diritti europei ai singoli cittadini degli Stati membri, nel contesto di questioni magari poco rilevanti in un’ottica di sistema, ma altamente rilevanti, ad esempio, per la vita di piccole comunità territoriali o professionali.

L’avvocato generale Bobek è sembrato realizzare un completo rovesciamento del paradigma finora adottato dalla Corte di giustizia perché, mentre i criteri CILFIT, posta l’esistenza dell’obbligo di rinvio, ne formulano le esenzioni in negativo, il modello suggerito prevedeva le condizioni di esistenza dell’obbligo in positivo, utilizzando la mancanza di almeno una tra queste stesse condizioni come eccezione (punto 135).

Siffatto rovesciamento di paradigma corrispondeva ad una nuova disciplina del rapporto tra il giudice comunitario e i giudici nazionali, dettata anche da esigenze organizzative sempre più pressanti per la Corte di giustizia.

Il modello consigliato nelle conclusioni in esame era orientato, infatti, a investire il giudice nazionale di un ruolo ben più responsabilizzato, in cui era egli stesso a dover determinare positivamente la sussistenza dell’obbligo di rinvio e nel quale, in ottica speculare, il medesimo giudice era in grado di giustificare l’assenza di almeno una delle condizioni e la conseguente esenzione dall’obbligo (punti 145-148).

Diviene chiaro, dunque, che si invita la Corte a promuovere un nuovo rapporto con i giudici di ultima istanza i quali, a fronte di un maggior utilizzo della disapplicazione di norme interne non conformi al diritto dell’Unione, dovrebbero avvalersi del rinvio pregiudiziale nei soli casi di questioni di portata generale (punto 148).

Si tratta di un risultato che, per l’avvocato generale Bobek, avrebbe dovuto essere soprattutto funzionale a una notevole riduzione del carico di lavoro della Corte (punto 122), attualmente gravato da una mole sempre crescente di rinvii (21).

Peraltro, è stato osservato (22) che sul giudice nazionale di ultima istanza, che intende fare ricorso alla teoria dell’atto chiaro, grava già da tempo l’obbligo di motivare il mancato rinvio, alla luce di circostanziate dimostrazioni.

In particolare, il medesimo giudice deve avere presente che una giustificazione non adeguata potrebbe comportare il consolidamento di un’interpretazione errata, alla quale potrebbe seguire l’azione risarcitoria dei singoli i cui diritti siano stati lesi dalla pronuncia giudiziale (23).

Inoltre, ulteriori verifiche sono poi svolte dagli uffici della Corte di giustizia, al fine di evitare che questioni già trattate siano riproposte con inutile aggravio dell’attività processuale. Infatti, è prassi che la cancelleria della Corte trasmetta al giudice del rinvio le pronunce che possano risolvere i suoi dubbi, invitandolo a confermare o ritirare i quesiti posti. L’art. 99 del regolamento di procedura (“Risposta formulata con ordinanza motivata”) espressamente sancisce che, qualora una questione pregiudiziale sia “identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata” (24).

In chiave critica, si è sottolineato (25) che il ragionamento dell’avvocato generale Bobek potrebbe snaturare la collaborazione tra Corte e giudici nazionali, mettendo in discussione i cardini su cui si instaura il loro dialogo, ovvero la pendenza, dinanzi ai giudici del rinvio, di un’effettiva controversia e l’obiettiva necessità dell’intervento della Corte per risolverla.

Infatti, lo scopo del rinvio pregiudiziale non è quello di ottenere un parere del giudice dell’Unione su questioni generali ed ipotetiche, ma quello di contribuire a risolvere una questione effettiva ed attuale (26).

In concreto, quanto al primo presupposto menzionato dall’avvocato generale Bobek, non sembra facile scindere, nei casi pratici, l’interpretazione dalla corretta applicazione del diritto dell’Unione, pure in quanto, se si volesse riservare l’intervento obbligatorio alle sole questioni che presentano un livello di astrazione “ragionevole e appropriato”, si sottrarrebbero dal controllo indiretto della Corte numerose controversie concernenti norme nazionali contrastanti con il diritto dell’Unione.

In ordine al secondo ed al terzo criterio individuati dall’avvocato generale Bobek, essi sono già stati formulati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, atteso che, nella sentenza Ferreira Da Silva e Brito, la Corte di Lussemburgo aveva collegato l’obbligo di rinvio all’esistenza di soluzioni alternative plausibili mentre, nella sentenza CILFIT, esso era agganciato all’assenza di una giurisprudenza preesistente (27).

3. Considerazioni conclusive.

Come già evidenziato, la Corte di giustizia, con la pronuncia in esame, sembra non avere mutato il proprio indirizzo consolidato in materia ed i criteri fissati per stabilire quando il giudice nazionale di ultima istanza ha l’obbligo di rimettere la decisione interpretativa di disposizioni eurounitarie.

Infatti, non sono cambiati, prima facie, i criteri che il giudice nazionale di ultima istanza deve considerare per astenersi dal sollevare il rinvio pregiudiziale, vale a dire:

a) quando la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale o nell’ambito del medesimo procedimento nazionale;

b) qualora una giurisprudenza consolidata della Corte risolva il punto di diritto di cui trattasi, quale che sia la natura dei procedimenti che hanno dato luogo a tale giurisprudenza, anche in mancanza di una stretta identità delle questioni controverse;

c) qualora l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.

La Corte di giustizia, tuttavia, ha tentato di meglio definire il compito del giudice nazionale, al fine di evitare che un ricorso massiccio al rinvio pregiudiziale possa in definitiva pregiudicare la funzione ed il ruolo della medesima Corte di giustizia.

Pertanto, essa ha formulato alcune considerazioni in ordine alla funzione del giudice nazionale nel sistema dell’Unione europea.

In questa prospettiva, la Corte UE ha affermato, innanzitutto, che, per verificare se l’interpretazione del diritto UE s’imponga senza lasciare adito a ragionevoli dubbi, il giudice nazionale di ultima istanza “…prima di concludere nel senso dell’esistenza di una situazione di tal genere deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe altresì ai giudici di ultima istanza degli altri Stati membri e alla Corte”.

Si tratta di un criterio già presente nella giurisprudenza CILFIT, ma che viene ribadito con particolare forza.

Ciò rende evidente come, con il passare del tempo e l’evolversi dell’ordinamento europeo, divenga sempre più importante la dimensione transnazionale del giudice nazionale che si occupi del diritto UE, il quale dovrà essere pure giudice UE.

La Corte chiarisce che il giudice dello Stato membro dovrà valutare le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, le particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e il rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione, senza nemmeno tralasciare le difficoltà che possono derivare dall’esistenza di divergenze linguistiche fra le disposizioni del diritto dell’Unione. Un giudice nazionale di ultima istanza non può essere tenuto a effettuare un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione, ma dovrà esaminare le divergenze tra le versioni di cui è a conoscenza, segnatamente quando queste sono esposte dalle parti e sono comprovate, senza nemmeno tralasciare di verificare se entrino in gioco nozioni autonome regolate dal diritto UE od i criteri ermeneutici propri dell’ordinamento europeo.

Qualora la verifica sia negativa, il giudice potrà ritenere l’assenza di elementi atti a far sorgere un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta del diritto dell’Unione ed astenersi dal sottoporre alla Corte di giustizia una questione di interpretazione del diritto UE.

La Corte di giustizia aggiunge che la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di esse - alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce - appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta. Particolare valore assumeranno, ancora, eventuali contrasti giurisprudenziali interni al giudice di ultima istanza nazionali, o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi, relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia oggetto del procedimento principale.

L’obiettivo della procedura pregiudiziale è, quindi, di perseguire l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, ma prestando una particolare attenzione alle caratteristiche proprio del diritto UE ed alle sue ricadute in altri Paesi diversi da quello in cui sorge il dubbio sul rinvio.

All’individuazione dei canoni da verificare per disporre o meno il rinvio pregiudiziale la Corte UE aggiunge, in chiusura, quello che probabilmente più responsabilizzerà i giudici di ultima istanza nel loro ruolo di raccordo con la Corte di giustizia.

Infatti, essa demanda al giudice nazionale un particolare onere motivazionale sulle ragioni che lo hanno indotto a non sollevare il rinvio pregiudiziale.

Ne deriva che “allorché un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno ritenga, per il fatto di trovarsi in presenza di una delle tre situazioni menzionate al punto 33 della presente sentenza, di essere esonerato dall’obbligo di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, la motivazione della sua decisione deve far emergere o che la questione di diritto dell’Unione sollevata non è rilevante ai fini della soluzione della controversia, o che l’interpretazione della disposizione considerata del diritto dell’Unione è fondata sulla giurisprudenza della Corte, o, in mancanza di tale giurisprudenza, che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice nazionale di ultima istanza con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi”.

La decisione della controversia in esame, quindi, ha dato l’occasione per modernizzare il sistema sedimentato attorno ai criteri CILFIT, alla ricerca di un punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze dei giudici nazionali e della Corte di giustizia (28).

In conclusione, può dirsi che la vicenda trattata è sintomatica dell’esistenza di differenti visioni quanto alla funzione dei giudici nazionali e della Corte di giustizia all’interno dell’UE.

Da un lato, la lettura fornita dall’avvocato generale sembra più prossima ad una concezione dell’UE come una federazione o confederazione di Stati, all’interno della quale si colloca una sorta di Corte costituzionale politica simile a quella degli Stati uniti d’America, la quale seleziona i casi da trattare e si pone in una posizione di assoluta superiorità rispetto ai giudici dei singoli Stati.

Al contrario, l’impostazione ancora seguita dalla Corte di giustizia sembra tenere conto di un minore sviluppo istituzionale dell’UE, quale organizzazione finalizzata principalmente alla produzione ed alla gestione di un diritto comune, al fine di garantire il rispetto di questo ad opera dei giudici nazionali, i quali, però, sono compartecipi della formazione dello stesso e, pertanto, dialogano con la Corte di Lussemburgo, ponendole, con una certa libertà, le questioni che ritengono essenziali alla definizione della controversie pendenti davanti a loro, ove sia necessaria l’applicazione del diritto UE.

Quale fra queste impostazioni si rivelerà prevalente nei prossimi anni dipenderà dall’evoluzione dell’ordinamento eurounitario e dal fatto che resti un’organizzazione sovranazionale alla quale i singoli Stati membri hanno attribuito la propria sovranità in determinate materie o diventi, invece, una struttura più complessa e dotata di una sua sovranità.

  • spese processuali
  • procedura civile
  • consulenza e perizia
  • procedura di conciliazione

III)

LA CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA AI FINI DELLA COMPOSIZIONE DELLA LITE NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO

(di Francesco Graziano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Consulenza tecnica preventiva: origine dell’istituto. - 3 Ambito operativo dell’istituto. - 4 Natura giuridica. - 5 Consulenza tecnica preventiva e media-conciliazione. - 6 Consulenza tecnica preventiva e arbitrato. - 7 Aspetti procedimentali. - 8 Il tentativo di conciliazione. - 9 Esito negativo del tentativo di conciliazione ed acquisizione della relazione del consulente nel giudizio di merito. - 10 Reclamabilità dell’ordinanza di rigetto dell’istanza ex art. 696-bis c.p.c. e brevi cenni sulla ricorribilità per cassazione. - 11 La consulenza tecnica preventiva in corso di causa. - 12 Le spese della consulenza tecnica preventiva. - 13 Cenni sulla consulenza tecnica preventiva nel processo amministrativo. - 14 Casistica. - 15 La consulenza tecnica preventiva nelle controversie in materia di proprietà industriale e diritti d’autore.

1. Premessa.

Il presente “focus”, lungi dall’avere pretese di esaustività della materia in esame, vuole tentare di ripercorrere le questioni affrontate, dalla giurisprudenza di merito, con riguardo all’istituto della consulenza tecnica d’ufficio di tipo preventivo, previsto dall’art. 696-bis c.p.c., a far tempo dalla sua entrata in vigore nel nostro ordinamento giuridico.

2. Consulenza tecnica preventiva: origine dell’istituto.

Con il d.l. n. 35 del 2005 (c.d. decreto competitività, conv. dalla l. n. 80 del 2005) tra le varie modificazioni al codice di procedura civile, è stato introdotto, nella sezione dedicata all’istruzione preventiva, l’istituto della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, la cui disciplina è entrata in vigore a far tempo dal 1° marzo 2006. Tale istituto, dunque, attualmente si affianca al preesistente accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696 c.p.c., anch’esso riformato con lo stesso d.l. n. 35 del 2005, introducendo la previsione della possibilità di esperire accertamenti ed ispezioni sulla persona dell’istante (o della controparte, se consenziente) ed estendendo l’ambito dell’accertamento tecnico anche a valutazioni in ordine alle cause ed ai danni relativi all’oggetto della verifica.

L’art. 696-bis c.p.c. consente infatti di domandare, pur in difetto del requisito dell’urgenza, l’espletamento di una consulenza tecnica ante causam “ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito”. Il consulente procederà, dunque, non solo ad “accertare” ma anche a “quantificare” i crediti che discendono dalla fattispecie contrattuale o extracontrattuale oggetto di accertamento e, prima di depositare la relazione conclusiva, tenterà di indirizzare le parti verso la conciliazione al fine di evitare il successivo giudizio di merito.

Lo strumento processuale era previsto nel progetto di legge delega per la riforma del Codice di procedura civile elaborato dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. Romano Vaccarella (del novembre 2002) che, all’art. 52, proponeva l’utilizzo di procedimenti di istruzione preventiva anche in assenza di periculum in mora, nonché l’ampliamento delle ipotesi di consulenza tecnica ante causam.

Connotazione peculiare dell’istituto è proprio il tentativo, affidato al CTU, di condurre le parti, ove possibile, ad un accordo conciliativo e, per il buon esito di tale tentativo, il legislatore ha previsto anche taluni incentivi quali la valenza dell’accordo come titolo esecutivo per l’attivazione dell’esecuzione forzata e l’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro. La finalità è, con tutta evidenza, quella di deflazionare il contenzioso civile, consentendo di comporre la controversia senza attendere l’esito del giudizio ordinario. In tale ottica, l’istituto in esame può considerarsi rientrare nel novero dei cd. strumenti ADR e, cioè, gli alternative dispute resolution methods.

La CTU conciliativa risulta dunque uno strumento alternativo di risoluzione delle controversie collocato, tuttavia, nell’ambito dei procedimenti giurisdizionali, dei quali condivide tutte le garanzie in considerazione di un possibile esito negativo del tentativo di conciliazione (cfr., all’uopo, Tribunale di Torino, sez. III, 31 marzo 2008).

3. Ambito operativo dell’istituto.

Fatta eccezione per il requisito dell’”urgenza”, l’ambito operativo della norma in commento è il medesimo dell’art. 696 c.p.c., che disciplina l’accertamento tecnico preventivo. Il consulente è chiamato ad una valutazione tecnico-fattuale della fattispecie, contrattuale o extracontrattuale (più precisamente “da fatto illecito”), che permetta di acclarare l’esistenza e determinare l’ammontare dei crediti che ne derivano. Tuttavia, accertamento e valutazione sono finalizzati, come espressamente prevede la rubrica stessa della norma, a tentare la conciliazione delle parti.

Il ruolo del giudice è piuttosto circoscritto, giacché egli procede alla verifica dei presupposti processuali (giurisdizione e competenza) e delle condizioni dell’azione (legittimazione ed interesse ad agire). La sua valutazione è rivolta esclusivamente alla sussistenza del cd. fumus boni iuris, requisito che assume qui una particolare valenza rispetto a quella propria dell’istruzione preventiva, essendo connesso alla protezione diretta del diritto sostanziale oltre che processuale. L’istanza potrà essere respinta in caso di manifesta inammissibilità o infondatezza delle (future) domande di merito, così da far ritenere, fin da subito, la consulenza alla stregua di un inutile dispendio di costi e di tempo. Si afferma, peraltro, come nonostante il fine espressamente conciliativo dell’istituto, il giudice non possa impedire la consulenza tecnica preventiva sulla base di una valutazione in via di prognosi, ex ante, di impossibilità di accordo tra le parti.

In senso contrario sembra tuttavia essersi espresso il Tribunale di Milano, secondo cui “la richiesta di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c. p. c. può trovare accoglimento se finalizzata alla composizione della lite, secondo la rubrica del citato articolo, talché suo presupposto è che la controversia fra le parti abbia come unico punto di dissenso ciò che, in sede di processo di cognizione, può costituire oggetto di consulenza tecnica, acquisita la quale, secondo le preventivamente dichiarate intenzioni delle parti, appare assai probabile che esse si concilieranno, non residuando - con valutazione da compiersi in concreto ed ex ante - altre questioni controverse” (cfr., all’uopo, Tribunale di Milano, 17 aprile 2006; Tribunale di Milano, 23 gennaio 2007).

Delineato il ruolo del giudice, e chiarito che unico presupposto dell’istituto è l’astratta idoneità dell’accertamento ad assumere rilevanza nel giudizio di merito per la prova del diritto di credito vantato dal ricorrente, occorre individuare quale sia l’ambito operativo all’interno del quale può attivarsi la consulenza tecnica cd. preventiva.

Anzitutto, devono ritenersi preclusi al consulente accertamenti meramente giuridici. Non possono, dunque, essergli affidati quesiti giuridici in senso stretto e neppure eccessivamente generici. E ciò, in quanto scopo dell’attività del consulente è di accertare non il diritto ma il “fatto” alla base della pretesa risarcitoria. La giurisprudenza di merito è concorde in tale visione (cfr., all’uopo, Tribunale di Forlì, 4 febbraio 2008, secondo cui “Non merita accoglimento il ricorso proposto per accertamento tecnico preventivo relativo ad una questione di nullità dei contratti conclusi per ritenuta violazione di norme imperative. Si tratta di una valutazione di eminente carattere giuridico, rispetto alla quale l’apporto tecnico appare pressoché inesistente e, conseguentemente, inutilmente esperibile il relativo accertamento.”).

Con riferimento alle fattispecie extracontrattuali è possibile demandare al consulente valutazioni sul fatto, sulla quantificazione del danno e sul nesso causale. Non è invece possibile chiedergli di esprimersi sull’an, ossia sulla sussistenza o meno del credito risarcitorio. Quanto alla natura dei diritti in contesa, l’ambito di applicazione privilegiato riguarda, in ragione del chiaro dettato normativo che fa riferimento ai “crediti derivanti da obbligazioni contrattuali o da fatto illecito”, le controversie relative alla verifica dell’esecuzione di contratti (in specie quelli di prestazione d’opera e appalti) e quelle in materia di responsabilità civile (quali, ad esempio, quelle in tema di danni da circolazione stradale dei veicoli).

Uniforme nella giurisprudenza di merito è l’affermazione della necessità che nell’istanza siano esposte, sia pure sommariamente, le domande e/o eccezioni alle quali è preordinata la prova che consegue alla consulenza preventiva. Si ritiene inammissibile, dunque, l’istanza in caso di carente od omessa indicazione della domanda da proporsi nel giudizio di merito, essendo insufficiente la semplice richiesta di accertamento delle cause e delle responsabilità riconducibili a taluni eventi, senza accenno alcuno alla specifica pretesa da azionare in caso di mancata conciliazione (cfr., Tribunale di Genova, 12 settembre 2008, nonché, in epoca assai più recente, Tribunale di Treviso, 23 giugno 2021).

Ed ancora, viene respinta l’istanza promossa ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. allorquando la stessa risulti dettata unicamente da finalità esplorativa. Nell’istanza non è ammesso, infatti, che il ricorrente si limiti ad affermare la necessità della consulenza tecnica “al fine di meglio valutare la bontà di eventuali azioni giudiziarie da intraprendersi” (cfr., Tribunale di Nola, 10 marzo 2008; cfr., altresì, Tribunale di Busto Arsizio, 19 aprile 2010, secondo cui l’istituto “non ha carattere esplorativo, ma risponde alla necessità di appurare ed approfondire, sul piano tecnico, quanto sostenuto dalle parti”; cfr., infine, anche Tribunale di Campobasso, 29 settembre 2020). Proprio la particolare finalità dell’istituto – diretta alla conciliazione della lite, più che all’acquisizione di una prova – attribuisce alla verifica preliminare circa la sussistenza della pretesa controversa una notevole rilevanza (cfr., all’uopo, Tribunale di Milano, 30 giugno 2011, secondo cui “posto che la consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. non partecipa della funzione cautelare tipica delle altre misure di istruzione preventiva, ma persegue persegue primariamente finalità conciliative, è inammissibile l’istanza, ove non sia provato il fumus boni iuris, ossia la probabile esistenza del diritto tutelando nel successivo ed eventuale giudizio di merito.”; cfr., altresì, Tribunale di Spoleto, 7 maggio 2017, secondo cui “La C.T.P. ex art. 696-bis c.p.c., pur essendo orientata a favorire la definizione amichevole della lite, può essere ammessa soltanto se il ricorrente dimostra la verosimile fondatezza della propria domanda di merito o, quantomeno, che la richiesta C.T.U. possa accertare la sussistenza o l’inesistenza dei diritti controversi.”).

Anche il Tribunale di Napoli, in epoca recente, ha dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. non solo per la indeterminatezza e la genericità del ricorso, ma altresì per la mancanza di prova del possesso dello status di eredi da parte degli istanti, che agivano in tale qualità chiedendo i danni conseguenti al decesso della paziente dovuto a malpractice nell’esecuzione di un intervento chirurgico. In particolare, il giudice ha affermato che la mancanza di prova di tale status comporta il difetto di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti, requisito indispensabile ai fini dell’ammissibilità del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. (Tribunale di Napoli, 20 marzo 2020).

Il requisito della fondatezza della pretesa vale al tempo stesso anche per la parte resistente, con riferimento alle contestazioni volte ad infirmare la richiesta della consulenza. Del resto, se così non fosse, si finirebbe con l’attribuire al resistente, in maniera del tutto priva di qualsivoglia giustificazione, un potere di veto rispetto alla consulenza tecnica d’ufficio di tipo preventivo. La giurisprudenza di merito, infatti, ha chiarito che “In caso di contestazione da parte del resistente della pretesa fatta valere dal ricorrente spetta al giudice valutare la fondatezza della contestazione, ai fini della concessione del richiesto provvedimento (nella fattispecie esso è stato concesso, perché la consulenza tecnica poteva contribuire a chiarire la fondatezza o meno delle contestazioni del resistente).” (Tribunale di Torino, 24 maggio 2016). I giudici di merito, infatti, hanno valorizzato spesso il collegamento della consulenza preventiva con il successivo processo di merito. In tale ottica, si è affermato che “L’art. 696 bis c.p.c. prevede uno strumento alternativo di risoluzione della controversia che – in quanto collocato nell’ambito di un procedimento giurisdizionale dal quale mutua le relative garanzie – può essere ricondotto alla categoria della cd. conciliazione delegata (cfr. art.198 c.p.c.). L’istituto in questione non può più quindi ridursi ad una tipologia di provvedimento cautelare anticipatorio delle attività istruttorie in senso stretto, come dimostra la non operatività delle condizioni richieste – al contrario – per l’accertamento tecnico preventivo ex art.696, comma 1, c.p.c. Pur avendo una propria – e più spiccata – autonomia funzionale nel senso appena espresso, la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite deve però pur sempre essere raccordata al giudizio di merito. Da ciò deriva che all’A.G. spetta il potere di valutare l’ammissibilità e l’attualità della consulenza non urgente in relazione ai presupposti processuali ed alle condizioni dell’azione, nonché a tutti i residui profili che possano rendere di fatto inutile (perché non utilizzabile in alcun giudizio di merito) l’accertamento da effettuare.” (Tribunale di Cinquefrondi, 28 gennaio 2011).

Quanto al giudizio ex ante sulle possibilità di successo della consulenza cd. preventiva in relazione alla “conciliabilità” della lite, è raro riscontrare in giurisprudenza provvedimenti di rigetto fondati su una prognosi negativa. L’inammissibilità è stata decisa, ad esempio, stante la pendenza di un giudizio tra le stesse parti e con lo stesso oggetto. È stato affermato, infatti, che “Il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. proposto nelle more di un giudizio già pendente tra le stesse parti e con lo stesso oggetto è del tutto inammissibile per mancanza del presupposto logico-giuridico alla base di tale strumento processuale, ovvero l’esigenza di prevenire l’insorgenza di una controversia giudiziale.” (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 11 luglio 2011; cfr., in sesno analogo, Tribunale di Padova, 9 maggio 2018, che ha motivato l’ordinanza di inammissibilità sulla base del presupposto che le parti avevano già instaurato avanti all’autorità giudiziaria altro procedimento su questione connessa; cfr., infine, sempre per la decisione di inammissibilità in caso di pendenza di causa, Tribunale di Como, 9 settembre 2020). Si è anche dichiarata l’inammissibilità dell’istanza in ragione della complessità delle questioni dedotte, in quanto non suscettibili di divenire oggetto di consulenza preventiva poiché difficilmente conciliabili (Tribunale di Spoleto, 7 maggio 2015).

La giurisprudenza di merito ha registrato poi un’apertura in tema di operatività dell’istituto a prescindere dalla posizione delle parti sull’an debeatur. All’indomani dell’entrata in vigore dell’istituto, infatti, un’interpretazione giurisprudenziale più rigorosa aveva ritenuto necessario, per l’ammissione dell’istanza, che le parti concordassero sull’“an” della pretesa. Dunque, si propendeva per il rigetto dell’istanza nel caso in cui non fosse in discussione tra le parti soltanto il “quantum” dell’obbligazione risarcitoria, ma anche l’effettiva sussistenza della stessa, oltre all’individuazione del soggetto ad essa eventualmente tenuto (cfr., all’uopo, Tribunale di Milano, 17 aprile 2006, già sopra citata). Analogamente si era affermato che “Presupposto dell’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696-bis c.p.c. è che la controversia fra le parti abbia come unico punto di dissenso ciò che, in sede di processo di cognizione, può costituire oggetto di consulenza tecnica, acquisita la quale, secondo le preventivamente dichiarate intenzioni delle parti, appare assai probabile che esse si concilieranno, non residuando - con valutazioni da compiersi in concreto ed “ex ante” - altre questioni controverse” (Tribunale di Milano, 23 gennaio 2007). La giurisprudenza evidenziava che l’istanza per la consulenza cd. preventiva è finalizzata all’accertamento della quantificazione economica del danno derivante dalla lesione del diritto e non alla valutazione giuridica della sussistenza del diritto stesso. Il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. poteva accogliersi solo se fosse stato proposto un quesito idoneo in astratto ad assorbire tutte le questioni controverse, potendo il consulente, solo in tal caso, esprimere una soluzione conciliativa della lite (in tal senso, Tribunale di Genova, 10 settembre 2008).

È chiaro che, muovendo dall’assunto secondo cui il quesito affidato al consulente può avere contenuto meramente tecnico, affinché la consulenza possa tradursi in un tentativo di conciliazione, occorre una concordanza delle parti sull’an. In altri termini, la soluzione ad un quesito di natura meramente tecnica, idoneo a risolvere la controversia presuppone che non vi sia contestazione tra le parti sulla sussistenza del diritto. La contrapposizione delle parti in punto di diritto lascia scarse possibilità di successo al possibile accordo che invece risulta senz’altro di più agevole raggiungimento allorquando la disputa coinvolga questioni di mero fatto. Tuttavia, negli anni successivi, la giurisprudenza di merito si è attestata su posizioni meno restrittive. Ad esempio, il Tribunale di Mantova in tema di consulenza richiesta nell’ambito della responsabilità medica, con una pronuncia emanata in epoca assai anteriore all’entrata in vigore della l. 8 marzo 2017, n. 24 (cd. legge Gelli – Bianco) ha chiarito che “Poiché l’istituto della consulenza tecnica preventiva di recente introdotto dal legislatore all’articolo 696-bis c.p.c., è chiaramente finalizzato alla composizione della lite prima dell’inizio del giudizio di merito, sarebbe estremamente riduttiva un’interpretazione della portata di detto istituto che ne limitasse l’ammissibilità ai soli casi in cui tra le parti non vi siano contestazioni in merito all’an della pretesa e si controverta esclusivamente in merito al quantum dell’importo dovuto a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale. È infatti lo stesso articolo 696-bis c.p.c., a prevedere testualmente che la verifica demandata al consulente possa essere estesa, oltre che alla determinazione dei crediti, anche all’accertamento della loro esistenza e ciò, ovviamente, nei casi in cui detto accertamento presupponga indagini non limitate a mere valutazioni giuridiche, ma richieda anche valutazioni di natura tecnica per le quali il giudice necessita dell’ausilio di un esperto” (Tribunale di Mantova, 26 marzo 2010).

Analogamente, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 13 aprile 2011, ha ammesso la consulenza preventiva anche nel caso di contestazione dell’an debeatur della pretesa. Nel provvedimento, tuttavia, viene respinta la tesi estensiva secondo la quale il giudice può omettere la valutazione del fumus boni iuris per essere ogni questione di ammissibilità dell’istituto rinviata al giudizio di merito e si precisa che, anche se non occorre che le parti concordino sull’an, nondimeno il giudice non può dirsi esonerato da una valutazione circa la fondatezza, in astratto, dell’azione che sarà esercitata nel giudizio di merito, al quale la consulenza è funzionalmente collegata e strumentale. La soluzione è stata condivisa, successivamente, anche dal Tribunale di Parma, secondo cui “la consulenza di cui all’art. 696-bis c.p.c. può essere disposta anche a fronte di contestazioni circa l’an della pretesa a condizione che la stessa sia comunque volta ad acquisire elementi tecnici di fatto risolutivi ai fini non solo della quantificazione ma altresì dell’accertamento del credito derivante dalla inesatta esecuzione delle obbligazioni contrattuali assunte” (Tribunale di Parma, 22 settembre 2014).

L’orientamento meno rigoroso, e favorevole ad un’ammissibilità dell’istituto anche in ipotesi connotate da assoluta incertezza circa la stessa esistenza del diritto di credito oggetto di controversia, ha trovato ulteriori conferme. In particolare, il Tribunale di Cremona ha affermato che “Le preminenti finalità conciliative e deflattive del contenzioso dell’art. 696 bis rendono irrilevante l’eventuale inesistenza del credito di chi agisce allorquando possa accertarsi solo in seguito ad un approfondito vaglio degli atti di causa, incompatibile con il procedimento di cui all’art.696 bis e riservato alla pienezza del contraddittorio nel giudizio di merito, che potrà essere instaurato ove fallisca il tentativo di conciliazione demandato al CTU.” (Tribunale di Cremona, 14 maggio 2014). In senso analogo anche il Tribunale di Roma ha ribadito che il ricorso all’art. 696-bis c.p.c. “appare ammissibile anche laddove le parti controvertano sull’an debeatur, purché però la lite sia tale da poter essere risolta con l’ausilio del consulente tecnico d’ufficio, chiamato a prospettare soluzioni che non involgano questioni di diritto” (Tribunale di Roma, 30 maggio 2016).

Infine, anche la recente giurisprudenza di merito ha confermato l’ammissibilità del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. laddove vi sia contestazione da parte del resistente con riguardo all’an debeatur e manifestazione di dissenso rispetto alla conciliabilità della lite, evidenziando che tale strumento “non presenta tra i requisiti di ammissibilità la non contestazione in ordine all’an debeatur né assume rilievo in senso negativo il fatto che il convenuto abbia dichiarato di non voler addivenire ad una conciliazione della controversia; rilevato, inoltre, che la funzione deflattiva perseguita dal legislatore possa essere ugualmente realizzata anche nell’ipotesi in cui il ricorrente all’esito del deposito della consulenza tecnica decida di non promuovere il giudizio di merito intendendo aderire alle eventuali risultanze negative della stessa” (Tribunale di Catanzaro, 2 maggio 2019) e che l’istituto in esame “non richiede, ai fini dell’ammissibilità, la non contestazione in ordine all’an debeatur, potendo essere, siffatta consulenza, disposta anche a fronte di contestazioni circa l’esistenza della pretesa” (Tribunale di Campobasso, 29 settembre 2020).

Il tenore letterale della norma e la esplicita finalità deflattiva perseguita dal legislatore non consentono di ravvisare, in via interpretativa, quale requisito di ammissibilità, la mancanza di contestazioni da parte del resistente, sia in merito al quantum sia in ordine all’an debeatur. Imporre tale requisito di fatto, dunque, finirebbe per vanificare la detta finalità conciliativa. Pertanto, nessun rilievo può essere attribuito, ai fini dell’ammissibilità del procedimento, al fatto che il resistente dichiari espressamente la propria contrarietà ad addivenire ad una conciliazione della controversia. Del resto, tra i possibili esiti del deposito della consulenza tecnica vi è anche quello in base al quale il ricorrente decida di non promuovere il giudizio di merito condividendo le risultanze dell’indagine tecnica che conducono ad escludere l’esistenza di un credito e non è revocabile in dubbio che, anche in tali ipotesi, lo strumento di cui si tratta avrebbe assolto comunque la funzione deflattiva perseguita dal legislatore (cfr., in tal senso, Giudice di Pace di Cerignola, 14 ottobre 2020).

In conclusione, alla giurisprudenza di merito che, incline al riconoscimento della prevalenza del fine conciliativo dell’istituto, ha attribuito particolare importanza – ai fini dell’accoglimento dell’istanza – alla concordanza delle parti sull’an e soprattutto alla mancata espressione di un netto diniego ad approdare a soluzioni conciliative, si è affiancata la posizione di alcuni tribunali secondo i quali il fumus relativo alla fondatezza della domanda e l’astratta conciliabilità della lite non costituiscono condizioni di ammissibilità della consulenza tecnica cd. preventiva. In tale ottica, dunque, sia la valutazione della titolarità attiva o passiva della situazione soggettiva dedotta in giudizio, sia l’esame dell’eccezione di prescrizione eventualmente sollevata dal resistente, sono profili che restano riservati al giudice del merito. L’accento posto sulla natura prevalentemente istruttoria dell’istituto consente, infatti, il ricorso all’art. 696-bis c.p.c. anche in presenza di contestazioni sull’an della pretesa ed anche in assenza di disponibilità al raggiungimento di una soluzione transattiva della controversia.

La sintesi di tali orientamenti di merito sembra potersi identificare con la recente giurisprudenza del Tribunale di Roma, secondo cui “L’accertamento tecnico a fini conciliativi essendo innanzi tutto uno strumento per la soluzione delle controversie prima dell’inizio del giudizio di merito, in maniera diversa ed alternativa rispetto all’ordinario meccanismo giurisdizionale, oltre ad essere sganciato dal requisito dell’urgenza, non può limitarsene l’applicabilità ai soli casi in cui  tra le parti non vi siano contestazioni in merito all’an della pretesa controvertendosi esclusivamente  in merito al quantum dell’importo  dovuto a titolo di responsabilità  contrattuale od extracontrattuale, in quanto, è la stessa disposizione normativa a prevedere che la verifica demandata al consulente possa essere estesa, oltre che alla determinazione dei crediti, anche all’accertamento della loro esistenza, ragione per cui, l’unico limite è l’ipotesi in cui vi sia una contestazione radicale non già della responsabilità ma dello stesso rapporto da cui trarrebbe origine il credito da accertare, giacchè ricorrendo tale ultima ipotesi, la consulenza preventiva sarebbe meramente esplorativa.” (Tribunale di Roma, 17 febbraio 2020). 

4. Natura giuridica.

La giurisprudenza di merito ha accolto la conclusione della natura ibrida dell’istituto affermando che il quid novi dell’istituto (rispetto all’accertamento tecnico di cui all’art. 696 c.p.c.) consiste proprio nella “esigenza non di precostituirsi una prova prima del processo, quanto piuttosto quella di poter disporre di uno strumento base dal quale poter partire per poter giungere ad una soluzione conciliativa” (Tribunale di Ravenna, 29 marzo 2008). In particolare, è stata negata la natura cautelare dell’istituto, propendendosi piuttosto per l’accostamento alla categoria degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie con scopo deflattivo, in ragione del riconoscimento della preminente finalità conciliativa (Tribunale di Busto Arsizio, 25 maggio 2010; Tribunale di Venezia, 10 marzo 2010; Tribunale di Milano, 30 giugno 2011). In tale ottica, è stato chiarito che “Lo scopo primario avuto di mira dal legislatore con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite è stato quello di predisporre uno strumento deflattivo, nella consapevolezza che molteplici tipologie di cause (nel settore medico, in quello degli appalti o della prestazione d’opera) risultano in gran parte condizionate dall’esperimento di una consulenza che, spesse volte, è in grado di favorire la transazione o la conciliazione delle parti. Da qui l’esigenza di poter anticipare tale momento accertativo e di stimolo al possibile accordo, rispetto alla stessa proposizione della domanda giudiziale ordinaria, svincolando la richiesta dalla necessaria sussistenza del periculum in mora.” (Tribunale di Ravenna, 27 giugno 2016). Espressamente si è affermata la sussistenza della medesima finalità conciliativa e deflattiva propria della media-conciliazione di cui al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (cfr., in particolare, Tribunale di Varese, 21 aprile 2011, secondo cui “consulenza tecnica preventiva (696-bis c.p.c.) e mediazione (d.lgs. 28/2010) perseguono la medesima finalità, introducendo entrambi gli istituti un procedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, così da apparire tra loro alternativi e, quindi, apparendo le norme di cui al d.lgs. 28/2010 incompatibili logicamente e, quindi, non applicabili dove la parte proponga una domanda giudiziale per una CTU preventiva”). Di segno opposto appaiono tuttavia le decisioni di altri tribunali secondo le quali, nel caso in cui il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. concerna materie per le quali è prevista la mediazione obbligatoria, lo stesso deve essere dichiarato inammissibile stante la necessità di dover previamente instaurare il tentativo obbligatorio di mediazione (Tribunale di Siracusa, 14 giugno 2012). L’alternatività, peraltro, è stata successivamente prevista dal legislatore, quale condizione di procedibilità per i giudizi civili in materia di responsabilità sanitaria (art. 8 della l. 8 marzo 2017, n. 24).

Nella disamina dei ricorsi per consulenza tecnica preventiva i giudici differiscono al successivo processo di merito le valutazioni approfondite circa la sussistenza effettiva del (presunto) credito, confidando nel raggiungimento di un esito positivo del tentativo operato dal consulente. In tal senso, si è affermato che “Le preminenti finalità conciliative e deflattive del contenzioso dell’art 696-bis rendono irrilevante l’eventuale inesistenza del credito di chi agisce allorquando possa accertarsi solo in seguito ad un approfondito vaglio degli atti di causa, incompatibile con il procedimento di cui all’art. 696-bis e riservato alla pienezza del contraddittorio nel giudizio di merito, che potrà essere instaurato ove fallisca il tentativo di conciliazione demandato al CTU.” (Tribunale di Cremona, 14 maggio 2014). È stato peraltro ritenuto che l’ulteriore elemento fondamentale della tutela cautelare, costituito dal fumus boni iuris, debba comunque sussistere anche nel caso della consulenza tecnica d’ufficio di tipo preventivo. La giurisprudenza di merito più risalente ha affermato che - stante l’assenza del requisito del periculum - è proprio questo l’aspetto che il giudice dovrà prendere in considerazione per ammettere la consulenza preventiva, recuperandosi in tal modo la valenza di istituto finalizzato a garantire l’acquisizione di una prova a tutela del diritto che si assume leso. Si è così chiarito che “La consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c., potendo trovare applicazione “anche al di fuori” di ogni ipotesi di periculum in mora, non partecipa di quella natura “cautelare” comune agli altri mezzi di istruzione preventiva; e allora i presupposti di ammissibilità devono essere necessariamente ancorati al fumus boni iuris del diritto tutelando nel successivo ed eventuale giudizio di merito, essendo altrimenti rimesso l’istituto al mero arbitrio del ricorrente. Se il resistente rimane contumace, il giudice rileva d’ufficio la sussistenza o la carenza di prova del “fumus boni iuris”.” (Tribunale di Milano, 13 aprile 2011). Non sono mancate, tuttavia, voci di segno contrario, tra cui, in particolare, deve ricordarsi, in epoca più risalente, quella del Tribunale di Torino, secondo cui “L’istituto della consulenza tecnica preventiva previsto dall’art. 696 bis c.p.c. ha carattere provvisorio e strumentale e prescinde del tutto dai presupposti del “fumus boni iuris” e del “periculum in mora”; non richiede alcuna urgenza di verifica dello stato dei luoghi e si inscrive nel novero dei procedimenti sommari di istruzione preventiva di natura non cautelare. Infatti, tale istituto si pone come strumento alternativo di risoluzione delle controversie, non tanto come strumento cautelare di costituzione preventiva di un mezzo di prova, la cui finalità conciliativa risponde alla “ratio legis” deflattiva del contenzioso ordinario. Solo in secondo luogo, ove la conciliazione non riesca, la consulenza tecnica potrà essere “acquisita agli atti del successivo giudizio di merito”, così realizzandosi l’effetto di parziale anticipazione dell’istruzione probatoria del procedimento ordinario.” (Tribunale di Torino, sez. III, 31 marzo 2008) ed, in epoca più recente, quella del Tribunale di Novara, secondo cui “L’istituto della consulenza tecnica preventiva previsto dall’ art. 696 bis c.p.c. non ha funzione cautelare, bensì principalmente conciliativa ed eventualmente di anticipazione istruttoria, e prescinde pertanto dai presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora; infatti, alla base dell’istituto si deve individuare l’assunto, di natura empirica ma di evidente validità, per cui la conoscenza anticipata del futuro, probabile esito della causa di merito sia tale da dissuadere le parti in conflitto dall’instaurarla o dal coltivarla e da meglio disporre le parti medesime alla soluzione concordata, sicché la relativa domanda deve essere ammessa quando l’accertamento tecnico richiesto abbia, in relazione al tipo di diritto fatto valere, idoneità ad accertarne l’esistenza e a fornirne quantificazione, così come letteralmente richiesto dall’art. 696 bis c.p.c. e come è necessario perché la consulenza tecnica preventiva assolva alle funzioni sue proprie.” (Tribunale di Novara, 2 ottobre 2020).

5. Consulenza tecnica preventiva e media-conciliazione.

Come si vede, dunque, la giurisprudenza di merito era pervenuta alla conclusione della alternatività tra media-conciliazione e consulenza preventiva ancora prima dell’intervento correttivo del legislatore del 2013 (d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modif. dalla l. 9 agosto 2013, n. 98). In alcuni casi, tale conclusione poggiava sul presupposto, sia pure non frequentemente condiviso, che il procedimento consulenza cd. preventiva “ha una funzione in parte cautelare e urgente” (Tribunale di Pisa, 3 agosto 2011); in altri casi, invece, ad essa si era pervenuti, attraverso un percorso di maggiore aderenza al dettato normativo, affermando che “qualora sia proposta un’istanza di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. l’esperimento del procedimento di mediazione non costituisce condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, 1 comma, D.Lgs. n. 28/2010, giacché entrambi gli istituti, introducendo unprocedimento finalizzato alla composizione bonaria della lite, perseguono la medesima finalità, così da apparire tra loro alternativi.” (Tribunale di Varese, 21 aprile 2011).

Le posizioni, tuttavia, non erano sempre univoche. Alcune pronunce, infatti, erano ancorate ad un’interpretazione letterale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 nel suo testo originario, che peraltro non prevedeva tra le ipotesi espresse di esclusione dell’obbligatorietà della media-conciliazione il ricorso promosso ex art. 696-bis c.p.c. In tali ipotesi, i giudici, dunque, richiedevano la preventiva mediazione anche per accedere alla consulenza cd. preventiva, qualora attivata nelle materie elencate dall’art. 5 e, al contempo, negavano la natura cautelare dell’istituto di cui all’art. 696-bis c.p.c. che, invece, avrebbe condotto a concludere per l’inapplicabilità della media-conciliazione in forza del comma 3 dell’art. 5 (cfr., in tal senso, Tribunale di Siracusa, 15 giugno 2012: “è inammissibile il ricorso proposto ai sensi dell’art. 696 c.p.c. vertente su una delle materie indicate dall’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 28/2010 e non precedutodall’esperimento del procedimento di mediazione, posto che la consulenza tecnica preventiva, non avendo natura cautelare, non è ricompresa tra le materie sottratte alla disciplina della mediazione obbligatoria”. Del resto, proprio sulla assenza del presupposto dell’urgenza nella consulenza cd. preventiva, con conseguente impossibilità di richiamare il disposto del comma 3 dell’art. 5, il Tribunale di Milano aveva affermato che: “La coesistenza nell’ordinamento dei due istituti dell’accertamento tecnico preventivo e del procedimento di mediazione obbligatoria non è prevista in termini di alternatività, si che l’espletamento dell’uno non esclude la necessità di ricorrere al secondo. Il carattere dell’urgenza, necessario per l’ammissibilità del procedimento di accertamento tecnico preventivo, ricorre unicamente quando sussista la possibilità che il trascorrere del tempo modifichi lo stato di luoghi o cose, rendendo impossibile o inefficace un successivo accertamento nel rispetto dei tempi processuali. Tale situazione non ricorre quando, pur essendo ancora in corso di esecuzione il contratto sui “derivati” di cui si discute in concreto, l’accertamento richiesto sembri concernere inadempienze dell’intermediario relative alla fase delle negoziazioni.” (Tribunale di Milano, 24 aprile 2012).

L’intervento normativo del 2013, dunque, è riuscito ad arginare le incertezze derivanti dalle differenti posizioni espresse dai giudici di merito. Del resto, la finalità conciliativa, comune all’istituto in esame ed a quello della media-conciliazione, rende sostanzialmente priva di significativa rilevanza la previa attivazione del procedimento di mediazione.

Di indubbio rilievo risulta, al riguardo, quanto affermato dal Tribunale di Varese: “L’ambito dell’art. 696-bis c.p.c. è escluso dall’obbligatorietà della mediazione sancita dall’art. 5 comma I d.lgs. 28/2010 per almeno tre diverse ragioni. In primo luogo, l’istituto, almeno secondo l’indirizzo delle Sezioni Unite, conserva natura “cautelare formale” (Cass. civ., Sez. Un., 20 giugno 2007 n. 14301 in Giur. It., 2007, 11, 2525) e trova quindi applicazione l’esclusione ex lege prevista dall’art. 5, comma IIII, decreto cit.  Inoltre, in adesione ai puntuali rilievi della Dottrina, l’istituto disciplinato dall’art. 696 bis c.p.c. non introduce, a norma dell’art. 2 del decreto legislativo 28/2010, “una controversia in materia di diritti disponibili” e, dunque, non trova applicazione l’art. 5, comma 1, del medesimo decreto (mediazione obbligatoria) in ragione dell’art. 2, comma 1, del decreto cit. (“chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili”). In ogni caso, la consulenza tecnica preventiva, pur non avendo “sostanziale” carattere cautelare, conserva una relazione di accessorietà rispetto all’eventuale futuro giudizio di merito, posto che se la conciliazione non riesce, “ciascuna delle parti può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito” (art. 696-bis, comma V, c.p.c.). Incidendo, pertanto, sui tempi di definizione dell’eventuale futuro giudizio di merito, se ne deve quantomeno riconoscere il carattere “urgente”, in adesione alla collocazione formale dell’istituto nell’ambito dei procedimenti di istruzione preventiva, pur là dove non si voglia attibuire alla CTU preventiva la natura “cautelare formale”, proposta dalle Sezioni Unite. Ne discende l’esclusione dell’art. 5, comma 1, d.lgs. 28/2010 in ragione della deroga di cui al successivo terzo comma della medesima disposizione. Sul piano squisitamente logico-giuridico, non può poi, comunque, non segnalarsi l’aporia del “mediare per chiedere di mediare” posto che con il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. la parte non chiede la distribuzione di torti e ragioni ma di sperimentare un tentativo di risoluzione della lite con modalità alternative.” (Tribunale di Varese, 24 luglio 2012).

6. Consulenza tecnica preventiva e arbitrato.

A seguito della pronuncia del giudice delle leggi (Corte cost., 28 gennaio 2010, n. 26) con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 669-quaterdecies c.p.c., nella parte in cui, escludendo l’applicazione dell’articolo 669-quinquies c.p.c. ai provvedimenti di cui all’art. 696 c.p.c., impediva, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito, la giurisprudenza di merito costante ha ritienuto compatibile l’istruttoria preventiva pur in presenza di arbitrato. È venuto allora in rilievo il quesito se, per la consulenza cd. preventiva ex art. 696-bis c.p.c., potesse valere la medesima compatibilità, posto che tale istituto si distingue dall’accertamento tecnico di cui all’art. 696 c.p.c. proprio per l’assenza di quell’elemento peculiare (periculum in mora) in forza del quale è stata riconosciuta l’ammissibilità in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale. Proprio sulla base di tale differenza è stata motivata la posizione negativa espressa dalla giurisprudenza di merito che ha respinto le istanze ex art. 696-bis c.p.c. in presenza di clausole di devoluzione della controversia ad arbitri, in ragione proprio della natura non cautelare dell’istituto. (cfr. Tribunale di Torino, 17 gennaio 2008, secondo cui “In una controversia oggetto di clausola compromissoria per arbitrato irrituale non può concedersi una consulenza tecnica preventiva ai fini della conciliazione della lite, non essendo tale procedimento assoggettato alle norme del procedimento cautelare uniforme e non avendo il relativo provvedimento natura cautelare.”).

Anche successivamente all’intervento della Corte costituzionale, la giurisprudenza di merito, con riguardo all’istituto di cui si tratta, ha affermato che “La presenza di una clausola compromissoria - con la quale le parti rinunciano alla tutela giurisdizionale - risulta ostativa all’ammissione di consulenza ex art. 696bis c.p.c., riferendosi i principi enunciati da Corte cost. 26/2010 solo all’accertamento tecnico preventivo.” (Tribunale di Varese, 29 dicembre 2011). Non è tuttavia mancata una voce di segno contrario, favorevole alla compatibilità tra lo strumento ex art. 696-bis c.p.c. e la presenza di clausola arbitrale, sia pure affermata senza alcuna motivazione al riguardo (Tribunale di Venezia, 9 febbraio 2015).

7. Aspetti procedimentali.

All’udienza fissata in seguito a ricorso ex art. 696-bis c.p.c., il giudice deve verificare la regolarità del contraddittorio e specificare i quesiti tecnici sui quali il consulente dovrà rispondere. In tale sede devono, inoltre, essere risolte le eventuali questioni di rito, quali l’opportunità di disporre eventuali chiamate in causa di terzi e di fissare a tal fine altra udienza nel rispetto della regolarità e completezza del contraddittorio nonché, in considerazione del fatto che la conciliazione avrà maggiori possibilità di essere raggiunta con la partecipazione al procedimento di tutti i potenziali interessati, ai quali, in caso di fallimento delle ipotesi transattive, nel giudizio di cognizione potrà essere opposta l’efficacia della consulenza cd. preventiva nel giudizio di cognizione (cfr., in tal senso, Tribunale di Torino, 31 marzo 2008).

Tra le misure per il contenimento della pandemia da Covid-19, il d.l. n. 18 del 2020 (conv. dalla l. n. 27 del 2020), all’art. 83, comma 7, lett. h), successivamente sostituito dall’art. 221, comma 4, della l. 17 luglio 2020, n. 77 di conversione del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (prorogato, nella sua vigenza, dapprima fino al 31 gennaio 2021, mediante il d.l. n. 125 del 2020, conv. dalla l. n. 159 del 2020 e, poi, fino al 31 luglio 2021 con il d.l. 1° aprile 2021, n. 44, conv. dalla l. n. 76 del 2021 ed, ancora, fino al 31 dicembre 2021 mediante il d.l. n. 105 del 23 luglio 2021, conv. dalla l. n. 126 del 2021 e, da ultimo fino al 31 dicembre 2022, mediante il d.l. n. 228 del 2021 conv. dalla l. 25 febbario 2022 n. 15), ha attribuito ai capi degli uffici giudiziari il potere di semplificare le udienze civili che non richiedano la partecipazione personale delle parti, prevedendo la trattazione della causa unicamente per iscritto e lo svolgimento dell’attività degli ausiliari del giudice con collegamenti da remoto tali da salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti e il potere di disporre che lo svolgimento dell’attività degli ausiliari del giudice avvenga con collegamenti da remoto (alla lettera h-bis). Quanto al giuramento del CTU, in particolare, il d.l. n. 34 del 2020 ha stabilito che in luogo dell’udienza fissata per il giuramento del consulente (ex art. 193 c.p.c.), il giudice può disporre che il consulente, prima di procedere all’inizio delle operazioni, presti giuramento di bene e fedelmente adempiere alle funzioni affidate con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (art. 221, comma 8).

Orbene, a seguito dell’entrata in vigore del primo decreto legge sopra menzionato, numerosi protocolli adottati dai tribunali italiani hanno sancito tale forma di trattazione anche per i procedimenti introdotti ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. Al riguardo si registra, proprio in tema di consulenza cd. preventiva, un provvedimento del Tribunale di Roma che stabilisce la trattazione scritta per l’udienza di discussione sull’ammissibilità dell’istanza promossa in forza dell’art. 696-bis c.p.c., con assegnazione alle parti di termini alternati, a scadenze successive, e con incarico al C.T.U. di procedere in autonomia alla comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni, per poi continuare a svolgere queste ultime fino al deposito della relazione conclusiva. In particolare, in tale provvedimento, si prevede che, ai sensi dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, i consulenti tecnici d’ufficio rendano giuramento mediante sottoscrizione con firma digitale o con invio a mezzo posta elettronica certificata del modulo allegato al provvedimento medesimo, da inviare in PCT alla Cancelleria nel termine di 7 giorni dalla comunicazione di esso; che l’udienza di rinvio avvenga a trattazione scritta, per cui entro 15 giorni dalla notificazione del decreto a cura del ricorrente la parte resistente farà pervenire al giudice le proprie osservazioni in ordine all’ammissibilità del ricorso, ai quesiti posti e curerà, in ogni caso, la nomina dei propri consulenti di parte, dandone comunicazione anche ai consulenti tecnici d’ufficio e verificando in PCT che questi ultimi abbiano reso il prescritto giuramento; che, entro 10 giorni dall’eventuale notificazione del decreto a cura della parte resistente, la parte terza chiamata farà pervenire al giudice le proprie osservazioni in ordine all’ammissibilità del ricorso e/o della chiamata di terzo, ai quesiti posti ai consulenti tecnici d’ufficio e curerà, in ogni caso, la nomina dei propri consulenti di parte dandone comunicazione anche ai consulenti tecnici d’ufficio; che il giudice si riserva di provvedere in ordine alle dette note scritte e di comunicare alle parti un diverso calendario delle attività processuali (ove necessario) all’esito della scadenza dei termini sopra menzionati; che i consulenti d’ufficio provvedano alla comunicazione a mezzo pec alle parti del luogo e della data di inizio delle operazioni peritali. Il provvedimento, poi, prosegue con l’assegnazione dei tre termini di cui all’art. 195, comma 2, c.p.c. e fissando, per l’esame della relazione di consulenza e la conclusione del procedimento, apposita udienza di trattazione scritta, disponendo che nel termine di 7 giorni antecedenti tale udienza sia facoltà delle parti procedere allo scambio e al deposito in telematico di brevi note scritte in ordine ai contenuti dell’elaborato peritale e per dedurre eventuali cause di nullità delle operazioni (Tribunale di Roma, 2 aprile 2020).

8. Il tentativo di conciliazione.

Prima del deposito della relazione, ovvero prima di inoltrare la bozza di quest’ultima alle parti, il consulente deve tentare la conciliazione. Questa è, senza dubbio, la novità maggiormente significativa dell’istituto e ciò che lo caratterizza rispetto all’accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c.

La giurisprudenza di merito si è, fin da subito, attestata su tale considerazione, evidenziando che “Compito del consulente d’ufficio è quello di tentare ove possibile la conciliazione. La mancata enunciazione delle poste di danno preclude ogni possibilità di un fattivo esperimento della consulenza tecnica, che già in partenza non potrebbe appunto assolvere al previo tentativo di conciliazione frustrando la finalità di carattere deflattivo.” (Tribunale di Venezia, 10 marzo 2010).

L’indicazione temporale dettata dal legislatore (“Il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti.”) appare, del resto, in linea con la ratio dell’istituto. Ed invero, la conoscenza anticipata e piena delle risultanze alle quali è pervenuto il consulente, potrebbe determinare una battuta di arresto nella composizione transattiva della controversia, dando luogo ad un irrigidimento delle parti nelle rispettive posizioni.

Al fine di favorire il raggiungimento di un accordo, il legislatore ha previsto anche l’esenzione dall’imposta di registro del verbale di conciliazione ed ha stabilito che il giudice possa attribuire al verbale efficacia esecutiva piena, per ogni forma di tutela in executivis ed altresì l’idoneità per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Il giudice, come chiarito dalla giurisprudenza di merito, ricevuto il verbale di conciliazione deve limitarsi, ai fini della concessione dell’efficacia esecutiva con decreto, ad una mera valutazione formale dell’accordo che potrà avere contenuti sostanziali diversi. L’efficacia esecutiva (cd. exequatur) potrà essere denegata solo in caso di contrarietà all’ordine pubblico ed a norme imperative, analogamente a quanto previsto, con riguardo alla media-conciliazione, dall’art. 12 del d.lgs. n. 28 del 2010 (cfr., in tal senso, Tribunale di Penne, 28 luglio 2006). Il decreto con cui il giudice conferisce o nega l’esecutorietà è insuscettibile di impugnazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché privo dei caratteri della decisorietà e definitività. Il verbale di conciliazione, avendo natura negoziale, è suscettibile di impugnazione mediante gli ordinari rimedi negoziali.

9. Esito negativo del tentativo di conciliazione ed acquisizione della relazione del consulente nel giudizio di merito.

Ai sensi del quinto comma dell’art. 696-bis c.p.c., in caso di mancata conciliazione, il consulente provvede a depositare la relazione in cancelleria e ciascuna parte potrà chiederne l’acquisizione agli atti nel successivo giudizio di merito.

Con specifico riguardo alla valenza della relazione conclusiva del procedimento ed ai rapporti con il procedimento sommario di cognizione di cui all’art. 702-bis c.p.c., deve essere segnalata un’interessante ordinanza del Tribunale di Piacenza del 2011.

Nel giudizio, infatti, era stata sollevata, dalla parte resistente, una questione di illegittimità costituzionale scaturente dal combinato disposto degli artt. 696-bis e 702-bis c.p.c.. Era stato affermato che il procedimento sommario di cognizione, qualora preceduto da una consulenza tecnica preventiva, avrebbe permesso al ricorrente di sottrarsi all’assolvimento dell’onere probatorio delle sue pretese, legittimando così un abuso, ossia un uso distorto, dello strumento processuale di cui all’art. 702-bis c.p.c.. Il giudice, tuttavia, ha respinto la questione, ritenendo che il rito delineato agli artt. 702-bis e seguenti c.p.c. non autorizzi in alcun modo a ritenere che il ricorrente sia esonerato dal dimostrare i fatti costitutivi della propria domanda o che comunque possa darvi una prova meno rigorosa rispetto a quella richiesta in un normale processo di cognizione, chiarendo altresì che detta dimostrazione ben può essere data con l’esito della consulenza tecnica preventiva (Tribunale di Piacenza, 27 maggio 2011, secondo cui “nel rito sommario opera con pienezza e senza alcuna limitazione il principio dell’onere probatorio ex art. 2697 cod. civ. e quindi, l’unico vantaggio che può ottenere l’attore rispetto al procedimento ordinario è quello di una maggiore speditezza della trattazione, ma non già un suo esonero dall’assolvimento di tale onere (oltre che di quello preventivo di allegazione). Né può incidere su tali considerazioni il fatto che il giudizio sia stato preceduto da un procedimento ex art. 696bis c.p.c. dei cui atti i ricorrenti chiedono l’acquisizione, poiché ciò non soltanto non determina alcuna modifica del contenuto normativo degli artt. 702bis e ss. c.p.c. … ma non viola in alcun modo il principio del contraddittorio, né il diritto di difesa e non comporta l’esenzione dei ricorrenti dall’onere probatorio su di loro gravante. Si tratta, infatti, di un procedimento svolto secondo forme normativamente predeterminate, nel rispetto del contraddittorio e sotto il controllo del Presidente del Tribunale, da un soggetto nominato da quest’ultimo, con tutte le garanzie di terzietà ed imparzialità che ciò comporta. Che poi i risultati della consulenza tecnica preventiva possano essere acquisiti nel successivo giudizio di merito, discende da esigenze di economia processuale (onde evitare che, in assenza di conciliazione, l’attività del CTU vada del tutto perduta, con inutile dispendio di energie processuali) che, lungi dall’essere contrarie al dettato costituzionale, ne costituiscono invece piena attuazione, con riferimento al principio (pure sancito dall’art. 111 Cost.) di ragionevole durata del processo. Ed anzi, proprio l’utilizzabilità dei risultati della consulenza preventiva in un successivo giudizio di merito, confermano che si tratta di un mezzo con il quale i ricorrenti si sono voluti precostituire (in maniera del tutto lecita) una prova delle loro pretese, dimostrando perciò di voler assolvere e non già sottrarsi, all’onere probatorio su di essi gravante.”).

10. Reclamabilità dell’ordinanza di rigetto dell’istanza ex art. 696-bis c.p.c. e brevi cenni sulla ricorribilità per cassazione.

Il giudice adito mediante il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. - come già detto - è chiamato a compiere una valutazione, sia pure sommaria, in ordine all’ammissibilità, alla rilevanza ed all’utilità della consulenza richiesta, in relazione alla materia del contendere. L’ordinanza con cui il giudice pronuncia l’inammissibilità della consulenza, pur non pregiudicando la riproposizione dell’istanza, deve ritenersi - secondo la giurisprudenza di merito - non impugnabile. Ciò in quanto, non avendo natura di decisione equiparabile ad una sentenza, non si tratta di decisione incontrovertibile. Evidenziando la particolare natura della consulenza preventiva, la tesi conduce a ritenere che il reclamo previsto dall’art. 669-terdecies c.p.c. (previsto avverso i provvedimenti cautelari di accoglimento o rigetto) non sarebbe applicabile all’istituto. In caso di pronuncia di rigetto (o di inammissibilità) dell’istanza ex art. 696-bis c.p.c., dunque, la giurisprudenza di merito non riconosce la reclamabilità del provvedimento in ragione dell’assenza del presupposto dell’urgenza. L’esclusione della consulenza preventiva di cui al 696-bis c.p.c. dal novero dei procedimenti cautelari e le peculiarità di tale istituto comportano l’inammissibilità del reclamo (cfr., in tal senso, Tribunale di Mantova, 3 luglio 2008; Tribunale di Reggio Emilia, 19 gennaio 2012). E ciò a differenza di quanto invece si ammette nel caso dell’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696 c.p.c. con riguardo al quale, invece, il reclamo avverso il diniego è stato riconosciuto dalla Corte cost. con la sentenza n. 144 del 2008, all’esito di una motivazione interamente fondata sull’esigenza, determinata dall’urgenza, di assumere il mezzo istruttorio e sul rischio che un erroneo diniego potrebbe procurare alla parte istante, ledendo il suo diritto ad una effettiva tutela giudiziaria tramite la dispersione della prova. La consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi non è caratterizzata, invece, da alcuna urgenza, né vi è pericolo di dispersione della prova. Sulla base di tali considerazioni i giudici di merito hanno dunque escluso che l’estensione del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. all’istituto potesse fondarsi sui principi che hanno sorretto la menzionata decisione della Corte costituzionale sull’accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c. ed hanno ritenuto conseguentemente inammissibile il reclamo avverso l’ordinanza di diniego della consulenza preventiva (cfr., in tal senso, Tribunale di Ravenna, 27 giugno 2016).

Anche nella più recente giurisprudenza di merito si è affermato che il reclamo avverso il diniego di consulenza cd. preventiva è inammissibile poiché, diversamente da quanto si verifica con riguardo all’accertamento ex art. 696 c.p.c., l’istituto non risulta essere caratterizzato dal requisito dell’urgenza, né tanto meno sussiste il pericolo di dispersione della prova. In tal senso, si è espresso, di recente, il Tribunale di Reggio Emilia, secondo cui “è noto che l’ammissibilità del reclamo avverso il diniego di ATP ex art. 696 c.p.c. è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 144/2008, all’esito di una motivazione interamente fondata sull’esigenza, determinata dall’urgenza, di assumere il mezzo istruttorio ante causam e sul rischio che un erroneo diniego potrebbe procurare alla parte istante, ledendo il suo diritto ad una effettiva tutela giudiziaria tramite la dispersione della prova. Solo per tali ragioni è stata riconosciuta, con la declaratoria di legittimità costituzionale, la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell’ATP. Tuttavia, è del tutto evidente che, in base all’inequivoco dato testuale normativo, la consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi ex articolo 696 bis c.p.c., diversamente da quanto accade nel caso dell’articolo 696 c.p.c., non è caratterizzata da alcuna urgenza, né vi è pericolo di dispersione della prova; ed il requisito del periculum in mora non deve quindi essere accertato dal Giudice. Proprio tali considerazioni escludono che l’estensione del reclamo all’istituto di cui all’articolo 696 bis c.p.c. possa fondarsi sui princìpi che hanno sorretto la menzionata decisione della Corte costituzionale sull’ATP” (Tribunale di Reggio Emilia, 20 febbraio 2020).

È appena il caso di evidenziare, tuttavia, come la giurisprudenza di legittimità più recente, andando di contrario avviso rispetto all’orientamento di merito prevalente, si sia espressa in senso favorevole alla reclamabilità del provvedimento di diniego della consulenza preventiva, anche in relazione alla sola statuizione relativa alle spese processuali (Sez. 3, n. 23976/2019, Scrima, Rv. 655103-01). In particolare, secondo la S.C., la disciplina dettata dagli artt. 692-699 c.p.c. non esclude la natura cautelare delle relative misure, da intendersi, all’evidenza, latamente cautelare quanto al procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c., evidenziandosi che l’espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche in caso di urgenza come, del resto, confermato dallo stesso tenore letterale dell’art. 696-bis c.p.c., il quale espressamente prevede che una siffatta consulenza possa essere richiesta “anche” al di fuori (e non solo in difetto) delle condizioni di cui all’art. 696 c.p.c., comma 1, il quale fa espresso riferimento al presupposto dell’urgenza. Ulteriori argomenti favorevoli all’ammissibilità del reclamo vengono rinvenuti nel fatto che tale rimedio risulta compatibile anche con il rito previsto per provvedimenti non cautelari (basti pensare alla previsione di cui all’art. 739 c.p.c. in tema di procedimenti in camera di consiglio) e nella considerazione secondo cui “l’art. 696-bis c.p.c., al comma 1, secondo periodo, prevede che il giudice procede a norma dell’art. 696 c.p.c., comma 3 che, a sua volta, stabilisce che il giudice provvede nelle forme stabilite negli artt. 694 e 695 codice di rito. Come già sopra rilevato, proprio l’art. 695 c.p.c. e l’art. 669-quaterdecies c.p.c. sono stati dichiarati, con la sentenza della Consulta n. 144 del 2008, incostituzionali nella parte in cui non prevedono la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza per l’assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c., sicché sarebbe del tutto irragionevole l’esclusione della reclamabilità del provvedimento di mancato accoglimento dell’istanza ex art. 696-bis c.p.c., atteso che quest’ultima norma fa indirettamente riferimento pure all’art. 695 c.p.c., nel modo di cui si è dato conto.”.

