PARTE INTRODUTTIVA 

  • procedura civile
  • procedimento pregiudiziale

I

LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL GIUDICATO NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 Il coordinamento degli artt. 329, comma 2, e 336 c.p.c. - 2 L’effetto espansivo interno del giudicato. - 3 La formazione del giudicato rispetto alle pronunce implicite. - 4 Impugnazioni e preclusioni.

1. Il coordinamento degli artt. 329, comma 2, e 336 c.p.c.

L’individuazione dei criteri che regolano la formazione del giudicato a seguito della impugnazione parziale della sentenza e della conseguente acquiescenza tacita rispetto alle parti non impugnate costituisce un tema problematico sul quale anche nell’anno di riferimento la Corte di cassazione è intervenuta più volte.

Vi è, innanzitutto, la questione del coordinamento tra l’art. 329, comma 2, c.p.c. e l’art. 336 c.p.c. La prima disposizione disciplina l’istituto dell’acquiescenza tacita cd. qualificata, stabilendo che l’impugnazione parziale della sentenza importa acquiescenza alle parti di essa non impugnate. In tal modo il legislatore, attraverso una presunzione che opera a prescindere dalla volontà del soggetto acquiescete, ricollega alla impugnazione di una parte soltanto della decisione l’effetto di accettazione delle altre parti e il conseguente passaggio in giudicato formale delle medesime. Tale effetto, tuttavia, può verificarsi, solo in quanto le parti non impugnate siano indipendenti e scindibili rispetto a quelle impugnate. E infatti, l’art. 336 c.p.c. dispone che la riforma o cassazione parziale hanno effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti da quelle riformate o cassate (cd. effetto espansivo interno dell’impugnazione), rispetto alle quali, dunque, l’impugnazione parziale non determina acquiescenza.

Un primo problema attiene alla individuazione delle ipotesi in cui si verifica l’acquiescenza cui si riferisce l’art. 329 c.p.c.

In linea generale Sez. 5, n. 34539/2021, Succio, Rv. 663032-01 ha ribadito che l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c., consiste nell’accettazione della sentenza, e cioè nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare. Tale volontà può essere manifestata sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. La pronuncia richiamata ha altresì ribadito che l’acquiescenza è configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame in quanto successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge (in senso conforme si era espressa, da ultimo, Sez. 2, n. 02670/2020, Abete, Rv. 657090-01).

La S.C. ha altresì precisato che l’acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e, quindi, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio. Pertanto, la relativa manifestazione di volontà, oltre ad essere inequivoca, deve necessariamente provenire dal soggetto che di detto diritto possa disporre o dal procuratore munito di mandato speciale (Sez. 2, n. 21267/2020, Criscuolo, Rv. 659365-01; Sez. 3, n. 12615/2017, De Stefano, Rv. 644402-01).

Si è anche precisato che la previsione dell’art. 329, comma 2 c.p.c. presuppone che le parti della sentenza non siano collegate da un nesso per il quale l’impugnazione della parte principale se accolta comporta l’automatico e necessario venir meno di altre parti. Il principio enunciato dalla disposizione citata, infatti, può valere solo per i capi che siano autonomi e indipendenti da quello impugnato (Sez. U., n. 21691/2016, Curzio, Rv. 641723-02 e, più di recente, Sez. 2, n. 12649/2020, Giannaccari, Rv. 658277-01).

Nel corso del 2021 tale principio è stato riaffermato da Sez. L., n. 32179/2021, Spena, Rv. 662691-01 con riguardo ai rapporti tra la statuizione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato e le statuizioni consequenziali laddove si è affermato che l’impugnazione rivolta contro il capo della sentenza relativo all’illegittimità dell’apposizione del termine impedisce la formazione del giudicato interno anche sui capi, legati al primo da un nesso di pregiudizialità-dipendenza, concernenti le conseguenze risarcitorie, mentre non vale l’inverso. Pertanto, si è ritenuto che, qualora la sentenza sia impugnata solo rispetto a uno dei capi inerenti alla domanda di risarcimento del danno, si deve ritenere che sia intervenuta acquiescenza su quello principale.

2. L’effetto espansivo interno del giudicato.

La previsione dell’art. 336 c.p.c. – a mente del quale «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata» – rende necessario stabilire cosa debba intendersi per «parte dipendente» della sentenza.

La portata di tale previsione ha costituito oggetto di specifica analisi da parte di Sez. L., n. 05550/2021, Cavallaro, Rv. 660830-01, la quale (ponendosi in linea di continuità con Sez. 3, n. 23985/2019, Graziosi, Rv. 655106-01) ha affermato che l’effetto espansivo interno previsto dall’art. 336 c.p.c. presuppone un nesso di pregiudizialità - dipendenza tale per cui la parte della sentenza che viene riformata o cassata costituisce il presupposto della parte non riformata o cassata, di tal che «la decisione su quest’ultima non sarebbe stata possibile se il giudice avesse deciso correttamente (cioè nel senso fatto proprio dalla pronuncia che ha accolto il gravame) la parte riformata o cassata». Pur riconoscendo che tale principio, in quanto costituisce un'eccezione alla regola della formazione del giudicato in mancanza di impugnazione, deve applicarsi in modo rigoroso, la S.C. ha affermato che esso, tuttavia, deve trovare applicazione a fronte di una statuizione capace di assorbire anche la statuizione non impugnata la quale non potrebbe reggersi da sola ove la prima sia stata riformata o cassata. Si è altresì precisato che un tale nesso non potrebbe ritenersi spezzato nel caso in cui i capi dipendenti siano stati impugnati e l’impugnazione sia stata rigettata (come ritenuto in passato dalla stessa Corte), in quanto ciò contrasta irrimediabilmente con il principio pacifico secondo cui «un giudicato parziale è configurabile soltanto nelle situazioni in cui il capo di sentenza non impugnato sia indipendente da quelli impugnati, occorrendo a tal fine stabilire se tra le statuizioni, rispettivamente impugnate e non, intercorra o meno un rapporto di implicazione necessaria che le renda o meno logicamente dipendenti l’una dall’altra».

Sulla scorta di tali considerazioni la richiamata pronuncia ha ritenuto che il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., comma 1, c.p.c. trovi applicazione «rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente ma necessariamente dipendenti da un altro capo che sia stato impugnato, ivi compresi quei capi che abbiano formato oggetto di impugnazione quando questa sia stata rigettata, non potendo il nesso di pregiudizialità - dipendenza tra gli uni e gli altri essere escluso dalla decisione sfavorevole sul gravame che abbia riguardato i capi dipendenti».

Secondo Sez. 1, n. 10112/2021, Mercolino, Rv. 661267-01, la previsione recata dall’art. 336 c.p.c. comporta che la riforma, da parte del giudice d’appello, della pronuncia di condanna determina la caducazione di quella avente ad oggetto la liquidazione del danno soltanto nel caso in cui faccia venir meno ogni fondamento di quest’ultima. Pertanto, qualora la condanna al risarcimento sia confermata, anche per una ragione diversa da quella posta a fondamento della pronuncia riformata, non si verifica automaticamente la caducazione della statuizione relativa alla liquidazione del danno. Quest’ultima deve costituire oggetto di autonoma impugnazione, in mancanza della quale la relativa questione non può essere sollevata in sede di legittimità, risultando definitivamente preclusa dal giudicato interno formatosi in ordine alla misura del risarcimento.

Sez. 5, n. 39817/2021, Pirari, Rv. 663211-01 ha fatto applicazione del principio in materia tributaria con riguardo all’ipotesi di redditi tassati secondo il regime di trasparenza, nel caso di sentenza che abbia dichiarato la parziale invalidità della rettifica operata nei confronti della società di persone, l’unicità del fatto costitutivo della pretesa impositiva si sostanzia nel rapporto di diretta derivazione della rettifica dei redditi dei soci ai fini Irpef dalla rideterminazione di quelli della società di persone, che ne costituisce il presupposto. Pertanto, l’annullamento dell’atto impositivo relativo alla società produce i suoi effetti, ai sensi dell’art. 336, comma 1, c.p.c. anche sulle parti della sentenza che riguardano l’avviso di accertamento emesso nei confronti dei soci (c.d. espansivo interno della riforma o della cassazione), siccome da esso dipendenti, anche quando questo sia definitivo per essere ormai decorso il termine di decadenza di cui all’art. 14, comma 6, d.lgs. n. 546 del 1992, ovvero per non essere stati autonomamente impugnati i capi della pronuncia che lo riguardano ovvero per essere stato questo confermato con sentenza passata in giudicato.

Di analogo tenore Sez. 6-5, n. 40844/2021, Lo Sardo, Rv. 663384-01, la quale ha ribadito che nel caso di impugnazione parziale, l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate si verifica solo quando le diverse parti siano del tutto autonome l’una dall’altra e non anche quando la parte non impugnata si ponga in nesso consequenziale con l’altra e trovi in essa il suo presupposto. Per tale ragione, nel caso di un unico giudizio per la contestuale impugnazione degli atti impositivi nei confronti della società e dei soci, il gravame interposto sul capo della sentenza che attiene alla società si estende anche al capo della sentenza che attiene ai soci, dal momento che il passaggio in giudicato non può che essere unitario per la pregiudizialità del primo sul secondo. Pertanto, stante il disposto dell’art. 329, comma 2, c.p.c. la sola impugnazione del capo relativo all’annullamento dell’atto impositivo emesso nei confronti della società non consente la formazione del giudicato interno sul capo relativo all’annullamento degli atti impositivi emessi nei confronti dei soci, dal momento che rispetto ad esso non si può ravvisare acquiescenza parziale tacita per la stretta ed indissolubile dipendenza dalla definitività della relativa decisione.

3. La formazione del giudicato rispetto alle pronunce implicite.

Problematica è l’operatività dell’acquiescenza rispetto alle parti della sentenza contenenti pronunce implicite.

Tra queste, particolare rilievo ha avuto la questione concernente la giurisdizione allorché il giudice non si sia espressamente pronunciato in proposito e la parte appellante non abbia formulato al riguardo alcuna specifica doglianza.

A partire da Sez. U., n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la Corte, discostandosi dal precedente orientamento, ha affermato che con riguardo alla rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, del difetto di giurisdizione, soltanto qualora sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, operando la relativa preclusione anche in sede di legittimità. Si è altresì precisato che il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte in cui la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengono statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo alla ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Tale interpretazione è stata costantemente ribadita dalla successiva giurisprudenza di legittimità e nel 2021 da Sez. 5, n. 06833/2021, Saija, Rv. 660718-02 la quale, pronunciandosi in tema di riscossione a mezzo ruolo di somme dovute all’Amministrazione finanziaria in forza di rapporti di diritto privato, ha affermato che la cartella di pagamento ovvero l’intimazione di pagamento di cui rispettivamente agli artt. 20 e 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, notificate all’obbligato, hanno funzione assimilabile al precetto di cui all’art. 480 c.p.c., preannunciando esse l’azione esecutiva cd. esattoriale, e le relative contestazioni vanno proposte dinanzi al giudice ordinario, nelle forme e nei termini di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c. Tuttavia, nel caso in cui il debitore abbia per errore proposto la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata dinanzi al giudice tributario e il difetto di giurisdizione non sia stato eccepito da alcuno, né rilevato d’ufficio dal giudice, la pronuncia di questi nel merito determina, in mancanza di impugnazione, la formazione del giudicato implicito sul punto, senza tuttavia trasformare la natura del rapporto obbligatorio, che resta privatistica.

Al di fuori della questione relativa alla giurisdizione, Sez. 3, n. 32650/2021, Scrima, Rv. 662732-01 ha ribadito il principio secondo il quale il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, sugli aspetti del rapporto che non hanno costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto, come accade allorquando la decisione sia stata adottata alla stregua del principio della “ragione più liquida”, basandosi la soluzione della causa su una o più questioni assorbenti (Sez. 1, n. 05264/2015, Lamorgese, Rv. 634652-01).

Diversamente, l’esame in sede d’impugnazione di questioni pregiudiziali o preliminari rilevabili d’ufficio resta precluso per effetto del giudicato interno formatosi sulla pronuncia che abbia esplicitamente risolto tali questioni, ovvero sulla pronuncia che, nel provvedere su alcuni capi della domanda, abbia necessariamente statuito per implicito sulle medesime. In applicazione del principio, Sez. 6-1, n. 31653/2021, Iofrida, Rv. 662739-01 ha ritenuto che non si forma il giudicato implicito in primo grado, sull’ammissibilità dell’eccezione di prescrizione ex art.1669 c.c., tale da precludere il rilievo d’ufficio, in sede di appello, della sua inammissibilità perché sollevata tardivamente, allorché il giudice di primo grado abbia provveduto, denegandolo, sul fondamento di altra eccezione (nella specie, quella ex art.1667 c.c.), senza statuire espressamente sull’anzidetta ammissibilità della distinta eccezione di prescrizione e decadenza, che non era stata proposta in primo grado.

Sez. 3, n. 06762/2021, Olivieri, Rv. 660906-01 ha affrontato la questione concernente la deducibilità, per la prima volta nel giudizio di legittimità (e correlativamente la rilevabilità ex officio da parte della Corte di cassazione), di un vizio inerente l’attività processuale (nella fattispecie all’esame del collegio, il Giudice di merito aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto accogliendo un’eccezione di merito - exceptio inadimpleti contractus, ex art. 1460 c.c. - proposta dal convenuto tardivamente rispetto al termine stabilito a pena di decadenza dall’art. 167, comma 2, c.p.c., e tale decadenza non era stata rilevata, in primo grado, dalla parte interessa e neppure ex officio dal giudice, non aveva costituito oggetto di specifico motivo di gravame, né è stata rilevata di ufficio dal giudice di appello). La Corte ha affermato che il potere di rilevare anche d’ufficio i vizi relativi alla attività processuale, per il quale è prescritto un termine di decadenza, deve essere esercitato dal giudice di merito – in difetto di espressa autorizzazione normativa alla rilevazione “in ogni stato e grado” ed escluse le ipotesi di vizi talmente gravi da pregiudicare interessi di rilievo costituzionale – entro il grado di giudizio nel quale il vizio si è manifestato, rimanendo precluso sia al giudice del gravame, sia alla Corte di cassazione, il potere di rilevare, per la prima volta, tale vizio di ufficio (o su eventuale sollecitazione della parte interessata), ove la relativa questione non abbia costituito specifico motivo di impugnazione, ovvero non sia stata ritualmente riproposta. Infatti, qualora il giudice di primo grado abbia deciso la controversia nel merito, omettendo di pronunciare espressamente sul vizio, resta precluso l’esercizio del potere di rilievo d’ufficio sulla stessa, per la prima volta, tanto al giudice di appello quanto a quello di cassazione, ove non sia stata oggetto di impugnazione o non sia stata ritualmente riproposta, essendosi formato un giudicato implicito interno in applicazione del principio di conversione delle ragioni di nullità della sentenza in motivi di gravame previsto dall’art. 161 c.p.c.

Nell’affermare tale principio, la richiamata pronuncia si pone in consapevole contrasto con Sez. 2, n. 07941/2020, Cosentino, Rv. 657592-02 la quale, all’opposto, aveva ritenuto che (in tema di domanda riconvenzionale tardiva non accolta) una pronuncia di primo grado che, senza affermare espressamente l’ammissibilità di una domanda riconvenzionale, la rigetti per ragioni di merito, non implica alcuna statuizione implicita di ammissibilità di tale domanda, sicché in tale ipotesi, il giudice di secondo grado investito dell’appello conserva, pur in assenza di appello incidentale sul punto, della parte vittoriosa nel merito, il potere e quindi il dovere di rilevare d’ufficio l’inammissibilità di detta domanda.

La sentenza del 2021 ha ritenuto di non condividere tale affermazione anche alla luce della pronuncia delle Sezioni unite della Corte (Sez. u., n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01) secondo la quale il mancato esame di una eccezione pregiudiziale di rito astrattamente idonea a precludere l’esame di una domanda che di fatto sia stata esaminata dal giudice e rigettata nel merito, onera la parte che l’aveva proposta, anche se vittoriosa nel merito, di proporre appello incidentale, restando quindi preclusa, in mancanza di impugnazione, la possibilità di riproporre l’eccezione ex art. 346 c.c. Da tale affermazione, Sez. 3, n. 06762/2021 ha dedotto il corollario per cui, in detta ipotesi, resta precluso al giudice dell’impugnazione di rilevare la questione d’ufficio.

4. Impugnazioni e preclusioni.

La formazione del giudicato è incisa anche dalle preclusioni che maturano nel giudizio di impugnazione, conseguenti all’onere imposto alle parti dagli artt. 329, 342, 346, 360 c.p.c. di coltivare le questioni.

E infatti, quando con la sentenza di primo grado venga respinta un’eccezione di giudicato esterno e avverso tale capo di sentenza non venga proposta impugnazione, o il giudice ometta di pronunciare sulla eccezione di giudicato esterno e tale eccezione non venga riproposta in appello, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., Sez. 2, n. 38243/2021, Falaschi, Rv. 663161-01 ha ritenuto che, in applicazione dei princìpi sui limiti devolutivi dell’appello e sul giudicato interno, l’eccezione deve ritenersi rinunciata e sul relativo capo si forma il giudicato parziale interno, con la conseguenza che l’eccezione, quand’anche fosse da ritenersi rilevabile d’ufficio, è definitivamente preclusa.

Sez. 5, n. 20315/2021, Succio, Rv. 661888-01 (richiamando i principi affermati da Sez. U., 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01 sopra citata) ha stabilito che la parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito per rigetto (espresso od implicito), o per omesso esame della stessa deve spiegare appello incidentale per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza teorica. Infatti, non può limitarsi alla mera riproposizione di detta questione, che è sufficiente nei soli casi in cui non vi è la necessità di sollevare una critica nei confronti della sentenza impugnata, ovvero nelle ipotesi di legittimo assorbimento. In applicazione del principio enunciato, la S.C. ha ritenuto che, in assenza di appello incidentale sul punto, si fosse formato già in appello il giudicato interno sulla questione relativa all’inutilizzabilità di alcuni documenti, eccepita in primo grado, poiché il giudice l’aveva implicitamente respinta, ritenendo nel merito che tali documenti non costituissero prova idonea.

Analogamente, secondo Sez. 1, n. 09265/2021, Caiazzo, Rv. 661062-01 soltanto la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., può limitarsi a riproporle. Invece, la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione di cui intende ottenere l’accoglimento ha l’onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa.

Nel caso in cui il giudice d’appello ometta di pronunciarsi sull’eccezione di tardività del gravame, la parte che intenda evitare sul punto la formazione del giudicato non può limitarsi a riproporre semplicemente in sede di legittimità la questione della tardività dell’appello, ma ha l’onere di impugnare per cassazione la sentenza d’appello invocando il vizio di omessa pronuncia (Sez. 3, n. 05257/2021, Di Florio, Rv. 660604-01).

Sez. U, n. 35110/2021, Valitutti, Rv. 662942-01 ha ribadito che la statuizione su una questione di rito – sebbene non sia idonea a produrre gli effetti del giudicato sostanziale – dà luogo al giudicato formale limitatamente al rapporto processuale nel cui ambito è emanata, con effetto preclusivo del riesame della medesima questione, laddove detta statuizione non sia stata impugnata da alcuna delle parti. In applicazione del principio si è ritenuto che, in un giudizio teso alla dichiarazione di adottabilità di un minore straniero, la questione dell’ammissibilità dell’intervento in causa dell’ambasciata del suo Paese, non potesse più essere riproposta in sede di legittimità, poiché non oggetto di impugnazione in appello.

Secondo Sez. L, n. 34424/2021, Cavallaro, Rv. 662777-01, ai fini della denuncia per cassazione della violazione di norme di diritto, possono essere considerate solo le statuizioni del giudice di appello che abbiano riguardato i motivi e le richieste formulate dall’appellante, mentre sulle questioni che abbiano formato oggetto del dibattito in primo grado e della relativa pronuncia e che non siano state ritualmente riproposte dalla parte interessata in sede di gravame consegue la formazione del giudicato interno.

In ipotesi di litisconsorzio necessario per ragioni di ordine sostanziale, il difetto di integrità del contraddittorio nel primo grado del giudizio può essere rilevato d’ufficio dal giudice, ad eccezione del caso di giudicato interno, formatosi su una statuizione di merito resa tra le parti dalla sentenza appellata. Nell’affermare il principio, Sez. 6-3, 38024/2021, Tatangelo, Rv. 663351-01 ha cassato con rinvio la decisione del giudice di merito che - investito dell’appello della parte totalmente vittoriosa sul solo capo relativo alla liquidazione delle spese e in assenza di impugnazione incidentale - aveva rilevato un difetto di litisconsorzio sostanziale in primo grado e rimesso la controversia al giudice di pace.

Quando siano dedotte in giudizio obbligazioni solidali, Sez. 6-3, n. 13718/2021, Scrima, Rv. 661565-01 ha riaffermato il principio (risalente a Sez. 2, n. 6513/1980, Rebuffat, Rv. 410291-01) secondo il quale il creditore che si sia visto accogliere la domanda solo nei confronti di alcuni dei pretesi debitori solidale ha interesse ad impugnare la sentenza limitatamente al rigetto parziale dell’istanza globale che aveva avanzato, non essendo a ciò di ostacolo il passaggio in giudicato della sentenza nei punti non investiti dall’impugnazione. Ciò in quanto la definitività di alcuno dei rapporti obbligatori dedotti non fa venir meno il vantaggio derivante al creditore dalla concorrenza degli altri, concernenti la stessa prestazione.

Nel caso in cui in appello il danneggiante si limiti a contestare in toto la propria responsabilità, deve ritenersi censurata anche la misura del concorso di colpa del danneggiato oggetto della decisione di primo grado, senza che possa configurarsi un giudicato interno. Ciò in quanto l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227, comma 1, c.c., non costituisce un’eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, sicché deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza della colpa del danneggiato e sulla quantificazione dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte. In applicazione del principio, Sez. 3, n. 09200, Scarano, Rv. 661071-01 ha confermato la decisione della Corte territoriale nella parte in cui, a fronte di un’impugnazione che investiva i presupposti della responsabilità del danneggiante, ha regolato il concorso di colpa del danneggiato in misura diversa rispetto alle statuizioni del primo giudice (in senso conforme già Sez. 3, n. 6529/2011, Segreto, Rv. 617423-01).

  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO I

LA GIURISDIZIONE IN GENERALE E IL REGOLAMENTO PREVENTIVO DI GIURISDIZIONE

(di Angelo Napolitano )

Sommario

1 Premessa: la questione di giurisdizione. - 2 La questione di giurisdizione e le preclusioni processuali al suo rilievo: l’orientamento precedente alle Sez. U n. 24883/2008. - 3 Il regolamento preventivo di giurisdizione: il procedimento. - 4 Il regolamento di giurisdizione e la translatio iudicii.

1. Premessa: la questione di giurisdizione.

La giurisdizione ben può essere definita come la misura della potestas iudicandi attribuita al giudice dall’ordinamento giuridico con riferimento alla cognizione di una controversia.

La questione di giurisdizione è strettamente connessa alla domanda di tutela di una situazione giuridica soggettiva attraverso un giudizio, sicché il momento determinante della giurisdizione coincide con quello della proposizione della domanda (art. 5 c.p.c.).

Si può affermare, pertanto, sul piano teorico, che, data una regiudicanda, ciascun giudice dell’ordinamento è, in astratto, munito del potere di deciderla, tant’è vero che se la decisione emessa nonostante il difetto di giurisdizione passasse in giudicato, essa farebbe “stato” ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Tuttavia, il giudice adìto rispetto ad una controversia deve interrogarsi se essa possa essere decisa nel merito o se il potere di deciderla sia stato attribuito, in concreto, dall’ordinamento, al giudice di un diverso plesso giurisdizionale.

La disposizione che attribuisce al giudice ordinario il potere di definire in rito il giudizio nel caso in cui egli ritenga di non essere munito del potere di pronunciare una decisione di merito è l’art. 37 c.p.c.

La questione della sussistenza o meno in capo al giudice di un determinato plesso giurisdizionale del potere di definire nel merito la controversia portata alla sua cognizione può essere preventivamente sollevata dinanzi alle Sezioni Unite della S.C. da una delle parti in contesa, compreso colui che abbia scelto di instaurare la causa dinanzi a quel giudice.

Sul punto, infatti, Sez. U., n. 32727/2018, Lombardo, Rv. 652096-01, hanno affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dall’attore, sussistendo, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in via definitiva, per evitare che la sua risoluzione possa incorrere in successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole.

Tuttavia, nel caso in cui l’attore abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito, egli non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto, in quanto non soccombente su tale autonomo capo della decisione (Sez. U., n. 22439/2018, Giusti, Rv. 650463-01).

Tale orientamento è stato ribadito anche in seguito.

Si è deciso, infatti, che, in tema di ricorso straordinario al Capo dello Stato, la parte ricorrente che abbia allegato, come indefettibile presupposto della domanda, la giurisdizione del giudice amministrativo, senza che l’intimato abbia esercitato l’opposizione ex art. 48 c.p.a., né abbia contestato la sussistenza di tale presupposto, eventualmente proponendo regolamento preventivo di giurisdizione, non può proporre ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost. e art. 362 c.p.c. avverso il decreto del Presidente della Repubblica che abbia deciso il ricorso su conforme parere del Consiglio di Stato reso sull’implicito, o esplicito, presupposto della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo allegato dalla parte stessa, sul punto non soccombente (Sez. U., n. 29081/2019, Perrino, Rv. 656057-01).

Tuttavia, il regolamento preventivo di giurisdizione è esperibile anche nell’ambito del procedimento attivato dal ricorso straordinario al Capo dello Stato.

Infatti, ove l’amministrazione intimata abbia proposto opposizione al ricorso ex art. 48 c.p.a., senza contestare la giurisdizione amministrativa, e il TAR l’abbia dichiarata inammissibile per tardività, rimettendo gli atti all’amministrazione per la prosecuzione del procedimento in sede straordinaria, il regolamento preventivo di giurisdizione, con il quale l’amministrazione deduca in tale sede l’insussistenza della giurisdizione amministrativa, presupposto indefettibile del ricorso straordinario al Capo dello Stato ex art. 7, comma 8, c.p.a., ben può essere proposto fino al momento della pronuncia del parere del Consiglio di Stato che, formando il contenuto sostanziale della conforme decisione giustiziale del Presidente della Repubblica, ne costituisce l’antecedente necessario e segna il momento preclusivo per far valere il difetto del presupposto della decisione (Sez. U., n. 1413/2019, Genovese, Rv. 652244-01).

Il rilievo della questione di giurisdizione potrebbe entrare in conflitto con il principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, comma 2, Cost., considerata l’apparente assenza di preclusioni nel testo dell’art. 37 c.p.c.

Con riferimento ai tempi processuali entro i quali è possibile rilevare il difetto di giurisdizione del giudice adìto, l’art. 37 c.p.c. dispone che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo.

L’art. 37 c.p.c. indica tre diversi rapporti nei quali può venire in rilievo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario: A) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione; B) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti dei giudici speciali; C) Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice straniero (secondo l’art. 11 della legge n. 218 del 1995).

Il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione ha, ormai, una scarsissima incidenza statistica.

Esso identifica l’improponibilità assoluta della domanda, in quanto si riferisce alla deduzione in giudizio di una questione sfornita del tutto di tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che agisce fa valere in giudizio un mero interesse di fatto, che non assume la sostanza né di diritto soggettivo, né di interesse legittimo.

A proposito del difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, si è detto che esso solo formalmente appartiene al novero delle pronunce meramente processuali, ma sostanzialmente rappresenta un’ipotesi di rigetto nel merito della domanda per insussistenza della situazione giuridica di cui si è chiesta la tutela.

Il difetto assoluto di giurisdizione è stato ravvisato nel caso della proposizione, in sede civile, di una azione risarcitoria diretta contro un magistrato per fatti commessi nell’esercizio della funzione giudiziaria, in quanto essa, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, e salva la previsione dell’art. 13 della detta legge, è improponibile, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall’ordinamento. Pertanto, la questione integra la deduzione di difetto assoluto di giurisdizione, sindacabile in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (o come motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 1 c.p.c.), poiché attiene al perimetro, in astratto delimitato dall’ordinamento, della cognizione giurisdizionale (Sez. U, n. 6690/2020, Vincenti, Rv. 657416-01).

Di converso, si è recentemente ritenuto che la domanda proposta per il risarcimento dei danni che si assumono derivati dall’illegittimo esercizio, in quanto discriminatorio, della potestà legislativa derivante dalla predisposizione, presentazione o mancata modifica di un atto legislativo, non configura un difetto assoluto di giurisdizione perché non riguarda controversie direttamente involgenti attribuzioni di altri poteri dello Stato o di altri ordinamenti autonomi, come tali neppure suscettibili di dar luogo ad un intervento del giudice, ma l’esercizio di un diritto soggettivo mediante una comune azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., dovendosene escludere, inoltre, anche l’astratta improponibilità per ragioni di materia o di regolamentazione normativa, e neppure rileva la natura politica dell’atto legislativo, deducendosi la sola lesività della disciplina che ne è derivata. Su tali basi, pertanto, è stato escluso il difetto assoluto di giurisdizione con riferimento ad una domanda risarcitoria promossa nei confronti delle autorità che avevano presentato, approvato e non modificato il trattamento fiscale di cui all’art. 1, comma 692, lett. d) della l. n. 160 del 2019, ritenuto costituzionalmente illegittimo perché discriminatorio ed in contrasto col diritto unionale (Sez. U, n. 36373/2021, Terrusi, Rv. 662926-01).

Un’altra ipotesi in cui è stato ravvisato un peculiare difetto di giurisdizione è quello relativo ad una domanda relativa all’attribuzione e alla misura degli assegni vitalizi per gli ex parlamentari.

La S.C. ha ritenuto che una tale controversia, avendo ad oggetto un istituto che, in quanto proiezione economica dell’indennità parlamentare per la vita successiva all’espletamento del mandato, rientra nella normativa di diritto singolare prevista per il Parlamento e per i suoi membri a presidio della peculiare posizione di autonomia riconosciuta dagli artt. 64, comma 1, 66 e 68 Cost., è devoluta alla cognizione degli organi di autodichia, ed in relazione ad essa è, tuttavia, ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione, quale strumento di carattere non impugnatorio diretto a verificare il fondamento costituzionale per l’esercizio del potere decisorio da parte dei predetti organi e, quindi ad accertare se esiste un giudice del rapporto controverso o se quel rapporto debba ricevere una definitiva regolamentazione domestica. Tale rimedio può essere utilizzato dalla stessa parte che ha scelto il giudice, allorché, alla stregua della natura della controversia e delle deduzioni del convenuto, abbia un interesse giuridicamente rilevante ad una preventiva soluzione della questione da parte delle Sezioni Unite, in ragione dell’eventualità che il giudice adìto possa declinare la giurisdizione, rendendo inutile l’attività processuale già svolta e frustrando l’attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo (Sez. U, n. 01720/2020, Tria, Rv. 656702-01).

Per Sez. U, n. 25211/2020, Tria, Rv. 659453-01, il presupposto per l’esperibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, nell’ambito della controversia sulla spettanza e sulla misura degli assegni vitalizi degli ex parlamentari, è lo svolgimento, da parte degli organi di autodichia della Camera, di una funzione obiettivamente giurisdizionale.

Ancora in relazione ai rapporti tra l’autorità giudiziaria ordinaria e plessi non giurisdizionali, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento di giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta da una banca in amministrazione straordinaria nei confronti dei suoi commissari, sul presupposto del diniego di autorizzazione della Banca d’Italia alla proposizione dell’azione, ai sensi dell’art. 72, comma 9, del d.lgs. n. 385 del 1993, atteso, per un verso, che il regolamento preventivo di cui agli artt. 37 e 41 c.p.c. è dato soltanto per le questioni sulla giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della P.A. o dei giudici speciali o di quello straniero, e considerato, per l’altro verso, che, ove in una controversia tra privati, attinente a diritti soggettivi, il giudice ordinario debba vagliare situazioni che presentano aspetti di pubblico interesse o si trovi a scrutinare la legittimità di provvedimenti amministrativi, le questioni che insorgono circa i confini dei suoi poteri attengono al merito e non alla giurisdizione, investendo l’individuazione dei limiti interni posti dall’ordinamento alle attribuzioni del giudice ordinario. Pertanto, la valutazione degli effetti del diniego di autorizzazione della P.A. alla proposizione di una domanda risarcitoria nell’ambito di un giudizio al quale essa è estranea non coinvolge la giurisdizione, ma riguarda esclusivamente la proponibilità della domanda, non modificandone l’oggetto, né incidendo sui fatti costitutivi della pretesa (Sez. U, n. 30010/2019, De Stefano, Rv. 656070-01).

Le altre due ipotesi di difetto di giurisdizione, quello nei confronti dei giudici che non appartengono all’ordine giudiziario e quello nei confronti dei giudici stranieri, invece, sono quelle davvero rilevanti dal punto di vista della prassi giudiziaria.

Con riferimento ai rapporti tra diverse giurisdizioni all’interno dell’ordinamento nazionale, ed in particolare con riguardo al deferimento a collegio arbitrale, mediante convenzione stipulata nella vigenza dell’art. 6, comma 2, della l. n. 205 del 2000, di controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la Suprema Corte ha chiarito che si pone una questione di rapporto tra le differenti giurisdizioni, ordinaria e speciale, e non una questione di merito circa la validità della compromissione in arbitrato della controversia. Pertanto, deve essere applicato, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., il sopravvenuto art. 12 del d.lgs. n. 104 del 2010, che generalizza la possibilità di risolvere mediante arbitrato rituale le predette controversie, con conseguente ravvisabilità della giurisdizione degli arbitri (Sez. U, n. 27847/2019, Bruschetta, Rv. 655590-01).

D’altra parte, difetta dei presupposti per la proposizione del regolamento di competenza, ai sensi dell’art. 43 c.p.c., l’impugnazione della decisione che non abbia avuto ad oggetto la ripartizione interna della competenza tra i giudici ordinari, bensì una questione di ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale. È altresì inammissibile il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione contro una sentenza di primo grado, quale istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, essendo maturata la preclusione di cui all’art. 41 c.p.c., né può essere preso in esame come ricorso ordinario avverso una sentenza appellabile, poiché il ricorso per saltum è ammesso solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello, e giammai per motivi di giurisdizione (Cass., sez. 6-5, n. 08303/2020, Russo, Rv. 658467-01).

È anche inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto avverso l’ordinanza conclusiva del giudizio sommario di cognizione emessa dal giudice di primo grado ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., anche se tale ordinanza si limita a declinare la giurisdizione, e non può essere convertito in ricorso ordinario per cassazione, atteso che la relativa decisione è appellabile ex art. 702 quater c.p.c. (Sez. U, n. 30111/2021, Giusti, Rv. 662697-01).

Seguendo le stesse coordinate interpretative, si è affermato che il regolamento di giurisdizione è inammissibile se è proposto dopo che il giudice di merito abbia adottato una decisione, anche limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, poiché in tal caso la statuizione spetta al giudice del grado superiore. Tuttavia, il ricorso erroneamente proposto come regolamento preventivo può essere convertito in ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, ove ne ricorrano i presupposti (Sez. U, n. 10243/2021, Lamorgese, Rv. 661086-01).

Di converso, la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione non è preclusa dall’emanazione di un provvedimento cautelare in corso di causa, poiché questo non costituisce sentenza, neppure qualora risolva contestualmente la questione di giurisdizione, tranne che la questione medesima sia stata riferita al solo procedimento cautelare e il regolamento sia stato proposto per ragioni che attengono ad esso in via esclusiva (Sez. U,n. 8774/2021, Doronzo, Rv. 660857-02).

Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche avverso le decisioni del giudice amministrativo rese nel giudizio di ottemperanza, trattandosi di procedimento a natura non esclusivamente esecutiva, giacché il giudice amministrativo gode, in sede di ottemperanza, di poteri cognitivi che implicano la potestà di interpretare, integrare e precisare, pur se entro determinati limiti, il dictum del giudice della cognizione, senza che assuma rilievo il consolidamento della giurisdizione nell’ambito del giudizio presupposto, che ha avuto un oggetto diverso (Sez. U, n. 4880/2019, Acierno, Rv. 652853-01).

La proposizione del regolamento di giurisdizione non è impedita dalla pronuncia di un’ordinanza cautelare da parte del giudice amministrativo, atteso che il provvedimento cautelare, destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza di merito, non assume carattere decisorio e non statuisce sulle posizioni soggettive con la forza dell’atto giurisdizionale idonea ad assumere autorità di giudicato, neppure in punto di giurisdizione (Sez. U, n. 12864/2020, Perrino, Rv. 658057-01).

A seguito dello scioglimento della riserva assunta all’esito della prima udienza, il giudice amministrativo può sollevare conflitto di giurisdizione (nonostante che nel riservarsi non abbia manifestato alle parti l’intenzione di pronunciarsi al riguardo, esternando dubbi in proposito, né abbia indicato la questione di giurisdizione, dandone atto a verbale, ex art. 73, comma 3, c.p.a.), interpretato alla luce dei princìpi del giusto processo, ex artt. 2 c.p.a. e 111 Cost., essendo comunque garantita la finalità, da un lato, di evitare alle parti del giudizio riproposto ogni inutile dispendio di attività processuale e, dall’altro, di onerare il giudice amministrativo ad quem di evidenziare immediatamente le ragioni del proprio eventuale dissenso, provocando l’intervento risolutore delle sezioni unite della Suprema Corte (Sez. U, n. 23904/2020, Scarpa, Rv. 659165-01).