Deve nondimeno segnalarsi come, nell’ambito della giurisprudenza di merito, non fosse mancata, in epoca anteriore alla menzionata pronuncia di legittimità, una tesi intermedia secondo cui la reclamabilità dell’ordinanza che rigetta il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. postulerebbe la comprovata esistenza di elementi di urgenza valevoli a lasciar emergere il rischio di rendere non più utilmente esperibile l’assunzione della prova nel futuro giudizio di merito. In tale ottica, dunque, la reclamabilità andrebbe vagliata caso per caso in quanto da ricollegarsi alla sussistenza o meno di ragioni di urgenza nell’assunzione preventiva del mezzo istruttorio. Secondo tale orientamento, dunque, “Il discrimine per valutare se l’ordinanza di rigetto sia o meno impugnabile non è rappresentato quindi dal fatto che si sia in presenza di un ricorso ex art. 696, 696 bis, piuttosto che 669 bis ss. c.p.c. poiché l’unico requisito è relativo alla presenza o meno di elementi di urgenza.” (Tribunale di Padova, 21 settembre 2018).

Pacifica, infine, risulta la non ricorribilità per cassazione (ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.) del provvedimento di diniego (o di inammissibilità) della consulenza cd. preventiva, trattandosi di provvedimento privo, anche con riferimento alle stauizioni sulle spese, dei caratteri della definitività e della decisorietà (Sez. 3, n. 23976/2019, già citata). Trattasi, peraltro, di questione sulla quale, per ragioni agevolmente intuibili, la giurisprudenza di merito non ha mai avuto occasione di soffermarsi ex professo.

11. La consulenza tecnica preventiva in corso di causa.

La giurisprudenza di merito che si è occupata della questione si è espressa in senso contrario all’ammissibilità della consulenza cd. preventiva in corso di causa. In particolare, si è affermato che “La natura conciliativa del nuovo procedimento ex art. 696 bis c.p.c. ne determina i suoi limiti funzionali e operativi con il corollario secondo cui, una volta che è iniziata la causa di merito, la sua celebrazione non risponde più a nessuna logica: non risponde alla necessità di tutelare con urgenza una prova deteriorabile come avviene per il procedimento ex art. 696 c.p.c., né può soddisfare nessuna esigenza cautelare e la sua funzione deflattiva è fallita. La funzione conciliativa si esplica pienamente e autonomamente nel giudizio di merito in corso e allora la sola cosa che questo procedimento potrebbe pienamente e autonomamente produrre è sfociare nel deposito di una c.t.u. che, se acquisibile nel giudizio, resterebbe in ogni caso soggetta alla valutazione del giudice istruttore della causa di merito, come si desume dall’art. 698 c.p.c., con la conseguenza che volervi procedere comunque costituirebbe violazione del principio di economia processuale. Il giudice non può quindi che dichiarare che non può procedere per contemporanea pendenza del giudizio di merito, non valendo in contrario neppure il principio della “perpetuatio iurisdictionis ac competentiae” dato che non è proprio configurabile un procedimento ex art. 696 bis c.p.c. in corso di causa, come è invece per qualsiasi cautela, la quale resta sempre esperibile “ante causam”, o in corso di causa, come avviene anche per l’accertamento tecnico preventivo.” (Tribunale di Vicenza, 14 gennaio 2010). In senso sostanzialmente analogo, si è affermato che “il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. proposto nelle more di un giudizio già pendente tra le stesse parti e con lo stesso oggetto è del tutto inammissibile per mancanza del presupposto logico-giuridico alla base di tale strumento processuale, ovvero l’esigenza di prevenire l’insorgenza di una controversia giudiziale” (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 11 luglio 2011).

12. Le spese della consulenza tecnica preventiva.

La finalità della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, impone alle parti un particolare impegno nell’individuazione di una soluzione transattiva, anche in considerazione della finalità deflattiva che si intende conseguire tramite la conciliazione della lite.

Ciò comporta la necessità che le parti si presentino al tentativo che il CTU è tenuto a svolgere, ferma restando, ovviamente, la possibilità di aderire o meno alle proposte formulate, con la precisazione tuttavia che il rifiuto di valutare la possibilità di una definizione transattiva della controversia non potrebbe non essere considerato ai fini della disciplina delle spese di lite ai sensi del novellato art. 91 c.p.c. al termine del successivo (ed eventuale) processo di merito (Tribunale di Arezzo, 9 marzo 2010).

In particolare, con specifico riguardo alle spese relative al procedimento ex art. 696-bis c.p.c., la giurisprudenza di merito ha fatto applicazione del principio - affermato dalla S.C. - secondo cui le spese per la consulenza tecnica preventiva non hanno natura giudiziale perché l’ATP preventiva di cui all’anzidetta norma per quanto in parte giurisdizionalizzata, è pur sempre finalizzata al componimento della lite, ragione per cui, non potendosi intendere come una fase giudiziale, non dà nemmeno luogo a un’autonoma liquidazione delle spese processuali da parte del giudice che l’ha disposta rientrando esse nel complesso delle spese stragiudiziali sopportate dalla parte prima della lite (Sez. 3, n. 21975/2019, Fiecconi, non massimata).

Ne deriva che, nei procedimenti di consulenza preventiva, il giudice, per effetto del combinato disposto degli artt. 669-septies, comma 2, e 669-quaterdecies c.p.c., può procedere alla liquidazione delle spese processuali a carico della parte ricorrente solamente nei casi in cui dichiari la propria incompetenza o l’inammissibilità del ricorso oppure lo rigetti senza procedere all’espletamento del mezzo istruttorio richiesto. Qualora, viceversa, il giudice dia corso alla consulenza preventiva non ha il potere di statuire sulle spese, giacché l’eventuale provvedimento in tale senso, risulterebbe abnorme, ma tuttavia, non impugnabile ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., in quanto privo dei necessari caratteri di definitività e decisorietà, sebbene tuttavia opponibile, ove azionato come titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., come se fosse un titolo esecutivo di formazione stragiudiziale (Sez. 6-3, n. 26573/2018, D’Arrigo, Rv. 650891-01).

In sintesi, non vi è luogo a provvedere sulle spese della consulenza tecnica in via preventiva ai fini della composizione della lite allorché l’istanza del ricorrente venga accolta - ed in questo caso le relative spese verranno prese in considerazione nell’eventuale successivo giudizio di merito per essere poste a carico del soccombente ai sensi dell’art. 91 c.p.c., ferma restando, ovviamente, la possibilità di una diversa soluzione ai sensi dell’art. 92 c.p.c. - mentre il giudice deve invece provvedere a regolare le spese nel caso di rigetto dell’istanza, per effetto del combinato disposto degli artt. 669-septies, comma 2, e 669-quaterdecies c.p.c. (Tribunale di Torino, 28 ottobre 2019).

Più recentemente, sempre in punto di spese, la Corte costituzionale con la sentenza n. 87 del 5 maggio 2021 ha dichiarato in parte inammissibile e in parte infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze, con ordinanza del 21 maggio 2020, con riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 32 della Costituzione del combinato disposto di cui agli artt. 8, d.P.R. 115/2002, 91 c.p.c., 8, commi 1 e 2 della l. 24/2017, e dell’art. 696-septies c.p.c., nella parte in cui escludono, che il giudice possa addebitare, in tutto od in parte, a carico di una parte diversa da quella ricorrente, il costo della CTU svolta ai sensi del menzionato art. 8 della l. 24/2017; con riguardo a tali profili si rinvia tuttavia a Vol. I, Parte Terza, cap. XII bis, in tema di consulenza tecnica preventiva in materia di responsabilità sanitaria. 

13. Cenni sulla consulenza tecnica preventiva nel processo amministrativo.

Ai sensi del comma 4 dell’art. 63 c.p.a., il giudice amministrativo, qualora reputi necessario l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, può disporre una consulenza tecnica, se indispensabile. Il comma 5, infine, ammette che il giudice amministrativo possa disporre anche l’assunzione degli altri mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, con le uniche eccezioni dell’interrogatorio formale e del giuramento.

Dunque, anche la consulenza tecnica preventiva può trovare applicazione nel processo amministrativo, purché sussista il requisito della sua indispensabilità rispetto all’accertamenti dei fatti o all’acquisizione di valutazioni richiedenti particolari competenze tecniche e che il giudice abbia reputato necessari.

In tal senso, si è dunque espressa la giurisprudenza amministrativa di merito, affermando che “Nel giudizio amministrativo non si può affermare la generalizzata ammissibilità della consulenza tecnica preventiva di cui all’art. 696 bis c.p.c., dal momento che l’ambito applicativo della suddetta c.t.p. deve essere ridotto ai soli casi in cui, pur preventivamente, la medesima consulenza tecnica sia giudicata indispensabile e ciò in virtù di due considerazioni: in primo luogo, attesa la specifica finalità deflattiva e la natura di mezzo istruttorio dell’istituto, esso non appare certamente espressivo di un principio generale del c.p.c. idoneo a trovare ingresso nel giudizio amministrativo ai sensi dell’art. 39 c.p.a. e, in secondo luogo, l’art. 63 comma 4 c.p.a. consente, nell’ambito del giudizio di cognizione, il ricorso alla consulenza tecnica solo se “ indispensabile “, pertanto non vi sono ragioni per ritenere che in una fase processuale anteriore al giudizio di cognizione, il ricorso alla c.t.p. debba ritenersi possibile anche ove non indispensabile.” (T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 12 aprile 2013, n. 3753).

14. Casistica.

Le controversie con riguardo alle quali la consulenza preventiva è destinata a risultare di maggiore utilità sono senza dubbio quelle inerenti la determinazione dei danni patrimoniali e biologici scaturenti da sinistro stradale ed, in genere, da illeciti aquiliani, quanto meno nelle ipotesi in cui non vi siano contestazioni in ordine all’”an” della responsabilità, nonché quelle scaturenti da rapporti bancari che si assumano caratterizzati da registrazioni contabili non corrette compiute da istituti di credito, quali, ad esempio, applicazione di interessi di tipo anatocistico, commissioni di massimo scoperto o errata determinazione della rata di mutui ipotecari.

In particolare, l’ammissibilità dell’istituto risulta essere stata affermata, dalla giurisprudenza di merito, con riguardo all’accertamento di tassi di interesse che il ricorrente abbia dedotto essere usurari. Il Tribunale di Monza ha, infatti, chiarito che “E’ pienamente ammissibile la procedura di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ex art. 696 bis c.p.c. anche nell’ambito dei rapporti bancari per controversie aventi ad oggetto la contestazione di addebiti illegittimi (interessi usurari e anatocistici, commissioni di massimo scoperto, valute fittizie, etc.). L’azione del ricorrente, infatti, è preordinata a verificare l’illegittimità di tali addebiti negli estratti conto e, pertanto, il diritto di credito può annoverarsi nella categoria dei “crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito” previsti dalla norma codicistica. La funzione deflattiva dell’istituto, unita alla finalità di istruzione preventiva, non permette interpretazioni eccessivamente formalistiche e restrittive. Il ricorso è ammissibile anche nell’ipotesi di conto corrente ancora aperto, in quanto l’interesse del cliente trova soddisfazione nel ricalcolo dell’effettivo saldo, depurato dagli addebiti nulli, e la domanda di nullità può essere sempre proposta anche in costanza di rapporto.” (Tribunale di Monza, 17 marzo 2015). In senso sostanzialmente analogo, è stato evidenziato che “Il procedimento ex art. 696-bis c.p.c. è applicabile in ipotesi di contenzioso vertente sull’accertamento ovvero sulla determinazione di crediti che traggono fonte dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito in contratti bancari di prestito personale e, in quanto finalizzato all’ammissione di una consulenza tecnica preventiva che può essere prodotta nel giudizio di merito che una delle parti instauri in caso di mancata definizione conciliativa della controversia, presuppone la positiva delibazione dal Giudice della sua utilizzabilità quale mezzo di prova nel successivo eventuale giudizio di merito a cognizione piena, sicché essa può essere disposta anche a fronte di contestazioni sull’an della pretesa, a condizione che la stessa sia comunque volta ad acquisire elementi tecnici di fatto risolutivi ai fini non solo della quantificazione ma altresì dell’accertamento del credito derivante dalla inesatta esecuzione delle obbligazioni contrattuali assunte.” (Tribunale di Lecce, 30 gennaio 2015).

L’orientamento favorevole, tuttavia, non risulta univoco, atteso che, successivamente alle pronunce sopra richiamate, è stato rigettato il ricorso finalizzato al conseguimento di una consulenza preventiva volta ad accertare la nullità delle clausole contrattuali inerenti la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, l’addebito della commissione di massimo scoperto e il superamento del cd. tasso soglia ai fini usurari, sulla base della considerazione secondo cui si tratterebbe di consulenza non attinente a profili esclusivamente tecnici ma che scaturisce piuttosto su un contrasto di posizioni avente ad oggetto questioni strettamente giuridiche (cfr., in tal senso, Tribunale di Torino, 29 ottobre 2019; Tribunale di Napoli Nord, 2 marzo 2017). Parimenti, si è affermata l’inammissibilità di una consulenza preventiva di tipo contabile richiesta sul presupposto di denunciate inadempienze dell’istituto di credito in sede contrattuale, sotto il profilo di pattuizioni invalide, in violazione di norme o principi di legge, relative ad interessi anatocistici, usurari e spese non dovute, alla stregua della considerazione secondo cui tale richiesta presuppone necessariamente, ai fini dell’ammissione della consulenza preventiva, il vaglio relativo alla fondatezza degli ordini di censura svolti, che si “rivelerebbe indebitamente anticipatorio della decisione e come tale incompatibile con le finalità conciliative della “consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” di cui all’art. 696-bis c.p.c.” (Tribunale di Milano, 6 aprile 2017; in senso analogo, Tribunale di Spoleto, 18 maggio 2015; con riguardo agli interessi pattuiti mediante un contratto di leasing, Tribunale di Roma, 14 novembre 2014). Non è mancato, peraltro, chi ha ravvisato l’inammissibilità del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. avente ad oggetto l’assunta illegittima applicazione di interessi usurari ad un rapporto di mutuo, evidenziando, tra l’altro, trattarsi di materia estranea alla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o alla responsabilità civile da fatto illecito e, dunque, al perimetro applicativo tracciato dal legislatore con riguardo all’istituto in esame (Tribunale di Imperia, 25 agosto 2015).

Anche con riguardo alla richiesta - alquanto singolare - di consulenza preventiva per procedere, previa nomina di un notaio (designato quale CTU), all’apertura di una cassetta di sicurezza custodita presso una filiale bancaria e cointestata a più soggetti, onde compiere l’inventario dei beni in essa eventualmente rinvenuti, la giurisprudenza di merito ha affermato trattarsi di materia esulante dall’ambito applicativo dell’art. 696-bis c.p.c. nei termini già sopra delineati (Tribunale di Asti, 25 settembre 2018).

15. La consulenza tecnica preventiva nelle controversie in materia di proprietà industriale e diritti d’autore.

A seguito della modificazione dell’art. 128 del codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) realizzata mediante l’art. 55 del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 131) risulta ormai espressamente prevista la possibilità di richiedere una consulenza tecnica di tipo preventivo anche con riguardo a controversie in materia di proprietà industriale. L’art. 128, infatti, prevede che le istanze per l’espletamento della consulenza tecnica preventiva di cui all’art. 696-bis c.p.c., si propongono al Presidente della sezione specializzata del tribunale competente per il giudizio di merito, secondo le disposizioni del medesimo articolo, in quanto compatibili. La gurisprudenza di merito, peraltro, ha espressamente chiarito come, dal momento che l’ambito di operatività della consulenza tecnica preventiva è circoscritto alle controversie aventi ad oggetto diritti di credito, siano essi di derivazione contrattuale o extracontrattuale, e non trovi applicazione ad altre situazioni giuridiche che non sono fonte diretta di diritti di credito, debbano ritenersi esulanti dall’ambito applicativo di tale disciplina i diritti assoluti e, dunque, anche le azioni dirette all’accertamento di un diritto di proprietà industriale (Tribunale di Milano, 18 maggio 2013).

Da ultimo, con specifico riferimento al diritto d’autore, può evidenziarsi come nella l. n. 633 del 1941 non risulti rinvenibile una disposizione normativa analoga a quella contenuta nell’art. 128 del codice della proprietà industriale. Nondimeno, l’art. 161 al comma 1, a seguito delle modificazioni introdotte mediante il d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, espressamente prevede la possibilità di fare ricorso ai procedimenti di istruzione preventiva, “Agli effetti dell’esercizio delle azioni previste negli articoli precedenti, nonché della salvaguardia delle prove relative alla contraffazione”. Il riferimento ai soli procedimenti di istruzione preventiva sembrerebbe escludere la possibilità di un ricorso allo strumento di cui all’art. 696-bis c.p.c., posto che il legislatore tutte le volte in cui ha voluto prevederne l’applicabilità, ha espressamente richiamato tale norma (come, ad esempio, accaduto proprio con l’art. 128). Tuttavia, non è da escludersi aprioristicamente la correttezza di un’interpretazione estensiva dell’espressione “procedimenti di istruzione preventiva” valevole ad ammettere anche la consulenza tecnica di tipo preventivo (posto che l’art. 696-bis c.p.c. rientra nella sezione codicistica destinata alla disciplina di tali procedimenti), purché la controversia in materia di diritti d’autore abbia ad oggetto diritti di credito, di natura contrattuale o extracontrattuale, e risulti finalizzata all’accertamento ed alla determinazione di tali diritti. Del resto, in considerazione della natura disponibile dei diritti d’autore aventi contenuto patrimoniale (come può argomentarsi ex artt. 2581 c.c. e 107 della l. n. 633 del 1941), anche la finalità conciliativa della consulenza prevista ex art. 696-bis c.p.c. risulterebbe senz’altro salvaguardata.

  • spese processuali
  • procedura civile
  • patrocinio gratuito

IV)

GRATUITO PATROCINIO E DISTRAZIONE DELLE SPESE: RIFLESSIONI A MARGINE DI SEZIONI UNITE N. 08561 DEL 26 MARZO 2021

(di Annachiara Massafra )

Sommario

1 Le ragioni dell’intervento nomofilattico: fattispecie, questione e principio di diritto. - 2 Il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte. - 3 Spunti di riflessione.

1. Le ragioni dell’intervento nomofilattico: fattispecie, questione e principio di diritto.

Le Sezioni Unite, a seguito delle ordinanze interlocutorie n. 01989/2020 e n. 01990/2020, sono state chiamate a stabilire se, in caso di presentazione dell’istanza di distrazione ex art. 93 c.p.c. da parte dell’avvocato di colui che sia ammesso al patrocinio a spese dello Stato, l’ammissione al beneficio debba intendersi implicitamente rinunciata.

In entrambe le fattispecie oggetto dei ricorsi, infatti, la parte era stata ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato ma l’istanza di liquidazione dei compensi, in forza della richiesta distrazione, era stata respinta, con contestuale revoca dell’ammissione provvisoria al beneficio, richiamando anche l’abrogata disposizione di cui all’art. 14 della l. n. 533 del 1973, sull’assunta incompatibilità, con il detto istituto, della richiesta di distrazione delle spese, costituendo quest’ultima rinuncia implicita ad esso.

Sez. U, n. 8561/2021, Falaschi, Rv. 660877-01, muovendo dall’analisi del quadro normativo di riferimento emergente dalla stessa giurisprudenza di legittimità, hanno ricostruito la disciplina del patrocinio a spese dello Stato in un’ottica storica, teleologica e costituzionalmente orientata ed hanno enunciato il principio di diritto così massimato dall’Ufficio: “La presentazione dell'istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non costituisce rinuncia implicita al beneficio da parte dell'assistito, attesa la diversa finalità ed il diverso piano di operatività del gratuito patrocinio e della distrazione delle spese – l'uno volto a garantire alla parte non abbiente l'effettività del diritto di difesa e l'altra ad attribuire al difensore un diritto in rem propriam – con la conseguenza che il difensore è privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, compreso il diritto soggettivo all'assistenza dello Stato per le spese del processo, potendo la rinuncia allo stesso provenire solo dal titolare del beneficio, e tenuto conto, peraltro, che l'istituto del gratuito patrocinio è revocabile solo nelle tre ipotesi tipizzate nell'art. 136 del d.P.R. n. 115 del 2002, norma eccezionale, come tale non applicabile analogicamente».

2. Il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte.

Il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte può così sintetizzarsi: ricostruzione della giurisprudenza rilevante in materia; analisi della normativa vigente; ricostruzione storica degli istituti e ricostruzione della ratio di entrambe le discipline in un’ottica costituzionalmente orientata.

Nel dettaglio è stata ricostruita la posizione restrittiva assunta dalla Sezione lavoro della Suprema Corte, formatasi durante la vigenza del patrocinio a spese dello Stato di cui agli artt. 13 e 14 della l. n. 533 del 1974 (ribadita da Sez. 6-2, n. 05232/2018, Rv. 648215-01, in relazione al beneficio di cui al d.P.R. n. 115 del 2002), la quale, muovendo dall’incompatibilità del patrocinio a spese dello Stato con l’istituto della distrazione delle spese, ha ritenuto che la presentazione dell’istanza ex art. 93 c.p.c. costituisca implicita rinuncia agli effetti dell’ammissione al beneficio, essendo direttamente riferibile al non abbiente per effetto della procura conferita al difensore.

È stata quindi analizzata la diversa posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità che nel passato, con principio ribadito anche di recente, ha invece escluso l’operatività del descritto automatismo, affermando, al contrario, che la rinuncia al beneficio non solo debba essere inequivoca ed esplicita ma anche direttamente riferibile alla parte interessata, non rientrando nei poteri del difensore, ex art. 84 c.p.c., quello di disporre del diritto di difesa del non abbiente (da ultimo, Sez. L, n. 30418/2019, Rv. 655869-01, per la quale la presentazione dell’istanza di distrazione non costituisce rinuncia implicita al beneficio).

Nel descritto contesto è stata inoltre presa in considerazione Cass. pen., Sez. 3, n. 09178/2009, la quale, in via incidentale, ha escluso che l’istituto della distrazione di cui all’art. 93 c.p.c. possa trovare applicazione nell’ambito della procedura di patrocinio a spese dello Stato in favore della parte civile nel processo penale, con conseguente rigetto della relativa istanza di liquidazione dei compensi.

Attraverso l’analisi della normativa, sia di quella vigente che di quella precedente di cui alla l. n. 533 del 1974, è stato in particolare escluso che la presentazione dell’istanza di distrazione da parte del difensore possa costituire, per l’assistito, rinuncia implicita al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, evidenziando l’ampiezza del beneficio disposto in favore del non abbiente. Ciò emerge, così come chiarisce la Corte, proprio dalla disciplina del gratuito patrocinio atteso che, una volta ammessa la parte provvisoriamente al beneficio, sono difatti a carico dello Stato non solo le spese e i compensi dell’avvocato ma anche le ulteriori provvidenze di cui all’ art. 131 del d.P.R. n. 115 del 2002, tra cui quelle per gli ausiliari del giudice e per i consulenti tecnici di parte nonché la prenotazione a debito del contributo unificato, indipendentemente dall’esito della lite.

Un ulteriore tassello alla ricostruzione operata da Sez. U, n. 08561 del 26 marzo 2021 è dato dall’art. 136 del citato d.P.R. il quale prevede tre sole cause di revoca del beneficio, quali: le sopravvenute modifiche delle condizioni reddituali rilevanti ai fini dell’ammissione nel corso del procedimento; l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione è l’avere l’interessato agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave.

Sarebbe probabilmente stato sufficiente anche quanto innanzi evidenziato, ma la Corte rafforza ulteriormente il proprio ragionamento anche considerando l’evoluzione della giurisprudenza in materia, caratterizzata nel senso di chiarire gli interventi legislativi nella direzione di estendere le garanzie del patrocinio a spese dello Stato a tutte le modulazioni della giurisdizione civile, ordinaria e volontaria, con esclusione della sola materia stragiudiziale.

L’analisi dell’istituto della distrazione delle spese, anche sotto un profilo storico-sistematico, costituisce un ulteriore e, fondamentale, elemento che, insieme ai precedenti, converge nel senso di escludere la possibilità che la rinuncia allo stesso possa comportare la revoca del beneficio. La Corte ha infatti chiarito che l’art. 93 c.p.c. ha la finalità di consentire al difensore della parte vittoriosa di “ottenere il proprio credito nei confronti della parte soccombente”, affermando al contempo come ciò rappresenti “la ratio e, al tempo stesso, il limite di applicazione della distrazione delle spese; si tratta infatti di una mera possibilità (rimessa alla scelta discrezionale dell’avvocato, non surrogabile dalla parte) riservata esclusivamente alla parte vittoriosa”.

In quest’ottica. “il beneficiario del provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio non è il difensore ma la parte non abbiente, la quale è tenuta indenne dallo Stato, qualunque sia l’esito della lite, dal pagamento delle spese del suo difensore, tant’è che deve proporre personalmente l’istanza. Diversamente l’istanza di distrazione, previsione di carattere eccezionale, costituisce un diritto in rem propriam del difensore, che produce i suoi effetti solo quando la controparte del non abbiente sia condannata al pagamento delle spese e non lo esonera dagli obblighi che scaturiscono dal rapporto professionale”.

Dalle osservazioni di cui innanzi consegue l’autonomia del rapporto tra il difensore e la parte assistita rispetto all’ammissione al gratuito patrocinio, con “la conseguenza che il difensore è privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, compreso il diritto soggettivo della parte all’assistenza dello Stato per le spese del processo, per cui la rinuncia allo stesso può provenire solo dal titolare del beneficio”.

3. Spunti di riflessione.

La decisione della Corte di Cassazione acquisisce oggi, anche in un’ottica interdisciplinare, particolare importanza definendo il “tormentato” rapporto tra il patrocinio a spese dello Stato e l’istituto della distrazione delle spese in termini di autonomia.

I due orientamenti della giurisprudenza di legittimità che si sono formati nel corso del tempo (dalla l. n. 533 del 1974 fino al d.lgs. n. 115 del 2002) muovevano dalla incompatibilità degli istituti del patrocinio a spese dello Stato e della distrazione delle spese.

Tale incompatibilità si riteneva dovuta alla circostanza in forza della quale mentre l’ammissione al patrocinio statale comporta il pagamento degli onorari, dei diritti e delle competenze da parte dello Stato, con conseguente esclusione di ogni rapporto tra parte assistita e parte non assistita, la disciplina della distrazione delle spese di cui all’art. 93 c.p.c. crea, in via eccezionale un rapporto obbligatorio fra il difensore della parte vittoriosa e la parte soccombente, per cui il credito sorge direttamente a favore del difensore della parte vittoriosa nei confronti del soccombente, con la ulteriore conseguenza della costruzione di un titolo esecutivo in capo al difensore predetto.

Sicché, emergeva, per parte della giurisprudenza, “con evidenza, … l’assoluta inconciliabilità tra i due sistemi, i cui istituti tanto diversi, sia nella forma che nella sostanza, non possono in alcun modo coesistere” (29) ed alla quale si ritiene conseguire un’implicita rinuncia al patrocinio statale.

Detta inconciliabilità presupponeva la sussistenza di un legame tra i due istituti.

La presentazione dell’istanza di distrazione da parte del difensore, in forza della procura ad litem, per l’orientamento in argomento, comportava difatti la non avvenuta attuazione del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, atteso che il non abbiente avrebbe trovato qualcuno che avrebbe anticipato le spese per lui, ovvero, soprattutto, attesa l’avvenuta rinuncia implicita con conseguente sopravvenuta inefficacia del beneficio ed impossibilità di sua riviviscenza mediante un’istanza successiva (30).

Non si dubita che il difensore, al quale sia stata conferita la procura, agisca in nome e per conto dell’assistito, ma è altresì vero che la disciplina di cui all’art. 93 c.p.c. è rivolta esclusivamente al difensore ed al suo interesse di vedersi riconosciuto, con le modalità da lui ritenute più confacenti alle sue esigenze, il proprio compenso.

Dette caratteristiche sono state peraltro acutamente evidenziate dalla dottrina, nella vigenza della l. n. 533 del 1974, che ha criticato l’orientamento della giurisprudenza in forza del quale la domanda di distrazione determina la rinuncia implicita al beneficio.

Deve al riguardo ricordarsi come alcuni autori, infatti, hanno escluso come l’istanza di distrazione delle spese potesse incidere sul diritto al patrocinio a spese dello Stato “sotto il profilo sia della carenza di interesse al beneficio (ove la distrazione venga chiesta prima dell’ammissione) sia della rinuncia implicita allo stesso beneficio (ove la distrazione sia domandata dopo il provvedimento di ammissione)” (31).

Nel dettaglio, è stato evidenziato come i due istituti operino su piani diversi.

Il primo, difatti, incide sulla sfera degli obblighi previsti a carico del cliente ex art. 2233 c.c., in quanto elimina in via definitiva, a carico dell’assistito, l’obbligo di corrispondere il compenso al proprio difensore, prevedendo la totale gratuità della causa, l’anticipazione da parte dello Stato delle spese vive da sostenersi e l’annotazione a debito delle competenze e degli onorari da liquidarsi dal giudice con il provvedimento che decide la causa.

La distrazione, invece, è fondata su un’anticipazione delle spese vive posta in essere dal difensore, dichiaratosi antistatario, ed “ha lo scopo di consentire al procuratore la possibilità di ottenere il soddisfacimento di quanto gli è dovuto, per gli onorari non riscossi e per le spese anticipate, direttamente dalla parte soccombente” ed è pertanto operante, in quest’ottica, solo in caso di vittoria del cliente.

Alla luce di quanto innanzi, la distrazione costituirebbe uno strumento che si aggiunge alla normale azione verso il cliente, rimesso peraltro alla volontà del difensore. Sarebbe quindi “agevole accorgersi della impossibilità di assimilarla sul piano sia strutturale che funzionale ai connotati del patrocinio a spese dello Stato, e pertanto inferire dalla dichiarazione dell’antistatario una volontà di rinuncia al cliente ammesso al beneficio”.

Proprio in forza delle considerazioni di cui innanzi e della ricostruzione dei due istituti le osservazioni della citata dottrina trovano riconoscimento nella sentenza delle Sezioni Unite.

La dottrina citata specifica, infatti, che il difensore non possa rinunciare al gratuito patrocinio, non essendo detto potere contemplato a fini di difesa né rientrante nelle facoltà ed obblighi del patrocinio. Esso sarebbe esercizio di un potere diretto alla tutela d’una posizione non del cliente ma del patrono, espresso, in sostanza, “contro il cliente, ignaro o dissenziente”.

In forza di quanto innanzi ci si chiede, pertanto, come si possa trarne, anche indirettamente, un valore di verità operante contro il cliente, dato che si tratta di un’istanza “che non pertiene alle sue difese di causa, né al materiale, in largo senso istruttorio”. Sicché qualora la condotta del difensore potesse effettivamente incidere sul diritto, costituzionalmente garantito, del non abbiente potrebbe anche configurarsi un’ipotesi di patrocinio infedele, o almeno scorretto (32).

L’istanza del difensore, quindi, non si collega con la difesa del cliente, ma solo con l’interesse del primo ad ottenere le spese che abbia anticipato e il compenso spettante. Per cui “è inutile mettere in causa il cliente, facendogli ammettere, per tramite dello stesso difensore, di aver superato lo stato di non abbienza, dato che il difensore ha fatto credito…” (33).

Sotto altro aspetto vi è stato chi, nel non condividere l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (34), ha ritenuto che con l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato si instaurino quattro distinti rapporti giuridici che si intrecciano tra loro e permangono fino al termine del giudizio: quello tra la parte ammessa al beneficio e lo Stato; quello tra parte non abbiente e suo difensore; quello tra il non abbiente e le altre parti del giudizio; quello tra lo Stato e le altre parti.

Al contempo è stata criticata la circostanza secondo cui l’avvocato può rinunciare, implicitamente, al beneficio in nome e per conto della parte. È difatti “la parte ammessa al beneficio ad avere diritto alla sua permanenza, come si evince dalla circostanza che essa è legittimata a proporre opposizione avverso il provvedimento che lo revochi, cosicché solo a lei può riconoscersi la facoltà di disporne”.

A conferma del rilievo di cui innanzi, si evidenzia, peraltro, che a seguito dell’ammissione al beneficio la parte non abbiente è esonerata dall’anticipazione delle spese che vengono prenotate dallo Stato e non si vede come il suo difensore possa disporre di tale specifico beneficio.

La circostanza, poi, che la presentazione dell’istanza di distrazione costituisca una rinuncia tacita al beneficio, presuppone che l’istituto sia revocabile; a ben vedere però le cause individuate dal legislatore sono tre e tipizzate nell’art. 136 del d.P.R. n. 115 del 2002, norma eccezionale e pertanto non applicabile analogicamente, e solo queste giustificano il rigetto dell’istanza, e non certo l’avvenuta presentazione dell’istanza di distrazione. (35) Da un lato vi è, infatti, il diritto del non abbiente a poter essere difeso nel giudizio e dall’altro il diritto del difensore al proprio compenso. Si tratta a ben vedere di due diritti distinti, con discipline differenti che possono sì intersecarsi ma non incidere l’una sull’altra.

Il punto di arrivo delle Sezioni Unite è dunque il superamento di un’interpretazione della disciplina di riferimento non conforme al dettato Costituzionale e unionale, potenzialmente idonea ad incidere sull’accesso alla giustizia.

  • giudice
  • magistrato
  • procedura civile
  • procedura penale
  • competenza giurisdizionale

V)

LA RIPARTIZIONE DI COMPETENZA TRA GIUDICE CIVILE E GIUDICE PENALE

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Le questioni sottoposte all’attenzione delle Sezioni Unite: la fattispecie concreta. - 2 L’iter logico-argomentativo alla base dell’ordinanza interlocutoria. - 3 La giurisdizione e la competenza (cenni). - 4 I conflitti di competenza in ambito penale. - 4.1 I conflitti impropri ed analogici. - 5 L’indirizzo formatosi in ambito penale. - 6 Il concetto di “competenza” in sede civile. - 7 L’orientamento unanime in ambito civile. - 8 L’orientamento minoritario. - 9 L’iter logico del ragionamento sotteso all’indirizzo consolidato. - 10 I rilievi critici cui si espone l’orientamento consolidato. - 11 Le ricadute pratiche dell’adesione all’una piuttosto che all’altra teoria. - 11.1 Una mera irregolarità? - 12 Il rischio di una stasi processuale. - 13 Le soluzioni percorribili. - 14 Il caso di una doppia pronuncia declinatoria della “competenza”. - 15 Altre soluzioni astrattamente percorribili. - 16 La decisione a Sezioni Unite.

1. Le questioni sottoposte all’attenzione delle Sezioni Unite: la fattispecie concreta.

Con ordinanza n. 14174 del 24.05.2021, la Terza sezione civile aveva sottoposto all’esame delle Sezioni Unite i seguenti quesiti:

1) «se sia esperibile il regolamento di competenza nel caso in cui entrambi i giudici, penale e civile, abbiano pronunciato in via definitiva spogliandosi del processo;

2) se sia percorribile la soluzione attraverso una lettura diversa delle norme civilistiche in materia di competenza modellata sulla regola “di sistema” dettata dall’art. 28 c.p.p. volta a dirimere il conflitto ed evitare così la stasi processuale, a garanzia della ragionevole durata di “ogni processo” ai sensi dell’art. 111, secondo comma, Cost.».

Non possono essere analizzate le riportate questioni se non si opera previamente una sia pur fugace ricostruzione della fattispecie concreta.

Nel corso di indagini preliminari svolte a carico di tale Passamonti ed altri, il G.I.P. del Tribunale di Sondrio aveva convalidato il sequestro preventivo disposto dal P.M. su tutte le somme esistenti su di un libretto di deposito bancario acceso presso un istituto di credito, intestato congiuntamente all’indagato ed alla di lui moglie (Margherita Papa).

Nel corso del successivo dibattimento, svoltosi davanti al Tribunale penale di Sondrio in composizione collegiale, erano state pronunciate tre distinte ordinanze, con le quali era stato ordinato il parziale dissequestro delle somme e la restituzione in favore della Papa della somma complessiva di euro 138.722,47, oltre interessi maturati fino a quella data.

Con successivo ricorso proposto ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., la Papa aveva convenuto in giudizio la Equitalia Giustizia s.p.a. davanti al Tribunale civile di Sondrio, rilevando che la società convenuta, nel dare esecuzione alle ordinanze di dissequestro, aveva, a suo dire, erroneamente corrisposto gli interessi maturati, restituendo, quindi, una somma inferiore rispetto a quella effettivamente dovuta (e, quindi, sollevando una questione all’evidenza limitata al profilo del quantum).

La ricorrente aveva evidenziato di aver già infruttuosamente rivolto in precedenza analoga richiesta al Tribunale penale di Sondrio che aveva disposto il dissequestro e che quest’ultimo aveva qualificato la questione come di natura civilistica, siccome riguardante soltanto la misura degli interessi sulle somme dissequestrate.

L’adìto tribunale civile aveva dichiarato il ricorso inammissibile sul rilievo assorbente per cui, avendo, a suo dire, la ricorrente contestato il merito dei provvedimenti di dissequestro emessi dal giudice penale, i rimedi impugnatori esperibili sarebbero stati quelli di cui all’art. 586 c.p.p., cioè l’impugnazione del capo di sentenza relativo alla confisca delle cose sequestrate.

È avverso questa ordinanza che la Papa aveva proposto regolamento di competenza con atto affidato a quattro motivi, lamentando, tra l'altro, che il giudice adito, essendo stata già dichiarata l'incompetenza da parte del giudice penale, avrebbe dovuto, tutt'al più, sollevare d'ufficio il regolamento di competenza ai sensi dell'art. 45 c.p.c., senza potersi dichiarare d'ufficio, a sua volta, incompetente.

2. L’iter logico-argomentativo alla base dell’ordinanza interlocutoria.

Il collegio remittente aveva premesso, in conformità a pacifica giurisprudenza, che il giudice civile e quello penale sono entrambi magistrati ordinari ed esercitano il medesimo potere giurisdizionale, per cui la violazione delle norme relative al riparto degli affari civili e penali non pone una questione di giurisdizione.

Escluso, quindi, che il ricorso ponesse una questione di giurisdizione e ritenuto che la decisione del Tribunale civile di Sondrio fosse equiparabile ad una pronuncia di incompetenza, aveva successivamente concentrato le attenzioni sul se, in un caso come quello in esame, fosse ammissibile o meno il regolamento di competenza.

Al fine di rispondere a questo ulteriore quesito, aveva preso le mosse dai precedenti della Suprema Corte di segno negativo, secondo cui il problema della ripartizione della potestas iudicandi, nel plesso giurisdizionale ordinario, tra il giudice civile ed il giudice penale non pone una questione di competenza, sulla base della nozione desumibile dal codice di procedura civile, configurabile esclusivamente in riferimento a contestazioni riguardanti l’individuazione del giudice al quale, tra i vari organi di giurisdizione in materia civile, è devoluta la cognizione di una determinata controversia; per cui la violazione delle relative norme non può costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c., dovendosi altresì escludere la confìgurabilità di un conflitto negativo ai sensi dell’art. 45 dello stesso codice.

In altri termini, secondo l’orientamento pressocchè unanime, il regolamento di competenza presuppone un conflitto tra giudici civili, di talché non potrebbe essere utilizzato in un contesto diverso.

La violazione delle norme che disciplinano la potestas iudicandi tra giudice civile e giudice penale non darebbe luogo a questione di competenza, né quando si ponga tra giudici dello stesso ufficio né quando si ponga tra giudici diversi (recte, appartenenti ad uffici giudiziari differenti).

In quest’ottica, qualora il giudice civile adito ritenesse competente, in ordine alla domanda formulata dall’attore, un collegio penale del medesimo ufficio, non si porrebbe una questione di competenza suscettibile di essere risolta con il regolamento di competenza, ma di ripartizione delle cause tra magistrati appartenenti allo stesso ufficio giudiziario.

Secondo questa impostazione, il possibile conflitto tra giudice civile e giudice penale potrebbe determinare esclusivamente un’interferenza tra giudizi, che si tradurrebbe in un limite che atterrebbe alla proponibilità della domanda.

Il Collegio aveva evidenziato che la situazione muta radicalmente se si ha riguardo alla giurisprudenza penale, atteso che nel vigente codice di procedura penale c’è un complesso specifico di norme, e cioè gli artt. 28-32 (in particolare, l’art. 28, comma 1, lettera b), che regolano l’istituto del conflitto di competenza e stabiliscono che esso sia risolto dalla Corte di cassazione.

Nel solco di queste previsioni normative, le Sezioni penali della S.C., valorizzando a tal fine l’introduzione nella Costituzione, all’art. 111, comma 2, del principio della ragionevole durata di ogni processo, hanno ricompreso nelle stesse anche i casi di conflitto (negativo) di competenza tra giudice civile e giudice penale, se e in quanto esso determini una situazione di stasi processuale (che si verrebbe a creare nel momento in cui i due giudici rifiutassero entrambi di pronunciarsi sulla domanda, ritenendo che la competenza spetti all’altro) eliminabile solo con l’intervento della Corte regolatrice.

In conclusione, il Collegio aveva ritenuto che, nel caso di specie, avendo il Tribunale penale di Sondrio affermato che la domanda della Papa doveva essere esaminata dal giudice civile e lo stesso Tribunale, in sede civile, di contro, sostenuto la competenza del giudice penale, se si fosse dato seguito alla giurisprudenza della Cassazione civile (che nega ingresso, in un caso del genere, al regolamento di competenza), la vicenda sarebbe pervenuta ad uno stallo, in quanto nessun giudice sarebbe stato investito del potere-dovere di esaminare la domanda proposta. Inoltre, l’odierna ricorrente, in concreto, sarebbe stata costretta a seguire un percorso processuale dai profili paradossali: riproporre la propria domanda al Tribunale penale di Sondrio, attendere da questo una pronuncia (prevedibilmente) identica a quella precedente, cioè declinatoria della competenza; impugnare quella decisione davanti alla Suprema Corte in sede penale ed ottenere finalmente, attraverso l’art. 28 c.p.p., una decisione che avrebbe indicato di chi fosse la competenza. Tuttavia, per i remittenti, un simile iter era difficilmente compatibile col principio della ragionevole durata del processo, oltre ad essere inutilmente farraginoso.

Né sarebbe stato conforme a logica che il conflitto negativo fosse stato denunciabile solo in sede penale, cioè solo nel caso in cui l’ultima declinatoria di competenza fosse stata pronunciata dal giudice penale.

Sulla base di queste argomentazioni, il Collegio remittente aveva ritenuto possibile una lettura diversa del complesso delle norme in materia di competenza la quale, modellata sulla falsariga dell’art. 28 c.p.p. - che potrebbe essere considerato come una norma “di sistema” -, avrebbe consentito anche al giudice civile di dirimere il conflitto negativo tra giudice civile e giudice penale ed evitare così la stasi processuale (indipendentemente dalla anteriorità o posteriorità della pronuncia declinatoria da parte del giudice civile rispetto a quella del giudice penale). Tale ricostruzione avrebbe richiesto che la Corte di cassazione avesse ammesso, in un caso del genere, l’esperibilità del regolamento di competenza, statuendo con potere vincolante per tutti a quale giudice la parte avrebbe dovuto rivolgersi.

3. La giurisdizione e la competenza (cenni).

È incontestato che la distribuzione degli affari all’interno di un ufficio giudiziario appartenente alla Magistratura ordinaria non crea questioni di giurisdizione (36). Ciò in quanto un problema di giurisdizione si può porre solo: 1) tra chi è giudice ordinario e chi giudice ordinario non è o 2) tra giudici che non sono ordinari. Tanto è vero che l’art. 37 c.p.c., disciplinando l’ipotesi del difetto di giurisdizione “del giudice ordinario”, lo configura esclusivamente nei confronti dei giudici speciali e della pubblica amministrazione.

Il giudice civile e il giudice penale, essendo entrambi magistrati ordinari, esercitano l’identico potere giurisdizionale, sicchè una violazione delle norme relative alla ripartizione degli affari civili e penali non pone, e non può porre, un problema di difetto di giurisdizione.

L’articolo 102, comma 1, della Costituzione ha assegnato in via generale la "funzione giurisdizionale" ai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

Questo principio dell’unità della giurisdizione comporta che ai magistrati ordinari, considerati tutti insieme, spetta di regola il potere giurisdizionale, tranne che norme specifiche sottraggano loro determinate cause o gruppi di cause e le assegnino a giudici dello Stato che non sono "ordinari"(37).

Maggiori dubbi sorgono con riferimento alla competenza, la quale è un presupposto processuale, indissociabile dalla giurisdizione, che attiene alla legalità del processo, costituendo uno degli strumenti tesi ad assicurare l’astratta imparzialità del giudice attraverso la precostituzione di elementi oggettivi per la determinazione di una sua sfera di cognizione(38).

“[…] per quanto in astratto la funzione giurisdizionale spetti a tutti gli organi giurisdizionali, considerati nel loro complesso, in concreto, per necessità pratiche, viene frazionata e distribuita tra i vari giudici, da cui il potere giurisdizionale è formato. Sorge così il concetto della competenza, come distribuzione e attribuzione della giurisdizione tra i vari giudici. Da tale concetto deriva che la giurisdizione e la competenza sono cose distinte, però non trattasi di una distinzione qualitativa, ma solo quantitativa. La differenza sta in questo che, mentre la giurisdizione è il potere spettante a tutti i magistrati, considerati nel loro complesso, la competenza è la giurisdizione spettante in concreto al singolo magistrato. La giurisdizione riguarda, in astratto, tutto il potere giurisdizionale, considerato genericamente in relazione a tutti i magistrati e a tutte le possibili cause; la competenza riguarda, invece, il potere spettante in concreto ad un singolo ufficio giurisdizionale o ad un singolo soggetto, che ricopre l’ufficio, in relazione ad una singola e determinata causa. La competenza può quindi definirsi: quella parte di giurisdizione che spetta in concreto ad ogni singolo organo giurisdizionale, secondo alcuni criteri, attraverso i quali le norme processuali distribuiscono la giurisdizione tra i vari organi ordinari di essa”(39).

La nozione di competenza come quantum o misura della giurisdizione, in senso distributivo ed attributivo, è, del resto, un dato acquisito nell’interpretazione corrente (40); con riferimento, ben s’intende, ai limiti interni costituiti dall’ambito di ognuno dei tre settori (civile, penale e amministrativo) in cui è ripartito l’esercizio della giurisdizione statuale in senso complessivo.

4. I conflitti di competenza in ambito penale.

Nell’ambito penale, in conseguenza della declaratoria positiva o negativa di giurisdizione e/o di competenza, possono verificarsi unicamente le condizioni per l’attivazione di un conflitto tra organi giurisdizionali speciali o ordinari (41).

La sentenza dichiarativa di incompetenza, pertanto, potendo dar luogo a conflitto (art. 568, comma 2, c.p.p.), non è impugnabile con ricorso per cassazione, stante la tassatività dei mezzi di gravame (art. 568, comma 1, c.p.p.).

Agli artt. 28 ss. c.p.p. è regolamentato l’istituto del cd. conflitto positivo o negativo di giurisdizione e/o di competenza ed il meccanismo delle ipotesi analoghe di conflitto, dove per "conflitto" si intende una interruzione ed un ostacolo allo svolgimento del rapporto processuale che va risolto e "rimosso" per consentire l’ulteriore corso della giustizia. Il conflitto si prospetta, dunque, quale "[...] questione pregiudiziale, di natura incidentale, circa la legittimazione attiva del giudice, e nasce da una situazione di contrasto tra più pronunce [...]" di giurisdizione e/o di competenza (42).

Il conflitto è "di competenza", se la disputa intercorre tra uno o più giudici ordinari che, contemporaneamente, si dichiarino competenti od incompetenti a conoscere della medesima res judicanda. Nel primo caso, il dissidio può comportare “una patologica moltiplicazione di processi che può addurre all’aberrante fenomeno di contrasto di giudicati su di un medesimo oggetto”; nel secondo caso l’antinomia si risolve, invece, in “un ostacolo all’ulteriore corso del processo”, poiché nessuno dei giudici spiega alcuna successiva attività processuale (43). In tal caso si assiste ad “una trasmigrazione dell’unico procedimento dall’uno all’altro ufficio, seguita dal rifiuto di (entrambi) questi di prenderne cognizione” (44).

Il conflitto presuppone un rapporto processuale in atto e deve comportare l’antagonismo tra due "diversi uffici giudiziari", dotati di autonome competenze (45). In particolare, il requisito della litispendenza dei procedimenti aventi ad oggetto la medesima reigiudicanda deve essere attuale e riferirsi a due o più distinti "giudici", titolari dei diversi procedimenti, dovendo intendersi con tale termine non già il singolo magistrato persona fisica, bensì l’ufficio giudiziario procedente.

Ne deriva l’inapplicabilità dello strumento del conflitto alle "divergenze" e "discrepanze" sulla giurisdizione o sulla competenza intercorse tra diverse sezioni dello stesso organo giudiziario (46) oppure tra giudici appartenenti allo stesso ufficio (47), trattandosi in tale ultimo caso di problemi relativi all’organizzazione ed all’attribuzione degli affari all’interno del medesimo ufficio.

4.1. I conflitti impropri ed analogici.

I conflitti di giurisdizione e di competenza finora analizzati sono anche denominati "propri", prevedendo il legislatore, accanto ad essi, i c.d. conflitti "impropri" (tali erano quelli previsti nel codice previgente all’art. 51, allorché il giudice di appello dichiarava la competenza del giudice di primo grado e questi pronunciava la propria incompetenza) e/od "analogici", allorché le questioni di incompetenza, anche determinate in fasi, stati e gradi processuali diversi, siano tali da determinare una stasi, uno "stallo" del procedimento o del processo.

Con riferimento alla fattispecie disciplinata dal secondo comma dell’art. 28 c.p.p., è stato ritenuto possibile configurare un caso analogo di conflitto nelle sole ipotesi in cui ci si trovi in presenza “di un contrasto tra giudici da cui derivi una condizione di stasi o di blocco dell’attività processuale direttamente ricollegabile al dissenso insorto tra organi giurisdizionali in ordine alla competenza ad emettere provvedimenti necessari allo sviluppo del rapporto processuale” (48).

In quest’ottica, è stato giudicato ammissibile, sub specie di caso analogo, il conflitto tra giudice civile e giudice penale, se e in quanto si determini una situazione di stasi processuale eliminabile solo con l’intervento della Corte regolatrice (49).

Le norme in esame mirano, dunque, ad evitare il verificarsi “di situazioni patologiche di litispendenza, suscettibili di decisioni contraddittorie in caso di simultanea cognizione di un medesimo fatto da parte di più giudici” (50) ovvero di impasse processuale derivante dal rifiuto da parte di due o più giudici di prendere cognizione del fatto-reato.

In dottrina (51) si è fatto notare che, se “l’eliminazione della stasi processuale corrisponde allo scopo pratico della procedura conflittuale”, la sua ragione giuridica è ravvisata ora “nella necessità di tutelare l’autonomia decisionale del giudice e l’interesse della parte alla precostituzione”, “ora nella necessità di eliminare l’errore di uno dei confliggenti” (52), “ora in quella di impedire preventivamente possibili contrasti di giudicati”.

La giurisprudenza considera elemento non sufficiente una situazione di stasi processuale, occorrendo altresì che: a) la questione di competenza costituisca un punto pregiudiziale, anche solo logicamente, all’esame del merito; b) ciascun giudice che prende o rifiuta di prendere cognizione di un medesimo fatto si trovi, in relazione a quella cognizione, in posizione di parità decisionale con l’altro o con gli altri giudici appartenenti allo stesso ordine; c) la presa di posizione contrastante di un giudice sia considerata, nella disciplina positiva, come parte integrante di uno specifico meccanismo processuale che attribuisca ad un secondo giudice un potere di controllo e di verifica dell’intera attività di giudizio dell’altro.

5. L’indirizzo formatosi in ambito penale.

In ambito penale, merita di essere segnalata Sez. 1, Sentenza n. 19547 del 2004 (53), la quale si è posta preliminarmente il problema se sia ammissibile o meno un conflitto di competenza tra giudice civile e giudice penale, così come venutosi in quella fattispecie a configurare.

A tal proposito - conformemente a quanto già affermato dalla Suprema Corte, sia pure incidenter tantum, con sentenza n. 1032 del 4.2.2000, confl. in proc. Frascati (54), seguita ad analoga decisione adottata con sentenza n. 1947 del 23.3.1998, Commisso (55) – il Collegio ha reputato ammissibile il conflitto, per la ragione che esso aveva determinato una situazione di stasi processuale, superabile soltanto mediante il suo intervento, in applicazione della disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 28 c.p.p., riguardante i cosiddetti "casi analoghi" ai conflitti contemplati nel primo comma.

Di recente è intervenuta Sez. 1, Sentenza n. 31843 del 2019 (56) la quale, prendendo altresì posizione sul difforme orientamento formatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità civile, ha così statuito: “Non può, invero, dubitarsi che, secondo la prospettiva dell’ordinamento processuale penale, sia configurabile, sub specie di caso analogo ai sensi dell’art. 28 cod. proc. pen., il conflitto di competenza tra giudice civile e giudice penale, se e in quanto si determini una situazione di stasi processuale eliminabile solo con l’intervento della Corte regolatrice (v. sull’argomento, in senso conforme, oltre a Sez. U, n. 491 del 29/09/2011, dep. 2012, Pislor, Rv. 251265-67, in motivazione, Sez. 1, n. 33335 del 14/02/2017, Confl. comp. in proc. Tommasi, n. m.; Sez. 1, n. 20911 del 28/04/2015, Confl. comp. in proc. Cuomo, n. m.; Sez. 1, n. 5603 del 17/01/2008, Confl. comp. in proc. Vesco, Rv. 238866; Sez. 1, n. 19547 del 02/04/2004, Confl. comp. in proc. Lunardon, Rv. 227982).”

“E’ da dire che, per converso, dall’angolo visuale dell’ordinamento processuale civile, il problema del riparto della potestas iudicandi fra giudici ordinari addetti rispettivamente al settore penale e al settore civile si ritiene non ponga una questione di competenza, secondo la nozione desumibile dal corrispondente codice di rito, giacché per esso tale conflitto è configurabile soltanto in ordine alle contestazioni riguardanti l’individuazione del giudice al quale, tra i vari organi di giurisdizione in materia civile, è devoluta la cognizione di una determinata controversia. Pertanto, la violazione delle relative norme non si considera possa, in quell’ambito, costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 cod. proc. civ, e si esclude anche la configurabilità di un conflitto negativo ex art. 45 cod. proc. civ. (Sez. U, Civ., ord. n. 26296 del 31/10/2008, Rv. 605187; Sez. Civ. 6 - 1, ord., n. 13329 del 26/07/2012, Rv. 623582; Sez. Civ. 2, n. 316 del 06/02/1971, Rv. 349826).”

“Ora, a fronte dell’emersione del conflitto negativo di competenza, rilevato nella prospettiva dell’ordinamento processuale penale, esso deve ritenersi ammissibile, tanto imponendo l’art. 28 cod. proc. pen., onde evitare la stasi processuale che si è indubbiamente determinata.”

6. Il concetto di “competenza” in sede civile.

In sede civile, fino almeno alla metà degli anni settanta del secolo scorso il problema era scarsamente avvertito (57).

Per quanto riguarda i rapporti tra giudice civile e penale, si parlava di difetto di giurisdizione dell’uno verso l’altro (58).

Successivamente, si è formata un’ampia casistica giurisprudenziale concernente l’individuazione delle ipotesi in cui sussiste, o meno, la pronuncia sulla competenza.

Sono state reputate estranee al concetto di competenza tutte le questioni che concernono la ripartizione di compiti e di attribuzioni tra sezioni o magistrati del medesimo ufficio giudiziario (C., S.U., 26296/2008 e C. 14573/2019, in relazione ai rapporti tra giudice civile e giudice dell’esecuzione penale; C. 8905/2015 e C. 15391/2004, con riguardo alla relazione tra giudice del lavoro e giudice ordinario; C. 649/1999, in relazione a sezioni dello stesso ufficio giudiziario nel rito del lavoro; C. 9582/1997, con riguardo ai rapporti tra le preture circondariali e le sezioni distaccate della stessa; C. 8080/1997, con riguardo alla relazione tra giudice del lavoro e giudice dell’esecuzione; C. 702/1997, in relazione al rapporto tra tribunale ordinario e fallimentare; C. 6694/1995, con riguardo all’ipotesi del conflitto tra due sezioni della medesima corte d’appello; C. 5468/1982, in relazione al rapporto tra giudice preposto all’istruzione della causa e il capo dell’ufficio giudiziario).

Analogamente è a dirsi per la ripartizione degli affari tra la sede centrale del tribunale e le sezioni distaccate, che ha carattere interno e non può mai dare luogo a questioni di competenza territoriale, sicché, ove ne siano violati i criteri, va disposta la trasmissione degli atti al presidente del tribunale perché provveda con decreto non impugnabile ai sensi dell’art. 83 ter disp. att. c.p.c. (59).

Viene ammessa, invece, la proponibilità del regolamento di competenza in relazione ai rapporti tra il tribunale ordinario e la sezione specializzata agraria (C., S.U., 19512/2008; C. 898/2005; C. 19984/2004) (60).

Tale orientamento ha assunto un particolare rilievo con riferimento ai rapporti tra il tribunale ordinario e le sezioni specializzate per la proprietà industriale e intellettuale di cui agli artt. 3, d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 e 134, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30.

In un primo momento un indirizzo (C. 4706/2018) aveva sostenuto che le sezioni specializzate in materia di impresa fossero investite di una peculiare competenza per materia e per territorio che si estendeva ad un bacino ben più ampio di quello del tribunale o della corte d’appello presso cui erano istituite; esse, pertanto, disponevano di una propria autonoma competenza, quale misura della giurisdizione, diversa e più ampia da quella dell’ufficio giudiziario presso cui erano istituite, essendo competenti, in parte, riguardo a controversie per le quali il tribunale e la corte d’appello di appartenenza non lo sarebbero stati. Ne conseguiva che l’ordinanza che avesse pronunciato sulla competenza sarebbe stata impugnabile mediante l’istanza di regolamento ex art. 42. Successivamente la S.C. (C. 19882/2019; C. 8661/2020) ha precisato come il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa non attenga alla competenza ogni qualvolta entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, trattandosi in tal caso di mera ripartizione degli affari interni all’ufficio giudiziario, per cui ne consegue l’inammissibilità del regolamento di competenza (61). Rientra, invece, nell’ambito della competenza in senso proprio la relazione tra la sezione specializzata in materia di impresa e l’ufficio giudiziario diverso da quello ove la prima sia istituita.

7. L’orientamento unanime in ambito civile.

Come si è anticipato, secondo la consolidata Cassazione civile, la questione relativa all’attribuzione al giudice ordinario penale o civile della potestas iudicandi su di una determinata controversia non pone un problema di riparto di giurisdizione, cioè di delimitazione della giurisdizione ordinaria nei confronti di quella amministrativa o speciale, ma investe la suddivisione delle competenze tra diversi giudici ugualmente esercitanti la giurisdizione ordinaria (62).

Inoltre, il problema della ripartizione della potestas iudicandi, nel plesso giurisdizionale ordinario, tra il giudice civile ed il giudice penale non pone neppure una questione di competenza, in base alla nozione desumibile dal codice di procedura civile, configurabile esclusivamente in riferimento a contestazioni riguardanti l’individuazione del giudice al quale, tra i vari organi di giurisdizione in materia civile, è devoluta la cognizione di una determinata controversia; ne consegue che la violazione delle relative norme non può costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c., dovendosi altresì escludere la configurabilità di un conflitto negativo ex art. 45 c.p.c.

In quest’ottica, è stata ritenuta (63) inammissibile l’istanza di regolamento di competenza avverso la sentenza con cui il giudice civile aveva ritenuto la competenza del giudice dell’esecuzione penale, considerato che l’alternativa tra l’uno e l’altro giudice dipende dal riferimento della controversia ad un medesimo fatto materiale, suscettibile di valutazione sotto profili giuridici diversi, e non può determinare una questione di ripartizione della potestas judicandi (tra organi cui è demandato l’apprezzamento del medesimo profilo), ma esclusivamente un’interferenza tra giudizi, la quale si traduce in un limite che attiene alla proponibilità della domanda (64).

D’altra parte, si è detto quale ulteriore ratio decidendi, il regolamento di competenza è istituto “interno” al solo processo civile.

Semplificando ulteriormente il problema, si è esclusa (65) l’ammissibilità quale istanza di regolamento di competenza del ricorso per cassazione avverso la sentenza con cui il giudice civile aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice dell’esecuzione penale, atteso che, qualora il giudice civile adito abbia ritenuto "competente" in ordine alla domanda formulata dall’attore un collegio penale del medesimo ufficio, non si pone una questione di competenza, ma di ripartizione delle cause tra magistrati appartenenti allo stesso ufficio giudiziario.

Ancora, si è affermato (66) che il principio secondo cui la violazione delle norme che disciplinano la ripartizione della potestas judicandi tra il giudice civile ed il giudice penale non può costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c. (dal momento che essa non dà luogo ad una questione di competenza), non trova applicazione soltanto nell’ipotesi in cui l’incertezza nell’identificazione dell’organo investito del potere giurisdizionale si ponga tra persone fisiche (giudici monocratici) o collegi (civili o penali) appartenenti al medesimo ufficio giudiziario (67), al quale la cognizione della controversia risulti invariabilmente attribuita tanto dalle norme che disciplinano la competenza in materia civile quanto da quelle relative al processo penale, ma anche quando l’applicazione di ciascuno dei due plessi normativi conduca all’individuazione, quale giudice competente, di organi appartenenti ad uffici giudiziari diversi (68).

È pur vero, infatti, che, quando il dubbio riguarda magistrati o collegi del medesimo ufficio, l’unitarietà della competenza di quest’ultimo fa sì che la portata della questione si riduca all’osservanza dei criteri organizzativi che disciplinano la distribuzione degli affari giudiziari tra le sue diverse articolazioni interne (cfr. Cass., sez. un., 31 ottobre 2008, n. 26296; 13 luglio 2005, n. 14696), laddove la scelta tra uffici giudiziari diversi coinvolge il rispetto dei canoni legali che delimitano i rispettivi ambiti di operatività. Nondimeno, considerato che il giudice civile e quello penale, essendo entrambi magistrati ordinari, esercitano un identico potere giurisdizionale, l’individuazione delle rispettive sfere di attribuzione non pone, come detto, neppure una questione di ripartizione della potestas judicandi tra organi cui è demandato l’apprezzamento del medesimo profilo (cfr. Cass., Sez. U, 14 novembre 2003, n. 17206; 22 gennaio 2002, n. 709; 14 giugno 2000, n. 434).

Le medesime considerazioni portano ad escludere la configurabilità, nella specie, di un conflitto negativo di competenza come disciplinato dall’art. 45 c.p.c..

8. L’orientamento minoritario.

In questo contesto, le decisioni apparentemente di segno contrario della Cassazione civile, che hanno negato rilievo al vizio, sembrano quasi mirate ad obiettivi di “giustizia sostanziale”, al di là delle argomentazioni (o delle mancate argomentazioni) che le accompagnano.

Si tratta di casi di contrasto inconsapevole, perché i giudici, senza fare i conti con l’indirizzo consolidato, hanno rilevato l’irregolarità, ma non ravvisato un difetto di proponibilità della domanda. Nelle decisioni più recenti (69) non hanno dato alcun rilievo all’irregolarità riscontrata in ordine alla decisione dell’opposizione da parte del giudice civile rispetto a decreto emesso dal giudice penale e hanno deciso nel merito. In quella più risalente (70), l’irregolarità, attribuibile al Presidente del Tribunale, è stata considerata rilevante dal punto di vista dell’organizzazione interna e si è posto rimedio rinviando al giudice competente.

9. L’iter logico del ragionamento sotteso all’indirizzo consolidato.

Il ragionamento finora portato avanti dalla Suprema Corte (71), sia pure con riferimento ad una tipologia di contenzioso solo per certi versi assimilabile a quella sottoposta all’esame del Collegio remittente, si sviluppa nei seguenti termini:

1) il concetto di competenza trae origine dall’esistenza di più giudici civili, penali e/o amministrativi, investiti della medesima potestà e dalla conseguente necessità di dividere o ripartire gli affari giudiziari secondo il criterio della materia, del valore o del territorio (che può anche assumere, in base a specifiche disposizioni, carattere di inderogabilità);

2) qualora in sede civile sia dedotto in giudizio un fatto che può eventualmente integrare gli estremi di reato, e si discuta se al giudice civile spetti o meno la cognizione di tale fatto, sia pure ai soli effetti civili, la questione esorbita dalla competenza e riflette l’esistenza di un limite interno, che può risolversi o in una pregiudizialità del processo penale, con sospensione del processo civile in attesa della definizione di quello penale (art. 295 c.p.c.), ovvero nell’improponibilità dell’azione civile;

3) la sentenza che neghi in radice ogni competenza civile, escludendo sia la sospensione sia altre forme di pregiudizialità, non può essere impugnata con il regolamento di competenza - poiché non risolve una questione di questione di competenza in senso proprio -, ma con il rimedio ordinario previsto e regolato dall’art. 360 c.p.c..

L’improponibilità della domanda entrerebbe in gioco in quanto, considerato che il giudice civile e quello penale, essendo entrambi magistrati ordinari, esercitano un identico potere giurisdizionale, l’individuazione delle rispettive sfere di attribuzione non solo non potrebbe dar luogo ad una questione di giurisdizione, ma non porrebbe neppure una questione di ripartizione della potestas judicandi tra organi cui è demandato l’apprezzamento del medesimo profilo, potendo determinare unicamente un’interferenza di giudizi (Cass., sez. un., 14 novembre 2003, n. 17206; 22 gennaio 2002, n. 709; 14 giugno 2000, n. 434; 26 luglio 2012, 13329).

Tale improponibilità è stata, peraltro, esclusa nel caso in cui la domanda sia stata genericamente rivolta all’ufficio e, pur riguardando la materia penale, sia stata erroneamente assegnata dal capo dell’ufficio ad una sezione o collegio civile (Cass. 21 agosto 2002, n. 12322); invero, in tale evenienza dovrebbe essere il giudice a rimettere gli atti al capo dell’ufficio perché assegni l’affare ad un collegio o sezione penale, non potendo l’errore far carico alla parte (Cass. 14 novembre 2003, n. 17206).

10. I rilievi critici cui si espone l’orientamento consolidato.

L’orientamento secondo cui, quando l’alternativa si pone tra giudice civile e penale, esclusa una questione di giurisdizione o di competenza, si è in presenza di una violazione del limite alla potestas iudicandi di quel giudice, che si risolve in una ragione di improponibilità della domanda, rilevabile d’ufficio, da parte del giudice erroneamente investito e da parte della Cassazione, è stato fatto proprio - a partire da Sez. U, Sentenza n. 434 del 2000 (72) - dalle stesse Sezioni unite, in sede di ricorso per motivi attinenti la giurisdizione (Cass., sez. un., 14 novembre 2003, n. 17206), e dalle Sezioni semplici (Cass., 28 febbraio 2008, n. 5301).

Il ricorso alla categoria del difetto di proponibilità della domanda desta, tuttavia, perplessità sotto vari profili (73).

In primo luogo, l’impostazione contrasta con il consistente filone giurisprudenziale che attribuisce mera rilevanza interna alla divisione in sezioni degli uffici giudiziari, alla ripartizione delle cause tra magistrati appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, riguardando la competenza funzionale solo l’ufficio giudiziario unitariamente inteso. Il principio si è formato con riferimento alla sezione fallimentare, alle sezioni stralcio, alla ripartizione tra la sede centrale e le sezioni distaccate del Tribunale e tra Pretura circondariale e sue sezioni distaccate, nonché rispetto alle Sezioni civili e penali delle Sezioni distaccate delle Preture circondariali (74) (cfr. § 6.).

Generalmente, si esclude la rilevanza del vizio ai fini della competenza funzionale e territoriale e spesso si individua il rimedio in un provvedimento ordinatorio di trasmissione degli atti al Presidente del Tribunale.

In quest’ottica, Sez. U, 3 settembre 2009, n. 19161 (75), ha affermato, sia pure con un obiter dictum, il principio per cui il procedimento di opposizione (proposto avverso il decreto di pagamento del compenso spettante ad un ausiliare del giudice), ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, al decreto di pagamento emesso dal giudice introduce una controversia di natura civile, indipendentemente dalla circostanza che il decreto sia stato pronunciato in un giudizio penale, e deve quindi essere trattato da magistrati addetti al servizio civile. Qualora l’ordinanza che decide l’opposizione sia stata adottata da un giudice addetto al servizio penale, si configura una violazione delle regole di composizione dei collegi e di assegnazione degli affari che non determina nè una questione di competenza nè una nullità, ma può giustificare esclusivamente conseguenze di natura amministrativa o disciplinare.

L’iter logico-motivazionale è il seguente: «[…] con l’inquadramento della problematica relativa all’individuazione del giudice che all’interno dello stesso ufficio giudiziario deve trattare l’opposizione nell’ambito di quella relativa alla composizione dei collegi e all’assegnazione degli affari e cioè a questioni tipicamente rientranti nell’attività di amministrazione della giurisdizione, deve ritenersi superato l’orientamento secondo cui la trattazione da parte di giudice monocratico assegnato al settore penale invece che di quello civile comporta l’improponibilità della domanda, per violazione di un limite alla potestas iudicandi del giudice adito, senza che sia necessario prendere posizione in ordine alla problematica, di natura prevalentemente teorica, relativa alla nozione astratta di improponibilità originaria e oggettiva della domanda, nella quale normalmente sono fatti rientrare la mancanza di presupposti processuali, di condizioni dell’azione, di legittimazione ad agire o in generale le richieste di riconoscimento di effetti giuridici che l’ordinamento non consente di riconoscere, situazioni tutte, com’è evidente, estranee alla fattispecie di cui è causa. D’altra parte l’orientamento che configura in dette fattispecie un’ipotesi di improponibilità della domanda finisce per far ricadere sulla parte gli effetti della violazione delle regole di composizione dei collegi o di distribuzione degli affari tra i magistrati addetti all’ufficio che è imputabile soltanto al dirigente dell’ufficio stesso o, comunque, ai titolari dei poteri di amministrazione della giurisdizione».

Ed ancora: «Nè, in caso di violazione dei criteri di composizione dei collegi o di assegnazione degli affari ai magistrati all’interno dell’ufficio, sia che si tratti di criteri espressamente dettati con provvedimento di natura “tabellare” sia che si tratti di criteri desumibili dal sistema, come quello secondo cui gli affari di natura civile debbono essere trattati dai magistrati assegnati al servizio civile, può configurarsi una nullità della decisione, a differenza dall’ipotesi di decisioni adottate in composizione monocratica (Cass. n. 28040/2008, 4967/2004) anzichè dal collegio o viceversa (Cass. n. 12206/2007), nelle quali la nullità deriva dalla violazione della norma di legge (art. 50 bis e 50 ter c.p.c.) e, comunque, può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie dei mezzi di impugnazione, la violazione delle regole di composizione dei collegi e di assegnazione degli affari non configura una questione di competenza e non dà luogo a nullità, come è stato più volte affermato da questa Corte ed attualmente è espressamente previsto dall’art. 7 bis ord. giud., comma 1, ult. parte aggiunto con la L. n. 111 del 2007, art. 4, comma 19, lett. b). Nè l’esclusione del rilievo esterno e quindi dell’incidenza sulla validità degli atti processuali, delle violazioni delle regole e dei principi di natura tabellare, benchè attinenti alla garanzia costituzionale della precostituzione del giudice, può far sorgere dubbi di legittimità costituzionale perchè come ha osservato la Corte costituzionale (sentenze n. 272/1998, 419/1998, 392/2000) pur dovendosi tale garanzia intendersi riferita non all’intero ufficio giudiziario, ma al giudice persona fisica, la limitazione del rilievo delle predette violazioni corrisponde a un adeguato bilanciamento tra tale garanzia e quella della continuità e prontezza dell’esercizio della funzione giudiziaria, ora rafforzata dall’art. 111 Cost., comma 2. Peraltro la predetta violazione può non essere priva di conseguenze sia sul piano amministrativo (il magistrato può far valere con reclamo al C.s.m. la sottrazione o la mancata assegnazione di un affare in violazione dei criteri tabellari) che disciplinare (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. n).»

La violazione delle regole di organizzazione non deve, quindi, essere necessariamente sanzionata con la nullità degli atti processuali (76), in quanto l’effettività della regola è condizionata dalla congruità ed efficacia della sanzione che, tuttavia, va valutata nel quadro del complessivo sistema definito dall’ordinamento.

L’esigenza di efficienza del processo impone di limitare la sanzione di nullità (specialmente la nullità cd. assoluta) degli atti ai soli casi nei quali risulti davvero imprescindibile per la tutela dell’interesse della parte (77).

In secondo luogo, risulta difficile l’armonizzazione dell’isolata causa di improponibilità della domanda in argomento, ricavata nell’ambito della sfera di attribuzione civile o penale di magistrati che esercitano lo stesso potere giurisdizionale, con tutte quelle pronunce che hanno dato sostanza ai casi in cui la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito (secondo la previsione dell’art. 382, comma 2, c.p.c.), mediante l’individuazione di vizi particolarmente gravi (78).

In terzo luogo, le conseguenze fatte derivare dal vizio di attribuibilità al giudice civile o penale appaiono eccessive. Tanto più oggi, nel nuovo contesto ordinamentale in cui - per effetto dell’evoluzione giurisprudenziale in Cassazione e degli interventi della Corte costituzionale e del legislatore - gli effetti giuridici sostanziali e processuali della domanda devoluta al giudice privo di giurisdizione si conservano nel giudizio proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, in forza degli artt. 24 e 111 Cost. (79).

11. Le ricadute pratiche dell’adesione all’una piuttosto che all’altra teoria.

L’adesione all’uno o all’altro orientamento comporta conseguenze significative, dato che, ove si opti per la ricostruzione del rapporto tra i due giudici in conflitto in termini di mera distribuzione degli affari all’interno dell’ufficio giudiziario territorialmente competente, il passaggio e la riassegnazione del fascicolo integrano provvedimenti revocabili di natura ordinatoria e non decisoria, e la riassegnazione non comporta né la riassunzione né la rinnovazione degli atti espletati. Inammissibile risulterebbe il regolamento di competenza.

Di contro, a ritenere che anche all’interno del medesimo ufficio giudiziario il rapporto tra i due giudici integri sempre una questione di competenza, il convenuto dovrebbe eccepire l’erronea individuazione del giudice nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, ex art. 38 c.p.c., e il giudice potrebbe rilevare d’ufficio l’incompetenza entro la prima udienza di trattazione; la parte potrebbe ricorrere al regolamento di competenza ed il giudice potrebbe (recte, dovrebbe) richiedere d’ufficio il regolamento di competenza.

Nel caso in cui il conflitto sorga all’interno del medesimo ufficio giudiziario (non essendo, invece, la soluzione invocabile allorquando i giudici in rotta di collisione appartengano a due uffici giudiziari diversi), nell’eventualità di un’errata assegnazione tabellare, il giudice assegnatario dovrebbe rimettere il fascicolo al Presidente del Tribunale, il quale lo ritrasmetterebbe al giudice a quo, se ritenesse errato il rilievo tabellare del primo, oppure provvederebbe alla riassegnazione alla sezione esatta, e se il giudice ad quem negasse la propria competenza interna, il conflitto sarebbe deciso dal Presidente del Tribunale (80).

Pertanto, a rigore (vale a dire, secondo l’iter fisiologico), il secondo giudice cui il Presidente rimettesse gli atti, qualora non condividesse il decreto di assegnazione, dovrebbe, a sua volta, ritrasmetterli al capo dell’ufficio per una rivalutazione definitiva della questione (81).

11.1. Una mera irregolarità?

Il legislatore ha voluto nettamente differenziare la questione, relativa all’attribuzione della causa ad una delle strutture in cui si articola l’ufficio giudiziario, tanto dalla competenza territoriale di cui all’art. 38 del codice di rito (82), quanto dal vizio di costituzione del giudice (83), concependola come mera irregolarità (84), sanata se non rilevata in limine litis, non deducibile con l’impugnazione e che dà luogo comunque ad un “trasferimento informale del processo alla sede indicata dalla legge” (85).

L’inosservanza degli artt. 48-quater e 48-quinquies ord. giud. è rilevabile sia su eccezione di parte che d’ufficio, entro la prima udienza di comparizione e trattazione ex art. 183 c.p.c. (86).

Il sistema adottato dal legislatore subordina la trasmissione del fascicolo d’ufficio al Presidente del tribunale alla previa valutazione di non manifesta infondatezza della questione, sollevata dalla parte o rilevata d’ufficio, da parte del giudice adito, al quale riconosce così la facoltà di trattenere presso di sé la causa, senza che alle parti sia concessa alcuna possibilità di controllo o di reclamo (87).

La decisione, sull’attribuzione della causa all’una o all’altra delle articolazioni interne dell’unico ufficio, è rimessa, quindi, dalla legge al capo dell’ufficio stesso, che decide con decreto non impugnabile, e pertanto, in analogia con l’art. 177 c.p.c., non modificabile nè revocabile (88). Avverso tale decreto non è, quindi, ammesso alcun ricorso o reclamo, essendo vincolante sia per le parti sia per il giudice designato a trattare la causa, né l’eventuale errore può essere dedotto in sede di impugnazione della sentenza emessa dal giudice cui il Presidente stesso abbia assegnato l’affare (89). Anche se non mancano pronunce (90) secondo cui sarebbe possibile far valere il vizio (nullità) di costituzione del giudice, ex art. 158 c.p.c. (91).

D’altra parte, la giurisprudenza afferma che il vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 c.p.c. è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all’ufficio e non investita della funzione esercitata (92).

La stessa ha, ad esempio, escluso il detto vizio:

a) nell’ipotesi (in precedenza analizzata) di questioni riguardanti la ripartizione delle cause tra sezione principale del tribunale e sezioni distaccate dello stesso, le quali, come si è già visto, non si pongono in termini di competenza territoriale, ma di organizzazione interna dell’unico ufficio, sulla base di disposizioni la cui violazione appartiene alla tipologia delle invalidità concernenti la costituzione del giudice, disciplinate tuttavia non come nullità insanabili ex art. 158 c.p.c., bensì come vizi da accertarsi in limine mediante uno speciale subprocedimento che sfocia in una pronuncia ordinatoria sottratta ai mezzi di gravame ordinari ed insuscettibile, perciò, di venire impugnata con il regolamento di competenza (93);

b) quando si verifichi una sostituzione tra giudici di pari funzione e pari competenza appartenenti al medesimo ufficio giudiziario, anche se non siano state osservate al riguardo le disposizioni previste dal codice di rito o dalle norme sull’ordinamento giudiziario, costituendo l’inosservanza del disposto dell’art. 174 dello stesso codice e 79 delle relative disposizioni di attuazione, in difetto di una espressa sanzione di nullità, una mera irregolarità di carattere interno, che non incide sulla validità dell’atto e non è causa di nullità del giudizio o della sentenza (94);

c) nell’ipotesi di trattazione della causa da parte di un giudice diverso da quello individuato secondo le tabelle, determinata da esigenze di organizzazione interna al medesimo ufficio giudiziario, pur in mancanza di un formale provvedimento di sostituzione da parte del Presidente del tribunale, perché, ai sensi del comma 1 dell’art. 156 c.p.c., la nullità di un atto per inosservanza di forme non può esser pronunciata se non è comminata dalla legge e, pertanto, è configurabile una mera irregolarità, inidonea a produrre alcuna conseguenza negativa sugli atti processuali o sulla sentenza (95);

12. Il rischio di una stasi processuale.

La S.C., nell’ordinanza interlocutoria in commento, aveva affermato che dopo l’introduzione nella Costituzione dell’art. 111, comma 2, che pone il principio della ragionevole durata del processo, il rischio della stasi processuale fosse il “reale nemico da combattere”.

In nome del principio di ragionevole durata, la stessa Corte costituzionale in più occasioni ha, del resto, dichiarato l’illegittimità di norme del codice di procedura penale che consentivano il realizzarsi di una situazione di stasi processuale per un tempo indefinito (96).

Proprio in virtù della necessità di evitare la stasi processuale determinatasi nella fattispecie in oggetto, la Corte aveva ritenuto che vi fossero ragioni di opportunità per cui la decisione del regolamento di competenza venisse rimessa alle Sezioni Unite.

Se, infatti, la Corte di cassazione avesse dato seguito alla giurisprudenza civilistica sopra ricordata, che nega, in ipotesi del genere, il regolamento di competenza, la vicenda processuale sarebbe entrata in una situazione di stallo, poiché non vi sarebbe stato alcun giudice investito del potere di giudicare sulla domanda proposta, avendo entrambi i giudici, penale e civile, declinato la propria competenza.

La situazione sarebbe stata paradossale, sia per il sistema che per la ricorrente, che sarebbe stata costretta a riproporre la domanda al Tribunale penale per ottenerne nuovamente una pronuncia declinatoria, ad impugnare quest’ultima davanti alla Corte di cassazione in sede penale ed ottenere, tramite l’applicazione dell’art. 28 c.p.p., una decisione sulla competenza.

Ciò, però, avrebbe portato all’inevitabile conseguenza che il conflitto negativo sarebbe stato denunciabile e risolvibile solo in sede penale, cioè solo nel caso in cui l’ultima declinatoria di competenza fosse stata pronunciata dal giudice penale.

Né, sottolineava nell’ordinanza di rimessione la Corte, il problema sarebbe stato risolvibile ritenendo che il provvedimento impugnato con il regolamento di competenza dovesse, invece, essere impugnato in appello; in questo caso, infatti, il rischio della stasi processuale sarebbe rimasto laddove (come era ragionevole prevedere) il giudice d’appello avesse confermato la declinatoria del giudice di primo grado.

La soluzione si sarebbe, invece, potuta individuare nella rilettura del complesso delle norme processual-civilistiche sulla competenza che, se modulata sulla falsariga dell’art. 28 c.p.p., inteso in tal senso come norma di “sistema”, avrebbe potuto consentire anche al giudice civile di risolvere il conflitto negativo tra giudice penale e giudice civile ed evitare la situazione di stallo. A tal fine, però, la Corte di cassazione - a Sezioni Unite - avrebbe dovuto ammettere, in ipotesi del genere, l’esperibilità del regolamento di competenza, individuando a quale giudice la parte si sarebbe dovuta rivolgere. In quest’ottica, il superamento del tradizionale orientamento negativo sopra ricordato sarebbe stato funzionale ad oltrepassare la stasi processuale che si determinava in ipotesi del genere indipendentemente dalla anteriorità o posteriorità della pronuncia declinatoria della competenza da parte del giudice civile rispetto al giudice penale.

Va evidenziato che l’art. 45 c.p.c. è stato ritenuto applicabile anche all’ipotesi di conflitto negativo reale, che si verifica quando il giudice indicato come competente, ritenendosi a sua volta incompetente, anziché richiedere d’ufficio il regolamento di competenza, dichiari la propria incompetenza; pertanto, si è affermato che il giudice, di fronte al quale venga nuovamente riassunta la causa (sia esso il giudice a quo o un terzo giudice), può richiedere il regolamento ai sensi dell’articolo citato (97).

In particolare, il giudice, davanti al quale sia stata riassunta la causa a seguito del provvedimento di altro giudice declinatorio della propria competenza, ed il quale si ritenga a sua volta incompetente, può, invece di richiedere il regolamento d’ufficio, dichiarare la competenza del primo giudice; a questo punto, secondo altre pronunce, spetterebbe alla parte la facoltà di attivarsi per risolvere il conflitto negativo, proponendo regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c.; ciò, si badi, al fine di contestare la dichiarata incompetenza ed ottenere l’individuazione del giudice competente, e non, invece, allo scopo di denunciare la mancata applicazione dell’art. 45 c.p.c. (98); conseguentemente, è stata ritenuta inammissibile la riproposizione della domanda o dell’atto d’appello dinanzi al giudice che aveva in precedenza parimenti declinato la propria competenza (99). In quest’ottica, non sarebbe ipotizzabile l’iter farraginoso descritto nell’ordinanza interlocutoria di rimessione.

In ordine al rischio di stasi processuale, la Corte costituzionale è intervenuta dapprima con la sentenza n. 354 del 1996, stabilendo che: “è certo che una stasi del processo che si accerti di durata indefinita ed indeterminabile, non possa non vulnerare il diritto di azione e di difesa della parte civile cui pure l'assetto del codice abrogato apprestava tutela " (v. sentenza n. 330 del 7 luglio 1994) (100).

Successivamente, con la sentenza n. 10 del 1997, ha ulteriormente chiarito che: “[…] sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalità normativa, istituti o regole quando si prestino a un uso distorto, recando così lesione dell’efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale. […] Per rimuovere il rischio che il processo resti paralizzato dall’abuso della richiesta di ricusazione, occorre dunque dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui - qualora sia riproposta dichiarazione fondata sui medesimi elementi - fa divieto al giudice di pronunciare o concorrere a pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione.”.

13. Le soluzioni percorribili.

Le fattispecie in astratto configurabili sono due:

1) la questione potrebbe essere sottoposta, dapprima, al giudice civile e, poi, a quello penale;

2) potrebbe, di contro (come è avvenuto nel caso sottoposto all’esame delle Sezioni Unite), venire adìto dapprima il giudice penale e poi quello civile.

Quanto alle soluzioni, nell’ipotesi di declinatoria di competenza da parte di entrambi:

a) nel caso sub 1), il conflitto può essere denunciato, ai sensi dell’art. 30, comma 2, c.p.p., da una delle parti private alla Corte di cassazione;

b) nel caso sub 2), il conflitto potrebbe (secondo la soluzione ipotizzata nell’ordinanza di rimessione), in astratto, essere denunciato, ai sensi dell’art. 42 c.p.c., da una delle parti private con istanza di regolamento (necessario) di competenza o, ai sensi dell’art. 45 c.p.c., dal secondo giudice adìto con regolamento d’ufficio; in particolare, il giudice civile, considerando la competenza modellata sulla falsariga dell’art. 28 c.p.p. (intesa come “norma di sistema”), potrebbe rimettere gli atti alla Corte di cassazione, al fine di dirimere il conflitto negativo insorto.

La soluzione sub b), per quanto estremamente raffinata, appare, tuttavia, difficilmente percorribile, perché, anziché passare attraverso una lettura sistematica delle norme, richiederebbe un vero e proprio intervento additivo del legislatore (o, a tutto concedere, della Corte costituzionale) e, quindi, potrebbe essere valutata solo de iure condendo.

D’altra parte, una lettura costituzionalmente orientata sarebbe ammissibile solo nel caso in cui non fosse utilizzabile un rimedio ordinario o quest’ultimo ledesse in concreto il diritto di difesa, laddove nel caso di specie, come si vedrà, è senz’altro ipotizzabile la configurabilità di uno strumento processuale a tutela delle ragioni dell’istante.

La qualificazione in termini di “norma di sistema” di una disposizione normativa non deriva da una espressa previsione legislativa, bensì da una ricostruzione dogmatica ascrivibile alla giurisprudenza, soprattutto di legittimità, attesa la sua funzione nomofilattica.

Una definizione di tal fatta è contenuta in uno dei passaggi logici della sentenza a Sezioni Unite n. 16601 del 5 luglio 2017 le quali, nel pronunciarsi sul tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi in materia di violazione dei diritti di proprietà industriale, e nel riconoscere che non è “ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”, hanno affermato che non vi può essere arretramento del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie, come per esempio quella del lavoro (v., significativamente, Cass. n. 10070/13) che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della Repubblica (101).

Vale la pena richiamare alcuni concetti espressi in modo convincente sulla nozione di ordine pubblico nella sentenza a Sezioni Unite menzionata, che ha descritto l’ordine pubblico internazionale come “complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzitutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”; ed ancora: “ciò che va registrato è senz’altro che la nozione di ordine pubblico, che costituisce un limite all’applicazione della legge straniera, ha subito una profonda evoluzione. […] La sentenza straniera che sia applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale. Se con riguardo all’ordine pubblico processuale, ferma la salvaguardia dell’effettività dei diritti fondamentali di difesa, il setaccio si è fatto più largo per rendere più agevole la circolazione dei prodotti giuridici internazionali, con riguardo all’ordine pubblico sostanziale non può dirsi altrettanto. Gli esiti armonizzati, mediati dalle Carte sovranazionali, potranno agevolare sovente effetti innovativi, ma Costituzione e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo.”.

Dalle considerazioni che precedono si ricavano due corollari: 1) che in ambito processuale è più difficile, rispetto a quello sostanziale, rinvenire norme “di sistema” (102); 2) che, in ogni caso, ad una norma è riconoscibile questa portata solo nel caso in cui attui il fondamento della Repubblica.

Quest’ultimo requisito appare difettare nel caso in esame.

14. Il caso di una doppia pronuncia declinatoria della “competenza”.

Non è da escludere, tuttavia, l’evenienza (configurabile proprio nel caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite) che il secondo giudice, anziché seguire l’iter ordinario descritto (rappresentato dall’uniformarsi alla decisione del presidente, che ha individuato il giudice ‘competente’ o, per chi lo ammette, dalla ritrasmissione degli atti al capo dell’ufficio per una ulteriore valutazione), declini, a sua volta, la propria competenza.

In tale evenienza, per quanto il provvedimento (ordinanza) venga qualificato espressamente come di incompetenza, a ben vedere si è in presenza di una pronuncia (sia pure in rito) di improponibilità della domanda (103). Il corollario di tale qualificazione è che la relativa pronuncia non è assoggettabile a regolamento di competenza, ma è impugnabile con l’appello, in quanto, ancorché formalmente espressa in termini di declinatoria di competenza del giudice adito, non è sostanzialmente una statuizione sulla competenza, ma soltanto una statuizione sul rito che la parte deve seguire.

Tuttavia, non è pacifica l’ulteriore questione costituita dalla individuazione del mezzo di impugnazione esperibile rispetto ad una pronuncia (erroneamente) espressa in termini di competenza/incompetenza, ma (pacificamente, secondo la giurisprudenza ormai consolidata e su indicata) relativa al rito da seguire e alla distribuzione degli affari all’interno del medesimo ufficio giudiziario.

Al riguardo si fronteggiano due diversi orientamenti, a seconda che si dia prevalenza alla sostanza del provvedimento (cd. “principio sostanzialistico”) ovvero alla sua forma (cd. “principio della apparenza”) (104).

Orbene, ai fini dell’individuazione del mezzo di impugnazione di un provvedimento che abbia trattato come questione di competenza una questione attinente al rito o alla ripartizione degli affari interna all’ufficio, sembra ormai prevalente l’orientamento favorevole al “principio dell’apparenza”, che impone di individuare il mezzo in base alla qualificazione data dal giudice con il provvedimento impugnato all’azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza; pertanto, ove sia impugnata con regolamento di competenza una pronuncia che abbia deciso una questione attinente al rito, occorre accertare se la questione di rito sia stata erroneamente qualificata dal giudice, espressamente o comunque in modo inequivoco, come questione di competenza, creando le condizioni per una tutela dell’affidamento della parte in ordine al regime di impugnazione, dipendendo dall’esito positivo di tale accertamento l’ammissibilità del proposto regolamento (105). Ciò sulla base dei principi espressi in linea generale dalle Sezioni unite della Suprema Corte (106) secondo cui “L’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice, a prescindere dalla correttezza o meno di tale qualificazione, e non come le parti ritengano che debba essere qualificata, costituendo l’interpretazione della domanda giudiziale operazione riservata al giudice del merito” (107).

Tale scelta è l’unica conforme ai principi fondamentali della certezza dei rimedi impugnatori e dell’economia dell’attività processuale, evitando l’irragionevolezza di imporre di fatto all’interessato di tutelarsi proponendo impugnazioni a mero titolo cautelativo, nel dubbio circa l’esattezza della qualificazione operata dal giudice a quo.

Ovviamente, in tanto il principio dell’apparenza (ossia dell’affidamento della parte) può prevalere sul principio sostanzialistico, in quanto la forma del provvedimento emesso o la sua qualificazione, anche se non corretta, risultino determinate da consapevole scelta del giudice, ancorché non esplicitata con motivazione espressa.

Non può, peraltro, tralasciarsi che è proprio la configurazione del conflitto come di vera e propria competenza che rischia di pregiudicare il diritto-interesse della parte ad una rapida definizione del conflitto ‘di competenza’. Nè può sottacersi il possibile uso strumentale del regolamento di competenza, con l’allungamento dei tempi del processo, ove si qualifichi sempre in termini di competenza il rapporto tra il giudice civile e quello penale, ed il sostanziale contrasto con l’intenzione del legislatore di ridurre le questioni di competenza.

Si trattava, quindi, in primo luogo, di stabilire se la statuizione di inammissibilità del ricorso (“in quanto proposto avanti a Giudice sprovvisto della competenza funzionale”) contenuta nell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. adottata dal Tribunale di Sondrio, sezione civile, potesse essere interpretata (sia pure erroneamente) come sostanzialmente coincidente con una pronuncia declinatoria della competenza, valorizzando a tal fine la forma dell’ordinanza adottata dal giudice per il suo provvedimento. Assumeva, pertanto, valore cruciale accertare se, nel caso di specie, il giudice avesse ritenuto come questione di “competenza” quella che, invece, atteneva esclusivamente al rito e, qualificandola espressamente o comunque in modo inequivoco in tali termini, avesse creato le condizioni per una tutela dell’affidamento della parte in ordine al regime di impugnazione.

Nella fattispecie, non risultavano adottati i provvedimenti tipici delle decisioni sulla competenza, come l’assegnazione di un termine per la riassunzione della causa dinanzi al giudice ritenuto competente ex art. 50 c.p.c., così come non risultava che il giudice avesse fatto precedere il momento decisorio da un invito alle parti a discutere espressamente ed unicamente sulla competenza.

In senso opposto deponeva, tuttavia, la circostanza che in parte motiva il giudice avesse espressamente dichiarato di essere sprovvisto della competenza funzionale a decidere sul ricorso proposto.

Neutro, invece, risultava l’indice rappresentato dalla forma (ordinanza) del provvedimento adottato, atteso che l’art. 702-ter c.p.c., al comma 1, prevede per la declaratoria di incompetenza un’ordinanza, al pari di quanto stabilito dal quinto comma per il caso di accoglimento o di rigetto (nel merito) delle domande.

L’approccio indicato in precedenza si sarebbe rivelerato superato, qualora si fosse aderito alla impostazione secondo cui il criterio dell’apparenza, in realtà, è inidoneo a risolvere la peculiare questione, risultando, piuttosto, rilevante al riguardo la sostanza del provvedimento. In particolare, alla stregua di questo indirizzo (108), allo stato minoritario, il criterio dell’apparenza sarebbe idoneo a regolare solo la scelta del mezzo dell’impugnazione, ma ai fini dell’impugnabilità o meno del provvedimento varrebbe il criterio cd. "della prevalenza della sostanza sulla forma degli atti processuali", secondo cui ciò che definisce il regime da applicare all’atto processuale, anche ai fini della relativa impugnazione, è la sua sostanza e non la sua forma (cfr. altresì Sez. U, n. 15116 del 2013, nella motivazione, e Sez. U n. 25837 del 2007).

Pertanto, dapprima, occorrerebbe valutare, in base al criterio della sostanza, se il provvedimento sia impugnabile e, poi, in base al principio di apparenza, occorrerebbe individuare il mezzo (recte: la modalità) con cui quel provvedimento sia impugnabile.

Nella specie, l’indagine si sarebbe arrestata già alla prima fase, atteso che, in applicazione del criterio della sostanza, il provvedimento si sarebbe rivelato non impugnabile con il regolamento di competenza, trattandosi - come innanzi evidenziato - di un provvedimento erroneamente atteggiato come decisione sulla competenza, ma, nella sostanza, meramente ordinatorio.

Qualora si fosse esclusa la qualificazione in termini di pronuncia declinatoria della competenza dell’ordinanza qui impugnata, il ricorrente non sarebbe restato privo di tutela, atteso che il controllo sul se la pronuncia era o meno corretta, pur non possibile in via immediata con il regolamento di competenza, lo sarebbe stato per il tramite degli ordinari mezzi di impugnazione, sub specie di vizio ai sensi dell’art. 158 c.p.c., sicché, nell’ipotesi in cui il primo giudice avesse erroneamente declinato la propria “competenza” (recte, dichiarato improponibile la domanda), in appello si sarebbe potuto rimediare, individuando il giudice “competente” e decidendo la causa nel merito (109).

Non andava, da ultimo, tralasciato che il regolamento necessario di competenza, pur in astratto proponibile, poteva essere considerato in concreto inammissibile per carenza di interesse, qualora la ricorrente avesse inteso radicare la competenza in capo al giudice penale, atteso che, avendo il Tribunale di Sondrio, sezione penale, declinato la propria competenza con precedente ordinanza del 16.6.2017, egli avrebbe dovuto, aderendo ad un determinato orientamento (110), impugnare tempestivamente quest’ultima, ferma restando la possibilità (trattandosi di pronuncia di mero rito) di riproporre la domanda al detto giudice.

Viceversa, qualora si fosse individuato come competente il giudice civile, la ricorrente ben avrebbe potuto trarre beneficio da una eventuale pronuncia favorevole di accoglimento del regolamento di competenza (se ritenuto ammissibile) proposto avverso la decisione negativa adottata dallo stesso.

15. Altre soluzioni astrattamente percorribili.

Si sarebbe potuto altresì aderire all’impostazione adottata dalla S.C. con riferimento alla ripartizione degli affari tra il tribunale ordinario e quello specializzato in materia di impresa, ritenendosi che si sia al cospetto di una questione di competenza solo quando i due giudici in conflitto appartengano ad uffici giudiziari differenti. Ed infatti, nel caso del rapporto tra giudici che non si trovino nello stesso ufficio giudiziario, si verificherebbe la sovrapposizione del profilo della competenza territoriale, che ha natura inderogabile, da cui la possibile questione di competenza in senso proprio che avrebbe reso ammissibile il regolamento di competenza (111).

Peraltro, andava ricordato (cfr. § 7.) che, secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui la violazione delle norme che disciplinano la ripartizione della potestas judicandi tra il giudice civile ed il giudice penale non può costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c., troverebbe applicazione anche quando l’applicazione di ciascuno dei due plessi normativi conduca all’individuazione, quale giudice competente, di organi appartenenti ad uffici giudiziari diversi.

16. La decisione a Sezioni Unite.

Sulle questioni esposte nei paragrafi che precedono si è pronunciata Sez. U, n. 38596/2021, Nazzicone, Rv. 663248-01.

In primo luogo, i giudici di legittimità hanno riportato in rapida rassegna i precedenti della Suprema Corte sull’ammissibilità del regolamento di competenza in caso di conflitto tra giudice civile e giudice penale, avuto particolare riguardo alla posizione della Cassazione civile, secondo cui la violazione delle norme che disciplinano la ripartizione della potestas iudicandi tra i detti giudici non può costituire oggetto di un’istanza di regolamento di competenza, ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c. (sia con riferimento al caso in cui i due giudici appartengano ad uffici giudiziari diversi, sia quando facciano parte dello stesso ufficio).

In quest’ottica, appare consolidato il principio per cui attengono alla competenza, e possono quindi formare oggetto dell’istanza di regolamento ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p.c., le sole questioni concernenti l’identificazione, tra i vari organi investiti di giurisdizione in materia civile, di quello cui spetti la cognizione della controversia, onde non è configurabile giuridicamente una questione di competenza allorché l’alternativa si ponga tra il giudice civile ed il giudice penale.

Hanno, poi, evidenziato che già in passato le stesse Sezioni Unite avevano precisato che, “allorché il giudice civile adìto ritenga che "competente" in ordine alla domanda formulata dall’attore sia un collegio penale del medesimo ufficio, non si pone una questione di competenza suscettibile di essere risolta con il regolamento di competenza, ma di ripartizione delle cause tra magistrati appartenenti allo stesso ufficio giudiziario”, reputando inammissibile il ricorso per regolamento di competenza (Sez. un., ord. 31 ottobre 2008, n. 26296, dove il conflitto era tra giudice civile e giudice dell’esecuzione penale).

Pertanto, hanno sottolineato, l’assegnazione di un affare ad uno piuttosto che ad altro magistrato in imprecisa applicazione dei relativi criteri tabellari non involge giammai una questione di competenza.

Dopo aver richiamato i numerosi precedenti che hanno, del pari, attribuito mera rilevanza interna - in ragione della divisione in sezioni degli uffici giudiziari - alla ripartizione delle cause tra magistrati appartenenti allo stesso ufficio giudiziario, diversi dall’ipotesi del conflitto civile-penale, riguardando la competenza funzionale solo l’ufficio giudiziario unitariamente inteso, hanno ricordato che sempre le Sezioni Unite hanno chiarito, proprio applicando i principi esposti, che il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nel caso in cui entrambe le sezioni siano istituite presso il medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma alla mera ripartizione interna degli affari giurisdizionali (Sez. U, n. 19882/2019, Di Virgilio, Rv. 654837-01).

Hanno rilevato che la Suprema Corte, nelle sue sezioni penali (Sez. 1, Sentenza n. 52138 del 22/11/2019 Cc. - dep. 30/12/2019 -, Rv. 278362 - 01; 14 febbraio 2017, n. 33335, De Zottis, non massimata; 28 aprile 2015, n. 20911, Cuomo, non mass.; Sez. 1, Sentenza n. 5603 del 17/01/2008 Cc. - dep. 05/02/2008 -, Rv. 238866 - 01; Sez. 1, Sentenza n. 19547 del 02/04/2004 Cc. - dep. 27/04/2004 -, Rv. 227982 - 01), ha, invece, reputato ammissibile il conflitto di competenza tra giudice penale e giudice civile di uffici diversi (inquadrabile nell’ambito dei “casi analoghi” di conflitto, previsti dall’art. 28, comma 2, c.p.p.), determinandosi altrimenti una situazione di stasi processuale. Ma, al contempo, la Cassazione penale ha negato, di contro, l’ammissibilità del conflitto di competenza, quando si tratti di distinte sezioni penali dello stesso ufficio giudiziario, non essendo, in tal caso, messa in discussione la competenza per materia e per territorio di un determinato giudice, ma solo la ripartizione degli affari penali tra le varie sezioni dello stesso giudice (Sez. 5, Ordinanza n. 4143 del 23/06/1998 Cc. - dep. 05/10/1998 -, Rv. 211514 - 01).

Con riferimento alla questione della corretta qualificazione delle sezioni ordinarie all’interno dello stesso tribunale, nell’ambito del riparto degli affari tra le stesse (sia fra le varie sezioni civili o penali, sia tra le sezioni dell’uno o dell’altro settore), questione che si riflette, tra l’altro, sulla doverosità (o meno) per il secondo giudice, innanzi al quale la causa sia pervenuta per rimessione da altro giudice del tribunale e che intenda spogliarsi della causa, di sollevare d’ufficio il conflitto negativo di competenza ex art. 45 c.p.c., le Sezioni Unite hanno posto in rilievo che le diverse sezioni del tribunale costituiscono mere articolazioni interne, facenti parte di un unico ufficio giudiziario. Quanto, in particolare, alla partizione tra sezioni civili e penali, l’art. 46 o.g., nel prevedere che gli affari civili e penali possano essere attribuiti alle sezioni “promiscuamente o separatamente”, già fa capire che, se una stessa sezione può trattare entrambi i settori, certamente si tratta di norme sulla mera partizione degli affari.

Dalle considerazioni che precedono, vengono tratti i seguenti primi due corollari: 1) che la nozione di competenza in sede civile non si attaglia alle attribuzioni della singola sezione ordinaria di tribunale; 2) che, non attenendo alla competenza, non è impugnabile ai sensi dell’art. 42 c.p.c. l’ordinanza che pure abbia reputato competente un giudice penale del medesimo ufficio. In definitiva, le sezioni sono articolazioni interne dell’ufficio, che non possono avere riparti o conflitti di competenza con altre sezioni del medesimo ufficio giudiziario, essendo la suddivisione degli affari tema di rilievo esclusivamente tabellare.

Questi i punti salienti della decisione:

16.1. nell’approccio diretto alla questione sottoposta al suo esame, le Sezioni Unite hanno affermato che la nozione processuale di "competenza" - che in materia civile rappresenta la misura della potestas del giudice a conoscere una determinata controversia, secondo le regole di selezione concernenti l’oggetto, il territorio ed il valore - in materia penale soggiace a diverse regole di selezione, rapportate a criteri di correlazione tra una vicenda e il giudice abilitato a conoscerla ed a giudicarla, affatto non congruenti con quelli tipici della materia civile (entità della pena edittale, locus commissi delicti). Di conseguenza, l’art. 28 c.p.p. offre all’interprete, e quindi al giudice penale, uno spazio di applicazione che non è dato al giudice civile. In particolare, la clausola generale contenuta nel comma 2 della detta disposizione ha consentito alla Cassazione penale di includere nell’ambito di operatività dello strumento di soluzione del conflitto anche ipotesi ulteriori (analoghe), comprensive di casi di conflitto negativo tra giudice civile e giudice penale, sussistendone la medesima ragione giustificatrice che sorregge l’istituto processuale, ossia quella, per il caso della ricusa contemporanea, del rischio di paralizzare il corso di un procedimento e di rispondere a una domanda con un non liquet.

La non coincidenza tra le nozioni, cui fanno capo i concetti di competenza nei due àmbiti materiali, rappresenta, al tempo stesso, ragione e conseguenza dell’inapplicabilità di uno strumento - il regolamento dinanzi alla Cassazione civile - nel quale possono essere utilizzati criteri propri del solo àmbito civile.

Né sarebbe corretta, secondo la Corte, un’estensione analogica della disposizione dell’art. 28 c.p.p. al caso di specie, non essendo indefettibile la risoluzione della stasi processuale mediante il regolamento di competenza.

La soluzione alla non desiderabile stasi processuale, ai fini della tutela effettiva dei diritti, nell’ipotesi di ritenuta non "competenza" ad opera di una sezione civile del tribunale in favore di altra sezione, anche penale, del medesimo ufficio, consiste, secondo le Sezioni Unite, nel riferirne al Presidente, il quale potrà delegare una diversa sezione o un diverso giudice, designando, in tal modo, quello davanti al quale il procedimento deve proseguire (in base agli artt. 168 bis c.p.c. e 83 ter disp. att. c.p.c.).

In conclusione, nel riparto delle liti tra le sezioni ordinarie del tribunale, la soluzione di chi debba trattare la causa va risolta in via interna, mediante gli strumenti previsti nel caso di errata assegnazione tabellare dei fascicoli: il giudice assegnatario rimetterà il fascicolo al Presidente del tribunale, il quale lo ritrasmetterà al giudice stesso, laddove ritenga errato il rilievo tabellare dal medesimo operato, o provvederà all’assegnazione alla sezione corretta; e, se il giudice ad quem neghi la propria esatta designazione, il conflitto sarà comunque deciso dal Presidente del tribunale.

16.2. Le Sezioni Unite hanno, però, cura di segnalare che un problema di difetto di tutela può tuttavia porsi qualora - come nella specie - il giudice adìto, anziché rimettere la controversia al Presidente del tribunale ritenendo non individuata la sezione corretta, abbia pronunciato in rito, con una declaratoria di inammissibilità o di improcedibilità della domanda, liquidando anche le spese processuali. Si tratta di una decisione che non verte “sulla competenza” in senso tecnico, per le ragioni esposte, ma con la quale, pur tuttavia, il giudice si è spogliato del potere decisorio come ufficio giudiziario, invece che rimettere la nuova designazione al presidente di questo. L’individuazione del rimedio impugnatorio (ordinario, o il regolamento di competenza) richiede, a questo punto, due accertamenti, dovendosi, in primo luogo, qualificare il provvedimento, derivando da ciò il mezzo di impugnazione correttamente applicabile; ed, in secondo luogo, valutare se l’”apparenza” abbia deposto in altro senso. Non trattandosi di pronuncia sulla competenza ed avendo, comunque, il tribunale concluso il giudizio innanzi a sé e all’ufficio, mediante una declaratoria di inammissibilità della domanda, il rimedio è quello impugnatorio ordinario, da proporsi, a penda di decadenza, tempestivamente.

Se, però, il mezzo dell’appello non sia stato esperito in favore del regolamento di competenza, occorrerà allora valutare se sussista, in ipotesi, una lesione dell’affidamento della parte, indotta a qualificare il provvedimento reso come sulla competenza (Sez. 6, Ordinanza n. 18182 del 24/06/2021, Rv. 661875 - 01; e già Sez. 6 - L, Ordinanza n. 6179 del 01/03/2019, Rv. 653141 - 01; Cass., ord. 29 marzo 2018, n. 7882, non mass.; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 25059 del 23/10/2017, Rv. 646632 - 01; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 5313 del 06/03/2014, Rv. 631008 - 01; Sez. U, Sentenza n. 390 del 11/01/2011, Rv. 615406 - 01): in tal caso, dovrà farsi applicazione del (diverso) principio dell’apparenza, il quale, in tema di impugnazioni, richiede di individuare il mezzo esperibile sulla base della oggettiva qualificazione (pur erronea), espressa o comunque non equivoca, emergente dal provvedimento del giudice.

Secondo la S.C., è, dunque, applicabile il cd. principio dell’apparenza processuale all’ipotesi in cui un provvedimento giudiziario abbia trattato come questione di competenza una questione attinente al rito o alla ripartizione degli affari interna all’ufficio, rendendo tale principio eccezionalmente ammissibile il mezzo di impugnazione con quella coerente.

16.3. In conclusione, le Sezioni Unite civili, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il principio di diritto secondo il quale l’ordinanza del giudice civile che abbia reputato competente un giudice penale del medesimo ufficio non è impugnabile con regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42 c.p.c., atteso che la distinzione tra le varie sezioni - anche civili e penali - del medesimo tribunale si riferisce a mere articolazioni interne di un unico ufficio, con la conseguente esclusione della possibilità di qualificare le rispettive attribuzioni come “questione di competenza” nel processo civile, dovendosi altresì escludere l’applicazione, sia in via diretta, sia in via analogica, delle soluzioni normative sancite dall’art. 28 c.p.p.

  • procedura civile
  • errore giudiziario
  • procedimento giudiziario

VI)

I PRESUPPOSTI DELLA NULLITÀ DELLA SENTENZA EMESSA “ANTE TEMPUS” E LE RILEVANTI IMPLICAZIONI SISTEMATICHE

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 La sentenza del 25 novembre 2021, n. 36596 delle Sezioni Unite civili sulla nullità della sentenza emessa “ante tempus” per violazione del contraddittorio. - 2 Il fondamento della disciplina delle nullità processuali e il cd. principio del pregiudizio effettivo. - 3 L’ambigua disciplina positiva delle nullità. - 4 Le contrastanti tesi dottrinali. - 5 Il principio del pregiudizio effettivo nella giurisprudenza di legittimità. - 5.1 a) L’inosservanza degli obblighi di comunicazione del CTU. - 5.2 b) Le “sentenze della terza via”. - 5.3 c) L’errore sul rito. - 5.4 d) La denuncia degli errores in procedendo. - 5.5 e) Altre fattispecie. - 6 Il necessario compromesso tra il rischio del “formalismo delle garanzie” e il pericolo della “dissolvenza” del processo. La lesione del contraddittorio come fondamento delle nullità processuali.

1. La sentenza del 25 novembre 2021, n. 36596 delle Sezioni Unite civili sulla nullità della sentenza emessa “ante tempus” per violazione del contraddittorio.

Con la sentenza n. 35596 del 25 novembre 2021, le Sezioni Unite civili della S.C., componendo un contrasto tra due indirizzi contrapposti, hanno enunciato il principio secondo cui “la parte che proponga l’impugnazione della sentenza d’appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero di replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; invero, la violazione determinata dall’avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto alla possibilità per i difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all’atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo” (Sez. U, n. 36596 del 2021, Terrusi, Rv. 663244-01).

Le Sezioni Unite erano state investite della questione - sulla quale vi era contrasto - se la sentenza emessa dal giudice di merito prima della scadenza dei termini concessi, ex art.190 c.p.c., per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica (o anche di uno solo di essi) - e, a fortiori, in ipotesi di mancata concessione dei suddetti termini - sia affetta da nullità per il solo fatto di essere risultato impedito ai difensori delle parti di esercitare compiutamente il diritto di difesa nel rispetto dei termini perentori all’uopo fissati dalla legge, oppure se la detta nullità presupponga l’accertamento, in concreto, del pregiudizio effettivo sofferto dalla parte in conseguenza della violazione della norma processuale da parte del giudice.

La controversia sulla questione dipendeva dal contrasto tra due distinti orientamenti, manifestatisi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alle conseguenze della violazione, da parte del giudice di merito di primo grado, delle disposizioni processuali contenute negli artt. 190, 275, comma 1, 281 quinquies, comma 1, nonché, da parte del giudice di appello, di quella contenuta nell’art. 352, comma 1, c.p.c., a norma delle quali, fatte precisare le conclusioni, il giudice assegna alle parti i termini (rispettivamente, di 60 e di 20 giorni) per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

Il primo orientamento (maggioritario) attribuiva conseguenze invalidanti della sentenza alla circostanza “formale” costituita dall’inosservanza di norme processuali volte a prevedere una scansione procedimentale obbligatoria e a stabilire dei termini perentori, a prescindere dalla sussistenza di un effettivo pregiudizio risentito dalla parte in seguito a tale violazione; il secondo indirizzo (minoritario), invece, faceva dipendere l’invalidità della sentenza dalla circostanza “sostanziale” costituita dal concreto accertamento dell’effettiva lesione del diritto di difesa della parte, sicché non sarebbe stato sufficiente, in funzione della declaratoria di nullità, la deduzione o il rilievo del mero dato della violazione dei termini, ma sarebbe stata necessaria la prova (della quale sarebbe stata onerata la parte interessata) che, ove avesse potuto svolgere l’attività difensiva indebitamente pretermessa dal giudice, la parte stessa avrebbe potuto ragionevolmente orientare il giudizio verso un esito diverso da quello concretamente verificatosi.

L’argomento principale su cui era fondato l’orientamento maggioritario, si rinveniva nel rilievo che la violazione delle predette norme processuali si traduce in una violazione del principio del contraddittorio e in un impedimento all’esercizio effettivo del diritto costituzionale di difesa, il quale deve essere assicurato, sotto pena di nullità della sentenza, non solo nella fase introduttiva del giudizio, ma durante tutto il processo e quindi anche nella fase terminale (cfr., in tal senso, Sez. 6-3,n. 4125/2020, Iannello, Rv. 657021-01; Sez. 2, n. 26883/2019, Oliva, Rv. 655666-01; Sez. 3, n. 24636/2016, Vivaldi, Rv. 642327-01; Sez. 6-3, n. 20180/2015, Vivaldi, Rv. 637461-01; Sez. 6-2, n. 7760/2011, Migliucci, Rv. 617287-01; Sez. 2, n. 7072/2010, Goldoni, Rv. 612235-01; Sez. 2, n. 14657/2008, Mazziotti di Celso, Rv. 603533-01; Sez. 1, n. 11949/2003, Luccioli, Rv. 56570-01; Sez. 3, n. 6817/2001, Purcaro, Rv. 546763-01).

Invece, il secondo indirizzo traeva argomento dall’esigenza di evitare gli eccessi di formalismo garantista derivanti dalla previsione di un’indifferenziata sanzione di nullità in relazione a qualsivoglia violazione di norme processuali, e dalla conforme esigenza di salvaguardare, al contrario, i principi di economia processuale e di interesse ad agire.

In ragione di tale esigenza - anche richiamando le elaborazioni contenute nelle più rilevanti sentenze di legittimità in ordine alle conseguenze dell’errore sul rito e, più in generale, in ordine all’individuazione dell’interesse tutelato dal ricorso per cassazione volto a dedurre errores in procedendo ex art. 360, n. 4, c.p.c. - si era creduto di poter ricavare la regola generale, costituzionalmente ancorata al principio della ragionevole durata del processo, per cui la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduca siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della sua fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima.

Di conseguenza, la mera violazione dei termini assegnati alle parti per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica (o addirittura, la mancata assegnazione di detti termini) non avrebbe potuto essere invocata, di per sé, quale causa di nullità della sentenza, essendo indispensabile, a tal fine, che la parte interessata allegasse e dimostrasse altresì la concreta lesione derivatane al proprio diritto di difesa, indicando, in sede di impugnazione, le argomentazioni e le deduzioni difensive che avrebbe riversato negli atti pretermessi, le quali, se fossero state debitamente considerate dal giudice, avrebbero potuto ragionevolmente condurlo ad una decisione diversa da quella effettivamente assunta (cfr., in tal senso, Sez. 3, n. 7086/2015, Cirillo F.M., Rv. 635103-01; Sez. 3, n. 4020/2006, Finocchiaro M., Rv. 587941-01).

Nel comporre il contrasto, le Sezioni Unite hanno osservato che il principio secondo cui la deduzione dei vizi derivanti dalla inosservanza delle norme processuali non mira a tutelare l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma ad eliminare i pregiudizi conseguenti all’esercizio delle facoltà in cui si esprime il diritto di difesa, rende bensì inammissibili, per difetto di interesse, le doglianze con le quali si censura la mancata adozione di un rito diverso qualora non sia indicato lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivato da tale mancata adozione, atteso il carattere “servente” dell’esattezza del rito, la quale “non è mai suscettibile di essere considerata come fine a sé stessa, donde può essere invocata solo per riparare a una precisa e apprezzabile lesione che, in conseguenza dei rito seguito, si sia determinata (per la parte) “sul piano pratico processuale””.

Questo principio, tuttavia, non può essere invocato allorché venga dedotta “la lesione dei diritti processuali essenziali, come il diritto al contraddittorio e alla difesa giudiziale”, atteso che proprio l’eventualità di una lesione siffatta consente di ritenere integrato il presupposto di rilevanza pratica della questione di rito.

In questo caso, al contrario, la lesione della norma processuale, traducendosi di per sé nella lesione dei diritti processuali essenziali al contraddittorio e alla difesa giudiziale, deve ritenersi sufficiente perché si determini la nullità del procedimento e della sentenza, senza che sia necessaria l’allegazione e la dimostrazione di un ulteriore pregiudizio.

Le norme di cui si realizza la violazione nell’ipotesi di sentenza deliberata “ante tempus” (gli artt. 190, 275, 281 quinquies e 352 c.p.c.) debbono ritenersi espressione dei principi costituzionali del contraddittorio e della difesa giudiziale, i quali devono trovare attuazione in ogni momento del processo e anche nella fase conclusiva.

Esse norme, dunque, predispongono una tutela che deve ritenersi prevista a pena di nullità (sia pure in mancanza di espressa previsione), poiché non può che essere tale la sanzione che colpisce un processo che risulti celebrato in violazione del principio del contraddittorio.

2. Il fondamento della disciplina delle nullità processuali e il cd. principio del pregiudizio effettivo.

La decisione delle Sezioni Unite si presenta densa di implicazioni sistematiche perché la soluzione dello specifico problema della validità o meno della sentenza di merito emessa “ante tempus” presuppone, in una prospettiva più generale, l’individuazione del fondamento stesso della disciplina delle nullità processuali.

Tale problema si colloca, infatti, in un quadro dogmatico sul cui sfondo campeggia la questione se la disciplina delle nullità trovi fondamento nell’esigenza di tutelare puramente e semplicemente l’interesse delle parti all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria oppure nella diversa esigenza di garantire l’eliminazione dell’effettivo pregiudizio patito dalle parti stesse, nell’esercizio dei loro poteri processuali, in conseguenza della violazione delle regole del processo.

Nel primo caso, la natura e l’entità del vizio dipende esclusivamente dalla valutazione preventiva e astratta, compiuta dal legislatore, della violazione commessa; la sanzione della nullità scatta solo se per quella specifica violazione è espressamente comminata dalla legge; la comminatoria di legge è dunque condizione necessaria (ma anche sufficiente) per pronunciare la nullità (“pas de nullité sans texte”).

Nel secondo caso, la natura e l’entità del vizio dipende dalla valutazione, successiva e concreta, compiuta dal giudice, della violazione commessa. La sanzione della nullità scatta solo se si accerta che quella specifica violazione ha cagionato un pregiudizio effettivo ai poteri processuali (e in particolare, al diritto di difesa) delle parti, che devono essere reintegrati attraverso la rinnovazione dell’atto viziato; la comminatoria di legge, quando pure vi sia, non è dunque condizione necessaria né sufficiente, occorrendo la prova (del che è onerata la parte interessata) del pregiudizio effettivo (“pas de nullité sans grief”).

Il problema se il nostro ordinamento processuale abbia recepito la prima o la seconda tra le due alternative, costituisce il problema principale della teorica delle nullità processuali, poiché attiene all’individuazione del loro fondamento.

Esso non è di facile soluzione poiché la disciplina contenuta nel nostro codice, al contrario di quella recata dal codice d’oltralpe, si presenta ambigua.

Ciò spiega perché la dottrina abbia elaborato tesi contrastanti e perché la questione non sia spesso avvertita, con la necessaria consapevolezza, dalla giurisprudenza.

3. L’ambigua disciplina positiva delle nullità.

La disciplina delle nullità contenuta nel codice di procedura civile vigente trova la sua radice nella letteratura giuridica fiorita sull’esegesi del codice francese del 1806, la quale aveva avuto una decisiva influenza sulla dottrina italiana che, guidata da Giuseppe Pisanelli, aveva condotto la prima codificazione post-unitaria.

Il codice italiano del 1865, infatti, per un verso, avrebbe ripetuto il suo contenuto (non direttamente dal codice francese del 1806 ma) dalle elaborazioni dottrinali formulate durante la sua vigenza; per altro verso avrebbe condizionato la nuova disciplina contenuta nel codice del 1940.

Il codice napoleonico del 1806 (oggi ricordato come l’Ancien code de procédure civile) - nel quadro della tendenza alla uniformazione delle diverse forme processuali osservate nei singoli tribunali locali, sotto la disciplina imperativa di regole positive valide in tutto il territorio statale (nonché della convergente tendenza alla riduzione del potere discrezionale del giudice in nome della generale riaffermazione della vincolante volontà del monarca) - aveva proclamato il principio (peraltro già recepito dalla legislazione francese con l’ordinanza di Luigi XIV del 1667) secondo cui “Aucun exploit au acte de procédure ne pourrà être declaré nul, si la nullité n’est pas formellement prononcée par la loi “ (art.1030).

L’esplicito accoglimento del principio “pas de nullité sans texte” non era stato peraltro considerato decisivo dalla dottrina francese per ritenere necessaria la comminatoria di legge in funzione della declaratoria di nullità degli atti processuali. Essa, al contrario, aveva continuato ad attribuire rilevanza alle teorie sulle nullità professate nel diritto comune, che distinguevano tra substantialia e non substantialia processus. Sulla base di questa distinzione, la dottrina aveva dunque interpretato la norma nel senso che potessero (e, anzi, dovessero) essere dichiarati nulli anche tutti gli altri atti processuali mancanti degli elementi essenziali, sebbene la legge tacesse (G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli, 1934, 330 ss.

L’insegnamento della dottrina francese fu recepito nel codice di procedura civile italiano del 1865: la norma fondamentale dettata da questo codice in tema di nullità degli atti processuali, infatti, pur esordendo con il proclama che “non può pronunziarsi la nullità di alcun atto di citazione o di altro atto di procedura, se la nullità non sia dichiarata dalla legge” (così mostrando di recepire, in via di principio, la regola scolpita nell’art. 1030 del codice francese), stabilì che “possono tuttavia annullarsi gli atti che manchino degli elementi che ne costituiscono l’essenza” (art. 56 c.p.c. 1865), così apportando un temperamento importante al principio “pas de nullité sans texte”, sebbene di difficile decifrazione, non essendo chiaro se il riferimento alla mancanza di elementi essenziali dell’atto potesse aprire la strada al rilievo del pregiudizio sofferto dalla parte.

Nel codice del 1940, infine, il “concetto metafisico dell’essenza” (Così E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, I, Milano, 1955, 215) è stato sostituito con quello dello scopo dell’atto, inteso in senso obiettivo; a questa sostituzione si è accompagnato anche l’inserimento di un ulteriore temperamento al principio “pas de nullité sans texte”: la considerazione dello scopo dell’atto, infatti, così come permette di riscontrare la nullità anche se non sia espressamente comminata dalla legge, impedisce, in casi diversi, di pronunciarla, anche se la legge la preveda.

In altre parole, la comminatoria di legge, pur essendo ancora, in via di principio, espressamente prevista, come presupposto generale cui è subordinata la declaratoria di nullità (art. 156, comma 1, c.p.c.), non solo (come già nel vigore del codice del 1865), non è condizione necessaria in funzione della predetta declaratoria (potendosi dichiarare nulli gli atti mancanti dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo: art. 156, comma 2, c.p.c.), ma non è più neppure condizione sufficiente (escludendosi la declaratoria di nullità nell’ipotesi in cui l’atto ha raggiunto lo scopo, sebbene sia comminata dalla legge: art.156, comma 3, c.p.c.).

Alla luce della riferita evoluzione della disciplina processuale, può affermarsi che il nostro diritto processuale positivo, pur apparentemente accogliendo il principio “pas de nullité sans texte” (attraverso il formale recepimento, nell’art. 156, comma 1, c.p.c. 1940, per ragioni di influenza storica e di vicinanza culturale, del proclama contenuto nell’art. 1030 dell’Ancien code de procedure civile del 1806), vi apporta, peraltro, significativi temperamenti.

Il problema che si pone all’interprete è quello di chiarire se questi temperamenti abbiano l’effetto (limitato) di circoscrivere la portata applicativa del principio, che rimane comunque valido e, almeno tendenzialmente, operativo come regola di carattere generale; oppure abbiano l’effetto (più radicale e persino dirompente) di svuotarlo di concreta precettività e persino di sostituirlo, sul piano dell’effettività della disciplina processuale, con il diverso principio “pas de nullité sans grief”.

4. Le contrastanti tesi dottrinali.

Nella dottrina processualistica il problema è stato diversamente risolto, in quanto alle tesi secondo le quali il codice del 1940 avrebbe accolto il principio del pregiudizio effettivo si contrappongono quelle secondo le quali la nullità dell’atto processuale sarebbe subordinata esclusivamente al riscontro negativo dei requisiti di forma-contenuto preventivamente stabiliti dal legislatore.

Nel primo ordine si iscrive, anzitutto, l’autorevole posizione dottrinale che desume la vigenza del principio del pregiudizio effettivo direttamente dal raccordo tra le due norme fondamentali della disciplina codicistica delle nullità, l’art. 156 e l’art. 157 c.p.c.. Secondo questa opinione, precisamente, il concetto di scopo dell’atto processuale di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c., pur avendo portata oggettiva e non subiettiva (allo stesso modo dell’omologo concetto di cui al comma 2 dello stesso articolo), dovrebbe tuttavia essere coordinato con il concetto di interesse di cui al successivo art. 157, comma 2. Il coordinamento tra i due concetti renderebbe “evidente che la parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante non può rilevare la nullità, se non abbia risentito alcun danno, perché ciò significa che l’atto ha egualmente raggiunto il suo scopo, con la conseguenza che nessuna nullità si è verificata” (E.T. Liebman, Manuale, cit., 216).

Il concetto di scopo, dunque, assume connotazione soggettiva, poiché dovrebbe ritenersi raggiunto in ogni caso quando la violazione non ha arrecato alcun pregiudizio alla parte, giacché in questa ipotesi essa non può far valere la nullità per difetto di interesse. La sussistenza del pregiudizio effettivo diviene così presupposto necessario della declaratoria di nullità.

Secondo altre, non meno autorevoli, formulazioni, invece, il principio del pregiudizio effettivo entrerebbe nella disciplina codicistica della nullità degli atti processuali non attraverso il concetto di scopo, ma attraverso il concetto di interesse, quale desumibile dall’art. 157, comma 2, c.p.c..

Questa norma, infatti, nell’attribuire la legittimazione ad opporre la nullità soltanto alla parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante nell’atto processuale viziato, farebbe riferimento ad una nozione di interesse intesa in senso concreto, quale interesse alla reintegrazione dei poteri processuali della parte dal pregiudizio determinato dalla violazione: pertanto, la parte che intenda opporre la nullità, sarebbe onerata della dimostrazione del pregiudizio subìto (S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959, 541; V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1957, 412-413; V. Denti, Nullità degli atti processuali civili, in Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, 467 ss., part. 477, 478).

Sempre nell’ambito delle soluzioni “sostanzialiste”, può ricondursi l’altrettanto autorevole opinione dottrinale che, muovendo dalla peculiare fattispecie delle c.d. “sentenze della terza via”, sembra tuttavia giungere all’enucleazione di un principio generale, in base al quale il giudizio di nullità per violazione di una regola processuale debba ritenersi subordinato alla prova dell’effettivo pregiudizio subìto dalla parte in conseguenza di quella violazione.

Secondo questa opinione, sebbene la disposizione contenuta nell’art. 101, comma 2, c.p.c. (introdotto a seguito della novella operata con l. n. 69 del 2009), preveda espressamente la sanzione della nullità per l’ipotesi in cui il giudice ometta di attivare il contraddittorio sulla questione rilevata d’ufficio e posta a fondamento della decisione, tuttavia non sempre tale violazione dovrebbe avere conseguenze sulla sorte della sentenza. La predetta nullità, infatti, andrebbe incontro a sanatoria “quando la mancata attivazione del contraddittorio non abbia davvero leso il diritto delle parti di concorrere con la loro attività difensiva alla decisione della lite”, in quanto emerga (evidentemente, in sede di impugnazione) “che il contraddittorio omesso si sarebbe comunque rivelato - se doverosamente attivato - “vuoto”, e così “inutile””.

In altre parole, la nullità della cd. sentenza resa “a sorpresa” potrebbe essere pronunciata solo se, in sede di impugnazione della stessa, l’impugnante (appellante o ricorrente per cassazione) dimostrasse che, se gli fosse stato concesso il termine a cui aveva diritto per interloquire sulla questione, egli avrebbe svolto un’attività di trattazione o di istruzione (deposito di documenti, formulazione di istanze) che avrebbe avuto ragionevole probabilità di incidere sulla decisione del giudice. La nullità sarebbe invece sanata se l’impugnante non riuscisse a provare “quale attività (di trattazione o di istruzione) gli sia stata in concreto preclusa”, dovendosi in tal caso ritenere che la “mancata concessione di spazi dialettici alle parti sia risultata ex post innocua”. Il meccanismo normativo attraverso cui opererebbe la sanatoria della sentenza della terza via, nulla ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c., sarebbe nuovamente rinvenibile nell’art. 156, comma 3, c.p.c. il quale, peraltro, non troverebbe applicazione diretta ma analogica, in quanto la sanatoria non opererebbe in ragione del raggiungimento dello scopo dell’atto, ma in ragione della “mancanza ab origine dello scopo dell’atto omesso” (C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2019, 233-234).

All’ordine di opinioni dottrinali, che, attraverso ricostruzioni sistematiche della disciplina delle nullità processuali o soluzioni esegetiche offerte su questioni particolari, mostrano di presupporre la vigenza del principio del pregiudizio effettivo nell’ordinamento processuale, si contrappone il diverso ordine di opinioni, secondo le quali il suddetto principio sarebbe totalmente estraneo al nostro sistema positivo.

Secondo una tesi autorevolmente sostenuta, il principio in parola non potrebbe desumersi né dall’art. 157, comma 2, c.p.c. (in quanto, “ai fini dell’accoglimento dell’eccezione di nullità, la parte nel cui interesse sono stabiliti requisiti formali dell’atto, non deve né allegare né provare che la nullità le ha provocato pregiudizio”), né dall’art. 156, comma 3, c.p.c. (che contemplerebbe una “fattispecie sussidiaria” rispetto a quella in relazione alla quale la legge commina la sanzione della nullità, fattispecie che “comprende accanto all’atto nullo un elemento ulteriore ed alla quale conseguono gli effetti dell’originaria fattispecie non realizzatasi”).

La regola “pas de nullité sans grief” non troverebbe, dunque, accoglimento nel nostro ordinamento, in quanto “la valutazione dell’interesse [sarebbe] fatta una volta per tutte dal legislatore nel momento in cui prescrive, per proteggere una parte, determinati requisiti formali dell’atto”, mentre “il pregiudizio [sarebbe] in re ipsa, in modo che la parte [otterrebbe] la dichiarazione di nullità, per il solo fatto che manchino i requisiti formali, senza dover dimostrare alcunché” (R. Oriani, Nullità degli atti processuali. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXIII, Roma, 1990, 7-11).

Sulla medesima linea si pone l’opinione dottrinaria secondo la quale non solo l’esame della disciplina positiva delle nullità dovrebbe indurre ad escludere recisamente la sussistenza dell’onere di provare il pregiudizio effettivo in conseguenza della violazione processuale, ma la possibilità di configurare il predetto onere - tanto in una prospettiva interpretativa quanto in una prospettiva de iure condendo - dovrebbe essere scongiurata alla luce delle implicazioni negative cui condurrebbe l’accoglimento del principio, sia sul piano sistematico che sul piano pratico.

Una volta accolto il principio del pregiudizio effettivo, infatti, si porrebbe, in primo luogo, il problema di circoscriverne l’ambito di applicazione e, in secondo luogo (e conseguenzialmente), la questione di delimitare l’oggetto dell’onere probatorio della parte interessata ad ottenere la declaratoria di nullità (R. Donzelli, Sul “principio del pregiudizio effettivo”, in Riv. dir. proc., 2020, 548 ss.).

L’evidenza di questi problemi emergerebbe, in una prospettiva comparatistica, dalla considerazione delle esperienze avutesi negli ordinamenti che hanno introdotto il suddetto principio nella disciplina processuale positiva e, segnatamente, proprio dall’esperienza in corso nell’ordinamento francese.

In questo ordinamento, infatti, in seguito alla sostituzione dell’Ancien code de procédure civile del 1806, ad opera del cd. Nouveau code de procédure civile (introdotto, all’esito di un ampio e generale percorso di riforma, con il decreto n. 75-1123 del 5 dicembre 1975), la vecchia regola “pas de nullité sans texte” è stata abrogata ed è stata espressamente accolta la diversa regola “pas de nullitè sans grief”.