Tuttavia, in una fattispecie in cui il conflitto negativo di giurisdizione era stato formalmente sollevato dal giudice amministrativo all’esito della seconda udienza dopo la riassunzione in seguito a declinatoria del giudice ordinario, si è affermato che l’art. 11, comma 3, c.p.a., che consente al giudice amministrativo, davanti al quale la causa sia stata riassunta, di sollevare anche d’ufficio il conflitto negativo di giurisdizione "alla prima udienza", deve essere inteso nel senso che il limite temporale entro il quale il conflitto può essere sollevato è dato dall’udienza di discussione, fissata ai sensi dell’art. 71 c.p.a., ove ha luogo la reale trattazione e decisione della causa, intendendo il legislatore evitare, con la previsione di tale barriera, che la questione di giurisdizione si trascini oltre la soglia di ingresso del giudizio (Sez. U, n. 23749/2020, Scarpa, Rv. 659455-01).

Nel giudizio tempestivamente riproposto dinanzi al giudice amministrativo a seguito di declinatoria di giurisdizione del giudice ordinario, il Consiglio di Stato, in sede di appello, può sollevare d’ufficio il conflitto negativo dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, purché sia osservato, a pena di inammissibilità, il limite temporale costituito dalla prima udienza fissata per la trattazione del merito, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009 e dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 104 del 2010, disposizioni applicabili anche qualora il giudizio di primo grado si sia svolto prima della loro entrata in vigore, in ossequio al principio tempus regit actum (Sez. U, n. 1611/2020, Perrino, Rv. 656701-01).

Ancora con riferimento ai rapporti tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo, in seguito a diniego di giurisdizione da parte del giudice ordinario adìto per primo, se la riassunzione è tempestiva e se al giudice amministrativo viene proposta la medesima domanda, si determina una unitarietà della causa che preclude alle parti di metterla in discussione sotto il profilo della giurisdizione con la proposizione di un regolamento preventivo, avendo esse già esaurito il relativo potere; ne consegue che il giudice amministrativo “ad quem”, se si ritenga, a sua volta, privo di giurisdizione, può tempestivamente sollevare il relativo conflitto negativo, ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a., con la decisione presa all’esito della prima udienza di trattazione, di cui essa costituisce ontologicamente la prosecuzione e la conclusione, sebbene il conflitto sia sollevato senza previa esternazione di dubbi sulla questione e senza una espressa riserva pertinente, giacché tale omissione non lede il diritto di difesa delle parti (Sez. U, n. 17329/2021, Graziosi, Rv. 661540-01).

È ammissibile il ricorso per conflitto negativo di giurisdizione nell’ipotesi in cui il giudice ordinario ed il giudice amministrativo abbiano entrambi negato con sentenza la propria giurisdizione sulla medesima controversia, pur senza sollevare essi stessi d’ufficio il conflitto, essendosi in presenza non di un conflitto virtuale di giurisdizione, risolvibile con istanza di regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., ma di un conflitto reale negativo di giurisdizione, denunciabile alle sezioni unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 362, comma 2, n. 1 c.p.c., in ogni tempo e, quindi, indipendentemente dalla circostanza che una delle due pronunce in contrasto sia passata in giudicato (Sez. U, n. 01919/2021, Acierno, Rv. 660230-01).

Ancora con riferimento ai giudici speciali, la S.C. ha recentemente affermato che nel giudizio per resa del conto dinanzi alla Corte dei Conti, la notifica all’agente contabile dell’intimazione a rendere il conto e del decreto di fissazione della pubblica udienza, in caso di mancata presentazione del conto nel termine, nonché la notifica delle “decisioni interlocutorie della Corte contenenti osservazioni sul conto”, non precludono il regolamento preventivo di giurisdizione, trattandosi di provvedimenti aventi portata esclusivamente istruttoria non suscettibili di passaggio in giudicato, finalizzati a provocare il contraddittorio, abilitando l’agente ad esercitare il diritto di difesa e a contestare la veste di agente contabile, senza implicare una decisione sulla giurisdizione né sul merito (Sez. U, n. 07640/2020, Scrima, Rv. 657523-01).

Con riferimento ai rapporti con il giudice straniero, il quadro normativo, rispetto all’originario testo dell’art. 37 c.p.c., è radicalmente mutato in seguito alla l. n. 218 del 1995, ed in particolare in seguito al regolamento comunitario n. 44 del 2001.

Quanto al rapporto tra la l. n. 218 del 1995 e le fonti unionali incidenti sulla giurisdizione, è da segnalare Sez. U n. 12585/2019, Virgilio, Rv. 653932-01 che hanno affermato che la clausola di deroga della giurisdizione, stipulata ai sensi dell’art. 25 del Regolamento UE n. 1215 del 2012, è valida anche nel caso in cui riguardi una controversia relativa a diritti indisponibili, non potendo prevalere sulla disciplina di fonte unionale l’art. 4, comma 2, della l. n. 218 del 1995, il quale, nel prevedere un’ipotesi di inderogabilità convenzionale non contemplata dalla prima, ne pregiudica “in parte qua” l’applicazione, in contrasto con i caratteri di diretta applicabilità e cogenza e con la finalità di unificazione delle norme nazionali in materia, ad essa attribuiti dai “considerando” 4 e 6 del citato regolamento.

Ancora in tema di rapporti tra giurisdizione nazionale e giudice straniero, si è chiarito che non è esperibile e deve essere dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione nel caso di conflitto fra clausole di proroga della giurisdizione che attribuiscano la competenza a giudici di paesi diversi dell’Unione europea, relativamente a controversie in cui sussista una ipotesi di litispendenza o connessione, qualora il giudice straniero sia stato preventivamente adìto in base a una clausola di attribuzione esclusiva della giurisdizione rispetto al giudice italiano successivamente adìto anch’esso in base a una clausola attributiva in via esclusiva della giurisdizione (Sez. U, n. 12638/2019, Bisogni, Rv. 653936-02).

Sulla stessa linea, si è affermato recentemente che in presenza di una clausola di proroga della giurisdizione, nel caso in cui siano promosse più cause in rapporto di litispendenza davanti a giudici di Stati diversi, e dovendosi applicare l’art. 27 della Convenzione di Lugano, firmata il 30 ottobre 2007 (approvata anche dalla Comunità Europea con decisione del Consiglio 2009/430/CE del 27 novembre 2008), è il giudice preventivamente adìto a dover verificare l’esistenza della clausola e, con essa, l’effettiva pattuizione di una competenza giurisdizionale esclusiva, mentre l’altro giudice, nell’attesa di tale statuizione, deve sospendere d’ufficio il proprio procedimento, non potendo adottare alcuna statuizione sulla competenza giurisdizionale, sicché, ove sia successivamente adìto il giudice italiano, nel processo pendente dinanzi a quest’ultimo non è consentita neppure la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione (Sez. U, n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-02).

Proprio in applicazione di tale principio, la S.C. ha affermato che nell’ipotesi di contemporanea pendenza, dinanzi a giudici di diversi paesi dell’Unione europea, di due giudizi di divorzio o separazione personale dei coniugi, il giudice italiano che sia stato successivamente adìto è tenuto, ai sensi dell’art. 19 del regolamento CE n. 2201 del 2003, a sospendere il procedimento fino all’accertamento della competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adìta, di modo che, nel processo dinanzi a lui pendente, è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione (Sez. U, n. 19665/2020, Acierno, Rv. 658927-01).

Inoltre, il regolamento preventivo di giurisdizione non può essere utilizzato per contestare l’attribuzione della cognizione di una domanda giudiziale ad un foro rispetto ad un altro appartenente ad uno stesso plesso giurisdizionale nazionale. Sicché, nell’ipotesi di clausola contrattuale che, ai fini della determinazione della giurisdizione del giudice di un singolo Stato, indichi anche lo specifico foro di quello Stato presso il quale deve svolgersi la causa, il rimedio esperibile per contestare l’azione proposta davanti ad un foro diverso, appartenente tuttavia allo stesso ordinamento nazionale, non è il regolamento di giurisdizione, poiché la prospettazione integra una questione di competenza territoriale che deve essere fatta valere nei termini e nei modi della legge processuale del giudice che ha la giurisdizione, senza che, in assenza di una sentenza sulla competenza, il ricorso per regolamento di giurisdizione sia suscettibile di conversione in ricorso per regolamento di competenza (Sez. U, n. 5195/2019, Campanile, Rv. 652861-01).

Tra le novità più rilevanti portate dalla l. n. 218 del 1995, deve ricordarsi che ai sensi degli artt. 64 e 65 è ormai sancita la regola in base alla quale le sentenze delle autorità straniere sono immediatamente efficaci senza bisogno della cd. “delibazione”.

Inoltre, il difetto di giurisdizione del giudice italiano nei confronti del giudice straniero non è più rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ma lo è solo in tre casi: se il convenuto è contumace; se la causa ha ad oggetto azioni reali relativi a beni immobili che si trovano all’estero; se il difetto di giurisdizione è previsto da trattati internazionali.

Al di fuori di queste ipotesi, il difetto di giurisdizione deve essere eccepito dal convenuto nel suo primo atto difensivo e, se questi non propone l’eccezione, il giudice non potrà declinare la giurisdizione.

In tema di litispendenza internazionale, l’ordinanza con cui il giudice successivamente adìto sospende il processo finché quello adìto per primo non abbia affermato la propria giurisdizione non involge alcuna questione di giurisdizione, risolvendosi piuttosto nella verifica dei presupposti di natura processuale inerenti all’identità delle cause e alla pendenza del giudizio instaurato preventivamente. Ne consegue, pertanto, che avverso detto provvedimento deve essere esperito non già il regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c., bensì il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. (Sez. U, n. 21767/2021, Valitutti, Rv. 661869-01).

2. La questione di giurisdizione e le preclusioni processuali al suo rilievo: l’orientamento precedente alle Sez. U n. 24883/2008.

Uno dei problemi più dibattuti in tema di giurisdizione è quello della portata della previsione, contenuta nell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di tale presupposto processuale è rilevabile in ogni stato e grado del processo.

Prima della pronuncia delle Sez.U n. 24883/2008, la giurisprudenza si era attestata sul seguente criterio: se il giudice decide sul merito nulla dicendo circa la giurisdizione, l’impugnazione solo sul merito devolve al giudice superiore il potere di rilevare d’ufficio la questione di giurisdizione, fermo restando il potere della parte soccombente di eccepirne il difetto.

Ne deriva, innanzitutto, che la decisione sulla giurisdizione sottrae la questione al rilievo di ufficio, attivando il meccanismo di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c.: la decisione con cui il giudice conferma la propria giurisdizione può essere contrastata soltanto con l’impugnazione del relativo capo di pronuncia.

In secondo luogo, se la decisione sul merito passa in giudicato, l’esistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice che l’ha pronunciata non può più essere messa in discussione.

Con la sentenza Sez. U, n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la S.C. ha stabilito, invece, che l’interpretazione dell’art. 37 cod. proc. civ., secondo cui il difetto di giurisdizione "è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo", deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo ("asse portante della nuova lettura della norma"), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (coincidente con la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito "per saltum", non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Una particolare declinazione degli esposti princìpi la si trova in Sez. U, n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-02, secondo cui “le sentenze di merito che statuiscono sulla giurisdizione sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato esterno, sì da spiegare i propri effetti anche al di fuori del processo nel quale siano state rese, solo in quanto in esse la pronuncia sulla giurisdizione, sia pure implicita, si coniughi con una di merito, fermo restando che tale efficacia presuppone il passaggio in giudicato formale delle sentenze stesse ed è limitata a quei processi che abbiano per oggetto cause identiche, non solo soggettivamente ma anche oggettivamente, a quelle in cui si è formato il giudicato esterno”. Nella specie, la S.C. ha escluso che la sentenza del TAR, con la quale era stato dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso proposto dal privato avverso un provvedimento comunale, avesse determinato un giudicato esterno esplicito sulla giurisdizione.

Ed ancora, sul rapporto logico di presupposizione dell’esistenza del potere giurisdizionale in una pronuncia di rito, è paradigmatico l’arresto di Sez. U, n. 04361/2018, Scarano, Rv. 647315-01: “la decisione sulla competenza presuppone l’affermazione, quantomeno implicita, da parte del giudice investito della causa, della propria giurisdizione, sicché, attribuita la competenza, in sede di regolamento, ad un giudice, quest’ultimo non può successivamente negare la sua giurisdizione”.

Al di là della tenuta, sul piano logico formale, della svolta interpretativa delle Sezioni Unite, ed al di là dell’aderenza di tale svolta al testo dell’art. 37 c.p.c., ciò che emerge nettamente dal percorso motivazionale tracciato dalla S.C. è la dichiarata volontà di dare all’art. 37 c.p.c. una lettura che favorisca, al di fuori di una esplicita doglianza di parte in sede di impugnazione, la stabilizzazione della sentenza di merito nell’ottica di un processo che abbia anche una ragionevole durata, e che dunque non rischi, dopo il primo grado, di essere “azzerato” pur in mancanza del rilievo del difetto di giurisdizione da parte del primo giudice o di una impugnazione della parte in punto di giurisdizione.

Secondo le citate Sezioni Unite, l’art. 37, comma 1, c.p.c., nell’interpretazione tradizionale, basata sulla lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.).

Nel solco di tale interpretazione dell’art. 37 c.p.c. coordinata con il principio della ragionevole durata del processo, si pone la recente Sez. 5, n. 25493/2019, Perrino, Rv. 655411-01, che ha affermato che nel processo tributario, la mera prospettazione della questione di giurisdizione (contenuta nel ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR che abbia inammissibilmente rilevato d’ufficio il difetto della giurisdizione implicitamente affermata dalla decisione di primo grado) consente alla Corte di cassazione di accertare il consolidamento in capo al giudice tributario della “potestas iudicandi” per effetto della formazione, a suo beneficio, di un giudicato implicito sulla relativa attribuzione e, quindi, senza che venga statuita la cogenza di quest’ultima alla stregua del quadro normativo, ponendosi d’ostacolo, in sede di legittimità, soltanto la pronuncia di secondo grado che decida, ancorché implicitamente, sull’esistenza o meno del giudicato interno, rimovibile solo per effetto di una espressa impugnazione.

In (almeno apparente) controtendenza, Sez. U, n. 23899/2020, Rubino, Rv. 659456-01 ha affermato che la possibilità di proporre ricorso per cassazione, deducendo la configurabilità dell’ipotesi dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte di un giudice speciale (nella specie, la Corte dei Conti), non è in alcun modo preclusa dall’accettazione della giurisdizione sul merito della controversia, derivante dal non aver sollevato la relativa questione nei gradi di merito.

3. Il regolamento preventivo di giurisdizione: il procedimento.

Il regolamento preventivo di giurisdizione può essere definito come lo strumento per poter sollevare, prima ancora di qualsiasi decisione, la questione dell’esistenza della potestas iudicandi in capo al giudice adìto.

Si tratta di un rimedio preventivo attraverso il quale si sottopone alla Corte di Cassazione l’esame della questione di giurisdizione, allo scopo di evitare che si proceda in un giudizio relativo ad una controversia o ad un “affare” con riferimento al quale il giudice adìto sia privo di giurisdizione.

Il problema maggiore che la disposizione dell’art. 41, comma 1, c.p.c. ha sempre posto è quello del termine entro il quale esso può essere proposto.

Il punto fermo era che sia la sentenza di merito, non definitiva, sia la pronuncia di una sentenza definitiva di rito precludevano la proponibilità del regolamento preventivo.

Ne derivava, ad esempio, che non si riteneva preclusiva della proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione la sentenza che si fosse limitata ad affermare la giurisdizione in capo al giudice adìto.

Il regolamento preventivo di giurisdizione, e l’esigenza, sottesa a tale strumento processuale, che il dubbio sull’esistenza della potestas iudicandi in capo al giudice adìto sia sciolto in limine litis, e comunque prima che quest’ultimo si pronunci sul merito della domanda o definisca il giudizio in rito, si aggancia all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12 del 1941), a norma del quale la Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni.

La pronuncia della S.C. resa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione ha efficacia cd. panprocessuale: vale per tutti i processi.

Quindi, anche se il processo a quo si estingue e si instaura un nuovo processo tra le stesse parti, l’efficacia della pronuncia delle Sezioni Unite resta vincolante.

Questa regola è stata “codificata” nell’art. 59, comma 1, della l. n. 69 del 2009, a norma del quale la pronuncia sulla giurisdizione, resa dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, è vincolante per ogni giudice ordinario o speciale e per le parti anche in un altro processo.

Sull’efficacia vincolante della pronuncia sulla giurisdizione è intervenuta Sez. U., n. 11161/2019, Genovese, Rv. 653897-01, che hanno affermato che per il principio del ne bis in idem, secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, l’efficacia panprocessuale delle pronunce della Suprema Corte sulla giurisdizione non si realizza soltanto quando la nuova domanda sia proposta in termini identici sotto tutti i profili della struttura dell’azione (personae, causa petendi e petitum), ma anche quando il petitum sostanziale della nuova domanda sia identico a quello della domanda già proposta, con la conseguenza che il regolamento preventivo di giurisdizione, proposto nel nuovo processo ex art. 41 c.p.c., è inammissibile.

Un arresto fondamentale nell’evoluzione interpretativa dell’art. 41, comma 1, Cost., è stato quello di Sez. U., n. 04218/1996, Finocchiaro, Rv. 497431-01, che, argomentando dalla formulazione dell’art. 367 c.p.c. in seguito alla legge n. 353 del 1990, e dalla impossibilità di configurare una sospensione automatica dei termini di impugnazione della sentenza emessa dal giudice a quo per effetto della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, hanno concluso per la non proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione dopo che il giudice abbia emesso una qualsiasi decisione nel corso del processo di merito.

La proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione è preclusa nell’ipotesi in cui il giudice abbia emesso un provvedimento non modificabile o revocabile in tema di giurisdizione, sicché tale preclusione non opera allorché egli abbia statuito sulla giurisdizione “allo stato degli atti”, con l’ordinanza contenente il rinvio per la precisazione delle conclusioni, la quale non concreta una delibazione sulla giurisdizione insuscettibile di ripensamento (Sez. U., n. 1605/2020, Oricchio, Rv. 656794-03).

Lungo questa linea interpretativa, si è affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione è inammissibile dopo che il giudice del merito abbia emesso una sentenza, anche solo limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, poiché in tal caso la decisione sul punto va rimessa al giudice di grado superiore, atteso che l’art. 367 c.p.c., prevedendo la sospensione del processo ad opera del giudice davanti al quale pende la causa in caso di proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione, postula che il ricorso per regolamento venga proposto prima che il giudice di primo grado abbia definito il giudizio davanti a sé (Sez. U., n. 10083/2020, Cosentino, Rv. 657735-01).

Di converso, non osta alla proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione la circostanza che il giudice abbia provveduto nella fase cautelare di un’azione di enunciazione, sia pure risolvendo in senso affermativo o negativo una questione attinente alla giurisdizione, giacché il provvedimento reso sull’istanza cautelare non costituisce sentenza (Sez. U., n. 19667/2020, Di Marzio M., Rv. 658851-01).

L’istanza di regolamento preventivo si propone con ricorso a norma degli artt. 364 e ss. c.p.c., e produce gli effetti di cui all’art. 367 c.p.c.

Sez. U., n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-01 hanno chiarito che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, poiché l’adozione del provvedimento monitorio non costituisce decisione nel merito ai sensi dell’art. 41 c.p.c.

Con riferimento all’attivabilità dello strumento processuale previsto dall’art. 41 c.p.c. nel caso in cui la lite pendente sia soggetta alla giurisdizione del giudice straniero, la Suprema Corte, in relazione alla richiesta di una parte processuale con sede in Italia di stabilire la giurisdizione in presenza di un patto contrattuale teso a devolvere ad un arbitrato straniero la lite promossa in via monitoria nei suoi confronti davanti al giudice italiano, ha chiarito che nel sistema di diritto internazionale privato disciplinato dalla legge n. 218 del 1995, l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione proposta dal convenuto residente o domiciliato in Italia è sempre ammissibile, purché l’istante dimostri l’esistenza di uno specifico interesse a ricorrere a questo specifico strumento al fine di escludere la giurisdizione nazionale davanti alla quale sia stato convenuto. In tal caso, qualora, in pendenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in seguito all’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione, sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pure avendo avuto il potere di adottare il provvedimento poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del ridetto decreto monitorio. (Sez. U., n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-02, Rv. 650459-03)

Con riferimento alla giurisdizione del giudice italiano, Sez. U., n. 29879/2018, Giusti, Rv. 651441-01 hanno affermato che il regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c., per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano, è ammissibile non solo allorché il convenuto nella causa di merito sia domiciliato o residente all’estero, ma anche quando lo stesso, pur domiciliato o residente in Italia, contesti la giurisdizione italiana in forza di una deroga convenzionale a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero.

Sez. 6-3, n. 20045/2018, De Stefano, Rv. 650292-01 ha chiarito che il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non si sottrae alle regole generali del giudizio di legittimità, e pertanto deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato munito di valida procura speciale.

Tuttavia, il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non incorre nella sanzione di improcedibilità di cui all’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c. allorquando il ricorrente non abbia depositato un documento in esso richiamato e tale atto sia irrilevante ai fini della definizione della questione di giurisdizione (Sez. U, n. 03125/2021, Acierno, Rv. 660357-03).

La dichiarazione d’improcedibilità dell’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, non depositata nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., non osta all’ammissibilità di una successiva richiesta di regolamento, che può essere avanzata anche dalla controparte nella stessa fase processuale; a tal fine, non è rilevante che essa sia stata proposta con controricorso e ricorso incidentale, stante l’ininfluenza dell’adozione di una forma processuale non utilizzabile nell’ambito del procedimento per regolamento di giurisdizione, presentandone i prescritti requisiti e contenendo la richiesta di una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulla questione di giurisdizione (Sez. U, n. 20822/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662225-01).

Nel procedimento per la pronuncia sull’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, la querela di falso “incidentale” può essere proposta solo se la parte, tramite il difensore, abbia chiesto di essere sentita in funzione di tale proposizione prima della convocazione della camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., restando invece inammissibile nell’ipotesi in cui la richiesta sia stata formulata il giorno stesso dell’adunanza e la querela sia stata contestualmente depositata, atteso che il predetto procedimento non tollera dilazioni o ritardi nella definizione del regolamento; né, per effetto di tale interpretazione del contesto normativo di riferimento, si determina una lesione del diritto di difesa, restando impregiudicata per la parte la possibilità di proporre la querela di falso in via principale (Sez. U, n. 1605/2020, Oricchio, Rv. 656794-01).

A norma dell’art. 367, comma 1, c.p.c., dopo che una copia del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, notificata alle altre parti, è depositata nella cancelleria del giudice davanti al quale pende la causa, quest’ultimo può sospendere il processo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata.

Prima della novella recata con l. n. 353 del 1990, il cui art. 61 ha riformulato il comma 1 della disposizione citata, la sospensione del giudizio di merito era una conseguenza necessaria ed automatica della proposizione dell’istanza di regolamento.

Ora, dunque, in seguito all’art. 61 della l. n. 353 del 1990, che ha riformulato il primo comma dell’art. 367 c.p.c., potrebbe accadere che, proposta istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, la definizione del giudizio di merito preceda la decisione della Suprema Corte.

Sul punto, Sez. U, n. 11576/2018, Campanile, Rv. 648273-01 hanno deciso che l’emissione della sentenza ad opera del giudice di merito non determina la carenza d’interesse alla decisione della Corte di cassazione sul regolamento preventivo di giurisdizione proposto anteriormente ad essa, dovendosi considerare la decisione del giudice di merito come pur sempre condizionata al riconoscimento della giurisdizione all’esito della definizione del regolamento.

Quanto ai limiti oggettivi del giudicato sulla giurisdizione, la S.C. ha affermato che il giudicato interno, conseguente alla statuizione sul regolamento preventivo di giurisdizione, adottata con esclusivo riferimento alla domanda principale, senza operare alcuna distinzione rispetto alle domande subordinate o accessorie, pur potendo la pronuncia interessare anche queste ultime, preclude ogni successiva contestazione attinente alla giurisdizione, anche se relativa alle domande subordinate o accessorie in precedenza non esaminate (Sez. U, n. 12479/2020, De Stefano, Rv. 658037-01).

Tuttavia, si è recentemente specificato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite di un’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione limitata alla sola domanda riconvenzionale, devono esercitare il potere di regolare la giurisdizione anche rispetto alla domanda principale, avuto riguardo all’esigenza di risolvere la questione di giurisdizione una volta per tutte sull’intera controversia (Sez. U, n. 02139/2021, Scrima, Rv. 660231-01).

La Suprema Corte ha avuto anche modo di pronunciarsi sui limiti soggettivi di efficacia delle sue decisioni rese in sede di regolamento preventivo di giurisdizione.

In particolare, Sez. U, n. 06929/2018, De Stefano, Rv. 647661-01 ha chiarito che il giudicato sulla giurisdizione, formatosi all’esito di una istanza di regolamento proposta nell’ambito di un giudizio su cause inscindibili (perché le domande sono avvinte da un legame di connessione teleologica o dall’identità della causa petendi), è irretrattabile per tutte le parti del processo nel cui ambito detto giudicato si è formato, le quali sono litisconsorti necessari nel procedimento ex art. 41 c.p.c., ma non vincola anche coloro che sono intervenuti nel medesimo giudizio dopo la formazione del giudicato, che, pertanto, a differenza dei primi, possono ancora sollevare la questione di giurisdizione, anche facendo valere il successivo mutamento di giurisprudenza sulla materia (nel caso di specie, la Corte ha era stata chiamata a regolare la giurisdizione della Corte dei Conti in un giudizio di responsabilità per danni cagionati nella gestione di una società a partecipazione pubblica non in house providing).

Con riferimento all’istanza di regolamento preventivo proposta nell’ambito del giudizio amministrativo, Sez. U, n. 04899/2018, Frasca, Rv. 647563-01 ha stabilito che essa può essere proposta con ricorso notificato prima dell’udienza di discussione, essendo tale udienza indefettibile nell’ambito del procedimento decisorio delineato dall’art. 73 del d.lgs. n. 104 del 2010.

Constando il procedimento per cassazione della notifica del ricorso e, successivamente, del suo deposito, si è posto il problema di quando possa essere definito come proposta l’istanza di regolamento preventivo di competenza ai fini della sua ammissibilità.

Sul punto, si segnala Sez. U., n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-01, che ha deciso che ai fini della verifica della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione nella pendenza del giudizio di primo grado, e della sua conseguente ammissibilità, assume rilievo la data della notifica e non del deposito del ricorso ad esso finalizzato.

Dal momento che, anche sotto la spinta del diritto comunitario, le funzioni pubbliche non sono più sempre esercitate da soggetti formalmente pubblici, si è stabilito che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in un giudizio che si svolga fra privati, in quanto la mera qualità soggettiva delle parti non è più un criterio discriminante assoluto per stabilire l’ammissibilità del detto strumento. Al contrario, per verificare l’ammissibilità del ricorso preventivo di giurisdizione, occorre esaminare se il petitum e la causa petendi così come prospettati in giudizio, possano, effettivamente ed in concreto, porre il dubbio sulla giurisdizione.

Con riferimento al termine ultimo per la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U., n. 02144/2018, Giusti, Rv. 647037-01 ha chiarito che la preclusione alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, prevista dall’art. 41, comma 1, c.p.c., di regola si verifica non al momento della pubblicazione del provvedimento decisorio di merito di primo grado, ma da quello, precedente, in cui la causa viene trattenuta in decisione. Tuttavia, qualora il giudice, dopo aver trattenuto la causa in decisione assegnando i termini per le scritture conclusionali, sospenda il processo ai sensi dell’art. 367 c.p.c., tale termine finale non opera, posto che, in questo caso, per effetto del provvedimento di sospensione, la pronuncia sul regolamento recupera la funzione di consentire una sollecita definizione della questione di giurisdizione, nonostante che l’istanza di regolamento sia stata proposta dopo la rimessione della causa in decisione.

Si tratta di un’applicazione del principio della ragionevole durata del processo, che “consiglia” (o, per meglio dire, “impone”) alla Suprema Corte di eliminare il dubbio sollevato sulla giurisdizione, che comunque potrebbe essere riprospettato in appello, ed eventualmente in Cassazione tramite gli ordinari mezzi di impugnazione, una volta che il processo sospeso riprendesse in seguito ad un eventuale pronuncia di inammissibilità dello strumento preventivo e giungesse fino a sentenza definitiva di merito.

L’art. 96 c.p.c. è applicabile anche nell’ambito del procedimento per regolamento preventivo di giurisdizione, sicché la condanna per il risarcimento dei danni da responsabilità aggravata, ai sensi di tale articolo, può essere emessa anche dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 25041/2021, Cosentino, Rv. 662248-01).

Si è anche specificato, nell’ambito di un procedimento di regolamento preventivo di giurisdizione, che l’accertamento della responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., discende esclusivamente da atti o comportamenti processuali concernenti il giudizio nel quale la domanda viene proposta, quali, ai sensi del comma 1, l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave o, per quanto riguarda il comma 3, l’aver abusato dello strumento processuale (Sez. U, n. 25041/2021, Cosentino, Rv. 662248-02).

4. Il regolamento di giurisdizione e la translatio iudicii.

Per lungo tempo la pronuncia declinatoria di giurisdizione era uno spettro per chi chiedeva giustizia.

Nei giudizi impugnatori essa poteva vanificare l’accesso alla tutela giurisdizionale, in quanto non era prevista alcuna trasmigrazione della causa dall’uno all’altro plesso giurisdizionale.

In seguito a Sez. U, n. 04109/2007, Trifone, Rv. 595428-01, e a Corte cost. n. 77 del 2007, non solo è stata introdotta la translatio iudicii tra giudici di diversi plessi giurisdizionali, ma, in virtù del corollario in base al quale la trasmigrazione del giudizio comporta la sua continuazione dinanzi al “nuovo” giudice, si è stabilito che l’originaria domanda proposta al giudice carente di giurisdizione spiegasse effetti conservativi sostanziali e processuali, se la riassunzione davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione fosse tempestiva.

La lacuna normativa, denunciata sia dalla Suprema Corte che dalla Corte costituzionale, è stata finalmente colmata dal legislatore con la legge n. 69 del 2009, che peraltro, oltre ad introdurre il regolamento di giurisdizione d’ufficio, prendendo a modello la disciplina dell’incompetenza, al comma 3 dell’art. 59 fa espressamente salvo il regolamento preventivo di giurisdizione.

In seguito all’entrata in vigore della legge citata, tuttavia, la S.C. ha ribadito i princìpi più volta espressi: il regolamento preventivo conserva la sua natura non impugnatoria, essendo un celere strumento per la definizione della questione di giurisdizione; le decisioni sulla giurisdizione sono suscettibili di passare in cosa giudicata formale; il passaggio in giudicato di tali sentenze preclude l’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione.

A proposito della natura non impugnatoria del regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U, n. 22575/2019, Scarano, Rv. 655112-01 ha affermato che l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, essendo solo uno strumento per risolvere in maniera preventiva ogni contrasto, reale o potenziale, sulla potestas iudicandi del giudice adìto, può anche non contenere specifici motivi di ricorso, e cioè l’indicazione del giudice avente giurisdizione o delle norme e delle ragioni su cui si fonda, ma deve recare, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, in modo da consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, sia pure in funzione della sola questione di giurisdizione da decidere.

La natura non impugnatoria del regolamento preventivo di giurisdizione comporta la non applicabilità, al relativo procedimento, dell’art. 360-bis c.p.c.

Il regolamento preventivo di giurisdizione, infatti, ha la funzione di provocare una decisione che accerti, in via definitiva ed immediata, se il giudice adìto abbia o meno giurisdizione e, comunque, a quale giudice essa appartenga, giacché, da un lato, ove la soluzione della questione fosse riconducibile all’ambito dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., in ogni caso occorrerebbe una statuizione in merito ad opera della Corte di cassazione, mentre, dall’altro, l’art. 360-bis, n. 2, c.p.c. risulterebbe comunque sempre applicabile, ma in positivo, risultando l’individuazione della giurisdizione, per definizione, conforme alla logica del giusto processo (Sez. U, n. 3886/2019, Frasca, Rv. 652850-01).

Anche recentemente si è affermato che l’istanza di regolamento preventivo di giurisdizione non è un mezzo di impugnazione e pertanto può anche non contenere specifici motivi di ricorso, ossia l’indicazione del giudice che abbia la giurisdizione o delle norme e delle ragioni su cui si fonda, essendo sufficiente che esponga gli elementi necessari alla definizione della questione di giurisdizione, in conformità a quanto previsto dall’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c., indicando le parti, l’oggetto e il titolo della domanda e specificando altresì il procedimento a cui si riferisce e la fase in cui si trova, in modo tale da consentire la verifica delle condizioni richieste dall’art. 41 c.p.c. (Sez. U, n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-01).

Occorre notare che quando il giudice ordinario dichiara il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, non opera il meccanismo della translatio, né quando il difetto è dichiarato nei confronti di un giudice straniero, trattandosi, nel primo caso, di un apparato burocratico estraneo all’amministrazione della giustizia; nel secondo caso, di un giudice estraneo all’ordinamento giuridico statale, nei confronti del quale nessuna norma sovranazionale prevede la trasmigrazione di cause instaurate dinanzi a giudici italiani.

Il processo che, a seguito di tempestiva riassunzione conseguente ad una pronuncia declinatoria della giurisdizione, si instaura innanzi al giudice indicato come munito di essa, non è un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell’unico giudizio sicché, mentre nella ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009 (e dell’art. 11, comma 3, del c.p.a.) e sempre che la causa riassunta costituisca la riproposizione di quella originaria, il giudice successivamente adìto può sollevare d’ufficio la questione di giurisdizione, al contrario, nel giudizio riassunto non può essere sollevato il regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., giacché la pronuncia declinatoria emessa nella prima fase integra una decisione sulla giurisdizione assunta nell’unitario giudizio e, pertanto, ostativa alla proposizione del regolamento preventivo, il quale è utilizzabile solo nella prima fase del medesimo giudizio, ove tale decisione ancora manca (Sez. U., n. 9683/2019, Carrato, Rv. 653557-01).

Sulla stessa scia, si è affermato che il processo che, a seguito della pronuncia declinatoria della giurisdizione, si instaura per effetto della tempestiva riassunzione davanti al giudice indicato come munito di giurisdizione, non è un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione dell’unico giudizio; rimane pertanto precluso alle parti, nel giudizio riassunto, sollevare la questione di giurisdizione, stante la formazione del giudicato interno sul punto (Sez. U., n. 23599/2020, Scoditti, Rv. 659454-01).

La riassunzione nel processo di primo grado conseguente all’affermazione della competenza giurisdizionale dell’Autorità giudiziaria ordinaria, denegata nei gradi di merito e pronunciata dalla Corte di cassazione in seguito a ricorso ordinario per motivo attinente alla giurisdizione, va effettuata nel termine previsto, in via generale, dall’art. 362 c.p.c., e non nel termine di cui all’art. 367, comma 2, c.p.c., riguardante l’ipotesi di pronuncia, affermativa della giurisdizione del giudice ordinario, resa in sede di regolamento di giurisdizione, né in quello di cui all’art. 353, comma 2, c.p.c., né, infine, nei termini stabiliti dall’art. 50 c.p.c. o 59, comma 2, della legge n. 69 del 2009 (Sez. L, n. 29623/2019, Bellè, Rv. 655712-01).

Con riferimento alle modalità di proposizione del regolamento di giurisdizione d’ufficio, Sez. U, n. 11143/2017, De Stefano, Rv. 644051-01, ha stabilito che, nel caso di translatio iudicii verso il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, alla quale la causa sia stata rimessa dopo la declinatoria di difetto di giurisdizione da parte di un altro giudice, la questione di giurisdizione non può essere ulteriormente d’ufficio sottoposta alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009, se non viene sollevata dal giudice delegato all’istruzione alla prima udienza tenuta davanti a lui, ferma la competenza del collegio, cui la questione sia stata rimessa dal detto giudice, siccome privo di poteri decisori ma non del potere di rilevare d’ufficio questioni, a provvedere sul punto all’esito dell’udienza di discussione.

Sez. U, n. 05303/2018, Giusti, Rv. 647320-01 aveva ritenuto che il regolamento di giurisdizione d’ufficio chiesto dal giudice ad quem abbia, come indefettibile presupposto, la tempestiva riassunzione della causa, potendo d’altronde essere posta a base dell’istanza, da parte del giudice ad quem, non solo la carenza di giurisdizione di quest’ultimo riguardo al giudice a quo, ma anche rispetto ad un diverso giudice speciale indicato alternativamente come munito di giurisdizione sulla controversia.