Nell’ambito della disciplina dedicata alle nullità formali - comprensive sia dei casi di nullità testuale sia dei casi di nullità derivanti dal difetto di requisiti formali attinenti alla sostanza dell’atto o di ordine pubblico (artt. 112 ss.) - Il nouveau code, dopo aver ribadito la tradizionale affermazione di principio secondo cui “Aucun acte de procédure ne peut être déclaré nul pour vice de forme si la nullité n’en est pas expressément prévue par la loi, sauf en cas d’inobservation d’une formalité substantielle ou d’ordre public” (art. 114, comma 1), aggiunge che «La nullité ne peut être prononcée qu’à charge pour l’adversaire qui l’invoque de prouver le grief que lui cause l’irrégularité, même lorsqu’il s’agit d’une formalité substantielle ou d’ordre public” (art. 114, comma 2).

La scelta del legislatore di accogliere il principio del pregiudizio effettivo come regola di carattere generale, è stata criticata dalla dottrina francese, la quale ha evidenziato come essa non trovi giustificazione in ordine alle nullità stabilite in relazione alla violazione di regole processuali poste a tutela, non dell’interesse particolare delle parti, ma nell’interesse generale al buon funzionamento della giustizia (cd. regole sull’organizzazione giudiziaria).

Dinanzi a simili violazioni, infatti, non sarebbe configurabile alcuna concreta lesione dei poteri processuali della parte, sicché onerarla della prova dell’effettivo pregiudizio significherebbe, da un lato, rendere facoltativa l’osservanza della regola processuale e, dall’altro lato, gravare la parte di una probatio impossibilis.

Avuto riguardo all’esperienza francese, dunque, ove pure si riuscisse a trovare un fondamento positivo alla regola “pas de nullité sans grief” nel sistema italiano, sarebbe necessario circoscriverne l’ambito di applicazione alle sole nullità formali “effettivamente funzionali a fornire informazioni alla controparte al fine di garantirgli l’esercizio di difesa” (R. Donzelli, Sul “principio del pregiudizio effettivo”, cit., 562, ove si richiamano notazioni della dottrina francese).

Inoltre, una volta differenziato il pregiudizio (inteso come concreta lesione subiettiva dei poteri processuali della parte) sia dallo scopo obiettivo e astratto che l’ordinamento riferisce all’atto processuale (art. 156, comma 3, c.p.c.), sia dall’interesse che determina la legittimazione ad opporre il vizio (art. 157, comma 2, c.p.c.), la precisa individuazione dell’oggetto dell’onere probatorio della parte, se può risultare chiara sotto il profilo concettuale, potrebbe essere in pratica, “estremamente difficile o anche propriamente impossibile” (R. Donzelli, Sul “principio del pregiudizio effettivo”, cit., 550, ove si esemplifica con riguardo alla fattispecie in cui venga denunciata la violazione dell’art. 102 c.p.c. in tema litisconsorzio necessario: in applicazione del principio del pregiudizio effettivo la parte interessata ad ottenere la declaratoria della nullità della sentenza dovrebbe provare la concreta lesione derivante dalla mancata partecipazione al processo del terzo litisconsorte pretermesso).

5. Il principio del pregiudizio effettivo nella giurisprudenza di legittimità.

La divisione della dottrina in ordine alla configurabilità del principio del pregiudizio effettivo nell’ordinamento processuale positivo, non ha impedito l’affermazione del principio stesso nelle concrete applicazioni giurisprudenziali, e quindi il suo concreto accoglimento, al di là della terminologia usata e della giustificazione dogmatica addotta, nel diritto processuale vivente.

Nelle elaborazioni della giurisprudenza di legittimità, infatti, pur non facendosi menzione di tale principio come principio di carattere generale, si rinviene una crescente ed univoca tendenza a riconoscergli concreta operatività, allorché si debba decidere sulla validità di un atto processuale o si debbano individuare le conseguenze della violazione di norme del processo.

Precisamente, nelle pronunce giurisprudenziali che, pur rese su fattispecie differenti, affrontano la comune questione della validità di uno o più atti processuali o delle conseguenze da attribuire alla violazione di regole processuali, tende ad affermarsi, come regola di giudizio, il criterio per cui la doglianza della parte interessata ad ottenere l’invalidazione dell’atto o comunque a far valere la violazione, non può limitarsi alla denuncia della irregolarità formale (e quindi alla deduzione dell’astratta lesione della regolarità dell’attività giudiziaria: violazione di un termine, mancata citazione di un litisconsorte, erronea scelta del rito, inosservanza di un adempimento processuale, ecc.), ma deve essere sostenuta dalla allegazione e dalla prova che quella violazione ha determinato una concreta lesione delle prerogative processuali della parte medesima, cagionando un effettivo pregiudizio al suo diritto di difesa.

La varietà delle pronunce giurisprudenziali non concerne unicamente il diverso contenuto delle fattispecie da cui sono originate (comunque accomunate dalla generale inerenza a questioni processuali), ma anche il fondamento normativo della soluzione prospettata, nel senso che essa non viene basata sull’esplicita operatività di un principio generale dell’ordinamento processuale (il “principio del pregiudizio effettivo”), ma viene, di volta in volta, giustificata con il riferimento a regole diverse, talora desunte dalle classiche categorie processuali dell’ interesse ad agire o del raggiungimento dello scopo, talaltra individuate nei principi del giusto processo, di economia processuale o della ragionevole durata.

5.1. a) L’inosservanza degli obblighi di comunicazione del CTU.

Uno dei primi ambiti in cui si è affermata questa regola di giudizio, è quello delle conseguenze dell’inosservanza degli obblighi di comunicazione del consulente tecnico d’ufficio, previsti dagli artt. 194 c.p.c., 90 e 91 disp. att. c.p.c..

La S.C. ha ripetutamente affermato, sin da epoca piuttosto risalente, che in tema di consulenza tecnica d’ufficio, ai sensi delle norme richiamate, alle parti va bensì data comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni peritali, ma, tuttavia, l’inosservanza di questo obbligo da parte del CTU può dar luogo a nullità della consulenza - peraltro relativa e quindi sanabile se non dedotta nella prima difesa o udienza successiva - solo se abbia comportato in concreto un pregiudizio per il diritto di difesa (tra le altre Sez. 1, n. 18598/2008, Schirò, Rv. 604460-01; Sez. 1, n. 00015/2003, Luccioli, Rv. 561018-01; Sez. 1, n. 05775/2001, Salvago, Rv. 548174-01; Sez. 1, n. 00986/1996, Criscuolo A., Rv. 495765-01).

Analogamente, l’inosservanza da parte del CTU, quando riprende le operazioni peritali interrotte, del dovere di avvertire i contendenti, determina la nullità relativa della consulenza tecnica (sanata ove non dedotta nella prima difesa o nell’udienza successiva) solo se abbia effettivamente comportato, con riguardo alle circostanze del caso concreto, una lesione del diritto di difesa (Sez. U, n. 02481/1988, Tilocca, Rv. 458253-01).

5.2. b) Le “sentenze della terza via”.

Successivamente la regola è stata estesa alle cd. sentenze della terza via, ambito in cui si registra probabilmente il maggior numero di arresti giurisprudenziali di legittimità volti a dare concreta attuazione al principio del pregiudizio effettivo.

In tale ambito, con specifico riferimento all’omessa indicazione alle parti di una questione di fatto oppure mista di fatto e di diritto rilevata d’ufficio, sulla quale si fondi la decisione, si rinviene, infatti, come è noto, la massima consolidata secondo cui tale omissione priva le parti del potere di allegazione e di prova sulla questione decisiva e, pertanto, comporta la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, tutte le volte in cui la parte che se ne dolga prospetti, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto fare valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato (da ultimo, ma nell’ambito di un orientamento consolidato, Sez. 2, n. 11440/2021, Varrone, Rv. 661095-01).

Invece, con riguardo all’omessa segnalazione di una questione di puro diritto, rilevata d’ufficio, il principio, egualmente consolidato, affermato dalla S.C., è nel senso che non sussiste la nullità della sentenza, in quanto da tale omissione non deriva la consumazione di un vizio processuale diverso dall’ “error iuris in iudicando”, ovvero dall’ “error in iudicando de iure procedendi”, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore si sia in concreto consumato (Sez. 1, n. 16049/2018, Falabella, Rv. 649531-01; Sez. 1, n. 02984/2016, Di Virgilio, Rv. 638556-01).

Nella fattispecie delle sentenze cd. a sorpresa, l’operatività del principio del pregiudizio effettivo, sia pure con enunciazioni diverse che fanno riferimento anche alla finalità di evitare l’utilizzo dilatorio e strumentale dei rimedi processuali, è stata affermata, in seguito alla novella dell’art. 101, comma 2, c.p.c. (operata con l. n. 69 del 2009), in numerose pronunce, a partire dallo storico arresto delle Sezioni Unite del 30 settembre 2009 (Sez. U, n. 20935/2009, Travaglino, Rv. 610517-01).

Anche prima della predetta novella, peraltro, la S.C. era solita unire al rilievo della nullità della sentenza per violazione del contraddittorio, l’affermazione che la denuncia del vizio, in sede di impugnazione, dovesse essere “accompagnata dalla indicazione delle attività processuali che la parte avrebbe potuto porre in essere” (Sez. 3, n. 21108/2005, Preden, Rv. 585265-01); Sez. 3, n. 16577/2005, Preden, Rv. 584889-01).

5.3. c) L’errore sul rito.

Vi sono poi ambiti e fattispecie - in relazione ai quali la regola del pregiudizio effettivo ha trovato largo riscontro nelle concrete applicazioni giurisprudenziali - che, per la loro ampiezza e per il loro rilievo sistematico, si prestano più di altri a costituire la premessa concettuale per l’enucleazione di principi di carattere generale.

Si tratta dei già ricordati ambiti dell’errore sul rito processuale e del fondamento della denuncia degli errores in procedendo.

Con riguardo all’errore sul rito, si è affermato, di volta in volta: che l’introduzione del processo con forme diverse da quelle proprie integra un motivo di impugnazione solo ove sia dedotto che tale errore abbia comportato la lesione del diritto di difesa e non inficia la validità degli atti posti in essere secondo le regole del procedimento impropriamente utilizzato, in quanto il rito non costituisce condizione necessaria perché il giudice possa decidere nel merito la causa (Sez. 2, n. 22075/2014, Scalisi, Rv. 633130-01); che l’erronea applicazione delle regole del codice di rito non può pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l’accertamento del diritto, in quanto la pronuncia di merito è garanzia di effettività della tutela ex art. 24 Cost., e in quanto, inoltre, l’art. 111 Cost. assegna rilievo costituzionale al principio di ragionevole durata del processo al pari di quello del diritto di difesa, sicché il contemperamento dei due principi porta ad escludere la correttezza di interpretazioni che prevedano la regressione del processo per il mero rilievo della mancata realizzazione di determinate formalità, la cui omissione non abbia in concreto comportato limitazioni delle garanzie difensive (Sez. L, n. 8422/2018, Cinque, Rv. 647623-01); e che dall’adozione di un rito errato non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di impugnazione, a meno che l’errore di rito non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte (Sez. 3, n. 19136/2005, Perconte Licatese, Rv. 586440-01).

Tali enunciazioni di carattere generale hanno poi trovato specificazione nelle pronunce in cui è stata ritenuta irrilevante, ai fini della cassazione della decisione impugnata, l’erronea adozione del procedimento in camera di consiglio in luogo di quello ordinario di cognizione da parte del giudice di merito, qualora il ricorrente non deduca sotto quali profili l’adozione del rito camerale abbia inciso sull’esplicazione del suo diritto di difesa (Sez. 1, n. 13662/2004, Gilardi, Rv. 574810-01), nonché in quelle che hanno escluso che possa costituire causa di nullità l’introduzione del giudizio con ricorso anziché con citazione, allorché ciò non abbia comportato un concreto pregiudizio per alcuna delle parti, relativamente al rispetto del contraddittorio, all’acquisizione delle prove e, più in generale, a quanto possa avere impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario (Sez. 1, n. 13639/2013, Cristiano M., Rv. 626634-01).

L’irrilevanza dell’errore sul rito, ove non accompagnato dal pregiudizio effettivo al diritto di difesa, è stata autorevolmente affermata anche da Sez. U, n.03758/2009, Finocchiaro M., Rv. 606660-01.

5.4. d) La denuncia degli errores in procedendo.

In riferimento alla denuncia degli errores in procedendo, la S.C. ha affermato il principio, ormai pacifico e consolidato, secondo cui tale denuncia (tipicamente operata con il ricorso per cassazione, ex art. 360, n.4, c.p.c., ma che ovviamente può essere posta a fondamento anche di un mezzo totalmente devolutivo come l’appello) non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subìto dalla parte che denuncia il vizio, con la conseguenza che l’annullamento della sentenza impugnata si rende necessario solo allorché nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata (ex multis, Sez. 3, n. 26157 del 2014, Vincenti, Rv. 633693-01; Sez. 1, n. 19759 del 2017, Falabella, Rv. 645194-01).

Il fondamento di questo principio è stato individuato in quelli di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire.

Gli ambiti dell’errore sul rito e della denuncia degli errores in procedendo si prestano più di altri a costituire la premessa concettuale per l’enucleazione di principi di carattere generale, poiché il primo costituisce la fattispecie paradigmatica delle violazioni delle norme processuali, mentre la doglianza fondata sulla nullità della sentenza o del procedimento costituisce il motivo di gravame con cui si fanno valere le predette violazioni.

Proprio movendo dalle elaborazioni giurisprudenziali che, in questi due peculiari ambiti, valorizzano il presupposto della concreta lesione del diritto di difesa, potrebbe dunque essere affermata la sussistenza di una regola generale secondo cui, avuto riguardo ai tradizionali canoni dell’interesse ad agire e della congruità delle forme allo scopo, nonché ai superiori principi (di rilievo costituzionale) della ragionevole durata del processo e dell’economia processuale, la lesione delle norme processuali non sarebbe invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della sua fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima.

5.5. e) Altre fattispecie.

Negli ultimi tempi l’applicazione giurisprudenziale della regola del pregiudizio effettivo - sia pure, come si è accennato, sulla base del riferimento a fondamenti normativi diversi - si è andata estendendo alle fattispecie più disparate.

Così, ad es., con riguardo alla mancata apposizione della formula esecutiva, si è statuito che, sebbene l’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo (che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, comma 1, c.p.c., senza che la proposizione dell’opposizione determini l’automatica sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.), tuttavia, in base ai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e dell’ interesse ad agire, il debitore opponente non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato (Sez. 3, n. 03967/2019, D’Arrigo, Rv. 652822-01). La Sottosezione della stessa Sezione ha tuttavia di recente parzialmente rettificato il proprio orientamento, affermando che l’omessa notifica del titolo in forma esecutiva determina una irregolarità formale, da denunciare nelle forme e nei termini dell’art. 617, comma 1, c.p.c., senza che sia necessario allegare e dimostrare la sussistenza di alcun diverso ed ulteriore specifico pregiudizio oltre a quello insito nel mancato rispetto delle prescritte formalità (Sez. 6-3, n. 32838/2021, Tatangelo, Rv. 662963-01).

In riferimento alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario, in violazione dell’art. 102 c.p.c., la S.C. ha affermato che la parte interessata ad ottenere la declaratoria della nullità della sentenza dovrebbe provare la concreta lesione derivante dalla mancata partecipazione al processo del terzo litisconsorte pretermesso (Sez. 6-2, n. 20152/2019, Fortunato, non mass.).

Con riguardo al mancato esperimento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione nel processo del lavoro (adempimenti da svolgersi, in limine, alla prima udienza, ai sensi dell’art. 420 c.p.c.), la doglianza della parte che lamentava l’ingiustificata omissione di tali adempimenti da parte del giudice è stata rigettata, oltre che sul tradizionale rilievo che l’omesso espletamento di questi incombenti non incide sulla validità del rapporto processuale, anche con l’ulteriore motivazione secondo cui la denuncia della violazione di norme processuali deve essere accompagnata dall’allegazione e dalla prova del pregiudizio asseritamente derivatone al diritto di difesa della parte (Sez. L, n. 04947/2019, Ponterio, non mass.).

6. Il necessario compromesso tra il rischio del “formalismo delle garanzie” e il pericolo della “dissolvenza” del processo. La lesione del contraddittorio come fondamento delle nullità processuali.

Dinanzi all’ambiguità della disciplina positiva, alle contrastanti tesi dottrinali e alla tendenza giurisprudenziale ad una crescente applicazione del “principio del pregiudizio effettivo” (non accompagnata, peraltro, da una consapevole sua sistematizzazione come fondamento generale delle nullità processuali), l’interprete ha il dovere di continuare ad interrogarsi sul predetto fondamento, cercando gli strumenti metodologici più adatti alla sua individuazione.

Tra questi strumenti, non sembra particolarmente producente quello, tradizionalmente seguito, di natura squisitamente esegetica, condotto sul tenore testuale delle regole contenute nel nostro codice (in particolare gli artt. 156 e 157 c.p.c.), giacché, esse, diversamente da quelle che si rinvengono nel nouveau code francese (ove il principio “pas de nullité sand grief” appare ormai perspicuamente recepito), si presentano ambigue tanto in relazione al significato del concetto di scopo dell’atto processuale (art. 156) quanto in relazione al significato del concetto di interesse della parte (art. 157).

Potrebbe invece essere più fruttuoso incrociare i risultati di due ricerche distinte ma convergenti: l’una, di carattere più propriamente sistematico, la quale, in funzione dell’individuazione del fondamento della disciplina positiva delle nullità, prenda le mosse dai principi sovraordinati che governano l’attività giurisdizionale, quali quelli del giusto processo, dell’economia processuale e della ragionevole durata; l’altra, di carattere più propriamente comparatistico, che tenga conto dell’esperienza dell’applicazione della regola del pregiudizio effettivo nell’ambito degli ordinamenti processuali in cui essa è stata recepita.

La prima prospettiva di ricerca induce a rinvenire la ratio del principio del pregiudizio effettivo nell’interesse a salvaguardare l’esigenza di economia processuale e a prevenire il rischio di un eccesso di garantismo formalista.

Il principio, in altre parole, assumerebbe una portata generale, quale principio posto a fondamento della disciplina delle nullità processuali, in ragione, da un lato, della necessità di tutelare il valore costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) e, dall’altro lato, dell’esigenza di fare in modo che l’ulteriore valore costituzionale con cui il primo deve essere bilanciato (la tutela del diritto di difesa: art. 24, comma 2, Cost.) non degeneri nel cd. “formalismo delle garanzie” (nell’ambito di questa prospettiva di ricerca si pone l’ampio studio di S. Chiarloni, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 569 ss.).

La seconda prospettiva di ricerca induce a tenere conto degli effetti distorsivi, di carattere pratico oltre che di natura sistematica, derivanti da una indiscriminata applicazione del principio.

In proposito, la dottrina francese, puntualmente richiamata da quella italiana (R. Donzelli, Sul “principio del pregiudizio effettivo”, cit., 561-562) ha criticato la scelta, operata dal Nouveau code de procedure civile, di accogliere la regola “pas de nullité sans grief” con riguardo a tutte le ipotesi di nullità formale (in particolare, in relazione alle violazioni delle cd. regole di organizzazione), in cui non è ontologicamente configurabile alcuna concreta lesione dei poteri processuali della parte.

Questi rilievi non possono non essere tenuti in considerazione nel momento in cui si cerca di rispondere all’interrogativo sui limiti applicativi del principio.

Se, infatti, il rilievo giudiziale della nullità di un atto processuale o l’accoglimento della doglianza con cui si deduce la violazione di una regola del processo, dovesse ritenersi sempre subordinato alla allegazione e alla dimostrazione dell’effettivo pregiudizio subìto dalla parte interessata, ne deriverebbe che, in tutti i casi in cui tale pregiudizio non fosse neppure astrattamente configurabile (come nelle violazioni delle regole di organizzazione) oppure non fosse concretamente dimostrato (come potrebbe accadere dinanzi ad ogni altra violazione), la nullità non potrebbe essere rilevata e quindi, nonostante la formale violazione, il processo resterebbe valido. Si dovrebbe, pertanto, ammettere la possibilità che un processo venga celebrato con forme completamente difformi rispetto a quelle previste dalla legge (nonché, addirittura, l’eventualità che tali forme subiscano un radicale stravolgimento), senza che esso venga inficiato nella sua validità, allorché la predetta difformità (o, persino, il predetto stravolgimento) delle forme processuali, non abbia effettivamente determinato una lesione delle prerogative delle parti o comunque, pur potendo essersi verificata una simile lesione, esse non siano riuscite a fornirne la prova.

La dottrina francese ha efficacemente ammonito sulla possibilità che, in questa prospettiva molte regole processuali possano diventare facultatives e la recente dottrina italiana, sulla scia di quel monito, ha avvertito che, ove si affermasse un’applicazione indiscriminata del principio del pregiudizio effettivo, “lo stesso concetto di procedimento giurisdizionale verrebbe meno per dissolvenza” (R. Donzelli, Sul “principio del pregiudizio effettivo”, cit., 551).

Il rischio, tra l’altro, appare tanto più grave se si consideri (e ciò conduce alla considerazione delle implicazioni pratiche dell’eventuale accoglimento della regola del pregiudizio effettivo) che, avuto riguardo alle diverse possibili violazioni, possono restare incerte, in concreto, sia l’individuazione dell’oggetto dell’onere probatorio delle parti sia la valutazione della sua esatta osservanza.

Questo rischio risulta avvertito anche da altra dottrina, la quale ha attribuito al principio del pregiudizio effettivo una portata “eversiva”, quale principio che, subordinando “anche la declaratoria della nullità legale tipica alla prova della lesione”, potrebbe condurre al “sovvertimento” dei princìpi del diritto processuale (cfr. R. Vaccarella - B. Sassani - B. Capponi, Editoriale, in Rassegna dell’esecuzione forzata, 2019, 3, 596-597).

L’incrocio dei risultati della ricerca sistematica con quelli della ricerca comparatistica induce, dunque, a cercare un compromesso tra l’esigenza di prevenire gli eccessi di “formalismo garantista” e quella di evitare il rischio della “dissolvenza” del processo civile.

Nella individuazione delle precise coordinate alle quali agganciare tale soluzione di compromesso, assume peculiare rilievo la sentenza delle Sezioni Unite n. 36596 del 2021.

Le Sezioni Unite, nel risolvere la questione delle conseguenze da attribuire alla inosservanza, da parte del giudice, del potere-dovere di concedere alle parti i termini perentori per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica (nonché dell’omologo dovere di attenderne la rituale scadenza, una volta concessi, prima di emettere la decisione), hanno evidenziato che le norme di cui, in tale ipotesi, si realizza la violazione (gli artt. 190, 275, 281 quinquies e 352 c.p.c., ma anche, direi, l’art. 153, comma 1, c.p.c. che vieta l’abbreviazione dei termini perentori), debbono ritenersi espressione dei principi costituzionali del contraddittorio e della difesa giudiziale, i quali devono trovare attuazione in ogni momento del processo e anche nella fase conclusiva.

Pertanto, la deduzione della nullità conseguente a tale violazione non deve essere accompagnata dalla allegazione e dalla prova di alcun altro, ulteriore, pregiudizio, poiché la parte ha già subìto il più grave dei pregiudizi che possono verificarsi nel processo, quello consistente nella lesione del diritto al contraddittorio.

La sentenza, ponendo il diritto al contraddittorio a fondamento del giudizio di nullità, trascende il singolo problema affrontato, gettando le basi per una soluzione sistematica del problema del fondamento delle nullità processuali.

Quando la violazione abbia ad oggetto una noma avente carattere servente rispetto all’esercizio dei diritti e dei poteri processuali, quale semplice modalità fungibile di esercizio di tali diritti, che viene tuttavia concretamente attuato, attraverso l’applicazione di una modalità diversa prevista da un’altra norma, erroneamente applicata in luogo della prima (si pensi all’ipotesi di vocatio in ius realizzata erroneamente mediante la fattispecie a formazione progressiva del ricorso e del decreto giudiziale, anziché mediante quella istantanea dell’atto di citazione), il rilievo della nullità processuale presuppone necessariamente la prova del pregiudizio effettivo al diritto di difesa.

In questa ipotesi trova infatti applicazione il principio, richiamato nella sentenza delle Sezioni Unite in esame, secondo cui la deduzione dei vizi derivanti dalla inosservanza delle norme processuali non mira a tutelare l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma ad eliminare i pregiudizi conseguenti all’esercizio delle facoltà in cui si esprime il diritto di difesa, con la conseguenza che sono inammissibili, per difetto di interesse, le doglianze con le quali si censura la mancata adozione di un rito diverso qualora non sia indicato lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivato da tale mancata adozione, atteso il carattere “servente” dell’esattezza del rito, la quale “non è mai suscettibile di essere considerata come fine a sé stessa, donde può essere invocata solo per riparare a una precisa e apprezzabile lesione che, in conseguenza del rito seguito, si sia determinata (per la parte) “sul piano pratico processuale”” (così Sez. U, n. 36596/2021, Terrusi, Punto VIII della Ragione della decisione) .

Allorché invece la violazione abbia ad oggetto una norma che costituisce diretta espressione del diritto al contraddittorio (sicché, in ragione di essa, tale diritto non può essere pienamente esplicato), il rilievo della nullità non presuppone la deduzione e la prova di pregiudizi ulteriori, essendo necessaria e sufficiente, ai fini di tale declaratoria, l’avvenuta “lesione dei diritti processuali essenziali, come il diritto al contraddittorio e alla difesa giudiziale” (così ancora Sez. U, n. 36596/2021, Terrusi, Punto VIII della Ragione della decisione).

La soluzione prospettata contempera l’esigenza di evitare che la sanzione della nullità scatti al verificarsi di violazioni innocue con la contraria esigenza di tutelare il principio del rispetto delle forme processuali, principio che è elevato a valore costituzionale non meno di quello della ragionevole durata se è vero che il “giusto processo” è quello “regolato dalla legge” (art. 111, comma 1, Cost.).

Ferma, dunque, l’ampia portata del criterio del pregiudizio effettivo quale regola di carattere generale desumibile dai principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, nonché dalla regola dell’interesse ad agire, la parte deve però ritenersi esentata dal gravoso onere della prova della lesione allorché la violazione che essa intende far valere concerna una regola dettata in funzione della tutela del diritto di difesa e del contraddittorio.

In questa ipotesi, peraltro, non può dirsi che la sanzione della nullità scatti indipendentemente dal pregiudizio e del contiguo interesse a dedurlo, con conseguente smarrimento dell’assioma fondamentale del processo civile “pas d’intérêt, pas d’action”.

Deve invece piuttosto ammettersi che il pregiudizio non solo è esistente ma è il più grave possibile nel processo, e che esso, lungi dal dover essere provato, è insito in una violazione atta a minare in radice le regole del giusto processo, incidendo direttamente sugli strumenti previsti dalla legge processuale per l’attuazione del contraddittorio, che costituiscono non solo il contenuto di poteri processuali ma anche manifestazioni (facoltà) del diritto inviolabile di difesa, assicurato dalla Costituzione (art. 24, comma 2, Cost.). “in ogni stato e grado del procedimento”.

SEZIONE II QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE

  • bilancio
  • condominio
  • amministratore

VII)

AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO E CESSAZIONE DALL’INCARICO: TRA OBBLIGO DI RENDICONTO ED APPROPRIAZIONE INDEBITA

(di Gian Andrea Chiesi, Marzia Minutillo Turtur (112) )

Sommario

1 Premessa. - 2 Dal rendiconto ai…rendiconti! - 3 Il rendiconto alla cessazione dell’incarico. - 4 Il delitto di appropriazione indebita: profili generali. - 5 L’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio.

1. Premessa.

Il rapporto che lega l’amministratore al condominio è stato variamente ricostruito. Le tesi che si confrontano sono le seguenti: c’è chi ha ravvisato nel primo un prestatore d’opera intellettuale, chi un lavoratore subordinato o parasubordinato, chi il titolare di ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza e chi, ancora un organo (113). Deve rilevarsi tuttavia che risulta decisamente prevalente in dottrina l’opinione che prefigura “al riguardo l’esistenza di un vero e proprio contratto di mandato - ma è incerto se intercorra con l’intera collettività o con i singoli partecipanti - considerato dai più un “mandato collettivo” (114), che investe ex lege l’amministratore della rappresentanza dei condomini (cfr. gli artt. 1131 c.c. e 65 disp. att. c.c.); tale impostazione trova sponda feconda, peraltro, in giurisprudenza, sia che si tratti di amministratore di nomina assembleare (cfr. tra le altre, Sez. 6-2, n. 01186/2019, Scarpa, Rv. 652163-01; Sez. 6-2, n. 10679/2015, D’Ascola, Rv. 635415-01) sia che si tratti di amministratore giudiziale (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 21966/2017, Guido, Rv. 645431-01; Sez. 2, n. 16698/2014, Migliucci, Rv. 632063-01).

Recentemente, peraltro, la S.C. non ha mancato di impostare la questione in termini affatto diversi (115), facendo propria una tesi a lungo rimasata isolata in dottrina e per cui si verserebbe, al contrario, in presenza “di un contratto non assimilabile al mandato, e quindi di un nuovo tipo di contratto, ma nel contempo di un contratto tipico, in quanto disciplinato dalla legge: il contratto di amministrazione di condominio”.

Sennonché, indipendentemente dalla circostanza che si faccia riferimento agli obblighi “genericamente” gravanti sul mandatario (cfr. l’art. 1713, comma 1 c.c.), ovvero che si focalizzi l’attenzione sulla disciplina speciale dettata in ambito condominiale (cfr. gli artt. 1130, 1130-bis, 1135, n. 3, e 1137, commi 2 e 3, c.c.), appare indiscutibile che che la presentazione del rendiconto all’assemblea rappresenti il principale dovere dell’amministratore, siccome finalizzato a consentire alla prima (che comunque resta, in ambito condominiale, la depositaria in via primaria di tutti i poteri gestori) il controllo sull’operato del secondo.

2. Dal rendiconto ai…rendiconti!

Invero, con l’espressione “rendiconto” si indicano, in ambito condominiale, diverse attività che connotano la prestazione dell’amministratore di condominio.

Questi ha anzitutto l’obbligo di predisporre (secondo le indicazioni contenute all’art. 1130-bis c.c.) e presentare all’assemblea, che è competente alla relativa verifica ed approvazione, mediante l’esercizio dei propri poteri di controllo (cfr. l’art. 1135, comma 1, n. 2, c.c.), il “bilancio” della gestione condominiale annuale; obbligo che diviene attuale alla scadenza di ciascun “anno condominiale” (117) (cfr. gli artt. 1130, n. 1 e 1135 c.c., nonché 66, comma 1, disp. att. c.c.), stante la previsione contenuta all’art. 1130, n. 10, c.c., che impone all’amministratore di convocare l’assemblea per la relativa approvazione entro 180 giorni da tale momento (118).

L’obbligazione di rendiconto dell’amministratore si specifica, tuttavia, anche nel dovere, gravante su costui ex artt. 1375 e 1130-bis, comma 1, ultimo periodo, c.c., di mettere a disposizione dei condomini, nonché dei titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari che ne facciano richiesta (in ogni tempo - dunque, indipendentemente dall’approvazione del “bilancio” consuntivo - e senza che occorra giustificare le ragioni di tale richiesta), i documenti giustificativi di spesa, con facoltà per gli interessati, di estrarne copia a proprie spese (119): una sorta di diritto di accesso, pertanto, che non deve però risolversi in un intralcio all’amministrazione, ponendosi altrimenti in contrasto con il principio della correttezza ex art. 1175 c.c. (120)

Nella fase terminale del rapporto, infine, l’obbligo di rendiconto - che, specifica Sez. 2, n. 19436/2021, Scarpa, Rv. 661697-01, investe anche l’amministratore del condominio che sia stato revocato dall’autorità giudiziaria - si sostanzia nel dovere dell’amministratore di riconsegnare (e non semplicemente mettere a disposizione, sostanziandosi la propria obbligazione in un vero e proprio "facere" (121)) tutta la documentazione pertinente la gestione condominiale in proprio possesso (cfr. l’art. 1129, comma 8, prima parte, c.c.), che lo stesso è tenuto a conservare ex art. 1130, n. 8, c.c., sia che si tratti di documentazione riferibile al rapporto con i condomini sia che inerisca allo stato tecnico-amministrativo dell’edificio e del condominio.

Siffatta commistione tra rendiconto avente ad oggetto la contabilità “in senso stretto” (caratterizzante la prima ipotesi innanzi descritta) e rendiconto concernente, al contrario, la documentazione “condominiale” in possesso dell’amministratore (caratterizzante la seconda evenienza descritta), che trova la propria sintesi naturale all’atto della cessazione dell’incarico, si spiega considerando che l’obbligo in esame può dirsi effettivamente adempiuto quando l’amministratore abbia fornito la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto delle somme incassate e dell’entità e causale degli esborsi, ma anche di tutti gli altri elementi funzionali all’individuazione ed al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se il suo operato si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione (Sez. 6-2, n. 01186/2019, Scarpa, Rv. 652163-01).

3. Il rendiconto alla cessazione dell’incarico.

Concentrando l’attenzione sulla rendicontazione finale cui è tenuto l’amministratore al momento di cessazione dell’incarico, tale attività, oggi espressamente normata dall’art. 1129, comma 8, c.c., era riconosciuta come necessaria e dovuta già anteriormente alla l. n. 220 del 2012, di riforma della materia, in quanto discendente dal dovere di diligenza posto a carico del mandatario, comprensivo anche del dovere di collaborazione con il nuovo amministratore (così espressamente Sez. 2, n. 40134/2021, Giannaccari, Rv. 663392-01), siccome funzionale a consentire a questi di ricostruire la situazione generale del condominio, prendere cognizione della situazione inerente alla gestione precedente ed assolvere ai suoi obblighi, tanto da abilitare il subentrante, in caso di sua inottemperanza da parte dell’amministratore uscente, a chiedere (ed ottenere) nei confronti di quest’ultimo la concessione di un provvedimento di urgenza, onde ottenere la restituzione di somme e documenti di pertinenza del condominio (Sez. 2, n. 11472/1991, Di Ciò, Rv. 474454-01).

È inoltre pacifico che l’accettazione, da parte del nuovo amministratore, della documentazione condominiale consegnatagli dal precedente così come un pagamento parziale, a titolo di acconto di una maggiore somma, non costituiscono prove idonee del debito nei confronti di quest’ultimo da parte dei condomini per l’importo corrispondente al disavanzo tra le rispettive poste contabili, spettando pur sempre all’assemblea di approvare il conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l’opportunità delle spese affrontate d’iniziativa dell’ amministratore; sicché, la sottoscrizione del verbale di consegna della documentazione, apposta dal nuovo amministratore, non integra una ricognizione di debito fatta dal condominio in relazione alle anticipazioni di pagamenti ascritte al precedente amministratore e risultanti dalla situazione di cassa registrata (Sez. 6-2, n. 05062/2020, Scarpa, Rv. 657266-01 e Sez. 6-2, n. 17502/2020, Scarpa, Rv. 658785-01).

Come illustrato, la (ri)consegna va effettuata nelle mani dell’amministratore subentrante, ove l’assemblea abbia provveduto alla sua designazione - spiegando la relativa delibera di nomina efficacia anche nei confronti dei terzi, ai fini della rappresentanza sostanziale del condominio - ovvero al singolo condomino che gliene faccia richiesta, nel caso di mancata nomina del nuovo amministratore, non legittimando siffatta evenienza uno "ius retinendi" rispetto a detta documentazione, né un esonero dal rendiconto, stante la già avvenuta estinzione del mandato collettivo intercorrente tra l’amministratore uscente e ciascuno dei condomini e potendosi presumere che l’istanza di uno di essi interessi egualmente tutti gli altri, in quanto affare agli stessi comune (così Sez. 6-2, n. 18185/2021, Scarpa, Rv. 661728-01).

Come, peraltro, chiarito dalla recente Sez. 2, n. 40134/2021, Giannaccari, Rv. 663392-02 è tuttavia onere del nuovo amministratore - ovvero, per quanto detto supra, del condomino istante - (a) indicare in modo specifico i documenti dei quali chiede la consegna (a partire dai registri indicati dal novellato art. 1130 c.c.) e (b) specificare l’inerenza dei medesimi all’esercizio della gestione del condominio, mentre spetta al precedente amministratore eccepire l’estraneità della documentazione agli adempimenti ed agli obblighi posti a carico dell’amministratore ovvero di provare i fatti impeditivi ed estintivi, tra i quali non rientra la circostanza che la documentazione inerente alla gestione del condominio possa essere acquisita dal nuovo amministratore, facendone richiesta ai condomini o ai terzi che sono entrati in contatto con il condominio, essendo il precedente amministratore tenuto alla consegna della documentazione in suo possesso, in adempimento ad un obbligo di legge ed al dovere di correttezza e diligenza, che si estrinseca in un dovere di leale collaborazione con il nuovo amministratore di condominio.

D’altra parte - come osservato in motivazione da Sez. 6-2, n. 18185/2021, Scarpa, Rv. 661728-01, cit. - la documentazione che l’amministratore detiene e rispetto alla quale sussiste l’obbligo di (ri)consegna al momento della cessazione dell’incarico è, e resta, di esclusiva pertinenza dei condomini: tant’è che, in ipotesi di rifiuto volontario di procedere con l’obbligo restitutorio di cui si è detto, si configura, a carico dell’amministratore uscente, il delitto di appropriazione indebita (Sez. 2, n. 19519/2020, Sgadari, Rv. 279336-01).

4. Il delitto di appropriazione indebita: profili generali.

L’oggetto del delitto di appropriazione indebita deve essere individuato, secondo l’elaborazione maggioritaria, nel diritto di proprietà violato dal possessore della cosa altrui e si sostanzia, dunque, nell’abuso del possessore, che usa della cosa che gli viene affidata come se ne fosse il proprietario, con poteri che non gli spettano e che sono dalla legge attribuiti al solo titolare del bene; l’evoluzione interpretativa ha, poi, esteso l’oggetto della tutela a qualsiasi diritto, reale o personale, sulla cosa, che venga violato da comportamenti contra legem del soggetto al quale, per le più diverse ragioni, viene affidato il bene o ne entra in possesso.

La disciplina in ambito penalistico comprende, in concreto, non solo la violazione del diritto di proprietà, ma anche la violazione di un eventuale rapporto personale o obbligatorio intercorrente tra chi affida la cosa e colui che se ne appropria illegittimamente.

La giurisprudenza ha, in tal senso, ritenuto che il titolare del rapporto non è solo ed esclusivamente il proprietario del bene, ma anche chi, nelle più diverse situazioni, in modo indipendente ed autonomo, realizza la consegna del bene in quanto titolare dell’interesse giuridico ad esso correlato e, conseguentemente, del diritto d’uso predeterminato e specifico, al quale deve conseguire la restituzione della cosa. Si è, così, di recente evidenziato, in modo estremamente significativo sul punto, che integra il delitto di appropriazione indebita e non la fattispecie - ora depenalizzata - di sottrazione di cose comuni, la condotta di colui che faccia propria la cosa mobile di cui sia già possessore, pur se a titolo di compossesso "pro indiviso", non essendo possibile configurare una "sottrazione" da parte di chi si trovi, anche se solo "pro quota", in possesso del bene (Sez. 5, n. 07568/2019, D’Ermo, Rv. 275626-01).

Con specifico riferimento alla consegna di somme di denaro si è in particolare affermato, con principio che ha poi trovato applicazione anche con riferimento all’attività dell’amministratore di condominio, che ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita, qualora oggetto della condotta sia il denaro, è necessario che l’agente violi, attraverso l’utilizzo personale, la specifica destinazione di scopo ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna, non essendo sufficiente il semplice inadempimento all’obbligo di restituire somme in qualunque forma ricevute in prestito o in consegna. (Sez. 2, n. 24857/2017, Forte, Rv. 270092-01, con riferimento ad un contratto di mutuo, nonché Sez. 2, n. 56935/2018, Messina, Rv. 274257-01 con riferimento alla consegna di provvigione al mediatore di una compravendita immobiliare).

Quanto all’atteggiarsi dell’elemento psicologico nel delitto in questione, si è chiarito come l’“animus”, che colora la condotta di appropriazione volta ad esercitare poteri sulla cosa come se fosse propria, si caratterizza esclusivamente con riferimento alla coscienza e volontà della relazione materiale con la cosa e non implica, come nell’ambito del diritto civile, l’intenzione di considerare la cosa come propria. Si è dunque precisato come, in tema di appropriazione indebita, non possano essere applicati i concetti civilistici legati alla tutela del possesso, mentre viene considerato elemento cardine l’autonomia del potere di fatto sulla cosa. Conseguentemente in ambito penale si è considerato limite logico al concetto di possesso la sottrazione materiale del bene o il rifiuto di restituirlo. Rileva, al fine della integrazione del delitto in questione, una detenzione a qualsiasi titolo, che determina una autonoma signoria sul bene, rispetto al quale ci si comporta come se fosse proprio, al fine ovviamente di trarne profitto. Si è inoltre considerato che la mancata restituzione della cosa rappresenta un chiaro indice della volontà di dominio sulla cosa posseduta e che quella che viene definita come appropriazione omissiva debba, comunque, tradursi in una condotta positiva e percepile all’esterno, nel rispetto del principio di materialità (come l’esplicito rifiuto di restituzione o l’occultamento del bene). Il rifiuto di restituzione può anche essere rappresentato dalla distrazione del bene e, dunque, dall’avere dato alla cosa una destinazione del tutto incompatibile con le ragioni del possesso della stessa o del tutto incompatibile con l’uso legittimo e riconosciuto del bene.

La possibile integrazione del delitto di appropriazione indebita con riferimento a somme di denaro ha caratterizzato alcune delle fattispecie concrete che hanno avuto ad oggetto condotte tenute dall’ammistratore di condominio, nell’ambito dei suoi doveri, con particolare riferimento all’obbligo di rendicontazione.

Si è in tal senso specificato che, pur essendo per sua natura fungibile, il denaro può trasferirsi in possesso senza che si abbia una attribuzione di proprietà, così ad esempio in caso di deposito o custodia, o ancora nei casi di consegna del denaro con specifico vincolo di destinazione o d’uso, perché l’attribuzione del possesso non consente il potere di compiere atti di destinazione non autorizzabili o incompatibili con la finalità individuata dalle parti in rapporto tra loro. L’utilizzo in tal senso realizzato, normalmente per una finalità personale, viola necessariamente la specifica destinazione d’uso che caratterizza la concordata consegna di una somma di denaro (Sez. 2, n. 50672/2017, Colaianni, Rv. 271385-01).

In tale complessivo contesto un tema centrale di riflessione è rappresentato dall’identificazione del momento di consumazione del delitto in esame, spesso oggetto di considerazione, richiamando profili che si ricollegano in realtà direttamente all’atteggiarsi dell’elemento psicologico dell’appropriazione indebita (ovvero il fine di profitto, che tuttavia si deve qualificare come un elemento psichico di direzione della volontà).

Al fine di correttamente ritenere il reato consumato occorre, dunque, l’effettiva ricorrenza di comportamenti esteriori, materialmente apprezzabili, che manifestano e concretizzano in modo oggettivo la volontà di dominio sul bene, sulla cosa o sul denaro oggetto di consegna. L’atteggiarsi verso la cosa uti dominus rappresenta il momento rilevante al fine di identificare puntualmente l’atto di disposizione a carattere appropriativo, e, dunque, l’incompatibilità della destinazione con il titolo o con le ragioni giustificative del possesso (integrato, come già detto, anche da un eventuale rifiuto di restituzione o da una distrazione). In tal senso, deve essere considerato un principio consolidato quello secondo il quale il fondamento del reato di cui all’art. 646 c.p. deve essere individuato nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della “res”, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso, anche nel caso in cui si tratti di una somma di danaro. (Sez. 5, n. 46475/2014, Nicoletti, Rv. 260676-01; Sez. 2, n. 12869/2016, Pigato, Rv. 266370-01; Sez. 2, n. 25281/2016, Orrù, Rv. 267013-01).

5. L’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio.

Come accennato in precedenza, il tema dell’appropriazione indebita di somme di denaro ha trovato riscontro in diverse decisioni che hanno analizzato la condotta dell’amministratore del condominio, nella sua relazione con l’assemblea, tenuto conto dei compiti allo stesso spettanti, tra i quali ovviamente quello di rendicontazione della propria gestione ed attività.

La giurisprudenza ha di recente chiarito, in tal senso, che nel caso di appropriazione indebita di somme di denaro relative ad un condomìnio da parte di un amministratore, il reato si consuma all’atto della cessazione della carica, con la conseguenza che la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7, c.p. deve essere valutata con riferimento all’unicità complessiva del danno subito dal condominio, a prescindere dai singoli segmenti di condotta progressivamente posti in essere. (Sez. 2, n. 11323/2021, Bianchini, Rv. 280807-01). Tale decisione, invero, si pone in linea di continuità con l’orientamento che aveva precedentemente precisato che nel caso di appropriazione indebita di somme di denaro relative ad un condomìnio da parte di colui che ne sia stato amministratore il reato si consuma all’atto della cessazione della carica, in quanto è in questo momento che, in mancanza di restituzione degli importi ricevuti nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso. (Sez. 2, n. 19519/2020, Grassi, Rv. 279407-02). Emerge con chiarezza, dunque, come, al fine di ritenere effettivamente realizzata l’interversione del possesso, occorra un richiamo formale alla carica, ai compiti che ne conseguono, alla sua durata e scadenza, e come in concreto l’appropriazione indebita da parte dell’amministratore del condominio si caratterizzi per la sua possibile natura omissiva, consistendo nella mancata restituzione del denaro o, ancora, in una eventuale forma distrattiva, quando non si tratti semplicemente di una mancata restituzione per appropriazione diretta, ma ricorra una diversa destinazione delle somme di denaro, del tutto incompatibile con la finalità per la quale erano state consegnate all’amministratore del condominio.

Configura, dunque, il reato di appropriazione indebita la condotta di chi, violando il vincolo di destinazione, utilizzi il denaro per esigenze diverse da quelle per le quali questo e` stato conferito (Sez. 2, n. 57383/2018, Beretta, Rv. 274889-01; Sez. 2, n. 19519/2020, Grassi, Rv. 279336-01; Sez. 2, n. 12618/2019, dep. 2020, Marcoaldi, Rv 278833-01); tanto che anche la distrazione del denaro ricevuto dai condomini e utilizzato per esigenze di altri immobili amministrati, ammessa dall’imputato, è stata qualificata come appropriazione indebita dai giudici di merito (Sez. 2, n. 50672/2017, Colaianni, Rv 271385-01; Sez. 2, n. 24857/2017, Forte, 270092-01; Sez. 2, n. 12869/2016, Pigato, Rv 266370-01).

La condotta appropriativa si è poi manifestata con riferimento a diverse fattispecie come, ad esempio, già in epoca risalente, nel caso in cui l’amministratore pur avendo ricevuto le relative somme di denaro abbia omesso di versare i contributi previdenziali per il servizio di portierato (Sez. 2, n. 41462/2010, Fabrini, Rv. 248928-01) ovvero ancora, più di recente, nel caso in cui abbia fatto confluire i saldi dei conti attivi dei singoli condomìni su un unico conto di gestione, a prescindere dalla destinazione finale del saldo cumulativo ad esigenze personali dell’amministratore o ad esigenze dei condomìni amministrati, atteso che tale condotta comporta di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro al momento del suo conferimento (Sez. 2, n. 57383/2018, Beretta, Rv. 274889-01); infine è stato ritenuto integrato il delitto di appropriazione indebita nel caso in cui l’amministratore del condominio realizzi il prelievo di somme di denaro depositate sui conti correnti dei singoli condomini dei quali egli abbia piena disponibilità per ragioni professionali, con la coscienza e volontà di farle proprie a pretesa compensazione con un credito preesistente non certo, né liquido, né esigibile (Sez. 2, n. 12618 del 13/12/2019, Marcoaldi, Rv. 278833-01).

Il tema della consumazione del delitto di appropriazione indebita appare particolarmente delicato, anche perché correlato alla considerazione della decorrenza del termine di prescrizione.

In tal senso, occorre considerare che si è affermato, in modo solo apparentemente difforme (tenuto conto dell’esplicazione del principio nel caso concreto) che il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, e cioè nel momento in cui l’agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, atteso che in concreto si è ritenuto consumato il delitto di appropriazione indebita delle somme relative al condominio, introitate a seguito di rendiconti, da parte di colui che ne era stato amministratore, solo ed esclusivamente all’atto della cessazione della carica, momento in cui, in mancanza di restituzione dell’importo delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso (Sez. 2, n. 40870/2017, Narducci, Rv. 271199-01; analogamente Sez. 2, n. 46774/2018, Gottardi, Rv. 274650-01, in caso di mandato a vendere e mancato trasferimento del denaro ricevuto dal compratore).

La condotta dell’amministratore si caratterizza, infatti, per la sua progressione ed unitarietà nell’adempimento del proprio dovere e, dunque, un effettivo atto appropriativo è riscontrabile solo al momento della cessazione della carica, quando, nonostante l’attività di rendicontazione progressivamente realizzata, si manifesta la diversa destinazione della somma di denaro, non restituita dall’amministratore; nel caso concreto, dunque, la Corte, nel considerare i motivi proposti dal ricorrente, ha escluso che potesse trovare accoglimento la doglianza relativa all’asserita prescrizione del reato ascritto all’imputato.

In tal senso si è, infatti, chiarito (sia pure con riferimento alla disciplina vigente anteriormente alla novella “ex lege” n. 220 del 2012) che “sulla base di norme espressamente dichiarate inderogabili dall’ art. 1138 cod. civ., comma quarto, l’amministratore del condominio dura in carica un anno e sottopone all’assemblea il preventivo e il consuntivo delle spese afferenti all’anno, ragion per cui la gestione viene rapportata alla competenza (annuale). L’amministratore ha poi la detenzione "nomine alieno" delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera effettuando prelievi e pagamenti vari in favore del condominio medesimo; secondo la giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte, l’amministratore del condominio configura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza, con la conseguente applicabilita`, nei rapporti tra l’amministratore e ciascuno dei condomini delle disposizioni sul mandato (Sez. 2, del 12/02/1997, n.1286; Sez. 2, del 14/12/1993 n.12304). E’ considerato che, ai sensi dell’art. 1713 cod. civ., il mandatario deve rendere al mandante il conto e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato, l’obbligo di restituzione sorge a seguito della conclusione dell’attività gestoria, salvo che l’estinzione avvenga prima di tale conclusione, e deve essere adempiuta non appena tale attività si è realizzata. Di norma, la restituzione avviene in seguito al rendiconto annuale ma, ove ciò non avvenga (anche per meri errori contabili o perché devono essere ancora recuperate somme dovute da condomini morosi o per altre cause), una volta che la gestione si conclude, e in difetto di contrarie disposizioni pattizie, l’amministratore del condominio è comunque tenuto alla restituzione, in riferimento a tutto quanto ha ricevuto nell’esercizio del mandato per conto del condominio, vale a dire tutto ciò che ha in cassa, e ciò indipendentemente dalla gestione alla quale le somme si riferiscono. Che alla scadenza (o alla revoca del mandato) l’amministratore sia tenuto a restituire tutto ciò che ha in cassa si argomenta agevolmente dalla considerazione che egli potrebbe avere avuto anche l’incarico di recuperare somme dovute da condomini morosi e riguardanti anche la precedente gestione; sarebbe privo di senso ritenere che l’amministratore al momento della fine della gestione - sia che essa avvenga per la scadenza del termine, sia che avvenga prematuramente per effetto della revoca - debba restituire soltanto quanto afferisce la gestione dell’anno e non, invece, tutto quanto ha percepito per conto del condominio, comprese le somme riguardanti le precedenti gestioni (Sez. 2, n.10815/2000, Rv. 539589)” (così, in motivazione, Sez. 2, n. 40870/2017, Cervadoro, Rv. 271199-01)

La rilevanza della decisione che precede emerge, evidentemente, solo dalla lettura e considerazione effettiva del caso concreto oggetto di valutazione. In tal senso si è, infatti, evidenziato che, quanto a condotte analoghe a quelle per cui “è processo […] la mancata restituzione delle somme introitate di volta in volta in seguito ai vari rendiconti annuali non è dato certo di interversione del possesso da parte dell’amministratore di condominio, nè è fatto di per sé incompatibile con la conservazione del danaro, del quale non si è potuto comunque accertare la dispersione fino alla consegna della cassa (cfr. Cass. Sez. II, Sent. n. 18864/2012, Siviero). Il momento consumativo dell’appropriazione indebita, si può individuare in questi casi all’atto della cessazione della carica, in quanto solo allora si verifica con certezza l’interversione nel possesso”.

Il momento centrale della riflessione della Corte deve, quindi, essere evidenziato nella particolare rilevanza attribuita alla cessazione dalla carica, atteso che per la complessità e progressività dei compiti svolti, è solo quello il momento al quale riferire una rilevante evidenza della interversione del possesso e, conseguentemente, il termine inziale di decorrenza a fini di prescrizione del delitto di appropriazione indebita.

La necessaria considerazione della condotta dell’amministratore del condominio chiarisce come in concreto, rispetto a tale ampia motivazione, nessun contrasto ricorra rispetto a decisioni precedenti, dove è - si ribadisce - il caso concreto nel suo atteggiarsi a determinare la corretta individuazione del momento consumativo del reato; così, ad esempio, nella risalente Sez. 2, n. 29451/2013, Maxia, Rv. 257232-01, che ha individuato nel caso di specie la condotta appropriativa al momento della mancata restituzione di documentazione relativa al condominio da parte di colui che ne era stato amministratore, che era stata allo stesso esplicitamente richiesta, e rispetto alla quale aveva mostrato di comportarsi uti dominus.

In linea di continuità si pongono, infine, anche orientamenti più recenti che hanno chiarito che il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l›agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, precisando che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Sez. 2, n. 15735/2020, Francini, Rv. 279225-01; Sez. 5, n. 01670/2014, Ronconi, Rv. 261731-01).

  • libertà di religione
  • pluralismo culturale
  • Stato laico
  • laicità
  • simbolo religioso

VIII)

PRINCIPIO DI LAICITÀ E PLURALISMO RELIGIOSO: LA SOLUZIONE MITE DEGLI ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Laicità e pluralismo religioso. - 2 L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche: la questione all’esame delle Sezioni Unite. - 3 I precedenti giurisprudenziali di riferimento. - 4 La decisione delle Sezioni Unite. - 5 Esposizione del crocifisso e laicità dello Stato. - 6 La garanzia del pluralismo religioso nell’ambiente scolastico. - 7 Il metodo del ragionevole accomodamento. - 8 L’esclusione della discriminazione per motivi di religione. - 9 Osservazioni conclusive.

1. Laicità e pluralismo religioso.

Il fenomeno religioso ha sempre avuto una forte influenza nella società, esprimendosi attraverso la costituzione di organizzazioni confessionali che aggregano e nello stesso tempo separano comunità; il principio di laicità lambisce e si interseca con altre libertà, principi e diritti fondamentali, ormai riconosciuti in tutte le moderne democrazie, come la libertà di religione, la libertà di manifestazione del pensiero, il principio di uguaglianza e di dignità, il principio di solidarietà.

Costituisce pensiero condiviso che uno Stato democratico, per definirsi tale, debba riservare a tutti gli individui lo stesso trattamento, non solo in merito alla fede professata, ma anche in relazione ad ogni altra esplicazione della sua personalità; rilevante poi il nesso tra la laicità e l’identità, intesa nel senso di radici comuni, di un popolo che si fa Nazione.

Laicità e democrazia hanno una connessione stretta, in quanto senza la laicità la democrazia è destinata a svuotarsi; la libertà democratica è quella che presuppone una eguale libertà delle persone, la “compossibilità di identità multiple e divergenti”; la democrazia si fonda sulla persistenza del pluralismo e quindi sulla “persistenza del disaccordo”. [VEGA, MicroMega, 2008].

Tanto è particolarmente evidente nella materia religiosa, ove la convivenza democratica nella diversità è possibile solo grazie a scelte politiche equilibrate che non vengano imposte a chiunque, perché le scelte che vincolano tutti inevitabilmente vanno a violare la libertà di qualcuno che in quella scelta non si identifica; la scelta equa dovrebbe essere quella che, a determinate condizioni, non obbliga ma permette in quanto “Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme” . [cit. Michel de l’Hopital, 1560].

Le modalità di coesistenza della libertà di religione con i principi di uno Stato laico e democratico condizionano la soluzione di innumerevoli questioni della vita individuale e sociale di ciascuno.

2. L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche: la questione all’esame delle Sezioni Unite.

Anche l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche - su cui si sono registrate negli anni posizioni diverse della giurisprudenza di legittimità, della giurisprudenza amministrativa, del Giudice delle leggi, delle Corti europee - rientra tra queste, quale esemplificazione simbolica della difficoltà di rendere la libertà di religione un riflesso positivo del principio di laicità dello Stato e non la sua negazione.

Il tema è tornato di grande attualità da quando con ordinanza interlocutoria n. 19618 del 29 gennaio 2020, la Sezione lavoro della Suprema Corte ha trasmesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, il ricorso avente ad oggetto l’impugnazione di una sanzione disciplinare, inflitta ad un docente per aver rimosso il crocefisso dall’aula prima dell’inizio delle ore di lezione, in contrasto con la deliberazione dell’assemblea degli studenti e la disposizione del Dirigente scolastico.

La Sezione remittente ha evidenziato che la natura dei diritti in gioco sollecitava la soluzione di questioni di “massima e particolare importanza”, in quanto, venendo prospettata dal ricorrente la lesione della sua libertà di coscienza e di religione, nonché la configurabilità di una discriminazione indiretta sul luogo di lavoro fondata sul credo religioso, era richiesta una pronuncia sul bilanciamento, e sui modi di risoluzione di un eventuale conflitto in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati dagli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 297 del 1994 che, rispettivamente, garantiscono la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1), ed il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni ( art. 2), venendo, altresì, in rilievo temi più generali “in relazione al significato del simbolo, al principio di laicità dello Stato, alla tutela della libertà religiosa, al carattere discriminatorio di atti o comportamenti del datore di lavoro che, in ragione del credo, pongano un lavoratore in posizione di svantaggio rispetto agli altri”.

La Corte di appello di Perugia, con sentenza n. 165 del 19 dicembre 2014, aveva confermato la sentenza del Tribunale di Terni n. 122 del 29 marzo 2013 di rigetto del ricorso proposto dal docente di lettere, in assegnazione provvisoria presso un Istituto professionale di Terni, avverso la sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, inflittagli dall’Ufficio Scolastico Provinciale.

La decisione di merito aveva escluso sia che l’esposizione del crocifisso fosse lesiva di diritti inviolabili della persona, o fonte di discriminazione tra individui di fede cristiana e soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose, sia che la condotta tenuta dal dirigente scolastico potesse essere qualificata come discriminatoria, perché l’ordine di servizio era stato indirizzato all’intero corpo docente, senza alcuna disparità di trattamento.

L’ordinanza di rimessione, premesso che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è imposta da disposizioni di legge ma solo da risalenti regolamenti (per le scuole medie inferiori l’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924; per le scuole elementari l’art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928 che rimanda alla allegata tabella C), richiamati da più recenti atti amministrativi (direttiva MIUR n. 2667 del 3-10-2002), segnala che quanto al valore del simbolo si registravano posizioni diverse espresse dalla giurisprudenza di legittimità, dalla giurisprudenza amministrativa, dal Giudice delle leggi, dalle Corti europee, in quanto:

- il Consiglio di Stato, dapprima in sede consultiva e poi in sede giurisdizionale (C.d.S. II parere n. 63/1988; C.d.S. VI n. 556/2006), ha escluso che l’esposizione del crocifisso possa assumere un significato discriminatorio sotto il profilo religioso e che la decisione delle autorità scolastiche di tenere esposto il simbolo si ponga in contrasto con il principio della laicità dello Stato, sul presupposto che, potendo assumere significati diversi a seconda del luogo nel quale è esposto, lo stesso svolga in ambito scolastico una funzione simbolica educativa nei confronti degli alunni, credenti e non credenti, perché richiama valori laici, quantunque di origine religiosa, quali la tolleranza, il rispetto reciproco, la valorizzazione della persona;

- diversamente, la Corte di legittimità, in merito all’utilizzo dell’aula scolastica per lo svolgimento delle operazioni elettorali, evidenziata la natura esclusivamente religiosa del simbolo, ha ritenuto impossibile giustificare, attraverso il richiamo alla coscienza sociale, una scelta che si pone in contrasto con l’art. 3 Cost, in quanto, disponendo l’esposizione del solo crocifisso, viola il divieto di “discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione ( Cass. Pen. IV n. 4273/2000 che richiama Corte cost. n. 329/1997);

- le Sezioni Unite non hanno dubitato del valore escatologico e di simbolo fondamentale della religione cristiana del crocifisso, sia allorché si sono pronunciate in sede di regolamento di giurisdizione (Cass. S.U. n. 15614 del 2006), sia quando, nell’affrontare la diversa questione dell’esposizione del simbolo nelle aule giudiziarie, hanno escluso che fosse stata lesa la libertà religiosa del magistrato, incolpato di avere illegittimamente rifiutato di esercitare la giurisdizione, non perché in assoluto non si potesse ravvisare nell’ostensione una lesione di diritti soggettivi inviolabili ed una violazione del principio di laicità dello Stato, ma perché in quella fattispecie veniva contestato un rifiuto opposto nonostante fosse stata messa a disposizione del magistrato un’aula priva del simbolo (Cass. S.U. n. 5924 del 2011);

- la Corte EDU, nella sentenza della Grande Camera del 18.3.2011, Lautsi ed altri c/o Italia, pur dando atto del valore religioso del simbolo, ha escluso che fosse configurabile una violazione dell’art. 9 della Convenzione ritenendo che dalla sola esposizione di un “simbolo essenzialmente passivo” non derivasse la violazione del principio di neutralità dello Stato, e che all’ostensione non potesse essere riconosciuta un’influenza sull’educazione degli allievi, paragonabile a quella di un discorso didattico o della partecipazione ad attività religiose, allorquando lo Stato non assuma alcun comportamento intollerante nei confronti di alunni che aderiscano ad altri credi religiosi.

Nell’ordinanza interlocutoria si evidenzia altresì che:

- a differenza della fattispecie disciplinare esaminata dalle Sezioni Unite, il docente non aveva rifiutato la prestazione bensì, ritenendo di esercitare un legittimo potere di autotutela, fondato sulla lesione del suo diritto di libertà religiosa, aveva momentaneamente rimosso il simbolo dall’aula nella quale era chiamato a svolgere la sua attività di insegnamento;

- a differenza della fattispecie sottoposta al vaglio della Corte EDU, il valore del simbolo non veniva in rilievo in relazione all’utente del servizio, bensì al soggetto chiamato a svolgere la funzione educativa.

Sulla base di tali premesse, la Sezione lavoro ha sottoposto al sindacato delle Sezioni Unite una serie di questioni che, avendo come denominatore comune il principio di laicità, si sviluppano in via subordinata e condizionata, si intersecano le une con le altre in un articolato percorso di richiami e rimandi, coinvolgendo direttamente ed indirettamente principi, libertà e diritti di rilievo costituzionale.

In primis, viene posto il tema della libertà di coscienza in materia religiosa, la cui disamina è condizionata dalla maggiore o minore ampiezza che si ritenga di attribuire all’ambito di operatività del principio di laicità dello Stato ed alla tutela della libertà religiosa.

In relazione alle peculiarità del caso concreto viene in rilievo la problematica dell’ostensione del crocefisso nelle aule scolastiche e del significato da attribuire a tale simbolo religioso; tale aspetto specifico si interseca con le tematiche più generali perché, qualora si accedesse alla tesi del valore simbolico di matrice religiosa, non meramente passivo, occorrerebbe verificare il possibile contrasto della sua esposizione nella scuola pubblica con il principio della laicità dello Stato e con la libertà di religione e di coscienza di un soggetto che ivi svolge una funzione educativa pubblica.

All’eventualità che si attribuisca al crocefisso il valore di simbolo religioso cattolico è subordinata la disamina della possibilità di configurare nella sua ostensione nelle aule scolastiche una forma di discriminazione indiretta sul luogo di lavoro per il docente non credente, o che aderisca ad un credo religioso diverso da quello cattolico o a nessun credo.

La possibilità che l’esposizione del simbolo integri una ipotesi di discriminazione indiretta impone quindi di verificare che non sussista una finalità legittima che giustifichi comunque la limitazione della libertà di religione e di coscienza dell’insegnante - finalità che potrebbe identificarsi nella volontà espressa dall’assemblea di classe -, ed un’indagine circa la necessità del mezzo, cioè l’esposizione del simbolo, rispetto alla finalità, che, se esclusa, potrebbe rendere legittimo l’esercizio del potere di autotutela mediante la rimozione temporanea del crocifisso attuata dal docente durante le sue ore di lezione.

3. I precedenti giurisprudenziali di riferimento.

La rimessione alle Sezioni Unite, come evidenziato dall’ordinanza interlocutoria, costituisce solo l’ultimo tassello in un articolato quadro di pronunce nazionali e sovranazionali.

La Corte costituzionale, aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale proposta in riferimento alla normativa che dispone l’obbligatorietà dell’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, in ragione della sua natura regolamentare, implicitamente escludendo che la previsione avesse un fondamento legislativo.

La S.C. si era occupata per la prima volta del tema in ambito penale: la sentenza, esaltata da buona parte della dottrina quale prima applicazione giurisprudenziale dei principi affermati dalla Corte cost. a partire dalla sentenza n. 203 del 1989, richiama il principio di laicità dello Stato, connettendolo al regime di pluralismo confessionale e culturale ed inserendolo nel contesto sociale che vede la coesistenza “di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà” ed esclude di poter leggere nel crocefisso “il valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva” - come al contrario aveva affermato il Consiglio di Stato nel parere n. 63 del 1988 - a favore di una concezione della laicità volta a neutralizzare il fattore religioso e a confinarlo fuori dall’ordinamento.

A questa decisione si ispira la prima decisione di merito assunta all’onore delle cronache in cui il giudice, a seguito di un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., dispose la rimozione, in via cautelare, del simbolo dalle pareti delle aule della scuola materna ed elementare di Ofena.

La controversia viene definita innanzi alla giurisdizione ordinaria con una dichiarazione di difetto di giurisdizione; per le S.U. la contestazione della legittimità dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, avvenuta, pur in mancanza di una previsione di legge impositiva dell’obbligo, sulla base di provvedimenti dell’autorità scolastica conseguenti a scelte dell’Amministrazione, contenute in regolamenti e circolari ministeriali, riguardanti le modalità di erogazione del pubblico servizio, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, venendo in discussione provvedimenti dell’autorità scolastica che, attuativi di disposizioni di carattere generale adottate nell’esercizio del potere amministrativo, sono riconducibili alla pubblica amministrazione-autorità.

È ambientato nelle aule giudiziarie, e non in quelle scolastiche, il caso in cui sempre le Sezioni Unite, chiamate a pronunziarsi in relazione ad una sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, hanno confermato la legittimità della rimozione dal servizio irrogata ad un magistrato che si era rifiutato di tenere udienza in un’aula che esponeva il crocifisso.