Nella fattispecie, la controversia aveva ad oggetto il compenso per un incarico di collaborazione affidato da una commissione parlamentare ad un professionista esterno, e la S.C., equiparando la posizione del professionista a quella di un funzionario onorario e qualificando la sua situazione giuridica come interesse legittimo, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, escludendo quella degli organi parlamentari di autodichia in quanto, sulla base del principio della perpetuatio iurisdictionis, di cui all’art. 5 c.p.c., la controversia era stata instaurata prima dell’entrata in vigore della delibera del Consiglio di Presidenza del Senato n. 180 del 2005, che aveva esteso la giurisdizione “domestica” agli atti e ai provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale.

In tema di limiti della translatio iudicii in seguito a pronuncia declinatoria della giurisdizione, Sez. U., n. 19045/2018, Giusti, Rv. 649753-01 aveva chiarito che il conflitto può essere sollevato dal giudice successivamente adìto se, oltre a ricorrere gli altri requisiti (la tempestività della riproposizione della domanda; il non superamento del termine preclusivo della prima udienza; la mancanza di pronuncia delle Sezioni Unite nel processo, sulla questione di giurisdizione), la causa dinanzi a lui promossa costituisca riproposizione di quella per la quale il giudice preventivamente adìto aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione. Ove, invece, si sia di fronte alla proposizione di una nuova ed autonoma domanda, di contenuto diverso da quella azionata nel precedente giudizio, il giudice adìto successivamente non può investire direttamente le Sezioni Unite della Corte ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, ma è tenuto, se del caso, a pronunciarsi sulla stessa ai sensi dell’art. 37 c.p.c.

La translatio iudicii opera anche tra il processo dinanzi agli arbitri che abbiano rilevato di essere carenti di giurisdizione rispetto alla domanda ed il processo riassunto, senza che rilevi la mancata impugnazione della pronuncia arbitrale che abbia declinato la giurisdizione (Sez. U, n. 01251/2019, Mercolino, Rv. 652243-01).

Il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione può essere notificato sia presso l’Avvocatura generale dello Stato, sia presso la sede dell’Avvocatura distrettuale dello Stato nel cui distretto si trova l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale pende la causa. Infatti, dalla natura e dalle funzioni del regolamento di giurisdizione, quale procedimento incidentale ed eventuale che sorge all’interno del giudizio di primo grado in corso, consegue che la notifica del ricorso va effettuata a norma del secondo comma dell’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611; ciò non esclude che la notifica possa validamente effettuarsi ai sensi del primo comma dello stesso articolo, in applicazione del principio della ragionevole durata del processo, in base al quale vanno ridotte all’essenziale le ipotesi di nullità per vizi formali e va ampliata la doverosa collaborazione tra giudicante e procuratore costituito, in funzione di una sollecita definizione della controversia (Sez. U, n. 05454/2019, Doronzo, Rv. 652976-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione non è ammissibile nel corso del procedimento possessorio, prima della conclusione della fase sommaria o interdittale, e della introduzione della fase di merito ai sensi dell’art. 703, comma 4, c.p.c., atteso che l’art. 41 c.p.c., nello stabilire che la richiesta alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione possa essere formulata “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado”, richiede, quale condizione per la proposizione del detto regolamento, che sia in corso l’esame di una causa nel merito in primo grado e che essa non sia stata ancora decisa (Sez. U, n. 11220/2019, Genovese, Rv. 653603-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione non è esperibile nemmeno nel corso del procedimento cautelare (Sez. U, n. 06039/2019, Bruschetta, Rv. 652978-01).

Tuttavia, nel giudizio di merito conseguente a provvedimento ex art. 700 c.p.c., il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dal ricorrente rimasto soccombente in sede cautelare sussistendo, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione, in via definitiva, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per evitare che vi possano essere successive modifiche della giurisdizione nel corso del giudizio, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole (Sez. U,n. 12861/2020, Doronzo, Rv. 658024-01).

  • finanziamento
  • ricorso per accertamento di responsabilità CE
  • competenza giurisdizionale
  • società in partecipazione
  • danni e interessi
  • ricorso per accertamento di responsabilità amministrativa
  • responsabilità per i danni ambientali
  • pubblica amministrazione
  • conflitto di giurisdizioni

CAPITOLO II

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

(di Stefania Billi )

Sommario

1 Premesse generali. - 2 I motivi inerenti alla giurisdizione. - 2.1 I giudizi di ottemperanza. - 2.3 Lo sconfinamento nel potere legislativo. - 3 Le domande di accertamento dei diritti, di pagamento di somme. - 4 Le sovvenzioni, i finanziamenti, gli incentivi e le agevolazioni. - 5 Le vicende legate al patrimonio immobiliare. - 6 I rifiuti. - 7 Le domande risarcitorie. - 7.1 Annullamento in sede di autotutela. - 7.2 Mancato rilascio di attestazione prospettato come atto dovuto. - 7.3 Danni derivati dalla predisposizione, presentazione o mancata modifica di un atto legislativo. - 7.4 Omesso esercizio del potere autoritativo discrezionale. - 7.5 Condotta illecita della P.A. nella gestione e manutenzione dei propri beni o per l’occupazione di aree private per la realizzazione di opera pubblica. - 7.6 Somministrazione di acqua non conforme ai livelli minimi di potabilità e qualità. - 7.7 Danno derivante dalla lesione dell’affidamento nella correttezza dell’azione amministrativa. - 7.8 Gare per l’affidamento di lavori o servizi pubblici. - 7.9 S.p.a. a partecipazione pubblica. - 8 Enti. - 9 I rapporti con altre giurisdizioni. - 9.1 La linea di confine con la giurisdizione tributaria. - 9.2 Organi di giustizia dell’ordinamento sportivo. - 9.3 Ricorsi avverso decisioni di giudici dell’Unione. - 9.4 Altri giudici speciali.

1. Premesse generali.

La tematica dei limiti della giurisdizione impegna grandemente la S.C. I ricorsi per motivi di giurisdizione e i regolamenti di giurisdizione costituiscono, infatti, mediamente i due terzi del contenzioso che occupa le Sezioni Unite nel corso dell’anno. Non a caso il dibattito dottrinario sull’attualità o meno della pluralità delle giurisdizioni, in realtà mai sopito, negli ultimi anni ha ripreso vigore.

Le riflessioni sulle ragioni di tale contenzioso partono dalla constatazione quasi generalmente condivisa che attualmente le differenze tra il diritto pubblico e il diritto privato sono sempre più sfumate. È sufficiente pensare, per un verso, alla P.A. che, per il perseguimento dei propri obiettivi pubblicistici, si muove sempre più spesso come un privato accedendo a soluzioni negoziali o comunque concordate; per altro verso, si osserva che in grandi aree del diritto privato si trovano rapporti giuridici in cui le parti non sono più in posizione paritaria.

È, inoltre, chiaro che ad alimentare le incertezze contribuisce anche il numero crescente di casi di giurisdizione esclusiva introdotti dal legislatore, proprio in quei settori nei quali il diritto soggettivo concorre con l’interesse legittimo.

In tale quadro è evidente come il confine tra diritto soggettivo e interesse legittimo acquisti contorni sempre più indefiniti e i numeri del contenzioso in sede di legittimità confermano l’effetto di grande incertezza che si determina nei cittadini, costretti ad adire la via giudiziale, ancor prima di risolvere i propri conflitti, per individuare il giudice competente.

2. I motivi inerenti alla giurisdizione.

Nel corso dell’anno la S.C. è stata più volte chiamata a meglio chiarire le condizioni per il ricorso ex art. 111, comma 8, Cost., sotto diversi aspetti. Numerose sono le pronunce sui limiti di ammissibilità del ricorso ex art. 111 Cost. La questione è cruciale, in quanto è proprio su questo fronte che viene giocata la sfida della salvaguardia del controllo nomofilattico affidato dalla carta costituzionale al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti, quali organi di vertice delle due giurisdizioni speciali, nei rispettivi settori di appartenenza.

Un’altra delle tematiche particolarmente quest’anno approfondite dalla S.C. ha riguardato i rapporti tra il giudicato e le questioni di giurisdizione.

Sul tema dell’ambito del sindacato del giudice amministrativo in ordine alla legittimità dei provvedimenti della P.A. Sez. U, n. 00264/2021, Mercolino, Rv. 660463–01, ha fornito un utilissimo chiarimento circa i presupposti per configurare l’eccesso di potere giurisdizionale, avverso il quale è ammesso il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. Ad avviso della S.C. le decisioni del giudice amministrativo concernenti la legittimità dei provvedimenti della P.A. possono essere impugnate sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito. Tale vizio è configurabile quando l’indagine svolta dal medesimo giudice amministrativo ecceda i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, dimostrandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero se la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, evidenzi l’intento dell’organo giudicante di sostituire la propria volontà a quella dell’Amministrazione mediante una pronuncia che non lasci spazio ad ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa.

Molto significativa l’affermazione secondo cui, l’applicazione di tali principi ha una portata generale e, quindi, anche in determinati settori caratterizzati da un’ampia discrezionalità riconosciuta alla P.A., come quello dell’individuazione e progettazione delle opere pubbliche di importanza strategica, nei quali entrano in gioco valutazioni che trascendono l’ambito del singolo progetto per investire le prospettive di sviluppo del sistema infrastrutturale.

Tali settori, secondo la S.C., non possono, infatti, essere sottratti al sindacato del giudice amministrativo, che, sul punto, non è neppure limitato al mero rispetto delle regole procedurali, poiché la medesima P.A. è comunque tenuta a conformarsi ai criteri di logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria che presiedono all’esercizio della discrezionalità amministrativa. Il suo operato resta, infatti, sindacabile sotto il profilo dell’evidente illogicità o manifesta incongruenza relativamente ai presupposti di fatto considerati, alla razionalità delle scelte compiute, alla congruità dei mezzi adottati in rapporto allo scopo avuto di mira ed alla valutazione di soluzioni alternative.

Sez. U, n. 30112/2021, Giusti, Rv. 662549–01 ha affrontato il tema del controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione per asserito diniego di giustizia, chiarendo che, in tal caso, il vaglio della Corte di cassazione è da svolgere solo in astratto, cioè, in relazione all’estraneità del deciso rispetto alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice e mai in concreto.

La S.C. ha ricordato il principio consolidato secondo cui l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione o di difetto relativo di giurisdizione. Il primo caso si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa; il secondo si realizza quando tale giudice, violando i limiti esterni della giurisdizione, si sia pronunciato su una materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici. Tale lettura non è assolutamente suscettibile di interpretazione estensiva. Ne consegue che volere ricondurre delle ipotesi di “error in iudicando” o “in procedendo” ai motivi inerenti alla giurisdizione determina un’assimilazione dei due diversi tipi di ricorso, previsti rispettivamente ai commi 7 e 8 del citato art. 111 Cost., con violazione del principio dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla nostra carta costituzionale.

Per tale motivo, nella fattispecie sottesa alla pronuncia richiamata, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui si deduceva il diniego di giustizia fondato sull’allegazione secondo cui il giudice contabile aveva condannato il ricorrente sulla base di un fatto antigiuridico asseritamente altro e diverso da quello per il quale lo stesso era stato citato in giudizio e sul quale si era difeso.

Le pronunce di seguito indicate sono, poi, tutte concordi nell’affermare che è ammissibile il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione qualora il motivo di ricorso si fondi sull’allegazione che la decisione sulla giurisdizione, ancorché adottata dal giudice amministrativo, fosse preclusa per essersi in precedenza formato il giudicato sulla questione. Si tratta di un principio da ritenersi consolidato e, a tal proposito, si ricorda Sez. U, n. 02330/2011, Vittoria, Rv. 619338-01.

Restando, dunque, nel tema dell’efficacia di giudicato esterno delle pronunce dei giudici amministrativi, giova richiamare Sez. U, n. 38957/2021, Nazzicone, Rv. 663505-02, secondo cui tali sentenze, al pari di quelle dei giudici ordinari di merito, acquistano efficacia di giudicato esterno anche in tema di giurisdizione e, perciò, spiegano i propri effetti anche al di fuori del processo in cui sono state rese, solo qualora la statuizione sulla giurisdizione sia accompagnata da una conseguente pronuncia di merito. Nello stesso senso da ultimo v. Sez. U, n. 05872/2012, Vittoria, Rv. 622299–01. Consegue da tale principio che le sentenze dei giudici ordinari di merito, o dei giudici amministrativi, che statuiscano sulla sola giurisdizione non sono idonee ad acquistare autorità di cosa giudicata in senso sostanziale ed a spiegare, perciò, effetti al di fuori del processo nel quale siano state rese.

Diversamente, si ricorda, è previsto per quelle delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, cui, per la funzione istituzionale di organo regolatore della giurisdizione, spetta il potere di adottare decisioni dotate di efficacia esterna (c.d. efficacia panprocessuale).

Di interesse anche Sez. U, n. 27324/2021, Rubino, Rv. 662371-01, secondo cui l’eccesso di potere giurisdizionale denunciabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, non si configura ove venga dedotto l’eventuale difetto del contraddittorio nel procedimento di verificazione svolto nel giudizio amministrativo.

In tale procedimento, come è noto, il principio del contraddittorio si realizza con la possibilità delle parti di prendere posizione sulla relazione di verificazione, mediante il deposito di apposita memoria difensiva nei termini di legge. Ad avviso della S.C. il difetto del contraddittorio durante le operazioni di verificazione non si traduce nella violazione di una norma prescrittiva di forme processuali, né integra una fattispecie di nullità.

Per quanto riguarda i limiti esterni e il diritto sovranazionale, costituisce motivo di ricorso attinente alla giurisdizione, secondo Sez. U, n. 21641/2021, Conti, Rv. 662226-01 quello con il quale si denunci che il Consiglio di Stato abbia esercitato competenze allo stesso non riservate e spettanti, in via esclusiva, alla Corte di Giustizia perché concernenti il sindacato sulla validità degli atti dell’UE.

La pronuncia è intervenuta anche in tema di rinvio pregiudiziale (Sez. U, n. 21641/2021, Conti, Rv. 662226-02) chiarendo che non è sindacabile sotto il profilo della violazione del limite esterno della giurisdizione la decisione con la quale il Consiglio di Stato abbia motivatamente escluso la necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, atteso che tale decisione non incide sulla competenza della medesima Corte di Giustizia in tema di accertamento della validità degli atti dell’UE.

In linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la S.C. ha, dunque, riconosciuto ai giudici nazionali la facoltà di respingere i motivi di invalidità dedotti innanzi ad essi contro un atto di un’istituzione europea, spettando, viceversa, esclusivamente alla Corte di Giustizia dichiarare l’invalidità di quest’ultimo.

2.1. I giudizi di ottemperanza.

Sull’individuazione della linea di confine tra i limiti esterni della giurisdizione che trovano tutela con il ricorso ex art. 111, ultimo comma, Cost. e i limiti interni in tema di giudizi di ottemperanza, Sez. U, n. 21762/2021, Valitutti, Rv. 661860-01, ha affermato che il provvedimento con cui il giudice amministrativo, adito ai sensi dell’art. 112, comma 5, c.p.a., chiarisce che il modo con cui il potere-dovere di ottemperanza dell’amministrazione deve essere esercitato, cd. "modalità di ottemperanza", non è sindacabile in cassazione per violazione dei limiti esterni della giurisdizione. Il giudizio in tal modo instaurato, infatti, non è neppure riconducibile al novero delle azioni di ottemperanza, trattandosi di un ricorso che ha natura giuridica diversa tanto dall’azione finalizzata all’attuazione del comando giudiziale (art. 112, comma 2), quanto dall’azione esecutiva in senso stretto (art. 112, comma 3), presupponendo invece dubbi o incertezze sull’esatta portata del comando giuridico, ma che non intende, comunque, integrare il “decisum” così da attivare un potere conformativo che la norma stessa riconosce, invece, al giudice amministrativo.

Sulla stessa linea, Sez. U, n. 25165/2021, Terrusi, Rv. 662250-01, confermando l’indirizzo già espresso da Sez. U, n. 16016/2018, Lombardo, Rv. 649292–01, ha ribadito il principio ora esposto. La pronuncia ha chiarito che il sindacato delle Sezioni Unite, invece, sussiste, qualora venga in esame il fatto stesso della spettanza di siffatto potere. Ne consegue che l’ottemperanza richiesta denunciando comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso comporta che afferiscano ai menzionati limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo nell’individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della successiva attività dell’amministrazione e nella valutazione di non conformità.

2.3. Lo sconfinamento nel potere legislativo.

Sul diverso versante dell’ipotetico sconfinamento nel potere legislativo, Sez. U,n. 19244/2021, Scarpa, Rv. 661657-01, ha chiarito che, in tema di sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete. La S.C. ha chiarito che l’ipotesi non ricorre quando il Consiglio di Stato, attenendosi al compito interpretativo che gli è proprio, abbia individuato una "lacuna legis", nonché la disciplina applicabile per il suo riempimento, in quanto tale operazione ermeneutica può dar luogo, tutt’al più, ad un "error in iudicando" e non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale.

3. Le domande di accertamento dei diritti, di pagamento di somme.

Costituisce ormai un principio generale e consolidato quello per cui, ove la controversia coinvolga la P.A. quando espleta la propria attività alla stregua di un privato, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario e quest’anno la S.C. lo ha ribadito in diversi settori. Così, Sez. U, n. 26921/2021, Lamorgese, Rv. 662370-01, ha affermato che spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione sulla controversia relativa al mancato adempimento da parte di una amministrazione pubblica delle prestazioni pecuniarie connesse all’esecuzione di obbligazioni assunte con privati, laddove non venga dedotto alcun esercizio di poteri amministrativi collegato ad accordi tra pubbliche amministrazioni e non si contesti la validità del predetto accordo contrattuale, a nulla rilevando, ai fini del riparto, la natura pubblica dell’ente contraente.

Sulla base di un analogo ordine di ragioni, secondo Sez. U, n. 11292/2021, Rubino, Rv. 661207-01 sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in ipotesi di fallimento di un’impresa esercente un’attività di farmacia privata. Si è ritenuto, infatti, che l’abilitazione amministrativa all’esercizio dell’attività farmaceutica non interferisce con il saliente profilo dell’esercizio dell’attività imprenditoriale.

Molto interessante anche Sez. U, n. 21971/2021, Nazzicone, Rv. 661865-01, in tema di procedure di finanza a progetto, c.d. "project financing", secondo cui compete alla giurisdizione ordinaria la controversia relativa alla fase successiva all’aggiudicazione, che abbia come “petitum” l’inadempimento agli obblighi contrattuali derivanti da una convenzione, stipulata tra le parti. La controversia, in tale caso, non ha riguardo alla fase pubblicistica di scelta del promotore, conclusasi con la concessione, ma involge questioni relative alla delimitazione del contenuto del rapporto e all’adempimento delle relative obbligazioni, le quali si mantengono nell’ambito di un rapporto paritario.

La pronuncia ribadisce, dunque, il consolidato orientamento, secondo cui sono devolute al giudice amministrativo tutte le controversie relative alla fase preliminare, prodromica al contratto, inerenti alla formazione della volontà e alla scelta del privato sulla base delle regole della cd. evidenza pubblica; viceversa, appartengono al giudice ordinario quelle riguardanti la stipulazione del contratto e le vicende relative al suo adempimento (da ultimo nello stesso senso Sez. U, n. 02144/2018, Giusti, Rv. 647037–02).

Sez. U, n. 09005/2021, Cosentino, Rv. 660917-01, in tema di appalti pubblici ha delineato i criteri di riparto di giurisdizione nelle controversie aventi ad oggetto l’escussione di una polizza fideiussoria a cui una stazione appaltante abbia proceduto a seguito dell’esclusione di un concorrente dalla gara.

Utilizzando i principi sopra esposti, la pronuncia ha affermato che il giudizio è devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario ove si discuta esclusivamente dei diritti derivanti dalla polizza, con riguardo, ad es. all’ammontare delle somme dovute, ai tempi e alle modalità del relativo pagamento e all’individuazione dei soggetti obbligati; è devoluta, invece, alla giurisdizione del giudice amministrativo ove si discuta della sussistenza dei presupposti di esclusione del concorrente dalla gara, in relazione ai quali la P.A. esercita un potere pubblicistico.

Con riferimento all’appalto di servizi, sulla base dell’utilizzo dei criteri di riparto ora esposti, Sez. U, n. 30580/2021, Nazzicone, Rv. 662649-01, ha affermato che è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia, promossa vigente il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 nella formulazione anteriore al d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, avente ad oggetto la domanda di condanna della pubblica amministrazione al pagamento delle prestazioni rese in esecuzione di un contratto di appalto stipulato in forza di aggiudicazione poi annullata d’ufficio, vertendo la lite sul diritto soggettivo all’adempimento del contratto e non già sulla legittimità dell’esercizio del potere autoritativo della pubblica amministrazione.

Sez. U, n. 35952/2021, Rubino, Rv. 663242-01 ha ribadito quanto di recente affermato, secondo cui nelle controversie relative alla clausola di revisione del prezzo negli appalti di opere e servizi pubblici, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in conformità alla previsione di cui all’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2), del d.lgs. 104 del 2010, sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo alla P.A. committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, mentre, nella contraria ipotesi in cui la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, come tale ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria (nello stesso senso l’anno scorso Sez. U, n. 21990/2020, Graziosi, Rv. 659039–01.

Sul fronte relativo al giudizio di accertamento circa la regolarità contributiva, intrapreso per il mancato rilascio del cd. DURC, Sez. L, n. 05825/2021, Cavallaro, Rv. 660625-01, ne ha riconosciuto la devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario.

Dall’esame della normativa di riferimento, la S.C. ha concluso che tale giudizio non presenta affatto margini di discrezionalità, essendo l’Inps tenuto, ai fini del rilascio, ad esercitare un’attività vincolata, di carattere meramente ricognitivo.

È, tuttavia, precluso emanare una pronuncia di condanna dell’ente previdenziale alla consegna dello stesso, sia pure in presenza di una richiesta in tal senso del privato, stante il divieto posto dall’art. 4 della l. n. 2248 del 1865, all. E.

Di rilievo è altresì l’arresto di Sez. U, n. 16082/2021, Marulli, Rv. 661537-01, secondo cui appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda, proposta da una società d’intermediazione di prodotti ortofrutticoli nei confronti della società preposta alla gestione del mercato ortofrutticolo di Fondi, volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità dell’istanza di consultazione inoltrata alla Banca Dati Nazionale Antimafia e della comunicazione della propria esclusione dal mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Fondi, nonché l’accertamento del diritto ad accedere al mercato e a svolgervi la propria attività, con rilascio della relativa autorizzazione.

La pronuncia, in tal caso, ha utilizzato una pluralità di criteri di riparto, tra quelli finora esaminati. In particolare, ha osservato che, da un lato, sussiste la giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a., che concerne le controversie in materia di concessioni di pubblici servizi, in quanto la società convenuta, preposta alla gestione del mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Fondi, qualificato, dalla l.r. Lazio 7 dicembre 1984, n. 74, come centro agroalimentare di interesse nazionale, è affidataria del corrispondente pubblico servizio, svolto su concessione della Regione Lazio; dall’altro lato, ha rilevato che gli atti di cui la parte attrice ha invocato la rimozione, in vista dell’accertamento del suo diritto di accesso al mercato, sono espressione di un potere autoritativo promanante direttamente dall’ente concedente del quale il soggetto gestore è stato investito per la realizzazione degli interessi pubblici legati al servizio pubblico oggetto della concessione.

4. Le sovvenzioni, i finanziamenti, gli incentivi e le agevolazioni.

Occorre brevemente ricordare che il paradigma consolidato seguito dalla S.C. (v. Sez. U, n. 03166/2019, Giusti, Rv. 652495–01, Sez. U, n. 18241/2018, Giusti, Rv. 649626–01) per l’individuazione della situazione giuridica soggettiva in capo a colui che aspiri a finanziamenti o sovvenzioni da parte della p.a., scorre sulle seguenti direttrici. Quando la norma di previsione affidi all’amministrazione un apprezzamento discrezionale circa l’erogazione del contributo, la parte istante è titolare di un interesse legittimo, il quale conserva tale natura per l’intero “iter” procedimentale e, in quanto tale, sarà tutelabile innanzi al giudice amministrativo. Una volta emanato il provvedimento, sorge in capo all’istante un diritto soggettivo alla concreta erogazione, che trova tutela innanzi al giudice ordinario, ove l’inadempimento sia dovuto ad un mero comportamento omissivo o in quanto l’amministrazione intenda fare valere la decadenza dal beneficio a causa della mancanza, da parte del beneficiario, di obblighi al cui adempimento la legge o il provvedimento subordinano l’erogazione o la sua permanenza.

Ove, invece, la mancata erogazione del finanziamento dipenda dall’esercizio di poteri di autotutela dell’amministrazione, la quale intenda annullare il provvedimento stesso per vizi di legittimità o revocarlo per contrasto originario con l’ordine pubblico si è in presenza di un interesse legittimo la cui tutela spetta al giudice amministrativo. (v. anche Sez. U, n. 16457/2020, Scoditti, Rv. 658338–01).

Le pronunce in materia intervenute quest’anno sul riparto di giurisdizione costituiscono una conferma e un’evoluzione dei principi ora richiamati. Così per Sez. 1, n. 23657/2021, Pazzi, Rv. 662339-01, in tema di revoca di sovvenzioni pubbliche, il giudizio avente ad oggetto l’accertamento del diritto del privato ad ottenere gli importi dovuti, ma in concreto non erogati, ovvero a conservare gli importi già riscossi appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e riguarderà la sussistenza o meno del diritto del beneficiario ad ottenere o trattenere il finanziamento, senza limitarsi alla verifica degli aspetti già presi in esame dal provvedimento amministrativo. In tale ipotesi, infatti, la giurisdizione viene attribuita al giudice ordinario in ragione della tutela del diritto soggettivo fatto valere. Il principio è stato enunciato in una fattispecie, relativa alla revoca delle agevolazioni previste dalla l.r. Friuli-Venezia Giulia 26 agosto 1996, n. 36, nella quale la società attrice aveva domandato l’accertamento della permanenza dei requisiti per godere delle agevolazioni, mentre la Regione la condanna del beneficiario alla restituzione del finanziamento revocato.

Sulla base degli stessi principi, ma in materia di incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, secondo Sez. U, n. 15572/2021, Rubino, Rv. 661407-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia tra il gestore del servizio energetico e il soggetto privato produttore di energia, qualora la materia del contendere non riguardi le tariffe, il criterio di loro quantificazione o la concessione degli incentivi, ma soltanto l’inadempimento contrattuale riguardante il corrispettivo, meramente privatistico, dovuto sulla base della convenzione conclusa ovvero la condanna del gestore al pagamento dei crediti maturati dal titolare dell’impianto fotovoltaico.

L’applicazione del criterio da ultimo esposto è stata, viceversa, esclusa da Sez. U,n. 19423/2021, Crucitti, Rv. 661849-01, secondo cui le controversie scaturenti dall’opposizione al provvedimento di revoca delle agevolazioni previste dall’art. 1, commi 341 e 341 bis, della l. n. 296 del 2006, in favore delle imprese operanti nelle Zone Franche Urbane (Z.F.U.), sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

La natura di tali agevolazioni, che costituiscono una forma di finanziamento pubblico realizzato, non solo, attraverso l’esenzione fiscale, ma anche mediante l’esonero di versamenti contributivi, determina una posizione di interesse legittimo, sia in capo al mero aspirante nella fase procedimentale che precede il provvedimento di attribuzione da cui sorge il diritto soggettivo alla concreta erogazione del beneficio, sia in capo al destinatario delle agevolazioni che, dopo avere ottenuto il predetto provvedimento, si veda revocare il beneficio a causa dell’esercizio dei poteri di autotutela dell’amministrazione, la quale abbia proceduto all’annullamento del provvedimento stesso.

Sul tema generale, accennato in premessa, relativo al progressivo mutamento delle situazioni giuridiche soggettive, determinato dal sempre più frequente operare della P.A. attraverso strumenti di carattere negoziale, si è cimentato l’arresto di Sez. U, n. 21650/2021, Conti, Rv. 661857-01, secondo cui, ai sensi dell’art. 11, comma 5, della l. 7 agosto 1990, n. 241, oggi trasfuso nell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del c.p.a. (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), spetta al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative ad un accordo sostitutivo o integrativo di un provvedimento amministrativo all’interno del quale la P.A., esercitando potestà pubblicistiche, individui le modalità e le condizioni necessarie per la concessione ed erogazione di un finanziamento. La S.C., nella fattispecie, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo in una controversia relativa all’efficacia e la portata di un Protocollo d’intesa, concernente l’attuazione di un programma di riqualificazione urbana per alloggi a canone sostenibile, che prevedeva la stipula di accordi, intese o convenzioni volte a determinare le modalità di attuazione del programma e di erogazione dei finanziamenti pubblici.

La pronuncia chiarisce che il richiamato Protocollo d’intesa deve essere inquadrato negli accordi regolati dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990, attratti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il quale, ai sensi dell’art. 133 citato, è competente sulle controversie “in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi tra le pubbliche amministrazioni”.

L’arresto costituisce, appunto, l’espressione del lavoro di cucitura effettuato dalla S.C. in un’ipotesi in cui la finalità pubblicistica viene raggiunta attraverso un complesso intreccio tra attività amministrative e altre di connotazione privatistica. Laddove, pertanto, il finanziamento si innesti all’interno di un accordo sostitutivo o integrativo di un provvedimento in cui la p.a., esercitando funzioni pubblicistiche, individui le modalità di erogazione o di concessione dei finanziamenti, la giurisdizione è del giudice amministrativo.

Con Sez. U, n. 13492/2021, Giusti, Rv. 661285-01, è stata colta l’occasione per confermare l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, su un pilastro utilizzato per la ripartizione della competenza, secondo cui la giurisdizione deve essere determinata sulla base della domanda, avendo riguardo al “petitum” sostanziale, da individuare in funzione della “causa petendi”, in particolare in relazione all’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio sulla base dei fatti allegati e al rapporto giuridico di cui sono espressione (sul punto vedi Sez. U, n. 20350/2018, Di Virgilio, Rv. 650270–01, Sez. U, n. 25578/2020, Giusti, Rv. 659460–01).

Il citato arresto del 2021 ha, così, affermato che, ai fini del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, nella controversia promossa per impugnare la comunicazione di riavvio del provvedimento di revoca di un finanziamento pubblico, ove la parte abbia inteso far valere la tutela della propria situazione soggettiva diretta a trattenere il contributo percepito, occorre considerare, in base al criterio del "petitum" sostanziale, l’atto finale di revoca del contributo, che ha determinato il definitivo pregiudizio per la posizione giuridica vantata dall’interessato. Esso costituisce, infatti, l’oggetto principale della domanda di annullamento, e non già il mero atto endoprocedimentale, la cui richiesta di annullamento risulta meramente strumentale.

Ha espresso il medesimo principio, ma nel diverso tema dell’attività sanitaria esercitata in regime di cd. accreditamento, Sez. 1, n. 00372/2021, Marulli, Rv. 660358-01, secondo cui la domanda di condanna dell’azienda sanitaria pubblica al pagamento del corrispettivo per le prestazioni eccedenti il limite di spesa, proposta dalla società accreditata, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di controversia il cui "petitum" sostanziale investe unicamente la verifica dell’esatto adempimento di una obbligazione correlata ad una pretesa del privato riconducibile nell’alveo dei diritti soggettivi, senza coinvolgere il controllo di legittimità dell’azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio. Tale conclusione non viene meno qualora l’azienda sanitaria eccepisca il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sul presupposto che la pretesa creditoria è stata comunque incisa dalle deliberazioni autoritative adottate dall’ente pubblico. È, tuttavia, fatta salva l’ipotesi in cui le conseguenti repliche del creditore vadano a concretizzare una richiesta di accertamento con efficacia di giudicato circa l’illegittimità del provvedimento posto a fondamento dell’eccezione sollevata dall’azienda sanitaria, perché in tale ipotesi il "petitum" sostanziale investe anche l’esercizio del potere autoritativo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.

La pronuncia realizza un passo importante e ulteriore nella delineazione del concetto di “petitum” sostanziale, allargando esplicitamente il campo di indagine del giudice anche alle repliche della controparte.

5. Le vicende legate al patrimonio immobiliare.

Gli interventi della S.C. sul tema hanno riguardato prevalentemente l’edilizia residenziale pubblica, ma non sono mancati importanti interventi anche su altri contigui settori di rilievo.

In materia l’individuazione dei criteri di riparto è stata chiaramente fissata da Sez. U,n. 05423/2021, Carrato, Rv. 660792-01 che, in una controversia avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo dovuto dal privato per il trasferimento del diritto di proprietà e la cessione del diritto di superficie, nell’ambito di una convenzione stipulata ai sensi della normativa che regola le espropriazioni e la successiva assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (già contenuta nell’art. 10 della l. 18 aprile 1962, n. 167, poi sostituito dall’art. 35, della l. 22 ottobre 1971 n. 865), ha stabilito che appartiene alla giurisdizione amministrativa esclusiva (ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 104 del 2010) solo ove sia messa in discussione la legittimità delle manifestazioni autoritative di volontà della P.A. nell’adozione del provvedimento concessorio cui la convenzione accede, della quale sia contestato "ex ante" il contenuto con riguardo anche alla determinazione del corrispettivo dovuto dal concessionario.

Nella diversa ipotesi in cui siano messe in discussione, "ex post", la misura del corrispettivo, relativamente alle pattuizioni ivi contenute, o l’effettività dell’obbligazione di pagamento, la controversia è devoluta alla giurisdizione ordinaria, rientrando nella clausola di deroga di cui all’art. 133, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 104 del 2010, la quale esclude dalle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a concessioni di beni pubblici devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quelle "concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi".

Le controversie promosse dall’ente concedente per il recupero degli oneri sottesi alla cessione del diritto di superficie nei confronti dei soggetti attuatori dei programmi di edilizia residenziale pubblica ex art. 35 l. n. 865 del 1971, ove non comportanti la spendita di poteri pubblicistici, ma volte esclusivamente al reclamo di oneri patrimoniali, appartengono, per Sez. U, n. 16083/2021, Marulli, Rv. 661538-01, alla giurisdizione del giudice ordinario.

Qualora, poi, la controversia abbia ad oggetto la revoca dell’assegnazione di alloggio per avere il nucleo familiare dell’assegnatario superato i limiti reddituali (nella specie si trattava delle previsioni della l.r. Campania 2 luglio 1997 n. 18), secondo Sez. U, n. 04366/2021, Scarano, Rv. 660425-01, a seguito della sentenza n. 204 del 2004 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, come sostituito dall’art. 7, lett. a, della l. 21 luglio 2000 n. 205, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario. La posizione dell’assegnatario stesso, rispetto al citato provvedimento di revoca è di diritto soggettivo, riguardando il provvedimento un aspetto dello svolgimento del rapporto nel quale la P.A. non è chiamata ad effettuare valutazioni di carattere discrezionale, bensì solo a verificare la ricorrenza di una causa sopravvenuta di decadenza dall’assegnazione.

In materia di revoca dell’assegnazione dell’alloggio, da tempo la S.C. (Sez. U, n. 29095/2011, Salvago, Rv. 620144–01) analogamente a quanto sopra visto per le sovvenzioni ed i finanziamenti, prescrive la necessità di distinguere la prima fase, antecedente all’assegnazione dell’alloggio, di natura pubblicistica, in cui l’assegnatario vanta un interesse legittimo, da quella successiva, di natura privatistica, nella quale la posizione dell’assegnatario assume natura di diritto soggettivo.

Rientrano, pertanto, nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie attinenti a pretesi vizi di legittimità dei provvedimenti emessi nella prima fase, fino all’assegnazione, mentre sono riconducibili alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie in cui siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o di risoluzione del rapporto.

Facendo leva sugli stessi principi, Sez. 1, n. 01466/2021, Di Marzio M., Rv. 660380-01, ha affermato che l’assegnatario di alloggio con patto di futura vendita, quando sussistono le condizioni previste dal patto stesso, vanta un diritto soggettivo al trasferimento in suo favore della proprietà sull’alloggio, ancorché l’istituto concedente opponga una causa di revoca dell’assegnazione. L’assegnatario, pertanto, può proporre innanzi al giudice ordinario, cui è stata sottoposta la verifica della causa di decadenza dall’assegnazione, la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto.

Nell’ambito, poi, del giudizio di opposizione ad un decreto di rilascio di un immobile occupato senza titolo, secondo Sez. U, n. 00621/2021, Giusti, Rv. 660144-01, ove venga dedotto dall’occupante il diritto al subentro nell’assegnazione dell’alloggio, al fine di paralizzare l’intimazione di rilascio, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario.

Partendo dal presupposto secondo cui l’assegnazione dell’alloggio segna il momento a partire dal quale l’operare della P.A. si sviluppa nell’ambito di un rapporto paritetico e sulla base della regola che, per il riparto della giurisdizione, occorre avere riguardo al “petitum” sostanziale, la pronuncia ha rilevato che in tale ipotesi viene contestato il diritto di agire esecutivamente. L’ordine di rilascio, inoltre, si viene a configurare come un atto imposto dalla legge e non come esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione, la cui concreta applicazione richieda, di volta in volta, una valutazione del pubblico interesse.

Sotto il diverso profilo della diffida al rilascio e dell’ordine di sgombero di un immobile occupato senza titolo, in linea con quanto a suo tempo sancito da Sez. U, n. 14956/2011, Rodorf, Rv. 618432–01, è intervenuta Sez. U, n. 15013/2021, Carrato, Rv. 661386-01, secondo cui la controversia introdotta da chi domandi l’accertamento del diritto a continuare a detenere un immobile in forza di una pregressa convenzione tra un ente pubblico e una cooperativa edilizia, opponendosi ad un provvedimento della P.A. di rilascio dell’immobile ad uso abitativo asseritamente occupato senza titolo, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, avendo ad oggetto un diritto soggettivo e risultando contestato il diritto di agire esecutivamente della stessa P.A.

Ad avviso della S.C., in tale ipotesi, resta del tutto irrilevante la circostanza che venga altresì dedotta l’illegittimità di provvedimenti amministrativi, nella specie, l’ordine di sgombero, dei quali sia meramente richiesta la disapplicazione da parte del giudice ordinario. Egli è, infatti, chiamato a statuire sull’esistenza delle condizioni richieste dalla legge per la permanenza del rapporto da cui dipende la prosecuzione della detenzione qualificata del bene in capo all’attore e, conseguentemente, l’inesigibilità del suo rilascio disposto dall’ente pubblico.

In materia urbanistica ed edilizia Sez. U, n. 12429/2021, Scoditti, Rv. 661306-01 ha riaffermato che l’opposizione ad ordinanza ingiunzione di pagamento per violazione della relativa normativa, a seguito dell’emanazione del d.lgs. 1° settembre 2001 n. 150, che ha abrogato l’art. 22 bis della l. 4 novembre 1981 n. 689 e modificato l’art. 22 della stessa legge, appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come previsto espressamente dall’art. 133, comma 1, lett. f, del codice del processo amministrativo. Nella specie si trattava di una controversia avente ad oggetto la conformità a diritto del “quantum” della sanzione pecuniaria adottata in sostituzione di quella del ripristino dello stato dei luoghi. Secondo la S.C., in tale ipotesi la sanzione pecuniaria non può essere considerata isolatamente alla stregua della sanzione pecuniaria suscettibile di opposizione ad ordinanza ingiunzione, in base agli artt. 22 della l. n. 689 del 1981 e 6 del d.lgs. n. 150 del 2001, ma va collocata nella materia sostanziale di appartenenza. L’abrogazione dell’art. 22 bis sopra citato comporta, dunque, l’applicazione dell’art. 133, comma 1, lett. f, del codice del processo amministrativo. Benché la controversia inerisca a diritti soggettivi, in quanto attinente al diritto a non subire una prestazione patrimoniale non prevista dalla legge, la S.C. ha chiarito che acquisisce prevalente rilevanza la circostanza che si tratta di un rapporto giuridico di diritto comune legato da un nesso di pregiudizialità dipendenza al rapporto amministrativo avente ad oggetto l’uso del territorio. In tale ipotesi, infatti, l’irrogazione della sanzione pecuniaria presuppone l’esercizio del potere amministrativo di rimozione ovvero demolizione dell’opera di ristrutturazione edilizia realizzata in assenza di permesso o in totale difformità da esso. Pregiudiziale, dunque, rispetto all’irrogazione della sanzione è l’esercizio della potestà relativa all’uso del territorio. L’inerenza della controversia al solo profilo del “quantum” della sanzione pecuniaria non esclude la pregiudizialità dipendenza con il rapporto amministrativo.

La precisazione contenuta nel principio enunciato è molto importante, in quanto nella vigenza dell’art. 22 bis sopra citato, era consolidato, infatti, l’indirizzo di legittimità secondo cui l’opposizione ad ordinanza ingiunzione di pagamento per violazione della normativa urbanistica ed edilizia non generava una controversia nascente da atti e provvedimenti della P.A. relativi alla gestione del territorio, ma rappresentava, piuttosto, l’esercizio di una posizione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo, ad opera di chi deduceva di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge (v. Sez. U, n. 22426/2018, Scrima, Rv. 650456–01, nella specie si trattava di un muro in assenza di titolo abilitativo e prima ancora in tema di cave Sez. U, n. 11388/2016, Giusti, Rv. 639955–01).

In diverso settore, ma restando in materia di diritti relativi al patrimonio immobiliare è di sicuro interesse anche l’arresto di Sez. 1, n. 02738/2021, Lamorgese, Rv. 660385-01, secondo cui, al fine di valutare la compromettibilità in arbitrato di una controversia derivante dall’esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, occorre valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere a tale strumento di risoluzione delle controversie solo se abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell’art. 12 c.p.a., e non invece la consistenza di interesse legittimo.

La S.C. nella specie ha ravvisato la consistenza dell’interesse legittimo nella posizione vantata dal privato che aveva inteso reagire, anche a fini risarcitori, avverso scelte discrezionali dell’Amministrazione che avevano reso inattuabile l’accordo di realizzazione di un complesso programma lottizzatorio.

Nel settore del demanio, Sez. 1, n. 14048/2021, Parise, Rv. 661493-01, è intervenuta affermando che il procedimento di delimitazione del demanio marittimo, previsto nell’art. 32 c.nav., tendendo a rendere evidente la demarcazione tra il demanio e le proprietà private finitime, si presenta quale proiezione specifica dell"actio finium regundorum" di cui all’art. 950 c.c., concludendosi con un atto di delimitazione, tra i confini del demanio marittimo e le proprietà private, che ha funzione di mero accertamento. Ne consegue che, essendo escluso il potere discrezionale della P.A., la contestazione delle risultanze del verbale di delimitazione deve avvenire dinanzi al giudice ordinario, il quale potrà disapplicare l’atto amministrativo se ed in quanto illegittimo.

Nella materia di beni gravati da usi civici e successivamente passati allo stato di terra appartenente al demanio civico e, poi ancora, in terra allodiale, Sez. U, n. 00617/2021, Cosentino, Rv. 660143-01, ha chiarito che la domanda finalizzata a contestare, non solo, l’importo del livello e, quindi, del capitale di affrancazione di un terreno determinato dal comune, ma anche la stessa legittimità dell’unilaterale riapertura, in sede di autotutela, della procedura di determinazione del capitale di affrancazione già chiusa in precedenza, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo. La determinazione della misura del canone, al pari di quella delle altre condizioni richieste per l’approvazione della concessione di legittimazione, e la conseguente trasformazione in allodio del bene gravato dall’uso civico, appartiene alla valutazione autonoma dell’autorità pubblica, rispetto alla quale il privato vanta una posizione di mero interesse legittimo, anche in ordine all’esercizio del potere di autotutela decisoria.

6. I rifiuti.

La materia dei rifiuti ha, quest’anno, interessato la S.C., sotto diversi profili che, per comodità, si intendono illustrare unitamente. Sez. U, n. 20824/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662032-01, pur riconoscendo la giurisdizione esclusiva amministrativa, già in virtù dell’art. 33, comma 2, lett. e, del d.lgs. 31 marzo 1988, n. 80, come modificato dalla l. 21 luglio 2000, n. 205, ed oggi dell’art. 133, comma 1, lett. p), dell’allegato 1, del d.lgs. 2 luglio 2010,n. 104, ha affermato che appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda del privato che si dolga delle concrete modalità di esercizio del relativo ciclo produttivo, assumendone la pericolosità per la salute o altri diritti fondamentali della persona e chiedendo l’adozione delle misure necessarie per eliminare i danni attuali e potenziali e le immissioni intollerabili. L’erosione della giurisdizione esclusiva in favore di quella ordinaria trova la sua ragione, per la S.C., nella circostanza che la condotta contestata integra la materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa, quando non siano dettate particolari regole esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti amministrativi, sicché non risulta in alcun modo coinvolto il pubblico potere.

Sono stati, poi, utilizzati gli ordinari criteri di riparto da Sez. U, n. 20692/2021, Scoditti, Rv. 661867-01, secondo cui è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia fra il gestore di impianto di smaltimento ed il comune per il pagamento della quota dei proventi corrispondente ai cd. oneri di mitigazione ambientale, atteso che il rapporto di debito-credito dedotto in giudizio non involge elementi riconducibili ad un rapporto pregiudicante nel quale la P.A. creditrice intervenga con poteri autoritativi, essendo rimessa all’autorità regionale la predeterminazione dei proventi da riversare ai comuni. In tale ipotesi, infatti, non si verte nella giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. p), dell’allegato 1, del d.lgs., n. 104 del 2010.

Nella delimitazione del confine con la giurisdizione tributaria è intervenuta Sez. U, n. 11290/2021, Napolitano L., Rv. 661081-01, secondo cui la tariffa c.d. puntuale (o corrispettivo) sui rifiuti, di cui all’art. 1, comma 668, della l. 27 dicembre 2013, n. 147, prevista, quale alternativa alla TARI, per i comuni che abbiano realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico, ha natura privatistica; le relative controversie sono, pertanto, devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. Nella specie, il Comune aveva esercitato l’opzione alternativa mediante l’approvazione di un regolamento che ragguagliava la tariffa corrispettivo alla quantità di rifiuto indifferenziato prodotto, oggetto di specifica misurazione.

Spetta, poi, secondo Sez. U, n. 05418/2021, Crucitti, Rv. 660791-01 al giudice ordinario, e non a quello tributario, la giurisdizione sull’opposizione ad ordinanza ingiunzione per il pagamento del "benefit" ambientale, previsto dall’art. 29, comma 2, della l.r. Lazio 9 luglio 1998, n. 27 in favore dei Comuni che ricevono determinate categorie di rifiuti e ospitano determinati impianti per il loro trattamento e smaltimento. La pronuncia ha chiarito che tale beneficio economico non presenta i caratteri del tributo, ma assume la natura di indennizzo avente la funzione di ristorare il Comune ospitante dei danni ambientali derivanti dall’attività di smaltimento dei rifiuti. La natura tributaria di una prestazione si può, viceversa, affermare, quando determini una decurtazione patrimoniale non integrante modifica di un rapporto sinallagmatico e che sia collegata al finanziamento di pubbliche spese (v. par. 9.1 per altre pronunce sul principio da ultimo richiamato).

7. Le domande risarcitorie.

Il panorama degli interventi della S.C. sul fronte risarcitorio è molto frastagliato e questo non è un caso. Si tratta, infatti, di uno di quei territori in cui la giurisdizione amministrativa e quella civile sono chiamate sovente ad occuparsi delle stesse questioni. La delicatezza della materia, come ha evidenziato la più sensibile dottrina, risiede nella necessità di un raccordo per la salvaguardia della nomofilachia. Si ricorda, in proposito, il famoso “Memorandum delle tre giurisdizioni”, relativo ai rapporti tra i magistrati delle tre Corti superiori, siglato avanti al Presidente della Repubblica il 15 maggio 2017 e sottoscritto dai vertici della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, che ha dato vita ad un acceso dibattito tra gli studiosi.

Nel corso dell’anno in materia, in ogni caso, le soluzioni fornite sono del tutto coerenti con gli orientamenti di legittimità formatisi negli ultimi anni.

7.1. Annullamento in sede di autotutela.

Sez. U, n. 14324/2021, Falaschi, Rv. 661286-01, ha affermato che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni subiti da un privato, che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica, legittimamente annullato.

Nell’ipotesi, infatti, non si verte intorno alla lesione di un interesse legittimo pretensivo, bensì di diritto soggettivo, rappresentato dalla conservazione dell’integrità del patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla originaria legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato. La pronuncia è intervenuta in una fattispecie in cui la realizzazione di edifici, da destinare ad insediamenti produttivi, avrebbe dovuto essere eseguita dal privato sulla base di licenze edilizie revocate, in sede di autotutela, a seguito dell’approvazione di nuovo Piano Regolatore Generale.

7.2. Mancato rilascio di attestazione prospettato come atto dovuto.

Sulla stessa linea, Sez. U, n. 10105/2021, Stalla, Rv. 661085-01, ha chiarito che spetta al giudice ordinario la cognizione della vertenza promossa dal privato contro il comune per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dal mancato rilascio di un’attestazione circa l’ubicazione della propria azienda in una zona degradata, il cui ottenimento, prospettato come doveroso, avrebbe consentito al privato di conseguire le agevolazioni regionali previste per le piccole imprese commerciali.

Calcando sentieri ampiamente battuti, la sentenza ricorda che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo deve compiersi in base alla domanda, tenendo conto dell’intrinseca natura della posizione giuridica dedotta in giudizio, nella specie riconducibile ad una situazione di diritto soggettivo, quale è il diritto al rilascio della menzionata attestazione.

7.3. Danni derivati dalla predisposizione, presentazione o mancata modifica di un atto legislativo.

Molto delicata è l’area in cui è intervenuta Sez. U, n. 36373/2021, Terrusi, Rv. 662926-01, su una domanda di risarcimento proposta nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell’economia e dell’Agenzia delle entrate, per avere presentato e concorso all’approvazione, nonché per non avere provveduto alla successiva rimozione del trattamento fiscale di cui all’art. 1, comma 692, lett. d, della l. 17 dicembre 2019 n. 160 (Legge di Bilancio 2020), ritenuto costituzionalmente illegittimo perché discriminatorio ed in contrasto col diritto unionale della. L’arresto ha affermato che non configura un difetto assoluto di giurisdizione perché non riguarda controversie direttamente involgenti attribuzioni di altri poteri dello Stato o di altri ordinamenti autonomi, come tali neppure astrattamente suscettibili di dar luogo ad un intervento del giudice, ma l’esercizio di un diritto soggettivo mediante una comune azione risarcitoria ex art. 2043 c.c.

Utilizzando il consolidato criterio che fonda la ripartizione della giurisdizione sulla base del “petitum”, la pronuncia ha affermato, dunque, la giurisdizione del giudice ordinario, evidenziando come l’oggetto della domanda non era incentrato sul tributo e, quindi, non si rifletteva sull’espansione dell’ambito della giurisdizione tributaria. La parte attrice non aveva, infatti, posto in discussione l’attribuzione dell’atto alla potestà legislativa e neanche affermato la sindacabilità dell’atto legislativo, assunto come lesivo, da parte del giudice, limitandosi a dedurre che tale disciplina normativa, ove non disapplicata, avrebbe dovuto essere ritenuta costituzionalmente illegittima, in quanto discriminatoria o in contrasto con il diritto comunitario.

Si è, pertanto, affermato, che, laddove la postulazione riguardi i fondamenti di una pretesa risarcitoria, la lite per definizione sovviene alla materia dei diritti soggettivi e, dunque, non può essere escluso il diritto di azione, “anche se la lesione sia paventata come dipendente dall’esercizio asseritamente illegittimo di una potestà pubblica o dalla predisposizione, presentazione, o mancata modifica di un atto legislativo”. In una simile fattispecie, dunque, il giudice ordinario è chiamato a stabilire se l’evocata fattispecie integri o meno l’illecito civile denunciato.

7.4. Omesso esercizio del potere autoritativo discrezionale.

E’, invece, per Sez. U, n. 21768/2021, Valitutti, Rv. 661861-01, devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia introdotta dal privato al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente all’omesso esercizio, da parte della P.A., del potere autoritativo discrezionale, ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 104 del 2010, rispetto al quale la posizione soggettiva vantata dal privato è quella di interesse legittimo pretensivo.

In tal caso, infatti, non viene in considerazione l’incolpevole affidamento del privato su un provvedimento amministrativo ampliativo legittimamente annullato in sede di autotutela e neppure l’affidamento, circa l’emanazione di un provvedimento ampliativo, ingenerato da un comportamento della P.A. che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, in quanto la pretesa risarcitoria risulta fondata esclusivamente sull’omesso compimento dell’attività provvedimentale necessaria ad evitare l’insorgenza del dedotto pregiudizio. Non è inutile ricordare che, nella specie, la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine ad una controversia introdotta da una società consortile impegnata, sulla base di una convezione urbanistica, nella realizzazione e vendita di un comparto edilizio nel quadro del programma di riqualificazione di un’area comunale, al fine di ottenere dal comune, quale proprietario dell’impianto fognario, nonché dall’ente gestore del servizio pubblico idrico integrato, comprensivo della rete fognaria, il risarcimento del danno derivante dal mancato realizzo o dalla mancata riparazione del sistema fognario nell’area interessata dalle realizzazioni edilizie.

7.5. Condotta illecita della P.A. nella gestione e manutenzione dei propri beni o per l’occupazione di aree private per la realizzazione di opera pubblica.

Sotto il profilo del possibile contenuto della condanna risarcitoria della P.A., Sez. 6-3, n. 25843/2021, Scoditti, Rv. 662438-01, ha confermato un consolidato orientamento di legittimità (da ultimo v. Sez. U, n. 05926/2011, Segreto, Rv. 616670–01) nella materia della gestione e manutenzione dei beni che ad essa appartengono. La pronuncia ha ribadito che l’inosservanza da parte della P.A., delle regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato dinanzi al giudice ordinario, non solo, quando la domanda sia volta a conseguire la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, ma anche ove sia diretta ad ottenere la condanna della stessa ad un "facere". La condizione è che la domanda non debba investire scelte ed atti autoritativi dell’amministrazione, ma, comunque, riguardare attività soggette al rispetto del principio del "neminem laedere".

In proposito la S.C. ha osservato come non sia più di ostacolo il disposto dell’art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205 che devolve al giudice amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed edilizia. A seguito della sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, infatti, tale giurisdizione esclusiva non è più estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere autoritativo finalizzato al perseguimento di interessi pubblici alla cui tutela sia preposta.

Si pone sul solco di una giurisprudenza consolidata anche Sez. U, n. 21769/2021, Valitutti, Rv. 661862-01, secondo cui è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia introdotta dal concessionario di un’area pubblica comunale, adibita ad attività commerciale, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente all’attività di demolizione del manufatto ivi realizzato, compiuta senza preavviso dall’ente concedente. In tale ipotesi il "petitum" sostanziale consiste nell’accertamento della responsabilità derivante da un comportamento materiale della P.A., lesivo di una posizione di diritto soggettivo e resta irrilevante la titolarità in capo all’attore di una concessione su bene demaniale, la quale non viene in discussione nei suoi aspetti provvedimentali di rilievo pubblicistico, ma unicamente nelle sue concrete modalità esecutive, e pertanto costituisce solo la premessa della domanda risarcitoria proposta.

Nel diverso campo delle occupazioni pubbliche di aree private, secondo Sez. U, n. 05513/2021, Stalla, Rv. 660466-02, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni di aree private riconducibili, ancorché solo mediatamente, al concreto esercizio di un potere autoritativo, come nel caso di pregressa approvazione del progetto esecutivo dell’opera pubblica, quale atto di per sé esprimente la volontà della P.A. di acquisire, disporre e destinare l’area all’uso pubblico, a nulla rilevando l’eventuale intervenuto annullamento o sopravvenuta inefficacia del titolo legittimante l’occupazione.

Appartiene, viceversa, alla giurisdizione del giudice ordinario l’accertamento dell’intervenuta usucapione della proprietà del fondo occupato, oggetto della domanda riconvenzionale proposta dalla P.A., quale conseguenza, non già riconducibile al pregresso esercizio del potere autoritativo, bensì meramente occasionale, atteso che, tra quel potere e questo effetto intercorre, necessariamente, la "interversio possessionis", dalla detenzione qualificata al possesso, dell’occupante, ferma restando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla domanda, anche risarcitoria, relativa all’occupazione preordinata all’espropriazione (Sez. U, n. 05513/2021, Stalla, Rv. 660466-03).

7.6. Somministrazione di acqua non conforme ai livelli minimi di potabilità e qualità.

In materia si ricorda Sez. U, n. 32780/2018, De Stefano, Rv. 652097–01, la quale aveva affermato che l’azione risarcitoria proposta dall’utente nei confronti del gestore del servizio idrico integrato, qualora si controverta soltanto del risarcimento del danno cagionato all’utente dalla fornitura di acqua in violazione dei limiti ai contenuti di sostanze tossiche (nella specie, arsenico e floruri) imposti da disposizioni anche di rango eurounitario, ovvero del diritto alla riduzione del corrispettivo della fornitura stessa per i vizi del bene somministrato, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario. In tale ipotesi, infatti, l’attività di programmazione o di organizzazione del servizio complessivo di fornitura di acqua posta in essere dalla P.A. costituisce solo il presupposto del non esatto adempimento delle obbligazioni gravanti sul gestore in forza del rapporto individuale di utenza.

Resta nella giurisdizione del giudice ordinario, secondo, Sez. U, n. 36897/2021, Scrima, Rv. 662887-01, anche la cognizione sulla domanda di manleva proposta dal gestore del servizio idrico integrato nei confronti dell’ente territoriale concedente nell’ambito dell’azione risarcitoria proposta dall’utente con riferimento all’insufficiente livello di somministrazione di acqua potabile, atteso che la domanda di manleva qualifica una garanzia impropria che è il riflesso della domanda principale risarcitoria, con la quale condivide pertanto il radicamento nella giurisdizione ordinaria.

7.7. Danno derivante dalla lesione dell’affidamento nella correttezza dell’azione amministrativa.

Spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, secondo Sez. U, n. 00615/2021, Torrice, Rv. 660216-01, la controversia relativa alla pretesa risarcitoria dell’imprenditore, fondata sulla lesione dell’affidamento riposto nella condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede. La pronuncia, intervenuta nella materia di cassa integrazione guadagni, ordinaria e straordinaria, ha chiarito che in tale ipotesi la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione, inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. La giurisdizione del giudice ordinario è riconosciuta, non solo, nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.

7.8. Gare per l’affidamento di lavori o servizi pubblici.

Utilizzando il criterio legato al contenuto di quanto domandato, Sez. U, n. 17329/2021, Graziosi, Rv. 661540-02, ha riconosciuto al giudice ordinario la giurisdizione sulla controversia introdotta dalla P.A. che aveva indetto una gara per l’affidamento di lavori o servizi pubblici nei confronti del soggetto privato ad essa partecipante, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del convenuto all’obbligo di rinnovare la polizza fideiussoria da esso prestata ove sia venuta a scadenza prima dell’aggiudicazione della gara. Il "petitum" sostanziale, in tal caso, infatti, concerneva l’inadempimento di una obbligazione del privato, funzionale a preservare il diritto dell’ente pubblico appaltante all’escussione della garanzia, il cui fondamento risiede nel principio di buona fede sancito dall’art. 1337 c.c., dalla cui violazione scaturisce una responsabilità precontrattuale meramente occasionata dal procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi.

7.9. S.p.a. a partecipazione pubblica.

In applicazione del criterio di ripartizione della giurisdizione sulla base della natura dell’atto posto in essere dalla P.A., Sez. U, n. 21958/2021, Falaschi, Rv. 661863-01 ha affermato che spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo conoscere della controversia inerente alla legittimità della revoca di un’autorizzazione rilasciata da una società per azioni a partecipazione pubblica, posta a fondamento di una domanda di risarcimento del danno. Trattandosi di atti compiuti "iure imperii", espressione di un potere pubblicistico autoritativo, essi, infatti, sono immediatamente lesivi della posizione giuridica di interesse legittimo della società originariamente autorizzata.

8. Enti.

A conferma di un orientamento risalente di legittimità espresso da Sez. U, n. 26972/2009, Mazziotti Di Celso, Rv. 610744–01, Sez. U, n. 21770/2021, Valitutti, Rv. 661870-01, ha nuovamente affermato che è devoluta alla cognizione del giudice ordinario la controversia concernente l’esistenza dell’obbligo di un comune consorziato di contribuire alle spese sostenute dal consorzio. In tal caso, infatti, la questione, non è riconducibile ad un procedimento amministrativo, né riguarda l’estrinsecazione di poteri autoritativi, ma ha ad oggetto posizioni di diritto soggettivo derivanti dalle ragioni di credito fatte valere dal consorzio. Né essa rientra tra quelle concernenti la formazione, conclusione ed esecuzione di un accordo tra pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 15 della l. n. 241 del 1990, in relazione al quale sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 2 c.p.a.

Su un versante del tutto diverso, Sez. U, n. 10244/2021, Doronzo, Rv. 661047-01, ha chiarito che l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), pur titolare di compiti di natura tendenzialmente amministrativa, svolti su mandato e dietro finanziamento statale, oltre che attribuiti da norme di natura pubblicistica, in assenza di un’espressa previsione normativa che la qualifichi "ente pubblico", ai sensi dell’art. 4 della l. 20 , marzo 1975, n. 70, non può essere annoverata tra le pubbliche amministrazioni indicate nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Depongono per la natura di soggetto di diritto privato la forma giuridica prescelta, le previsioni statutarie, la libertà di adesione e recesso degli associati, la funzione di rappresentanza e tutela degli interessi dei comuni associati e di raccordo con il sistema centrale. Da tale premessa discende che la controversia relativa alla procedura di convocazione dell’assemblea e di nomina del coordinatore regionale di tale associazione, in mancanza di disposizioni contrarie, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, discutendosi della legittimità di atti non riconducibili all’esercizio di un pubblico potere.

9. I rapporti con altre giurisdizioni.

L’attività di perimetrazione delle S.U. si è, come di consueto, sviluppata nel corso dell’anno anche lungo i confini con altre giurisdizioni speciali.

9.1. La linea di confine con la giurisdizione tributaria.

Numerosi sono stati gli interventi chiarificatori quest’anno sulla linea di demarcazione tra la giurisdizione ordinaria e quella tributaria, molti dei quali su giudizi aventi ad oggetto cartelle esattoriali. Altri arresti, invece, hanno fornito indicazioni di carattere generale per individuare il discrimine tra le due giurisdizioni.

Occorre in tema ricordare che per Sez. U, n. 11293/2021, Rubino, Rv. 661128-01, con riferimento alle controversie aventi ad oggetto opposizioni proposte da un privato avverso l’esecuzione intrapresa da un soggetto pubblico con una intimazione di pagamento contenuta in una cartella esattoriale, al fine di individuare se la giurisdizione appartenga al giudice tributario o al giudice ordinario, non rileva lo strumento utilizzato per procedere alla riscossione, ma la natura del credito fatto valere, dovendosi in particolare verificare se quest’ultimo scaturisca da una pretesa impositiva della P.A. o se costituisca il semplice corrispettivo di una prestazione erogata da un soggetto pubblico in esecuzione di un rapporto privatistico.

In una diversa prospettiva, ma sempre allo stesso fine, Sez. U, n. 21642/2021, Conti, Rv. 662122-01 si è posta in linea di continuità con Sez. U, n. 07822/2020, Frasca, Rv. 657531–03, riaffermando che il discrimine tra giurisdizione tributaria e giurisdizione ordinaria va così individuato: alla giurisdizione tributaria spetta la cognizione sui fatti incidenti sulla pretesa tributaria, ivi inclusi i fatti costitutivi, modificativi od impeditivi di essa in senso sostanziale che si assumano verificati fino alla notificazione della cartella esattoriale o dell’intimazione di pagamento, se validamente avvenute, o fino al momento dell’atto esecutivo, in caso di notificazione omessa, inesistente o nulla degli atti prodromici; alla giurisdizione ordinaria, invece, spetta la cognizione sulle questioni di legittimità formale dell’atto esecutivo come tale, a prescindere dalla esistenza o dalla validità della notifica degli atti ad esso prodromici, nonché sui fatti incidenti in senso sostanziale sulla pretesa tributaria, successivi all’epoca della valida notifica della cartella esattoriale o dell’intimazione di pagamento o successivi, in ipotesi di omissione, inesistenza o nullità di detta notifica, all’atto esecutivo cha abbia assunto la funzione di mezzo di conoscenza della cartella o dell’intimazione. La S.C., nella specie, ha ritenuto la giurisdizione del giudice tributario in ordine alla prospettata questione di prescrizione della pretesa fiscale che si colloca a monte della notifica della cartella di pagamento.

Seguendo la medesima impostazione Sez. 6-1, n. 13767/2021, Mercolino, Rv. 661448-01, ha affermato che l’eccezione di prescrizione del credito tributario maturata successivamente alla notifica della cartella di pagamento, sollevata dal curatore in sede di ammissione al passivo fallimentare, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario e non già di quello tributario, segnando la notifica della cartella il consolidamento della pretesa fiscale e l’esaurimento del potere impositivo.

In tale quadro occorre segnalare un’importante precisazione di Sez. U, n. 20693/2021, Scoditti, Rv. 662224-01, secondo cui, spetta alla giurisdizione tributaria la cognizione sull’opposizione alla cartella di pagamento, promossa ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c., con la quale siano dedotti fatti relativi alla carenza della originaria pretesa tributaria o all’estinzione della stessa, nella specie, per intervenuta prescrizione, che si assumano verificati anteriormente alla notificazione della cartella.

La cognizione sulla controversia relativa al diniego di sospensione della riscossione di cartella esattoriale ai sensi dell’art. 1 della l. 11 ottobre 1995, n. 423, secondo Sez. U, n. 28640/2021, Manzon, Rv. 662469-01, spetta alla giurisdizione del giudice tributario, rientrando tale fattispecie nella giurisdizione generale tributaria prevista dal d.lgs. 31 dicembre del 1992, n. 546, rispetto alla quale è irrilevante tanto la disciplina dell’impugnabilità dell’atto quanto la natura discrezionale dell’atto impugnato.

La pronuncia si innesta armonicamente sull’orientamento giurisprudenziale, secondo cui la giurisdizione tributaria ha carattere generale e si radica in base alla materia, a prescindere dal tipo di atto impugnato e dalla natura discrezionale o meno dello stesso. L’art. 103 Cost. non prevede, infatti, una riserva assoluta di giurisdizione in favore del giudice amministrativo per la tutela degli interessi legittimi, anche se resta ferma la necessità da parte del giudice tributario in ordine alla riconducibilità dell’atto impugnato nelle categorie indicate dall’art. 19 del d.lgs., n. 546 del 1992 (in questo senso v. Sez. U, n. 07388/2007, Altieri, Rv. 596023–01, Sez. U, n. 03774/2014, Virgilio, Rv. 629555–01).

Non si può, viceversa, parlare di continuità per Sez. U, n. 21961/2021, Manzon, Rv. 661871-01, secondo cui i contributi per il funzionamento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, relativi alle spese di funzionamento dell’Autorità ex art. 2, comma 14, del d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261, come modificato dall’art. 1, comma, 2, del d.lgs. 31 marzo 2011, n. 58, applicabile "ratione temporis", hanno natura tributaria, trattandosi di prestazioni patrimoniali imposte dalla legge a favore dell’autorità indipendente, caratterizzate dal carattere coattivo in assenza di qualsiasi rapporto sinallagmatico con la beneficiaria, collegate ad una pubblica spesa, destinata allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente impositore, e riferite ad un presupposto economicamente rilevante, in quanto commisurate al volume di fatturato assunto ad indice della capacità contributiva. Da tale assunto, pertanto, consegue che la disposizione di cui all’art. 133, lett. I, c.p.a. va interpretata nel senso che la essa fissa la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per tutti i provvedimenti di AGCOM, ad eccezione di quelli che riguardano il contributo per il funzionamento dell’Ente, in ordine ai quali invece trova applicazione la previsione di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, quale norma di attribuzione al giudice tributario speciale della competenza giurisdizionale generale in materia di tributi.

Sulla questione, Sez. U, n. 19768/2016, Spirito, Rv. 641092–01 aveva, invece, affermato in tale ipotesi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La rivisitazione di tale orientamento trova la sua ragione in una nuova lettura dell’art. 23 Cost. e della nozione di “prestazioni patrimoniali imposte” alla luce della evoluzione della giurisprudenza di legittimità e costituzionale. Secondo il più recente orientamento di legittimità hanno natura di tributi le prestazioni che presentino i caratteri della coattività, della definitività della decurtazione economica, della non sinallagmaticità, della correlazione ad un indice di capacità contributiva e alle spese dell’ente impositore o comunque di un ente pubblico.

La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, individuato i caratteri identificativi del tributo nella matrice legislativa, nella doverosità della prestazione da corrispondere ad un ente pubblico, restando del tutto irrilevante la volontà delle parti, nel nesso con la spesa pubblica, destinata allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario dell’ente impositore. Sulla base di tale rivisitazione la S.C. ha, dunque, attribuito la natura di tributo ai contributi per il funzionamento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

Con riferimento alle controversie aventi ad oggetto richieste di rimborso delle imposte, Sez. U, n. 12150/2021, Perrino, Rv. 661139-01, ha affermato che la giurisdizione generale del giudice tributario può essere esclusa, a favore del giudice ordinario nel solo caso in cui l’Amministrazione abbia formalmente riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta. In tale caso, infatti, non possono residuare questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il "quantum" del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato e sarà, dunque, proponibile un’azione ordinaria di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. Vale la pena ricordare che nel caso di specie la decisione di merito, cassata dalla S.C., aveva ravvisato la giurisdizione ordinaria sull’azione proposta dal contribuente per il pagamento di un credito derivante da rimborso IVA, erroneamente ritenendo che il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento della sospensione del rimborso implicasse il riconoscimento della sussistenza del diritto e la configurabilità di un indebito di diritto comune. Il provvedimento sospensivo, invece, come ha chiarito la pronuncia in esame, costituisce soltanto un sostanziale e temporaneo diniego.

Nella specifica materia del fallimento Sez. U, n. 08504/2021, Manzon, Rv. 660876-02 ha chiarito che le controversie relative al mancato assenso dell’agenzia fiscale alle proposte di trattamento dei crediti tributari regolate dall’art. 182 ter della l.fall. (r.d. 16 marzo 1942 n. 267) spettano, anche con riguardo al periodo anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 12 gennaio del 2019, n. 14, alla giurisdizione ordinaria del tribunale fallimentare, considerata l’obbligatorietà di tali proposte nell’ambito delle procedure nelle quali sono consentite ed in ragione, altresì, del disposto degli artt. 180, 182 bis e 182 ter l.fall., nel testo modificato dal citato d.lgs. n. 14 del 2019 e dal d.l. 7 ottobre 2020, n. 125. Da tale complesso normativo si evince la prevalenza, con riferimento all’istituto in esame, dell’interesse concorsuale su quello tributario, senza che assuma rilievo, invece, la natura giuridica delle obbligazioni oggetto dei menzionati crediti.

In tema di polizza fideiussoria a garanzia della restituzione del rimborso d’imposta, Sez. 5, n. 06833/2021, Saija, Rv. 660718-01, ha confermato che spettano al giudice ordinario le controversie tra garante ed amministrazione finanziaria, ove venga dedotto l’inadempimento del contribuente, avendo ad oggetto un rapporto di diritto privato. La soluzione fornita dalla pronuncia chiarisce le conseguenze nell’ipotesi in cui il giudizio, ciò nonostante, sia stato introdotto dinanzi al giudice tributario, e si sia formato il giudicato interno sulla giurisdizione di questi. In tal caso l’efficacia vincolante del giudicato non si estende al merito della lite ed esso non impedisce alla Corte di cassazione di qualificare come rapporto privatistico, quello intercorrente tra l’assicuratore e l’erario, e sottoporlo alla relativa disciplina. L’arresto si pone in linea di continuità con l’orientamento da ultimo stato espresso da Sez. 5, n. 08622/2012, Cirillo, Rv. 622786–01.

In materia di società cancellate dal registro delle imprese, Sez. U, n. 00619/2021, Conti, Rv. 660218-01 ha affermato che è devoluta alla giurisdizione tributaria la controversia sorta dall’impugnazione di un avviso di accertamento fiscale notificato agli ex soci con cui sia stata dedotta l’insussistenza, nel caso concreto, della responsabilità di questi per i debiti tributari della società, sul presupposto, da un lato, dell’operatività del meccanismo introdotto dall’art. 28, comma 4, del d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175 circa il differimento per cinque anni dell’effetto estintivo della società cancellata nel settore tributario e contributivo, e, dall’altro lato, della mancata riscossione di somme in base al bilancio finale di liquidazione, ai sensi dell’art. 2495 c.c.

La S.C. in proposito ha rilevato che entrambi i motivi di impugnativa ruotano intorno alla postulata illegittimità o inesistenza della pretesa fiscale azionata dall’ufficio nei confronti dei soci della società estinta, che deve formare oggetto di esame da parte del giudice naturale di quel rapporto, costituito dal giudice tributario.

9.2. Organi di giustizia dell’ordinamento sportivo.

Ha delimitato l’ambito tra la giurisdizione sportiva e quella amministrativa Sez. U, n. 12149/2021, Scarano, Rv. 661303-02, secondo cui, una volta esaurito il rispetto di eventuali clausole compromissorie, sia le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive nazionali, che si configurano come decisioni amministrative aventi rilevanza per l’ordinamento statale, sia le controversie introdotte dalla domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti di queste ultime, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso che, in ordine alla tutela risarcitoria per equivalente, non opera alcuna riserva a favore della giustizia sportiva e il giudice amministrativo può conoscere in via incidentale e indiretta delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale. Ciò in virtù dell’art. 3 del d.l. 19 agosto 2003, n. 220, conv., con modif., dalla l. 17 ottobre 2003, n. 280, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 104 del 2010, che, all’art. 133, comma 1, lett. z, ha conservato il criterio di attribuzione della giurisdizione preesistente, nonché delle ulteriori modifiche apportate al citato art. 3 dall’art.1, comma 647, della l. 30 dicembre 2018, n. 145 (applicabile alle controversie pendenti in forza del comma 650 del medesimo articolo).