Rigettato il ricorso, sul presupposto che, comunicato al magistrato il permesso di esercitare le funzioni giurisdizionali in un’aula priva di simboli religiosi, in assenza della lesione di un diritto proprio, lo stesso non potesse addurre a giustificazione del rifiuto la circostanza che nelle altre aule del Paese vi fossero crocifissi, la Corte, premesso che nel nostro ordinamento costituzionale la laicità dello Stato costituisce un principio supremo, osserva che “sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso. Tale scelta legislativa, però, presuppone che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra l’esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico con l’analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell’ateo e del non credente, nonché il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra pluralità di identità religiose tra loro incompatibili”.

In sede amministrativa particolare rilievo ha assunto il caso della scuola media di Abano Terme ; questa storia processuale ha trovato la parola fine solo innanzi alla Corte EDU ove, a seguito dell’insuccesso dei rimedi esperiti nell’ambito dell’ordinamento interno, la signora Lautsi decide di rivolgersi lamentando la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 allegato alla Convenzione, nella parte in cui sancisce il diritto di ciascun genitore a garantire ai figli un’istruzione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche, nonché dell’art. 9 CEDU, che tutela la libertà di pensiero e di religione.

In prima istanza la Seconda Sezione della Corte europea si è pronunciata a favore della ricorrente, ritenendo all’unanimità che l’ostensione del crocifisso (e di altri simboli ad esso equiparabili) presupponesse una violazione del diritto dei genitori ad educare i propri figli secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche in riferimento alla libertà religiosa di quest’ultimi, costituendo la scuola un luogo pubblico specifico, frequentato da persone di giovane età, prive di quella “critical capacity” necessaria per valutare le scelte preferenziali dello Stato in materia religiosa.

Secondo i giudici europei il crocifisso reca con sé una pluralità di significati, ma tra i tanti “la signification religieuse est prédominante”, e la sua carica religiosa nel contesto di un luogo deputato all’istruzione pubblica lo rende un “segno esteriore forte”, sicché la sua presenza obbligatoria non può passare inosservata, avendo un evidente impatto nello sviluppo degli alunni, specie per quelli di altre religioni o per coloro che non ne professano alcuna, tenendo anche in debito conto l’età di questi ultimi.

La Grande Chambre ha invece ribaltato tale decisione, ed ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche; contrariamente alla Seconda Sezione, secondo cui costituiva un “potente simbolo esteriore”, per la Grande Chambre il crocifisso è un “simbolo religioso essenzialmente passivo” incapace di costituire “une forme d’endoctrinement” e di rappresentare offesa alla libertà negativa di religione degli alunni e della loro madre, così come garantita dalla Convenzione ed interpretata dalla Corte.

In tale decisione si demoliscono i tre capisaldi della prima decisione:

1) la vulnerabilità degli studenti rispetto all’esposizione di simboli religiosi nelle aule scolastiche, ritenendo che non vi fossero prove che l’esposizione di un simbolo religioso sulle pareti dell’aula potesse influire sugli studenti e, quindi, sulle loro convinzioni in una fase ancora di formazione;

2) la rilevanza della percezione soggettiva della ricorrente quanto alla violazione dei diritti suoi e dei suoi figli in materia di libertà religiosa, che non si ritiene sufficiente a integrare una violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 alla CEDU;

3) la qualificazione del crocifisso come “simbolo esteriore potente”, degradato a simbolo essenzialmente passivo, dal quale non può discendere una influenza sugli allievi paragonabile a quella esercitata da un discorso didattico o dalla partecipazione ad attività religiosa.

L’inversione di tendenza della sentenza della Grande Camera rispetto a quella della Seconda Sezione è fondata principalmente sulla diversa interpretazione del “margine di apprezzamento” riconosciuto alle autorità nazionali; premesso che in assenza di una normativa europea condivisa in merito alla presenza dei simboli religiosi nelle aule delle scuole pubbliche gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento, viene messo in evidenza che in Italia: 1) la presenza del crocifisso nelle aule non è associato all’obbligatorietà dell’insegnamento religioso; 2) le autorità non sono intolleranti nei confronti degli alunni che credono in altre religioni o non hanno alcuna convinzione religiosa; 3) non è mai stato incoraggiato nelle scuole lo sviluppo di pratiche di insegnamento con una tendenza al proselitismo.

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite non hanno deluso le aspettative di quanti attendevano una pronuncia che prendesse posizione in modo chiaro sul tema della laicità e del pluralismo religioso; la sentenza n. 24414 del 9 settembre 2021, esemplare per l’equilibrio con cui difende la laicità dello Stato e, contemporaneamente, sottolinea l’importanza della mediazione e della tolleranza in materia religiosa, offre una lettura esaltante e moderna della nostra Costituzione, poeticamente descritta come “… la punteggiatura che unisce il piano della memoria con quello del futuro, l’identità personale e sociale con il pluralismo culturale, le istituzioni e le regole della democrazia con l’orizzontalità della solidarietà….”.

Reazioni contrastanti ha invece suscitato la parte motivazionale in cui il Supremo Collegio ha escluso che l’ordine di servizio, che imponeva l’esposizione del crocifisso, costituisse un atto di discriminazione nell’ambiente di lavoro per motivi di religione ai danni del docente non credente; entusiasmo per alcuni, sino a darne un risalto esclusivo ai danni della valutazione di illegittimità che ha comunque attinto la stessa disposizione, soluzione compromissoria da parte di altri, che vi hanno letto un prudente ridimensionamento dell’effetto dirompente che, prevedibilmente, avrebbe avuto la negazione dell’obbligo di ostensione del simbolo.

Da Sez. U, n. 24414/2021, Giusti, Rv. 662230-01; Rv. 662230-02; Rv. 662230-03, si è affermato che:

nelle aule delle scuole pubbliche, in base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso;

-in conformità alla Costituzione e alla legislazione che ne costituisce svolgimento e attuazione, l’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve essere interpretato nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporlo in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un "ragionevole accomodamento" tra eventuali posizioni difformi; ne consegue l’illegittimità della circolare del dirigente scolastico che, nel richiamare tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, espressa a maggioranza in assemblea, di esporre il crocifisso nella loro aula, non ricerchi un ragionevole accomodamento con la posizione manifestata dal docente dissenziente, nonché l’invalidità della sanzione disciplinare inflitta al docente stesso che, contravvenendo all’ordine di servizio contenuto nella circolare, abbia rimosso il crocifisso dalla parete dell’aula all’inizio delle sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto alla fine delle medesime;

-la circolare del dirigente scolastico che, recependo la volontà degli studenti in ordine alla presenza del crocifisso, non ricerchi un ragionevole accomodamento con il docente dissenziente, pur illegittima, non integra una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente, e non determina, pertanto, le conseguenze di natura risarcitoria previste dalla legislazione antidiscriminatoria, perché con essa il dirigente scolastico non connota in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento, né condiziona la libertà di espressione culturale del docente dissenziente.

La soluzione offerta dal Supremo Collegio si fonda su una complessa ed articolata motivazione, riassunta in cinque principi di diritto.

In premessa la Corte, a conferma della centralità per un ordinamento democratico dei temi della laicità e della non discriminazione che si accinge ad affrontare, temi che “non solo rimandano alla necessaria equidistanza tra le istituzioni e le religioni nell’orizzonte multiculturale della nostra società, ma anche interrogano al fondo le stesse radici e ragioni dello stare insieme tra individui liberi e uguali in quello spazio pubblico di convivenza, la scuola, che è sede primaria di formazione del cittadino”, introduce l’esame delle questioni con una insolita, ma rassicurante, testimonianza per chi è chiamato ad esercitare il “mestiere del giudice”.

“E tuttavia, le Sezioni Unite non sono sole”; la guida dei principi costituzionali, il sostegno dell’elaborazione dottrinale e dell’approfondimento giurisprudenziale, la partecipazione di tutte le parti del processo, le consentono di svolgere il suo ruolo con prudenza “mite”.

L’affermazione appare da un lato un’anticipazione del successivo approccio conciliante e dialogante che ispirerà la decisione, dall’altro un appello corale e preventivo che mira a vincere quel dramma della solitudine che Calamandrei indicava come una connotazione quasi necessaria e connaturata alla funzione del giudice; autonomia ed indipendenza si, isolamento culturale e conformismo servile no.

5. Esposizione del crocifisso e laicità dello Stato.

Nel primo e fondamentale passaggio motivazionale, le S.U. affermano che nelle aule delle scuole pubbliche, in base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita l’affissione obbligatoria ed autoritativa del simbolo religioso del crocifisso.

L’esposizione non è prevista dalla legge, ma da un quadro normativo fragile rappresentato da regolamenti ancora vigenti, di cui si impone una interpretazione costituzionalmente orientata in quanto adottati in un ordinamento fascista e confessionale ormai rovesciato; l’art.118 del r.d. n. 965 del 1924 che ne prevede la presenza tra gli arredi scolastici, ed il cui ambito applicativo si riferisce anche alle scuole superiori, pur formalmente in vigore, va interpretato in senso conforme alla Costituzione e riportato in un contesto sociale e culturale profondamente mutato, in cui “l’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo della laicità dello Stato”

Nella attuale democrazia costituzionale non è più consentita l’identificazione dello Stato con una religione ed un eventuale obbligo di esporre il crocifisso di Stato nelle scuole pubbliche entrerebbe in conflitto con il pluralismo religioso; lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa, ancorché maggioritaria, perché l’imparzialità e l’equidistanza devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni, indipendentemente da valutazioni di carattere numerico.

Affermazioni decise, una posizione espressa con una forza ed una fermezza che si potenziano al confronto con la “mitezza” che caratterizza le pagine successive, a voler ricordare che la laicità è “uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica” dotato di “una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale” ; è un valore assoluto che investe le fondamenta dello Stato democratico, di cui definisce la struttura essenziale in relazione ai temi dell’eguaglianza, della libertà, del pluralismo e della tutela delle minoranze, condizionando dall’interno il sistema delle fonti del diritto.

Su questo tema, senza nessuno spazio a compromessi o tentennamenti, il Giudice di legittimità, nel suo più alto consesso, ribadisce, in una ideale linea di continuità con il Giudice delle leggi, che lo Stato laico è uno dei profili imprescindibili della forma dello Stato democratico-costituzionale ed il contenuto e la funzione del principio supremo di laicità hanno un inscindibile legame con l’eguaglianza e le libertà.

È dunque la Costituzione, in primis, che annovera tra i suoi principi fondamentali il principio di laicità, ad escludere che il crocifisso possa essere un simbolo identificativo che unisce il popolo italiano; per la Costituzione l’unico simbolo della Repubblica è la bandiera (art. 12 Cost.), l’unico simbolo dell’unità nazionale è il Presidente della Repubblica (art. 87 Cost.).

La tensione laicità e religione è stata affrontata nel tempo con soluzioni molto diverse, che spaziano dal modello del mondo antico, che si realizzava con la identificazione fra potere religioso e potere civile, a quello dello Stato moderno, fondato sul principio della distinzione fra sfera religiosa e sfera civile, dotate ciascuna di una propria autonomia e di un proprio intrinseco valore.

La separazione tra le organizzazioni confessionali e le istituzioni civili costituisce nel nostro ordinamento l’essenza del principio di laicità dello Stato, che attribuisce a quest’ultimo il compito di governare gli individui, senza alcun vincolo che possa derivare da un ideale religioso.

A tale limitazione negativa si aggiunge una declinazione positiva del principio, secondo cui lo Stato, che è libero da coinvolgimenti di tipo confessionale o religioso, e quindi laico, accorda uguale libertà davanti alla legge a tutte le confessioni religiose che restano in una posizione di equidistanza rispetto ad esso; lo Stato riconosce tutti i consociati come uguali, indipendentemente dal loro identificarsi o meno in una religione, fede o confessione, tutelando anche il diritto di non avere una fede, al pari di quello di sceglierne una liberamente.

Posto che l’esposizione del crocifisso non è più un atto dovuto, non essendo costituzionalmente consentito imporne la presenza, in base ad una lettura conforme a Costituzione dei regolamenti che la prevedono, tale obbligo - prosegue la Corte - non si traduce in un divieto, ma va inteso come facoltà da esercitarsi sulla base di “scelte da effettuare caso per caso, alla luce delle concrete esigenze, nei singoli istituti scolastici, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso”.

La lettura in termini di facoltà costituisce una “soluzione mite” verso cui cospira il principio della “laicità positiva”, attiva/propositiva e non distaccata/indifferente rispetto al fenomeno religioso, forgiato dalla Corte costituzionale: la laicità italiana, a differenza di quella francese “neutralizzante”, non implica indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione declinata al plurale.

La forte correlazione della laicità con il principio democratico deve coniugarsi con la funzione di salvaguardia del pluralismo confessionale e culturale; la finalità promozionale della laicità richiede un impegno positivo e di attenzione dei pubblici poteri nei confronti delle istanze religiose, nella misura in cui risultano espressione di reali esigenze e necessità avvertite dai cittadini.

Il principio della laicità italiana ha un doppio profilo:

1) quello garantista, che impone la protezione da parte dell’ordinamento della coscienza individuale, della libertà di autodeterminarsi (nello specifico rispetto alla sfera religiosa ed in generale rispetto ai modelli culturali o ai comportamenti concreti che risultino incompatibili con i convincimenti personali), e comporta un divieto di imporre ai cittadini determinati comportamenti, che incidano sulla sfera religiosa o confessionale ovvero di recepire norme ed istituti che possano condizionare la libertà di coscienza dei singoli (da cui l’illegittimità costituzionale dell’obbligo di esposizione del crocifisso);

2) quello promozionale, che si esprime nella disponibilità dell’ordinamento ad accogliere e promuovere gli orientamenti e le istanze dei cittadini in materia religiosa, con un atteggiamento che non è di astensione e di non interferenza, ma teso a favorire interventi che rendano effettivo e accessibile, a tutti, l’esercizio della libertà religiosa (da cui la legittimità costituzionale della facoltà di esposizione del crocifisso).

6. La garanzia del pluralismo religioso nell’ambiente scolastico.

Luogo ideale per la promozione del pluralismo religioso è il contesto scolastico: quasi a voler rispondere ad un diffuso bisogno sociale di valorizzazione della scuola pubblica italiana, sia come comunità che come istituzione, la Corte ne esalta le caratteristiche di “luogo aperto che favorisce l’inclusione e promuove l’incontro di diverse religioni e convinzioni filosofiche, e dove gli studenti possono acquisire conoscenze sui loro pensieri e sulle loro rispettive tradizioni.”

Sul sentiero tracciato dalla Corte costituzionale in merito alla delicata questione dell’insegnamento della religione cattolica e della libertà di coscienza, le Sezioni Unite valorizzano l’attitudine laica dello Stato-comunità, che non risponde a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma accoglie e garantisce l’autodeterminazione dei cittadini, mediante il riconoscimento di un diritto soggettivo di scelta.

La scuola pubblica diventa: luogo istituzionale inclusivo e disponibile ad accogliere la presenza di altri simboli; luogo di dialogo interreligioso e interculturale, anziché di divisione e di conflittualità; luogo di confronto, di comprensione reciproca e di arricchimento al contatto con identità "altre"; luogo di democrazia pluralista, ove le identità e le istanze religiose hanno diritto di esprimersi, anche simbolicamente, come proposte culturali, e non come dogmi, come opportunità di arricchimento spirituale, e non come imposizione di divieti integralisti.

E qui giunge una coraggiosa affermazione: anche il simbolo del cristianesimo, espressione delle radici culturali della nostra società, non è solo, ma concorre a connotare lo spazio pubblico condiviso unitamente ai simboli di altre religioni o di altre culture presenti nella comunità scolastica.

“Anche altri simboli, nati come religiosi ed esterni alla identità tradizionale del Paese, sono suscettibili di diventare, nella scuola pubblica aperta a tutti, simboli culturali di integrazione.”; come a dire nessun obbligo e nessun monopolio, ma libertà di scelta ed apertura, tolleranza e non divieti, inclusione ed apertura al “diverso da noi” maggioranza cristiana, e quindi all’islam, al buddismo, all’ebraismo, all’induismo, all’ateismo, all’agnosticismo, ecc..

L’immagine del “muro barocco”, pieno di tutti i simboli, inclusivo e rassicurante, può essere tuttavia appagante solo se condiviso; ed anche riconoscere la possibilità di esporre i simboli evocativi di tutte le religioni potrebbe risultare una soluzione inadeguata, non potendosi negare pari tutela alla posizione del non credente, che non solo non dispone per definizione di un simbolo religioso, ma potrebbe esercitare la propria libertà negativa, nel senso di volersi sottrarre a tutti i simboli altrui.

7. Il metodo del ragionevole accomodamento.

Si giunge così al conflitto di più difficile soluzione, quello tra libertà religiosa positiva e libertà religiosa negativa, a cui le Sezioni Unite offrono una soluzione ancora una volta utilizzando il faro della Corte costituzionale, chiamata costantemente ad operare il ragionevole bilanciamento dei valori in gioco, che se ispirato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza è l’unico in grado di evitare che si abbia la prevalenza assoluta di uno dei diritti coinvolti e il sacrificio totale dell’altro.

La strada già tracciata è quella dell’accomodamento ragionevole, inteso come ricerca di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni nella misura concretamente possibile, come luogo del confronto dove non c’è spazio per fondamentalismi e dogmatismi, basato sulla capacità di ascolto e sul linguaggio del bilanciamento e della flessibilità, ove si valorizzano le differenze attraverso l’avvicinamento reciproco finalizzato all’integrazione delle diverse culture, la cui dimensione “ è quella dello stare insieme, improntata ad una logica dell’et et, non dell’aut aut”; metodo che in materia religiosa è stato già testato in altri ordinamenti, quali quelli bavarese e canadese.

L’accomodamento ragionevole è il metodo della laicità perché in grado di accomunare credenti e non credenti e di far coesistere e dialogare fra loro le diverse fedi e convinzioni, evitando sia decisioni basate sulla semplice regola della maggioranza - in quanto il dato quantitativo o numerico dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa non è mai decisivo come tale “nel campo dei diritti fondamentali che è dominio delle garanzie per le minoranze e per i singoli” -, sia un potere di veto illimitato concesso al singolo, il cui potere interdittivo di ogni rappresentazione simbolica determinerebbe una tirannia della libertà di religione negativa.

Nel nostro ordinamento l’accomodamento ragionevole ha trovato sino ad oggi frequente applicazione giurisprudenziale in ambito lavoristico ove costituisce uno dei principali strumenti di tutela nei confronti della disabilità.

La direttiva 2000/78/CE, sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, prevede all’art. 5 una misura specifica per la discriminazione dei disabili imponendo ai datori di lavoro di prevedere “soluzioni ragionevoli” che permettano alle persone con disabilità fisiche o mentali di godere di pari opportunità sul lavoro e quindi li obbligano ad adottare provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire alle stesse di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano un onere finanziario sproporzionato.

Solo a seguito della condanna per inadempimento - causa C-312/11 Commissione Europea contro Repubblica Italiana, CG sentenza del 4 luglio 2013, l’Italia ha dato corretta attuazione a tale direttiva con l’aggiunta al d.lgs. n. 216 del 2003 dell’art. 3-bis, ad opera del d.l. 28 giugno 2013 n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. dalla l. 9 agosto 2013 n. 99, secondo cui “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.

Posto tale quadro normativo costituisce ormai orientamento consolidato che in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di handicap, il datore di lavoro è tenuto, ai fini della legittimità del recesso, a verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, nonché ad adottare, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori (Sez. L, n. 6497/2021, Amendola, Rv. 660632-01; Sez. L, n. 13649/2019, Ponterio, Rv. 653966-02; Sez. L, n. 6798/2018, Spena, Rv. 647606-02).

L’utilizzo del metodo del ragionevole accomodamento per la soluzione equilibrata di conflitti tra diversi credo religiosi, al fine di facilitare il raggiungimento di un compromesso tra il diritto di manifestare il proprio credo religioso e gli altrui diritti, incluso quello dello Stato o di coloro che aderiscono a diverse religioni, è tipico della tradizione giuridica anglosassone, e la sua prima affermazione viene individuata addirittura nella lettera che George Washington, nel settembre 1789, indirizzò al congresso annuale dei Quaccheri, dove scrisse: “Io vi assicuro che per me gli scrupoli di coscienza di ogni uomo debbono essere trattati con grande delicatezza e sensibilità; ed è mio primo auspicio e desiderio che le leggi possano adattarsi ad essi in maniera estesa (“extensively accommodated to them”), nella misura in cui gli interessi della nazione possano giustificare e permettere detta protezione”

Il titolo VII del Civil Rights Act del 1964, emendato nel 1972, richiede al datore di lavoro di svolgere una “reasonable accommodation” delle pratiche religiose del lavoratore, se ciò non comporta un eccessivo disagio nella conduzione dell’impresa (“undue hardship on the conduct of business”).

Principio analogo si trova espresso anche in Canada, ove è visto come un derivato del principio di equità (Central Alberta Dairy Pool v. Alberta Human Rights Commission [1990]); come ricordato dalle stesse S.U, nella sentenza in data 2 marzo 2006, caso Multani v. Commission scolaire Marguerite-Bourgeoys, la Corte suprema canadese ha risolto il contrasto tra il Consiglio scolastico che contestava ad uno studente la violazione del regolamento che vietava di portare armi negli ambienti scolastici e la famiglia del ragazzo undicenne che, essendo un sikh ortodosso, portava sempre con sé, in base alle sue convinzioni religiose un pugnale rituale, il kirpan, ritenendo il divieto suscettibile di violare la libertà religiosa dello studente sia perché sproporzionato, in ragione della presenza centenaria e pacifica della comunità sikh sul territorio canadese, sia in quanto il possibile timore dei compagni nel vedere un’arma doveva essere contemperato con l’alto valore educativo costituito dalla tolleranza nei confronti delle usanze religiose altrui nell’ambito della costruzione della società multiculturale.

La Corte canadese, per bilanciare il diritto alla sicurezza nella scuola con quello individuale alla salvaguardia della propria identità religiosa, ha applicato il principio della reasonable accomodation ed allo studente è stato garantito il porto del pugnale, purché adeguatamente conservato in una custodia sigillata e osservando alcune cautele, mentre agli insegnanti è stato richiesto di spiegare ai propri allievi le ragioni della deroga riconosciuta al proprio compagno, assolvendo così la scuola al suo ruolo di promozione della tolleranza e del rispetto delle minoranze che costituiscono i valori fondanti la società canadese.

In ambito europeo l’accomodamento ragionevole in materia religiosa è stato invece adottato nella cd soluzione bavarese.

Il Tribunale costituzionale federale tedesco, con la sentenza del 16 maggio 1995, pur dichiarando l’incostituzionalità del regolamento bavarese che prevedeva l’obbligatoria esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche elementari, nella consapevolezza che la scuola statale non potesse trascurare l’esercizio del diritto di libertà religiosa della maggioranza di coloro che la frequentano, aveva rimarcato che anche il diritto di libertà religiosa incontra, nel suo esercizio, i limiti derivanti dalla tutela di altri beni o interessi costituzionalmente garantiti e, in primo luogo, quello rappresentato dall’esercizio dello stesso diritto da parte delle minoranze, sicché il criterio di risoluzione dei possibili conflitti andrebbe sempre ricercato nel principio di una pratica ponderazione dei vari diritti che non privilegi in modo massimale una sola delle situazioni giuridiche in contrasto ma le tratti in modo il più possibile paritario.

Dopo tale pronuncia la legge bavarese sull’educazione e l’istruzione pubblica, approvata il 23 dicembre 1995 – a modifica di quella precedente del 21 giugno 1983 dichiarata illegittima – all’art. 7, comma 3, ha previsto che: “In considerazione della connotazione storica e culturale della Baviera, in ogni aula scolastica è affisso un crocifisso. Con ciò si esprime la volontà di realizzare i supremi scopi educativi della costituzione sulla base di valori cristiani e occidentali in armonia con la tutela della libertà religiosa. Se l’affissione del crocifisso viene contestata da chi ha diritto all’istruzione per seri e comprensibili motivi religiosi o ideologici, il direttore didattico cerca un accordo amichevole. Se l’accordo non si raggiunge, egli deve adottare, dopo aver informato il provveditorato agli studi, una regola ad hoc (per il caso singolo) che rispetti la libertà di religione del dissenziente e operi un giusto contemperamento delle convinzioni religiose e ideologiche di tutti gli alunni della classe; nello stesso tempo va anche tenuta in considerazione, per quanto possibile, la volontà della maggioranza”.

Ebbene, la S.C. evidenzia che nel caso oggetto del suo esame, la circolare del dirigente scolastico, non ha rispettato tale metodo, ha imposto la volontà della maggioranza degli studenti favorevole all’esposizione in aula del crocifisso - alla cui deliberazione in assemblea, tra l’altro, non aveva concorso il docente dissenziente - senza percorrere la via della mediazione, del consenso condiviso, della ricerca di una composizione delle posizioni; ne consegue – afferma la Corte - l’illegittimità dell’ordine dirigenziale e quindi l’invalidità della sanzione disciplinare inflitta al docente dissenziente che, contravvenendo all’ordine di servizio contenuto nella circolare, ha rimosso il crocifisso dalla parete dell’aula all’inizio delle sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto alla fine delle medesime.

Rispetto a tale conclusione qualche velata critica dei commentatori ha attinto la mancata indicazione in concreto del “ragionevole accomodamento”; in effetti, raggiunta la determinazione dell’illegittimità del provvedimento per violazione del metodo, ogni ultronea affermazione sarebbe risultata un obiter dictum, superfluo rispetto alla decisione, ed in ogni caso inutile per casi futuri, in quanto la “reasonable accomodation” è per definizione una regola ad hoc, su misura del caso specifico.

In realtà, a leggere tra le righe, l’indicazione c’è stata; forse non è casuale che tra le possibilità in campo sia indicato” l’uso non permanente della parete, con il momentaneo spostamento del crocifisso, in modi formalmente e sostanzialmente rispettosi del significato del simbolo per la coscienza morale degli studenti, durante l’orario di lezione dell’insegnante dissenziente”; proprio la condotta sanzionata che era stata spontaneamente adottata dal docente.

In ogni caso, seguendo la trama della decisione, posta la facoltà di esposizione, garantita la pluralità di simboli e la libertà negativa, indicato l’accomodamento ragionevole come l’unico possibile rimedio per i contrasti, un eventuale sindacato giudiziale futuro su casi analoghi dovrà necessariamente concentrarsi sulla verifica della ragionevolezza dell’accomodamento, se effettivamente perseguito, che, se equo ed equilibrato, potrebbe condurre in concreto ad ogni tipo di soluzione, ma mai giungere a sanzionare il mero dissenso in sé, come avvenuto nella fattispecie.

8. L’esclusione della discriminazione per motivi di religione.

Ultimo punto affrontato, quello della natura discriminatoria dell’ordine di servizio per motivi di religione che, nell’ambito del rapporto di lavoro del docente con l’amministrazione scolastica, va misurata secondo le definizioni offerte dall’art. 2, comma 1, lett. a) e b), del d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Secondo le Sezioni Unite, la circolare che, recependo la volontà degli studenti in ordine alla presenza del crocifisso non ricerchi un ragionevole accomodamento con il docente dissenziente, pur illegittima, non integra una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente, e non determina pertanto le conseguenze di natura risarcitoria previste dalla legislazione antidiscriminatoria, perché il dirigente scolastico non ha connotato in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento, né ha condizionato la libertà di espressione culturale del docente dissenziente.

Per giungere a tale conclusione la Corte riprende la formula del simbolo essenzialmente passivo utilizzato dalla Grande Chambre nella decisione del 2011, ritenuto inidoneo a condizionare gli alunni ed a maggior ragione una persona matura e dotata di spirito critico come un insegnante; si rileva che l’esposizione del crocifisso, disposta per venire incontro all’autonoma scelta degli studenti, non evidenzierebbe un nesso confessionale tra insegnamento e valori del cristianesimo, né la decisione datoriale avrebbe costretto o indotto i docenti non cattolici a svolgere l’attività di insegnamento in nome dei valori propri di un credo religioso in cui non si riconoscono.

Si esclude che il dirigente scolastico abbia voluto conformare in senso religioso l’attività di insegnamento essendosi adeguato alla delibera studentesca credendo, erroneamente, di poter interpretare la volontà dell’intera comunità scolastica; si esclude rilievo alla percezione soggettiva del ricorrente, che non basterebbe da sola a determinare una situazione di particolare svantaggio, non essendo sufficiente a configurare tale condizione il mero fastidio, il disaccordo culturale, la percezione di sgradevolezza alla visione del simbolo; si dà rilievo al fatto che la scelta aveva una matrice orizzontale, provenendo dagli studenti, e non autoritativa, che l’insegnante non aveva subito alcuna menomazione né nelle sue convinzioni personali né nell’esercizio dell’attività didattica, che l’affissione in sé non era in grado di pregiudicare la possibilità del ricorrente di esprimere le sue opzioni in materia religiosa, avendo mantenuto intatta la libertà di critica sia come cittadino che come docente.

Come evidenziato da alcuni commentatori [V.A.POSO, Rivista labor.it 2021], forse tale ultimo aspetto non ha trovato una appagante risposta.

La Corte non nega che il crocifisso sia un simbolo religioso, ma nello stesso tempo per escludere la discriminazione ne ridimensiona le potenzialità evocative rimarcando la sua passività.

Un simbolo è un elemento grafico e rappresentativo del significato che gli si vuole attribuire; l’etimologia della parola rimanda ad un concetto di unione, di tenere insieme, ma la sua forza deriva dalla capacità di evocare nella mente di chi lo guarda un concetto diverso da quello che riproduce da un punto di vista meramente figurativo.

Tendenzialmente il simbolo comunica contenuti di natura ideale ed ideologica che accumunano gruppi sociali o comunità culturali, politiche, religiose che in esso si riconoscono in quanto gli attribuiscono un significato convenzionalmente unico; nello stesso tempo il simbolo può dividere, separare da chi non gli riconosce gli stessi contenuti rappresentativi, ed ancora è possibile che uno stesso simbolo assuma significati diversi, molteplici, o perché ha subito una evoluzione storica o semplicemente perché diversa ne è la percezione in chi lo guarda o lo utilizza.

Il crocefisso costituisce storicamente la rappresentazione della figura di Gesù Cristo messo in croce, ed è quindi universalmente riconosciuto come il simbolo della religione cattolica che si identifica nel ricordo del suo sacrificio; cattolici e non arricchiscono questa immagine di contenuti, in quanto, andando oltre il messaggio strettamente religioso, lo considerano il simbolo del dolore terreno, dell’amore, della speranza di salvezza, di principi di uguaglianza, generosità e solidarietà.

Premesso questo incontestabile valore religioso, l’esaltazione del valore culturale del crocefisso e della sua “passività” non consente di arginare il problema, e non è un caso che sia la sua ostensione in sé a generare conflitti; come già osservato dalla dottrina in riferimento alla decisione della Corte EDU, tale operazione di “dequotazione” o “dequalificazione” del crocifisso non sembra soddisfare né i credenti, che ne vivono con fervore e devozione il fascino evocativo, né i fedeli di altri culti, che continuano ad identificarlo, per la sua genesi storica, nel simbolo della cristianità, né gli agnostici che vorrebbero sottrarsi al simbolo sia esso religioso, culturale, attivo o passivo.

Il Supremo Collegio, sempre per negare la discriminazione, ridimensiona la percezione soggettiva del ricorrente rispetto al simbolo ma, nello stesso tempo, sembra utilizzare la componente soggettiva dell’intenzione del dirigente scolastico per escludere la sua volontà di connotare in senso religioso l’attività di insegnamento.

Ebbene, se è vero che l’intenzionalità può effettivamente caratterizzare un comportamento discriminatorio, specie nella giurisprudenza unionale la nozione oggettiva di discriminazione è da tempo prevalsa su quella soggettiva, nel senso che al fine di integrare la fattispecie discriminatoria è sufficiente la prova dell’effetto pregiudizievole, risultando invece superfluo l’accertamento dell’intento discriminatorio.

La concezione oggettiva di discriminazione, che risponde alla finalità di allargare l’ambito di applicazione dei divieti di discriminazione per garantirne la massima efficacia, trova piena realizzazione nella discriminazione indiretta che si concretizza nel particolare svantaggio, subito da chi appartenga al gruppo o categoria protetto dai divieti di discriminazione, derivante anche da un trattamento formalmente neutro, indipendentemente dalla prova dell’intenzionalità dell’autore della discriminazione, assumendo per essa rilievo solo l’effetto pregiudizievole, il “disparate impact” di origine anglosassone.

Nel caso in esame tale effetto pregiudizievole non andrebbe ricercato rispetto all’esposizione del crocifisso in quanto tale, bensì rispetto all’ordine datoriale cui è collegata per di più una sanzione disciplinare.

Pur costituendo un’aspirazione ideale che il sistema educativo della scuola pubblica sia obiettivo, pluralista, tollerante e orientato allo sviluppo del senso critico, nella specie il docente è stato attinto da una sanzione disciplinare per aver disatteso una circolare dirigenziale illegittima che aveva ad oggetto l’esposizione di un simbolo religioso.

Seppure adottato con l’intenzione di assecondare la volontà degli studenti, quell’ordine che “imponendo l’omogeneità attraverso l’esclusione implicita di chi in esso non si riconosce o comunque non desidera subirne l’esposizione, comprime la libertà religiosa, nella sua valenza negativa, del non credente” non resta forse autoritativo, in quanto emesso dall’autorità scolastica nella persona del dirigente? La circolare, che illegittimamente ha richiamato tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, senza ricercare un ragionevole accomodamento con la posizione manifestata dal docente dissenziente, non è forse oggettivamente discriminatoria solo per quel docente che non riteneva di identificarsi nel simbolo, restando la stessa del tutto neutra per gli altri? Non è stato forse il solo docente dissenziente che, in conseguenza di tale disposizione di servizio, si è visto costretto a scegliere se attenersi ad un ordine illegittimo, insegnando sotto l’egida di valori religiosi che non condivideva, o subire le conseguenze sanzionatorie del rifiuto, come effettivamente avvenuto?

9. Osservazioni conclusive.

Queste residuali perplessità non sono comunque sufficienti a scalfire la portata epocale di tale pronuncia che, nel pieno rispetto del principio di laicità dello Stato ed a garanzia del pluralismo religioso, ha escluso l’esistenza di un obbligo di affissione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche ma nello stesso tempo anche il divieto di ostensione dei simboli religiosi, affidando la composizione di eventuali conflitti alle decisioni condivise della comunità scolastica,uji5tttrr perseguite attraverso la via del "ragionevole accomodamento".

La “mite” soluzione del caso concreto costituisce poi una mera occasione per l’autorevole e appassionato messaggio che ci consegnano le Sezioni Unite, arricchito dalla fiducia incondizionata riposta nella scuola, a cui è affidata la facoltà della scelta ragionevole e accomodante a garanzia del pluralismo religioso, quale viatico per un viaggio verso la costruzione di un futuro più equo ed inclusivo: l’istituzione scolastica, deputata all’istruzione dei giovani, per gran parte obbligatoria, dove essere, più di ogni altro spazio pubblico, un luogo scevro da condizionamenti precostituiti, siano essi culturali che religiosi, ove vengono forniti gli strumenti per sviluppare in piena libertà una personale capacità di critica, di analisi, di discussione e di confronto, indispensabili alle nuove generazioni per superare i pregiudizi ed adottare in futuro comportamenti ispirati alla tolleranza ed al rispetto delle diversità.

  • sanità del lavoro
  • malattia infettiva
  • sicurezza del posto di lavoro
  • sicurezza del lavoro
  • vaccino
  • vaccinazione
  • datore di lavoro

IX)

DALL’OBBLIGO VACCINALE ALL’OBBLIGO DEL GREEN PASS: L’EVOLUZIONE DELLE MISURE DI PREVENZIONE E SICUREZZA SUL LAVORO AI TEMPI DELLA PANDEMIA DA COVID-19

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 La legislazione dell’emergenza ai tempi del Covid-19. - 2 La disciplina vigente in tema di misure anti Covid-19. - 3 Vaccinazione e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. - 3.1 La tutela previdenziale nella normativa anti-Covid-19. - 3.2 Gli obblighi di protezione del datore di lavoro ai tempi della pandemia. - 4 L’obbligo vaccinale nel quadro del diritto europeo. - 5 L’obbligo vaccinale alla luce dei principi costituzionali. - 5.1 Le condizioni di legittimità di un obbligo vaccinale. - 5.2 L’idoneità del vaccino anti Covid-19 ad una previsione di obbligatorietà. - 6 L’obbligatorietà della “Certificazione verde Covid-19”.

1. La legislazione dell’emergenza ai tempi del Covid-19.

L’improvvisa diffusione del virus Covid-19 ha messo in evidenza l’inadeguatezza ed esiguità della disciplina vigente per fronteggiare la gestione di una pandemia; l’esigenza di colmare repentinamente il vuoto normativo, la drammatica presa di coscienza della gravità del fenomeno, la crescita esponenziale dei contagi, le conseguenze devastanti in termini di perdite di vite umane che hanno sconvolto l’intero paese, hanno reso indispensabile il ricorso alla legislazione d’emergenza.

Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri ha adottato la prima delibera con cui è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria nel nostro Paese, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. c), del d.lgs. 2 gennaio 2008 n. 1 (Codice della Protezione civile); con il d.l. 24 dicembre 2021 n. 221, conv. dalla l. 18 febbraio n. 11, “in considerazione del rischio sanitario connesso al protrarsi della diffusione degli agenti virali da COVID-19”, si è avuta la sesta proroga dello stato di emergenza fino al 31 marzo 2022.

Nella prima fase emergenziale tutti gli atti normativi (decretazione di urgenza, d.P.C.M., ordinanze del Ministero della Salute) si sono concentrati sull’adozione delle misure di contenimento e di distanziamento sociale indispensabili per contrastare i rischi sanitari derivanti dall’epidemia; a questi provvedimenti, che hanno determinato limitazioni anche a diritti e libertà costituzionali, hanno fatto da controcanto le preoccupazioni di autorevoli giuristi, in particolare costituzionalisti, sulle distorsioni arrecate al sistema delle fonti, sulle contorsioni del principio della separazione dei poteri, sui pericoli del proliferare degli interventi normativi regionali, sui rischi di una ingiustificata compressione di valori costituzionali intangibili (si pensi al diritto alla riservatezza, al diritto al lavoro, alla libertà di circolazione).

La seconda fase è stata caratterizzata dall’apertura di una massiccia campagna vaccinale della popolazione ed il nuovo tema ha fatto rapidamente irruzione nel dibattito politico e giuridico e, mentre in un primo momento, caratterizzato dalle difficoltà di approvvigionamento e da una limitata disponibilità di dosi, si è discusso di “diritto al vaccino” , con l’attenzione rivolta alla selezione delle priorità ed alla ripartizione delle competenze per la distribuzione e la gestione logistica delle somministrazioni, successivamente sono emerse questioni diverse, incentrate sul difficile rapporto tra “obbligo” ed “onere” di vaccinazione, espressioni di un dovere di solidarietà del singolo verso la collettività, e rifiuto della vaccinazione, espressione del diritto del singolo all’autodeterminazione in materia di salute.

Al tema dei vaccini, tra raccomandazione e obbligatorietà, si è aggiunto quello conseguente all’introduzione della “Certificazione verde Covid-19” (di seguito CVC o Green pass), la cui funzione, inizialmente finalizzata ad agevolare la circolazione negli Stati membri dell’Unione, è stata ampliata dalla legislazione interna imponendone il possesso obbligatorio, dapprima solo per l’accesso a determinate attività e servizi, successivamente anche per lo svolgimento delle attività lavorative.

La scelta del legislatore di implementare l’introduzione dell’obbligo di vaccinazione e di possesso del Green pass, ormai nella duplice tipologia base o rafforzato, per l’accesso al lavoro pubblico e privato, ha reso centrale anche in ambito lavoristico il tema più generale della legittimità dell’imposizione di tali obblighi, sia sul piano della legislazione interna che europea.

2. La disciplina vigente in tema di misure anti Covid-19.

L’intero quadro normativo di riferimento si presenta in continua evoluzione al fine di assicurare un tempestivo ed immediato adeguamento all’andamento della pandemia; in tale contributo ci si limiterà ad un approfondimento delle norme rilevanti in ambito lavorativo relative all’introduzione dell’obbligo vaccinale e di possesso del Green pass.

La vaccinazione anti-SARS-CoV-2 è stata oggetto per la prima volta di un atto di normazione primaria con la l. 30 dicembre 2020, n. 178, che all’art. 1, commi 447-449; 452-453; 457-467; 471, contiene, tra l’altro, norme organizzative destinate ad incidere sul diritto alla vaccinazione; ai sensi del comma 457 cit., con il d.m. Ministro della Sanità del 2.1.2021 è stato adottato il Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione anti Covid-19, successivamente integrato dalle Raccomandazioni ad interim del 10 marzo 2021.

L’art. 4 del d.l. 1 aprile 2021, n. 44, entrato in vigore il 1° aprile 2021, conv. con modif. dalla l. 28 maggio 2021 n. 76, ha introdotto il primo obbligo di vaccinazione per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, posto a carico degli “esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali”.

L’articolo sancisce l’obbligo vaccinale per le categorie di lavoratori ivi indicate, con un unico motivo di esenzione individuato nell’accertato pericolo per la salute in relazione a specifiche condizioni cliniche attestate dal medico di medicina generale, escludendo implicitamente ipotesi di obiezione di coscienza o di non condivisione scientifica della utilità della vaccinazione.

Per la permanenza dell’obbligo era stato fissato uno specifico limite temporale, quello del “completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”, termine oggi prorogato al 15 giugno 2022 (sei mesi dopo il 15 dicembre 2021) a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.l. 26 novembre 2021, n. 172 conv- dalla l. 21 gennaio 2022 n. 3.

La misura che fa da contrappeso alla violazione, seppure ne viene espressamente esclusa la natura disciplinare, mantiene una connotazione sanzionatoria in quanto la sospensione, senza retribuzione, dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni, che implicano necessariamente contatti interpersonali o comunque il rischio di diffusione del virus, consegue alla scelta volontaria di sottrarsi alla vaccinazione, ritenuta, ex ante, un requisito essenziale per l’esercizio della professione; nella difficoltà, già solo in astratto, di immaginare per i destinatari dell’obbligo in questione la possibilità di essere addetti a mansioni diverse, l’alternativa è stata riservata ai soli soggetti legittimamente esentati.

Quanto all’ambito applicativo soggettivo, mentre nessuna difficoltà ha posto la definizione della categoria degli esercenti le professioni sanitarie, da individuarsi alla luce della l. 11 gennaio 2018 n. 3 e del d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, ratificato dalla l. 17 aprile 1956, n. 561, qualche dubbio interpretativo è sorto in riferimento alla seconda categoria, quella degli operatori sanitari; in sede di conversione l’art. 1, comma 1, della l. n. 76 del 2021 ha specificato che “gli operatori di interesse sanitario” sono soltanto quelli “di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43”.

Gli artt. 3 e 3-bis del d.l. n. 44 del 2021 costituiscono, invece, due innovative disposizioni in tema di responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti-Covid-19; l’art. 3 esclude la punibilità in relazione sia all’omicidio colposo (art. 589 c.p.) sia alle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) conseguenti alla somministrazione di un vaccino anti-Covid-19 avvenuta durante la campagna vaccinale straordinaria, mentre l’art. 3 bis, inserito in sede di conversione, ha introdotto un vero e proprio “scudo penale“ estendendo la non punibilità, sia in relazione all’omicidio colposo sia in relazione alle lesioni personali colpose, durante la fase di emergenza epidemiologica, anche a tutti i fatti “[…] commessi nell’esercizio di una professione sanitaria“ che trovano la loro causa nella situazione di emergenza e che restano punibili solo in caso di colpa grave.

La Certificazione verde Covid-19 è la protagonista dei successivi interventi della legislazione dell’emergenza.

L’art. 9 del d.l. 22 aprile 2021 n. 52, conv. con modif. dalla l. 17 giugno 2021 n. 87, ha introdotto la CVC condizionandone il rilascio a tre condizioni: 1) avvenuta vaccinazione contro il SARS-CoV-2; 2) guarigione dall’infezione; 3) test molecolare o antigenico rapido con risultato negativo al virus; il periodo di validità ha subito diverse variazioni, sempre diversificate a seconda della condizione in base alla quale la certificazione è rilasciata.

Anche il campo di applicazione ed i limiti di utilizzo sono stati negli ultimi mesi oggetto di repentine modifiche, tutte in senso ampliativo del testo base di cui al d.l. n. 52 del 2021 che, inizialmente, ne prevedeva una limitata obbligatorietà.

Il d.l. 23 luglio 2021 n. 105, conv. con modif. dalla l. 16 settembre 2021 n. 126, con l’inserimento dell’art. 9 bis, ha reso necessario il Green pass per accedere ad una serie di servizi ed attività, mentre il d.l. 6 agosto 2021 n. 111, conv. dalla l. 24 settembre 2021 n. 133, con l’aggiunta degli artt. 9-ter e 9-quater, lo ha imposto al personale scolastico e universitario per l’espletamento dell’attività lavorativa e per l’accesso ad alcuni mezzi di trasporto.

L’art. 9-ter, che ha condizionato al possesso del Green pass l’esercizio dell’attività lavorativa per il personale docente, propone un meccanismo molto simile a quello di cui all’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021; la mancanza della CVC equivale ad assenza ingiustificata e, a decorrere dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro è sospeso senza diritto a retribuzione, ferma l’applicabilità della sanzione amministrativa; la sua efficacia era stata limitata nel tempo, specificamente dal 1° settembre al 31 dicembre 2021, e si è prevista, in aggiunta alla sospensione, la comminazione di una sanzione amministrativa.

Il d.l. 21 settembre 2021 n. 127, conv. con modif. dalla l. 19 novembre 2021 n. 165, sempre con la stessa tecnica additiva rispetto alla disciplina di cui al d.l. n. 52 del 2021, ha reso obbligatorio, a decorrere dal 15 ottobre 2021, il possesso della CVC per l’accesso nei luoghi di lavoro pubblici (art. 9-quinques) e privati (art. 9-septies), da parte dei lavoratori in forza presso aziende, enti pubblici e che svolgono attività di formazione e volontariato; l’obbligo riguarda inoltre il personale di Autorità indipendenti, Consob, Covip, Banca d’Italia, enti pubblici economici, organi di rilevanza costituzionale e i titolari di cariche elettive o di cariche istituzionali di vertice.

I datori di lavoro sono stati chiamati a definire le modalità operative per l’organizzazione delle verifiche, anche a campione, da effettuare al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro e, come era stato già previsto per il personale scolastico, il personale non in possesso della CVC è considerato assente ingiustificato fino alla presentazione della stessa e, comunque, non oltre il termine attualmente fissato al 31 marzo 2022, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. c) del d.l. 7 gennaio 2022 n. 1, in attesa di conversione, senza conseguenze disciplinari e senza sospensione, con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro ma non alla retribuzione; l’obbligo è stato imposto anche a magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, e ai componenti delle commissioni tributarie per l’accesso agli uffici giudiziari, ma non era stato esteso ad avvocati, consulenti, periti e altri ausiliari del magistrato, testimoni e parti del processo (art. 9 sexies, norma successivamente modificata dal d.l. n. 1 del 2022 su cui infra.)

In particolare l’art. 9-sexies, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza, ha previsto dal 15 ottobre 2021 e fino al (oggi 31 marzo 2022), termine di cessazione dello stato di emergenza, l’obbligo di possesso e di esibizione del Green pass base, per l’accesso agli uffici giudiziari ove svolgono la loro attività lavorativa, per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari nonché i componenti delle commissioni tributarie, e ove compatibile anche per magistrati onorari e giudici popolari, e che l’assenza dall’ufficio conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde COVID-19 è considerata assenza ingiustificata, senza retribuzione, con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro.

L’accesso in violazione di tale obbligo costituisce illecito disciplinare, da sanzionare secondo i rispettivi ordinamenti, oltre ad essere punito con una sanzione amministrativa da 600 a 1500 euro, con obbligo di verifica, secondo le modalità previste all’art. 9-quinquies dello stesso decreto, a carico del responsabile della sicurezza delle strutture in cui si svolge l’attività giudiziaria, individuato per la magistratura ordinaria nel Procuratore generale presso la Corte di appello.

Solo per le imprese con meno di quindici dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, il datore di lavoro poteva sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni, rinnovabili per una sola volta, e non oltre il predetto termine del 31 dicembre 2021 (norma successivamente modificata dal d.l. n. 1 del 2022 su cui infra).

Con il d.P.C.M. 12 ottobre 2021 sono state fornite ai datori di lavoro pubblici e privati le indicazioni sulle modalità di controllo del possesso delle Certificazioni verdi Covid-19 e sono stati potenziati gli strumenti informatici per la verifica quotidiana e automatizzata delle certificazioni.

Il d.l. n. 172 del 2021 ha introdotto il “super Green pass” o Green pass rafforzato, entrato in vigore il 6 dicembre, valido solo per coloro che sono vaccinati o guariti dal Covid-19, ma non per chi è in possesso di un tampone negativo, sia esso antigenico o molecolare.

Il super Green pass, che inizialmente doveva essere esibito solo per accedere a ristoranti e bar al chiuso o per partecipare a spettacoli ed eventi sportivi, con il d.l. n. 221 del 2021 è stato reso obbligatorio per molteplici attività e servizi, oltre a subire una riduzione del periodo di vigenza da nove a sei mesi.

Per i luoghi di lavoro il Green pass base, che si ottiene anche con il tampone negativo, continua ad essere sufficiente, salvo che per quelle categorie di lavoratori per le quali, a partire dal 15 dicembre 2021, l’art. 2 del d.l. n. 221 del 2021 ha introdotto l’obbligo vaccinale.

In particolare l’art. 2 del d.l. n. 221 cit., con l’aggiunta dell’art. 4-ter al d.l. n. 44 del 2021 ha esteso l’obbligo vaccinale al personale amministrativo della sanità, ai docenti e personale amministrativo della scuola, a militari, forze di polizia (compresa la polizia penitenziaria), personale del soccorso pubblico.

Un ennesimo inasprimento delle misure di prevenzione è stato disposto dal d.l. 7 gennaio 2022 n. 1, conv dalla l. 4 marzo n. 18, vigente dall’8 gennaio 2022, che all’art. 1 ha aggiunto al d.l. n. 44 del 2021, conv., con modif., dalla l. n. 76 del 2021, le seguenti disposizioni:

- art. 4-quater che, al comma 1 ha esteso l’obbligo di vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 agli ultra cinquantenni, dalla data di entrata in vigore della disposizione e fino al 15 giugno 2022.

Il comma 2 dello stesso articolo prevede l’esenzione o il differimento dalla vaccinazione in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale dell’assistito o dal medico vaccinatore, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2, ed inoltre il differimento della vaccinazione fino alla prima data utile prevista sulla base delle circolari del Ministero della salute per i soggetti che abbiano contratto l’infezione.

L’obbligo vaccinale opera anche per coloro che compiono il cinquantesimo anno di età in data successiva a quella di entrata in vigore della norma, sino al termine del 15 giugno 2022, ed è punito in caso di violazione con una sanzione amministrativa di 100 euro;

- art. 4-quinquies che al comma 1, a decorrere dal 15 febbraio 2022, ha esteso ai lavoratori pubblici e privati over 50, ai quali già si applica l’obbligo vaccinale di cui all’art. 4-quater valevole per la generalità dei cittadini, l’obbligo di possedere ed esibire il super Green pass, (certificazione verde COVID-19 di vaccinazione o di guarigione di cui all’articolo 9, comma 2, lettere a), b) e c-bis) del decreto-legge n. 52 del 2021), per l’accesso ai luoghi di lavoro nell’ambito del territorio nazionale.

Il comma 2 obbliga alla verifica del possesso delle suddette certificazioni i datori di lavoro pubblici e privati e i responsabili della sicurezza delle strutture in cui si svolge l’attività giudiziaria, individuati secondo le modalità già previste dal d.l. n. 52 del 2021.

I lavoratori soggetti all’obbligo del super Green pass, a cui il comma 5 vieta l’accesso ai luoghi di lavoro in violazione di tale obbligo, nel caso in cui comunichino di non essere in possesso della suddetta certificazione, o comunque ne risultino privi al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro, “al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, sono considerati assenti ingiustificati, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, fino alla presentazione della predetta certificazione, e comunque non oltre il 15 giugno 2022. Per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati.”

Per la violazione del divieto di accesso al lavoro senza Green pass rafforzato è stata prevista una autonoma sanzione amministrativa tra 600 e 1.500 euro, salvo le ulteriori conseguenze disciplinari.

Solo per i soggetti per i quali opera l’esenzione o il differimento della vaccinazione ai sensi del comma 2, il comma 7 prevede l’assegnazione “a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”;

- art. 4-sexies che ha introdotto la sanzione pecuniaria di cento euro per l’inosservanza dell’obbligo vaccinale di cui all’articolo 4-quater e stabilito le modalità per l’irrogazione.

L’art. 2 del d.l. n. 1 del 2022, con l’inserimento del comma 1 bis, all’art. 4-ter del d.l. n. 44 del 2021, introdotto dall’art. 2 del d.l. n. 221 del 2021, ha esteso l’obbligo vaccinale, già operante dal 15 dicembre 2021 e per i successivi sei mesi, per il personale amministrativo della sanità, docenti e personale amministrativo della scuola, militari, forze di polizia (compresa la polizia penitenziaria), personale del soccorso pubblico, senza limiti d’età anche al personale universitario, delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica e degli istituti tecnici superiori a decorrere dal 1 febbraio 2022 e sino al 15 giugno 2022.

L’art. 3 del d.l. n. 1 del 2022, al comma 1, con l’aggiunta del comma 1-bis all’art. 9 bis del d.l. n. 52 del 2021, ha esteso l’obbligo del Green pass base, sino al 31 marzo 2022, tra l’altro, anche per l’accesso ai pubblici uffici a decorrere dal 1 febbraio 2022 o da quella data diversa da individuarsi con successivo d.P.C.M., mentre al comma 2, lett. b), con le modifiche apportate ai commi 4 e 8 dell’art. 9 sexies del d.l. n. 52 del 2021, ha esteso l’obbligo del Green pass base, anche a difensori, consulenti, periti ed altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia, con la sola eccezione per testimoni e parti del processo, e, con l’aggiunta del comma 8 bis, ha previsto che l’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde COVID-19 non costituisce impossibilità di comparire per legittimo impedimento.

Solo per le imprese, e senza più alcun limite in base al numero di dipendenti, ai sensi del comma 2 lett. c) dell’art. 3 del d.l. n. 1 del 2022, di modifica del comma 7 dell’art. 9-septies del d.l. n. 52 del 2021, il datore di lavoro, dopo cinque giorni di assenza ingiustificata, può disporre la sospensione del lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a dieci giorni lavorativi, rinnovabili fino al predetto termine del 31 marzo 2022, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del posto di lavoro per il lavoratore sospeso.

3. Vaccinazione e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

I recenti interventi normativi in tema di obbligo vaccinale e di Green pass nei contesti lavorativi hanno posto diverse questioni che da un lato si inseriscono nel tema generale della compatibilità di tali misure con il sistema delle libertà e dei principi costituzionali, dall’altro attengono a profili più tipicamente lavoristici, relativi all’ambito di applicazione, all’inidoneità alle mansioni in caso di inosservanza, alle conseguenze delle violazioni sul rapporto di lavoro; la possibilità che un’infezione da SARS-CoV-2 venga contratta sul luogo di lavoro rileva poi sia sotto il profilo dei criteri di operatività della copertura assicurativa INAIL sia sul piano della responsabilità datoriale.

3.1. La tutela previdenziale nella normativa anti-Covid-19.

Nelle ipotesi in cui un contagio da Covid-19 avvenga in occasione dello svolgimento del lavoro, il lavoratore ha diritto alla copertura assicurativa.

A tali fini è intervenuta una norma specifica, l’art. 42, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, conv. dalla l. n. 27 del 2020 , secondo cui l’infezione da Coronavirus, contratta in “occasione di lavoro”, costituisce un infortunio protetto dall’assicurazione obbligatoria per cui l’INAIL è obbligato ad erogare le prestazioni dovute ai soggetti protetti a seconda dell’evento subito (lesione o decesso) e delle conseguenze riportate dal lavoratore, sia esso pubblico o privato.

Coloro che hanno contratto il virus sul lavoro hanno diritto all’indennizzo per il periodo di inabilità temporanea assoluta e all’indennizzo in capitale o alla rendita per i postumi permanenti; in caso di morte, ai loro familiari spetterà poi la rendita ai superstiti; la norma, oltre a riconoscere una protezione economica di natura sociale per il danno alla salute ed alla capacità lavorativa dei lavoratori, nonché alle loro famiglie per la perdita del reddito nell’ipotesi del decesso, prevede che non vi sia alcun onere aggiuntivo per le imprese in termini di aumento di premi assicurativi.

In linea con una elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata, la disposizione chiarisce che, in caso di infezione da Coronavirus, si applica la protezione più ampia garantita dall’art. 2 per infortunio (subito “in occasione di lavoro”), anche in itinere, e non quella prevista dall’art. 3 per la malattia professionale, consentendo alla copertura assicurativa di operare non solo nelle ipotesi in cui il lavoro ne sia stato la causa, ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice occasione.

La differenza tra i due tipi di evento si fonda sulla concentrazione e violenza del fattore causale: la “causa virulenta” (l’azione di fattori microbici o virali) viene considerata “causa violenta”, per cui l’evento è protetto come infortunio sul lavoro e non come malattia; la giurisprudenza ha affermato da tempo che costituisce causa violenta (e quindi infortunio) anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione.

Trattandosi di infortunio, e non di malattia, è ammessa la tutela dell’infortunio in itinere, e quindi di chi contrae la malattia andando e tornando dal lavoro, inoltre l’indennizzo dell’inabilità temporanea viene riconosciuto anche per il periodo in cui il lavoratore si trova in quarantena o in isolamento domiciliare per fini precauzionali in conseguenza della malattia da Coronavirus, immediatamente dopo la guarigione o per l’intervenuto accertamento della positività al virus, trattandosi di situazioni di impedimento assoluto al lavoro che, come quelle derivanti da altri stati patologici vanno tutelati nel caso in cui siano state occasionate dal lavoro.

Con l’istruzione operativa del 17 marzo 2020 l’INAIL nel ribadire che la malattia da Coronavirus, contratta nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, va tutelata come infortunio sul lavoro, ha precisato che sono ammessi alla tutela gli operatori sanitari che risultino positivi al test di conferma del contagio, puntualizzando che per essi il nesso causale con le mansioni svolte si deve comunque presumere, tanto che la tutela assicurativa va estesa anche ai casi in cui l’identificazione delle specifiche cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica;

Nelle istruzioni operative del 1° marzo del 2021 l’INAIL è intervenuto sul tema del diritto alla tutela assicurativa del lavoratore (nella fattispecie si trattava di infermieri) in caso di rifiuto della vaccinazione; l’Istituto ha ritenuto di riconoscerla anche al soggetto che abbia contratto il virus sul lavoro, e precedentemente rifiutato di vaccinarsi, sul presupposto che la colpa del lavoratore nella causazione dell’infortunio non esclude la tutela, e che il comportamento degli infermieri che rifiutano il vaccino non può costituire rischio elettivo, per mancanza del carattere della arbitrarietà.

In questa circolare si ribadisce la diversità funzionale e strutturale che esiste tra responsabilità civile e copertura assicurativa, due regimi riparatori che hanno presupposti differenti, l’uno fondato sul bisogno del lavoratore e l’altro sulla responsabilità risarcitoria del datore; per accedere alla tutela ampia dell’infortunio sul lavoro occorre il nesso funzionale tra il fatto ed il lavoro, risultando all’uopo sufficiente che il contagio abbia un collegamento funzionale con l’attività di lavoro, senza che rilevi la colpa del lavoratore, che invece potrebbe giustificare l’esclusione della responsabilità civile del datore di lavoro.

In ambito Inail la tutela è esclusa solo in presenza di rischio elettivo (ossia del rischio estraneo all’attività di lavoro), ed inoltre in caso di dolo (inteso come dolo intenzionale, dell’evento e come autolesionismo e simulazione volontaria, come risulta dagli artt. 11, comma 3, 64 e 65 TU 1124/1965) e, a differenza della responsabilità civile, il lavoratore, salvo il dolo intenzionale dell’evento, è tutelato anche in caso di violazione volontaria e consapevole delle misure di protezione adottate dal datore, come pure in caso di comportamento abnorme (imprevedibile) rispetto alla ordinaria esecuzione della mansione ed alla prassi lavorativa.

Nella nozione di rischio elettivo rientra solo quello che non ha alcun nesso con il lavoro, mentre qui si è in presenza pur sempre di lavoratori che abbiano contratto il virus per essere rimasti al lavoro, nell’ambiente di lavoro ed in connessione con lo stesso (per poter reclamare la tutela assicurativa). Né può parlarsi di rischio elettivo in caso di mero aggravamento del rischio da parte del lavoratore, ancorché imputabile a colpa, sia essa lieve o grave; il comportamento colposo del lavoratore potrebbe influire sulla responsabilità civile del datore, nel senso di escluderla o limitarla, ed esclude o limita anche il corrispondente diritto dell’INAIL all’azione di regresso che opera nei limiti della responsabilità civile, ma non va confuso col rischio elettivo.

Ne consegue che la protezione dell’INAIL va accordata anche in ipotesi di rifiuto del vaccino e di volontaria inottemperanza all’ordine di allontanamento del lavoratore che rimanga a lavorare nell’ambiente di lavoro dove contragga il virus.

3.2. Gli obblighi di protezione del datore di lavoro ai tempi della pandemia.

La completezza ed esaustività del sistema vigente per la protezione dei luoghi di lavoro è stato messo a dura prova dall’imprevedibilità dell’emergenza pandemica che ha inciso pesantemente sull’organizzazione dell’attività lavorativa.

L’incremento dello smart working ha reso quanto mai impellente l’implementazione della disciplina di questa forma di lavoro che da eccezione si è trasformata in regola; la diffusione dell’e-commerce e dell’utilizzo delle piattaforme digitali ha svelato in tutta la sua drammaticità l’esistenza di intere categorie di lavoratori invisibili, pensiamo ai magazzinieri di Amazon o ai riders, accomunati da una totale assenza di tutele e protezione anche dei più elementari diritti; per tutti quei lavoratori che non si sono mai fermati, garantendo in presenza il mantenimento dei servizi essenziali, si è posta la necessità di assicurare un più elevato livello di protezione della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

In merito alla sicurezza dei luoghi di lavoro, all’alba della pandemia in data 14 marzo 2020 è stato sottoscritto fra il Governo e le parti sociali un protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, ulteriormente integrato il 24 aprile 2020 e quindi aggiornato con altro protocollo del 6 aprile 2021.

Diversi i d.P.C.M. che sono stati emanati in attuazione del d.l. n. 19 del 2020, in base all’evoluzione dell’emergenza sanitaria; il d.P.C.M. del 10 aprile 2020 all’art. 2, comma 10, aveva disposto che le imprese le cui attività non sono sospese rispettino “i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali”, mentre all’art. 1, lett. ii), con riferimento alle attività professionali, che proseguono, raccomandava, tra l’altro, di assumere protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione, “laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento”, di strumenti di protezione individuale, e di incentivare le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro.

Il d.P.C.M. del 26 aprile 2020 conteneva analoghe previsioni rispettivamente, all’art. 2, comma 6, con riferimento al Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 per le attività produttive, di cui è stato anche disposto l’inserimento come allegato 6, ed all’art. 1, lett. 11), punto c), per le attività professionali.

La dottrina ha convenuto che i provvedimenti innanzi menzionati abbiano assicurano a tali Protocolli una sorta di copertura legislativa e che in ogni caso le misure ivi previste, rispecchiando sostanzialmente le raccomandazioni precauzionali fornite dall’OMS, si sono integrate perfettamente con i principi e i precetti propri del sistema di prevenzione delineato dal d.lgs. n. 81 del 2008 e dall’art. 2087 c.c..

Sebbene l’art. 42, comma 2, del d.l. n. 18 del 2020, che ha qualificato l’infezione da Covid-19 contratta "in occasione di lavoro" infortunio sul lavoro, avesse una esclusiva valenza sul piano dell’assicurazione sociale, i datori di lavoro hanno temuto che la norma avesse accentuato il loro rischio di incorrere in responsabilità civile e penale; del resto in ambito penalistico la violazione delle norme antinfortunistiche, ed anche delle regole precauzionali innominate imposte dall’art. 2087 c.c., è sufficiente a configurare la colpa, specifica e generica, richiesta per tutte le fattispecie di reato che vengono normalmente contestate in caso di violazione delle norme in tema di sicurezza sul lavoro.

A seguito di pressanti richieste del mondo imprenditoriale, il legislatore ha introdotto l’invocato "scudo" e con l’art. 29-bis della l. 5 giugno 2020, n. 40, di conversione del d.l. n. 23 del 2020, ha stabilito che i datori di lavoro adempiono all’obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori previsto dall’art. 2087 c.c. mediante l’applicazione del Protocollo sottoscritto il 24 aprile 2020 dal Governo e dalle Parti Sociali e successive modifiche o integrazioni.

Questo intervento normativo ha posto problemi sistematici in quanto, ancorando l’adempimento agli obblighi di protezione e sicurezza imposti dall’art. 2087 c.c. al rispetto di specifiche disposizioni, per giunta adottate a mezzo protocolli tra le parti sociali, sembrerebbe porsi in antitesi con la funzione dinamica della norma e la sua ratio di norma aperta.

L’impossibilità, e forse l’inutilità, di una cristallizzazione ad un determinato momento storico delle regole precauzionali si è immediatamente manifestata all’esito dell’apertura della campagna vaccinale, in quanto, sebbene il tema dei vaccini non fosse stato affrontato da nessuno dei Protocolli citati, lo stesso ha impattato in modo significativo sugli obblighi di prevenzione e protezione del datore di lavoro e sugli obblighi/oneri del lavoratore, come poi dimostrato dalla produzione normativa immediatamente successiva.

Il problema è rimasto aperto, per le categorie di lavoratori non sottoposte ad obbligo vaccinale o di super Green pass, anche a seguito dell’introduzione dell’obbligo del Green pass base per l’accesso al lavoro pubblico o privato, per tutti quei soggetti che abbiano optato per il rilascio a seguito di diagnostica negativa.

Lo stato delle conoscenze scientifiche del momento in tema di vaccinazione va necessariamente a condizionare, ex art. 2087 c.c., l’adempimento degli obblighi di sicurezza del datore di lavoro, oltre ad avere ricadute dirette sul rapporto di lavoro, in conseguenza delle disposizioni specifiche del d.lgs. n. 81 del 2008.

Quanto al d.lgs. n. 81 del 2008, l’inserimento del virus SARS-CoV-2 nell’elenco degli agenti biologici del gruppo 3 ad opera della direttiva della Commissione UE 2020/739 ha avuto una ricaduta immediata sulle disposizioni del Titolo X del d.lgs. n. 81 del 2008 che si applicano, per espressa previsione dell’art. 266, comma 1, a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad un agente biologico.