Sulle regole dell’ordinamento sportivo la stessa pronuncia (Sez. U, n. 12149/2021, Scarano, Rv. 661303-01) ha fornito un’importante precisazione: le regole dell’ordinamento sportivo, disciplinanti l’osservanza e l’applicazione di norme regolamentari, organizzative e statutarie dirette a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive, ccdd. regole tecniche, nonché i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione delle relative sanzioni, costituiscono espressione dell’autonomia interna delle Federazioni e restano irrilevanti per l’ordinamento giuridico dello Stato, con il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona.

Il sistema dell’organizzazione sportiva deve, infatti, secondo la S.C. essere inserito nel quadro della struttura pluralista della Costituzione, orientata all’apertura dell’ordinamento dello Stato ad altri ordinamenti, anche alla luce delle pronunce della Corte costituzionale nn. 49 del 2011 e 160 del 2019. Esso, infatti, trova protezione nelle previsioni costituzionali che riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’individuo, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, nonché nel diritto di associarsi liberamente per fini non vietati ai singoli dalla legge penale (art.18 Cost.). Da tale affermazione deriva che ogniqualvolta dalla violazione delle suddette regole si originino controversie tecniche, riguardanti cioè il corretto svolgimento della prestazione agonistica e la regolarità della competizione, ovvero controversie disciplinari, concernenti l’irrogazione di provvedimenti di carattere punitivo, sussiste il difetto assoluto di tutela giurisdizionale statale e le società, le associazioni, gli affiliati e i tesserati, quali soggetti dell’ordinamento sportivo, sono tenuti, secondo le previsioni e i regolamenti del Coni e delle singole Federazioni, ad adire gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo.

9.3. Ricorsi avverso decisioni di giudici dell’Unione.

Sulla giurisdizione dei giudici dell’Unione è intervenuta Sez. U, n. 10355/2021, Terrusi, Rv. 661217-01, secondo cui nell’Unione bancaria creata tra gli Stati dell’eurozona, il Meccanismo di vigilanza unico (MVU), di cui al Regolamento UE n. 1024/2013, presuppone che il potere decisionale esclusivo in ordine alle acquisizioni di partecipazioni qualificate in banche appartenga alla BCE; pertanto, il coinvolgimento delle autorità nazionali nel procedimento che conduce all’adozione della decisione della stessa BCE non mette in dubbio la qualificazione degli atti delle autorità nazionali centrali (ANC) come atti dell’Unione, poiché questi rientrano, nel quadro del Meccanismo di vigilanza unico, in un procedimento unitario nel quale la BCE esercita da sola il potere decisionale. Da tale premessa consegue che il relativo controllo di legittimità spetta alla competenza esclusiva del giudice dell’Unione in virtù dell’art. 263 del TFUE e non a quella dei giudici nazionali.

Tale competenza esclusiva grava sul controllo di legittimità di tutti gli atti, pure intermedi e preparatori e ciò anche in applicazione della legislazione nazionale, ove il diritto dell’Unione riconosca differenti opzioni normative agli stati membri. Da ciò deriva l’esclusione di ogni competenza giurisdizionale nazionale in controversie relative alla sorte degli atti dello stesso procedimento.

Il principio, secondo la pronuncia in esame, quindi, deve trovare applicazione anche ove sia fatta valere la contrarietà degli atti del medesimo procedimento ad un giudicato nazionale nel contesto della giurisdizione di ottemperanza.

La decisione va segnalata anche perché ha affrontato la delicatissima questione del rapporto tra il giudicato nazionale ed il diritto comunitario. Pur riconoscendo che l’autorità del giudicato costituisce uno dei pilastri, non solo del sistema giudiziario nazionale, ma anche di quello eurounitario, essa si richiama a precedenti della Corte di Giustizia (sentenza 18 luglio 2007, Lucchini s.p.a.; sentenza 19 dicembre 2018) per affermare che la primazia del diritto comunitario non conosce ostacoli nel diritto nazionale quando vengano in considerazione le regole comunitarie inderogabili in tema di competenza decisionale.

9.4. Altri giudici speciali.

In tema di usi civici Sez. U, n. 08564/2021, Falaschi, Rv. 660856-01, ha chiarito che la giurisdizione del commissario per la liquidazione degli usi civici sussiste ogniqualvolta la valutazione o l’accertamento della natura ed estensione del diritto di uso civico, ovvero la "qualitas soli", si pongono come antecedente logico-giuridico della decisione. Ne consegue che, in caso di impugnazione di atto amministrativo, la giurisdizione spetta al g.a. soltanto se le questioni dedotte sono dirette a censurare l’iter procedimentale, antecedentemente rispetto ad ogni indagine sulla qualità demaniale collettiva dei terreni.

In tale materia si ricorda che Sez. U, n. 09280/2020, Lombardo, Rv. 657660–01, lo scorso anno aveva chiarito che rientrano nella giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici le controversie che abbiano ad oggetto l’accertamento degli usi civici o di diritti di uso collettivo delle terre ovvero l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al "demanio civico". Esulano, invece, da tale giurisdizione tutte le controversie che abbiano ad oggetto l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al demanio comunale non destinato all’uso civico, come il demanio stradale, le quali spettano alla giurisdizione del giudice ordinario.

Con riferimento alla giurisdizione del CNF, secondo Sez. U, n. 02603/2021, Mercolino, Rv. 660350-01, ai sensi degli artt. 28, comma 12, e 36, comma 1, della l. 247 del 2012, la giurisdizione del Consiglio Nazionale Forense sulle controversie relative alle elezioni dei consigli dell’ordine degli avvocati non è limitata a quelle concernenti la regolarità delle operazioni elettorali, che attengono all’osservanza di norme rivolte alla tutela di interessi generali della collettività, ma si estende anche a quelle concernenti l’eleggibilità dei candidati e, più in generale, l’elettorato attivo e passivo degli stessi, le quali, pur coinvolgendo posizioni di diritto soggettivo, non possono ritenersi rimaste attribuite alla giurisdizione ordinaria.

La pronuncia ha chiarito che tutte le controversie relative alle elezioni dei consigli dell’ordine, a differenza di quelle riguardanti l’elezione del CNF, per le quali manca un’autonoma disciplina, costituiscono oggetto di una specifica disposizione avente la finalità di concentrare la giurisdizione in un unico organo composto da soggetti eletti tra gli appartenenti all’ordine professionale e costituente espressione dell’autonomia di quest’ultimo. Ne consegue che, per un verso, deve prescindersi dalla natura delle situazioni giuridiche coinvolte nella vicenda processuale, mentre, per altro verso, alla luce della conservata impugnabilità delle decisioni dello stesso CNF dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 36, comma 6, della l. 247 del 2012, deve escludersi ogni possibile menomazione della tutela giurisdizionale, prefigurandosi un sistema di adeguata protezione dei diritti soggettivi degli interessati, manifestamente non contrastante con gli artt. 3, 24, 102 111 e 113 Cost.

  • Corte dei conti europea
  • competenza giurisdizionale
  • impiegato dei servizi pubblici

CAPITOLO III

LA GIURISDIZIONE DELLA CORTE DEI CONTI

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’azione di responsabilità. - 3 Il giudizio di conto. - 4 Pubblico impiego e trattamento pensionistico. - 5 Il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione. - 6 Ulteriori profili processuali.

1. Premessa.

Le pronunce di maggiore rilievo emesse dalla S.C. nel corso del 2021 hanno riguardato il profilo della responsabilità erariale; di un certo interesse sono state soprattutto quelle decisioni che hanno definito i confini della giurisdizione contabile in materia.

2. L’azione di responsabilità.

La tematica dell’azione di responsabilità in materia di contabilità pubblica è sempre attuale e su questa si focalizzano molte pronunce della Suprema Corte.

Con riferimento all’in house providing, Sez. U, n. 26738/2021, Mercolino, Rv. 662245-01, ha chiarito che, ai fini della qualificazione di una società in house providing e della giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo, è sufficiente la verifica della sussistenza di un controllo esercitato da un socio pubblico di maggioranza, non essendone necessaria l’estensione in forma congiunta a tutti gli enti pubblici partecipanti al capitale sociale.

In ordine ai rapporti con l’ordinaria azione civile, Sez. U, n. 36205/2021, Napolitano L., Rv. 662886-01, ha affermato che l’azione di responsabilità per danno erariale e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, essendo la prima volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione prevalentemente sanzionatoria, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della amministrazione attrice, sicché le eventuali interferenze tra i due giudizi integrano una questione non di giurisdizione ma di proponibilità dell’azione di responsabilità innanzi al giudice contabile, rendendo conseguentemente inammissibile il ricorso innanzi alla Corte di cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.

Inoltre, per Sez. U, n. 32418/2021, Criscuolo, Rv. 662881-01, rientrano nella giurisdizione della Corte dei conti le controversie concernenti il danno patrimoniale cagionato dal Presidente di una sezione comunale dell’Unione italiana di tiro a segno mediante l’appropriazione e la distrazione di somme di denaro di tale sezione. Infatti, la detta Unione ha natura di ente di diritto pubblico, che è sottoposto alla vigilanza del Ministero della Difesa e del Comitato olimpico nazionale italiano e ha fini istituzionali di istruzione, addestramento e certificazione, mentre le menzionate sezioni esercitano un’attività diretta anche ad espletare compiti istituzionali di rilevanza pubblicistica, nell’ambito di direttive e controlli di un ente pubblico e fruendo di entrate di provenienza pure pubblica, per le quali non è prevista una contabilità distinta.

Sez. U, n. 27890/2021, Tricomi I., Rv. 662468-01, ha precisato, altresì, che la controversia insorta a seguito di opposizione ad ordinanza ingiunzione, emessa ex art. 3 del r.d. n. 639 del 1910 nei confronti di un dirigente della regione Sicilia per il rimborso dei compensi da quest’ultimo percepiti quale compenso per incarichi ritenuti aggiuntivi, ai sensi dell’art. 13, comma 4, della l.r. n. 10 del 2000, in attuazione del principio di onnicomprensività del trattamento economico della dirigenza di cui alla l.r. n. 19 del 2008, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che, in tale caso, l’ente locale non ha promosso azione di responsabilità per danno erariale, rimessa alla giurisdizione contabile, ma ha agito per l’adempimento di un’obbligazione gravante sul lavoratore che trova fondamento nel rapporto di lavoro, non rilevando il danno e la colpa del dipendente medesimo, ma la mera percezione di quanto andava devoluto al bilancio regionale.

Come chiarito, poi, da Sez. U, n. 19027/2021, Doronzo, Rv. 661848-01, in tema di regolamentazione del prelievo supplementare sull’eccesso di produzione di latte, sussiste la giurisdizione contabile sulla domanda di condanna al risarcimento del danno erariale proposta nei confronti del primo acquirente per avere violato l’obbligo di trattenere e, quindi, di versare all’AGEA le somme dovute dagli allevatori a titolo del predetto prelievo, quale misura volta a ristabilire l’equilibrio tra domanda e offerta sul mercato lattifero; ciò in quanto, avuto riguardo agli obblighi, anche contabili, impostigli, alle sanzioni previste per il caso di inadempimento e alla circostanza che egli è investito della funzione con provvedimento amministrativo all’esito delle verifica di determinati requisiti - nonché alla responsabilità diretta dello Stato verso l’Unione europea per il prelievo risultante dal superamento del quantitativo di riferimento nazionale -, deve ritenersi sussistere, tra il primo acquirente e la P.A., un vero e proprio rapporto di servizio, il quale è configurabile, a prescindere dalla natura di soggetto di diritto privato dell’agente, allorché questi abbia la gestione, in nome e per conto della pubblica amministrazione, di un’attività continuativa di interesse generale, che può essere anche solo di garanzia del corretto svolgimento di una data attività.

Sez. U, n. 15570/2021, Di Marzio M., Rv. 661706-01, ha ribadito l’orientamento tradizionale, già espresso da Sez. U, n. 26582/2013, Macioce, Rv. 628611-01, per il quale appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia volta a fare valere la responsabilità contrattuale degli amministratori e dei revisori di un consorzio di sviluppo industriale, avente natura di ente pubblico economico, per inadempimento agli obblighi di natura contabile e gestionale derivanti dagli artt. 2608, 1710 e 1176 c.c., atteso che, nel caso in cui, oltre al danno civilistico, sia prospettabile anche un danno erariale, deve, comunque, ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio e l’eventuale interferenza tra i due giudizi può porre solo una questione di proponibilità dell’azione da fare valere davanti al giudice successivamente adito.

Allo stesso modo, per Sez. U, n. 09544/2021, Acierno, Rv. 661012-01, non sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine alla domanda di accertamento della nullità della convenzione accessoria ad una concessione di area pubblica di parcheggio, proposta dal pubblico ministero contabile in funzione dell’esercizio dell’azione di danno erariale nei confronti della società concessionaria, non essendo individuabile, in relazione né ai soggetti eventualmente responsabili (funzionari pubblici o soggetti privati in rapporto di servizio con la P.A. depauperata) né all’oggetto del pregiudizio, il nesso di strumentalità tra l’azione proposta e quella consequenziale di risarcimento del danno erariale, sicché viene a mancare il presupposto necessario per ricondurre il rimedio esperito tra le “altre azioni” che, unitamente ai mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, il pubblico ministero contabile è legittimato ad esercitare in funzione della tutela dei crediti erariali, ai sensi dell’art.73 del d.lgs. n.174 del 2016 (cd. Codice della giustizia contabile).

Sez. U, n. 02157/2021, Stalla, Rv. 660308-01, ha pure precisato che non sussiste la giurisdizione contabile sulla domanda di danno erariale proposta nei confronti di una banca d’affari sulla base di un petitum sostanziale fondato sulla responsabilità contrattuale o precontrattuale riconducibili al duplice ruolo, di controparte in operazioni in strumenti finanziari derivati e di specialista del debito pubblico, da essa svolto nel rapporto con il Ministero dell’economia e delle finanze, se tale rapporto non presenti, in concreto, i caratteri della relazione di servizio comportante l’assunzione, da parte della banca, di potestà pubblicistiche, nonché il suo inserimento, anche temporaneo, nell’organizzazione interna del Ministero quale agente di questo in ordine alle scelte di negoziazione in strumenti finanziari derivati e di gestione del debito pubblico sovrano. Di conseguenza, però, ad avviso di Sez. U, n. 02157/2021, Stalla, Rv. 660308-02, nell’ipotesi di contratti in strumenti finanziari derivati, sottoscritti dallo Stato, ferma restando l’insindacabilità giurisdizionale delle scelte di gestione del debito pubblico da parte degli organi governativi a ciò preposti, sussiste la giurisdizione contabile sulla domanda di danno erariale proposta nei confronti di dirigenti del Ministero dell’economia e delle finanze sulla base di un petitum sostanziale fondato sulla mala gestio nell’adozione, in concreto, di determinate modalità operative e nella pattuizione di specifiche condizioni negoziali relative a particolari contratti nei predetti strumenti, venendo in considerazione parametri di legittimità e non di mera opportunità o convenienza dell’agire amministrativo.

La S.C. si è pure occupata della responsabilità in questione con riferimento ad alcuni specifici enti ed organismi.

Pertanto, secondo Sez. U, n. 10741/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 661059-01, sussiste la giurisdizione contabile sulla domanda di danno erariale proposta nei confronti dei dirigenti dell’Ufficio del federalismo fiscale, nonché del presidente e dei componenti della Commissione istituita presso il Ministero dell’economia e delle finanze, ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.lgs. n.446 del 1997, per avere omesso di adottare le iniziative idonee ad impedire o limitare il pregiudizio subìto da taluni Comuni in conseguenza dell’omesso riversamento ad essi delle somme riscosse dalla società concessionaria del servizio di riscossione delle entrate comunali, non assumendo rilievo la circostanza che il loro rapporto di servizio intercorra con il Ministero e non con le amministrazioni danneggiate né la sussistenza dell’eventuale responsabilità contrattuale della società concessionaria nei confronti dei singoli comuni, atteso, quanto al primo profilo, che, ai sensi dell’art.1, comma 3, della legge n. 20 del 1994, in relazione ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore di questa legge, la giurisdizione della Corte dei conti sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici sussiste anche quando il danno sia stato cagionato ad enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, e considerato, quanto al secondo profilo, che il rimprovero mosso agli incolpati concerne l’omessa attivazione dei poteri loro attribuiti dalla legge al fine di evitare o contenere il danno provocato al pubblico erario.

Invece, come precisato da Sez. U, n. 00781/2021, Acierno, Rv. 660229-01, l’azione promossa dal Consorzio sviluppo aree e iniziative industriali, volta ad ottenere l’accertamento della responsabilità degli organi di amministrazione e controllo per il dissesto economico dell’ente e il risarcimento del conseguente danno patrimoniale, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo finalizzata alla tutela del capitale sociale e del patrimonio consortile (inteso quale entità autonoma e separata dalle singole quote conferite dalle amministrazioni consorziate), a fronte della violazione di obblighi di natura contrattuale, gravanti sui soggetti sopra indicati in vista di una corretta gestione delle risorse e della realizzazione dello scopo sociale dell’ente.

3. Il giudizio di conto.

Sez. U, n. 15010/2021, Carrato, Rv. 661304-01, ha affermato che la cognizione in ordine all’omessa rendicontazione contabile di denaro introitato dal Consolato italiano in Turchia e destinato a finalità culturali gestite anche per il tramite di un’associazione culturale locale spetta alla giurisdizione contabile italiana, dovendosi escludere che la mera destinazione delle somme utilizzate ad un soggetto estero di diritto privato, determini l’applicazione del principio di extraterritorialità e la conseguente giurisdizione del giudice straniero, atteso che la condotta omissiva produttiva del danno erariale, consistente nella gestione ed omessa rendicontazione di denaro pubblico, è ascrivibile esclusivamente ai funzionari del Consolato.

4. Pubblico impiego e trattamento pensionistico.

Occupandosi di pubblico impiego e pensioni, Sez. U, n. 00784/2021, Torrice, Rv. 660145-01, ha chiarito che la controversia proposta da un dipendente in quiescenza delle Poste Italiane Spa (già Ente Poste Italiane) che abbia direttamente ad oggetto il trattamento di pensione (nella specie, l’accertamento del diritto a non vedersi applicate le riduzioni previste dall’art. 1, commi da 260 a 268, della legge n. 145 del 2018, e, subordinatamente, delle corrette riduzioni da applicare), senza alcun riflesso sul rapporto di lavoro già risolto, appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, atteso che la giurisdizione va determinata, ai sensi dell’art. 386 c.p.c., sulla base dell’oggetto della domanda secondo il criterio del petitum sostanziale e il d.l. n. 487 del 1993, convertito nella legge n. 71 del 1994, che ha trasformato l’amministrazione postale in ente pubblico economico, ha affidato alla cognizione del giudice ordinario solo le controversie concernenti il rapporto di lavoro di diritto privato con detto ente, senza modificare le preesistenti regole di riparto della giurisdizione per quanto riguarda le questioni relative al trattamento pensionistico.

Inoltre, per Sez. U, n. 12903/2021, Marotta, Rv. 661140-01, la domanda di accertamento delle condizioni sanitarie preordinate al riconoscimento del beneficio contributivo ex art. 80, comma 3, della legge n. 388 del 2000, introdotta dal pubblico dipendente con procedimento ex art. 445 bis c.p.c., in quanto strumentale all’adozione del provvedimento amministrativo di attribuzione di un beneficio, pari a due mesi di contribuzione figurativa per ogni anno di servizio, rilevante ai fini della quantificazione dell’anzianità contributiva utile per la determinazione dell’an e del quantum della prestazione pensionistica, appartiene alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti.

5. Il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione.

La questione dei limiti del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni contabili è sempre di attualità.

Innanzitutto, Sez. U, n. 18492/2021, Scarpa, Rv. 661738-01, ha precisato che è inammissibile il ricorso in cassazione volto a denunciare l’eccesso di potere giurisdizionale, per invasione della sfera legislativa, della decisione del giudice contabile che abbia affermato la responsabilità erariale di consiglieri del CNEL per avere conferito incarichi a soggetti esterni in violazione dei presupposti di cui all’art.7, commi 6 ss., del d.lgs. n.165 del 2001; ciò in quanto, per un verso, la natura di organo di rilievo costituzionale del CNEL non preclude il controllo giurisdizionale di legittimità del giudice contabile su atti e provvedimenti che costituiscono espressione di attività amministrativa strumentale alimentata con risorse tratte dal bilancio statale o su atti gestionali finanziati nello stesso modo, mentre, per altro verso, la dedotta inesistenza di una norma che estenda al CNEL il divieto di conferire incarichi esterni ai sensi del d.lgs. n.165 del 2001, non configura un vizio di difetto assoluto di giurisdizione per invasione della sfera riservata al legislatore, che si integra solo qualora il giudice speciale abbia indebitamente esercitato un’attività di produzione normativa e non allorché l’operatività dei principi di cui al predetto decreto legislativo sia stata affermata nell’esercizio della doverosa operazione ermeneutica volta ad individuare la voluntas legis applicabile al caso concreto, la quale potrebbe, al più, dare luogo ad un eventuale error in iudicando, ma non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale.

Inoltre, secondo Sez. U, n. 15573/2021, Rubino, Rv. 661388-01, il sindacato della S.C. sulle decisioni della Corte dei conti è limitato alle sole ipotesi di difetto assoluto o relativo di giurisdizione e non si estende ad asserite violazioni di legge, sostanziale o processuale, concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale. Ne consegue che non integra la violazione dei limiti esterni della giurisdizione e, pertanto, non può costituire motivo di ricorso ammissibile in cassazione, la denuncia di un error in procedendo, quale la mancata sospensione del giudizio erariale sino all’esito del procedimento penale in corso sugli stessi fatti, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. n. 174 del 2016, o di un error in iudicando, per l’omessa valutazione ai fini della responsabilità erariale di un precedente penale di assoluzione.

Più precisamente, ad avviso di Sez. U, n. 30112/2021, Giusti, Rv. 662549-01, in materia di controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione delle sentenze dei giudici speciali, che l’art. 111, comma 8, Cost., affida alla Corte di cassazione, il diniego di giustizia è sindacabile solo in astratto, cioè in relazione all’estraneità del deciso rispetto alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, e mai in concreto. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui si deduceva il diniego di giustizia fondato sull’allegazione secondo cui il giudice contabile aveva condannato il ricorrente sulla base di un fatto antigiuridico asseritamente altro e diverso da quello per il quale lo stesso era stato citato in giudizio e sul quale si era difeso).

In questa ottica, per Sez. U, n. 00622/2021, Giusti, Rv. 660220-01, non è affetta da eccesso di potere giurisdizionale la pronuncia della Corte dei conti che accerti la responsabilità erariale di un consigliere regionale per illecita gestione del denaro pubblico ricevuto per le spese di rappresentanza del gruppo consiliare di appartenenza, pur in presenza dell’approvazione del rendiconto da parte del comitato tecnico e dell’Ufficio di Presidenza, previsto dalla l.r. Emilia Romagna n. 32 del 1997, in quanto tale atto, quale mera ratifica formale di spese già effettuate e non titolo giustificativo reso ex ante, non esclude che le stesse siano non inerenti all’attività del gruppo, quanto ad entità e proporzionalità, o non effettive, per la non veridicità della documentazione, con manifesta difformità delle singole spese ammesse al rimborso, in termini di congruità e collegamento teleologico, rispetto alle finalità pubblicistiche dei gruppi, la cui verifica rimane nei limiti interni della giurisdizione del giudice contabile.

Sez. U, n. 31559/2021, Stalla, Rv. 662652-01, ha affermato, poi, che, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte dei conti pronunciata su impugnazione per revocazione, può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando esclusa la possibilità di mettere in discussione tale potere sulla precedente decisione di merito. (Nella specie, il ricorso è stato ritenuto inammissibile, siccome diretto a censurare il corretto esercizio in concreto del potere giurisdizionale di revocazione).

Come rilevato, invece, da Sez. U, n. 29561/2021, Giusti, Rv. 662593-01, è manifestamente infondata la questione di costituzionalità per contrasto con gli artt. 103, comma 2, e 3, 24 25 e 111 Cost., dell’art. 73 del d.lgs. n. 174 del 2016 (Codice della giustizia contabile), in forza del quale l’azione revocatoria esercitata dal Procuratore regionale della Corte dei conti per la tutela dei crediti erariali appartiene alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, in quanto la natura accessoria e strumentale di tale azione rispetto alla riparazione del danno erariale palesa come ragionevolmente esercitata la discrezionalità del legislatore nella definizione concreta della materia di contabilità pubblica.

Infine, Sez. U, n. 36375/2021, Rubino, Rv. 662968-01, ha chiarito che è da intendere proposto per motivi inerenti alla giurisdizione, ai sensi degli artt. 111 Cost. e 362, comma 1, c.p.c., il ricorso per cassazione contro la decisione della Corte dei conti che, in grado di appello, abbia ritenuto precluso l’esame della questione di giurisdizione perché sollevata dalla parte che l’aveva eccepita nel grado precedente e non aveva poi presentato, contro la sentenza non definitiva che l’aveva respinta, né appello immediato né riserva di appello; spetta, infatti, alle Sezioni Unite non solo il giudizio sull’interpretazione della norma attributiva della giurisdizione, ma anche il sindacato sull’applicazione delle disposizioni che regolano la deducibilità ed il rilievo del difetto di giurisdizione.

6. Ulteriori profili processuali.

Secondo Sez. U, n. 13181/2021, Iannello, Rv. 661385-01, l’articolo 1 della legge n. 742 del 1969, che stabilisce la sospensione dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie e a quelle amministrative, va interpretato nel senso che la sospensione opera con riguardo a tutti i giudizi in materia di diritti soggettivi o interessi legittimi, salve le eccezioni espressamente previste; l’istituto opera, pertanto, anche nei giudizi davanti alle giurisdizioni speciali e, quindi, pure a quelli promossi per responsabilità erariale avanti la sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei conti.

  • protezione del consumatore
  • responsabilità civile
  • giurisdizione internazionale
  • cittadino straniero
  • competenza giurisdizionale
  • sentenza della Corte (UE)
  • conflitto di giurisdizioni
  • fallimento

CAPITOLO IV

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICE NAZIONALE E GIUDICE STRANIERO

(di Stefania Billi )

Sommario

1 Premesse generali. - 2 Le clausole di deroga e di proroga della giurisdizione. - 3 La litispendenza internazionale. - 4 Azioni contrattuali e ambito di applicazione dei criteri stabiliti dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. - 5 Diritti del consumatore. - 6 Insolvenza e procedure fallimentari: i criteri di collegamento. - 7 Illeciti civili. - 8 La giurisdizione nelle successioni internazionali. Cause successorie. - 9 Delibazione di sentenze straniere.

1. Premesse generali.

Le norme sulla giurisdizione relative al rapporto tra il giudice nazionale e quello straniero anche quest’anno sono state oggetto di particolare attenzione da parte della S.C. Esse, come è ben noto, per lungo tempo, almeno fino alla prima metà del Novecento, sono state considerate come una delle maggiori espressioni della sovranità statale.

La Convenzione di Bruxelles del 27 settembre del 1968, resa esecutiva in Italia con la legge 21 giugno 1971, n. 804, per la prima volta ha dato vita ad un trattato internazionale multilaterale sulla giurisdizione e sull’efficacia di atti e decisioni, con cui gli Stati che ne fanno parte si sono coordinati per potere distribuire tra loro il potere di giurisdizione nei reciproci rapporti. È stato con essa realizzato il primo passo verso un reale processo di integrazione europea, oltre che ad consolidamento dello sviluppo del commercio internazionale. Da quel momento è possibile anche dire che è iniziato un progressivo mutamento della funzione delle norme sulla giurisdizione, voltre innanzitutto a realizzare una migliore cooperazione tra gli Stati.

È in tale prospettiva che vanno lette le previsioni della citata Convenzione circa l’istituto della litispendenza internazionale e quello della deroga alla giurisdizione italiana per la prima volta introdotte nel nostro ordinamento.

La prima vera erosione dell’originaria concezione sovranista della giurisdizione si realizza con la sostituzione dell’originario criterio generale della cittadinanza con quellodel domicilio, inizialmente nel solo ambito della Convenzione, successivamente ripreso nella l. 31 maggio 1995, n. 218.

L’utilità del sistema adottato con la citata Convenzione ha trovato un chiaro riscontro, quando la Convenzione di Lugano del 16 settembre 1988, ne ha esteso l’applicazione agli Stati dell’allora Comunità Europea ed agli Stati membri di un’altra organizzazione economica, l’Associazione Europea del Libero Scambio (AELS o EFTA dall’acronimo inglese).

La più significativa evoluzione normativa relativa a tali disposizioni si realizza, tuttavia, negli anni 2000. A decorrere, infatti, dal 1° marzo 2002, è entrato in vigore il Regolamento n. 44 del 2001 (Bruxelles I) del 22 dicembre 2000, che ha sostituito la Convenzione di Bruxelles, determinando, non solo, un mutamento della fonte, da internazionale a comunitaria, ma anche alcune significative modifiche di disciplina. Il citato Regolamento costituisce, infatti, l’espressione della nuova competenza acquisita dall’Unione europea ad adottare direttamente atti di diritto internazionale privato, senza dovere ricorrere a convenzioni internazionali.

Occorre evidenziare che la maggior parte delle norme della Convenzione è stata trasfusa nel Regolamento, come in diverse occasioni la S.C. ha avuto occasione di precisare.

Il sistema è stato ulteriormente modificato attraverso l’adozione del Regolamento n. 1215 del 12 dicembre 2012 (Bruxelles I-bis) che in buona misura ha riproposto la disciplina del precedente regolamento.

La descritta normativa si caratterizza per una sostanziale continuità, tanto che v’è unanimità di vedute nel senso dell’esistenza di un nucleo della disciplina che regola la giurisdizione internazionale applicato all’intero territorio europeo dalla seconda metà del ‘900 fino ai nostri giorni.

In particolare, nel contesto normativo di quello che viene anche definito "sistema Bruxelles I", il domicilio del convenuto, come già detto, costituisce il criterio generale di giurisdizione, fondato sulle ragioni di tutela delle esigenze di difesa del convenuto: la condizione è che almeno una delle parti sia domiciliata in uno Stato membro per l’evidente ragione di assicurare un coefficiente minimo di integrazione della lite nella UE.

Decisamente significativo in tal senso l’arresto, intervenuto nel corso dell’anno di Sez. U, n. 18299/2021, Scarpa, Rv. 661653–01, appunto sotto il profilo dell’ambito di applicazione dei criteri stabiliti dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. La pronuncia ha affermato la giurisdizione italiana anche laddove il convenuto non sia domiciliato in uno Stato membro dell’Unione europea, quando si tratti di una delle materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968.

L’applicabilità del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, in particolare dell’art. 6, che disciplina la competenza nelle ipotesi in cui il convenuto non sia domiciliato in uno Stato membro, avviene, appunto, in virtù del rinvio operato dall’art. 3 della l. n. 218 del 1995, per effetto della trasfusione delle norme della Convenzione in quelle del Regolamento da ultimo richiamato.

Il fondamento dell’assunto deve essere rinvenuto proprio nell’art. 3, comma 2, della l. n. 218 del 1995, laddove afferma che la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi di cui al comma 1, collegati al domicilio o alla residenza in Italia del convenuto, o all’esistenza di un suo rappresentante ex art. 77 c.p.c., anche “in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la legge 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l’Italia, anche allorche’ il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione”.

La pronuncia chiarisce in tal senso che nel tempo si è realizzato un processo comunitario di uniformazione del diritto internazionale privato, comprensivo, non solo, delle controversie intracomunitarie, ma anche di quelle coinvolgenti anche Stati terzi.

Così, con gli interventi normativi, in un primo momento, dell’art. 68 del Regolamento (CE) n. 44 del 2001, e poi in sostituzione di questo, dell’art. 68 del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, si è realizzata una modificazione “in vigore per l’Italia” della Convenzione di Bruxelles. La pronuncia allineandosi agli arresti di Sez. U, n. 32362/2018, Rubino, Rv. 651823–01, e Sez. U, n. 04211/2013, Travaglino, Rv. 625157–01, si pone in consapevole contrasto con Sez. U, n. 22239/2009, Segreto, Rv. 609691–01 e Sez. U, n. 15748/2019, Conti, Rv. 654576–01.

Accanto al criterio generale del domicilio, come noto, esistono anche altri criteri - cd. speciali - di individuazione della giurisdizione, giustificati prevalentemente dal principio di prossimità e regolati nelle Sezione 2, 3, 4, e 5 del Regolamento n. 1215 del 2012.

È previsto, così, in via di estrema sintesi, dall’art. 7, comma 1, n. 1 lett. a) del citato Regolamento, che in materia contrattuale la competenza è attribuita al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Esso è, nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto; nel caso della prestazione di servizi, il luogo situato nello Stato membro, in cui i servizi sono stato avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto.

In mancanza, poi, di un’autonoma definizione, la competenza viene determinata in base alla legge richiamata dalle norme di conflitto del giudice adito.

Per gli illeciti civili di natura extracontrattuale, è stabilita la competenza del giudice del luogo in cui è avvenuto o può avvenire l’evento dannoso (art. 7, comma 1, n. 2): tale criterio è stato ideato per rispondere ai problemi interpretativi posti dagli illeciti cd. a distanza come, ad esempio, in materia di diffamazione a mezzo stampa, di inquinamento ambientale, di illeciti commessi attraverso la rete Internet.

Ulteriori criteri speciali sono contemplati a protezione delle parti contrattuali deboli, per i contratti di: assicurazione, alla Sezione 3, artt. 10 e ss., del citato Regolamento, consumo, nella Sezione 4 (artt. 17 e ss.) e lavoro dipendente, nella Sezione 5 (artt. 20 e ss.). Per tali figure negoziali il particolare favore consiste nell’offrire alla parte debole che agisce la scelta tra più giudici competenti.

Il quadro della disciplina si completa con la previsione dei cd. criteri esclusivi, regolati dalla Sezione 6 del Regolamento in esame. Rientrano tra questi le controversie in materia di diritti reali su beni immobili e di contratti di affitto su questi, per i quali è competente il giudice dello Stato dove si trova l’immobile (art. 24, comma 1, n. 1); quelle in tema di validità, nullità, scioglimento società e di validità delle società, la cui cognizione appartiene all’autorità giudiziaria dello Stato in cui ha sede la società (art. 24, comma 1, n. 2); la materia di validità delle trascrizioni e iscrizioni nei pubblici registri (art. 24, comma 1, n. 3), per la quale la competenza è riconosciuta alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui sono tenuti i registri; la materia di registrazione o validità di marchi e brevetti, disegni e modelli o di altri diritti analoghi che attribuiscono la competenza alle autorità giurisdizionali dello Stato membro nel cui territorio sono stati richiesti il deposito o la registrazione (art. 24, comma 1, n. 4), la materia di esecuzione delle decisioni per la quale la competenza è delle autorità giurisdizionali dello Stato membro nel cui territorio ha o ha avuto luogo l’esecuzione (art. 39 e ss).

La peculiarità dei fori esclusivi è che essi sono imperativi ed inderogabili: derogano al foro del domicilio e, non solo, impediscono l’applicazione dei criteri speciali, ma fanno anche eccezione all’istituto della litispendenza. La relativa elencazione, pertanto, è tassativa.

Di recente la S.C. ha chiarito che sia i criteri speciali, sia quelli esclusivi sono oggetto di stretta interpretazione. In tal senso Sez. U., n. 05682/2020, Cosentino, Rv. 657206-01 a proposito dell’art. 24, comma 1, n. 2, del Regolamento (CE) n. 1215 del 2012, che, come sopra visto, assegna al giudice dello Stato membro in cui ha sede una società la giurisdizione in materia di validità delle decisioni degli organi sociali. Nell’occasione la S.C. ha precisato che la previsione riguarda esclusivamente le controversie nelle quali si contesti la validità di dette decisioni alla luce del diritto delle società applicabile o delle disposizioni statutarie attinenti al funzionamento dei suoi organi ed ha, dunque, escluso l’applicabilità della norma con riferimento ad un’azione di nullità per simulazione di verbali di assemblee societarie aventi ad oggetto aumento di capitale mediante conferimento di beni immobili.

Più in generale sotto il profilo del momento cui si deve fare riferimento per l’applicazione del criterio attributivo della giurisdizione, è stato da ultimo chiarito che, poiché il criterio di collegamento può atteggiarsi in modo diverso con riferimento a distinti giudizi, dovendo sussistere al momento della loro instaurazione, il giudicato sulla giurisdizione nei confronti dello straniero o dello Stato estero non può spiegare effetto in un successivo processo inerente al medesimo rapporto ma coinvolgente effetti diversi rispetto a quelli fatti valere nel primo processo, non essendo possibile, sulla base del precedente giudicato, affermare o negare in un successivo processo "a priori" la giurisdizione, la quale risponde a criteri mutevoli nel tempo (così Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-05).

2. Le clausole di deroga e di proroga della giurisdizione.

L’evoluzione della funzione dei criteri di riparto della giurisdizione tra gli Stati membri si esprime, anche attraverso l’istituto della proroga o deroga della stessa (artt. 17, 18 Conv. Bruxelles, artt. 23 e 24 Regolamento Bruxelles I, artt. 25 e 26 Regolamento Bruxelles I-bis).

Tale disciplina, non solo, pone sul medesimo piano le giurisdizioni dei diversi Stati, ma offre, come si è sopra accennato, anche alle parti la possibilità di scegliere la giurisdizione più confacente ai propri interessi. L’ istituto contribuisce evidentemente alla profilazione di una giurisdizione sempre più al servizio dei privati, dagli stessi opzionabile, contribuendo a decolorare l’originaria giurisdizione che si imponeva sulla volontà delle parti.