Individuare quali siano le attività lavorative a cui trova applicazione il Titolo X assume particolare rilievo in quanto in esso vi è inserito l’art. 279 il quale, dopo aver previsto al comma 1 che, ove l’esito della valutazione del rischio ne rilevi la necessità, i lavoratori esposti ad agenti biologici sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, al comma 2 stabilisce che il “datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”; la norma precisa che deve trattarsi di vaccini efficaci, ma non (necessariamente) obbligatori e quindi anche solo raccomandati.

Secondo l’art. 42 del d.lgs. cit. il datore di lavoro è tenuto ad attuare le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

In sintesi, tutti i lavoratori esposti ad agenti biologici sono soggetti alla sorveglianza sanitaria del medico competente (ex art. 41) quando il risultato della valutazione del rischio ne rilevi la necessità; in tal caso, su parere del medico competente, il datore di lavoro adotta le misure protettive speciali rappresentate, tra le altre, dalla “messa a disposizione di vaccini efficaci”, dall’adibizione del dipendente ritenuto inidoneo, “ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”, (ex art. 42) o, in subordine, ove non sia possibile la collocazione in mansioni idonee anche inferiori, “dall’allontanamento temporaneo dall’azienda” (ex art. 279).

L’esposizione ad agenti biologici rischiosi per la salute è dunque uno dei presupposti per l’adozione delle misure individuate di volta in volta dal medico competente.

Altra norma da valorizzare è l’art. 20 del d.lgs. n. 81 del 2008 che pone a carico del lavoratore un dovere/onere di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, di contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, e di osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale.

Quanto all’operatività della clausola generale di protezione derivante dall’art. 2087 c.c., è indubbio che, allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, a prescindere dalla obbligatorietà della vaccinazione nei contesti lavorativi, la circostanza che un lavoratore sia vaccinato o meno non può non incidere sugli obblighi datoriali di prevenzione e sicurezza in quanto, in presenza di prestazioni lavorative cd. di contatto, il datore di lavoro deve tenere conto di tale circostanza.

Nella materia lavoristica il dibattito dottrinale sulla possibilità di una estensione generalizzata dell’obbligatorietà della vaccinazione o del possesso della “Certificazione verde Covid-19”, ha visto inizialmente confrontarsi coloro che hanno sostenuto che tale obbligo fosse insito nel sistema, trovando le sue fonti principalmente nell’art. 2087 c.c. e nel TU n. 81 del 2008, coloro che hanno invece ritenuto che, in presenza di un trattamento sanitario, per la sua configurabilità fosse indispensabile un intervento normativo specifico alla luce della riserva di legge di cui all’art. 32, comma 2, Cost., e infine coloro che si sono opposti alla configurabilità dell’obbligo; altrettanto animato il dibattito sulle conseguenze nell’ambito del rapporto di lavoro del rifiuto del lavoratore di sottoporsi a vaccinazione, se di rilievo disciplinare o se incidenti sul piano meramente oggettivo della idoneità alle mansioni.

L’adozione dell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 in ambito sanitario, e delle norme successive che hanno introdotto l’obbligo vaccinale per diverse categorie di lavoratori, fanno propendere per la necessità di una specifica legge ai fini dell’imposizione di un obbligo vaccinale in ambiente di lavoro.

Pur in assenza di un obbligo vaccinale, per tutte le categorie di lavoratori che si trovano in posizioni analoghe in termini di esposizione a rischio personale e altrui, non può però non assumere rilievo la valutazione della idoneità alla mansione e delle conseguenze che la libertà di non vaccinarsi possa produrre sul rapporto di lavoro; come è noto il contenuto dell’obbligo datoriale di sicurezza è per sua natura dinamico, dovendosi determinare in ragione del progresso scientifico e tecnologico (la “tecnica” di cui parla l’art. 2087 c.c.), e il vaccino costituisce espressione di tale progresso; se si conviene sul fatto che il rischio è quantitativamente e qualitativamente diverso per i lavoratori vaccinati rispetto ai lavoratori non vaccinati, ne discende che le misure di prevenzione e di protezione, nonché l’adozione di dispositivi di protezione individuali, dovrebbero essere differenziati per l’una e l’altra categoria di lavoratori, dal momento che i lavoratori non vaccinati necessitano di una tutela più intensa rispetto ai vaccinati, giacché non adeguatamente immunizzati contro le infezioni da virus.

Pertanto, mentre per le professioni oggetto di obbligo vi è stata una qualificazione ope legis di incidenza della vaccinazione sulla idoneità delle mansioni, ed anche delle conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di omessa vaccinazione, per le altre attività si dovrebbe rimettere, caso per caso, al documento di valutazione dei rischi e alle determinazioni del medico competente in sede di sorveglianza sanitaria, la verifica in concreto se la vaccinazione debba e possa costituire un requisito essenziale di idoneità alle mansioni.

In caso di valutazione positiva, da compiersi solo sul piano oggettivo, tenuto conto della specificità delle mansioni svolte, a fronte del persistente rifiuto del lavoratore di vaccinarsi, la conseguenza non potrebbe che essere, analogamente a quanto previsto per i soggetti sottoposti ad obbligo, l’allontanamento temporaneo del lavoratore dalle mansioni per le quali risulta inidoneo, ed in assenza della possibilità di assegnazione ad altre mansioni la sospensione senza retribuzione, con una incidenza dunque sul piano oggettivo e di durata temporanea, senza alcuno spazio per contestazioni di tipo disciplinare; sarebbe infatti illogico prevedere per lavoratori non soggetti ad obbligo di vaccinazione delle conseguenze più gravi di quelle previste per i lavoratori che vi sono invece obbligati per legge.

4. L’obbligo vaccinale nel quadro del diritto europeo.

La materia degli obblighi vaccinali non costituisce in sé oggetto di una disciplina dell’Unione, e rispetto ad essa ogni Stato mantiene nell’ordinamento interno ampio margine di autonomia, come è agevolmente verificabile dall’assenza di uniformità tra gli Stati membri in merito alla previsione di vaccinazioni obbligatorie; il tema della vaccinazione va invece intersecarsi con diversi settori di competenza unionale.

La direttiva della Commissione 2020/739/UE del 3 giugno 2020, che ha modificato l’allegato III della direttiva 2000/54/CE – già modificato dalla direttiva della Commissione 2019/1833/UE del 24 ottobre 2019 – ha inserito il virus SARS-CoV-2 nel gruppo 3 dell’elenco degli agenti biologici, di cui è noto che possono causare malattie infettive nell’uomo; tale decisione ha avuto una immediata ricaduta nell’ordinamento interno ed in particolare sulle disposizioni del Titolo X del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che si applicano, per espressa previsione dell’art. 266, comma 1, a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad un agente biologico.

Quanto ai problemi di compatibilità con le norme dell’Unione dell’introduzione in uno Stato membro dell’obbligo vaccinale anti Covid-19, si è paventato un possibile contrasto con l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea (CDUEF), norma che riconosce il diritto alla tutela dell’integrità della persona.

In riferimento a tale possibilità si può osservare che la cd. Carta di Nizza trova applicazione solo relativamente a materie di competenza dell’Unione europea e non come una Carta dei diritti con efficacia generale, per qualsiasi tipo di rapporto e di disciplina.

Secondo la costante giurisprudenza della CGUE, i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse; ove una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, ma abbia rilievo esclusivamente interno, la Corte UE non è competente e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza.

Anche la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato, a partire dalla sentenza n. 80 del 2011 sino alla sentenza n. 194 del 2018, che “A norma del suo art. 51 (nonché dell’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato sull’Unione europea e della Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, le disposizioni della Carta sono applicabili agli Stati membri solo quando questi agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione” (sentenza n. 63 del 2016 e nello stesso senso sentenza n. 111 del 2017); la Corte di cassazione , dal suo canto, si è sempre allineata alle posizioni delle due Corti, affermando l’irrilevanza della Carta dei diritti fondamentali nelle materie non regolate dal diritto UE, tanto al fine di respingere sia istanze di rinvio pregiudiziale, per evidente irrilevanza del richiamo rispetto alla controversia, sia richieste di disapplicazione di norma interne, per presunta contrarietà a diritti e principi riconosciuti nella Carta.

Non rientrando la materia degli obblighi vaccinali tra quelle di competenza dell’Unione, va escluso che l’art. 3 CDFUE sia una norma che possa da sola legittimare la disapplicazione di una normativa interna che imponga un obbligo di vaccinazione; costituiscono invece materie di competenza UE la libera circolazione tra gli Stati membri nonché il divieto di discriminazione in ambiente lavorativo, su cui potrebbe indirettamente incidere l’imposizione dell’obbligo, ma in tal caso la verifica andrebbe fatta con riferimento a questi specifici contesti, ed in applicazione della normativa secondaria dell’Unione che li disciplina.

In tema di libera circolazione, campo di elezione del diritto europeo in quanto pilastro fondamentale nel processo di integrazione e per l’esercizio di altri diritti fondamentali, è intervenuto il Regolamento 2021/953/UE, approvato dal Parlamento e dal Consiglio il 14 giugno 2021, che, al solo fine di agevolare la libera circolazione sicura dei cittadini nell’UE durante la pandemia, ha introdotto il certificato COVID digitale quale strumento di facilitazione della libertà di spostarsi entro lo spazio europeo.

Al considerando 6 del Regolamento 2021/953/UE il legislatore dell’Unione ricorda che gli Stati membri possono limitare il diritto fondamentale alla libera circolazione per motivi di sanità pubblica e che tutte le restrizioni alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione, attuate per limitare la diffusione del SARS-CoV-2, dovrebbero basarsi su motivi specifici e limitati di interesse pubblico, quale è la tutela della salute pubblica, come sottolineato nella Raccomandazione 2020/1475/UE, ed essere applicate conformemente ai principi generali del diritto dell’Unione, quali la proporzionalità e la non discriminazione.

Con riferimento alla discriminazione, il considerando n. 36 dello stesso Regolamento chiarisce che, essendo necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, o perché non rientrano nel gruppo di soggetti vaccinabili, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o “hanno scelto di non essere vaccinate” “il possesso di un certificato di vaccinazione, o di un certificato di vaccinazione che attesti l’uso di uno specifico vaccino anti Covid-19, non dovrebbe costituire una condizione preliminare per l’esercizio del diritto di libera circolazione o per l’utilizzo di servizi di trasporto passeggeri transfrontalieri quali linee aeree, treni, pullman, traghetti o qualsiasi altro mezzo di trasporto. Inoltre, il presente regolamento non può essere interpretato nel senso che istituisce un diritto o un obbligo a essere vaccinati”

Nella prima versione in lingua italiana del Regolamento, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 15 giugno 2021 serie L 211/1, era stato omesso l’inciso “hanno scelto di non essere vaccinate”; segnalata l’anomalia, non senza polemiche, la rettifica è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 5 luglio 2021 serie L 236/6.

Posto tale dato normativo, ed a prescindere dall’efficacia o meno di tale rettifica messa in dubbio per il mancato consolidamento con una nuova pubblicazione del testo rettificato, non sembra che da tale considerando possa desumersi l’introduzione di un nuovo fattore di discriminazione protetto, quale “la scelta di non essere vaccinati”.

A parte il rilievo che l’indicazione in questione è contenuta in un “considerando” che, come chiarito dalla Guida pratica alla redazione degli atti normativi europei, hanno la funzione di motivare le norme contenute nei testi legislativi ma, a differenza degli articoli, “non contengono enunciati di carattere normativo” - come evidente dall’utilizzo nello stesso testo del condizionale “dovrebbe” che non ha evidentemente natura precettiva-, lo stesso articolato precisa che non rientra nell’oggetto del Regolamento l’introduzione di un diritto o obbligo ad essere vaccinati e che la discriminazione determinata dal possesso o meno di una certificazione di vaccinazione va evitata “per l’esercizio del diritto di libera circolazione o per l’utilizzo di servizi di trasporto passeggeri transfrontalieri quali linee aeree, treni, pullman, traghetti o qualsiasi altro mezzo di trasporto.”

Così circoscritto l’ambito applicativo della previsione, resta fermo che nulla impedisce agli Stati membri di introdurre, per ragioni di sanità pubblica, condizioni più restrittive, che abbiano una finalità legittima e siano con tale finalità proporzionate, in ambiti che, in quanto non sono oggetto di disciplina unionale, rientrano nella competenza dei singoli Stati; ne consegue che una norma che introduca l’obbligo vaccinale anti Covid-19 nell’ordinamento nazionale rispettando tali criteri non potrebbe mai essere disapplicata per contrasto con il considerando 36 del Regolamento UE 2021/953.

Da escludere anche che l’introduzione dell’obbligo vaccinale in ambito lavorativo possa costituire ex se una discriminazione “per convinzioni personali” di coloro che sono per scelta contrari alla vaccinazione, come tale vietata dall’art. 1 del d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216 che ha dato attuazione alla direttiva antidiscriminatoria 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro dei lavoratori dipendenti e autonomi.

Ai sensi dell’art. 3, comma 3, dello stesso decreto (di attuazione dell’art. 4 comma 1 della direttiva 2000/78/CE), nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, non sussiste discriminazione quando le differenze di trattamento sono dovute a caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa, per la natura stessa dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata.

Ad esempio, nel caso del personale sanitario, difficile dubitare che l’obbligo di vaccinazione anti Covid-19, nell’attuale contesto pandemico, non costituisca un requisito essenziale per quella specifica attività lavorativa, introdotto per una finalità legittima, quale la tutela della salute dei pazienti ed anche della salute e della sicurezza delle condizioni di lavoro degli stessi lavoratori, e che tale misura non risulti ragionevole e proporzionata, in quanto di natura temporanea oltre che sanzionata, in caso di inadempimento, con una mera sospensione del rapporto, coerente con l’essenzialità e temporaneità del requisito.

Argomenti favorevoli alla legittimità degli obblighi di vaccinazione si rinvengono anche nella giurisprudenza della Corte EDU; la sentenza Grande Camera 8 aprile 2021 ha sancito la compatibilità con l’art. 8 della Convenzione dell’obbligo vaccinale infantile (contro nove malattie, tra cui poliomielite, tetano ed epatite B) previsto dall’ordinamento della Repubblica Ceca quale condizione per l’ammissione al sistema educativo prescolare.

La Corte EDU afferma che costituisce un obbiettivo legittimo per l’ingerenza nella vita privata che l’obbligo vaccinale comporta, la protezione della salute collettiva e in particolare di quella di chi si trovi in uno stato di particolare vulnerabilità (par. 272); quanto al requisito della necessità della misura, la Corte afferma che il bisogno sociale deriva dalla consapevolezza che la vaccinazione infantile è una misura chiave nelle politiche di salute pubblica (par. 281); per la rilevanza e sufficienza delle ragioni fa riferimento alla rispondenza della vaccinazione obbligatoria al miglior interesse dei bambini (par. 288); per la proporzionalità, alle garanzie specifiche del procedimento di somministrazione, che è preceduto da un’anamnesi individuale, e alla previsione di un meccanismo compensativo per gli eventuali danni.

Motivazioni perfettamente sovrapponibili a quelle utilizzate dalla nostra Corte costituzionale per giustificare analoghi obblighi.

In riferimento alla vaccinazione contro il Covid-19, con la pronuncia 24 agosto 2021, n. 41950/21, in un caso in cui si discuteva della legittimità dell’obbligo imposto dalla legge francese n. 2021-1040 del 5 agosto 2021, agli impiegati pubblici e, segnatamente, ai 672 vigili del fuoco ricorrenti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto la richiesta di applicazione di misure ad interim (art. 39, Reg. esec.), ritenendo che non vi fosse alcun fumus di violazione delle norme convenzionali evocate (artt. 2 ed 8, che tutelano il diritto alla vita ed il diritto alla vita privata e familiare).

Secondo la Corte non vi erano le condizioni per concedere le misure urgenti richieste (“sospendere l’obbligo vaccinale” o in alternativa “sospendere l’impossibilità di lavorare per chi non è vaccinato” oppure “non sospendere il pagamento del salario per i non vaccinati”), in quanto la situazione dei vigili del fuoco non ricadeva tra i casi che richiedono un’azione immediata.

Il Consiglio d’Europa ha adottato, in materia, due risoluzioni, atti che non hanno valore vincolante, ma che contengono una serie di raccomandazioni e consigli rivolti agli Stati firmatari della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo in relazione alla distribuzione e alla somministrazione dei vaccini contro il Covid-19.

Nella Risoluzione n. 2361 del 27 gennaio 2021 dell’Assemblea Parlamentare (Vaccini contro il Covid-19: considerazioni etiche, giuridiche e pratiche), si suggerisce una campagna vaccinale non obbligatoria e di “garantire che nessuno sia discriminato per non essere vaccinato, a causa di potenziali rischi per la salute o per non voler essere vaccinato”, mentre nella Risoluzione n. 2383 del 23 giugno 2021 si afferma che “Se i covid pass vengono utilizzati per giustificare l’applicazione di un trattamento preferenziale, possono avere un impatto sui diritti e sulle libertà garantite” e che “Tale trattamento privilegiato può costituire una discriminazione illegittima ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione se è privo di giustificazione oggettiva e ragionevole”.

Sebbene tali indicazioni siamo state lette come una manifestazione di contrarietà all’imposizione di obblighi vaccinali, le stesse confermano che, nell’ambito dell’esercizio del margine di apprezzamento riconosciuto a ciascuno Stato - che in assenza in materia di una disciplina europea interamente condivisa, assume una particolare ampiezza –, ogni limitazione imposta dagli ordinamenti nazionali a coloro che non intendano vaccinarsi contro il Covid-19, va ritenuta compatibile con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo se sussiste una giustificazione oggettiva e ragionevole che ne escluda la natura di discriminazione illegittima ai sensi dell’art. 14 CEDU, esclusione che per la legislazione italiana può individuarsi nelle stesse ragioni innanzi evidenziate in riferimento alla disciplina dell’Unione.

5. L’obbligo vaccinale alla luce dei principi costituzionali.

Il tema delle vaccinazioni e del loro obbligo, tornato al centro dell’attenzione con l’apertura della campagna vaccinale contro il virus Covid-19, è da tempo protagonista del dibattito giuridico ed è stato più volte oggetto del sindacato del Giudice delle leggi.

Nel nostro ordinamento la vaccinazione obbligatoria è un istituto noto, attualmente disciplinato dal d.l. 7 giugno 2017 n. 73, conv. dalla l. 31 luglio 2017, n. 119, che prevede l’obbligo di somministrazione per dodici vaccini, come requisito per l’iscrizione alla frequenza dei corsi scolastici, imponendo ai dirigenti scolastici ed ai responsabili dei servizi educativi di ottenere, all’atto di iscrizione del minore in età scolare (compresa tra zero e sedici anni), la documentazione comprovante l’effettuazione delle vaccinazioni prescritte.

L’imposizione di un obbligo vaccinale impatta la tutela del diritto alla salute e la riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32 Cost.

Per ridimensionare le posizioni estremizzate di quanti paventano con enfasi l’intangibilità assoluta dei diritti individuali sarebbe sufficiente richiamare quanto affermato dalla Corte costituzionale al suo esordio nel sindacato delle leggi a tutela dei diritti; nella sentenza n. 1 del 1956 si legge infatti: “Tuttavia è da rilevare, in via generale, che la norma la quale attribuisce un diritto non escluda il regolamento dell’esercizio di esso. Una disciplina delle modalità di esercizio di un diritto, in modo che l’attività di un individuo rivolta al perseguimento dei propri fini si concili con il perseguimento dei fini degli altri, non sarebbe perciò da considerare di per sé violazione o negazione del diritto. E se pure si pensasse che dalla disciplina dell’esercizio può anche derivare indirettamente un certo limite al diritto stesso, bisognerebbe ricordare che il concetto di limite è insito nel concetto di diritto e che nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile”.

In attuazione di tale enunciato la Consulta ha più volte affermato che il diritto alla salute è “riconosciuto e garantito dall’art. 32 della Costituzione come un diritto primario e fondamentale che impone piena ed esaustiva tutela”; esso si articola in situazioni giuridiche soggettive che possono variare a seconda della natura e del tipo di protezione che l’ordinamento costituzionale assicura al bene dell’integrità e dell’equilibrio psico-fisico della persona ed in quanto diritto erga omnes, immediatamente garantito dalla Costituzione, è azionabile direttamente dai soggetti legittimati nei confronti degli autori dei comportamenti illeciti, lasciando tuttavia alla discrezionalità del legislatore la scelta degli strumenti, dei tempi e dei modi per la sua tutela.

L’art. 32 ha un contenuto bidirezionale in quanto postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo, anche nel suo contenuto di libertà di cura, con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività; l’imposizione di un obbligo vaccinale è giustificato dal primo comma ai sensi del quale “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, in quanto è scientificamente provato e riconosciuto che i vaccini costituiscono una delle misure preventive più efficaci, con un rapporto rischi/benefici particolarmente elevato ed un valore etico intrinseco assai rilevante, in quanto espressione del dovere di solidarietà.

L’obbligatorietà di un trattamento sanitario va poi ad incidere sul diritto all’autodeterminazione in materia di salute che viene richiamato non ai fini di legittimare il rifiuto di un trattamento sanitario, bensì per riconoscere la facoltà di esercitare in tale materia una scelta libera e consapevole; circa la definizione di “trattamento sanitario” risulta ormai approdo condiviso che nella predetta nozione vadano inserite tutte le attività finalizzate a tutelare la salute, o propedeutiche a questo scopo, e dunque di carattere diagnostico, d’indagine o preventivo.

Quanto alla natura della riserva di legge prevista dall’art. 32, comma 2, Cost. si ritiene che mentre i trattamenti sanitari coattivi sono coperti da riserva assoluta di legge (statale), su quelli meramente obbligatori insiste una riserva di legge relativa; pacifico anche che la riserva di cui all’art. 32 Cost. non è riferita alla “legge formale”, ma può essere costituzionalmente soddisfatta mediante l’adozione di un decreto-legge, fatti salvi i requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza” stabiliti dall’art. 77 Cost. nonché i limiti imposti dall’art. 32 Cost. ai trattamenti sanitari obbligatori (tutela della salute pubblica e rispetto della persona umana), come peraltro già espressamente riconosciuto dalla Consulta in relazione al d.l. n. 73 del 2017.

In ordine alla legittimità costituzionale della previsione di un obbligo vaccinale rispetto al diritto all’autodeterminazione della persona, si è autorevolmente evidenziato che pur costituendo l’autodeterminazione “certamente un bene prezioso, come tale meritevole di essere protetto”, come tutti i diritti fondamentali “può andare (ed effettivamente va) incontro a limiti e vincoli dalla varia natura ed intensità, specificamente fondati sul dovere di solidarietà, e perciò giustificati in nome dei diritti degli altri o – il che è praticamente lo stesso – dell’interesse della collettività” [RUGGERI, www.dirittifondamentali.it, 2/2021].

Nella Carta costituzionale non trova cittadinanza “una visione onnivora dell’autodeterminazione” non solo in via generale, ma proprio in relazione alla salute, laddove l’art. 32 Cost espressamente ne prefigura il carattere recessivo giustificato dal bisogno di salvaguardare sia la salute degli interessati e sia (e soprattutto) quella dell’intera collettività; “il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali quello dell’autodeterminazione in funzione della realizzazione dei progetti di vita e della crescita e maturazione della personalità di ogni individuo, al contempo e in egual misura riconosce l’adempimento dei doveri di solidarietà, in difetto del quale lo stesso vivere insieme e fare appunto “comunità” resterebbe cosa vuota, senza alcun senso”; un dovere che a sua volta va coniugato con “quello di fedeltà alla Repubblica, al quale dà e dal quale riceve luce ed alimento”

5.1. Le condizioni di legittimità di un obbligo vaccinale.

Secondo l’interpretazione da tempo consolidata della Corte costituzionale un trattamento sanitario obbligatorio è conforme all’art. 32 Cost. ove sia diretto a migliorare o preservare lo stato di salute del soggetto a cui è diretto, e non incida negativamente sulla salute del destinatario; l’imposizione di un obbligo vaccinale, previsto con legge dello Stato, che risponda ad un interesse della collettività, può dunque annoverarsi tra i trattamenti sanitari obbligatori, volti alla tutela della salute, ex art. 32 Cost., con conseguente costituzionalità delle prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie finalizzate a garantire questo risultato.

Per le vaccinazioni ricorrono le condizioni richieste per imporre un trattamento sanitario, ai sensi dell’art. 32, comma 2, Cost. perché la loro finalità è quella di preservare dal contagio sia chi la riceve, sia gli altri, ed in particolare coloro che non l’hanno ancora ricevuta o non possono riceverla, e perché nella normalità dei casi chi vi si sottopone sopporta al massimo conseguenze lievi e temporanee, trascurabili anche a fronte dei benefici immunitari e dei gravi rischi che, altrimenti, potrebbero insorgere.

Utile ripercorrere il percorso argomentativo che ha portato la Consulta, nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, a dichiarare la legittimità costituzionale del decreto Lorenzin (d.l. n. 73 del 2017) che, intervenendo in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia, (nella specie un’epidemia di morbillo con 4.855 casi e 4 decessi), ha confermato l’obbligo per le quattro vaccinazioni già previste e l’ha introdotto per altre sei vaccinazioni che già erano offerte alla popolazione come “raccomandate”.

Questi i punti di motivazione essenziali:

- quanto alla previsione per legge: escluso che l’imposizione possa avvenire a mezzo D.P.C.M. o decreti ministeriali, non può negarsi legittimità al ricorso alla decretazione d’urgenza; sul punto la Corte ha ritenuto sufficiente a configurare i prescritti requisiti di necessità ed urgenza di carattere straordinario un contesto di copertura vaccinale insoddisfacente nel presente e incline alla criticità nel futuro rientrando “nella discrezionalità - e nella responsabilità politica - degli organi di governo apprezzare la sopraggiunta urgenza di intervenire, alla luce del nuovi dati e del fenomeni epidemiologici frattanto emersi, anche in nome del principio di precauzione che deve presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione”;

- quanto alla competenza statale: con riferimento alla materia dei vaccini, nei vari profili coinvolti (“tutela della salute”, “livelli essenziali”, “profilassi internazionale”, “norme generali sull’istruzione”), sussiste una prevalenza degli interessi statali su quelli regionali e quindi una “compressione necessaria” delle attribuzioni regionali, al fine di tutelare la collettività. Il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica deve essere garantito in condizione di uguaglianza in tutto il territorio nazionale attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.

Tale principio vale sia per le scelte dirette a limitare o a vietare determinate terapie o trattamenti sanitari, sia per quelle di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili, in quanto in materia di profilassi sanitaria la necessità di prevenire la diffusione di malattie richiede l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale, al fine di garantire la c.d. “immunità di gregge".

Nella sentenza n. 37 del 2021, che ha dichiarato l’incostituzionalità della legge della Regione Valle d’Aosta n. 11 del 2020 - già sospesa cautelarmente con ordinanza costituzionale n. 4/2021. - contenente misure di contenimento della diffusione del contagio da Covid-19 di minor rigore rispetto a quelle statali - la Corte ha riaffermato che rientra nella competenza esclusiva dello Stato adottare misure obbligatorie in materia di profilassi internazionale (art. 117, comma 2, lett. q), Cost): ambito che include la prevenzione o il contrasto delle malattie pandemiche, con una larga distribuzione geografica tanto da essere connotate da una diffusività che può essere reputata “internazionale” ;

- quanto alla compatibilità con l’art. 32 Cost: la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria ;

- quanto alla scelta tra obbligo e raccomandazione: premesso che i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici, coinvolgendo oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nella scelta delle cure sanitarie per la tutela della propria salute anche l’interesse della collettività alla protezione della salute di tutti, ed in particolare dei soggetti più deboli ed esposti, c’è spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo.

Tale discrezionalità va esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia; si richiede dunque che il rafforzamento della cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, renda quell’intervento in termini di obbligatorietà non irragionevole rispetto allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche.

Interessante sul piano del bilanciamento dei valori anche la motivazione della sentenza n. 258 del 23 giugno 1994 ove la Consulta, nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità della normativa che aveva introdotto la vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B - impugnata per la omessa previsione di accertamenti preventivi idonei a mettere il vaccinando in condizioni di minore rischio possibile, ritenendosi la visita obiettiva e la raccolta dell’anamnesi non sufficienti per escludere la presenza delle molteplici patologie, anche asintomatiche, che costituiscono controindicazioni alle vaccinazioni -, ha evidenziato la necessità di procedere sempre ad un bilanciamento tra la salvaguardia del valore della salute collettiva e quello della salute dell’individuo stesso a cui sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie.

Dato per acquisito che non sussiste una vaccinazione “a rischio zero”, pur nella consapevolezza dell’esistenza di accertamenti complessi che, alla luce delle conoscenze scientifiche acquisite, possano individuare con la maggiore precisione possibile le complicanze potenzialmente derivabili dalla vaccinazione e determinare se e quali strumenti diagnostici idonei a prevederne la concreta verificabilità siano praticabili su un piano di effettiva fattibilità, la Corte rileva che una prescrizione indiscriminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie, renderebbe di fatto praticamente impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari.

In conclusione, posto che in linea di principio l’imposizione di un obbligo vaccinale trova il suo legittimo fondamento nel combinato disposto degli artt. 2 e 32 della Costituzione, le condizioni che devono essere rispettate per garantirne la legittimità possono essere così sintetizzate:

1) previsione per legge e competenza statale esclusiva;

2) idoneità a tutelare la salute del singolo e della collettività e ragionevolezza della scelta alla luce dell’evidenza scientifica.

Il rispetto di tali presupposti, come meglio specificati dalla giurisprudenza costituzionale, pone un qualsiasi intervento legislativo di introduzione di un obbligo vaccinale al riparo da dubbi di legittimità costituzionale.

5.2. L’idoneità del vaccino anti Covid-19 ad una previsione di obbligatorietà.

In riferimento ai vaccini anti Covid-19 disponibili, anche i più scettici rispetto alle sollecitazioni della comunità scientifica “istituzionale”, non possono negare che la vaccinazione completa – per ora attestata sulla somministrazione della terza dose – garantisca una copertura sensibilmente maggiore dal ricovero in ospedale, sia in reparti ordinari che in terapia intensiva, e dal decesso; secondo i rapporti dell’ISS, ed anche le rilevazioni statistiche di altri organismi nazionali ed internazionali, confermati dal confronto con i dati dei corrispondenti periodi pre-vaccinazione, la campagna vaccinale ha drasticamente diminuito le ospedalizzazioni, le complicazioni in caso di infezione e la mortalità in caso di complicazioni.

Rispetto a tali conclamati benefici sembrano recedere gli argomenti contrari fondati:

1) sulla durata temporalmente limitata dell’immunizzazione, a cui si può agevolmente ovviare con la periodicità della somministrazione, come già previsto per il vaccino antiinfluenzale, ovviamente sino al perdurare dell’emergenza pandemica;

2) sulla possibilità che anche un soggetto vaccinato contragga il virus e lo trasmetta, risultando documentato che il soggetto vaccinato sviluppa nella maggior parte dei casi una malattia asintomatica o con sintomi lievi, con riduzione proporzionale della carica virale e quindi della capacità di trasmissione del virus.

Determinante poi, per la tutela della salute pubblica e della salute individuale dei soggetti più fragili, il beneficio assoluto che la riduzione della pressione sul servizio sanitario nazionale determinata dalla massiccia affluenza dei pazienti affetti da Coronavirus apporta al ritorno a standard di efficienza minimi nelle attività di prevenzione e di cura di tutte le altre patologie, di cui ci si continua ad ammalare e a morire, che, inevitabilmente, hanno subito una battura di arresto nel periodo più ingravescente dell’emergenza pandemica.

Da molti si è messa in dubbio la sicurezza dei vaccini anti-Covid-19 partendo dalla considerazione che l’esigenza di pervenire nel più breve tempo possibile alla loro produzione avrebbe indotto ad autorizzarne la distribuzione ancora nella fase di sperimentazione, o sulla base di una sperimentazione insufficiente, o comunque provvisoria e rivedibile, e senza una adeguata valutazione degli effetti collaterali di medio e lungo periodo.

Quanto ad efficacia e sicurezza, i vaccini fino ad ora approvati dalle rispettive autorità competenti risultano aver superato le tre fasi necessarie ai fini dell’omologazione della sperimentazione, secondo le regole tecniche, etiche e giuridiche attualmente in vigore.

In Italia le autorità pubbliche competenti vanno individuate nell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e nell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

In merito all’efficacia, i bollettini periodici sull’andamento dell’epidemia prodotti dall’ISS, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, istituzionalmente deputato alle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con d.m. 24.10.2014), attestano con l’evidenza dei dati statistici, che la profilassi vaccinale ha efficacia preventiva sia nel contenere i sintomi della malattia, riducendo drasticamente il rischio di incorrere in sindromi gravi, sia nella trasmissione dell’infezione, incidendo sul livello di contagiosità del singolo in caso di contrazione del virus.

In merito alla sicurezza, il monitoraggio costante effettuato dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), attraverso il sistema di farmacovigilanza che raccoglie e valuta tutte le segnalazioni di eventi avversi, evidenzia un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile in quanto i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi avversi correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica, con una incidenza delle reazioni negative di breve periodo molto bassa, e appena di poco superiore rispetto a quelle conosciute da anni per i vaccini ordinari, dato estremamente incoraggiante tenuto conto del ridotto periodo di osservazione.

Da smentire anche che la natura sperimentale dei vaccini sarebbe desumibile dall’approvazione in tempi brevi, sulla base di una procedura di autorizzazione all’ “immissione in commercio condizionata” (cd. CMA), disciplinata dall’art. 14-bis del Regolamento CE/726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Regolamento CE/507/2006 della Commissione.

Tutti i vaccini anti Covid-19 non hanno la natura di vaccini sperimentali, in quanto sono stati immessi in commercio all’esito del completamento del prescritto ciclo di sperimentazione.

La normativa UE prevede da sempre uno strumento normativo specifico per consentire la rapida messa a disposizione di medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza, la cd CMA, concepita per consentire una autorizzazione il più rapida possibile, sempre che siano disponibili dati sufficienti a fornire un solido quadro per la sicurezza, le garanzie e i controlli post-autorizzazione e valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini nel corso di una campagna di vaccinazione di massa; la presenza di queste condizioni consente di distinguere nettamente questa ipotesi da quella della c.d. “autorizzazione di emergenza”, istituto diverso che non autorizza un vaccino, bensì l’uso temporaneo di un vaccino non autorizzato.

La commercializzazione di un vaccino, in base alla normativa europea vigente, prevede in primo luogo una raccomandazione da parte della Agenzia europea per i medicinali (Ema) che valuta la sicurezza, l’efficacia e la qualità del vaccino, sulla cui base la Commissione europea procede ad autorizzare la commercializzazione nel mercato dell’UE, dopo aver consultato gli Stati membri che debbono esprimersi favorevolmente a maggioranza qualificata.

Tutti gli Stati membri dell’UE hanno formalmente sottoscritto la strategia sui vaccini proposta dalla Commissione, convenendo congiuntamente di applicare la procedura di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata attraverso l’Agenzia europea per i medicinali per i vaccini anti Covid-19.

Non corrisponde neanche al vero che si tratti di una procedura extra ordinem, creata allo scopo di fronteggiare l’emergenza della pandemia, risultando in passato già applicata per ben trenta volte; che si tratti solo di una questione temporale è infine confermato dal fatto che il 23 agosto 2021 la Food and drug administration (FDA) ha approvato negli Usa in via definitiva il vaccino Pfizer.

Ne consegue che, allo stato dell’arte, il rapporto costi/benefici risulta pendere a favore dei secondi e che, pertanto, un eventuale obbligo di vaccinazione anti Covid-19, previsto mediante una legge statale, dovrebbe superare con un elevato grado di probabilità il vaglio di costituzionalità.

Verificando a titolo esemplificativo la legittimità costituzionale dell’obbligo imposto in ambito sanitario dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 (su cui si è di recente già espresso il Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021), rileva che l’obbligo è stato previsto attraverso un atto avente forza di legge, adottato dallo Stato, e quindi operante sull’intero territorio nazionale, per un periodo temporale limitato, coincidente con quello emergenziale.

Sui presupposti di necessità ed urgenza di carattere straordinario richiesti ex art. 77, comma 2, Cost. basta richiamare le ragioni che hanno giustificato la dichiarazione dello stato di emergenza, nonché l’allarme causato dai dati statistici che segnalavano una certa ritrosia ad aderire alla campagna vaccinale riscontrata proprio nel personale sanitario, unitamente all’agghiacciante bilancio giornaliero di decessi nelle case di cura per pazienti anziani ed all’elevata diffusività dei contagi in ambito ospedaliero.

La conformità all’art. 32 Cost è assicurata dalle finalità espresse dalla norma, volta a tutelare sia la salute individuale che quella collettiva; l’obbligo è imposto sia “al fine di tutelare la salute pubblica”, ma anche quale requisito essenziale per lo svolgimento di determinate attività, al fine di “mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle mansioni di cura e assistenza da parte dei suddetti soggetti”; la vaccinazione diventa dunque una misura, tipizzata dalla legge, per l’adempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. ed il rifiuto di vaccinarsi incide sul profilo oggettivo dell’idoneità del soggetto all’espletamento di determinate mansioni.

La scelta del legislatore a favore dell’obbligo, e non della raccomandazione, non appare inoltre irragionevole in quanto fondata sulle evidenze della ricerca scientifica in termini di contenimento del contagio, in combinato disposto con le specifiche mansioni svolte dai destinatari, le condizioni di fragilità dei pazienti, il rischio concreto di una mancata adesione volontaria alla campagna di vaccinazione di una parte non indifferente del personale medico.

Non si profila neanche una violazione del principio di uguaglianza, che impone comunque di trattare in maniera disuguale situazioni non comparabili, rispetto alla generalità dei cittadini, risultando innegabile che siamo in presenza di una categoria di lavoratori particolarmente “sensibile” dal punto di vista dell’esposizione personale al rischio di contagio e della pericolosa capacità diffusiva in contesti di fragilità.

L’imposizione dell’obbligo vaccinale, oltre che giustificata dalle peculiarietà delle mansioni, non risulta discriminatoria anche sotto altri profili, dal momento che persegue una finalità legittima, collegata alla tutela della salute e delle condizioni di lavoro, e risulta proporzionata rispetto a tale finalità, in quanto ha durata temporanea parametrata all’emergenza pandemica e non determina l’applicazione di sanzioni espulsive, ma solo un effetto di sospensione del rapporto di lavoro in misura della sua durata.

Sul punto della rilevanza in ambito lavorativo delle esigenze di tutela della salute dei terzi si ricorda che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 218 del 2 giugno 1994 , a proposito della necessità di accertamenti obbligatori per infezione da HIV nell’ambito delle attività di assistenza e cura, ha affermato che, in presenza di un pericolo per la salute dei terzi, sia incostituzionale una legge che non preveda l’obbligo del lavoratore, portatore del rischio, di sottoporsi a trattamento sanitario obbligatorio, in ragione della necessità di garantire il diritto fondamentale alla salute degli altri soggetti, prevalente sulla libertà di chi decide di non curarsi.

6. L’obbligatorietà della “Certificazione verde Covid-19”.

Con sempre maggiore vigore la scelta del legislatore si è orientata nel senso di incentivare la campagna vaccinale mediante l’estensione dell’obbligatorietà del Green pass base che, introdotto come limite all’accesso a servizi ed attività ritenute ad alto rischio di contagio, costituisce oggi un requisito oggettivo di idoneità al lavoro; quanto al più recente obbligo di super Green pass è invece evidente che una verifica di legittimità non può che essere effettuata con gli stessi parametri utilizzabili per le norme che introducono gli obblighi vaccinali.

Opportuno precisare che l’obbligo di possedere e mostrare, su richiesta, il Green pass, nel duplice contenuto base o rafforzato, pur costituendo una indubbia forma di pressione operata dal legislatore per indurre i soggetti destinatari dell’obbligo alla vaccinazione, va comunque distinto dall’obbligo vaccinale, seppure l’adempimento ai due obblighi venga a coincidere per i soggetti vaccinati.

Il certificato verde non è un documento sanitario, bensì una mera certificazione che attesta, secondo i rispettivi regimi quanto a presupposti di rilascio e di durata, l’avvenuta vaccinazione anti COVID-19, la guarigione da COVID-19 o l’effettuazione di un test diagnostico abilitato con esito negativo, qualificati dal legislatore come requisiti di idoneità sanitaria per l’accesso a servizi, luoghi o per lo svolgimento di diverse attività, anche lavorative.

In Italia l’introduzione della CVC e la progressiva estensione della sua obbligatorietà sono state accompagnate da molte critiche. [OSSERVATORIO PER LA LEGALITÀ COSTITUZIONALE, Questione giustizia, 2021; VITALE, Giustizia insieme, 2021]

Si è osservato, polemicamente, che il certificato verde digitale è stato previsto dal Regolamento (UE) 2021/953, al solo fine di agevolare la libera circolazione sicura dei cittadini nell’UE durante la pandemia da Covid-19, e dunque quale strumento di facilitazione e non di compressione di una libertà, ovvero quella di spostarsi liberamente tanto entro i confini nazionali quanto entro lo spazio europeo.

Di contro le applicazioni dello strumento nel nostro ordinamento interno, la cui valenza da informativa sarebbe stata trasformata in precettiva, sono state ritenute contrarie sia all’ordinamento europeo, tanto da sollecitare il ricorso da parte dei giudici ad istituti quali disapplicazione e rinvio pregiudiziale, che al nostro ordinamento costituzionale, in quanto, pur in assenza di un obbligo vaccinale, sarebbero stati introdotti irragionevoli e non proporzionati trattamenti differenziati, che costituirebbero “l’imposizione, surrettizia e indiretta, di un obbligo vaccinale per quanti intendano circolare liberamente e/o usufruire dei suddetti servizi o spazi. Ne conseguirebbe la violazione della libertà personale, intesa quale legittimo rifiuto di un trattamento sanitario non obbligatorio per legge, o comunque di continue e quotidiane pratiche invasive e costose quali il tampone.”

Quanto ai problemi di compatibilità comunitaria, ed in particolare di un paventato contrasto con l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, appare sufficiente richiamare le considerazioni già svolte in tema di obbligo vaccinale.

Rileva altresì che il Green pass, in sintonia con le indicazioni europee, è stato strutturato non come un meccanismo che determina una limitazione delle libertà, bensì come uno strumento che, oltre a perseguire la meritevole finalità di incentivare e non imporre la vaccinazione, crea le condizioni in presenza delle quali determinati diritti, anche fondamentali, possano essere esercitati in sicurezza nel rispetto dei diritti altrui e del dovere di solidarietà, al fine di evitare situazioni che possano causare una diffusione del virus; non da ultimo merita sottolineare che costituisce una misura ragionevolmente idonea ad assicurare la ripresa di tutte quelle attività economiche e produttive che, in quanto espletate in condizioni di un più elevato rischio di contagiosità, avevano subito maggiori restrizioni durante le fasi iniziali dell’emergenza.

La CVC, inoltre, sembra presentarsi in perfetta sintonia con la lettera del Regolamento UE 2021/953 che, nella versione rettificata dei primi di luglio riconosce il libero rifiuto di persone che “hanno scelto di non vaccinarsi” e vieta discriminazioni per tale ragione, in quanto ne è previsto il rilascio anche in assenza di vaccinazione, mediante il ricorso a misure alternative di natura diagnostica.

Anche quanto alla legittimità costituzionale dell’obbligo, sembra sufficiente il rinvio alle considerazioni già svolte in merito all’obbligo vaccinale; si ricorda che l’obbligatorietà della CVC è stata introdotta mediante un atto avente forza di legge, sulla base di risultanze condivise dalla comunità scientifica, quanto all’incidenza positiva sulla salute collettiva in termini di riduzione della circolazione del virus, che trattasi di una misura di carattere temporaneo che non comporta un obbligo di cura né di vaccinazione, imposta per luoghi, attività e soggetti riconducibili a situazioni fattuali ove è particolarmente elevato il rischio di contagio.

Da altri si paventa che il Green pass potrebbe comportare seri pregiudizi di carattere sistematico, sull’intera struttura dei fondamenti ordinamentali e sulla concezione dello Stato di diritto, per il rischio che misure temporanee ed eccezionali diventino prassi e consuetudini delle nostre società; che sarebbe una misura contraddittoria dal punto di vista logico-fattuale, in quanto anche chi ne è provvisto potrebbe essere contagioso, dal punto di vista sistematico, perché costituisce un modo scorretto per aggirare l’obbligo vaccinale, dal punto di vista onto-assiologico perché priva dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (circolazione, lavoro, associazione, culto ecc.) alcuni soggetti per tutelare quelli di altri.

Quanto al timore che da strumento eccezionale divenga strumento di sorveglianza sanitaria ordinario, è agevole ribattere che attualmente l’obbligo ha durata temporanea, collegata al perdurare del rischio pandemico, tale critica andrà dunque verificata nel caso in cui il legislatore optasse per una protrazione della misura oltre la durata dell’emergenza; dal punto di vista fattuale si evidenzia che risulta scientificamente dimostrato che l’avvenuta vaccinazione, guarigione o attuale negatività al test riducano sensibilmente in caso di infezione la carica virale e quindi la diffusione del virus, mentre quanto al conflitto tra diritti del singolo e diritti dei consociati pare sufficiente richiamare quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale in merito agli obblighi vaccinali e più in generale sul tema dei limiti ai diritti.

Si contesta infine la legittimità dell’obbligo sul rilievo che il legislatore sarebbe ricorso a tale misura per aggirare, surrettiziamente, l’assenza dei presupposti scientifici e giuridici per l’introduzione dell’obbligo vaccinale.

Oltre ai riferimenti alla presunta natura sperimentale dei vaccini, su cui si rinvia a quanto già detto, queste le ulteriori obiezioni:

1) la preventiva acquisizione del consenso informato costituirebbe una forma di esonero da responsabilità civile da parte dello Stato e un sintomo di scarsa sicurezza dei vaccini.

Tale argomento risulta privo di base giuridica a fronte di un consolidato orientamento giurisprudenziale che, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, afferma che l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, con la conseguenza che l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti - rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all’integrità psicofisica - pregiudicati nelle due differenti ipotesi.

L’acquisizione del consenso informato prima della somministrazione del vaccino ha dunque la mera finalità di fornire al paziente una corretta informazione sul trattamento sanitario a cui lo stesso sarà sottoposto; la sua omissione giustifica di per sé una lesione risarcibile, ma il fatto che tale consenso venga reso a seguito di una corretta informazione non esclude che il sanitario, e la struttura pubblica ove questi opera, siano chiamati a rispondere, secondo i criteri e le regole probatorie civilistiche, di danni eventualmente prodotti in conseguenza della somministrazione;

2) l’esonero da responsabilità penale concesso agli operatori somministranti dall’art. 3 del d.l. 44 del 2021 sarebbe sintomatico di una scarsa sicurezza dei vaccini.

Secondo la relazione illustrativa, la disposizione in questione“ è espressione dei principi generali dell’imputazione soggettiva in materia di responsabilità penale per colpa e, in un’ottica di una maggiore certezza giuridica, mira a rassicurare il personale sanitario e in genere i soggetti coinvolti nelle attività di vaccinazione”; la finalità dell’esonero è dunque quella di evitare che “ la prospettiva di incorrere in possibili responsabilità penali…”possa “ ingenerare allarme tra quanti sono chiamati a fornire il proprio contributo al buon esito della campagna di vaccinazione nazionale…” L’introduzione del cd. scudo penale ha avuto la chiara funzione simbolica di alleggerire la pressione sul personale sanitario, già stressato dalla portata eccezionale ed epocale della pandemia da Coronavirus che, per le sue peculiarità ha determinato un elevatissimo numero di decessi, dal rischio di esposizione ad un contenzioso giudiziario generato dalla campagna vaccinale, e quindi di scongiurare atteggiamenti di astensione che avrebbero potuto avere delle ricadute negative sull’efficienza e sulla rapidità della somministrazione.

Tanto è confermato dal fatto che l’esclusione della responsabilità da somministrazione del vaccino anti-Covid-19 è ancorata all’osservanza delle regole cautelari che vengono in rilievo rispetto all’attività di vaccinazione: le indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e le circolari pubblicate sul sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione.

“Entrambi i requisiti sembrano valorizzare a fini esimenti il pervasivo apparato di farmacovigilanza – nel cui spettro si inserisce la vaccino-vigilanza – che sorveglia la sicurezza del prodotto immunologico al fine di assicurare la tutela della sanità pubblica, come sottintesa nel modulo autorizzativo al commercio, dal momento che proprio il suo esito incentra l’attività valutativa degli organi pubblici, con un set di controlli riguardanti l’intera “vita” del medicinale;” l’esenzione da responsabilità penale personale degli operatori è dunque giustificata dal rispetto di regole cautelari specifiche che derivano dal sistema pubblico di vigilanza in merito alla sicurezza del vaccino e non è al contrario la prova dell’assenza o dell’inadeguatezza di tali controlli;

3) lo Stato si sottrarrebbe all’obbligo di indennizzo previsto dalla l. 25 febbraio 1992, n. 210 solo in caso di danni irreversibili conseguenti a vaccinazioni obbligatorie.

Tale argomento è smentito dalla lettera della legge per coloro a cui il Green pass è richiesto per l’espletamento dell’attività lavorativa, in quanto il comma 4 dell’art. 1 estende il riconoscimento dell’indennizzo alle persone che ”per motivi di lavoro” si siano sottoposte a “vaccinazioni che, pur non essendo obbligatorie, risultino necessarie”; ebbene difficile negare che la vaccinazione anti Covid.19 non sia necessaria per motivi di lavoro per i soggetti a cui è stato imposto l’obbligo del possesso del Green pass per continuare a svolgere la propria attività lavorativa.

Per quanti la scelta della vaccinazione resta raccomandata, e non è necessitata dal lavoro, è indubbia la possibilità di una estensione in via interpretativa della giurisprudenza costituzionale.

La Consulta, da ultimo nella sentenza n. 118 del 2020 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della l. n. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A, raccomandata e non obbligatoria, ha evidenziato che “In presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli.”

La Consulta ha ripetutamente affermato che la necessaria traslazione in capo alla collettività anche degli effetti dannosi che eventualmente conseguano ad una vaccinazione raccomandata si giustifica perché la ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo, non risiede nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio, ma piuttosto sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale.

Sono le esigenze di solidarietà costituzionalmente previste, oltre che la tutela del diritto alla salute del singolo, a richiedere che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo, laddove la previsione del diritto all’indennizzo – in conseguenza di patologie in rapporto causale sia con una vaccinazione obbligatoria che raccomandata – non deriva da valutazioni negative sul grado di affidabilità medico-scientifica della somministrazione di vaccini, ma ha la funzione di completare il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute, e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione.

Ebbene mai in passato una vaccinazione non obbligatoria è stata accompagnata da una capillare ed insistente campagna di informazione e raccomandazione da parte delle autorità statali e sanitarie pubbliche come è avvenuto per la vaccinazione anti-Covid-19; quindi oltre a non sussistere alcun dubbio sull’accoglimento di una eventuale questione di legittimità costituzionale, non è azzardato affermare che vi potrebbe essere ampio spazio anche per una interpretazione conforme a Costituzione in tal senso, come già avvenuto per il riconoscimento dell’indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccinazione antipoliomielite somministrata nella vigenza della l. n. 695 del 1959, e quindi prima dell’introduzione dell’obbligo ex l. n. 51 del 1966.

  • giudice
  • danno
  • codice civile
  • bene immateriale

X)

VALUTAZIONE EQUITATIVA DEL DANNO NON PATRIMONIALE E SISTEMA “TABELLARE”

(di Luigi La Battaglia )

Sommario

1 I principi della valutazione equitativa. - 2 La liquidazione tabellare del danno da lesione della salute. - 3 La liquidazione tabellare del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. - 3.1 L’arresto di Sez. 3, n. 10579/2021. - 4 La liquidazione tabellare del “danno biologico da premorienza”. - 5 Conclusioni.

1. I principi della valutazione equitativa.

L’art. 1226 c.c. (richiamato, nel campo della responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2056 c.c.) dispone che “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con liquidazione equitativa”. L’esercizio del corrispondente potere postula che dell’esistenza del danno sia stata fornita adeguata prova e che sia impossibile (o estremamente difficile) un’esatta traduzione del pregiudizio in valori patrimoniali. Tale ultimo presupposto è consustanziale ai danni discendenti dalla lesione di interessi non patrimoniali della persona, sicché, con riguardo al danno non patrimoniale, si può dire che “la valutazione equitativa coincide tendenzialmente con la valutazione tout court, cioè con l’operazione tesa alla quantificazione del pregiudizio allegato” (122). In questo campo, la regola di giudizio in discorso persegue, dunque, la sintesi di due istanze concettualmente divergenti (per non dire antitetiche), espresse dalla necessità di traduzione monetaria di pregiudizi ontologicamente irriducibili in termini economici.

L’equità veicola istanze di proporzionalità e adeguatezza le quali, se non a restituire una misurazione oggettivamente corrispondente, in valore assoluto, all’effettiva entità del pregiudizio, consentono, da un lato, di evitare disparità di trattamento, e, dall’altro di modellare la quantificazione del risarcimento sulle peculiarità della fattispecie concreta. Alla stregua di tale premessa, appare evidente il collegamento della valutazione equitativa con il principio di integrale riparazione del danno, il quale esprime la necessità che il risarcimento corrisponda (senza sopravanzarla) all’intera gamma dei pregiudizi occorsi alla vittima in conseguenza del fatto illecito (123), in modo da non scadere al rango di mero indennizzo (con conseguente inammissibile arricchimento del danneggiante) né, all’opposto, di pena privata (124). In questo modo, si può far coesistere “giustizia del caso singolo” e salvaguardia del principio di uguaglianza, in modo da trattare casi analoghi allo stesso modo e casi dissimili in modo diverso (125).

Del pari evidente è il riflesso del canone valutativo in discorso sugli oneri di motivazione del giudice il quale, chiamato a prendere in considerazione tutte le circostanze acquisite al processo, all’esito del dispiegarsi degli oneri di allegazione e prova delle parti, è conseguentemente tenuto a dar conto del “peso” riconosciuto a ciascuna di esse nell’economia complessiva della fattispecie (126). Si esprime in questi termini, in motivazione, Sez. 3, n. 11724/2021, Vincenti, Rv. 661322-04, secondo cui “la norma dell’art. 1226 c.c. non autorizza un esercizio arbitrario del potere di liquidazione del danno, ma - sulla base delle allegazioni di parte - impone: a) da un lato, di considerare adeguatamente le specificità del caso concreto; b) dall’altro, di garantire la parità di trattamento a parità di danno”, tenuto conto che “il giudice del merito, nello scegliere il metodo equitativo, compie una valutazione discrezionale che, per non risultare arbitraria - e, dunque, insuscettibile di essere sindacata da questa Corte di legittimità -, postula la necessità che siano fornite congrue ragioni del processo logico attraverso il quale il criterio equitativo è stato espresso e quantificato, precisando gli elementi della fattispecie concreta tenuti presenti nel decidere” (127).

Da altro angolo visuale, non può trascurarsi di considerare come la liquidazione sia inevitabilmente influenzata dalla funzione che si intenda assegnare al risarcimento del danno non patrimoniale: funzione che, discostandosi da quella propriamente compensativa tipica del danno patrimoniale, è stata tratteggiata come “consolatorio-satisfattiva” (venendo corrisposto il denaro al danneggiato in funzione della realizzazione di interessi diversi da quello direttamente leso dall’illecito), ovvero individual-deterrente (restando la funzione stricto sensu punitiva delimitata dagli specifici presupposti delineati da Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01). Si pensi all’ipotesi in cui il risarcimento del danno morale venga incrementato in considerazione della natura dolosa dell’illecito (sempre - beninteso - sul presupposto che la gravità soggettiva della condotta abbia contribuito, in concreto, a incrementare il danno).

In definitiva, la parabola del danno alla persona si è sviluppata, nel corso del tempo, alla ricerca di parametri di liquidazione sempre più precisi, che da un lato non creassero discriminazioni tra i danneggiati e, dall’altro consentissero una monetizzazione del danno più fedele possibile alla peculiarità del caso concreto. Criterio privilegiato (per non dire necessitato), onde scongiurare la deriva dell’arbitrio giudiziale, è quello della comparazione ponderata coi precedenti (128), che trova il suo ulteriore compimento, nel senso di una più spiccata omogeneizzazione delle liquidazioni, nell’adozione di una vera e propria misurazione convenzionale, grazie alla quale è possibile trasformare con maggiore precisione i valori della persona incisi dall’illecito in un determinato quantum monetario (con tutto ciò che ne consegue in termini di prevedibilità delle decisioni, e quindi di general-deterrenza e deflazione del contenzioso).

Il metodo di cui si sta discorrendo ha trovato la propria compiuta espressione nelle c.d. “tabelle”, diffusesi in numerosi uffici giudiziari (inizialmente con riferimento al solo danno biologico, poi anche in relazione ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali), a partire dalla metà degli anni ‘90, per iniziativa di organismi spontaneamente sorti dalla collaborazione sinergica tra avvocati, magistrati, professori universitari, personale di cancelleria, medici legali (i c.d. Osservatori).

Per quel che riguarda la lesione della salute, il procedimento di conversione monetaria del danno biologico è stato agevolato dall’apporto della scienza medico-legale, grazie al quale è possibile convertire il dato descrittivo di una menomazione in un valore cardinale convenzionale, rappresentato dalla percentuale di invalidità permanente. Diverso discorso deve farsi per le ipotesi in cui il danno non patrimoniale derivi dalla lesione di altri diritti della personalità, privi di substrato organico (o comunque, insuscettibili di essere accertati secondo la criteriologia medico-legale). In questi casi, gli indici che il giudice deve tenere presente, al fine di orientare la liquidazione, sono il tipo di interesse leso, la gravità dell’offesa, le condizioni soggettive dei danneggiati, tutte circostanze il cui apprezzamento vale, anzitutto, ad attivare il ragionamento presuntivo preordinato alla prova del danno (129). È facile intuire, peraltro, che le tabelle elaborate, sulla base dell’analisi dei precedenti, per tali tipologie di danno, sono naturalmente più esposte al rischio di una minore efficacia uniformante, e ciò tanto più, quanto meno decifrabili siano i precedenti esaminati (nel senso di non potersi comprendere, dalla motivazione, quali siano stati in concreto i profili del danno-conseguenza valorizzati dal giudice per individuare l’importo monetario finale del risarcimento).

2. La liquidazione tabellare del danno da lesione della salute.

Sistema generalizzato per la liquidazione del danno alla persona derivante da lesione della salute è il metodo tabellare c.d. a punto variabile (130), caratterizzato da una flessibilità che consente di coniugare l’uniformità di trattamento con l’integralità del risarcimento. Al sistema a punto variabile si richiamano, anzitutto, gli artt. 138 e 139 c.ass. (come novellati dall’art. 1, commi 17 e 19, della l. n. 124 del 2017), con riguardo alla liquidazione del danno biologico derivante dalla circolazione stradale, nonché, in virtù del corrispondente rinvio, l’art. 7, comma 4, della l. n. 24 del 2017, per il danno alla salute da responsabilità sanitaria.

La medesima impostazione di fondo ispira anche le tabelle del Tribunale di Milano, elaborate per la prima volta nel 1995 e successivamente affermatesi su tutto il territorio nazionale per la liquidazione “generalizzata” del danno biologico (compreso quello da c.d. macropermanenti derivanti da circolazione stradale, nelle more dell’emanazione della tabella unica nazionale). Esse prevedevano un incremento dell’importo relativo al danno biologico (pari a una frazione di quest’ultimo), ai fini della liquidazione aggiuntiva del danno morale da sofferenza soggettiva (nonché una somma pro die per il risarcimento del danno da invalidità temporanea). Nel 2009, per adeguarsi al nuovo assetto impresso al danno non patrimoniale dagli arresti delle Sezioni Unite dell’anno precedente (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605495-01), fu abbandonata la separata liquidazione del danno morale come frazione del danno biologico, e il valore corrispondente alla sofferenza soggettiva fu incorporato in quello del punto di invalidità (131). Ai fini dell’ulteriore personalizzazione del risarcimento, in funzione delle peculiari caratteristiche della fattispecie concreta, si previde un’ulteriore percentuale incrementale del valore base del punto (132) (suscettibile di essere ulteriormente superata dal giudice, in relazione a fattispecie del tutto eccezionali e nel rispetto di uno stringente onere motivazionale).

L’impostazione milanese, come noto, fu consacrata, a livello generale, dalla Corte di cassazione la quale, prendendo atto della loro massiccia diffusione negli uffici giudiziari del Paese, con la sentenza Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618047-01, elesse le tabelle in questione a parametro uniforme per la liquidazione equitativa del danno biologico ex art. 1226 c.c., “salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono” (nello stesso senso, si vedano Sez. 3, n. 8532/2020, Scoditti, Rv. 657813-01; Sez. 3, n. 11754/2018, Vincenti, Rv. 648794-02; Sez. 3, n. 9950/2017, Rossetti, Rv. 643854-01; Sez. L, n. 13982/2015, De Marinis, Rv. 635965-01; Sez. 3, n. 4447/2014, Frasca, Rv. 630336-01, secondo cui tali tabelle “assumono rilievo come una sorta di elemento extratestuale della norma dell’art. 1226 c.c. e ciò non già per una diretta forza cogente che esse abbiano sub specie di norme di diritto, bensì per effetto del riconoscimento della loro corrispondenza sul piano generale ai criteri di equità”). Le tabelle di Milano costituiscono, dunque, “regole integratrici del concetto di equità volte a circoscrivere la valutazione discrezionale del giudice in un ambito di condivisa oggettività” (Sez. 3, n. 1553/2019, Fiecconi, Rv. 652512-01; si veda anche Sez. 3, n. 26308/2019, Olivieri, non massimata). Da ciò deriva che, ove il giudice decida di avvalersi di diversi parametri, il cui utilizzo conduca a una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella tabellare, la pronuncia, in mancanza di congrua motivazione, è censurabile per violazione dell’art. 1226 c.c. (Sez. 3, n. 8508/2020, Scarano, non massimata; Sez. 3, n. 17018/2018, Scarano, Rv. 649440-01). Al contrario, se il giudice non considera fatti che, per come allegati e provati, avrebbero giustificato lo scostamento dalla tabella o il suo abbandono, il vizio denunciabile per cassazione è quello di omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio, di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (si veda Sez. 3, n. 27562/2017, Vincenti, Rv. 646644-01). Il mero scostamento della liquidazione dai parametri tabellari non integra, dunque, di per sé, un vizio di legittimità della sentenza, potendo dipendere “dalla rilevazione nel caso concreto di fatti straordinari specializzanti che rendono necessario un diverso adeguamento del quantum risarcitorio” (Sez. 3, n. 26308/2019, Olivieri, non massimata).

Negli ultimi anni, è venuto, peraltro, progressivamente consolidandosi, nella giurisprudenza di legittimità, un nuovo orientamento, che ha incrinato la concezione unitaria del danno non patrimoniale messa a punto dalle sentenze di San Martino del 2008. Il danno non patrimoniale (pur proclamato “unitario”, questa volta però dall’angolo visuale della sua configurazione sistematica, indifferente alla natura del diritto inviolabile leso) è stato nuovamente scomposto in due pregiudizi distinti: uno “interno” all’individuo, rappresentato dalla sofferenza interiore, e uno “esterno”, corrispondente alle ripercussioni dell’evento lesivo sulle sue abitudini di vita, proiettate in una dimensione dinamico-relazionale (Sez. 3, n. 901/2018, Travaglino, Rv. 647125-01-02-03-04; Sez. 3, n. 7513/2018, Rossetti, Rv. 648303-01) (133). Se, dunque, il riconoscimento di un’autonoma voce a titolo di danno “esistenziale” costituisce “sicura duplicazione risarcitoria” rispetto al ristoro tabellare del danno biologico, lo stesso non può dirsi con riguardo al danno morale, il quale, avulso da un fondamento medico-legale, non può più essere relegato a un ruolo forzatamente “ancillare” rispetto al danno biologico (da ultimo, in questo senso si sono espresse Sez. 3, n. 23469/2018, Scoditti, Rv. 650858-02; Sez. 3, n. 2788/2019, Porreca, Rv. 652664-01; Sez. 3, n. 7964/2020, Fiecconi, non massimata; Sez. 3, n. 34794/2021, Gorgoni, non massimata).

Questo nuovo assetto risarcitorio ha posto in crisi il modello di liquidazione rappresentato dalla Tabella di Milano.

In Sez. 3, n. 2461/2020, Iannello, non massimata, a fronte di una sentenza di merito che, per un’invalidità permanente dell’85%, aveva riconosciuto la percentuale massima di personalizzazione contemplata dalla Tabella milanese, tenuto conto delle “circostanze dolorose conseguenti al sinistro che incidono fortemente sulla condizione di vita del giovane A.”, la Cassazione ha ritenuto la liquidazione irrispettosa di “una effettiva e adeguata valutazione delle sofferenze morali, in assenza di alcun riferimento alla loro consistenza e gravità nel caso concreto”, nella misura in cui non era chiaro se il menzionato incremento per personalizzazione fosse riferibile “alle sofferenze di carattere psicologico” (il danno morale) ovvero “al dolore fisico ed ai pregiudizi di carattere dinamico-relazionale propriamente riconducibili alla nozione di danno biologico” (134). Non basta, allora, che il giudice abbia dato conto, in motivazione, di avere considerato, nel liquidare il complessivo danno non patrimoniale sofferto dalla vittima, anche il profilo della sofferenza soggettiva interiore, se questo non si sia tradotto in una quantificazione del risarcimento che dimostri la sua autonoma valorizzazione, al di fuori di qualsivoglia automatico e aprioristico aggancio ai valori tabellari deputati alla liquidazione del danno biologico. È per questo che, anche nell’ambito delle c.d. micropermanenti, “il danno da sofferenza morale dovrà essere allegato e provato specificatamente anche a mezzo di presunzioni ma senza che queste, eludendo gli oneri assertivi e probatori, si traducano in automatismi che finiscano per determinare (anche) un’erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella legale” (Sez. 3, n. 7753/2020, Porreca, Rv. 657715-01).

Tale nuovo assetto della giurisprudenza sul danno alla persona ha portato in esponente il problema della persistente idoneità della Tabella milanese a rappresentare il sistema elettivo per la relativa liquidazione. Lo stretto ancoraggio del risarcimento del danno morale ai parametri tabellari (in prima battuta, mediante incorporazione di una quota fissa, e, in sede di eventuale personalizzazione, mediante applicazione di una percentuale incrementale predeterminata) sembrerebbe, infatti, non propriamente consono a una concezione “autonomistica”, che, per essere coerente con le premesse, dovrebbe informare di sé anche il momento della liquidazione, la quale conseguentemente non dovrebbe conoscere vincoli o tetti di sorta.

Per questo i giudici del Tribunale di Roma, operando sotto il coordinamento ex art. 47 quater ord. giud. dei Presidenti delle sezioni civili che si occupano della materia, hanno ritenuto di adottare una propria tabella per la liquidazione del danno biologico, con il dichiarato obiettivo di uniformarsi alla nuova sistemazione teorica del danno non patrimoniale, fatta propria dal giudice di legittimità (e alla recente legislazione di settore). Il punto variabile della tabella romana si riferisce al solo danno biologico da invalidità permanente, e non ricomprende in sé la componente della sofferenza soggettiva. Per quel che riguarda il danno morale, pur sulla premessa che non si “possa quantificare il valore dell’integrità morale come una quota minore proporzionale al danno alla salute” (così, al punto 47, la relazione di accompagnamento delle tabelle del Tribunale di Roma, aggiornata al 2019), la tabella romana contempla comunque, quale “parametro di riferimento generale”, l’applicazione di percentuali di aumento del valore base del punto, variabili per scaglioni di invalidità (135). L’importo ottenuto all’esito di detto aumento può essere, poi, ulteriormente variato fino al 50% (in aumento o in diminuzione), per adeguare la liquidazione alle particolarità del caso concreto (tenendo conto anche dell’atteggiamento soggettivo del danneggiante). La considerazione di eventuali circostanze eccezionali, afferenti alla dimensione dinamico-relazionale è, infine, rimessa alla valutazione equitativa “pura” del giudice, che si esprime in una liquidazione autonoma e svincolata dai parametri tabellari precedentemente menzionati.

Sez. 3, n. 25164/2020, Sestini, non massimata, nel ribadire l’autonomia del danno morale (patito, nella specie, da un pedone investito da un’autovettura), ha affermato che tale pregiudizio va risarcito autonomamente, e non può essere pertanto “incorporato” nel valore del punto di invalidità; tanto che la personalizzazione relativa ai profili dinamico-relazionali dovrebbe essere operata sull’importo tabellare depurato dall’incremento ascrivibile alla sofferenza interiore. Sez. 3, n. 2461/2020, Iannello, non massimata, invece, a fronte di una liquidazione secondo la Tabella milanese, nella quale, oltre all’importo corrispondente al valore del punto (comprensivo, quindi, della sofferenza soggettiva), era stato riconosciuto anche l’aumento massimo per personalizzazione (pari, nel caso di specie, al 25%), osserva che “ciò non è sufficiente a riconoscere nella liquidazione operata una effettiva e adeguata valutazione delle sofferenze morali, in assenza di alcun riferimento alla loro consistenza e gravità nel caso concreto”.

La giurisprudenza di legittimità non sembra essersi, peraltro, del tutto allineata a tale nuovo indirizzo, continuando, talora, a farsi leva sulla natura onnicomprensiva della liquidazione tabellare. Sez. L., n. 38123/2021, Tricomi, non massimata sul punto, a fronte della doglianza di una lavoratrice vittima di mobbing, relativa alla mancata autonoma liquidazione del danno morale, ha confermato la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, operata dal giudice di merito mediante l’utilizzo della tabella milanese, sul presupposto che “nella liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano successivamente all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di “danno morale”, la quale, nei sistemi tabellari precedenti, veniva invece liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all’anno 2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione” (nella specie, peraltro, il giudice di merito aveva riconosciuto il massimo coefficiente di personalizzazione tabellare, “tenendo conto dell’accertata sofferenza interiore ragionevolmente cagionata dal vissuto negativo della lavoratrice”). Al medesimo risultato pratico (ammissibilità del risarcimento del danno morale attraverso la massima personalizzazione del valore tabellare di Milano) è giunta Sez. L., n. 35015/2021, Pagetta, non massimata, con riferimento al danno non patrimoniale patito da una lavoratrice coinvolta nel naufragio della nave da crociera Costa Concordia all’Isola del Giglio, sia pure sulla base di una ricostruzione coerente con “il nuovo corso” del danno non patrimoniale, inaugurato dalle pronunce del 2018 sopra richiamate. E pure Sez. 3, n. 27523/2021, Guizzi, non massimata, respinge la pretesa di un’ulteriore, autonoma liquidazione del danno morale, tenuto conto che “la sentenza impugnata dà atto della circostanza che le tabelle applicate, quelle milanesi appunto, “contemplano già, all’interno del punto, una liquidazione media” non del solo danno cd. “biologico”, ma anche “di quello morale”, sicché la pretesa della ricorrente che esso formasse oggetto di autonoma considerazione sul piano della liquidazione del quantum debeatur risulta non fondata”. Sez. 3, n. 27269/2021, Di Florio, non massimata, ha affermato, da parte sua, che, “ove s’impugni la sentenza per la mancata liquidazione del cosiddetto danno morale, non ci si può limitare ad insistere sulla separata liquidazione di tale voce di danno, ma è necessario articolare chiaramente la doglianza come erronea esclusione dal totale liquidato, nella specie, in applicazione delle cosiddette “tabelle di Milano”, delle componenti di danno diverse da quella originariamente descritta come “danno biologico”, risultando, in difetto, inammissibile la censura, atteso il carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle predette tabelle (cfr. Cass. 20111/2014; Cass. 25817/2017; Cass.13269/2020)”.

Nell’ultima versione delle Tabelle (risalente al 10 marzo 2021), l’Osservatorio della giustizia civile del Tribunale di Milano ha aggiornato la terminologia utilizzata, distinguendo il danno biologico/dinamico-relazionale dal danno da sofferenza soggettiva interiore, e ha conseguentemente provveduto a scorporare e indicare separatamente gli importi rispettivamente previsti in corrispondenza di ciascuna percentuale di invalidità, confermando, peraltro, l’utilizzabilità dell’aumento per personalizzazione, di cui all’ultima colonna, in relazione alle conseguenze peculiari della lesione, afferenti vuoi al piano della sofferenza interiore vuoi a quello della dimensione dinamico-relazionale.

In definitiva, fermo restando che, indipendentemente dall’utilizzo dell’una o dell’altra tabella, ciò che conta è che il giudice abbia concretamente apprezzato la sussistenza di un determinato profilo di pregiudizio (sia esso morale o dinamico-relazionale), e dello stesso abbia dato conto in motivazione - esplicitando come la relativa considerazione abbia inciso nella liquidazione equitativa dell’unitario danno non patrimoniale -, la riacquisita “autonomia” del danno morale pone il problema dell’individuazione del criterio più appropriato per la sua liquidazione, anche in ragione della possibilità di distinguere una componente di dolore avente base organica da una sofferenza (diversa e) ulteriore, predicabile con riguardo alle ipotesi in cui venga in rilievo una più intensa reazione emotiva della vittima, per le modalità del fatto lesivo e la particolare riprovevolezza del contegno del danneggiante (si pensi a una violenza sessuale cui sia conseguita una ridotta percentuale di invalidità permanente).

A tale profilo è, poi, collegato quello della specificità e pregnanza della prova necessaria in relazione alle due forme di dolore appena evidenziate, mostrandosi la prima più incline a una dimostrazione presuntiva e la seconda invece maggiormente bisognosa di una dimostrazione più rigorosa, sulla falsariga di quella necessaria per la “personalizzazione” legata agli aspetti dinamico-relazionali. Si potrebbe, conseguentemente, ipotizzare una liquidazione equitativa differenziata per le due componenti suddette: maggiormente ancorata alla liquidazione tabellare per quella organica (che, in quanto causata dalla lesione, è espressa dal bareme medico-legale del danno biologico, siccome normalmente correlata a una determinata percentuale di invalidità permanente); equitativa “pura” (sganciata dal riferimento all’importo tabellare previsto per il concomitante danno biologico) ovvero mediante l’impiego della personalizzazione tabellare per la componente della sofferenza emotiva (136).

3. La liquidazione tabellare del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.

Come noto, il danno da perdita del congiunto (o “da perdita del rapporto parentale” o, più semplicemente, “parentale”) discende dalla lesione del diritto inviolabile “all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.” (137). Sotto il profilo fenomenologico, il danno non patrimoniale da perdita del congiunto può presentarsi come sofferenza interiore, e/o come sconvolgimento delle abitudini e delle aspettative di vita dei superstiti (138), oltre che esitare in una patologia (generalmente psichica) suscettibile di integrare un danno biologico in senso stretto (che dev’essere tenuto in autonoma considerazione ai fini della - pur unitaria - liquidazione (139)).

Come (e più che) per il danno biologico, la liquidazione di questo tipo di pregiudizio è essenzialmente equitativa (140).

A tale scopo, nel 1995 l’Osservatorio di Milano aveva previsto un criterio che si attestava in una frazione (da 1/5 a 2/3) del danno morale che sarebbe spettato al defunto se, anziché morire, fosse sopravvissuto riportando un’invalidità permanente del 100%. Nel 2004, la Tabella fu adeguata ai principi di cui alle sentenze della Cassazione n. 8827 e n. 8828 del 2003, venendo disancorato il risarcimento da qualsiasi ipotetica considerazione della vittima primaria dell’illecito. Fu predisposta, quindi, una “forbice” di valori monetari, comprendenti sia gli aspetti dinamico-relazionali, sia quelli legati alla sofferenza soggettiva. I rapporti parentali considerati erano quelli afferenti alla c.d. famiglia nucleare: genitori-figli, fratelli-sorelle, coniugi non separati o conviventi. Nel 2009 vennero rivisti al rialzo i valori monetari, e contemplata anche la fattispecie della perdita del nipote da parte del nonno (ma non viceversa). I valori attuali sono: € 165.960,00 (aumentabile fino a euro 331.920,00) per la perdita del rapporto intercorrente fra genitori e figli, e tra coniugi (o conviventi more uxorio, o le parti dell’unione civile) ed € 24.020,00 (aumentabile fino a euro 144.130,00) per la perdita di un fratello o del nipote da parte del nonno.

Appare immediatamente evidente come un criterio tabellare di tal fatta orienti la liquidazione nel senso di una quantificazione complessiva e globale, in assenza di un parametro convenzionalmente condiviso (paragonabile a quello che, per il danno biologico, è rappresentato dal valore del punto di invalidità permanente, in relazione all’età della vittima) che consenta di sceverare, in seno all’importo finale riconosciuto dal giudice, la parte riferibile al danno morale da quella ascrivibile al danno “esistenziale” (o, se si preferisce, dinamico-relazionale).

D’altro canto, ove l’attore abbia sviluppato anche una patologia medico-legalmente accertabile, si profila la possibilità di una concorrenza dei due sistemi tabellari (quello basato sul criterio del punto variabile, con riferimento al danno biologico, e quello “a forchetta”, relativo invece al danno da perdita del rapporto parentale), col conseguente problema del reciproco coordinamento. Pertanto, tenuto conto che generalmente la patologia psichica sviluppata in conseguenza della morte di un familiare non si attesta su percentuali di invalidità permanente molto elevate, si potrebbe prendere le mosse dalla liquidazione tabellare-base del danno biologico, valorizzando le conseguenze esorbitanti da quelle normalmente riferibili alla percentuale di invalidità che viene in rilievo nel caso di specie mediante una più spiccata “personalizzazione”, suscettibile di spingersi ben oltre il range tabellare, fino all’importo massimo previsto dalla tabella per la perdita del congiunto (141); ovvero, al contrario, procedere, quale parametro di partenza, da quello proprio del danno parentale, spostandosi lungo l’intervallo di valori alla stregua di una comparazione ponderata con il valore tabellare standard dell’invalidità biologica (che potrebbe fungere da “minimo garantito”) (142).

Tornando alle ipotesi (statisticamente più frequenti) in cui il danno da perdita del congiunto si estrinsechi in pregiudizi che non attingano il piano della valutabilità medico-legale, una significativa differenza deve riconoscersi alle tabelle per la relativa liquidazione, rispetto a quelle afferenti al danno biologico, sotto il profilo della “cogenza” in funzione integrativa del parametro equitativo ex art. 1226 c.c..

Sez. 3, n. 29495/2019, Graziosi, Rv. 655831-01, ha affermato, al riguardo, che il principio di diritto risultante da Sez. 3, n. 12408/2011, già citata, si applica unicamente al danno non patrimoniale discendente da una lesione dell’integrità psico-fisica, sicché esso “non investe la determinazione del danno da lesione del rapporto parentale”. Ciò non toglie, peraltro, che le tabelle in discorso (che si basano su un esame, sistematico e ad ampio raggio, dei precedenti giurisprudenziali) rappresentino un valido parametro di riferimento per il giudice, il quale, quindi, una volta che scelga di avvalersene, non può poi radicalmente discostarsene senza adeguata motivazione (143). Specularmente, se il giudice, pur non applicando direttamente la tabella, finisce per liquidare il danno in un importo di fatto corrispondente ai valori tabellari milanesi, non è configurabile alcun vizio della sentenza (Sez. 3, n. 913/2018, Dell’Utri, Rv. 647128-01). Naturalmente, nel perseguire il connubio tra uniformità pecuniaria di base e adeguatezza al caso concreto (che, come detto, sono i valori cardinali sui quali il concetto di liquidazione equitativa si innesta), il giudice può anche superare i limiti tabellari minimi e massimi, purché dia conto, in motivazione, delle ragioni per le quali la specifica vicenda oggetto del suo apprezzamento si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui la tabella non possa aver già tenuto conto, e di come tali circostanze siano state concretamente considerate (in tal senso, Sez. 6-3, n. 14746/2019, Dell’Utri, Rv. 654307-01). Per esempio, in un caso di perdita del feto, Sez. 3, n. 22859/2020, Positano, Rv. 659411-01, nel confermare la liquidazione operata dal giudice del merito (attestatasi sulla metà del minimo tabellare), ha sottolineato che lo sconfinamento dal parametro tabellare doveva ritenersi pienamente giustificato dalla “mancata instaurazione di un rapporto oggettivo, fisico e psichico, tra i parenti e la situazione del “feto nato morto” (144).

Anche per quel che riguarda il danno da perdita del rapporto col congiunto, la Tabella messa a punto dal Tribunale di Roma si discosta da quella milanese. Essa (aggiornata nel 2019) contempla cinque “fattori di influenza del risarcimento”: il rapporto di parentela, l’età del congiunto superstite, l’età della vittima, la situazione di convivenza, la consistenza del nucleo familiare superstite. Per ciascuno di questi fattori sono previsti dei punteggi. In particolare, relativamente al rapporto di parentela, i punteggi sono: 20 per la perdita di un figlio; 18 per la perdita di un genitore; 6 per la perdita del nipote/nonno/zio; 7 per la perdita del fratello; 2 per la perdita del cugino; 20 per la perdita del coniuge/convivente/parte dell’unione civile. Il punteggio può essere diminuito fino alla metà, o annullato in caso di comprovata assenza di un vincolo affettivo. Per quanto concerne l’età della vittima, i punteggi sono: 5 punti per la fascia d’età 0-20; 4 punti per la fascia d’età 21-40; 3 punti per la fascia d’età 41-60; 2 punti per la fascia d’età 61-80; 1 punto per la fascia d’età superiore agli 80 anni. Il medesimo punteggio per fasce d’età è previsto in relazione all’età del congiunto superstite. La condizione di convivenza con la vittima attribuisce ulteriori 5 punti; l’assenza di altri familiari conviventi, 3 punti. Il punteggio complessivo può essere aumentato da 1/3 a 1/2 in caso di assenza, nel nucleo superstite, di altri familiari entro il secondo grado; e può essere diminuito fino alla metà, in caso di non convivenza. Il risarcimento si calcola moltiplicando la somma dei punti per il valore del punto che, nell’aggiornamento del 2019, è pari a € 9.806,70.

Lo scostamento dal modello milanese è, in questo caso, più marcato, venendo la valutazione equitativa - per così dire - “incanalata” in una griglia prestabilita di parametri, costituente una base di computo fissa, alla quale applicare i moltiplicatori indicati. Risultano, quindi, preventivamente indicati i “fattori di influenza” rilevanti per la quantificazione, che invece, nel sistema ispirato alla tabella milanese, erano stati enucleati dalla sedimentazione giurisprudenziale (145) nell’ampiezza e composizione del nucleo familiare superstite, nell’età della vittima primaria e secondaria, nella qualità ed intensità della pregressa relazione affettiva fra queste ultime (nonché nella loro eventuale condizione di convivenza). Nella tabella romana vengono in rilievo, come si è visto, circostanze non dissimili, con la particolarità, però, che alle stesse viene assegnato un punteggio, suscettibile di preludere a una quantificazione “analitica”, non esitante (come nel sistema milanese) nell’individuazione “sintetica” di un importo unitario all’interno di un’ampia forbice di valori. Il sistema tabellare a punti è stato, così, dal Tribunale di Roma “esportato” dal danno biologico e adattato al danno parentale, quale strumento funzionale alla standardizzazione della molteplicità casistica, idoneo a isolarne i caratteri ricorrenti in vista di una tendenziale uniformità di giudizio (con conseguente virtuosa ricaduta in punto di prevedibilità delle decisioni giudiziali).

3.1. L’arresto di Sez. 3, n. 10579/2021.

La tecnica di liquidazione da ultimo enunciata ha ricevuto l’avallo della Corte di cassazione in un’importante sentenza emessa nell’anno in rassegna: Sez. 3, n. 10579/2021, Scoditti, Rv. 661075-01 ha, infatti, stabilito che, “in tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”. Nel caso di specie, i ricorrenti (moglie e fratello della vittima di un incidente stradale) lamentavano che, per la liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del congiunto, la Corte d’appello avesse utilizzato la Tabella di Milano, in luogo di quella di Roma, così pervenendo a una quantificazione del risarcimento inferiore a quella riconosciuta dal giudice di primo grado (sebbene quest’ultima non risultasse sproporzionata rispetto a quella ottenibile in virtù dell’applicazione dei parametri meneghini). Il ragionamento della Terza Sezione prende le mosse dall’identificazione dell’art. 1226 c.c. (oltre che come norma di fattispecie) come clausola generale, che “consente di modellare la norma del caso concreto mediante il gioco dell’uniformazione e distinzione dai precedenti casi concreti sulla base del grado di analogia dei fatti”. Il criterio tabellare rappresenta “la conversione della clausola generale in una pluralità di ipotesi tipizzate risultanti dalla standardizzazione della concretizzazione giudiziale della clausola di valutazione equitativa del danno”, in vista della funzione di garanzia dell’uniformità delle decisioni relative a casi simili, e al contempo tollera lo scostamento dai limiti minimi e massimi quando l’eccezionalità del caso lo richieda, con un ritorno “in modo diretto alla clausola generale”, che impone al giudice uno stringente onere di motivazione. Tutto ciò, però, vale per le sole tabelle congegnate secondo il sistema del punto variabile, mentre “quando il sistema del punto variabile non è seguito la tabella non garantisce la funzione per la quale è stata concepita, che è quella dell’uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza”. Per questa ragione, una tabella come quella di Milano sul danno parentale non è in grado, secondo la Terza Sezione, di assicurare un sufficiente grado di “concretizzazione tipizzata”, dovendosi preferire una liquidazione fondata “sul sistema a punti, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione”. In questo modo, anche alla tabella relativa al danno parentale è possibile riconoscere carattere “paranormativo”, nella stessa logica enucleata da Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618048-01, per quelle concernenti il danno biologico. Il tutto “in una progressione evolutiva verso un livello massimo di certezza, uniformità e prevedibilità”, che solo la tabella nazionale stabilità per legge potrà garantire. Ciò non toglie - precisa infine la Corte - che le liquidazioni già operate dai giudici di merito con riferimento alla tabella milanese siano, per ciò solo, suscettibili di cassazione, dovendosi “guardare al profilo dell’effettiva quantificazione del danno, a prescindere da quale sia la tabella adottata, e, nel caso di quantificazione non conforme al risultato che si sarebbe conseguito seguendo una tabella basata sul sistema a punti (..), a quale sia la motivazione della decisione”.

Il principio è stato successivamente ribadito da Sez. 3, n. 26300/2021, Scarano, Rv. 662499-01, che - pur constatando che, nel caso di specie, si fosse formato il giudicato sull’applicazione della tabella milanese - ha esplicitamente riconosciuto nella tabella di Roma quella idonea a concretizzare il sistema a punto per la liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale.

Anche Sez. 3, n. 33005/2021, Scoditti, Rv. 663770-01 (relativa a una fattispecie nella quale, per la morte del loro congiunto, erano stati liquidati, a titolo di danno non patrimoniale, € 30.000,00 alla moglie ed € 20.000,00 a ciascuno dei figli), nell’affermare che il danneggiato ha l’onere di chiedere che la liquidazione avvenga in base alle tabelle, ma non anche quello di produrle in giudizio, “spettando poi al giudice di merito di liquidare il danno non patrimoniale mediante la tabella conforme a diritto”, ha ribadito che tale può considerarsi - anche con riferimento al danno parentale - unicamente quella contenente un criterio di liquidazione a punto.

4. La liquidazione tabellare del “danno biologico da premorienza”.

Altro tipo di danno rispetto al quale la Cassazione, nell’anno 2021, ha posto in discussione la capacità delle Tabelle milanesi di concretizzare il canone dell’equità di cui all’art. 1226 c.c. è il c.d. danno biologico definito da premorienza, che si verifica allorquando il danneggiato muoia prima di ottenere la liquidazione del danno alla persona, per cause non riconducibili alla lesione primigenia. In questo caso il pregiudizio si caratterizza per rapportarsi a un intervallo di tempo noto, quello compreso tra l’evento lesivo e la morte del danneggiato. Ed è a tale intervallo di tempo (dunque alla durata effettiva della vita della vittima) che il risarcimento dev’essere parametrato (Sez. 3, n. 4551/2019, Di Florio, Rv. 652827-01), sicché non si mostra adeguato, ai fini della relativa liquidazione, il criterio tabellare “classico” del danno biologico, nel quale il valore del punto è influenzato dal parametro statistico generale della durata media della vita (per tutto il corso della quale il danneggiato si presume destinato a sopportare i postumi della lesione) (146).

Un criterio di intuitiva applicazione per la liquidazione di tale tipo di pregiudizio potrebbe essere quello proporzionale, basato su una riduzione del risarcimento in misura corrispondente al rapporto intercorrente tra il periodo di effettiva sopravvivenza della vittima e quello che le sarebbe restato da vivere se la durata della sua vita si fosse allineata alla media della popolazione del suo sesso.

Peraltro, nel 2018, in sede di aggiornamento delle Tabelle, l’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, sulla base del dato di comune esperienza per cui le conseguenze lesive sono tendenzialmente maggiori in prossimità dell’evento (per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi), e nell’intento di evitare sperequazioni risarcitorie a seconda dell’età della vittima (in considerazione della sensibile differenza dei valori tabellari di partenza), ha adottato un correttivo incentrato sul concetto di risarcimento medio annuo, corrispondente alla media tra quanto liquidato, con riferimento a una data percentuale di invalidità, a un soggetto di un anno e a un soggetto di cento anni. Questo importo viene poi moltiplicato per l’aspettativa di vita media (calcolata sommando le aspettative di vita di tutte le fasce di età tra 1 e 100 anni, e dividendo il risultato per 100), senza differenze tra uomo e donna. In questo modo, fatto il totale del coacervo risarcitorio medio corrispondente a una determinata percentuale di invalidità, lo si distribuisce annualmente in funzione dell’aspettativa di vita media. I valori sono, poi, incrementati del 100% per il primo anno e del 50% per il secondo. La corrispondente tabella contempla, dunque, per un’invalidità (per esempio) del 10%, un risarcimento di € 1.218,00 per il primo anno, di € 2.132,00 per i primi due anni e di € 609,00 per ogni anno successivo al secondo. È prevista, infine, la possibilità di personalizzare i valori, incrementandoli fino al 50%, in considerazione delle peculiarità della fattispecie concreta.

Diversa è, invece, l’impostazione della Tabella di Roma, che muove dal presupposto che “una parte del danno si acquisisce contestualmente al consolidamento dei postumi con i quali il danneggiato deve confrontarsi subito (si pensi alla perdita di un arto o alla paraplegia), per poi subire ulteriori conseguenze nel tempo in relazione all’incremento dell’età che introduce altre difficoltà” (così la relazione di accompagnamento del 2019). La prima parte (che si acquisisce subito) è quantificata in un valore compreso tra il 10% ed il 50% del quantum liquidabile in relazione al danno biologico (calcolato per fasce di invalidità (147)). Per quanto riguarda la seconda voce, si prende come valore di partenza la differenza tra l’importo tabellare complessivo e l’ammontare della prima voce, per poi dividerlo per gli anni di vita che, in relazione alla sua età, resterebbero alla vittima, tenuto conto della durata media della vita (calcolata per fasce d’età); infine, si moltiplica il risultato per gli anni di effettiva sopravvivenza. Il risarcimento finale sarà dato dalla somma della prima e della seconda voce, fatta salva la possibilità della personalizzazione.

In Sez. 3, n. 41933/2021, Cirillo, Rv. 663500-01, la Corte di cassazione si era trovata ad affrontare il caso di una donna 72enne, la quale, avendo riportato un’invalidità permanente del 62% a causa di un incidente, era poi deceduta dopo cinque anni in corso di causa. In applicazione della Tabella milanese sopra illustrata, la Corte d’appello aveva liquidato, in favore degli eredi della donna, la complessiva somma di € 94.172,00, incrementata del 50% per personalizzazione. In motivazione la Corte, dopo aver fatto richiamo ai precedenti di cui a Sez. 3, n. 12408/2011 (quanto al danno biologico) e n. 10579 e n. 26300 del 2021 (quanto al danno da perdita del rapporto parentale), confuta uno dei presupposti posti a base del criterio milanese, ovvero quello della maggiore intensità del danno-conseguenza nel periodo più prossimo all’evento, siccome “in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale”. La stessa definizione di “permanente” del danno biologico implica, infatti, la stabilità nel tempo della condizione di menomazione del soggetto, al quale non è dato in ogni caso recuperare le abilità perdute. È arbitrario, pertanto, postulare un affievolimento del pregiudizio mano a mano che passa il tempo (concetto, al più, applicabile al danno morale da sofferenza interiore). Tanto premesso, la Terza Sezione osserva come il principio della valutazione equitativa del danno non possa dirsi rispettato (in particolare quale manifestazione del principio di uguaglianza) laddove, a vittime che abbiano riportato lo stesso grado di invalidità e che siano sopravvissute, dopo il sinistro, per il medesimo periodo di tempo, venga attribuito un risarcimento diverso a seconda che la morte sia intervenuta prima o dopo la conclusione del processo. E ciò è proprio quanto accade con riferimento alle Tabelle milanesi, essendo il valore annuo estrapolabile dalla tabella del danno biologico “ordinario” (calcolato in relazione alla astratta durata della vita media della vittima) ben maggiore di quello enucleabile dalla tabella per il danno da premorienza (almeno per i casi, come quello giunto all’esame della Corte, di età avanzata della vittima, mentre, mano a mano che l’età del danneggiato scende - e l’aspettativa di vita si allunga - è il danno da premorienza a essere superiore a quello biologico standard, rapportato al medesimo periodo temporale definito dalla sopravvivenza). La proposta fatta dalla Corte per incanalare il giudizio equitativo del giudice di merito nei binari dell’art. 1226 c.c. è, dunque, quella (per usare le parole della massima) di un “criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti”.

Sarà necessario, pertanto, calcolare, in primis, la somma dovuta, per ogni anno di sopravvivenza (rapportata alla durata media della vita), a un soggetto di una data età e con una data percentuale di invalidità, e poi moltiplicarlo per gli anni di vita effettiva. Peraltro, in armonia con i capisaldi della liquidazione equitativa, la Corte si premura di sottolineare l’ammissibilità di “altri criteri e, in particolare, quelli che, ad esempio, applichino il criterio proporzionale soltanto in parte residua, riconoscendo che una quota del risarcimento si matura immediatamente e l’altra in ragione proporzionale al numero di anni effettivamente vissuti” (con chiara allusione - ancora una volta - al criterio tabellare romano).

5. Conclusioni.

Nell’ambito dell’itinerario giurisprudenziale svolto, l’attenzione si è focalizzata sulle pronunce della Suprema Corte che, nell’annualità in rassegna, hanno messo in dubbio la capacità della Tabella milanese di (continuare a) fungere da criterio equitativo elettivo per la liquidazione di alcuni pregiudizi di danno non patrimoniale (il danno biologico, anche nella variante “da premorienza”, e il danno da perdita del rapporto parentale). Al di là del nominalistico riferimento a questa o quella Tabella, l’indirizzo che la Cassazione ha inteso tracciare è nel senso di una maggiore “puntualizzazione” dei parametri di riferimento, ai quali il giudice è chiamato ad ispirarsi nell’opera di concretizzazione della clausola generale dell’art. 1226 c.c. La linea di tendenza è, dunque, quella di una sempre più accurata considerazione delle caratteristiche ricorrenti delle fattispecie, alla quale far seguire l’attribuzione di valori monetari differenziati (e, soprattutto, predeterminati - sia pure non rigidamente - nel quantum), a seconda del “peso” che il concreto apprezzamento del giudice finisca per attribuire a ciascuna delle circostanze riconducibili a una determinata “classe” di casi.

La liquidazione tabellare per punto si accredita, in tal modo, come il miglior sistema possibile, nell’attuale contesto normativo, per coniugare l’eguaglianza sostanziale con l’integrale risarcimento di pregiudizi ontologicamente refrattari, in linea di principio, a una precisa traduzione monetaria. Ciò a tutto vantaggio della uniformità di trattamento e della prevedibilità delle decisioni (indispensabile anche in funzione deflattiva del contenzioso).

Gli sviluppi futuri diranno se questa linea di tendenza giurisprudenziale interesserà anche altre “voci” di danno non patrimoniale (si pensi al danno biologico c.d. terminale (148), o al danno da diffamazione a mezzo stampa (149), o ancora al danno non patrimoniale ex art. 96, comma 3, c.p.c. (150), per i quali già sono contemplati parametri tabellari), ma il solco appare, in ogni caso, nitidamente tracciato, in una logica di progressiva approssimazione all’auspicato intervento del legislatore, che possa definitivamente scolpire regole tabellari unitarie.

  • assicurazione sulla vita
  • eredità

XI)

L’ASSICURAZIONE SULLA VITA, GLI STRUMENTI ALTERNATIVI AL TESTAMENTO E LE OBBLIGAZIONI SOLIDALI

(di Andrea Penta )

Sommario

1 L’assicurazione sulla vita come strumento alternativo al testamento. - 2 La stipulazione a favore di terzo. - 3 La distinzione tra atti mortis causa ed atti inter vivos con effetti post mortem: la violazione del divieto dei patti successori. - 4 La stipulazione a favore del terzo con prestazione successiva alla morte del beneficiante. - 4.1 L’incidenza dell’evento morte. - 5 L’assicurazione sulla vita in favore del terzo (per il caso di morte dell’assicurato). - 6 La designazione dei beneficiari. - 6.1 La designazione generica. - 6.2 Le altre modalità di designazione del beneficiario. - 7 La designazione per testamento. - 8 La designazione generica dei beneficiari della polizza: la necessità o meno di accettare l’eredità. - 9 Le modalità di suddivisione della somma assicurata tra i beneficiari: per numero o secondo le regole successorie? - 9.1 La isolata pronuncia della Suprema Corte del 2015. - 10 L’attribuzione della somma in caso di premorienza del beneficiario: accrescimento delle altre quote ovvero rappresentazione. - 11 Una prospettiva di diritto comparato (cenni). - 12 La decisione delle Sezioni Unite n. 11421 del 2021. - 13 La solidarietà attiva.

1. L’assicurazione sulla vita come strumento alternativo al testamento.

L’esigenza di programmare con atti tra vivi la trasmissione della ricchezza e le potenzialità espresse dal contratto a favore di terzo, da eseguirsi dopo la morte dello stipulante, hanno concorso al successo degli strumenti alternativi alla delazione ereditaria, posta la maggiore capacità del contratto di soddisfare talune esigenze pratiche.

Anche il contratto di assicurazione sulla vita a favore di un terzo può essere annoverato fra gli strumenti che consentono di disporre di una parte della ricchezza per il tempo successivo alla propria morte (151). Questo risultato "parasuccessorio", tuttavia, non si realizza mediante un trasferimento dei beni direttamente dal de cuius al beneficiario, ma è un effetto indiretto, cioè mediato dallo schema trilaterale del contratto a favore di un terzo. Nel caso di specie, al momento della morte del contraente-assicurato, il promittente-assicuratore versa al terzo beneficiario il capitale assicurato, che non è mai appartenuto al patrimonio del de cuius, da cui sono uscite, invece, le somme pagate a titolo di premio.

Ormai da tempo si assiste, pertanto, ad un progressivo "allontanamento" della regolamentazione mortis causa dal suo strumento tradizionale, il testamento (152). Il disponente, infatti, sempre più spesso tende a disciplinare la propria vicenda successoria facendo ricorso anche a meccanismi di carattere contrattuale, i quali potranno avere attuazione solo dopo la sua morte o che, più genericamente, sono idonei a produrre effetti post mortem (153).

Questo dato sociologico ha condotto la dottrina ad una "rimeditazione" del fenomeno successorio; sebbene in esso il testamento continui ancora ad assumere una posizione di centralità, in realtà, non si può affatto negare la rilevanza che oggi hanno assunto talune clausole o figure negoziali che, per la loro particolare struttura, integrano un nuovo modo di regolamentare il passaggio della ricchezza con riferimento alla morte di un soggetto. In questa prospettiva, quindi, anche il contratto entra a far parte del diritto delle successioni, dal momento che, seppur entro ristretti limiti (si pensi al divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c.), esso rappresenta, per il disponente, un valido strumento - alternativo al testamento - per effettuare attribuzioni in favore di determinati beneficiari (154).

2. La stipulazione a favore di terzo.

Un meccanismo contrattuale assai di frequente utilizzato ai fini della pianificazione successoria è rappresentato dalla c.d. stipulazione a favore del terzo (artt. 1411 ss. c.c.): come emerge dagli artt. 1411 e 1412 c.c., difatti, si è qui dinanzi ad una clausola negoziale che consente a qualsivoglia contratto, cui essa venga apposta, di differire "dopo la morte dello stipulante" l’esecuzione della prestazione da farsi in favore del terzo-beneficiario (155).

L’adozione di tale strumento ha, per il disponente, una duplice valenza positiva: da un lato, gli permette di anticipare taluni "effetti successori", dato che il terzo acquista immediatamente il diritto nei confronti del promittente (cfr. artt. 1411, comma 2, prima parte, e 1412, comma 2, c.c.); dall’altro lato, gli consente altresì di dare stabilità e certezza all’assetto da lui desiderato, riservandosi tuttavia, ove lo voglia, la possibilità di mutare in futuro le proprie scelte (cfr. art. 1412, comma 1, c.c.). Tuttavia, la prima di queste finalità talvolta può essere vista dal disponente con sfavore, in quanto egli dovrà spogliarsi subito delle proprie sostanze (rectius, di quanto dedotto come oggetto del contratto).

La stipulazione a favore del terzo, pertanto, ha una evidente attitudine - riconosciuta dallo stesso legislatore (cfr. art. 1412 cit.) - a regolare la devoluzione post mortem delle sostanze del disponente. Le caratteristiche della figura in esame sono che: a) il diritto del terzo ha il suo esclusivo fondamento nel contratto; b) il diritto è autonomo e sorge direttamente in capo al terzo; c) il terzo non è parte del contratto né lo diviene successivamente (156). Invero, la funzione della dichiarazione del terzo di voler profittare della prestazione è quella di determinare l’irrevocabilità della disposizione in suo favore, laddove la revocabilità della disposizione non ne esclude il già avvenuto perfezionamento.

3. La distinzione tra atti mortis causa ed atti inter vivos con effetti post mortem: la violazione del divieto dei patti successori.

Sulla base del dibattito dottrinale, che si è sviluppato a partire dagli anni Cinquanta, è stato possibile enucleare tre distinte categorie di atti, a seconda del "diverso ruolo che la morte assume nel fenomeno attributivo" (157).

L’originaria distinzione, formulata da un autorevole studioso (158), è stata quella tra atto mortis causa ed atto inter vivos con effetti post mortem.

Il primo regola rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto, o che dalla morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione (159): in esso, dunque, detto evento costituisce un elemento essenziale e, segnatamente, la causa dell’attribuzione patrimoniale (160). Più nel dettaglio, il negozio mortis causa si caratterizza per la presenza di due requisiti fondamentali: a) un requisito oggettivo, il quale richiede che l’oggetto della disposizione costituisca un quod superest, vale a dire che esso possa essere determinato "quanto ad entità, esistenza e modo di essere" soltanto al momento della morte del disponente (161); b) un requisito soggettivo, che è costituito dalla c.d. "condizione di sopravvivenza" del beneficiario: è necessario, cioè, che tale persona sia considerata dal disponente come esistente al momento del suo decesso (162).

L’atto inter vivos con efficacia post mortem, invece, disciplina una situazione già esistente che non trova origine nella morte del soggetto, ma che da tale evento fa comunque dipendere la produzione dei propri effetti: in esso, perciò, l’attribuzione è attuale e si riferisce a beni già determinati, mentre l’evento morte si inserisce qui nel congegno negoziale come condizione sospensiva o come termine iniziale d’efficacia della stipulazione (163).

Successivamente, però, nei primi anni Ottanta un’attenta dottrina (164) ha rilevato che, al fine di valutare l’eventuale legittimità dei meccanismi negoziali idonei ad "estendere" la propria vicenda effettuale dopo la morte del disponente, si rende necessario aver riguardo altresì ad un ulteriore elemento - che, per definizione, caratterizza il testamento (cfr. art. 587 c.c.) -, e cioè la revocabilità. La stipulazione priva di tale caratteristica, difatti, non solo non può costituire una valida alternativa all’atto di ultima volontà, ma ricade pienamente nel divieto di cui all’art. 458 c.c.. Sulla scorta di tale intuizione, allora, la dottrina suddetta è pervenuta ad elaborare un’altra figura di atto inter vivos rapportato all’evento morte, figura che, così, si pone accanto alla tradizionale dicotomia tra atto mortis causa ed atto post mortem: si tratta del c.d. negozio trans mortem.

La categoria degli atti trans mortem si contraddistingue per la presenza dei tre elementi caratterizzanti: 1) l’uscita immediata del bene dal patrimonio del disponente o, comunque, prima della morte di questi; 2) il "cristallizzarsi" (rectius, la definitività) dell’acquisto in capo al beneficiario solo dopo la morte del disponente (nel senso che l’evento della morte si inserisce come condizione o termine di efficacia); 3) la possibilità, riconosciuta al disponente sino alla sua morte, di porre nel nulla l’assetto patrimoniale così predisposto, esercitando a sua discrezione uno ius poenitendi (diritto di recesso o di revoca).

In virtù dell’evoluzione del pensiero dottrinale, dunque, è oggi possibile discernere, nell’ambito dei negozi tra vivi "connessi alla morte" (anche detti "con funzione successoria"), due tipologie di atti, quelli post mortem e quelli trans mortem: in entrambi - come si è visto - la morte costituisce soltanto l’occasione per la produzione degli effetti; tuttavia, i secondi presentano rispetto ai primi un quid pluris, vale a dire il requisito della revocabilità.

In applicazione degli enunciati criteri, la giurisprudenza (165) esclude la violazione del divieto dei patti successori quando a) il diritto, preventivamente individuato, esca dal patrimonio prima della morte, b) il contraente mantenga lo jus poenitendi.

Di converso, sono da ritenersi patti successori, nulli in forza dell’art. 458 c.c., quei patti in cui: a) il disponente abbia inteso disporre della propria successione privandosi del diritto di revoca; b) l’acquisto avvenga a causa della successione (166).

La revocabilità non trasforma la stipulazione in un atto post mortem irrilevante nei riguardi del terzo prima della morte dello stipulante, di modo che egli non avrebbe medio tempore alcun diritto. L’acquisto del terzo è già perfetto e definitivo al momento della stipulazione, tanto è vero che, se il terzo premuore, il diritto si trasmette ai suoi eredi.

4. La stipulazione a favore del terzo con prestazione successiva alla morte del beneficiante.

In linea generale - come si è anticipato - la stipulazione a favore di terzo fa sì che gli effetti (favorevoli) del contratto, cui tale clausola negoziale venga apposta, si producano direttamente ed immediatamente nella sfera giuridica del soggetto beneficiario (167): quest’ultimo, dunque, non partecipa al procedimento di formazione del contratto, né successivamente diviene parte del relativo regolamento di interessi, bensì resta un semplice destinatario della vicenda effettuale. Tuttavia, da un lato, al terzo è comunque concessa la possibilità di "preservare" il proprio patrimonio dall’altrui ingerenza, dichiarando di rifiutare la stipulazione fatta in suo favore (cfr. art. 1411, comma 3, c.c.) (168); dall’altro lato, allo stipulante è pur sempre riconosciuta - per così dire - una posizione di dominus nell’ambito del meccanismo negoziale, dal momento che, fino alla dichiarazione di profitto emessa dal terzo, egli rimane libero di revocare o modificare detta stipulazione (cfr. art. 1411, comma 2, seconda parte, c.c.).

La situazione ora delineata si ripresenta nella figura disciplinata dall’art. 1412 c.c., ma con le seguenti peculiarità: anzitutto, il beneficiante (stipulante), d’accordo con il promittente, differisce ad un momento successivo alla propria morte l’esecuzione della prestazione da compiersi (a cura del promittente) in favore del terzo-beneficiario (cfr. art. cit., comma 1, inciso iniziale); in secondo luogo, viene ampliato il "potere di ripensamento" normalmente conferito allo stipulante, dato che - come recita la norma - costui "può revocare il beneficio anche con una disposizione testamentaria e quantunque il terzo abbia dichiarato di volerne profittare" (art. 1412, comma 1, secondo periodo, c.c.); ed infine, quale "altra faccia della medaglia", viene ristretta la possibilità di stabilizzare gli effetti in capo al terzo prima della morte dello stipulans, essendo ciò ammesso in un unico caso, vale a dire la rinunzia scritta al potere di revoca da parte dello stipulante medesimo (cfr. art. 1412, comma 1, inciso finale, c.c.).

Gli elementi che differenziano la fattispecie di cui all’art. 1412 c.c. rispetto al suo "prototipo" generale - e cioè l’esecuzione della prestazione post mortem stipulatoris e l’ampliamento del potere di revoca - mettono subito in luce, come già detto, l’idoneità di tale strumento contrattuale a porsi quale valida alternativa al testamento.

Al riguardo, secondo un primo indirizzo di pensiero, sostenuto dalla dottrina più risalente (169), la stipulazione a favore di terzo con prestazione dopo la morte del beneficiante dovrebbe considerarsi, in ogni caso, una particolare ipotesi di negozio mortis causa, dal momento che con essa tra lo stipulante ed il beneficiario si instaurerebbe pur sempre un rapporto di natura ereditaria: lo stipulans, infatti, vincola il promittente ad effettuare una prestazione nei riguardi del terzo per il tempo successivo alla propria morte e, così facendo, dunque, realizzerebbe - anche se solo in via indiretta - un’attribuzione gratuita a causa di morte in favore del medesimo. Ciò soprattutto alla luce del fatto che, come si è visto, allo stipulante è riconosciuta la facoltà di revocare il beneficio in ogni momento, anche nel caso in cui il terzo abbia già emesso la dichiarazione di profitto.

Secondo un altro orientamento, allo stato nettamente prevalente (170), invece, la fattispecie di cui all’art. 1412 c.c. integrerebbe un valido negozio inter vivos, attesa l’immediata operatività della stipulazione a favore del terzo. Anche in essa, dunque, è dato ravvisare l’elemento che caratterizza la figura più generale contemplata dal precedente art. 1411 c.c., vale a dire - come si è visto - la produzione diretta ed immediata dell’effetto favorevole nel patrimonio del terzo-beneficiario: quest’ultimo, quindi, acquista sempre e subito - "per effetto della [sola] stipulazione", dice la norma citata - "il diritto contro il promittente", venendo procrastinata ad un momento successivo alla morte dello stipulante solamente l’esecuzione della prestazione. La conferma di ciò, per tale dottrina, si riscontra nel secondo comma dell’art. 1412 c.c., nella parte in cui afferma che, in caso di premorienza del terzo rispetto al beneficiante, "la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo" medesimo: si osserva, infatti, che, se il diritto verso il promittente venisse acquistato dal beneficiario per successione dallo stipulante, in esso non potrebbero subentrare i suoi eredi, dal momento che - com’è noto - solo chi ha già acquistato in vita una data posizione giuridica può trasmetterla iure hereditatis ai propri aventi causa.

4.1. L’incidenza dell’evento morte.

Nella figura al vaglio la morte del beneficiante non incide minimamente sul suo meccanismo funzionale: tale evento, difatti, non costituisce la causa dell’attribuzione patrimoniale in favore del terzo, dal momento che la stessa rinviene la sua "fonte" esclusivamente nel rapporto contrattuale intercorso tra stipulante e promittente. L’evento morte, quindi, rimane "ai margini" del congegno negoziale, rappresentando semplicemente il termine di adempimento della prestazione.

Ancora, va osservato che nella stipulazione in favore di terzo con prestazione dopo la morte del beneficiante manca uno dei requisiti fondamentali (quello oggettivo) che caratterizzano l’atto mortis causa, perché l’attribuzione in favore del terzo è attuale e, dunque, già predeterminata nella sua entità al momento della stipula del contratto tra lo stipulante ed il promittente.

Infine, si sottolinea che la revocabilità usque ad mortem non si configura quale connotato esclusivo del testamento, poiché la stessa si rinviene anche in una serie di negozi tra vivi idonei a protrarre la propria vicenda effettuale dopo la morte di chi li pone in essere (171).

Le considerazioni che precedono inducono a propendere per la fondatezza della tesi che riconosce alla figura in esame natura di negozio inter vivos.

A questo punto, però, è opportuno compiere un passo ulteriore: bisogna individuare in quale categoria di negozi tra vivi "connessi alla morte" risulti essere ascrivibile la stipulazione in favore di terzo ex art. 1412 c.c.. In particolare, il carattere della revocabilità, cui più volte si è fatto riferimento, induce a verificare se in tale figura risultino presenti, o meno, i tre elementi caratterizzanti i c.d. negozi trans mortem.

A ben vedere - come rilevato da autorevole dottrina (172) - una simile indagine non può che condurre ad un esito negativo. Infatti:

1) il "bene" fuoriesce immediatamente dal patrimonio dello stipulante, dal momento che costui da subito esegue - o, quanto meno, si obbliga a farlo - la propria prestazione nei confronti del promittente; al contempo, si realizza l’acquisto immediato, in capo al terzo, del diritto alla prestazione contro il promittente (173);

2) l’attribuzione fatta al terzo diviene definitiva solo dopo la morte dello stipulans, dato che nella figura in esame l’esecuzione della prestazione in suo favore, da parte del promittens, viene differita ad un momento successivo al decesso dello stipulante medesimo;

3) viene riconosciuta al beneficiante la possibilità di revocare sino all’ultimo istante di vita l’attribuzione effettuata in favore del terzo.

A ben vedere, la stipulazione in favore di terzo ex art. 1412 c.c., pur essendo un negozio inter vivos, presenta comunque un carattere ambivalente: se, infatti, - come di norma accade - lo stipulans "si riserva" un "potere di ripensamento", essa integra un negozio trans mortem, dal momento che sussiste il connotato della revocabilità; se, invece, il beneficiante "abdica" a tale potere, la fattispecie si configura comunque come un negozio post mortem, attesa la sua idoneità a disciplinare una data situazione giuridica per il tempo successivo alla morte di detto soggetto.

5. L’assicurazione sulla vita in favore del terzo (per il caso di morte dell’assicurato).

L’assicurazione sulla vita in favore del terzo è una fattispecie contrattuale dettagliatamente disciplinata dal legislatore negli artt. 1920 e ss. c.c. (174) e si inquadra, secondo l’impostazione codicistica vigente, nel più generale schema del contratto a favore del terzo, di cui agli artt. 1411 ss. c.c.. Gli artt. 1920 e ss. c.c. evidenziano un più accentuato favor tertii rispetto agli artt. 1411 e ss.; si pensi alla validità della designazione generica, alla possibilità di designare il beneficiario con atto separato o con il testamento, alla impignorabilità e insequestrabilità delle somme dovute dall’assicuratore.

In ogni caso, a prescindere da tale ultimo inquadramento, l’indirizzo tradizionale (175) è nel senso che la disciplina generale dettata dagli artt. 1411 e ss. c.c. si applichi nei limiti in cui essa non risulti derogata da quella speciale prevista per l’assicurazione sulla vita, di cui agli artt. 1920 e ss. c.c. (176), o, per dirla diversamente, si applichi automaticamente per quanto non disposto dalle norme speciali degli artt. 1920 e ss.. Ne consegue che è tendenzialmente ammesso che, in caso di premorienza del beneficiario, la prestazione debba essere eseguita ai suoi eredi (v. art. 1412, ultimo comma; sul punto vedasi postea).

Essa, ove sia stata stipulata per il caso di morte dell’assicurato, è senz’altro riconducibile nell’ambito della figura generale della stipulazione a favore di terzo ex art. 1412 c.c., in precedenza analizzata. In tal caso, difatti, l’assicurato (stipulante) concorda con l’impresa assicuratrice (promittente) che, a seguito del proprio decesso, la stessa sarà tenuta a corrispondere una data indennità (c.d. capitale assicurato) ad una terza persona (beneficiario).

L’assicurazione sulla vita rientra nella categoria degli atti inter vivos con efficacia post mortem e presenta le seguenti caratteristiche generali: il diritto del beneficiario scaturisce immediatamente dal contratto; il disponente mantiene sino alla morte lo jus poenitendi; la morte è il momento dell’esecuzione della prestazione, e non la causa del contratto. Regolando la polizza la sorte di un cespite estraneo al patrimonio dell’assicurato, in vita impoveritosi del solo complessivo ammontare dei premi versati, non potrebbe qualificarsi la stessa quale contratto successorio. La morte dello stipulante non sarebbe elemento costitutivo del diritto di credito nei confronti dell’assicuratore, fungendo unicamente da condizione di esigibilità del medesimo.

L’art. 1920 c.c., nello stabilire, espressamente, al comma 3, che "per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione", sancisce in maniera inequivocabile il principio secondo cui il terzo acquista un diritto autonomo, e non meramente derivato da quello del contraente. Il significato della locuzione "diritto proprio" è il seguente: a) nasce direttamente in capo al beneficiario, come autonomo suo credito verso l’assicuratore e, quindi, senza passare per il patrimonio dello stipulante; b) esiste fin dal momento della designazione e ancor prima che il terzo abbia dichiarato di voler profittare del beneficio, tale volontà potendo solo influire come impedimento al potere di revoca del designante (art. 1921 c.c.); c) conferisce al beneficiario, ed a lui soltanto, la potestà di agire contro l’assicuratore per ottenere, ad evento avvenuto, la prestazione promessa (ossia la somma assicurata); d) questa somma, essendo il frutto di un patto di previdenza che la legge vuole favorire, non può essere sottoposta "ad azione esecutiva o cautelare" e, proprio perché al terzo è dovuta ab origine dal promittente (assicuratore) e non già dallo stipulante (assicurato), si sottrae agli eventuali attacchi dei creditori o degli eredi di quest’ultimo (art. 1923 c.c.).

Non manca, peraltro, chi (177) ritiene che, nell’individuazione dei <<terzi>> legittimati a ricevere la liquidazione della polizza, l’evento morte non resterebbe confinato al rango di mera condicio facti, ma assurgebbe a vero e proprio centro propulsore del rapporto che scaturisce dalla conclusione del contratto di assicurazione.

6. La designazione dei beneficiari.

La designazione è un negozio, in quanto essa ha la funzione di completare, delimitandola dal punto di vista soggettivo, la regola già posta con il contratto a favore di terzo attraverso un esercizio del potere di autonomia privata da parte dello stipulante volto a connotare di doverosità la condotta dell’assicuratore verso il terzo beneficiario.

La clausola attributiva del vantaggio al terzo costituisce elemento normale (178) e non essenziale dell’assicurazione sulla vita, sicchè una designazione generica o specifica di uno o più beneficiari può anche mancare, senza che il contratto ne soffra. Il diritto alla somma assicurata, in questi casi, farà parte del patrimonio del contraente (179) ed, eventualmente, si trasferirà, alla morte di questi, ai suoi eredi iure successionis secondo le ordinarie norme sulla successione ereditaria.

Come, dunque, può darsi il caso in cui, pur nella presenza della clausola di attribuzione in favore del terzo con riserva di successiva nomina, manchi del tutto la concreta designazione oppure l’originaria designazione venga revocata senza essere sostituita da una nuova, così anche può essere che, ab origine, l’assicurazione sulla vita sia direttamente ed immediatamente stipulata dal contraente a proprio favore, senza alcuna pattuizione a vantaggio del terzo.

Solo in caso di mancanza di designazione espressa, si deve, pertanto, probabilmente concludere che la somma assicurata, ancorché acquistata iure proprio, vada ripartita in base alle quote ereditarie.

6.1. La designazione generica.

Allorquando, invece, una designazione vi sia stata (180), occorre operare una distinzione in relazione alla diversa forma di designazione adottata (art. 1920, comma 2, c.c.).

La norma in esame prevede espressamente che la designazione sia valida ed efficace anche quando il beneficiario venga indicato genericamente, vale a dire mediante l’utilizzo di formule che, sebbene non permettano l’identificazione immediata del beneficiario al momento della designazione, la consentano, tuttavia, al tempo (di regola coincidente con la morte dell’assicurato) in cui diventi attuale l’obbligazione dell’assicuratore di corrispondere la somma assicurata (181). Tali sono, a titolo di esempio, le espressioni in favore "di mia moglie", "dei miei figli" oppure, in maniera ancora più generica, a beneficio "dei miei eredi" (182). In tale ultimo caso, identificandosi i beneficiari con le persone chiamate alla successione, legittima o testamentaria che sia, dell’assicurato, è solo avendo riguardo alla morte di codesto soggetto che sarà possibile determinare il titolare, o i titolari, del diritto di credito verso l’assicuratore (183).

Tendenzialmente, l’utilizzo della parola ‘erede’ in una qualsiasi delle formule in precedenza riportate per indicare il beneficiario, non comportando che un semplice riferimento a chi sarà chiamato come tale e non alle norme successorie, dovrebbe comportare anche l’inapplicabilità delle norme sulla rappresentazione (artt. 467 ss. c.c.).

Mentre l’indicazione “eredi testamentari” non crea problemi, proprio perché ne viene fatta l’individuazione nel testamento, quella di “eredi legittimi” ne può invece creare, potendo gli stessi essere variati tra il momento in cui è stata effettuata la designazione e quello in cui scatta la prestazione dell’assicuratore.

L’orientamento prevalente ritiene che, a fronte della frase “eredi legittimi”, saranno beneficiari tutti coloro che rivestiranno tale qualifica al momento della morte dell’assicurato (cioè al momento dell’apertura della sua successione) anche se taluno di essi fosse escluso in tutto o in parte dalla successione per disposizione testamentaria, purchè ovviamente tale disposizione non revochi la designazione; risultando, peraltro, evidente che “la somma assicurata sarà attribuita agli eredi e divisa fra di essi non secondo le norme che regolano la successione ereditaria, ma secondo le norme dell’assicurazione.

Se, peraltro, il “chiamato” all’eredità, ai fini dell’attribuzione del beneficio assicurativo, deve essere tale al momento dell’apertura della successione dell’assicurato, il terzo non sarebbe ancora determinato né individuabile all’atto della designazione e, salvo non si intenda ammettere che un soggetto determinabile solo in futuro possa acquistare la titolarità di un diritto di credito prima di essere individuato, non sembra suscettibile di smentita che la disposizione di cui all’art. 1920, comma 3, c.c., non potrebbe, in questo caso, ricevere applicazione, producendosi l’effetto attributivo in un momento successivo alla indicazione del beneficiario. Invero, se l’individuazione del soggetto rivestito della qualità di erede deve avvenire alla data della morte dell’assicurato, sembra difficile ammettere che al momento della designazione sia possibile ravvisare quei caratteri di determinatezza o determinabilità che consentono l’instaurazione di un rapporto obbligatorio giuridicamente rilevante, manifestandosi, al contrario, un’incertezza obiettiva in ordine al beneficiario della somma assicurata, che conduce ad escludere l’attualità dell’attribuzione, sicché, secondo una parte della dottrina (184), la morte dello stipulante si atteggerebbe non tanto come semplice condizione per l’esigibilità della prestazione, quanto, piuttosto, come ragione determinante dell’acquisto del diritto da parte del terzo.

Del resto, se si assume che è il tempo di apertura della successione a segnare la produzione di effetti da parte del contratto, un ragionamento condotto secondo canoni di natura logica imporrebbe di attribuire rilievo alle vicende relative alla successione dell’assicurato, ai fini della determinazione dell’effetto attributivo conseguente alla stipulazione del contratto di assicurazione; sicché non potrebbe smentirsi che “ove il chiamato in via legittima o testamentaria rinunci all’eredità, questi non acquisterà mai la qualità di erede e pertanto non potrà risultare essere il designato”, con la conseguenza che “in tal caso il diritto alla prestazione dell’assicuratore non potrà che essere di colui il quale risulterà essere il vero erede del contraente” (185) (sul punto vedasi infra).

Tuttavia, la norma, nel disporre che il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione “per effetto della designazione”, non distingue (ed anzi equipara) il caso di indicazione nominativa del beneficiario da quello in cui esso “è determinato solo genericamente” (art. 1920, comma 2, c.c.).

Inoltre, lo stipulante, a ben vedere, non dispone, in via contrattuale, di beni e diritti compresi nel patrimonio ereditario, ma si limita a corrispondere alla compagnia assicuratrice somme di denaro a titolo di premio, indicando i soggetti a favore dei quali dovrà essere attribuita la somma assicurata.

Escludere l’attualità dell’attribuzione, ammettendo che l’acquisto del diritto si perfezioni al momento dell’accettazione dell’eredità, non significa, peraltro, trasformare la morte dello stipulante da condizione di esigibilità della prestazione in causa dell’attribuzione. L’assunzione della qualità di erede svolge, nel caso in esame, la semplice funzione di individuare il destinatario del beneficio. In altri termini, non si può negare che il rapporto tra l’assicurato e l’impresa di assicurazione è già determinato al momento della conclusione del contratto.

In quest’ottica, si ritiene (186) che, qualora i beneficiari dell’assicurazione siano indicati negli eredi dello stipulante, l’accertamento del titolo richiesto dalla polizza debba avvenire al momento della designazione, mediante l’individuazione dei soggetti ai quali sarebbe riconosciuta (sia pure in astratto) la qualità di successori a titolo universale (recte, di eredi legittimi) ove il decesso dell’assicurato si verificasse alla data dell’investitura del terzo; con la conseguenza che non potrebbe in alcun modo attribuirsi rilievo all’eventuale rinuncia o mancata accettazione dell’eredità da parte del terzo, risultando la vicenda negoziale del tutto aliena da interferenze di natura successoria. Pertanto, si ipotizza che, nell’ipotesi considerata, ciò che risulta posticipato al momento della morte dell’assicurato - oltre, naturalmente, all’esecuzione della prestazione da parte della compagnia assicuratrice – sia semplicemente l’individuazione concreta dei beneficiari, la quale, una volta avvenuta, retroagirebbe, comunque, al momento della designazione, alla stregua di una condizione sospensiva, cosi preservando la natura tipicamente contrattuale della fattispecie in esame (187).

6.2. Le altre modalità di designazione del beneficiario.

L’art. 1920, comma 2, c.c. prevede che la designazione del beneficiario, da parte dello stipulante, può essere fatta con diverse modalità, e cioè, alternativamente: a) nel contratto di assicurazione, contestualmente alla sua sottoscrizione; b) con una successiva dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore; c) per testamento (188).

Ebbene, con riguardo alle prime due modalità di designazione non sembrano porsi particolari problemi, poiché ad esse possono estendersi tutte le osservazioni fatte per la stipulazione a favore di terzo con prestazione dopo la morte dello stipulante. Anzitutto, come affermato anche dalla dottrina prevalente (189), si è senza dubbio dinanzi ad un negozio inter vivos: l’effetto della stipulazione, infatti, si produce già durante la vita dello stipulante (e, precisamente, all’atto della designazione), mentre soltanto l’esecuzione della prestazione, effettuata dall’impresa assicuratrice in favore del terzo beneficiario, avrà luogo al momento del decesso del soggetto assicurato. Anche qui, dunque, l’evento morte costituisce semplicemente un termine di adempimento della prestazione, senza "incidere" assolutamente sulla causa dell’attribuzione.

Ancora, sempre in queste due ipotesi il contratto di assicurazione avrà, a seconda dei casi, natura trans mortem o post mortem. Tale contratto, infatti, costituisce una valida alternativa al testamento, in quanto presenta le tre caratteristiche, più volte richiamate, proprie del negozio "transmorte" (190). Precisamente: 1) il bene esce immediatamente dal patrimonio dell’assicurato, essendo costui tenuto a pagare all’impresa assicuratrice i c.d. premi; inoltre, proprio in virtù degli elementi strutturali della fattispecie, il beneficiario acquista subito (rectius, sin dal momento della sua designazione) il diritto a conseguire l’indennità; 2) il beneficio per il terzo diviene definitivo solo con la morte dell’assicurato, perché - come si è detto - soltanto allora l’assicuratore provvederà a corrispondere l’indennità alla persona designata; 3) l’assicurato può fino alla sua morte revocare la designazione, indirizzando "altrove" la somma assicurata (art. 1921 c.c.). Ove, invece, lo stipulante rinunzi per iscritto al potere di revoca, la fattispecie in esame assumerà i connotati dell’atto post mortem.

L’argomento principale che viene speso a sostegno di tale indirizzo è quello che trae origine dal terzo comma dell’art. 1920 c.c., in base al quale il terzo acquista un “diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”. Partendo dal presupposto che l’assicurazione sulla vita svolge, come si è detto, una duplice funzione (una assicurativa ed una di risparmio), si perviene alla conclusione che la prestazione dell’assicuratore sarà costituita dal capitale, versato dal contraente attraverso la corresponsione dei premi, accresciuto dalla gestione che l’assicuratore avrà compiuto del capitale medesimo fino al verificarsi dell’evento assicurato. Si tratterà, pertanto, sempre del frutto di un’attribuzione indiretta inter vivos. (191)

Non manca, peraltro, chi (192) ritiene che l’estraneità rispetto al patrimonio del beneficiante del diritto attribuito ai terzi beneficiari non sia elemento sufficiente per escludere la connotazione di atto a causa di morte, dovendosi attribuire rilievo decisivo al dato temporale dell’insorgenza del diritto all’interno della sfera giuridica del terzo.

L’indeterminatezza soggettiva sino all’apertura della successione del contraente (essendo sino ad allora ignota l’identità di coloro che rivestono la qualità di eredi dell’assicurato) impedirebbe la nascita del credito antecedentemente a tale momento, a dispetto dell’affermazione contenuta nell’art. 1920, ultimo comma, c.c., che, facendo risalire l’acquisto del diritto all’indennizzo da parte del beneficiario al tempo della designazione, sarebbe suscettibile di applicazione ai soli casi di designazione specifica (193). In quest’ottica, la morte dello stipulante non avrebbe valore di mera condizione di esigibilità della prestazione dall’assicuratore, bensì di ragione determinante dell’acquisto del diritto da parte degli eredi. L’indennizzo, in questa prospettiva, sarebbe destinato comunque agli eredi, ma in forza dell’ordinaria trasmissione iure hereditario, in quanto la compagnia assicurativa dovrebbe procedere alla liquidazione come se la polizza non fosse stata stipulata a favore di terzi. Perciò gli eredi dell’assicurato succederebbero a causa di morte nel credito alla somma spettante al loro dante causa, non verificandosi alcuna ipotesi di acquisto iure proprio.

Alla medesima conclusione, seppur sulla base di una differente argomentazione, giungono coloro (194) che eleggono a fulcro della questione il carattere essenzialmente revocabile della designazione (art. 1921 c.c.). Il potere di revoca della designazione da parte del contraente, in particolare, conferirebbe al diritto del beneficiario verso l’assicuratore la medesima precarietà che contraddistingue la posizione giuridica di colui che è contemplato in un testamento, dovendosi considerare dominus negotii al momento della designazione, e sino alla propria morte, il contraente e non il terzo beneficiario.

7. La designazione per testamento.

Sorgono, invece, difficoltà di carattere "qualificatorio" nell’ipotesi in cui la designazione del terzo venga compiuta successivamente nella scheda testamentaria. In dottrina, difatti, ci si è chiesti se, a seguito di una tale designazione, si sia ancora in presenza di un atto inter vivos oppure si realizzi un atto mortis causa.

Il problema è acuito dalla circostanza che l’art. 1920, comma 3 c.c., a differenza dell’art. 1411, comma 2, c.c. (che collega l’acquisto del diritto contro il promittente alla “stipulazione”), connette l’acquisizione del “diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione” alla (eventualmente successiva) “designazione”.

Al riguardo, secondo un’autorevole opinione (195), con la designazione testamentaria si avrebbe un’attribuzione "indiretta a causa di morte": "indiretta", perché il diritto di credito nasce nei confronti dell’impresa assicuratrice, e non nei riguardi dell’eredità; "a causa di morte", perché tale diritto ritrova la sua "fonte" nel testamento; circostanza, questa, che, tra l’altro, sarebbe confermata dal tenore letterale dell’art. 1920, comma 2, c.c., nella parte in cui stabilisce che il terzo acquista il proprio diritto "per effetto della designazione" (196). La designazione per testamento darebbe luogo ad un’attribuzione mortis causa, sicché l’acquisto avverrebbe a titolo derivativo (reputandosi che, in ispecie, l’attribuzione del beneficio diverrebbe attuale soltanto al tempo della morte del contraente e che il beneficiario acquisterebbe, di necessità, a titolo derivativo, il diritto all’indennizzo assicurativo). Si sarebbe, allora, dinanzi ad un’eccezionale deroga al divieto dei patti successori (rectius, ad un patto successorio legalmente ammesso), dal momento che la designazione potrebbe produrre effetti solo dopo la morte dell’assicurato, non conoscendosi anteriormente alla stessa chi sia il soggetto beneficiario.

Secondo un altro orientamento (197), invece, anche quando la designazione sia fatta nel testamento, si sarebbe comunque dinanzi ad una fattispecie inter vivos (nel senso che il terzo acquisterebbe un diritto proprio per effetto della stipulazione): l’acquisto del diritto in capo al beneficiario, infatti, pur essendo subordinato alla morte dello stipulante, continuerebbe pur sempre a trovare il proprio titolo nel contratto di assicurazione e, dunque, resterebbe estraneo al fenomeno della successione a causa di morte. In particolare, si ritiene che il diritto del terzo sorga col contratto di assicurazione e che la morte non rappresenti che una condizione sospensiva dell’esigibilità di tale diritto (198). La riprova di ciò si ritroverebbe, ancora una volta, nell’art. 1920, comma 3, c.c., il quale riconosce che il diritto all’indennità spetta alla persona designata iure proprio, e non già iure successionis, nel senso che esso non deriva dal patrimonio del defunto, ma compete direttamente al beneficiario dell’assicurazione.

Non si tratterebbe, quindi, di una disposizione a causa di morte, perché la sua funzione non sarebbe quella di far acquisire al terzo un diritto nuovo dopo la morte del disponente; dopo tale evento nascerebbe il diritto attuale alla prestazione dell’assicuratore, ma questo sarebbe un effetto dovuto alla funzione tipica del contratto di assicurazione, come tale, comune a tutti i tipi di designazione beneficiaria. Ne conseguirebbe che la disciplina della designazione testamentaria non sarebbe dissimile da quella delle altre forme di designazione.