I privati, dunque, possono raggiungere un accordo di proroga cd. espressa della competenza, che esplicitamente prevede un effetto attributivo della giurisdizione, con conseguente deroga ad altre norme sulla competenza previste dalla Convenzione. Nelle ipotesi più ricorrenti le parti nella stipula di un contratto concordano una clausola in cui si impegnano a riconoscere la competenza sulle eventuali liti ad una determinata autorità giudiziaria di uno Stato membro.

Giova in proposito ricordare, sotto profilo del raccordo tra la disciplina nazionale e quella eurounitaria, come è stata superata da Sez. U, n. 12585/2019, Virgilio, Rv. 653932–01 la sfasatura tra l’ampia portata delle previsioni sovranazionali e la più restrittiva disciplina contenuta all’art. 4 della l. n. 218 del 1995. Mentre, infatti, la normativa comunitaria all’art. 25 del Regolamento Bruxelles I-bis, ammette, al ricorrere di determinate e tassative condizioni, la possibilità per le parti di un determinato rapporto giuridico di concordare la competenza di un’autorità o di autorità giurisdizionali di uno Stato membro a conoscere delle controversie, presenti o future, con l’unica eccezione per l’ipotesi di accordo nullo dal punto di vista della validità sostanziale secondo la legge di tale Stato membro, viceversa, la disciplina contenuta nell’art. 4, comma 2, della l. 31 maggio 1995, n. 218, riconosce la possibilità di deroga convenzionale della giurisdizione solo nella materia dei diritti disponibili, se provata per iscritto.

Con l’arresto sopra ricordato la S.C. ha risolto il contrasto nel senso della prevalenza, anche nella materia dei diritti indisponibili, della clausola di deroga della giurisdizione, stipulata ai sensi dell’art. 25 del Regolamento n. 1215 del 2012 sull’art. 4, citato.

Restando ancora su un piano generale, la proroga della giurisdizione, oltre che esplicitamente concordata, cd. espressa, può risultare, anche, da un comportamento concludente delle parti.

Si rinviene, dunque, una proroga cd. tacita, nelle ipotesi in cui, proposta una citazione in giudizio dinanzi ad un giudice privo di competenza, il convenuto non ne contesti l’incompetenza, prima di difendersi nel merito (in questo senso, v. Sez. U, n. 19473/2016, Travaglino, Rv. 641093–01).

Negli ultimi anni la S.C. in diverse occasioni si è soffermata sui criteri interpretativi da utilizzare con riferimento alle suddette clausole di proroga della giurisdizione.

Occorre partire dalla premessa di fondo espressa da Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766–03, secondo cui, ai sensi dell’art. 23 del Regolamento (CE) n. 44 del 2001, l’inserimento nel contratto di tale clausola rende il foro convenzionale esclusivo, in mancanza di diverso accordo delle parti. La qualificazione del foro convenzionale come esclusivo, del resto contenuta esplicitamente, nel primo comma dell’art. 23 del regolamento CE n. 44 del 2001, comporta, infatti, la sua prevalenza, sia su quello del domicilio del convenuto, previsto in via generale dal precedente art. 2, sia su quello speciale del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, previsto dall’art. 5, n. 1, del medesimo Regolamento.

Nell’ambito delle coordinate poste dalla giurisprudenza di legittimità sinora richiamata, la S.C. è stata chiamata di recente ad elaborare un’opera di maggiore approfondimento sulla questione della portata del art. 23 del Regolamento n. 44 del 2001 in tema di cessione del credito, in particolare, sotto il profilo della applicabilità e in quali limiti della clausola nei confronti del cessionario.

In ordine al primo quesito Sez. U, n. 07736/2020, Acierno, Rv. 657532–01, ha osservato come, nel rispetto dei principi elaborati dalla Corte di giustizia con le sentenze del 27 gennaio 2000, in causa C-8/1998 e del 20 aprile 2016, in causa C-366/2013, la clausola di proroga della giurisdizione, contenuta nel contratto da cui è sorto un credito oggetto di successiva cessione, continui ad essere efficace tra le parti originarie.

Proseguendo nell’analisi, la S.C. rilevando come il dibattito giurisprudenziale abbia riguardato quasi esclusivamente la posizione del cessionario, in quanto estraneo al rapporto contrattuale originario, ha affermato che la clausola di proroga della giurisdizione è applicabile anche al cessionario, il quale sia succeduto nella posizione del creditore cedente verso il debitore ceduto, atteso che quest’ultimo non può trovarsi, in virtù della cessione, in una posizione diversa da quella che aveva rispetto al cedente, salva la diversa e alternativa pattuizione con cui il ceduto, in sede di adesione alla cessione, abbia concordato con il cessionario di attribuire la competenza giurisdizionale ad altra autorità giudiziaria. La S.C. ha avuto, poi cura di precisare che la legittimazione a far valere l’inoperatività della clausola originaria spetta unicamente al cessionario e non al ceduto, che può opporre al primo soltanto le eccezioni opponibili al cedente.

Da ultimo è stata affrontata l'ulteriore questione, in tema di cessione del contratto, della permanenza o meno dell'efficacia del patto sulla giurisdizione tra le parti originarie. Sez. U, n. 03125/2021, Acierno, Rv. 660357-01, pronunciandosi in una controversia rientrante nella vigenza del Regolamento n. 1215 del 2012 (art. 25), ha chiarito che la clausola di proroga della giurisdizione contenuta in un contratto oggetto di cessione non può essere invocata nella controversia intervenuta successivamente a tale modifica tra le parti originarie, dal momento che una di esse, non essendo più parte contraente, è libera dall’impegno contrattuale in precedenza assunto.

La fattispecie riguardava un’azione risarcitoria proposta, nei confronti di un ente pubblico svedese, da una società italiana aggiudicataria di un appalto da realizzare in Svezia, la quale aveva ceduto i relativi contratti di appalto ad una società svedese, prestando in favore di quest’ultima garanzia per l’esatto adempimento e rilasciando controgaranzia in favore di un istituto di credito italiano, successivamente escusso da quest’ultima, a seguito della asseritamente illegittima risoluzione dei contratti da parte dell’ente pubblico. La S.C., attribuendo all’azione una natura extracontrattuale, in assenza di vincolo contrattuale attuale tra le parti del giudizio, ha rilevato che il danno, pur generatosi in Svezia, si era consumato nei confronti della ricorrente esclusivamente in Italia con l’escussione della controgaranzia da parte di Unicredit, ciò consentendo all’attrice di scegliere tra i due fori, posti in posizione di alternatività e di pari ordinazione.

Con riferimento, invece, alla deroga della giurisdizione in favore di arbitri stranieri, Sez. U, n. 36374/2021, Cirillo, Rv. 662927-01, si è pronunciata in tema di arbitrato, affermando che, ai fini dell’accertamento della validità ed efficacia della clausola compromissoria che deroga la giurisdizione in favore di arbitri stranieri, occorre preliminarmente stabilire quali siano le norme che il giudice deve applicare, e quindi se tale esame debba essere condotto secondo la legge italiana ovvero secondo la legge di un altro Stato. La S.C., nella specie, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in favore dell’arbitrato estero, in quanto il contratto era stato sottoposto per volontà delle parti alle leggi della Repubblica ceca, sicché la questione dell’assoggettabilità alla doppia firma della clausola derogatoria della giurisdizione, inserita in un contratto per adesione, non poteva essere valutata ex art. 1341 c.c.

3. La litispendenza internazionale.

Un aspetto significativo della legge n. 218 del 1995, come sopra ricordato, è la rilevanza riconosciuta all’istituto della litispendenza all’estero, al fine di favorire le ragioni di economia processuale. L’art. 7 della legge ora citata, sulla base del nostro fondamentale principio processuale della domanda, dispone che la litispendenza deve essere eccepita e, se l’eccezione viene accolta, il giudice dovrà sospendere il processo al ricorrere delle seguenti due condizioni: la pendenza di una causa identica innanzi ad un giudice di uno stato straniero; la possibilità che la causa straniera produca effetti per l’ordinamento italiano.

Tale normativa si inserisce nel sistema Bruxelles I (artt. 21 e 23 Conv. Bruxelles; artt. 27 e 29 Regolamento Bruxelles I; artt. 29, 31, 32, e 33 Regolamento Bruxelles I bis) che si caratterizza per l’intento di conciliare la necessità di evitare conflitti di giurisdizione con quella di non restringere eccessivamente le possibilità di tutela giurisdizionale e si fonda sul principio di equivalenza delle giurisdizioni degli Stati membri, in vista di un’attenuazione delle concezioni fondate sulla sovranità in favore del valore del coordinamento delle sovranità.

L’anteriorità della pendenza della causa deve essere stabilita in relazione a quanto previsto da ciascuno degli ordinamenti interessati. La litispendenza è rimessa all’accertamento d’ufficio ove si realizzi tra giudici europei, mentre opera su eccezione di parte nel caso in cui l’altro giudice appartenga ad uno Stato terzo.

Il criterio di coordinamento è quello della prevenzione temporale ed è, dunque, competente il giudice adito per primo.

Se, tuttavia, uno dei giudici fonda la propria giurisdizione su un criterio esclusivo di giurisdizione, egli prevale anche se adito per secondo.

Il Regolamento di Bruxelles I bis, all’art. 31, ha introdotto, in aggiunta alle eccezioni al criterio di prevenzione già viste, anche la proroga di giurisdizione disponendo che, se uno dei giudici è adito in virtù di un accordo di proroga, deve prima accertare la propria competenza e, in caso positivo, decide la controversia.

Su questo profilo va segnalato l’arresto di Sez. U, n. 12865/2020, Perrino, Rv. 658084-02, nell’ipotesi in cui, esistendo una clausola di proroga della giurisdizione, siano promosse più cause in rapporto di litispendenza davanti a giudici di Stati diversi.

Nella specie, dovendosi applicare l’art. 27 della Convenzione di Lugano, firmata il 30 ottobre 2007 (approvata anche dalla Comunità europea con decisione del Consiglio 2009/430/CE del 27 novembre 2008), si è affermato che è il giudice preventivamente adito a dover verificare l’esistenza della clausola e, con essa, l’effettiva pattuizione di una competenza giurisdizionale esclusiva, mentre l’altro giudice, nell’attesa di tale statuizione, deve sospendere d’ufficio il proprio procedimento, non potendo adottare alcuna statuizione sulla competenza giurisdizionale. Deriva da tali postulati che, ove sia successivamente adito il giudice italiano, nel processo pendente davanti a quest’ultimo non è consentita neppure la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione.

L’art. 30 del Regolamento Bruxelles I, ha, poi, finalmente determinato il momento in cui viene determinato il giudice adito, che è quello del deposito della domanda o della sua notifica. L’art. 32 n. 2 del Regolamento Bruxelles I bis ha aggiunto l’obbligo di ogni autorità giurisdizionale di comunicare, ove richiesta da altra autorità, la data in cui è stata adita.

L’effetto della litispendenza è che il giudice prevenuto o secondario deve sospendere il giudizio in attesa che l’altro giudice accerti la propria giurisdizione. Se l’accertamento è positivo, il giudizio sospeso si estingue; in ipotesi contraria, prosegue.

In linea con il quadro generale fin qui esposto, Sez. U., n. 19665/2020, Acierno, Rv. 658927-01, nell’ipotesi di contemporanea pendenza, dinanzi a giudici di diversi paesi dell’Unione europea, di due giudizi di divorzio o separazione personale dei coniugi, ha chiarito come il giudice italiano che sia stato successivamente adito sia tenuto, ai sensi dell’art. 19 del Reg. (CE) n. 2201 del 2003, a sospendere il procedimento fino all’accertamento della competenza dell’autorità giurisdizionale preventivamente adita. Nel processo dinanzi a lui pendente, di conseguenza, è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione.

Sempre restando sul tema della separazione tra coniugi, da ultimo la S.C. ha effettuato sull’istituto della litispendenza un’ulteriore importante precisazione, chiarendo che l’ordinanza con cui il giudice successivamente adito sospende il processo, finché quello adito per primo non abbia affermato la propria giurisdizione, non involge alcuna questione di giurisdizione, risolvendosi piuttosto nella verifica dei presupposti di natura processuale inerenti all’identità delle cause e alla pendenza del giudizio instaurato preventivamente (Sez. U, n. 21767/2021, Valitutti, Rv. 661869-01).

La logica conseguenza di tale assunto è che avverso detto provvedimento deve essere esperito non già il regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c., bensì il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. Nella fattispecie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione avverso il provvedimento con cui il giudice italiano aveva sospeso il giudizio di separazione personale tra coniugi, con riguardo alla domanda di mantenimento dei figli minori, sul presupposto che quest’ultima fosse "sub judice" in altro processo, pendente in Scozia tra le stesse parti e avente ad oggetto la legittimità del trasferimento all’estero dei figli medesimi.

Ulteriori importanti arresti sul tema sono intervenuti nel corso dell’anno.

Ai fini della determinazione della pendenza di una lite innanzi al giudice dello Stato estero, secondo Sez. 6-2, n. 0957/2021, Giannaccari, Rv. 661204-02, è sufficiente al giudice nazionale riscontrare l'esistenza di un atto idoneo all'introduzione del giudizio innanzi al giudice straniero, secondo il diritto vigente nello Stato estero. L'art. 7, comma 2, della l. n. 218 cit. rimette, infatti, alla "lex loci" la determinazione della pendenza della causa e, in riferimento alla causa incardinata all’estero, è il giudice di quello Stato, e non quello italiano, a dover valutare l’esistenza di un atto introduttivo (lo "statement of claim"), il provvedimento giudiziario che ne ammette l’ingresso e l’eventuale notificazione, anche sotto il profilo della validità di quest’ultima, ai sensi dell’art. 10, par. a), della Convenzione dell’Aja sulle notifiche e comunicazioni all’estero degli atti giudiziari in materia civile.

Con la medesima pronuncia la S.C. ha fornito un’intepretazione dell’art. 7, comma 1, della l. n. 218 del 1995 che riconosce la massima espansione alla “ratio” ad essa sottesa, volta, come si è detto, a favorire l’economia dei giudizi e ad evitare conflitti tra giudicati.

La litispendenza, in tal senso, può essere dichiarata d’ufficio e la formulazione letterale della menzionata norma, "quando, nel corso del giudizio, sia eccepita la previa pendenza", deve essere intesa nel senso che la litispendenza deve essere dichiarata dal giudice, quando l’esistenza dei relativi presupposti emerga dagli elementi offerti dalle parti (Sez. 6-2, n. 09057/2021, Giannaccari, Rv. 661204-03).

Lo stesso arresto, inoltre, ha fornito l’occasione per chiarire che in tema di litispendenza o pregiudizialità internazionale, il regolamento di competenza è ammissibile, non solo, in relazione alle ipotesi di sospensione obbligatoria del processo, ma anche nei casi di sospensione facoltativa con l’indicazione di alcune significative differenze in ordine all’ambito della verifica giudiziale nelle due differenti ipotesi.

Mentre, infatti, nella sospensione obbligatoria, contemplata dall’art. 7, comma 1, della l. n. 218 del 1995, il giudice deve accertare che vi sia identità tra la causa pendente innanzi al giudice italiano e quella pendente innanzi al giudice straniero, viceversa, nell’ipotesi di sospensione facoltativa, disciplinata dall’art. 7, comma 3, della medesima l. n. 218, il sindacato della Corte di cassazione è circoscritto al controllo della completezza, correttezza e logicità delle argomentazioni sottese alla disposta sospensione, che, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, postula una mera valutazione, ad opera del giudice italiano, dell’idoneità del provvedimento straniero pregiudiziale alla produzione di effetti nell’ordinamento interno, senza poter invece investire l’opportunità della scelta (Sez. 6-2, n. 09057/2021, Giannaccari, Rv. 661204-01).

4. Azioni contrattuali e ambito di applicazione dei criteri stabiliti dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012.

Nell’ambito delle azioni contrattuali, ai fini dell’individuazione del momento determinante della giurisdizione, deve essere ricordato il principio espresso da Sez. U, n. 06280/2019, De Stefano, Rv. 652981–02, secondo cui le condizioni fattuali da valutare sono quelle esistenti al momento della proposizione domanda, come previsto nel nostro ordinamento dall’art. 5 c.p.c., e non quelle ravvisabili al tempo della conclusione del contratto per cui è causa. La pronuncia ha riconosciuto la validità del principio anche in caso di applicazione della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, ratificata dall’UE con decisione del Consiglio del 27 novembre 2008 ed entrata in vigore nei rapporti con la Confederazione elvetica il 1° gennaio 2011.

Con riferimento alla clausola di esclusiva del "forum rei sitae", Sez. U, n. 26654/2021, Rubino, Rv. 662278-01, in una controversia concernente diritti reali, ha affermato che il criterio di collegamento dettato dall’art. 24, comma 1, n. 1, del Regolamento UE n. 1215 del 2012, secondo cui sussiste la competenza esclusiva dei giudici dello Stato membro in cui è situato l’immobile, poiché preposto a tutela di interessi tutelati come prevalenti, non è suscettibile di deroga per ragioni di connessione ex art. 8, comma 4, dello stesso Regolamento, pur in presenza di una clausola di scelta convenzionale del foro o di proroga della giurisdizione ex art. 25. Ad avviso della S.C. i criteri di giurisdizione derivata sono destinati ad operare, consentendo lo spostamento, soltanto ove non si rientri nell’ambito di operatività di uno dei criteri di esclusiva, né il "forum rei sitae" può attrarre la causa connessa perché la clausola di scelta del foro prevale a sua volta sulla regola della connessione. Appare utile precisare che, nella specie, la S.C, ferma l’operatività della clausola di scelta del foro di altro Stato per la causa contrattuale, ha dichiarato la giurisdizione del giudice italiano limitatamente alla domanda di cancellazione dell’ipoteca volontaria iscritta sull’immobile sito nel territorio nazionale.

Passando alla disamina delle singole tipologie contrattuali Sez. U, n. 18299/2021, Scarpa, Rv. 661653-01, in linea con Sez. U, n. 00156/2020, Frasca, Rv. 656657-02, ha fornito un contributo chiarificatore in relazione ai differenti criteri di collegamento operanti per la compravendita e per la prestazione di servizi, decisamente utile, atteso che nella pratica commerciale molto spesso il limite tra le due figure negoziali è particolarmente sfumato. L’occasione, questa volta, è stata fornita da una controversia avente ad oggetto una domanda di risoluzione per inadempimento di un rapporto commerciale di lunga data avente ad oggetto l’acquisto su ordinazione di orologi e di gioielli, promossa da una società italiana nei confronti di altra avente sede ad Hong Kong. Partendo dalla premessa che le controversie contrattuali vanno ricondotte nell’ambito di applicazione dei criteri di cui all’art. 7 del Regolamento n. 1215 del 2012, (sul punto v. premesse di cui al paragrafo 1), la S.C. ricorda che, mentre il luogo di esecuzione dell’obbligazione nella compravendita è quello in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, viceversa, nel contratto di prestazione di servizi, esso si identifica con il luogo in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati.

Facendo leva, come chiede il nostro ordinamento all’art. 386 ter c.p.c., sulla “causa petendi” e sul “petitum”, ai fini della qualificazione del contratto in essere tra le parti per l’individuazione del giudice compente, la S.C. ha ritenuto, in linea con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia, la sussistenza di un negozio di compravendita. Nella fattispecie la società italiana inviava ordini di acquisto, che, poi, erano richiamati nelle fatture e i prodotti venivano realizzati su progetti “standard” forniti dalla società italiana. A tale proposito la S.C. ha ritenuto irrilevante la circostanza che i beni da consegnare dovessero essere prima fabbricati o prodotti, non avendo la parte acquirente mai provveduto alla fornitura dei materiali; ha ritenuto, altresì, privo di rilievo, sia che fossero stati posti dalla stessa requisiti relativi all’approvvigionamento, alla trasformazione e alla consegna della merce, sia il fatto che la società fornitrice fosse considerata responsabile della qualità e della conformità della merce al contratto.

Un’ulteriore importante precisazione con tale pronuncia è stata effettuata per l’individuazione del luogo di consegna nell’ipotesi di vendita a distanza.

Sulla scorta di precedenti arresti della Corte di Giustizia, la S.C. ha affermato che il luogo preliminarmente va individuato in base alle previsioni contrattuali. Ai fini di tale accertamento, il giudice è obbligato a tenere conto di tutti i termini, di tutte le clausole, quelli generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale

In mancanza di un’indicazione contrattuale, il luogo è quello della consegna materiale dei beni, attraverso il quale l’acquirente ha conseguito o avrebbe potuto conseguire il potere di disporre effettivamente di essi.

Sez. L, n. 12344/2021, Blasutto, Rv. 661198-01, in materia lavoristica ha costituito l’occasione per scandagliare ulteriormente il concetto di ordine pubblico internazionale. Secondo la S.C. va ricondotta nell’alveo delle obbligazioni contrattuali, ai sensi dell’art. 57 della l. n. 218 del 1995, la domanda con la quale il lavoratore chiede dichiararsi l’illegittimità del licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro, in relazione ad un rapporto di lavoro che sia sorto all’estero, che all’estero abbia avuto esecuzione e ivi si sia risolto. Nella specie, infatti, in entrambe le fasi del merito era stata accertata la natura subordinata di un rapporto di lavoro giornalistico svolto in Libia ed era stata esclusa l’applicazione della legge algerina.

Condividendo sotto questo profilo le conclusioni dei giudici di merito, la S.C. ha chiarito che, ai fini dell’individuazione della legge applicabile, è imprescindibile l’applicazione dell’art. 16 della l. n. 218 del 1995, secondo cui “la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico”. Ha, inoltre, precisato che la legge “ratione temporis” applicabile a tale controversia dev’essere individuata secondo le disposizioni della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva con l. n. 975 del 1984, cui l’art. 57 della legge citata fa rinvio, le quali consentono di escludere l’applicazione di una legge straniera che sia contraria all’ordine pubblico. Pur non avendo le parti, entrambe italiane, neanche optato nel contratto per l’applicazione della legge straniera, la verifica giudiziale aveva consentito di accertare che in Algeria, non solo, era inesistente la tutela del licenziamento per ragioni organizzative, ma anche quella che prevede una retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell’art. 36 Cost.

La nozione di “ordine pubblico”, che costituisce un limite all’applicazione della legge straniera, deve, secondo i giudici di legittimità, essere desunta dall’intero sistema delle tutele, comprensivo, sia di quello previsto dalla Costituzione (artt. 1, 4, 35), sia delle disposizioni sovranazionali, tra cui quelle previste dalla Carta di Nizza. In questo senso la pronuncia si allinea a quanto in precedenza affermato da Sez. L, n. 01302/2013, Amoroso, Rv. 624880-01.

5. Diritti del consumatore.

In materia dei diritti del consumatore, si ricorda il principio generale espresso da Sez. U, n. 06456/2020, Vincenti, Rv. 657210-01, secondo cui l’art. 18, comma 1, del Regolamento CE n. 1215 del 2012, nel prevedere che "l’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta davanti alle autorità giurisdizionali del luogo in cui è domiciliato il consumatore", non si limita ad individuare l’ordinamento munito di giurisdizione, ma identifica anche il giudice che, all’interno di esso, ha la competenza per la decisione della causa; tuttavia, essendo la locuzione "giudice del luogo" riferita alla giurisdizione dello Stato membro nel suo complesso ovvero indifferentemente inteso, è affidata esclusivamente alla "lex fori" la disciplina della proposizione e del rilievo del difetto di competenza territoriale del giudice adito, giacché la violazione delle norme di competenza del citato Regolamento rileva soltanto se si traduca nel citare il convenuto davanti al giudice di uno Stato membro diverso da quello dovuto.

Interessante la riconduzione da parte di Sez. U, n. 06001/2021, Di Marzio M., Rv. 660833-01 dei rapporti tra avvocato e cliente in tale ambito. La S.C. in proposito ha affermato che, se, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 206 del 2005, il cliente riveste la qualità di consumatore, tuttavia, ciò non comporta, ai fini dell’individuazione del giudice al quale spetta la giurisdizione sulle relative controversie, l’automatica applicabilità della regola contenuta nell’art. 16 della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007 che individua il giudice della causa promossa contro il consumatore, in quello dello Stato in cui il consumatore è domiciliato. Il precedente art. 15 distingue, infatti, tra contratti con consumatori che ricadono "sic e simpliciter" nell’ambito di applicazione della convenzione (vendita a rate di beni mobili o prestiti connessi con finanziamenti per tali vendite) e contratti con consumatori per i quali è richiesto che il professionista svolga la sua attività nello Stato vincolato in cui è domiciliato il consumatore oppure che tale attività sia diretta, con qualsiasi mezzo, verso di esso, vale a dire che sia offerta alla potenziale clientela di quello Stato. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non sia dedotto che l’avvocato è abilitato all’esercizio della professione nello Stato ove il cliente ha il proprio domicilio, residua l’applicabilità delle regole generali di cui agli artt. 2 e 5 della citata Convenzione, in base alle quali, ferma la competenza giurisdizionale del giudice dello Stato vincolato in cui la persona convenuta è domiciliata, colui che agisce nella materia contrattuale ha la facoltà di citare il convenuto anche davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita.

6. Insolvenza e procedure fallimentari: i criteri di collegamento.

In tema di insolvenza e di procedure fallimentari Sez. U, n. 25163/2021, Terrusi, Rv. 662249–01, nel caso in cui sia stata avanzata da una curatela fallimentare la domanda principale di simulazione assoluta di un contratto istitutivo di “trust” stipulato dal fallito, trova applicazione il Reg. UE n. 1215/2012 sulla giurisdizione generale in materia civile e commerciale. Non si applica, viceversa, il Reg. CE n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, perché solo le azioni che derivano direttamente da queste ultime e che vi si inseriscono strettamente sono riservate ai giudici dello stato membro in cui è stata aperta la procedura.

In tema, viceversa, di insolvenza transfrontaliera, in base al Reg. UE n. 848 del 2015 la competenza a dichiarare l’insolvenza, secondo Sez. U, n. 10356/2021, Terrusi, Rv. 661016–01 si radica in capo al giudice dello Stato membro in cui si trova il centro degli interessi principali dell’impresa, cd. COMI (“centre of main interests”), venendo in rilievo, fino a prova contraria, la presunzione di coincidenza di quest’ultimo con la sede legale, qualora non sia stata trasferita in altro Paese dell’Unione nei tre mesi precedenti la domanda di apertura della procedura di insolvenza.

7. Illeciti civili.

Sul fronte delle domande risarcitorie Sez. U, n. 03125 /2021, Acierno, Rv. 660357-02, ha ulteriormente consolidato l’orientamento secondo cui, quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale, trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire. Alla luce di tale criterio e della chiara e costante interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno (nello stesso senso v. Sez. U, n. 28675/2020, De Stefano, Rv. 659871–04).

In caso di domanda che abbia per oggetto un illecito extracontrattuale fondato su asserite condotte diffamatore diffuse tramite internet, secondo Sez. U, n. 40548/2021, Carrato, Rv. 663121–01, in applicazione del criterio di individuazione fissato dall’art. 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire, sussiste la giurisdizione del giudice italiano qualora le pubblicazioni potenzialmente lesive siano risultate comunque accessibili e reperibili anche in Italia, senza che rilevi la lingua usata per le comunicazioni, incidendo sul criterio di collegamento solo il luogo di diffusione e non quello di pubblicazione.

È stata riconosciuta da Sez. U, n. 20819/2021, Tricomi I., Rv. 661868-01 la natura extracontrattuale e, quindi, l’applicabilità del citato art. 7 del Reg. n. 1215 del 2012 alla domanda proposta da una organizzazione sindacale, ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n.150 del 2011, diretta ad accertare il carattere discriminatorio della clausola di un contratto di lavoro tendente ad inibire ogni azione sindacale del lavoratore e ogni rapporto del datore di lavoro con organizzazioni sindacali. La suddetta clausola, ad avviso della S.C., oltre a declinarsi nell’ambito dell’autonomia negoziale e del rapporto di lavoro, ricade anche sull’autonomia collettiva e le relazioni sindacali, incidendo sul diritto di libertà sindacale sia individuale che collettiva. Da tale assunto deriva che, ai fini dell’individuazione del giudice avente la competenza giurisdizionale sulla relativa controversia, non va applicato l’art. 21 del Reg. (UE) n. 1215 del 2012 che presuppone la proposizione di un’azione relativa ad un contratto individuale di lavoro.

8. La giurisdizione nelle successioni internazionali. Cause successorie.

Nel corso dell’anno deve essere segnalato un importante arresto in tema di successioni transnazionali proveniente da Sez. U, n. 02867/2021, Scarpa, Rv. 660310-02. Preliminarmente la pronuncia ha chiarito che, al fine di individuare quale sia la norma di conflitto, prevista dalla l. n. 218 del 1995, applicabile occorre qualificare la fattispecie sottoposta al suo esame secondo i canoni propri dell’ordinamento italiano, cui tale norma appartiene. Nella specie, essendo deceduto in Italia un cittadino inglese, si imponeva un difficile coordinamento tra l’art. 13 della legge sopra richiamata, che regola il meccanismo del rinvio, ovvero delle ipotesi in cui la citata legge richiama l’applicazione della legge di diritto internazionale privato di un altro Stato e l’art. 46 della stessa legge che individua i diversi criteri di collegamento in materia successoria, ponendo in via generale i principi di unitarietà e universalità della successione. La difficoltà nella controversia si poneva, in quanto la successione doveva essere regolata dall’art. 46, ma la “conflict law” non codificata valevole per i beni immobili rinviava alla “lex rei sitae”, ai sensi dell’art. 13. Tanto più arduo il conflitto, in quanto il “de cuius” non aveva esercitato l’opzione espressa nel testamento di applicazione della legge dello Stato di residenza. La S.C. nel coordinamento delle norme di conflitto ora richiamate (art. 13 e 46 della l. n. 218 del 1995), ha preliminarmente individuato la “lex successionis” nella legge inglese, destinata a trattenere la regolamentazione dei beni mobili e applicato il cd. rinvio indietro della “lex rei sitae” per la disciplina dei beni immobili, superando di fatto il principio di unitarietà sopra enunciato. Di rilievo la circostanza che sia stato considerato in linea con l’ordine pubblico internazionale l’effetto della cd. scissione della disciplina applicabile tra i beni mobili e i beni immobili.

L’applicazione dell’enunciato sistema dualista, pertanto, determina ad avviso della S.C. l’apertura di due successioni e la formazione di due masse, ciascuna delle quali soggetta a differenti regole di vocazione e delazione e dunque a differenti leggi alla cui stregua verificare la validità e l’efficacia del titolo successorio (quanto a presupposti, cause, modi ed effetti della revoca del testamento), individuare gli eredi, determinare l’entità delle quote e le modalità di accettazione e di pubblicità, e apprestare l’eventuale tutela dei legittimari.

In relazione al differente profilo riguardante il luogo dell’apertura della successione Sez. U, n. 01605/2020, Oricchio, Rv. n. 656794–04, a proposito delle controversie relative ad azione di petizione ereditaria e domande connesse, ha messo in evidenza come la circostanza che esso sia in Italia assume, rispetto a queste ultime, rilevanza decisiva al fine dell’affermazione della giurisdizione del giudice italiano. Nella specie contestualmente all’azione di petizione di eredità esperita nei confronti del coerede era stata esperita un’azione di rendiconto rivolta verso più professionisti dei quali il "de cuius" si era avvalso, in vita, per la gestione del proprio patrimonio. La S.C. ha radicato la giurisdizione in capo all’autorità giudiziaria italiana anche rispetto all’unico professionista straniero coinvolto. A tale conclusione è giunta sulla base di due ordini di motivi: da un lato, il riferimento, all’art. 6 della Convenzione di Lugano (l. n. 198 del 1992), in presenza dei presupposti che rendono necessario un unico giudizio (vincolo di connessione delle domande, interesse a istruttoria e pronuncia unica), trattandosi di più soggetti gestori chiamati al rendiconto, stante la funzione unitariamente ricostruttiva di un unitario asse ereditario, senza che rilevi la natura disgiuntiva dell’incarico; dall’altro, il carattere pregiudiziale della causa di rendiconto rispetto a quella principale di petizione di eredità, spettante allo stesso giudice ai sensi degli artt. 1 della Convenzione di Lugano e 50 della l. n. 218 del 1995, con conseguente attrazione della prima nell’orbita della seconda.

9. Delibazione di sentenze straniere.

In materia anche quest’anno numerose sono state le pronunce.

Sez. U, n. 09006/2021, Acierno, Rv. 660971-03 ha chiarito che, in sede di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale estero ex art. 67 della l. n. 218 del 1995, la verifica della compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale deve riguardare esclusivamente gli effetti che l’atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non anche la conformità alla legge interna di quella straniera posta a base della decisione, né è consentito alcun sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata, essendo escluso il controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento.

Un’importante precisazione è stata fatta da Sez. 1, n. 25064/2021, Di Marzio M.,Rv. 662480-01, secondo cui il riconoscimento di una sentenza straniera, ai sensi dell’art. 64 della legge n. 218 del 1995, non può essere negato per il solo fatto che essa sia stata preceduta da un provvedimento cautelare ritenuto non conforme all’ordine pubblico interno, a meno che il giudice italiano non spieghi il motivo per il quale la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento cautelare si rifletta sulla sentenza resa in esito al processo straniero. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della corte di appello che aveva negato il riconoscimento di una sentenza resa secondo il diritto inglese solo perché nel corso del processo il giudice straniero aveva pronunciato una "freezing injunction" assistita da un "disclosure order", provvedimenti che, peraltro, secondo la S.C., non producono effetti contrari all’ordine pubblico processuale italiano).

Sotto il profilo processuale Sez. 1, n. 21233/2021, Di Marzio M., Rv. 662182-01 ha, poi, chiarito che l’azione volta all’accertamento negativo dei presupposti per l’attuazione di una sentenza straniera deve essere proposta secondo il rito sommario di cui all’articolo 30 d.lgs. n. 150 del 2011, richiamato l’articolo 67, comma 2, l. 218 del 1995, anche quando si tratta di decisioni provenienti da Stati appartenenti all’UE, poiché la disciplina contenuta nel Regolamento CE n. 44 del 2001 (vigente "ratione temporis") si applica solo alle azioni promosse per ottenere il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento interno delle menzionate decisioni.

La medesima pronuncia (Sez. 1, n. 21233/2021, Di Marzio M., Rv. 662182-02) ha precisato, inoltre, che non è contraria all’ordine pubblico italiano la statuizione adottata in un ordinamento che preveda il pagamento di un tributo quale condizione di ammissibilità della domanda giudiziaria, purché l’assoggettamento a tale onere non risulti estraneo alla finalità di buon funzionamento del processo civile, precludendo o ostacolando gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale.

  • giurisdizione minorile
  • competenza per materia
  • responsabilità civile
  • competenza giurisdizionale
  • competenza territoriale

CAPITOLO V

LA COMPETENZA

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 La competenza per materia. - 1.2 Le controversie di competenza del giudice di pace. - 1.3 Le controversie di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa. - 1.4 Le controversie di competenza del tribunale per i minorenni. - 1.5 Le controversie di competenza della Corte d’Appello. - 2 La competenza per valore. - 3 La competenza per territorio. - 3.1 Il foro facoltativo per le cause relative ai diritti di obbligazione. - 3.2 Il foro delle cause ereditarie e di divisione. - 3.3 Il foro delle cause di locazione. - 3.4 Il foro delle cause in materia di proprietà industriale. - 3.5 Il foro delle cause in materia di condotte discriminatorie. - 3.6 Il foro delle cause in materia di procedimenti sulla responsabilità genitoriale. - 3.7 Il foro del consumatore. - 3.8 La convenzione di deroga alla competenza per territorio. - 3.9 L’eccezione di incompetenza per territorio. - 4 La competenza funzionale. - 5 Il regolamento di competenza. - 5.1 Il procedimento.

1. La competenza per materia.

La competenza può definirsi come quella parte di giurisdizione che spetta in concreto ad ogni singolo organo giurisdizionale secondo i criteri determinati dal legislatore. La ripartizione (verticale) tra giudici di tipo diverso avviene, innanzitutto, sulla base del criterio della materia, vale a dire con riferimento alla natura o al tipo del diritto di cui si controverte (giudice di pace, tribunale, tribunale per i minorenni, ecc.). Si tratta di un criterio che non può essere derogato da accordi preventivi e diretti delle parti e la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio dal giudice, sia pure non oltre la prima udienza di trattazione.

1.2. Le controversie di competenza del giudice di pace.

Sez. 6-2, n. 36967/2021, Tedesco, Rv. 663086-01 ha affermato che le controversie che vedono messo in discussione il diritto del condomino ad un determinato uso della cosa comune (nella specie, la realizzazione di un cancello scorrevole nell’androne condominiale ed in adiacenza a tre appartamenti di proprietà di altro condomino, al fine di delimitare la proprietà comune da quella privata), non rientrano nella competenza del giudice di pace ex art. 7 c.p.c., ma sono soggette agli ordinari criteri della competenza per valore, atteso che in esse non si controverte sui limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione, relativi al modo più conveniente ed opportuno con cui detta facoltà debba esercitarsi, venendo piuttosto in gioco un vero e proprio conflitto tra proprietà individuale e proprietà condominiale. La S.C. ha pertanto ritenuto che in tale ipotesi viene in rilievo il principio secondo il quale la competenza per materia si determina, ai sensi dell’art. 10 c.p.c. (dettato per la competenza per valore ma esprimente un principio generale e, come tale, applicabile anche in riferimento agli altri tipi di competenza), con criterio a priori, secondo la prospettazione fornita dall’attore nella domanda.

Ad analoga conclusione la Corte è pervenuta con riguardo all’ipotesi di domanda volta all’eliminazione di una cancellata installata da un condomino su un pianerottolo comune. Secondo Sez. 6-2, n. 35818/2021, Falaschi, Rv. 663072-01 tale domanda attiene a controversia a tutela dell’essenza del diritto all’uso di un bene comune e della libertà di esercizio di tale uso e, pertanto, non annoverabile tra quelle relative “alla misura e modalità di uso dei servizi di condominio di case”, devolute alla competenza del giudice di pace dall’art. 7, comma 3, n. 2), c.p.c. e pertanto essa appartiene alla competenza del tribunale.

1.3. Le controversie di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa.

Molteplici sono le pronunce con cui la Corte di cassazione ha ulteriormente chiarito l’estensione della competenza per materia di tali sezioni individuata dal legislatore nelle controversie relative alle partecipazioni sociali o ai “diritti inerenti” di cui all’art. 3, commi 2, lett. b), e 3, del d.lgs. n. 168 del 2003, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. d), del d.l. n. 1 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 27 del 2012.

Si è così precisato che l’uso della preposizione disgiuntiva “o” che precede il riferimento alle controversie relative “ai diritti inerenti” di cui all’art. 3, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 168 del 2003 si riferisce sia ai diritti derivanti dai negozi di trasferimento delle partecipazioni sociali, sia a quelli nascenti da ogni altro negozio che le abbia ad oggetto, sicché nell’ipotesi in cui il credito per il corrispettivo della cessione di una partecipazione sociale sia stato ceduto dal creditore ad un terzo, la controversia da costui proposta per l’adempimento contro il debitore ceduto soggiace alla competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa (Sez. 6-3, n. 24992/2021, Cricenti, Rv. 662437-01).

Inoltre, Sez. 6-2, n. 20365/2021, Dongiacomo, Rv. 662243-01 ha affermato che l’art. 3, comma 2, lett. b del citato d.lgs. n. 168 del 2003 si riferisce anche ai diritti afferenti al pagamento del prezzo di cessione, sicché anche in questo caso la controversia ad esso relativa è riconducibile alla competenza per materia della sezione specializzata in materia d’impresa. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, avente ad oggetto il pagamento di parte del prezzo di cessione della quota di partecipazioni sociali, fosse di competenza della sezione specializzata in materia di impresa, in quanto afferente anche a diritti sociali, posto che le parti avevano condizionato il potere di vendita delle quote sociali, di modifica statutaria e di delibera dell’aumento del capitale sociale, all’integrale pagamento del prezzo della cessione (in senso conforme si era già espressa Sez. 6-3, n. 21910/2014, Frasca, Rv. 632987-01).

Spettano alla competenza della sezione specializzata anche le controversie in materia somme pretese dalla cooperativa nei confronti del socio a titolo di contribuzione per sostenere i costi di gestione dell’ente. Infatti – come statuito da Sez. 6-1, n. 12949/2021, Marulli, Rv. 661445-01) - il socio di una cooperativa edilizia è parte di un duplice rapporto, l’uno di carattere associativo, e l’altro che deriva dal contratto bilaterale di scambio tra il pagamento degli oneri per la sua realizzazione e l’assegnazione dell’alloggio; per le somme pretese dalla cooperativa a titolo di contribuzione per sostenere i costi di gestione dell’ente, l’obbligo dei soci non si connette al rapporto di scambio, bensì a quello associativo in cui trova fonte, sicché, ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. a, del d.lgs. n. 168 del 2003, la competenza sulle relative controversie spetta alla sezione specializzata in materia di imprese del tribunale.

Sez. 6-1, n. 06523/2021, Terrusi, Rv. 660922-01 ha altresì affermato che la competenza della sezione specializzata per le imprese, estesa alle controversie di cui all’art. 33, comma 2, della legge n. 287 del 1990 ed a quelle relative alla violazione della normativa antitrust dell’Unione europea, attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall’Abi, contenente disposizioni contrastanti con l’art. 2, comma 2, lett. a), della legge n. 287 del 1990, in quanto l’azione diretta a dichiarare l’invalidità del contratto a valle implica l’accertamento della nullità dell’intesa vietata.

Non appartiene, invece, alla competenza della sezione specializzata, ma alla sezione ordinaria, la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno derivato dalla diffusione non autorizzata dell’altrui immagine allorché il diritto leso non sia costituito né dall’immagine in sé, né dalla possibilità di trarre un utile economico dal suo sfruttamento, bensì alla riservatezza del soggetto interessato, dal momento che in tal caso non viene in rilievo una controversia concernente la proprietà intellettuale (Sez. 1, n. 36754/2021, Vella, Rv. 663287-01).

A tale conclusione la Corte è pervenuta in continuità con la giurisprudenza che esclude la competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa nel caso di richiesta risarcitoria riconducibile alla concorrenza sleale cd. pura, nella quale cioè non possa ravvisarsi un’interferenza – neppure indiretta – con l’esercizio di diritti di proprietà industriale o del diritto d’autore, in quanto la prospettazione della parte è rivolta a contestare non già la pacifica appartenenza dell’opera, ma esclusivamente il suo utilizzo.

1.4. Le controversie di competenza del tribunale per i minorenni.

Nel corso dell’anno la S.C. ha ribadito che l’art. 38 disp. att. c.c., comma 1 (come modificato dalla l. n. 219 del 2012, art. 3, comma 1, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dal 1 gennaio 2013) dev’essere interpretato nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.p.c., la competenza è attribuita al tribunale per i minorenni, a meno che non sia pendente un giudizio di separazione o di divorzio o un giudizio di cui all’art. 316 c.c. Pertanto, ove le azioni volte ad ottenere la pronuncia dei predetti provvedimenti siano proposte successivamente a queste ultime domande, o anche congiuntamente, la relativa competenza spetta, fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d’appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l’impugnazione o sia stato interposto appello. Tale competenza, avente carattere derogatorio rispetto a quella spettante in via ordinaria al giudice minorile, trova giustificazione nella connessione oggettiva e soggettiva esistente tra le predette domande, che determina l’attrazione di quelle relative ai provvedimenti ablativi e limitativi alla competenza del giudice investito della controversia inerente alla crisi del nucleo familiare, in tal modo soddisfacendosi l’esigenza di concentrazione delle tutele, volta ad evitare che in riferimento ad un’identica situazione conflittuale possano essere aditi organi giudiziali diversi ed assunte decisioni contrastanti ed incompatibili, e scoraggiandosi anche un’eventuale utilizzazione a fini dilatori o di disturbo delle azioni previste a tutela degl’interessi dei figli minori.

Per effetto di tale ripartizione, la competenza in ordine ai provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale resta disciplinata dal criterio della prevenzione, nel senso che al tribunale per i minorenni restano attribuiti i soli procedimenti promossi senza che sia pendente un giudizio di separazione o divorzio o ex art. 316 c.c. o anteriormente alla proposizione della relativa domanda (la quale, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., non può comportarne la sottrazione al giudice competente), mentre, laddove il giudizio concernente la crisi familiare sia stato promosso anteriormente o contestualmente, la competenza resta unitariamente attribuita al giudice cui spetta la cognizione della domanda di separazione, divorzio o ex art. 316 c.c. (Sez. 6-1, n. 03490/2021, Iofrida, Rv. 660582-01; Sez. 1, n. 16569/2021, Tricomi L. Rv. 661813-02).

Si è pertanto precisato che la proposizione, ex art. 316 c.c., avanti al tribunale ordinario da parte di uno dei genitori di una domanda per l’affidamento esclusivo di un minore, ai sensi degli artt. 337 quater e 316 bis c.c., nella pendenza avanti al tribunale per i minorenni di un procedimento per la decadenza dalla responsabilità genitoriale dell’altro genitore, pur escludendo l’attrazione al tribunale ordinario del procedimento de potestate, in quanto anteriormente instaurato, non determina l’attrazione della competenza sul procedimento per l’affidamento del figlio al tribunale minorile, senza che rilevi la circostanza che, nella specie, l’oggetto della domanda, proposta ai sensi dell’art. 316 c.c., sia costituito unicamente dall’adozione dei provvedimenti nell’interesse della prole, poiché il carattere tassativo delle competenze attribuite al tribunale per i minorenni e la mancata previsione di una vis attractiva in favore dello stesso, impongono di ritenere che il giudizio successivamente promosso dinanzi al tribunale ordinario resti attribuito alla sua competenza, ferma restando la necessità di tener conto nell’adozione dei provvedimenti nell’interesse della prole delle determinazioni assunte dal giudice specializzato (Sez. 6-1, n. 16340/2021, Mercolino, Rv. 661507-01).

1.5. Le controversie di competenza della Corte d’Appello.

Per quanto concerne la competenza per materia attribuita alla Corte d’Appello in unico grado, merita innanzitutto segnalare che Sez. U, n. 20691/2021, Lamorgese, Rv. 661853-01 hanno affermato che in tema di espropriazione per pubblica utilità, sono devolute al giudice ordinario e alla Corte di appello, in unico grado, le controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, data la natura intrinsecamente indennitaria del credito vantato dal proprietario del bene, globalmente inteso dal legislatore come un "unicum" non scomponibile nelle diverse voci, con la conseguenza che l’attribuzione di una somma forfettariamente determinata a titolo risarcitorio (pari all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, a norma del comma 3 dell’art. 42 bis cit.) si riferisce unicamente ad uno degli elementi (il mancato godimento del bene per essere il cespite occupato senza titolo dall’amministrazione) rilevanti per la determinazione dell’indennizzo in favore del proprietario, il quale non fa valere una duplice legittimazione, cioè di soggetto avente titolo ora a un «indennizzo» (quando agisce per il pregiudizio patrimoniale, e non patrimoniale, conseguente alla perdita della proprietà del bene), ora a un «risarcimento» di un danno scaturito da un comportamento originariamente contra ius dell’amministrazione.

In materia di imposizione di servitù nel corso della procedura espropriativa Sez. 6-1, n. 03891/2021, Mercolino, Rv. 660740-01 ha affermato che l’applicabilità del procedimento previsto dall’art. 21 del d.P.R. n. 327 del 2001 non dipende dalla circostanza che la realizzazione dell’opera pubblica comporti l’ablazione del diritto di proprietà sul fondo, anziché l’imposizione di un vincolo suscettibile di menomare le facoltà di godimento e disposizione del proprietario, bensì dal coinvolgimento di quest’ultimo nel procedimento espropriativo, reso possibile dalla diretta incidenza del vincolo sul bene che, consentendo d’identificare immediatamente l’avente diritto all’indennità, impone all’espropriante di procedere alla determinazione della stessa in via provvisoria, dando in tal modo l’avvio al subprocedimento disciplinato dagli artt. 20 e ss. del d.P.R. n. 327 del 2001, ed è proprio la previsione di una precedente fase amministrativa di liquidazione a giustificare l’assoggettamento della domanda giudiziale di determinazione dell’indennità alla disciplina speciale dettata dall’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 e dall’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, imperniata sull’attribuzione della competenza alla corte d’appello in unico grado e sull’applicabilità del rito sommario di cognizione.

2. La competenza per valore.

Il valore della controversia costituisce l’ulteriore criterio secondo il quale è ripartita tra giudici di tipo diverso la competenza. Esso fa riferimento al valore economico dell’oggetto della causa e opera in via generale allorché non esistano regole che stabiliscano diversamente con riguardo alla materia. Talvolta il valore viene in rilievo congiuntamente al criterio della materia, integrandolo (si veda ad esempio, l’art. 7 c.p.c. con riguardo alla competenza del giudice di pace). Si tratta, anche in questo caso, di un’ipotesi di competenza inderogabile, il cui difetto può essere rilevato d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

Le modalità attraverso cui il valore deve essere quantificato sono indicate negli artt. 10 e ss. c.p.c.

Sez. 2, n. 19250/2021, Picaroni, Rv. 662012-01 ha precisato che la domanda di impugnazione di delibera assembleare introdotta dal singolo condomino, anche ai fini della stima del valore della causa, non può intendersi ristretta all’accertamento della validità del rapporto parziale che lega l’attore al condominio e dunque al solo importo contestato, ma si estende necessariamente alla validità dell’intera deliberazione e dunque all’intero ammontare della spesa, giacché l’effetto caducatorio dell’impugnata deliberazione dell’assemblea condominiale, derivante dalla sentenza con la quale ne viene dichiarata la nullità o l’annullamento, opera nei confronti di tutti i condomini, anche se non abbiano partecipato direttamente al giudizio promosso da uno o da alcuni di loro.

Con specifico riguardo alla liquidazione delle spese giudiziali Sez. 6-2, n. 09059/2021, Picaroni, Rv. 661118-02 ha affermato che il limite del valore della domanda, sancito dall’art. 91, comma 4, c.p.c., opera soltanto per le controversie devolute alla giurisdizione equitativa del giudice di pace e non si applica anche alle cause di opposizione a ordinanza-ingiunzione o a verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, le quali, pur se di competenza del giudice di pace e di valore non superiore ai millecento euro, esigono il giudizio secondo diritto, che giustifica la difesa tecnica e fa apparire ragionevole, sul piano costituzionale, l’esclusione del limite di liquidazione.

Nell’ipotesi di proposizione cumulativa di più domande, Sez. U, n. 36897/2021, Scrima, Rv. 662887-02 l’affermazione dell’attore di limitare l’ammontare della domanda nei limiti della competenza per valore del giudice adito ha il duplice effetto di radicare la competenza innanzi al predetto giudice e di delimitare in tali limiti l’importo accertabile dalla sentenza, con conseguente nullità della pronuncia per l’ipotesi di superamento del valore determinato per effetto della clausola di contenimento.

Sez. 2, n. 23434/2021, Varrone, Rv. 662145-01 ha riaffermato il principio secondo cui in tema di determinazione della competenza per valore, nell’ipotesi in cui una domanda di risarcimento danni venga proposta avanti al giudice di pace con la richiesta della condanna della controparte al pagamento di un importo indicato in una somma inferiore (o pari) al limite della giurisdizione equitativa del giudice di pace ovvero della somma maggiore o minore che risulti dovuta all’esito del giudizio, la formulazione di questa seconda richiesta alternativa non può essere considerata - agli effetti dell’art. 112 c.p.c. - come meramente di stile, in quanto essa (come altre consimili), lungi dall’avere un contenuto meramente formale, manifesta la ragionevole incertezza della parte sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi e ha lo scopo di consentire al giudice di provvedere alla giusta liquidazione del danno senza essere vincolato all’ammontare della somma determinata che venga indicata nelle conclusioni specifiche. Ne discende che la suddetta richiesta alternativa si risolve in una mancanza di indicazione della somma domandata, con la conseguenza che la domanda, ai sensi della seconda proposizione dell’art. 14 c.p.c., si deve presumere di valore eguale alla competenza del giudice adito e che, ai sensi del comma 3 della stessa norma, in difetto di contestazione da parte del convenuto del valore così presunto, quest’ultimo rimane "fissato, anche agli effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito", cioè nel massimo della competenza per valore del giudice di pace sulla tipologia di domande fra cui rientra quella proposta (in senso conforme v. Sez. 3, n. 15698/2006, Frasca, Rv. 591242-01).

3. La competenza per territorio.

Il riparto della competenza per territorio attiene alla distribuzione (orizzontale) delle controversie tra vari giudici dello stesso livello e del medesimo tipo presenti sul territorio. Il criterio utilizzato in linea di principio dal legislatore per determinare tale competenza è quello soggettivo, in quanto fa riferimento ai soggetti della controversia, privilegiando la figura del convenuto e individuando come foro generale quello della sua residenza o domicilio o, in subordine, quello della dimora (art. 18 c.p.c.), ovvero quello della sede nel caso in cui convenuta sia una persona giuridica (art. 19 c.p.c.).

Al riguardo Sez. 6-3, n. 42116/2021, Cirillo F.M., Rv 663520-01 ha ribadito che l’elezione di domicilio compiuta ad hoc non può consentire di radicare la competenza per territorio in un luogo del tutto privo di qualsiasi aggancio con uno specifico atto o negozio giuridico dal momento che l’atto di elezione deve evidenziare un nesso di strumentalità necessaria. Tale conclusione (cui era pervenuta già Sez. 6-3, n. 15962/2018, Olivieri, non massimata) è coerente con quanto affermato da Sez. 6-3, n. 30141/2017, Vincenti, Rv. 648027-01, secondo cui l’elezione di domicilio “anomala” non è vincolante ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente.

Con riguardo alle controversie in materia di obbligazioni, l’art. 20 c.p.c. indica una pluralità di fori tra loro alternativi - oltre al giudice del foro generale, è competente anche quello del luogo dove l’obbligazione è sorta o quello in cui deve essere eseguita - lasciando all’attore la possibilità di scelta tra più giudici ugualmente competenti. Diversamente accade per i fori speciali che il legislatore individua per talune controversie (artt. 21 ss. c.p.c.), i quali prevalgono su quelli generali, escludendoli.

In base all’art. 28 c.p.c. la competenza per territorio può essere derogata su accordo (esplicito o implicito) delle parti, ad eccezione che per alcune materie dallo stesso previste per le quali essa è stabilita in modo inderogabile (competenza funzionale). Fuori di tali ultime ipotesi, ove il convenuto non abbia tempestivamente eccepito l’incompetenza del giudice adito, indicando altresì quello che ritiene competente, la competenza rimane radicata presso quel giudice. Nelle ipotesi di incompetenza funzionale, invece, essa è rilevabile anche d’ufficio, sia pure non oltre la prima udienza di trattazione (art. 38, comma 3 c.p.c.).

3.1. Il foro facoltativo per le cause relative ai diritti di obbligazione.

Con riguardo alle controversie relative a diritti di obbligazione, l’art. 20 c.p.c. individua quale giudice competente, oltre a quello indicato negli artt. 18 e 19, anche il giudice del luogo in cui l’obbligazione è sorta ovvero deve essere eseguita, spettando all’attore la facoltà di scegliere tra tali giudici.

Sez. 6-3, n. 33087/2021, Rossetti, Rv. 662965-02 ha affermato che per il combinato disposto degli articoli 20 c.p.c. e 1182 c.c., ai fini della determinazione della competenza per territorio, assume rilievo solo il luogo in cui avrebbe dovuto essere adempiuta l’obbligazione dedotta in giudizio al momento della scadenza. La successiva indicazione unilaterale da parte del creditore di un luogo diverso consente al debitore soltanto di pagare efficacemente nel luogo indicato, ma non incide sul criterio di collegamento previsto dall’art. 20. Ne consegue che il conferimento di una procura per il recupero dei crediti “anche mediante diretto incasso” non può determinare un esclusivo luogo di adempimento dell’obbligazione diverso da quello indicato dalla legge, se alla possibilità di pagamento al mandatario non si sia fatto riferimento nel contratto.

Con riguardo alle obbligazioni “portabili”, secondo Sez. 6-3, n. 04792/2021, Rossetti, Rv. 660674-01 se l’attore domanda la condanna al pagamento di una somma di denaro indicata come liquida ed esigibile, competente ratione loci è il giudice del domicilio del creditore, ex art. 1182, comma 3, c.c., senza che rilevi se all’esito del giudizio emerga l’illiquidità del credito o che il convenuto ne contesti l’esistenza o l’ammontare; ove il convenuto non neghi il proprio debito ma contesti che il credito sia "portabile", la questione della liquidità del credito andrà accertata dal giudice ai soli fini della competenza, in base allo stato degli atti ex art. 38, comma 4, c.p.c., senza nessuna incidenza sul merito della causa. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la competenza per territorio del luogo del domicilio dell’attore che, sulla base di due ricognizioni di debito, aveva richiesto il pagamento di somme di denaro, di cui almeno una certa e determinata.

Sez. 2, n. 06190/2021, Varrone, Rv. 660785-01 ha riaffermato il principio secondo cui in tema di competenza per territorio, il criterio di cui all’art. 1182, comma 3 c.c., non trova applicazione rispetto all’obbligazione di restituzione di ciò che sia stato pagato indebitamente, quando la stessa discenda da una contestazione relativamente al rapporto cui è collegata e il relativo credito sia, pertanto, allo stato, illiquido (in senso conforme si era già espressa Sez. 1, n. 8203/2007, San Giorgio, Rv. 596001-01).

Riguardo al compenso per prestazioni professionali, Sez. 6-2, n. 34944/2021, Dongiacomo, Rv. 662901-02 ha ritenuto che ove non sia convenzionalmente stabilito, esso costituisce un debito pecuniario illiquido, da determinare secondo la tariffa professionale e, pertanto, il foro facoltativo del luogo ove deve eseguirsi l’obbligazione (ex art. 20 c.p.c., seconda ipotesi) va individuato, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1182 c.c., nel domicilio del debitore in quel medesimo tempo.

3.2. Il foro delle cause ereditarie e di divisione.

In tema di cause ereditarie, Sez. 6-2, n. 26141/2021, Besso Marcheis, Rv. 662321-01 ha chiarito che il foro esclusivo previsto dall’art. 22 c.p.c., che per le cause ereditarie individua la competenza del giudice del luogo dell’aperta successione, è derogabile, non rientrando tra le ipotesi elencate dall’art. 28 c.p.c.; ne consegue che, venuta meno, per espressa rinuncia, l’eccezione di incompetenza del giudice adito, questi non ha più il potere-dovere di individuare il giudice competente.

3.3. Il foro delle cause di locazione.

Sez. 6-3, n. 15229/2021, Positano, Rv. 661667-01 ha riaffermato il principio secondo il quale la cessione del credito relativa a canoni di locazione determina un mutamento del soggetto creditore, ma non incide sul criterio del forum contractus e cioè sulla eventuale competenza stabilita dalla legge per le controversie che abbiano ad oggetto il credito ceduto, il quale si trasferisce con tutte le sue caratteristiche (nella specie, la competenza per le controversie di lavoro prevista dall’art. 413 c.p.c.); la cessione può, invece, incidere sul criterio del forum destinatae solutionis e radicare la competenza nel luogo in cui ha sede o domicilio il cessionario, ma soltanto nel caso sia stata comunicata al debitore ceduto e sia intervenuta prima della scadenza del credito (conforme Sez. 6-3, n. 01118/2012, Frasca, Rv. 621209-01).

3.4. Il foro delle cause in materia di proprietà industriale.

Secondo Sez. 6-1, n. 35056/2021, Vella, Rv. 663314-01, in tema di competenza territoriale nelle azioni in materia di proprietà industriale, il principio di prevalenza del foro del domicilio eletto dal convenuto di cui all’art. 120, comma 3 del codice della proprietà industriale vale solo in relazione ai fori indicati al comma 2 del medesimo articolo (residenza, domicilio, dimora del convenuto), mentre esso concorre con il foro previsto dal comma 6, che prevede anche la competenza del giudice del luogo di commissione dei fatti di contraffazione o di concorrenza sleale.

3.5. Il foro delle cause in materia di condotte discriminatorie.

L’art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011 attribuisce la competenza a conoscere le controversie in materia di condotte discriminatorie al tribunale del luogo in cui ha domicilio il ricorrente. Sez. 6-1, n. 00296/2021, Mercolino, Rv. 660407-01 ha in proposito ribadito l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che riconosce il carattere speciale di tale disciplina, individuandone il fondamento nelle preminenti esigenze di tutela delle vittime di atti e comportamenti discriminatori e riconoscendo pertanto il carattere funzionale ed esclusivo del foro da essa introdotto. Ha pertanto ritenuto tale foro prevalente sugli altri, anche inderogabili, compreso quello erariale, trattandosi di disciplina speciale, posta a tutela di un interesse primario del nostro ordinamento, volto a contrastare gli atti e i comportamenti che impediscono il pieno dispiegarsi della persona umana, prevalente rispetto alle esigenze di carattere organizzativo poste a fondamento dell’accentramento della competenza presso un unico ufficio giudiziario, ai sensi dell’art. 6 del r.d. n. 1611 del 1933. In applicazione del principio, la pronuncia richiamata ha ritenuto competente il tribunale del luogo in cui aveva il domicilio un minore disabile, i cui genitori, in rappresentanza del figlio, avevano agito per ottenere il risarcimento del danno conseguente alle asserite condotte discriminatorie dell’Amministrazione scolastica.

3.6. Il foro delle cause in materia di procedimenti sulla responsabilità genitoriale.

Riguardo alla individuazione del giudice territorialmente competente ad adottare i provvedimenti di cui all’art. 337 bis e ss. c.c., Sez. 6-1, n. 15835/2021, Scalia, Rv. 661902-01 lo ha individuato nel giudice del luogo in cui il minore ha la "residenza abituale" al momento della domanda, precisando che al suo accertamento concorrono una pluralità di indicatori da valutarsi anche in chiave prognostica, al fine di individuare, insieme al luogo idoneo a costituire uno stabile centro di vita ed interessi del minore, il giudice che, alle condizioni in essere al momento della domanda, possa dare migliore risposta alle correlate esigenze, ferme quelle di certezza e garanzia di effettività della tutela giurisdizionale che nella regola sulla competenza trovano espressione.

3.7. Il foro del consumatore.

L’art. 33, comma 2, lett. u), d.lgs. n. 206 del 2005 individua nel luogo di residenza del consumatore il foro esclusivo delle controversie tra costui e il professionista.

Sez. 6-2, n. 10278/2021, Falaschi, Rv. 661119-01 ha precisato che tale residenza va riferita, non già nella elezione di domicilio effettuata prima dell’introduzione del giudizio, ovvero con lo stesso atto introduttivo, ma nella residenza abituale al momento della conclusione del contratto ovvero della scadenza dell’obbligazione, in quanto foro esclusivo, che prevale su ogni altro, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore (in senso conforme, v. Sez. 6-3, n. 5703/2014, Amendola A., Rv. 630504-01).

Con riguardo al procedimento di ingiunzione proposto da un avvocato nei confronti del proprio cliente per il pagamento di onorari professionali, si è affermato che la natura inderogabile di detto foro impone al giudice di merito di accertare il possesso della qualità di consumatore della parte la quale, qualora sia un lavoratore subordinato, non perde tale qualità. Questa, infatti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 206 del 2005, ha natura oggettiva ed è da valutarsi, in base al diritto unionale, alla luce di un criterio funzionale onde stabilire se il rapporto contrattuale rientri nell’ambito delle attività estranee all’esercizio di una professione o di un’attività imprenditoriale (Sez. 6-2, n. 33439/2021, Fortunato, Rv. 662840-01).

Diversa è la conclusione nel caso in cui la prestazione professionale dell’avvocato sia stata resa in un giudizio inerente l’attività imprenditoriale e professionale svolta dal cliente. In tale ipotesi - ha affermato Sez. 6-2, n. 31733/2021 Giannaccari, Rv. 662809-01 – la regola sul foro del consumatore, avente carattere inderogabile, non può trovare applicazione operando, invece, il criterio di competenza di cui all’art. 14, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011, avente carattere derogabile. Per tale ragione si è ritenuto inammissibile il regolamento di competenza d’ufficio di cui all’art. 45 c.p.c., il quale è consentito soltanto per ragioni di competenza per materia o per territorio nei casi previsti dall’art. 28 c.p.c., ovvero quando la competenza per territorio è inderogabile, mentre in caso di questione di competenza per valore o territoriale derogabile è proponibile esclusivamente dalle parti.

3.8. La convenzione di deroga alla competenza per territorio.

L’art. 28 c.p.c. enuncia il principio secondo cui la competenza per territorio può essere derogata, ad eccezione delle materie specificamente indicate e l’art. 29 c.p.c. regola le modalità dell’accordo derogativo.

Sez. 6-3, n. 22149/2021, Cirillo F.M., Rv. 662352-01 ha esaminato la questione degli effetti della pattuizione di un foro convenzionale nel contratto di trasporto allorché il destinatario sia diverso dal mittente affermando che in tal caso si configura un contratto a favore di terzo nel quale la consegna delle cose a destinazione o la richiesta di consegna integra «la dichiarazione di volerne profittare» prevista dall’art. 1411 c.c., con conseguente subentro del destinatario nei diritti ed obblighi del mittente. Ne discende che, qualora le parti originarie del contratto abbiano pattuito un foro convenzionale esclusivo, il destinatario, divenuto parte del contratto, a differenza di quanto accade nel contratto a favore di terzo, ben può avvalersi della clausola derogatoria della competenza per territorio, non occorrendo alcuna ulteriore comunicazione adesiva al vettore, stante il suo subentro nel contratto già perfezionatosi.

Con riguardo al contratto di assicurazione fideiussoria, Sez. 6-3, n. 41665/2021, Fiecconi, Rv. 663518-01 ha ritenuto opponibile al terzo beneficiario di contratto di garanzia (polizza fideiussoria) - emessa da società assicuratrice in suo favore per il caso dell’inadempimento dell’appaltatore secondo la normativa di contratti pubblici - la clausola derogatoria della competenza territoriale stipulata inter partes, richiamando il disposto di cui all’art. 1413 c.c., in quanto qualora il terzo abbia manifestato la volontà di profittare della stipulazione, tale volontà non può non riguardare tutte le clausole contrattuali nel loro insieme, non potendosi configurare un’accettazione solo parziale del contratto (in senso sostanzialmente conforme, v. Sez. 3, n. 11261/2005, Vivaldi, Rv. 581917-01).

Sez. 6-3, n. 37159/2021, Iannello, Rv. 663130-01 ha affrontato la questione delle conseguenze della estensione consensuale di fatto dell’efficacia di un contratto oltre i limiti temporali da esso stabiliti con riguardo alla clausola contrattuale derogatoria della competenza territoriale, affermando che la proroga implicita di efficacia di un contratto oltre i limiti temporali da esso previsti, in funzione della regolamentazione dei rapporti intercorrenti tra le parti, non vale ad attribuire carattere di esclusività al foro convenzionale in esso designato, in deroga a quello stabilito dalla legge. Ciò in quanto – come già affermato da Sez. 6-3, n. 21362/2020, Cricenti, Rv. 659159-01 – la designazione convenzionale di un foro, in deroga a quello territoriale stabilito dalla legge, attribuisce a tale foro la competenza esclusiva soltanto se risulta un’enunciazione espressa, che non può trarsi, quindi, per via argomentativa, attraverso un’interpretazione sistematica, dovendo essere inequivoca e non lasciare adito ad alcun dubbio sulla comune intenzione delle parti di escludere la competenza dei fori ordinari. Pertanto, l’esclusività non può discendere da una attuazione consensuale, di solo fatto, di prestazioni corrispondenti a quelle contemplate nel testo di un precedente contratto mentre l’esigenza della forma precostituita, quale elemento di validità della presunta estensione nel tempo del rapporto, determina l’impossibilità di annettere valore di clausola di deroga della competenza sine die ad una pattuizione che ha esaurito la propria capacità regolativa, occorrendo, a tal uopo, una diversa ed esplicita clausola, correlata ad una pattuizione altra e successiva.

È stato inoltre ribadito il principio secondo il quale, poiché ai sensi dell'art. 2267 c.c. i soci rispondono personalmente delle obbligazioni assunte dalla società, la clausola di deroga alle norme in materia di competenza territoriale contenuta in un contratto concluso dalla società è vincolante sia per la medesima che per il singolo socio (Sez. 6-3, n. 41670/2021, Iannello, Rv. 663519–01. In senso sostanzialmente conforme, v. Sez. 6-2, n. 11950/2015, Manna F., Rv. 635592-01).

3.9. L’eccezione di incompetenza per territorio.

Nel corso dell’anno la S.C. ha precisato modalità e termini per la proposizione dell’eccezione di incompetenza.

Ai sensi dell’art. 38 c.p.c. l’incompetenza per materia, per valore e per territorio devono essere eccepite a pena di decadenza nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Sez. 6-1, n. 03055/2021, Vella, Rv. 660578-01 ha affermato che, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, è necessario che si sia effettivamente ed inequivocabilmente formato un accordo tra le parti, che solo in quanto tale non potrebbe poi essere rimesso in discussione unilateralmente, secondo lo schema negoziale di formazione dell’accordo. Conseguentemente, si è ritenuto che l’adesione all’eccezione di incompetenza territoriale proposta dalla controparte presuppone, ai sensi dell’art. 38 c.p.c., che l’accordo fra le parti sussista effettivamente all’atto in cui il giudice provveda, circostanza che va esclusa qualora al momento della decisione, all’udienza in cui l’una parte dichiari di aderire, l’altra contestualmente vi rinunci.

Sez. 6-3, n. 21989/2021, Gorgoni, Rv. 662216-01 (conformandosi a Sez. 6-3, n. 32731/2019, Dell’Utri, Rv. 656182-01, nonché a Sez. 6-3, n. 3539/2014, Frasca, Rv. 630354 - 01) ha ribadito che quando la domanda giudiziale è proposta con l’espressa invocazione della sussistenza, dinanzi al giudice adito, di un foro inderogabile ed esclusivo (nella specie, del foro del consumatore), l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dal convenuto deve sostanziarsi nella contestazione dell’applicabilità del criterio di competenza territoriale inderogabile indicato dall’attore e di tutti i possibili criteri di competenza territoriale derogabile relativi alla lite, dovendo altrimenti ritenersi l’eccezione di incompetenza come non proposta, siccome incompleta.

Sez. 6-3, n. 31604/2021, Cricenti, Rv. 662958-01 ha ribadito che l’indicazione di fori alternativi si impone, non già a chi afferma quello del consumatore, bensì a chi lo nega: costui avendo l’onere, venuto meno il foro inderogabile del consumatore, di indicare allora quali siano quelli concorrenti ed alternativi a quello. Il convenuto che deduca l’incompetenza per territorio del giudice adito in favore di un foro inderogabile (nella specie quello del consumatore) non è tenuto ad indicare i possibili fori alternativi e la loro irrilevanza rispetto a quello su cui è fondata la sua eccezione.

Con riguardo ai termini, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 6-3, n. 04779/2021, Guizzi, Rv. 660752-02 ha chiarito che l’eccezione di incompetenza per territorio deve essere sollevata, ai sensi dell’art. 38 c.p.c., nell’atto di opposizione, che deve intendersi come prima difesa utile poiché tiene luogo della comparsa di risposta nella procedura ordinaria.

Riguardo all’eccezione di esistenza di un foro inderogabile, ove il convenuto deduca l’incompetenza per territorio del giudice adito in ragione dell’esistenza di un tale foro (nella specie, quello del consumatore), secondo Sez. 6-3, n. 31604/2021, Cricenti, Rv. 662958-01, egli non è tenuto ad indicare i possibili fori alternativi e la loro irrilevanza rispetto a quello su cui è fondata la sua eccezione.

Nell’ipotesi in cui la domanda giudiziale sia proposta con l’espressa invocazione della sussistenza, dinanzi al giudice adito, di un foro inderogabile ed esclusivo (nella specie, ancora, del foro del consumatore), l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dal convenuto deve sostanziarsi nella contestazione dell’applicabilità del criterio di competenza territoriale inderogabile indicato dall’attore e di tutti i possibili criteri di competenza territoriale derogabile relativi alla lite, dovendo altrimenti ritenersi l’eccezione di incompetenza come non proposta, siccome incompleta (Sez. 6-3, n. 21989/2021, Gorgoni, Rv. 662216-01).

4. La competenza funzionale.

Oltre ai criteri indicati dal codice di rito, dottrina e giurisprudenza hanno individuato un ulteriore criterio di ripartizione della competenza conseguente alla natura e alla funzione che il giudice è chiamato ad esercitare. Si tratta della competenza c.d. funzionale.

Costituisce un’ipotesi di competenza funzionale quella all’emanazione del provvedimento per la correzione di errori materiali della sentenza che gli artt. 287 e ss. c.p.c. attribuiscono allo stesso giudice che ha emesso la decisione da correggere. La Corte di cassazione ha tuttavia chiarito che tale speciale disciplina non è applicabile quando contro la decisione stessa sia già stato proposto appello dinanzi al giudice del merito, in quanto l’impugnazione assorbe anche la correzione di errori, mentre è invece da osservarsi rispetto alle decisioni impugnate con ricorso per cassazione, atteso che il giudizio relativo a tale ultima impugnazione è di mera legittimità e la Corte di cassazione non può correggere errori materiali contenuti nella sentenza del giudice di merito, al quale va, pertanto, rivolta l’istanza di correzione, anche dopo la presentazione del ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 13629/2021, Abete, Rv. 661291-01. In senso conforme si era già espressa in passato Sez. 3, n. 10289/2001, Segreto, Rv. 548563 – 01).