Nella scia solcata da tali osservazioni si è inserita la dottrina più moderna (199), la quale ha rilevato che, in realtà, la designazione del beneficiario non integrerebbe un atto di attribuzione patrimoniale (sia pure indiretta), ma costituirebbe un negozio unilaterale con "valore determinativo-integrativo" (200): essa, infatti, non sarebbe diretta a regolare la sorte del patrimonio dello stipulante, bensì avrebbe la più modesta funzione di individuare per relationem il beneficiario di un negozio inter vivos (cioè di determinare la destinazione soggettiva della prestazione promessa, sotto il profilo della individuazione della sfera giuridica nella quale si produrrà l’arricchimento derivante dal beneficio programmato con il contratto a favore del terzo). Anche nel caso in esame (designazione testamentaria), quindi, non si configurerebbe una convenzione successoria, in quanto l’atto di ultima volontà sarebbe soltanto il "veicolo" attraverso il quale identificare il destinatario dell’attribuzione, la quale continuerebbe a ritrovare il proprio titolo esclusivamente nel contratto assicurativo (201). L’unica conseguenza della designazione ex testamento, pertanto, sarebbe rappresentata dal mero rinvio del prodursi dell’effetto determinativo al momento dell’apertura della successione, dandosi luogo, così, ad un fenomeno assimilabile - per certi versi - al contratto per persona da nominare. In quest’ottica, individuata la fonte del diritto del terzo (qualunque sia la designazione adottata) nel contratto di assicurazione ed attribuita alla morte solo il carattere di termine di efficacia (202), di riferimento temporale per l’esecuzione della prestazione, e non quello di causa dell’acquisto, si ritiene che il diritto alla prestazione dell’assicuratore dopo la morte del disponente non nasca, come richiederebbe la natura mortis causa dell’attribuzione, "in via originaria" come diritto nuovo, ma divenga soltanto attuale, essendo sorto già dal momento della conclusione del contratto (203).

L’esclusione dell’attribuizione al terzo solo iure successionis sarebbe confermata dallo stesso art. 1920, comma 2, quando dispone che “equivale a designazione l’attribuzione della somma assicurata fatta per testamento a favore di una determinata persona”, proprio perché in questa ipotesi (in mancanza di una norma espressa) verrebbe spontaneo pensare ad una attribuzione iure successionis.

Secondo questa impostazione la fattispecie in oggetto, nonostante la diversa modalità di designazione, resta pur sempre un negozio inter vivos avente natura trans mortem, ma, a ben vedere, con una peculiarità: l’acquisto del diritto all’indennità, infatti, diviene definitivo per il beneficiario nel momento stesso in cui, con la morte del disponente, esso si produce, venendosi solo allora ad individuare la persona designata (204). In sostanza, dunque, qui non si fa altro che derogare al principio generale, espresso nell’art. 1411 c.c., dell’acquisto immediato del diritto in capo al terzo (205), dal momento che la designazione, essendo contenuta in un testamento, non potrà esplicare effetti prima dell’apertura della successione. Ove, invece, lo stipulante rinunzi per iscritto al potere di revoca, la fattispecie in esame assumerà i connotati dell’atto post mortem.

A sostegno ulteriore della fondatezza di tale ricostruzione possono farsi le seguenti considerazioni di ordine pratico.

Anzitutto, se si dovesse far dipendere la natura del negozio - inter vivos o mortis causa - dalla forma di designazione, si perverrebbe alla conclusione, non condivisibile, di dover sottoporre il contratto di assicurazione a discipline diverse, a seconda della modalità di determinazione del beneficiario che, di volta in volta, viene adottata in concreto dal soggetto assicurato.

Ma non solo: se in caso di designazione testamentaria si dovessero applicare le regole proprie del diritto successorio, si dovrebbe ritenere che la nullità del testamento comporti sempre e necessariamente anche la nullità della designazione in esso contenuta; e ciò in aperto contrasto con l’opinione della dottrina specialistica, la quale, ormai da tempo, ha rilevato che all’atto di designazione non si estendono le "vicende" del testamento (206). Un simile risultato, quindi, rischierebbe di disattendere completamente la volontà del disponente in ordine all’individuazione della persona da beneficiare: difatti, applicando i principi propri della stipulazione a favore del terzo (art. 1411 c.c.), la nullità della designazione si concreterebbe, in pratica, in una mancata indicazione del soggetto beneficiario, con la conseguenza che l’indennità ricadrebbe nel patrimonio ereditario dello stipulante e, in tal modo, perverrebbe ai suoi eredi - legittimi o testamentari - iure successionis. (207)

Ancora, se si dovessero applicare le norme del diritto successorio alla designazione testamentaria, poiché il testamento può essere revocato solo nelle forme di cui agli artt. 679 ss. c.c. (altro testamento o atto ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni), anche per un’eventuale modifica della designazione da parte dello stipulante sarebbe necessario adottare le medesime forme. Una tale soluzione si rivelerebbe assai costosa per il soggetto assicurato, nell’ipotesi in cui egli debba solo indicare un diverso beneficiario senza dover anche modificare disposizioni testamentarie di carattere patrimoniale, oppure nell’ipotesi in cui egli non sia in grado di redigere un valido testamento olografo. Tuttavia, è lo stesso art. 1921 c.c. a smentire la necessità di una rigida corrispondenza di forma tra la designazione e la relativa revoca, dal momento che, al primo comma, prevede genericamente che: "La designazione del beneficiario è revocabile con le forme con le quali può essere fatta […]". Il legislatore, quindi, sembra equiparare in toto le varie forme di revoca consentite (208).

Infine, se trovassero applicazione le regole successorie, per la persona designata dovrebbero valere le ipotesi di indegnità a succedere o di incapacità a ricevere per testamento, in opposizione con quanto si afferma di consueto in dottrina (209); contrariamente a quanto disposto dall’art. 1920, comma 2, c.c., non sarebbe ammessa la designazione generica, perché in contrasto con il principio di certezza della volontà testamentaria (art. 628 c.c.); ove siano stati designati gli eredi, costoro sarebbero costretti ad accettare l’eredità, al fine di conseguire le somme assicurate; e - cosa ancor più evidente - l’indennizzo dovuto in caso di morte dovrebbe essere soggetto all’imposta di successione.

8. La designazione generica dei beneficiari della polizza: la necessità o meno di accettare l’eredità.

I problemi maggiori derivano dai vuoti lasciati dalle norme dettate in tema di assicurazione sulla vita, ai quali la giurisprudenza ha, nel corso dei decenni, tentato di dare risposta, specialmente con riferimento al caso in cui le discipline - assicurativa e successoria - si intersecano per effetto di quel richiamo, sovente fatto nella scheda di polizza, che va ad identificare quali beneficiari della prestazione assicurata gli "eredi" in tale loro qualità (id est, genericamente), senza indicarne ad uno ad uno i nominativi e senza prevedere come debba essere suddiviso l’importo assicurato.

La legittimità di una tale clausola non è mai stata posta in dubbio (210), risolvendosi la scelta dei propri eredi quali destinatari dell’indennizzo in una designazione generica di soggetti indeterminati al tempo della stipulazione, ma in ogni caso determinabili (211). Ovviamente, è solo avendo riguardo al momento della morte dell’assicurato (che coincide col momento dell’apertura della successione) che sarà possibile determinare il o i titolari del diritto di credito verso l’assicuratore.

Diversa è l’ipotesi prevista nello stesso secondo comma dell’art. 1920, secondo cui “equivale a designazione l’attribuzione della somma assicurata fatta nel testamento a favore di una persona determinata”, giacché in tal caso non si è più di fronte ad una designazione di beneficiario, sia pure generica o per relationem, ma ad una vera e propria attribuzione della somma assicurata, che dovrebbe perciò essere disciplinata come un acquisto a titolo derivativo.

Avuto riguardo al profilo della necessità o meno per gli eventuali eredi designati di accettare l’eredità, si è aperto, di recente, un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità. Si discute, cioè, sul se i beneficiarî della polizza assicurativa debbano identificarsi in coloro i quali risultino essere effettivamente eredi all’èsito del procedimento successorio, oppure in coloro i quali rivestano, al tempo della morte del contraente, la qualifica astratta di semplici chiamati alla di lui eredità o, in termini più generici, sul se il diritto proprio dei beneficiari-eredi possa essere condizionato, oppure no, dalla vicenda successoria del contraente l’assicurazione (212).

Per l’orientamento di legittimità consolidato fino alla metà dell’ultimo decennio (213), qualora il contratto di assicurazione per il caso morte preveda che l’indennizzo debba essere corrisposto agli eredi "legittimi o testamentari", tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualità di chiamati all’eredità, senza che rilevi la (successiva) rinuncia o accettazione dell’eredità da parte degli stessi (214), e quand’anche intervenga, in séguito, una successione testamentaria.

Anche la giurisprudenza di merito che si è pronunciata funditus sulla specifica questione ha affermato che <<il beneficiario della polizza assicurativa, designato con la formula "a favore degli eredi legittimi", non è l’erede, in quanto tale, ma la persona che in un determinato momento (morte dell’assicurato) riveste in astratto tale qualifica [...], senza la minima implicazione di carattere successorio>> (215).

Dal canto suo, la dominante dottrina (216) ritiene che "in questo caso, i beneficiari non possono che identificarsi con le persone chiamate alla successione".

La designazione, quindi, serve solo ad individuare i beneficiari ed è pertanto efficace anche se questi non accettano l’eredità.

In definitiva, secondo l’orientamento prevalente, sebbene l’identificazione dei beneficiari sia fatta al momento della morte dell’assicurato e con riferimento ai soggetti in quel momento chiamati all’eredità, essa ha sorte autonoma, in quanto l’accettazione del beneficio è indipendente dall’accettazione dell’eredità (217).

A sostegno di tale approccio, si sostiene che, ove si approdasse alla differente opinione (v. postea), in base alla quale i beneficiarî, genericamente divisati nei successori universali dell’assicurato, siano da rinvenire in coloro i quali abbiano effettivamente accettato l’eredità (e debba farsi, indi, applicazione delle regole della successione mortis causa in ordine alla ripartizione del capitale o della rendita assicurati), verrebbe giocoforza misconosciuto il principio, oramai consolidato, anche per via normativa, dell’acquisto iure proprio, da parte del beneficiario, del diritto alla somma assicurata, il quale, come già rimarcato, trae la sua origine non già dal patrimonio del contraente, bensì dall’atto di designazione, ed è estraneo alle vicende successorie del contraente medesimo.

A fronte di tale orientamento, di recente era stato formulato un nuovo indirizzo giurisprudenziale (218), alla cui stregua: "Nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore di terzo, la disciplina secondo cui, per effetto della designazione, il terzo acquista un proprio diritto ai vantaggi assicurativi si interpreta nel senso che ove sia prevista, in caso di morte dello stipulante, la corresponsione dell’indennizzo agli eredi testamentari o legittimi, le parti abbiano non solo voluto individuare, con riferimento alle concrete modalità successorie, i destinatari dei diritti nascenti dal negozio, ma anche determinare l’attribuzione dell’indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto, atteso che, in assenza di diverse specificazioni, lo scopo perseguito dallo stipulante è, conformemente alla natura del contratto, quello di assegnare il beneficio nella stessa misura regolata dalla successione".

La Cassazione, con la sentenza in esame, si è pronunciata sulla funzione che assume, nella clausola di individuazione dei beneficiari ed al fine di realizzare la divisione del capitale assicurato, il riferimento agli "eredi": la Corte ritiene che, applicando la volontà del contraente secondo "la più ragionevole interpretazione", l’individuazione dei beneficiari fatta richiamandone la qualifica di "eredi" implicherebbe che siano integralmente rispettate le regole successorie, ivi comprese quelle che determinano le quote di eredità. (219)

Tale conclusione, evidentemente, sovrascrive integralmente la regola elaborata ed applicata sino ad allora, in forma pressoché univoca, dalla giurisprudenza italiana (220).

E’ opportuno sottolineare che la decisione è praticamente contestuale ad un altro intervento, ad opera degli stessi giudici di legittimità, che nel 2015 ha interessato la posizione dei beneficiari nelle assicurazioni sulla vita: ci si riferisce alla pronuncia (221) con la quale si è dichiarata l’impossibilità, per l’erede, di conoscere l’identità del beneficiario individuato in polizza, laddove lo stesso richiedente l’informazione non sia anch’egli beneficiario e, come tale, titolare del diritto ad una quota del capitale. La decisione conferma, così, l’estraneità della posizione degli eredi rispetto alla prestazione assicurata che, per quanto indicato dall’art. 1923 c.c., resta del tutto disgiunta dalla successione. Ne deriva che l’erede non ha alcun diritto di sapere chi sia il beneficiario della prestazione assicurata, poiché tale identificazione non incide sulle regole successorie e non può pregiudicare la posizione dell’erede, nominato o chiamato o pretermesso, medesimo.

In realtà, anche una parte, sia pure minoritaria, della dottrina (222) è dello stesso avviso, sostenendosi che "Vero è che in caso di designazione generica questa produrrà i suoi effetti ed il diritto del terzo diverrà esigibile solo allorché questi sia determinato o determinabile al momento del verificarsi dell’evento. Pertanto, ove il chiamato in via legittima o testamentaria rinunci all’eredità, questi non acquisterà mai la qualità di erede e pertanto non potrà risultare essere il designato. In tal caso il diritto alla prestazione dell’assicuratore non potrà che essere di colui il quale risulterà essere il vero erede del contraente".

I beneficiari, in quest’ottica, sarebbero da individuare in coloro che espressamente o tacitamente abbiano accettato la delazione dell’assicurato.

Questa prospettiva, se per un verso mostra il pregio di rispettare il dato semantico della terminologia utilizzata dagli operatori, in chiave meramente pratico-applicativa sconta una indubbia debolezza. Appare palese, infatti, come il far dipendere la sorte della liquidazione della polizza dalle vicende successorie dell’assicurato conferisca a questa un’incertezza e precarietà di non scarso rilievo. L’esperimento vittorioso delle azioni di indegnità, di riduzione o di altra impugnativa testamentaria, così come una rinuncia all’eredità non tempestiva, si tradurrebbero in un aggravamento dell’operazione di liquidazione da parte della compagnia assicurativa o determinerebbero l’insorgenza di obblighi restitutori certamente evitabili, con intralci ben maggiori di quelli che potrebbero derivare dalla sola individuazione dell’erede beneficiario.

Anche per evitare una simile difficoltà, l’orientamento prevalente (v. antea), in plurime occasioni ribadito in giurisprudenza (Cass. 14.5.1996, n. 4484, Cass. 23.3.2006, n. 6531, Cass. 21.12.2016, n. 26606, e, da ultimo, Cass. 15.10.2018, n. 25635), sposa un’accezione del tutto atecnica del lemma "erede" contenuto nel contratto assicurativo.

9. Le modalità di suddivisione della somma assicurata tra i beneficiari: per numero o secondo le regole successorie?

Il secondo macroproblema che si pone quando i beneficiari del contratto vita siano identificati laconicamente con la locuzione "i miei eredi" (anche mediante aggiunta eventuale del riferimento alla successione legittima o testamentaria) è la determinazione delle quote dovute a tali beneficiari. In altri termini: si deve dar luogo alla suddivisione del capitale assicurato in parti uguali per numero di soggetti così identificati, oppure la suddivisione deve avvenire rispettando le quote a ciascuno di essi attribuite in base al diritto successorio? (223)

Nella fattispecie che era stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite il de cuius aveva stipulato quattro polizze assicurative sulla vita, designando in tutte come beneficiari, in caso di sua morte, "gli eredi legittimi", tra i quali, alla morte dello stipulante, rientravano un fratello e quattro nipoti, a loro volta succeduti per rappresentazione alla sorella defunta in data precedente alla stipula dei contratti.

Risulta molto diversa, sul piano delle conseguenze economiche per i destinatari, la suddivisione in parti uguali dell’indennizzo spettante, rispetto a quella riferita, pro quota, alle regole successorie (nel caso di specie, determinata dai diritti di più eredi succeduti per "rappresentazione"), in tutti i numerosissimi casi in cui l’intenzione del contraente non traspaia in modo chiaro ed evidente dalla clausola contrattuale indicativa dei beneficiari.

Con riferimento al criterio di ripartizione della quota assegnata agli eredi del beneficiario, nel momento in cui deve essere devoluto il beneficio, sono state proposte due diverse e contrapposte interpretazioni.

In mancanza di un criterio di ripartizione espressamente indicato nella polizza, secondo una prima tesi (224), l’acquisto del diritto spettante al beneficiario avverrebbe, eccezionalmente, iure proprio, con la conseguenza che si prospetterebbe una suddivisione della prestazione in parti uguali secondo il numero dei beneficiari (per legittima o per testamento), e non in base alle quote ereditarie (225).

La possibilità di rivolgersi direttamente al promittente-assicuratore per ottenere la prestazione di un diritto acquisito contrattualmente dai beneficiari imporrebbe di disconoscere qualsiasi tipo di rinvio materiale alle norme successorie, utili all’unico scopo di dare contenuto alla relatio soggettiva connaturata alla designazione in favore di soggetti determinabili solo al momento della morte dell’assicurato. Per il resto, esclusivamente dalla disciplina degli atti tra vivi sarebbe concesso attingere per costruire un sistema coerente con il titolo dell’acquisto. A voler aderire a questa impostazione, il diritto di credito alla somma assicurata, quale obbligazione pecuniaria divisibile (art. 1314 c.c.), riferita ad una pluralità di soggetti sarebbe esigibile nei confronti dell’assicuratore da parte dei concreditori parziari (i beneficiari) in identica proporzione, a nulla importando la differente modalità di acquisizione, diretta o indiretta, dello status di erede.

Anche la giurisprudenza formatasi fino a pochi anni or sono aveva tenuto nettamente distinte la fase di individuazione dei beneficiari, da farsi in base alla successione, e la fase di determinazione delle somme ad essi spettante (226).

9.1. La isolata pronuncia della Suprema Corte del 2015.

La Suprema Corte, con la pronuncia del 2015, realizza un aperto overruling, evocando a proprio supporto l’interpretazione della (presunta) volontà del contraente, in virtù della quale la suddivisione del beneficio non potrebbe che essere intesa come volta a richiamare interamente le regole del diritto successorio, ivi compresi medesimi criteri ripartitivi tra i chiamati.

La Corte ritiene che proprio la presumibile volontà del contraente, nel richiamare gli eredi, sia da intendersi quale comprensiva del richiamo alle loro rispettive posizioni nella successione; al contrario, laddove si limitasse il criterio successorio alla sola individuazione degli eredi-beneficiari, si applicherebbe in maniera caduca la volontà del de cuius/assicurato.

Innanzitutto, la Corte precisa che il cambio di rotta rispetto alle decisioni precedenti si deve ad una più meditata valutazione di quella che, in siffatti casi, è l’intenzione della parte dichiarante, conclusione alla quale si arriverebbe applicando il "senso comune" (227), prima ancora che in base a complesse regole ermeneutiche; e, secondo la Corte, in virtù del tenore letterale della clausola sottoscritta dal contraente, che richiama la successione legittima o testamentaria, il senso comune non potrebbe che indicare l’inequivoca volontà del dichiarante di fare ricorso alle regole ereditarie in concreto rilevanti sia per la determinazione dei beneficiari sia per la spartizione delle quote (imponendo una ripartizione proporzionale alle quote di eredità oggetto di delazione, ove la clausola di designazione non disponga diversamente) (228).

Attraverso, quindi, un allineamento tra ciò che richiede il senso comune e ciò che imporrebbero le regole ermeneutiche, la Corte supera la regola consolidata dalla precedente giurisprudenza di richiamare il diritto successorio solo per l’identificazione di beneficio e di suddividere per parti uguali (in quanto “il dire che qualcuno è erede di un soggetto significa, secondo l’espressione letterale, evocare tanto chi lo è quanto anche in che misura lo è”).

Da qui l’enunciazione di una regola ermeneutica inedita: "Quando in un contratto di assicurazione sulla vita sia stato previsto per il caso di morte dello stipulante che l’indennizzo debba corrispondersi agli eredi tanto con formula generica, quanto e a maggior ragione con formulazione evocativa degli eredi testamentari o in mancanza degli eredi legittimi, tale clausola, sul piano della corretta applicazione delle norme di esegesi del contratto e, quindi, conforme a detta disposizione, dev’essere intesa sia nel senso che le parti abbiano voluto tramite dette espressioni individuare per relationem, con riferimento al modo della successione effettivamente verificatosi, negli eredi chi acquista i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (art. 1920, commi 2 e 3, c.c.), sia nel senso di correlare l’attribuzione dell’indennizzo ai più soggetti così individuati come eredi in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto secondo la modalità di successione effettivamente verificatasi, dovendosi invece escludere che, per la mancata precisazione nella clausola contrattuale di uno specifico criterio di ripartizione che a quelle modalità di individuazione delle quote faccia riferimento, le quote debbano essere dall’assicuratore liquidate in misura eguale".

Si segnala, in chiave comparatistica (v. funditus § 15), che il rispetto della proporzionalità con le quote ereditarie, come regola per la suddivisione della somma assicurata tra gli eredi, è espressamente sancito dal legislatore francese il quale, dopo aver testualmente acconsentito alla designazione generica de "les heritiers de l’assuré", dispone che i medesimi "ont droit au bénéfice de l’assurance en proportion de leurs parts héréditaires" (art. 132-8 Code des Assurances).

L’assenza nel nostro ordinamento di una così chiara presa di posizione del diritto positivo, che, anzi, in ambito fiscale, sembra contrapporsi ad una ricostruzione parasuccessoria, escludendo dall’assoggettamento all’imposta di successione "le indennità spettanti per diritto proprio agli eredi in forza di assicurazioni stipulate dal defunto" (art. 12, comma 1, lett. c), l. n. 346/1990), è stata decisiva per l’affermazione giurisprudenziale dell’indirizzo diametralmente opposto (229).

Il fatto che una fitta giurisprudenza, ma una ancor più ampia prassi quotidianamente seguita dal mercato assicurativo nel settore delle assicurazioni sulla vita, si sia orientata in senso difforme suscita qualche perplessità su quel che possa essere ricostruito come "senso comune". Infatti, tralasciando che la ricerca della reale volontà del contraente, in quanto attività che si svolge ex post, è di per sé non agevole, si deve osservare come nella funzione interpretativa lo strumento guida dovrebbe essere in primis l’esatta individuazione dello scopo che il soggetto voleva, di volta in volta, perseguire nel porre in essere una data operazione contrattuale ovvero nel rendere una dichiarazione. Avendo riguardo allo scopo, sembrerebbe che mediante il contratto di assicurazione sulla vita il contraente intenda tutelare ed attribuire un beneficio a soggetti predeterminati, il tutto al di fuori delle norme in materia successoria, la cui applicazione, proprio perché suppletiva, dovrebbe essere parimenti cauta.

Pertanto, supporre che mediante l’utilizzo della locuzione "i miei eredi legittimi e/o testamentari" il contraente abbia sempre e comunque in animo di richiamare le norme successorie per determinare in concreto la ripartizione del capitale assicurato fa insorgere dei dubbi sul piano logico, ancor prima che giuridico: non si può escludere, infatti (quantomeno non lo si può escludere in via generale e preventiva), che il dichiarante volesse semplicemente richiamare una cerchia di persone, tutte poste sullo stesso piano. Inoltre, la ricostruzione nei termini posti dalla sentenza del 2015 non sembra tenere sufficientemente conto del fatto che l’utilizzo del richiamo per relationem sia stato adoperato dalla prassi, e forse anche nel rapporto assicurativo per cui è causa, sulla base dell’interpretazione sino ad oggi seguita dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza, il che potrebbe avere influenzato proprio la volontà del contraente-dichiarante in quanto criterio di riferimento.

10. L’attribuzione della somma in caso di premorienza del beneficiario: accrescimento delle altre quote ovvero rappresentazione.

Per gli eventi della vita, può accadere che il beneficiario premuoia al contraente-assicurato senza che quest’ultimo abbia provveduto a definire le sorti delle somme garantite a fronte di tale eventualità. In tal caso la dottrina italiana, in assenza di espressa previsione normativa che risolva la questione, ha proposto due soluzioni. Secondo un primo orientamento (230), rimasto del tutto minoritario e che ha avuto anche scarso seguito in giurisprudenza, in caso di premorienza del (o di uno dei) beneficiario (i) la somma assicurata dovrebbe essere distribuita tra i beneficiari superstiti (cd. accrescimento) e, in loro mancanza, sarebbe da riattribuire al contraente, ovvero ai suoi eredi. Questa posizione muove dalla considerazione della diversità tra la posizione del beneficiario di una polizza vita o infortuni e la riconduzione tout court del contratto assicurativo ad una fattispecie applicativa del contratto a favore del terzo, con conseguente rifiuto della regola di cui all’art. 1412 c.c., la quale stabilisce che, in caso di morte del terzo, la prestazione debba essere eseguita a favore dei suoi eredi (231).

Se si afferma, in particolare, che la qualità di erede (testamentario o legittimo) deve sussistere, ai fini dell’individuazione dei destinatari del beneficio assicurativo, al tempo della morte dello stipulante, sarebbe giocoforza ritenere che i soggetti che tale veste ricoprivano, seppure in astratto, al momento della designazione - alla quale l’art. 1920 c.c. ricollega l’effetto di attribuzione del diritto al terzo nei confronti dell’assicurazione - non risulterebbero titolari di alcuna posizione di vantaggio qualora fossero premorti allo stipulante, risultando, pertanto, gli eredi di costoro privi di qualsivoglia legittimazione ad esigere la liquidazione della somma dovuta.

Altra parte, prevalente, della dottrina ritiene, invece, che, in caso di premorienza del beneficiario originariamente individuato, gli subentrerebbero i suoi eredi a titolo successorio (id est, per diritto di rappresentazione) (232), ove il beneficio non fosse stato revocato o il contraente non avesse diversamente disposto, essendo il diritto ai vantaggi dell’assicurazione entrato nel patrimonio del beneficiario sin dal momento della conclusione del contratto. In particolare, tale diritto si trasmetterebbe agli eredi del beneficiario, in applicazione di quanto statuito all’art. 1412, comma 2, c.c., purché, naturalmente, detta designazione non fosse avvenuta mercé il negozio testamentario, ipotesi in cui sino al momento della morte del contraente essa, evidentemente, non produrrebbe effetto (233).

La giurisprudenza (234) converge nell’attribuire per diritto di rappresentazione agli eredi del beneficiario premorto la somma a questi spettante, alla luce dell’immanenza del diritto in capo al beneficiario sin dalla designazione ed a prescindere dall’intervenuta irrevocabilità della designazione. Ovviamente, gli eredi per rappresentazione, come tali, avranno diritto a ricevere la sola quota già di spettanza del de cuius.

Nell’ambito di tale impostazione, si discute, poi, a quale titolo avvenga detta trasmissione, se, cioè, iure proprio, oppure iure hereditatis. A sostegno della prima tesi, si argomenta (235) nel senso che il contrario orientamento urterebbe contro l’art. 1412 c.c., che non disciplina un diritto successorio, ma sostanzialmente istituisce, in sostituzione di un beneficiario originariamente designato, un nuovo beneficiario. Viceversa, chi (236) sostiene che l’acquisto avvenga iure hereditatis, ritiene che questo sia un caso di normale successione, in capo agli eredi, al de cuius, che, in vita, per effetto della designazione, aveva già acquisito il diritto al beneficio (237). In questa direzione si sostiene che gli eredi del beneficiario subentrano, in universum ius, all’ereditando.

La prima tesi non è immune da critiche (238), se si pensa che la somma spettante a titolo di beneficio entra nel patrimonio del beneficiario, e dunque dei suoi eredi, senza che ad essa si applichi l’art. 1923 c.c., che opera solo rispetto all’assicurato.

Si presta a minori censure la seconda tesi, secondo la quale l’acquisto del diritto da parte degli eredi del beneficiario premorto all’assicurato avverrebbe iure hereditatis e, quindi, la suddivisione della prestazione avverrebbe in ragione delle rispettive quote ereditarie.

In senso contrario a quest’ultima soluzione va, tuttavia, evidenziato che, nel caso in cui il beneficiario avesse per testamento attribuito il proprio patrimonio ad un soggetto (persona fisica o ente) del tutto estraneo alla sua sfera familiare o, comunque, sconosciuto al contraente della polizza vita, il beneficio (ovvero la quota spettante al beneficiario premorto) verrebbe attribuito a tali terzi, il che solo con una certa dose di finzione potrebbe essere ricondotto alla volontà (presunta) del contraente che ha originariamente individuato in persone a lui note (i suoi eredi) i beneficiari di polizza.

11. Una prospettiva di diritto comparato (cenni).

Il problema della corretta individuazione dei beneficiari è ampiamente dibattuto in altri sistemi giuridici e non è privo di criticità anche in Paesi che vantano una disciplina legislativa più analitica, in argomento, rispetto a quella italiana (239). Per tale motivo l’argomento è stato oggetto di specifica trattazione nei Principles of European Insurance Contract law (noti come "PEICL"), ossia in quella che appare, ad oggi, la proposta di legge opzionale più completa ed accreditata in materia di contratto di assicurazione.

I PEICL propongono che, in caso di premorienza di uno dei beneficiari, la somma di spettanza vada in accrescimento a quella degli altri soggetti designati, nonché che la partizione della somma complessiva sia suddivisa in quote uguali tra i beneficiari così individuati (PEICL, art. 17:102 par. 4).

Nei vari sistemi europei, anche laddove si è fatto un crisma dell’autonomia pattizia, il legislatore ha teso a ridurre le possibilità di conflitto ex post tra beneficiari designati nel momento in cui si verifica la morte dell’assicurato.

Su questo fronte si colloca senza dubbio il sistema francese che, omaggiando il principio liberale nel diritto dei contratti, offre numerose regole di default, salvaguardando idealmente l’immunizzazione della disciplina del contratto assicurativo da quella del droit de succession. L’art. L132-8 indica chiaramente come l’attribuzione di beneficio può essere fatta in favore di un beneficiario determinato o determinabile e saranno in tal caso applicabili le norme ermeneutiche previste in materia contrattuale. Tuttavia, i limiti di intervento del giudice nella ricostruzione della volontà del contraente appaiono assai più rigidi.

L’art. 132-8 prevede altresì espressamente che, laddove siano indicati come beneficiari gli eredi, i chiamati a qualunque titolo a succedere conservano la qualifica di beneficiari anche qualora rinuncino all’eredità, posto che il capitale assicurato non è parte della successione medesima, ma ha un titolo del tutto autonomo. Tale norma è del tutto allineata, come si è visto, all’interpretazione proposta dalla dottrina italiana in argomento.

Con specifico riferimento ad uno dei punti maggiormente controversi, l’art. L132-8, al. V, prevede espressamente che, in mancanza di diversa indicazione, l’attribuzione sia fatta in ragione della quota ereditaria: la norma è, però, dichiaratamente dispositiva e, dunque, conferma che, laddove il contraente voglia prevedere una diversa soluzione, possa farlo indicandolo espressamente. Tale sistema tende, dunque, a preservare pienamente la libertà contrattuale e, in omaggio a tale principio, preclude, per espressa previsione legislativa, la possibilità per il giudice di sovrapporre il criterio successorio alla volontà delle parti (240).

Sia il legislatore italiano (art. 1923, comma 2, c.c.) che quello francese (art. L. 132-12 Code des assurances) risolvono le possibili interferenze fra il contratto di assicurazione sulla vita a favore di un terzo e il diritto delle successioni escludendo dal relitto, e quindi dalla delazione ereditaria dello stipulante, il capitale assicurato acquisito dal terzo beneficiario.

In forza di tali disposizioni, il beneficiario di un’assicurazione sulla vita acquista, sin dal momento della conclusione del contratto (241), un diritto proprio, a titolo originario (242), che, come già detto, non è mai appartenuto al patrimonio dell’assicurato.

In Austria, l’art. 167 par. 2 VGG (ossia la Versicherungsvertragsgesetz 2007) prevede che, se il contraente individua quali beneficiari gli eredi, essi avranno diritto alla somma assicurata in proporzione al diritto di ereditare. Peraltro, anche qualora rinuncino, al momento della successione, permarrà il diritto derivante dal contratto assicurativo. Si tratta, anche in questo caso, di una regola di default, dalla quale il contraente può deviare attraverso una previsione espressa nella polizza o nella successiva individuazione dei beneficiari di contratto.

In Germania sono ammessi e disciplinati i contratti successori (Erbvertrag); tuttavia il § 2301, l BGB, impone le formalità testamentarie alle donazioni mortis causa: l’assicurazione sulla vita (e il contratto a favore di terzo) è esonerata dall’applicazione di tale norma, ma non dalla disciplina della successione necessaria.

La consapevolezza degli intrecci della disciplina assicurativa con quella successoria è da tempo acquisita anche negli Stati Uniti. La dottrina statunitense (243) esamina le ragioni del successo degli strumenti di delazione ereditaria - non probate - alternativi al testamento (c.d. prabate), tenendo presente che in questo ordinamento il sistema dell’amministrazione giudiziale dell’eredità (244) ha subìto negli ultimi anni una netta deflazione a vantaggio degli strumenti alternativi al testamento (will substitutes).

12. La decisione delle Sezioni Unite n. 11421 del 2021.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, la tesi che sembrava maggiormente meritevole di condivisione era quella secondo la quale il diritto nei confronti dell’assicurazione sorge col contratto, ma, ove non vi sia designazione nello stesso, l’obbligazione dell’assicuratore sorga in incertam personam e sia determinato il titolare della relativa pretesa solo con la successiva designazione. In tal caso, però, gli effetti si produrrebbero nella sfera del terzo con effetto ex tunc dalla stipulazione del contratto, che sarebbe la vera fonte del diritto all’indennizzo. La designazione avrebbe, quindi, la funzione di mera determinazione del soggetto titolare del diritto sorto dal contratto di assicurazione sulla vita nei confronti dell’assicuratore.

Nel risolvere le riportate questioni, le Sezioni Unite, premesso che l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo è riconducibile alla più generale figura del contratto a favore di terzi, con la differenza che il terzo nell’assicurazione sulla vita acquista il suo diritto ai correlati vantaggi, e dunque all’indennità, per effetto non della stipulazione, ma della designazione, sicché il beneficiario può rivolgersi direttamente al promittente assicuratore per ottenere la prestazione (essendo il contratto la fonte regolatrice dell’acquisto), hanno evidenziato che la questione di diritto decisa in senso difforme dalle sezioni semplici attiene alla sussistenza, o meno, di un criterio immanente di interpretazione presuntiva, in forza del quale la clausola dell’assicurazione sulla vita, che preveda quali beneficiari gli eredi dello stipulante, comporti anche un rinvio alle quote di ripartizione dell’eredità secondo le regole della successione legittima o testamentaria.

Essendo la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle previste dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., atto inter vivos con effetti post mortem, da cui discende l’effetto dell’immediato acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione, la generica individuazione quali beneficiari degli “eredi [legittimi e/o testamentari]” ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente, indipendentemente dalla rinunzia o dall’accettazione della vocazione.

La natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli “eredi” designati quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione esclude l’operatività riguardo ad esso delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l’automatica ripartizione dell’indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione. La qualifica di “eredi” rivestita al momento della morte dello stipulante sopperisce, invero, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, in base al disposto del secondo comma dell’art. 1920 c.c., che funziona soltanto al fine di indicare all’assicuratore chi siano i creditori della prestazione, ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di designati, l’applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari.

In forza della designazione degli “eredi” quali beneficiari dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, la prestazione assicurativa vede quali destinatari una pluralità di soggetti in forza di una eadem causa obligandi, costituita dal contratto.

Rispetto alla prestazione divisibile costituita dall’indennizzo assicurativo, come in ogni figura di obbligazione soggettivamente complessa ove non risulti diversamente dal contratto, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale, il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura.

L’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica altresì l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte del secondo comma dell’art. 1412 c.c., con conseguente trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo (quale conseguenza dell’acquisto già avvenuto in capo a quest’ultimo).

La premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per "rappresentazione" in forza dell’art. 1412, secondo comma, c.c.

Alla stregua di tali rilievi, Sez. U, n. 11421/2021, Scarpa, ha fornito la riposta ai quesiti, statuendo che:

“La designazione generica degli ‘eredi’ come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dall’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione. (Rv. 661129-01);

- La designazione generica degli ‘eredi’ come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della “eadem causa obligandi”, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo, il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura. (Rv. 661129-02);

- Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo”. (Rv. 661129-03).

13. La solidarietà attiva.

Per quanto si condivida la soluzione finale cui sono pervenute le Sezioni Unite, la linea di demarcazione tra le obbligazioni solidali e quelle divisibili non è sempre nitida.

Va, in primo luogo, evidenziato che la solidarietà attiva nelle obbligazioni (che comporta la possibilità, per ogni creditore, di invocare l’intera prestazione), a differenza di quella passiva (art. 1294 c.c.), non si presume (nemmeno in caso di identità della res debita (245) e della causa obligandi), ma deve risultare espressamente dalla legge o dal titolo (specifico patto) (246). Invero, nella solidarietà attiva non si riscontra un vantaggio dei creditori solidali, essendo sicuramente avvantaggiato solo il debitore, che si libera dalla prestazione rendendola ad uno qualsiasi dei creditori (Sez. 3, Sentenza n. 11366 del 16/05/2006, Rv. 589804 - 01).

La regola generale è rappresentata, ai sensi dell’art. 1314 c.c., dalla parziarietà attiva, in virtù della quale ciascuno dei creditori non può domandare il soddisfacimento del credito che per la sua parte, salvo che sia stata espressamente pattuita la solidarietà attiva (247).

In secondo luogo, premesso che, ai sensi dell’art. 1317 c.c., solo le obbligazioni indivisibili sono regolate dalle norme (art. 1292-1313 c.c.) relative alle obbligazioni solidali (salvo quanto disposto dagli artt. 1318 ss.), le obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro sono divisibili (cfr., argomentando a contrario, art. 1316 c.c.).

Va altresì evidenziato che l’art. 1298, comma 2, c.c. (secondo cui le parti nelle quali l’obbligazione in solido si divide tra i diversi creditori si presumono uguali, se non risulta diversamente) rileva esclusivamente nei rapporti interni (248), laddove nel caso di specie entrano in gioco quelli esterni (tra assicuratore e beneficiari). In particolare, i rapporti tra assicuratore-promittente, da un lato, ed i beneficiari, dall’altro, concernono i profili esterni, restando il terzo estraneo al rapporto – contratto - assicurativo. Pertanto, in materia di obbligazioni solidali, la solidarietà dal lato passivo, come da quello attivo, non rappresenta una qualità aggiuntiva del debito o del credito, assumendo invece rilievo solo nei rapporti interni, in termini di azioni esperibili, dopo il pagamento, tra i soggetti solidali per realizzare il riequilibrio delle posizioni (Sez. 1, n. 804/2009, Rv. 606227-01).

Da non confondere con la fattispecie esaminata dale Sezioni Unite è quella dei crediti del de cuius ex artt. 727 e 757 c.c..

Come è noto, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune (del de cuius) o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria (Cass. nn. 15894/2014 e 27417/2017).

In particolare, i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 c.c. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727 c.c., il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757 c.c., il quale, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760 c.c, che, escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il de cuius ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito. (Sez. U, n. 24657/2007, Rv. 600532-01 (conf.: Sez. 6-1, n. 995/2012, Rv. 621246-01, Sez. 3, n. 15894/2014, Rv. 632723-01, e Sez. 6-2, n. 27417/2017, Rv. 646949-01).

Per completezza espositiva va, da ultimo, evidenziato che, in ambito condominiale (Cass. n. 14530/2017 e sez. un. n. 9148/2008), in riferimento alle obbligazioni assunte dall’amministratore nei confronti di terzi, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli suoi componenti solo in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c. per le obbligazioni ereditarie.

  • obbligazione
  • responsabilità
  • responsabilità civile
  • responsabilità contrattuale
  • codice civile

XII)

IL NUOVO REGIME DELLA RESPONSABILITÀ PER IL FATTO DEGLI AUSILIARI

(di Paolo Spaziani )

Sommario

1 Il ridisegnato regime della responsabilità per il fatto degli ausiliari: Sez. 3, n. 29001/2021, Porreca, Rv. 662914-01. - 2 L’art. 1228 c.c. e la responsabilità medica. - 3 L’obiettivo economico e i presupposti esegetici della sentenza. - 4 Implicazioni sistematiche e fondamento dogmatico del nuovo orientamento giurisprudenziale.

1. Il ridisegnato regime della responsabilità per il fatto degli ausiliari: Sez. 3, n. 29001/2021, Porreca, Rv. 662914-01.

Con la sentenza 20 ottobre 2021, n. 29001, la Terza Sezione civile della S.C., dando continuità ad un orientamento già manifestato in una precedente pronuncia del 2019 (Sez. 3, n. 28987 del 2019, Porreca, Rv. 655790-01), ha assunto una posizione decisamente innovativa in ordine all’istituto - che occupa un posto di rilievo nella disciplina dell’inadempimento delle obbligazioni - della responsabilità per il fatto degli ausiliari.

In base alla formula accolta nel codice, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (art. 1228 c.c.).

Secondo la concezione tradizionale, già prevalsa nella dottrina francese (S. Becqué, in Rev. trim. droit. civ., 1914, 284) e recepita da quella italiana (per tutti, cfr. A. De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, 1, Milano 1979, 164), questa regola avrebbe accolto il principio della responsabilità del debitore indipendentemente dalla sua colpa nella scelta o nella vigilanza degli ausiliari. Egli, precisamente, sarebbe responsabile del fatto colposo altrui.

Si tratterebbe, pertanto, di una regola di responsabilità oggettiva, il cui fondamento (comune a quello della regola che sancisce la responsabilità extracontrattuale del preponente per i fatti dannosi commessi dal preposto: art.2049 c.c.) risiederebbe nell’esigenza che chi si appropria dell’attività altrui per i propri fini assuma anche il rischio delle conseguenze dannose di tale attività (C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 2012, 70).

Presupposti della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario sarebbero: A) la posizione di ausiliario dell’autore del fatto; B) il carattere doloso o colposo del fatto stesso; C) la connessione tra il fatto e le incombenze dell’ausiliario.

A) La posizione di ausiliario è espressa dal predicato della proposizione normativa, secondo cui essa è assunta dal terzo (rispetto al rapporto obbligatorio intercorrente tra il creditore e il debitore) di cui il debitore “si avvale” per l’adempimento. Tale posizione non esige la sussistenza di uno specifico rapporto giuridico (ad es.: di lavoro subordinato o, comunque, di dipendenza) tra il terzo e il debitore (Sez. 3, n. 6243 del 2015, Vincenti, Rv. 635072-01) ma richiede soltanto che l’attività si inserisca di fatto nel procedimento esecutivo della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio tra quest’ultimo e il creditore. Se, dunque, l’attività dell’ausiliario si inserisce nell’esecuzione della prestazione dovuta dal debitore, non rileva il titolo in base al quale tale attività è svolta, in quanto il debitore risponde per il solo fatto di appropriarsi di essa ai propri fini, e cioè per il fatto di avvalersi dell’ausiliario per l’adempimento della propria obbligazione.

Il rilievo dato dalla proposizione normativa all’ “avvalimento”, da parte del debitore, dell’attività posta in essere dal terzo, se da un lato non esige la sussistenza di uno specifico rapporto giuridico tra l’ausiliario e il debitore, dall’altro lato richiede, tuttavia, pur sempre che l’attività medesima non sia svolta al di fuori della ingerenza del debitore e che egli mantenga poteri di determinazione dell’operato dell’ausiliario. Ausiliari, in altre parole, non sono tutti i terzi chiamati a svolgere una attività che - eventualmente per incarico dello stesso creditore o per previsione di legge - si inserisce nel momento esecutivo della prestazione dovuta dal debitore (in tema v. già Sez. 3, n. 4438/1985, Tropea, Rv. 441899-01, sull’irresponsabilità del debitore per il ritardo dovuto a disservizio postale, non ricorrendo il rapporto di ausiliarietà richiesto dall’art. 1228 c.c.); possono infatti considerarsi tali solo quelli che agiscono su incarico del debitore e il cui operato sia assoggettato ai suoi poteri direttivi e di controllo (Sez. 3, n. 17853/2011, Vivaldi, non mass.).

B) Secondo la formula normativa, il debitore risponde del fatto dell’ausiliario solo se doloso o colposo. Il fatto commesso dall’ausiliario rileva come fatto di inadempimento del quale risponde il debitore soltanto se connotato da colpa: non è dunque necessaria la culpa in eligendo o in vigilando del debitore ma resta indispensabile la colpa dell’ausiliario nell’esecuzione della prestazione. In assenza della colpa dell’ausiliario, non sussiste la responsabilità del debitore.

Si tratta, secondo autorevole dottrina, della conferma della regola generale, espressa dall’art. 1218 c.c., secondo cui la responsabilità per inadempimento sarebbe fondata sulla colpa (C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, cit., 70, 72).

La comprensione della portata di questo specifico presupposto della responsabilità di cui all’art. 1228 c.c. - secondo la ricostruzione sistematica offertaci dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale tradizionale - presuppone che si distingua la responsabilità che consegue all’inadempimento dal fatto che lo determina.

La responsabilità che consegue all’inadempimento è una responsabilità imputata personalmente ed esclusivamente al debitore poiché egli è il soggetto passivo del rapporto obbligatorio e la pretesa del creditore può essere esercitata unicamente nei suoi confronti (A. D’Adda, Commentario al Codice civile diretto da V. Cuffaro, Torino 2013, II, 329). L’ausiliario resta terzo rispetto al rapporto obbligatorio, sicché non può essere chiamato a rispondere per l’inadempimento dello stesso (V. Roppo, A. Gentili, Trattato del contratto, 5, Milano, 2006, 827), ma eventualmente - e sempre che ne ricorrano i presupposti - solo a titolo di illecito extracontrattuale (C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, cit., 73).

Invece, il fatto che determina l’inadempimento, pur riflettendosi nella sfera giuridica del debitore (il quale, appunto, ne risponde personalmente ed esclusivamente), rileva come fatto di inadempimento imputabile all’ausiliario in base al giudizio di colpa (C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, cit., 73). Il fatto colposo, in altre parole, resta fatto colposo proprio dell’ausiliario anche se ne risponde il debitore: in tal senso, dunque, il debitore risponde oggettivamente del fatto e della colpa altrui (A. De Cupis, Il danno, cit., 164).

C) Terzo presupposto della responsabilità contrattuale del debitore per il fatto dell’ausiliario ex art. 1228 c.c. (comune a quello che fonda la responsabilità extracontrattuale del preponente per il fatto del preposto ex art. 2049 c.c.) sarebbe la connessione del fatto con l’incarico conferito all’ausiliario (cfr. già Sez. 3, n. 819/1970, Mirabile, Rv. 346148-01). Al riguardo, non sarebbe necessario che il fatto dell’ausiliario costituisca esatta esplicazione dell’incarico ricevuto dal debitore, essendo invece sufficiente che l’incarico sia occasione necessaria del fatto; perché il debitore sia chiamato a rispondere, pertanto, basterebbe che l’incarico di eseguire la prestazione, da lui conferito all’ausiliario, abbia esposto il creditore all’ingerenza dannosa dell’incaricato.

Su questo impianto tradizionale è intervenuta la Cassazione, con la richiamata pronuncia della Terza Sezione civile del 2021.

In base a questa pronuncia - che, come si è detto, non costituisce una assoluta novità ma rappresenta la compiuta sistematizzazione di un orientamento già manifestatosi in precedenti decisioni della stessa sezione - la responsabilità del debitore di cui all’art. 1228 c.c., pur trovando un fondamento oggettivo nell’assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall’utilizzazione di terzi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, integra una fattispecie di responsabilità soggettiva per fatto proprio, che deve essere distinta dalla responsabilità oggettiva per fatto altrui, in base alla quale l’imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell’art. 2049 c.c..

Il debitore, anzitutto, risponde, non in via indiretta (del fatto altrui), ma in via diretta (del fatto proprio), in quanto “l’attività dell’ausiliario è incardinata nel programma obbligatorio originario” e “la responsabilità di chi ha volontariamente incaricato l’ausiliario, e organizzato attraverso questo incarico l’esecuzione della propria obbligazione per i fini negoziali perseguiti, è, appunto, per fatto proprio”.

In secondo luogo, il debitore risponde non a titolo oggettivo ma a titolo di colpa, in quanto la responsabilità, pur prescindendo dalla vecchia e abusata culpa in eligendo o in vigilando, sarebbe “pur sempre fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario”, che, come si è veduto, deve consistere nel dolo o nella colpa.

In altre parole, da un lato, il fatto dell’ausiliario, in quanto rientrante nel contenuto della prestazione dovuta dal debitore (e quindi intraneo alla sua sfera giuridica), non rimarrebbe fatto proprio dell’ausiliario ma sarebbe fatto proprio del debitore; dall’altro lato, la colpa dell’ausiliario, in quanto contraddistingue un fatto imputato al debitore, rileverebbe essa stessa come colpa del debitore.

Di qui la qualificazione della responsabilità come responsabilità soggettiva per fatto proprio.

2. L’art. 1228 c.c. e la responsabilità medica.

Come spesso accade, l’occasione per intervenire su problemi e istituti che riguardano il tema generale dell’inadempimento delle obbligazioni, è stata fornita alla S.C. da una fattispecie in tema di inadempimento di un’obbligazione professionale sanitaria.

Come è noto, l’art. 1228 c.c. costituisce norma centrale nella ricognizione giurisprudenziale della disciplina della responsabilità medica relativamente alla fattispecie in cui l’attività del medico non forma oggetto di un contratto stipulato con il paziente ma si inserisce nel procedimento esecutivo della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio tra quest’ultimo ed un terzo (la struttura sanitaria), eventualmente, ma non necessariamente, sulla base di un vincolo di dipendenza con quest’ultima.

Con riguardo a questa fattispecie, prima dell’entrata in vigore della nuova legge n. 24 del 2017, la giurisprudenza si era assestata nel senso di attribuire natura contrattuale sia alla responsabilità della struttura che a quella del medico: alla prima, in quanto conseguente all’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto di spedalità o di assistenza sanitaria, che il debitore (la struttura) avrebbe dovuto adempiere personalmente (rispondendone ex art. 1218 c.c.) o mediante il personale sanitario (rispondendone ex art. 1228 c.c.); alla seconda, in quanto conseguente alla violazione di un obbligo di comportamento fondato sulla buona fede e funzionale a tutelare l’affidamento sorto in capo al paziente in seguito al contatto sociale avuto con il medico, che sarebbe divenuto quindi direttamente responsabile, ex art. 1218 c.c., della violazione di siffatto obbligo (Sez. U., n. 589/1999, Segreto, Rv. 522538-01; successivamente, tra le tante: Sez. 3, n. 9085/2006, Manzo, Rv. 589631-01; Sez. 3, n. 13953/2007, Trifone, Rv. 597575-01; Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984-01).

Il riferimento all’art. 1228 c.c., quale fondamento della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, è stato recepito e mantenuto nella nuova legge, la quale ha invece mutato il titolo della responsabilità personale del medico che in essa opera: questi, al pari di ogni altro ausiliario, essendo estraneo al rapporto obbligatorio tra la struttura e il paziente, può essere chiamato a rispondere, infatti, solo in via extracontrattuale (art. 7 della l. n. 24 del 2017).

La Terza Sezione civile si è pronunciata su una fattispecie soggetta al regime anteriore, in ragione del quale tanto la responsabilità della struttura quanto quella del medico assumevano natura di responsabilità contrattuale.

Nell’ipotesi considerata, la questione principale oggetto del ricorso per cassazione non concerneva la sussistenza della responsabilità contrattuale del debitore e dell’ausiliario, già positivamente accertate, ma la ripartizione del carico dell’obbligazione risarcitoria nei rapporti interni tra i due coobbligati, in quanto il giudice di merito ne aveva presunto la pari responsabilità e tale statuizione era stata contestata dalla struttura sanitaria, sul rilievo della sussistenza di una responsabilità esclusiva, tanto sul piano colposo che su quello eziologico, del medico.

La pronuncia muove da due presupposti interpretativi.

Il primo riguarda la piena sovrapponibilità tra la disciplina contenuta nell’art. 1298 c.c. (il quale pone la regola generale della divisione della prestazione, che forma oggetto dell’obbligazione solidale passiva o attiva, nei rapporti interni tra i diversi debitori o i diversi creditori) e la disciplina contenuta nell’art. 2055 c.c. (il quale pone la regola particolare della divisione della prestazione, che forma oggetto dell’obbligazione solidale passiva derivante da illecito, nei rapporti interni tra i diversi responsabili).

Queste due regole, infatti, porrebbero criteri omologhi, a mente dei quali, nei rapporti interni tra condebitori o tra coobbligati al risarcimento, la misura della prestazione, a seguito dell’azione di regresso esercitata dal debitore, adempiente per l’intero, si ripartisce, nelle obbligazioni solidali passive derivanti da illecito, secondo la misura della rispettiva responsabilità (data dalla gravità delle diverse colpe e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate, con la precisazione che, “nel dubbio, le colpe si presumono uguali”) e, nelle obbligazioni solidali passive derivanti da contratto o dalla legge, in quote che si presumono eguali, “se non risulti diversamente” (evidentemente in base al titolo o alla natura dell’affare).

Entrambe le norme, dunque, fisserebbero una presunzione iuris tantum di pari contribuzione al risarcimento (nelle obbligazioni solidali da illecito: art. 2055, comma 3) o alla prestazione (nelle altre obbligazioni solidali passive; art. 1298, comma 2), vincibile con la prova contraria offerta dal solvens che agisce in regresso per una quota maggiore, il quale avrebbe l’onere di dimostrare, rispettivamente, la diversa misura delle colpe e della derivazione causale del danno, e la diversa ripartizione del carico della prestazione in base al titolo.

Il secondo presupposto interpretativo riguarda la portata ampia dell’art. 2055 c.c.: esso, sebbene formalmente dettato in tema di responsabilità solidale derivante da illecito extracontrattuale, troverebbe applicazione in tutte le ipotesi di solidarietà passiva risarcitoria, e quindi anche nelle ipotesi di responsabilità solidale derivante da inadempimento (come nella fattispecie della responsabilità solidale della struttura sanitaria e del medico che in essa opera, nel regime anteriore alla l. n. 24 del 2017).

Peraltro, il criterio della ripartizione interna dell’obbligazione risarcitoria in misura paritaria, in base alla presunzione di uguaglianza delle colpe (art. 2055, comma 3, c.c.), presupporrebbe il “concorso” dei corresponsabili alla produzione del danno e non troverebbe quindi applicazione nel caso in cui uno dei coobbligati in solido fosse chiamato a rispondere a titolo oggettivo e per un fatto imputabile ad altro obbligato: in questo caso, come nella fattispecie di cui all’art. 2049 c.c., il responsabile oggettivo per fatto altrui, eseguita la prestazione risarcitoria in favore del creditore o del danneggiato, potrebbe agire in regresso per l’intero contro l’effettivo autore del fatto colposo.

Sulla base di queste premesse, è evidente che, con specifico riguardo all’ipotesi di responsabilità solidale ex contractu tra medico e struttura, rispettivamente responsabili ai sensi dell’art. 1218 e dell’art. 1228 c.c., ove la seconda fosse chiamata a rispondere indirettamente (per il fatto del medico) sulla base di un criterio di imputazione riconducibile alla responsabilità oggettiva, beneficerebbe, verso il medico, responsabile per colpa ed autore effettivo del fatto dannoso, di un diritto di regresso integrale.

Si tratterebbe, peraltro, di una conseguenza iniqua (in seguito all’esercizio dell’azione di rivalsa da parte del condebitore economicamente forte, il peso della prestazione risarcitoria graverebbe interamente sul condebitore economicamente più debole) e ingiustificata (il rischio di impresa assunto dalla struttura si ridurrebbe al solo rischio dell’insolvibilità del medico, convenuto con la predetta azione di rivalsa).

Di qui, dunque, la necessità di considerare responsabile per colpa anche la struttura sanitaria, previa individuazione, nella figura di cui all’art. 1228 c.c., di una ipotesi di responsabilità soggettiva per fatto proprio, fondata sulla diretta configurazione del fatto dell’ausiliario, espressamente qualificato come doloso o colposo, come fatto proprio del debitore, in quanto intraneo alla sua sfera giuridica.

In tal modo, infatti, nei rapporti interni tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo tornerebbe ad essere soggetta alla ripartizione in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., salvo che nel giudizio di rivalsa “la struttura dimostrasse, oltre alla colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno sofferto dal paziente, da un lato, la derivazione causale di quell’evento da una condotta del sanitario del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità e, dall’altro, l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze, da parte sua, nell’adempimento del relativo contratto, comprensive di omissioni di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati”.

3. L’obiettivo economico e i presupposti esegetici della sentenza.

La finalità perseguita dalla sentenza della Terza Sezione civile n. 29001 del 2021 è, dunque, quella di evitare che nei rapporti interni tra coobbligati in solido al risarcimento del danno, il carico della prestazione si ripartisca in modo iniquo e ingiustificato, gravando esclusivamente sul medico, in contrasto con l’assunzione del rischio di impresa da parte della struttura, che contempla l’errore del medico e le sue conseguenze dannose.

Questa infausta evenienza sarebbe scongiurata dall’applicazione della presunzione di uguaglianza delle colpe dell’ausiliario (il medico) e del debitore (la struttura), chiamato a rispondere per fatto e colpa propri.

Per vincere questa presunzione ed ottenere la rivalsa integrale, la struttura dovrebbe infatti provare “un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione” (così già Sez. 3, n. 28986/2019, Porreca, Rv. 655790-01, che ha per prima affermato il principio di diritto cui ha dato continuità la sentenza del 2021 all’odierno esame).

Al di là della meritevolezza del fine di riequilibrio economico e giuridico perseguito, non può essere sottaciuto che la decisione trova fondamento in presupposti esegetici, i quali, sebbene assunti come punti di partenza apparentemente incontrovertibili, appaiono tutt’altro che scontati e meriterebbero, dunque, di essere sottoposti ad una rinnovata meditazione.

In primo luogo, l’assunto della piena sovrapponibilità della disciplina posta dall’art. 1298 c.c. con quella contenuta nell’art. 2055 c.c. viene recepito senza confrontarsi con la circostanza, direttamente desumibile dalla sistematica del codice, che si tratta di due discipline dettate per fattispecie completamente differenti: l’una, concernendo la divisione del carico (o del vantaggio) della prestazione obbligatoria tra i condebitori (o i concreditori) nelle obbligazioni solidali passive (o attive) derivanti da fonte diversa dal fatto illecito; l’altra, riguardando la suddivisione tra i corresponsabili civili del carico della prestazione risarcitoria che forma oggetto dell’obbligazione solidale (esclusivamente passiva) derivante da illecito extracontrattuale.

In secondo luogo, il successivo assunto che l’art. 2055 c.c. trovi applicazione in ipotesi di obbligazioni solidali passive risarcitorie derivanti da responsabilità contrattuale (come nell’ipotesi di solidarietà risarcitoria tra medico e struttura nel regime anteriore alla l. n. 24 del 2017) o “miste”, l’una derivante da responsabilità contrattuale, l’altra derivante da responsabilità extracontrattuale (come nell’ipotesi di solidarietà tra medico e struttura nel regime introdotto dalla legge appena richiamata), non tiene conto del fatto che la norma in questione è stata dettata specificamente per la fattispecie di responsabilità solidale da illecito aquiliano e che la sua estensione alla fattispecie dell’inadempimento non è scontata, posto che altrimenti non avrebbe più senso porsi il problema centrale (e sempre aperto) della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., quale responsabilità fondata o meno sulla colpa.

In terzo luogo, una volta ammesso che la disciplina della responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. operi in presenza di qualsiasi criterio di imputazione della responsabilità (e dunque anche se si risponde a titolo oggettivo per fatto altrui), tanto sul lato esterno (art. 2055, comma 1) quanto sul lato interno (art. 2055, comma 2), non si comprende perché la presunzione di uguaglianza delle colpe di cui al successivo comma 3 (che non pone una regola sostanziale, ma solo un criterio probatorio di accertamento dei presupposti di ripartizione del carico della prestazione tra coobbligati, già fissati dal comma precedente) dovrebbe presupporre il “concorso” nella produzione del danno, e dunque restare inoperativa nei confronti del responsabile oggettivo per fatto altrui, cui sarebbe senz’altro concesso il regresso per l’intero.

Non vi è, infatti, alcun ostacolo dogmatico a ritenere applicabile la presunzione di cui all’art. 2055, comma 3, c.c. anche nell’ipotesi di responsabilità oggettiva del corresponsabile, venendo in considerazione un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde dall’accertamento, in concreto, dalla colpa del coobbligato. In altre parole, non dovrebbe essere il responsabile per colpa, nel momento in cui è convenuto in regresso dal responsabile oggettivo che abbia adempiuto all’obbligazione risarcitoria, a dover eccepire e provare la sussistenza, in concreto, anche della colpa dell’adempiente, al fine di sgravarsi di una parte del carico della prestazione; al contrario, dovrebbe essere il responsabile oggettivo, che agisce per l’integralità della rivalsa, ad allegare e provare la sua assenza di colpa e il carattere esclusivo dell’apporto causale del corresponsabile, vincendo la presunzione di cui al terzo comma dell’art. 2055 c.c..

4. Implicazioni sistematiche e fondamento dogmatico del nuovo orientamento giurisprudenziale.

L’esigenza di confrontarsi con i rilievi che possono essere mossi ai presupposti interpretativi assunti dalla pronuncia in esame come indiscussi punti di partenza, si rafforza se si pone attenzione alle implicazioni sistematiche cui dà luogo il nuovo orientamento, nonché al suo fondamento dogmatico.

Sotto il primo profilo, la diretta imputazione del fatto colposo dell’ausiliario al debitore, e la conseguente qualificazione della responsabilità di quest’ultimo come responsabilità per fatto proprio fondata sulla colpa, ripropone una figura di responsabilità basata sul rapporto organico, per effetto del quale l’attività posta in essere dall’incaricato di eseguire la prestazione viene direttamente imputata al debitore committente, che ne risponde in via diretta verso il creditore.

La riproposizione di questa figura è espressamente formulata nella sentenza in esame, la quale evidenzia che per la realizzazione del programma obbligatorio “il debitore contrattuale si è necessariamente avvalso dell’incaricato, essendogli preclusa, attesa la natura giuridica di ente, ogni possibilità di adempimento “diretto””.

La figura della responsabilità organica era stata elaborata dalla dottrina pubblicistica con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i fatti dannosi posti in essere dai propri dipendenti e trovava fondamento nell’art. 28 della Costituzione, a cui la prevalsa opinione aveva attribuito l’introduzione di un regime fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambi dirette, in capo al funzionario e all’ente, nell’ambito del quale la scelta se far valere l’una o l’altra responsabilità spettava esclusivamente al danneggiato, che poteva esercitare l’azione risarcitoria indifferente nei confronti dell’ente, del funzionario o di entrambi (A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 1169; P. Virga, Diritto amministrativo, I principi, I, Milano, 1999, 285; in giurisprudenza, Sez. 3, n. 10803/2000, Segreto, Rv. 539580-01).

Questa figura, peraltro, è stata superata nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, il cui più recente orientamento tende ad individuare il fondamento della responsabilità della pubblica amministrazione per il fatto dannoso del dipendente nell’art. 2049 c.c., e quindi nel rapporto di preposizione, che conferisce all’ente una responsabilità indiretta (per fatto altrui) e di carattere oggettivo (Sez. U, n. 13246/2019, De Stefano, Rv. 654026-01).

A prescindere da questa evoluzione, tonando al ridisegnato regime della responsabilità per il fatto degli ausiliari, resta da chiarire come possa trovare applicazione, nell’ambito dell’inadempimento delle obbligazioni, una figura - quella della responsabilità fondata sul rapporto di immedesimazione organica - elaborata in relazione alla diversa fattispecie dell’illecito aquiliano commesso dal pubblico dipendente nello svolgimento del rapporto di servizio che lo lega all’ente di appartenenza.

Una volta proiettata questa figura al di fuori dello specifico ambito della responsabilità sanitaria e dei rapporti tra struttura e medico, si porrebbe, poi, l’ulteriore problema di giustificarne l’applicazione in tutte quelle fattispecie contrattuali in cui debitore ed ausiliario sono due persone fisiche, ove verrebbe meno la ragione fondata dalla pronuncia in esame sul rilievo che il debitore debba necessariamente avvalersi dell’incaricato, essendogli preclusa, attesa la natura giuridica di ente, ogni possibilità di adempimento “diretto”.

Resta, infine, di difficile decifrazione il fondamento dogmatico della nuova qualificazione giurisprudenziale della responsabilità ex art. 1228 c.c..

Al riguardo va ricordato che la regola generale della responsabilità per il fatto degli ausiliari non era contemplata dall’ordinamento privatistico ante c.c. 1942, il quale prevedeva siffatta responsabilità solo in tema di appalto (art. 1644 c.c. 1865) e di trasporto (art. 398 c. comm. 1882); peraltro, la prevalente dottrina soleva ammettere la sussistenza di un generale principio della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario sulla base della norma che rendeva il debitore responsabile per l’inadempimento che non fosse derivato da una causa estranea a lui non imputabile (art. 1225 c.c. 1865) e della conseguente configurazione del fatto dell’ausiliario come fatto non estraneo alla sfera giuridica del debitore (F. Ferrara, Responsabilità contrattuale per fatto altrui [1903], in Scritti giuridici, II, Milano 1954; V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma 1915, 336).

Il fondamento della responsabilità del debitore per il fatto dell’ausiliario veniva, dunque, individuato nella medesima norma (l’art. 1225 c.c. 1865) in cui si ravvisava il limite stesso della responsabilità per inadempimento quale responsabilità prescindente dalla colpa, da cui il debitore era liberato solo in presenza di un impedimento avente i caratteri dell’impossibilità oggettiva e assoluta (G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 e ss.; 313 e ss., 417 e ss.).

Il debitore, in sostanza, rispondeva del fatto dell’ausiliario perché questo fatto, pur traducendosi in un impedimento all’esatta esecuzione della prestazione, non integrava l’impossibilità oggettiva della stessa, cioè l’impossibilità derivante da una causa estranea alla sfera della persona e dell’economia del debitore medesimo e, quindi, a lui non imputabile.

La sentenza n. 29001 del 2021 della Terza Sezione civile, nell’affermare che il fatto doloso o colposo dell’ausiliario rileva come fatto del debitore, sembra essere tornata ad una concezione del fondamento della responsabilità per il fatto dell’ausiliario molto vicina a quella maturata nel vigore del codice del 1865. Ma la circostanza che il debitore risponde del fatto doloso o colposo dell’ausiliario in quanto impedimento non estraneo alla sua sfera giuridica (e quindi non integrante l’impossibilità oggettiva della prestazione) non appare compatibile con la qualificazione della medesima responsabilità in termini di responsabilità soggettiva (cioè fondata sulla colpa), in relazione alla quale il limite dell’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile (e quindi liberatoria) dovrebbe essere individuato, invece, in qualsiasi impedimento - anche di carattere soggettivo - non prevedibile né superabile con la diligenza ordinariamente richiesta in ordine all’obbligazione assunta.