Costituisce ipotesi di competenza funzionale anche quella del giudice del rinvio a seguito della cassazione della sentenza impugnata. Sez. 2, n. 02114/2021, Criscuolo, Rv. 660356-01 ha stabilito in proposito che la sentenza che dispone il rinvio ex art. 383, comma 1, c.p.c. contiene una duplice statuizione, di competenza funzionale, nella parte in cui individua l’ufficio giudiziario davanti al quale dovrà svolgersi il giudizio rescissorio (che potrà essere lo stesso che ha emesso la pronuncia cassata o un ufficio territorialmente diverso, ma sempre di pari grado), e sull’alterità del giudice rispetto ai magistrati persone fisiche che hanno pronunciato il provvedimento cassato; ne consegue che, se il giudizio viene riassunto davanti all’ufficio giudiziario individuato nella sentenza predetta, indipendentemente dalla sezione o dai magistrati che lo trattano, non sussiste un vizio di competenza funzionale, che non può riguardare le competenze interne tra sezioni o le persone fisiche dei magistrati. Diverso è, invece, il caso in cui il giudizio di rinvio si svolga davanti allo stesso magistrato persona fisica (in caso di giudizio monocratico) o davanti ad un giudice collegiale del quale anche uno solo dei componenti aveva partecipato alla pronuncia del provvedimento cassato, essendo violata la statuizione sull’alterità, sussiste una nullità attinente alla costituzione del giudice, ai sensi dell’art. 158 c.p.c., senza che necessiti la ricusazione (art. 52 c.p.c.), essendosi già pronunciata la sentenza cassatoria sull’alterità.

5. Il regolamento di competenza.

Gli artt. 42 ss. c.p.c. disciplinano il regolamento di competenza, il quale è finalizzato a determinare il giudice competente a decidere una determinata causa di merito sicché, sia esso necessario o facoltativo, presuppone che una questione di competenza sia stata - anche solo implicitamente - definita con un provvedimento avente natura di sentenza, ipotizzandosi o sostenendosi la competenza di un giudice ordinario diverso da quello adito.

Esso non trova applicazione con riguardo alle sentenze del giudice di pace in quanto la statuizione sulla competenza resa da tale giudice non può essere impugnata con regolamento di competenza che, se proposto deve essere dichiarato inammissibile, stante il disposto dell’art. 46 c.p.c. secondo il quale le disposizioni degli artt. 42 e 43 c.p.c. non si applicano ai giudizi davanti a quel giudice (Sez. 6-3, n. 00711/2021, Cricenti, Rv. 660275-01).

Il regolamento di competenza è di norma configurato come uno specifico mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti che pronunziano sulla competenza.

Si è infatti chiarito che qualunque sentenza – escluse, appunto, quelle del giudice di pace - che decida esclusivamente sulla competenza deve essere impugnata con istanza di regolamento di competenza, anche se il giudice esamini questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, purché l’estensione della decisione alle stesse sia strumentale alla soluzione della questione sulla competenza e non abbia, al contrario, autonomia rispetto ad essa, nel qual caso la risoluzione di dette questioni appartiene al merito, con conseguente ricorso ai mezzi ordinari di impugnazione. In applicazione del principio, Sez. 6-2, n. 34999/2021, Criscuolo, Rv. 662902-01, ha ritenuto soggetta ad appello la pronuncia che, a seguito di eccezione dell’opposto, aveva statuito sulla intempestività dell’opposizione a decreto ingiuntivo, per errore nella forma dell’atto introduttivo prescelto, nonché sul rito adottato, trattandosi della decisione - sebbene non riprodotta in uno specifico capo del dispositivo, limitato alla sola declinatoria di incompetenza - di questioni pregiudiziali di rito con carattere di autonomia (conforme Sez. 6-1, n. 15958/2018, Terrusi, Rv. 649544-01).

Sez. 6-3, n. 37160/2021, Iannello, Rv. 663131-01 ha dichiarato inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso l’ordinanza con la quale il giudice si limiti a rinviare la soluzione della questione di competenza alla decisione del merito della controversia, trattandosi di provvedimento di natura ordinatoria che non integra una pronuncia implicita sulla competenza ed è, pertanto, inidoneo a pregiudicare la decisione definitiva sulla questione anche quando contenga una delibazione sulla fondatezza dell’eccezione (principio affermato avuto riguardo all’art. 42 c.p.c. vigente anteriormente alla l. n. 69 del 2009).

Del pari inammissibile è stato ritenuto il conflitto di competenza proposto avverso il provvedimento con il quale il giudice prende atto del trasferimento dell’azione civile nel processo penale dal momento che esso non integra una decisione sulla competenza. Infatti, detto trasferimento, regolato dall’art. 75 c.p.p., determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza e non a quello disciplinato dall’art. 306 c.p.c., in quanto previsto per evitare contrasti tra giudicati (Sez. 6-3, n. 33214/2021, Cirillo F.M., Rv. 663125-01).

Inammissibile è altresì il regolamento di competenza proposto su istanza di chi abbia presentato la querela di falso innanzi al giudice di pace, avverso il provvedimento di sospensione del processo reso dal medesimo giudice agli effetti dell’art. 313 c.p.c. e che sia diretto a fare valere l’inammissibilità di detta querela. In tale ipotesi, infatti, il controllo di legittimità è limitato a verificare che la querela di falso sia stata proposta e che la disposizione non sia stata abusivamente invocata, spettando al giudice della querela l’esame delle questioni procedurali o sostanziali attinenti alla stessa (Sez. 6-3, n. 32818/2021, Valle, Rv. 662961-01).

Nel definire l’ambito di operatività del regolamento di competenza, Sez. U, n. 38596/2021, Nazzicone, Rv. 663248-01 ha ribadito che la nozione di competenza in sede civile non si attaglia alle attribuzioni della singola sezione ordinaria di tribunale in quanto le diverse sezioni del tribunale costituiscono mere articolazioni interne dello stesso, facenti parte di un unico ufficio giudiziario. Conseguentemente, ha riaffermato il principio, già espresso dalla giurisprudenza civile della Corte, secondo il quale non è impugnabile ai sensi dell’art. 42 cod. proc. civ. l’ordinanza che pure avesse reputato competente un giudice penale del medesimo ufficio. La pronuncia in esame ha altresì escluso che possa trovare applicazione, sia in via diretta che in via analogica, l’art. 28 c.p.p. dal momento che la nozione processuale di competenza in materia penale soggiace a regole diverse. La soluzione alla stasi processuale, nell’ipotesi di ritenuta non "competenza" ad opera di una sezione civile del tribunale in favore di altra sezione, anche penale, del medesimo ufficio, è stata individuata dalle Sezioni unite in un rimedio “interno” all’ordinamento, consistente nel riferirne al presidente del tribunale, il quale potrà delegare una diversa sezione o un diverso giudice, designando, in tal modo, quello davanti al quale il procedimento deve proseguire.

In tema di procedimento monitorio, Sez. 3, n. 20839/2021, Guizzi, Rv. 661982-01 ha affermato che la sentenza con cui il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo dichiara la propria incompetenza per essere stato proposto il ricorso monitorio a giudice incompetente, cui segue automaticamente la caducazione del decreto medesimo, è impugnabile unicamente con il regolamento necessario di competenza, di cui all’art.42 c.p.c., e il rilievo dell’inammissibilità del diverso mezzo dell’appello e del correlativo passaggio in giudicato della sentenza di prime cure, indebitamente omesso da parte del giudice di secondo grado, deve essere effettuato d’ufficio in sede di legittimità, ai sensi dell’art.382 c.p.c., con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, quando la relativa questione non sia stata oggetto di discussione e decisione da parte della corte territoriale, sicché nessun giudicato interno si sia formato sul punto.

Del pari deve essere esperito il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c., a pena di inammissibilità del gravame (salva la possibilità di conversione del ricorso per cassazione) ove la parte intenda impugnare la decisione con cui il giudice ha accolto l’eccezione di incompetenza territoriale inderogabile e regolato conseguentemente le spese. Se invece il giudice che ha declinato la competenza ha omesso di pronunciarsi sulle spese, la decisione è soggetta ad impugnazione con il rimedio ordinario dell’appello, non essendo svolta alcuna contestazione in ordine alla statuizione sulla competenza (Sez. 6-3, n. 32003/2021, Scrima, Rv. 662959-01).

In tema di fallimento Sez. 6-1, n. 16336/2021, Mercolino, Rv. 661505-01 ha ritenuto ammissibile il regolamento necessario di competenza anche avverso il provvedimento con cui il tribunale fallimentare abbia dichiarato la propria incompetenza ai sensi dell’art. 9-bis cit., disponendo la trasmissione degli atti al tribunale ritenuto competente, sicché, in caso di mancata impugnazione immediata, va esclusa la possibilità di contestare la competenza attraverso l’impugnazione del provvedimento successivamente adottato dal giudice dichiarato competente. In applicazione di detto principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il regolamento di competenza avverso la sentenza di fallimento pronunciata dal giudice indicato come territorialmente competente, in difetto di tempestiva impugnazione, con il regolamento necessario, dell’ordinanza dismissiva della competenza.

Ai fini dell’individuazione del mezzo di impugnazione di un provvedimento che abbia trattato come questione di competenza una questione attinente al rito o alla ripartizione degli affari interna all’ufficio, secondo Sez. 6-L, n. 18182/2021, Doronzo, Rv. 661875-01 trova applicazione il cd. “principio dell’apparenza”, che impone di individuare il mezzo in base alla qualificazione data dal giudice con il provvedimento impugnato all’azione proposta, alla controversia e alla decisione, a prescindere dalla sua esattezza. Si è pertanto ritenuto che, ove sia impugnata con regolamento di competenza una pronuncia che abbia deciso una questione attinente al rito (nella specie, la decisione, emessa erroneamente nella veste dell’ordinanza, con cui sono state dichiarate "improseguibili" domande dirette a far valere, nelle forme ordinarie, pretese creditorie soggette al regime del concorso fallimentare), occorre accertare se la questione di rito sia stata erroneamente qualificata dal giudice, espressamente o comunque in modo inequivoco, come questione di competenza, creando le condizioni per una tutela dell’affidamento della parte in ordine al regime di impugnazione, dipendendo dall’esito positivo di tale accertamento l’ammissibilità del proposto regolamento.

5.1. Il procedimento.

L’art. 47 c.p.c. disciplina il procedimento del regolamento di competenza, disponendo al primo comma che la relativa istanza si propone alla Corte di cassazione.

Il secondo comma prescrive che il ricorso deve essere notificato alle parti che non vi hanno aderito entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che abbia pronunciato sulla competenza. A tale comunicazione, secondo Sez. 6-3, n. 33087/2021, Rossetti, Rv. 662965-01, non può ritenersi equivalente, ai fini della decorrenza di detto termine, la conoscenza che la parte abbia avuto aliunde del provvedimento con cui il giudice ha statuito sulla competenza (nel medesimo senso si era già espressa Sez. 6-2, n. 03989/2011, Petitti, Rv. 617017-01, nonché Sez. 3, n. 11758/2002, Vittoria, Rv. 556687-01).

Con riguardo al regolamento di competenza d’ufficio, l’art. 47, comma 4 c.p.c. dispone che esso sia richiesto con ordinanza, senza dettare alcuna precisazione sui requisiti di contenuto del provvedimento. Questi, pertanto, vanno mutuati dall’art. 134 c.p.c., che prevede, però, la motivazione dell’ordinanza, ma non l’esposizione del fatto sostanziale e processuale. Quest’ultimo requisito, tuttavia, è necessario in quanto appaia indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto, potendo, quindi, essere più o meno ampia l’esposizione, a seconda di quanto occorra, per evidenziare le ragioni su cui si fonda il conflitto. In applicazione del principio, Sez. 6-3, n. 38367/2021, Tatangelo, Rv. 663341-01 ha ritenuto l’ordinanza del Tribunale che ha sollevato d’ufficio il conflitto negativo di competenza inidonea al raggiungimento dello scopo e non rinnovabile perché inintelligibile rispetto alla natura e all’oggetto dell’opposizione – originariamente proposta innanzi al giudice di pace – riferita, invece, del tutto genericamente, a sanzioni amministrative conseguenti ad infrazioni al codice della strada, senza oltremodo chiarire, se essa fosse riferibile ad un’intimazione dell’agente della riscossione, ovvero ad una contestazione generale, contro le infrazioni stradali di cui sopra, con la conseguenza di rendere inconoscibili le ragioni del dissenso sulla competenza).

  • comunicazione
  • giudice

CAPITOLO VI

LE DISPOSIZIONI GENERALI

(di Laura Mancini )

Sommario

1 Il giudice. - 1.1 Astensione e ricusazione. - 2 Ausiliari. - 2.1 Il diritto al compenso. - 2.2 L’opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari. - 3 Litispendenza e continenza. - 4 Le parti e i difensori. - 5 Successione nel processo e successione nel diritto controverso. - 6 L’interesse ad agire. - 7 La legittimazione ad agire. - 8 I termini. - 9 Comunicazioni e notificazioni. - 9.1 Nullità della notificazione.

1. Il giudice.

1.1. Astensione e ricusazione.

Nell’annualità in rassegna le decisioni in materia di astensione e ricusazione hanno confermato la tendenza, ormai consolidata, a intravedere nelle fattispecie di astensione obbligatoria del giudice indicate nell’art. 51 c.p.c. una deroga al principio del giudice naturale precostituito per legge e, quindi, come istituti di stretta interpretazione.

In linea con tale impostazione Sez. 2, n. 25487/2021, Giannaccari, Rv. 662255-01, ha affermato che il giudice che abbia partecipato soltanto all’attività istruttoria nel corso del giudizio di primo grado, senza poi prendere parte alla decisione della causa, non ha alcuna incompatibilità a comporre il collegio giudicante in secondo grado e non è, pertanto, gravato dal dovere di astensione ex art. 51, n. 4, c.p.c., dovendosi la conoscenza della causa come magistrato in altro grado di giudizio riferire alla partecipazione alla decisione di merito e non ad atti istruttori nel giudizio di prime cure.

Secondo Sez. U, 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-04-05, nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, al fine di integrare il motivo di ricusazione ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere il giudice “dato consiglio... nella causa”, occorre che il “consiglio” sia rivolto alla parte ed alimentato da una concreta base informativa e si esprima sugli esiti della specifica controversia, sia pure senza assumere i caratteri di un responso dalla particolare valenza tecnica. In applicazione del principio la Suprema Corte ha escluso che un componente della Sezione disciplinare del CSM - nell’ambito di un colloquio con un magistrato che non aveva rivestito la qualità di parte nel procedimento disciplinare né all’epoca dei fatti, né successivamente - avesse prestato consiglio sulla vicenda, sia perché le dichiarazioni rese erano generiche e si collocavano su un piano di mera acquisita conoscenza di una porzione soltanto dei fatti, sia perché le esternazioni non prefiguravano possibili esiti o sviluppi del procedimento a carico dell’incolpato.

L’anzidetta pronuncia ha anche precisato che nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, al fine di integrare il motivo di ricusazione ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere il giudice deposto nella causa come testimone, occorre che la testimonianza sia già precedentemente resa nella stessa controversia da giudicare.

Di particolare interesse è, inoltre, Sez. U, n. 08563/2021, Falaschi, Rv. 660878-01, secondo cui il magistrato del P.M. ha l’obbligo disciplinare di astenersi ogni qual volta la sua attività possa risultare infirmata da un interesse personale o familiare giacché l’art. 52 c.p.p., che ne prevede la facoltà di astensione per gravi ragioni di convenienza, va interpretato alla luce dell’art. 323 c.p., ove la ricorrenza di “un interesse proprio o di un prossimo congiunto” è posta a base del dovere generale di astensione, in coerenza con il principio d’imparzialità dei pubblici ufficiali ex art. 97 Cost., occorrendo, altresì, equiparare il trattamento del magistrato del P.M. - il cui statuto costituzionale partecipa dell’indipendenza del giudice - al trattamento del giudice penale, obbligato ad astenersi per gravi ragioni di convenienza ai sensi dell’art. 36 c.p.p.

Merita di essere segnalata anche Sez. 3, n. 01542/2021, Scrima, Rv. 660462-01, secondo la quale il collegio che giudichi del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza pronunciata dal giudice di rinvio può essere composto anche da magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, senza che sussista alcun obbligo di astensione a loro carico ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., in quanto tale partecipazione non determina alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice, e ciò a prescindere dalla natura del vizio che ha determinato la pronuncia di annullamento, che può consistere indifferentemente in un error in procedendo o in un error in iudicando, atteso che, anche in quest’ultima ipotesi, il sindacato è esclusivamente di legalità, riguardando l’interpretazione della norma ovvero la verifica del suo ambito di applicazione, al fine della sussunzione della fattispecie concreta, come delineata dal giudice di merito, in quella astratta.

Secondo Sez. 5, n. 02248/2021, Lo Sardo, Rv. 660487-01, la norma dell’art. 51 n. 4 c.p.c., relativa all’obbligo di astensione del giudice che della causa “ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo”, non è applicabile nell’ipotesi di cassazione per error in procedendo con rinvio cd. restitutorio (o improprio) al medesimo giudice che ha emesso la decisione cassata, atteso che tale giudizio di rinvio, diversamente da quanto accade nell’ipotesi di rinvio cd. proprio a seguito di annullamento per i motivi di cui ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c. non si configura come un grado diverso ed autonomo da quello concluso dalla sentenza cassata.

Sul versante processuale, significativi spunti ricostruttivi si traggono Sez. U, n. 00461/2021, Nazzicone, Rv. 660215-01, a mente della quale nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati la proposizione dell’istanza di ricusazione se, per un verso, non sospende automaticamente il giudizio (atteso che l’esigenza di impedire un uso distorto dell’istituto impone di riconoscere al collegio investito della controversia il potere di delibarne in limine l’ammissibilità e di disporre la prosecuzione del procedimento ove ritenga, in forza di una valutazione sommaria, che della ricusazione manchino ictu oculi i requisiti formali), per altro verso obbliga lo stesso organo giudicante a trasmettere il fascicolo al collegio competente a decidere sul fondo della ricusazione, del quale non può far parte il soggetto avverso cui l’istanza è stata proposta, in ragione del principio generale della terzietà del giudice che, essendo stato elevato a garanzia costituzionale dall’art. 111, comma 2, Cost., opera in ogni ambito giurisdizionale. Facendo applicazione del principio enunciato, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza del Consiglio Nazionale Forense, pronunciata da un collegio composto, tra gli altri, da cinque avvocati ricompresi tra quelli ricusati, la quale aveva dichiarato l’inammissibilità dell’istanza di ricusazione non solo per la ragione formale - peraltro, risultata insussistente - che la stessa fosse stata rivolta nei confronti dell’intero collegio, ma anche per mancata integrazione della denunciata fattispecie della “grave inimicizia” tra giudicanti e giudicati, dedotta dai ricusanti, con ciò indebitamente statuendo sul fondo dell’istanza di ricusazione.

Deve, infine, darsi conto di Sez. 1, n. 40483/2021, Vella, Rv. 663532-01, la quale ha puntualizzato che nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, il commissario giudiziale, pur dovendo partecipare necessariamente al procedimento affinché sia accertata l’esistenza dei presupposti per l’omologazione del concordato nei confronti del debitore e siano di conseguenza confermati i suoi poteri, conserva la posizione giuridica di ausiliare del giudice e non diviene parte in senso sostanziale, non essendo portatore di specifici interessi da far valere, in sede giurisdizionale, in nome proprio o in veste di sostituto processuale della massa dei creditori; di conseguenza, egli non è abilitato all’esercizio di azioni ed è privo anche della legittimazione a proporre ricorso per cassazione.

2. Ausiliari.

Per quel che concerne la disciplina degli ausiliari del giudice, la produzione giurisprudenziale dell’anno in rassegna ha offerto importanti spunti ricostruttivi sia in merito alla delimitazione del novero delle figure riconducibili entro tale categoria concettuale, sia con riferimento ad alcuni aspetti problematici della liquidazione giudiziale del compenso e del procedimento di opposizione avverso il correlato provvedimento.

In merito al primo dei richiamati profili, interessanti precisazioni si rinvengono in Sez. 1, n. 40483/2021, Vella, Rv. 663532-01, la quale, dando seguito a quanto già statuito da Sez. 1, n. 10632/2007, Panzani, Rv. 597515-01, ha affermato che, nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, il commissario giudiziale, pur dovendo partecipare necessariamente al procedimento affinché sia accertata l’esistenza dei presupposti per l’omologazione del concordato nei confronti del debitore e siano di conseguenza confermati i suoi poteri, conserva la posizione giuridica di ausiliare del giudice e non diviene parte in senso sostanziale, non essendo portatore di specifici interessi da far valere, in sede giurisdizionale, in nome proprio o in veste di sostituto processuale della massa dei creditori; di conseguenza, egli non è abilitato all’esercizio di azioni ed è privo anche della legittimazione a proporre ricorso per cassazione.

Non riveste, invece, la qualità di ausiliario del giudice l’amministratore di condominio nominato dal tribunale ex art. 1129 c.c., in sostituzione dell’assemblea che non vi provvede. Nondimeno, detta figura professionale non può essere equiparata a quella dell’amministratore nominato dall’assemblea, in quanto la sua nomina non trova fondamento in un atto fiduciario dei condomini ma nell’esigenza di ovviare all’inerzia del condominio ed è finalizzata al mero compimento degli atti o dell’attività non compiuta; pertanto, il termine di un anno previsto dall’art.1129 c.c. non costituisce il limite minimo di durata del suo incarico ma piuttosto il limite massimo di durata dell’ufficio, il quale può cessare anche prima se vengono meno le ragioni presiedenti la nomina (nella specie, per l’avvenuta nomina dell’amministratore fiduciario), restando applicabile, ai fini della determinazione del compenso, l’art.1709 c.c. (Sez. 3, n. 11717/2021, Scarano, Rv. 661321-01).

2.1. Il diritto al compenso.

In tema di liquidazione del compenso al consulente tecnico d’ufficio, Sez. 2,n. 10367/2021, Gorjan, Rv. 661045-01, ha puntualizzato che, ove l’accertamento richiesto dal giudice sia unico, benché implicante attività interdipendenti tra loro, deve essere unitaria, e non per sommatoria di più voci tariffarie, presupponendo, viceversa, quest’ultima una pluralità di accertamenti. La Corte di Cassazione ha fatto applicazione di tale principio in relazione alla liquidazione del compenso per un incarico peritale riguardante la predisposizione di un piano millesimale di un condominio che implicava lo svolgimento di attività tra loro connesse, quali la misurazione dei vani e l’elaborazione matematica delle proporzioni ai fini dell’individuazione dei millesimi da assegnare ai singoli partecipanti alla comunione.

Per quel che riguarda, invece, la liquidazione dell’indennità spettante al custode di beni sottoposti a sequestro penale, Sez. 2, n. 19064/2021, Casadonte, Rv. 662011-01, ha precisato che, a seguito dell’emanazione del d.m. n. 265 del 2006, di approvazione delle tariffe, la determinazione dell’indennità di custodia per i beni diversi da quelli ivi espressamente contemplati deve essere operata, ai sensi dell’art. 5 del predetto decreto, esclusivamente sulla base degli usi locali, non richiedendosi la ricorrenza di un elemento ulteriore, come quello denominato correntemente opinio iuris ac necessitatis, consistente nella valutazione, comune ai consociati, della giuridica necessità della tenuta del comportamento di osservanza di quelle tariffe. La Suprema Corte ha espresso il principio in causa nella quale il giudice di merito aveva liquidato l’indennità al custode decidendo secondo equità, avendo ritenuto che non sussistesse un uso locale, in quanto le tariffe praticate non erano assistite dall’opinio iuris ac necessitatis.

2.2. L’opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari.

Sul procedimento di opposizione avverso il decreto di liquidazione del compenso, si è pronunciata Sez. 6-2, n. 15712/2021, Abete, Rv. 661480-01, puntualizzando che la dicitura “rinuncia ai termini”, apposta in calce al provvedimento liquidatorio del compenso al custode (nella specie, nominato nell’ambito di un procedimento penale) e dallo stesso sottoscritta equivale a rinuncia all’opposizione ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002; in quanto tale, non è atto di rinuncia all’impugnazione, bensì atto di rinuncia all’azione, che non richiede formule sacramentali, non necessita di accettazione della controparte e preclude qualsivoglia attività giurisdizionale diversa dal suo rilievo ufficioso, il cui riscontro, avente l’efficacia di un rigetto della domanda, si risolve in una valutazione in fatto rimessa al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità, ove logicamente e congruamente motivata.

Merita di essere segnalata anche Sez. 3, n. 21874/2021, Tatangelo, Rv. 662199-01, secondo la quale, avverso i provvedimenti di liquidazione del compenso al custode di beni sottoposti ad espropriazione immobiliare va proposta l’impugnazione ai sensi dell’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, entro il termine perentorio di trenta giorni, nel solo caso in cui vengano in rilievo questioni attinenti al quantum liquidato dal giudice dell’esecuzione; ove invece le contestazioni investano questioni di tipologia diversa (come, ad es., l’individuazione della parte tenuta al relativo pagamento, o la stessa sussistenza del potere del giudice di procedere alla liquidazione dei compensi per motivi inerenti allo svolgimento o all’esito della procedura) occorre utilizzare gli strumenti tipici del processo esecutivo ed in particolare: a) il reclamo ex art. 630 c.p.c. per contestare i provvedimenti di estinzione (per causa tipica) e quelli consequenziali (emessi contestualmente o successivamente) aventi ad oggetto la regolamentazione e la liquidazione delle spese del processo estinto nei rapporti tra le parti dello stesso; b) l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. per contestare i provvedimenti dichiarativi della improcedibilità o di chiusura anticipata del processo esecutivo, nonché i provvedimenti consequenziali adottati dal giudice, compresi quelli inerenti alla liquidazione delle spese.

3. Litispendenza e continenza.

In materia di litispendenza, tra le pronunce più significative dell’annualità in rassegna merita di essere segnalata Sez. 6-3, n. 33214/2021, Cirillo F.M., Rv. 663125-01, secondo la quale il trasferimento dell’azione civile nel processo penale, regolato dall’art. 75 c.p.p., determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza e non a quello disciplinato dall’art. 306 c.p.c., in quanto previsto al fine di evitare contrasti di giudicati, sicché il provvedimento con cui il giudice civile prende atto della predetta vicenda non integra una decisione sulla competenza e non è, pertanto, impugnabile con il relativo regolamento.

In caso di proposizione di distinte azioni di impugnazione, per ragioni diverse, del medesimo atto di licenziamento, non sussiste litispendenza tra i due giudizi, pur aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale; tuttavia, la proponibilità di una nuova iniziativa giudiziaria resta condizionata alla sussistenza di un interesse oggettivo del lavoratore al frazionamento della tutela avverso l’unico atto di recesso (Sez. L, n. 22930/2021, Spena, Rv. 662093-01).

Per quanto riguarda la litispendenza internazionale, Sez. U, n. 21767/2021, Valitutti, Rv. 661869-01, ha affermato che, in tema di litispendenza internazionale, l’ordinanza con cui il giudice successivamente adito sospende il processo finché quello adito per primo non abbia affermato la propria giurisdizione non involge alcuna questione di giurisdizione, risolvendosi piuttosto nella verifica dei presupposti di natura processuale inerenti all’identità delle cause e alla pendenza del giudizio instaurato preventivamente. Ne consegue, pertanto, che avverso detto provvedimento deve essere esperito non già il regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c., bensì il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione avverso il provvedimento con cui il giudice italiano aveva sospeso il giudizio di separazione personale tra coniugi, con riguardo alla domanda di mantenimento dei figli minori, sul presupposto che quest’ultima fosse sub judice in altro processo, pendente in Scozia tra le stesse parti e avente ad oggetto la legittimità del trasferimento all’estero dei figli medesimi.

La litispendenza internazionale può essere dichiarata d’ufficio, atteso che la “ratio” dell’art. 7, comma 1, della l. n. 218 del 1995, diretta a favorire l’economia dei giudizi e ad evitare conflitti tra giudicati, non consente di subordinare all’eccezione di parte l’intervento sospensivo del giudice. Ne consegue che la formulazione letterale della menzionata norma (“quando, nel corso del giudizio, sia eccepita la previa pendenza”) deve essere intesa nel senso che la litispendenza deve essere dichiarata dal giudice, quando l’esistenza dei relativi presupposti emerga dagli elementi offerti dalle parti (Sez. 6-2, n. 09057/2021, Giannaccari, Rv. 661204-03).

Ancora, in tema di litispendenza internazionale extra-comunitaria, deve applicarsi l’art. 7, comma 1, della l. n. 218 del 1995 e non già l’art. 19 del Regolamento CE n. 2201 del 2003, disciplinante la litispendenza intra-comunitaria, sicché ai fini della sospensione obbligatoria del processo successivamente instaurato, occorre che le domande presentino identità dell’oggetto e del titolo non accogliendosi il concetto più ampio di identità di cause adottato in ambito comunitario che fa leva non tanto sulla specificità del provvedimento richiesto al giudice quanto su una situazione complessiva di “crisi del matrimonio”. Ne consegue, pertanto, che non è ravvisabile il concetto di identità di cause tra il giudizio di separazione dei coniugi e quello di divorzio Facendo applicazione di tale principio, la corte di Cassazione ha confermato in relazione alla introduzione di un giudizio di divorzio dinanzi all’autorità giudiziaria del Principato di Monaco in pendenza del procedimento per separazione personale dinanzi a quella italiana, la insussistenza della identità delle cause dato che il Principato di Monaco, pur essendosi allineato a talune politiche economiche e fiscali dell’Unione Europea, non ne fa parte) (Sez. 6-1, n. 02654/2021, Tricomi L., Rv. 660738-01).

Sez. 6-2, n. 09057/2021, Giannaccari, Rv. 661204-01, ha, poi, affermato che in tema di litispendenza o pregiudizialità internazionale, il regolamento di competenza è ammissibile non solo in relazione alle ipotesi di sospensione obbligatoria del processo, ma anche nei casi di sospensione facoltativa, con la differenza che mentre, nella prima ipotesi, contemplata dall’art. 7, comma 1, della l. n. 218 del 1995, il giudice deve accertare che vi sia identità tra la causa pendente innanzi al giudice italiano e quella pendente innanzi al giudice straniero, nell’ipotesi di sospensione facoltativa, disciplinata dall’art. 7, comma 3, della medesima l. n. 218, il sindacato della Corte di cassazione è circoscritto al controllo della completezza, correttezza e logicità delle argomentazioni sottese alla disposta sospensione - che, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, postula una mera valutazione, ad opera del giudice italiano, dell’idoneità del provvedimento straniero pregiudiziale alla produzione di effetti nell’ordinamento interno - senza poter invece investire l’opportunità della scelta.

Per ciò che concerne la continenza, la giurisprudenza dell’annualità in rassegna ha, innanzitutto, precisato che nel caso di riunione di cause, tra loro in rapporto di continenza e pendenti davanti al medesimo giudice, le preclusioni maturate nel giudizio preveniente anteriormente alla riunione rendono inammissibili nel giudizio prevenuto - in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l’abuso dello strumento processuale - solo le attività, soggette alle scansioni processuali dettate a pena di decadenza, svolte con riferimento all’oggetto di esso che sia comune al giudizio preveniente e non si comunicano, pertanto, né alle attività assertive che, come le mere difese e le eccezioni in senso lato, non soggiacciono a preclusione, né alle attività assertive e probatorie che, pur soggette a preclusione, concernono la parte del giudizio prevenuto non comune con quello preveniente (Sez. 3, n. 18808/2021, Iannello, Rv. 661705-02).

È stato, altresì, puntualizzato che nel processo tributario, non è configurabile un rapporto di continenza, ex art. 39, comma 2, c.p.c., tra le cause aventi ad oggetto l'impugnazione, rispettivamente, della cartella di pagamento e dell'avviso di accertamento, in quanto la cartella è impugnabile solo per vizi propri, essendo precluso proporre avverso la stessa vizi di merito relativi all'avviso di accertamento, a loro volta proponibili soltanto nel diverso giudizio promosso per il suo annullamento, sì che sussiste tra le due cause diversità della causa petendi e, per l’effetto, del thema decidendum; tra le due cause difetta inoltre l’identità anche parziale dei fatti costitutivi oggetto di accertamento, in presenza della quale è rinvenibile quel nesso di pregiudizialità logica e giuridica che giustifica, per effetto della continenza, lo spostamento di una causa da un giudice ad un altro in deroga alle ordinarie regole sulla competenza territoriale; irrilevante, infine, è la relazione che lega l’efficacia della cartella, quale atto esecutivo, al permanere in vita dell’avviso di accertamento, in quanto tale rapporto non scalfisce l’autonomia e l’indipendenza dei due giudizi, ma può soltanto portare ad affermare in capo al contribuente il diritto al rimborso di quanto versato, nel caso in cui il giudizio di accertamento porti ad un esito a lui favorevole (Sez. 5, n. 08737/2021, Filocamo, Rv. 660934-01).

4. Le parti e i difensori.

Tra le pronunce in materia di legittimazione processuale merita di essere posta in evidenza Sez. 3, n. 24893/2021, Scrima, Rv. 662207-01, la quale ha precisato che qualora la procura per la proposizione del ricorso per cassazione da parte di una società venga rilasciata da un soggetto nella qualità di procuratore speciale in virtù dei poteri conferitigli con procura notarile non depositata con il ricorso, né rinvenibile nel fascicolo, all’impossibilità del controllo, da parte del giudice di legittimità, della legittimazione del delegante ad una valida rappresentazione processuale e sostanziale della persona giuridica consegue l’inammissibilità del ricorso. In applicazione del principio la Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile l’impugnazione, ha ritenuto irrilevante l’avvenuto deposito, come allegato alla memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., della visura storica della società ricorrente, dalla quale risultava la nomina a suo procuratore, per il compimento di alcuni atti, del soggetto indicato come tale nel ricorso per cassazione, poiché detta visura non era stata notificata al controricorrente ai sensi dell’art. 372 c.p.c. e, in relazione a siffatto deposito, non si era formato il contraddittorio, atteso che il medesimo controricorrente non aveva presentato memorie e che il suo difensore non era intervenuto all’udienza di discussione, essendo stata trattata la controversia in udienza camerale.

Ancora, in tema di legittimazione processuale, Sez. 1, n. 34775/2021, Iofrida, Rv. 663159-01, in continuità con Sez. 6-2, n. 05343/2015, Manna F., Rv. 634875-01, ha affermato che il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisca in giudizio in rappresentanza di una società, senza essere a ciò abilitata, può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio (e dunque anche nel giudizio di legittimità), con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell’ente, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator.

In materia di rappresentanza nel processo, Sez. 1, n. 29244/2021, Vella, Rv. 662858-01, ha puntualizzato che, qualora una parte sollevi tempestivamente l’eccezione di difetto di rappresentanza, sostanziale o processuale, ovvero un vizio della “procura ad litem”, è onere della controparte interessata produrre immediatamente, con la prima difesa utile, la documentazione necessaria a sanare il difetto o il vizio, senza che operi il meccanismo di assegnazione del termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c., prescritto solo per il caso di rilievo officioso. In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha annullato la decisione impugnata che aveva ritenuto ammissibile, nel giudizio di rinvio ex art. 392 c.p.c., la produzione della procura notarile conferita per la rappresentanza volontaria della parte, sebbene la sua mancanza fosse stata già eccepita nella precedente fase di merito.

Anche nell’annualità in rassegna l’ampia elaborazione giurisprudenziale in materia di difensore e di rappresentanza tecnica si è soffermata prevalentemente sulla procura alle liti e sul potere di attestazione del difensore.

Utili indicazioni ricostruttive si rinvengono, innanzitutto, in Sez. 1, n. 38735/2021, Tricomi L. Rv. 663420-01, secondo la quale la falsità materiale della procura alle liti non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi disciplinate dall’art. 182 c.p.c., in quanto comporta l’invalidità assoluta, rilevabile anche d’ufficio, di un elemento indispensabile per la formazione fenomenica dell’atto introduttivo del giudizio, che incide sulla validità dell’instaurazione del rapporto processuale, impedendo la produzione di qualsiasi effetto giuridico, senza alcuna possibilità di sanatoria.

Significative indicazioni sistematiche si ritraggono, poi, da Sez. 6-1, n. 01051/2021, Pazzi, Rv. 660449-01, per la quale la partecipazione al processo di una parte che si sia avvalsa di un difensore privo di ius postulandi determina la nullità del procedimento e della sentenza, sol quando la decisione sia fondata su domande, eccezioni, allegazioni o prove, che quella parte ha introdotto nel processo e che il giudice non avrebbe potuto prendere in esame d’ufficio, perché la nullità di un atto processuale si estende a quello successivo soltanto nel caso in cui quest’ultimo sia dipendente da quello viziato, nel senso che il primo atto sia non solo cronologicamente anteriore, ma anche indispensabile per la realizzazione di quello che segue. Ciò non si verifica nel giudizio di reclamo avverso la dichiarazione di fallimento, ove il difetto di jus postulandi riguardi la posizione del creditore istante, il quale, essendo litisconsorte necessario, deve partecipare al processo ma non essere necessariamente costituito.

La nomina, nel corso del giudizio, di un secondo procuratore non autorizza, di per sé sola, in difetto di univoche espressioni contrarie, a presumere che la stessa sia fatta in sostituzione del primo, dovendosi, invece, presumere che ne sia stato aggiunto a questi un altro e che ognuno di essi sia munito di pieni poteri di rappresentanza processuale della parte, in base al principio del carattere ordinariamente disgiuntivo del mandato stabilito dall’art. 1716, comma 2, c.c. (Sez. 3, n. 34800/2021, Graziosi, Rv. 662984-01).

Per Sez. L, n. 33274/2021, Piccone, Rv. 662771-01, in tema di procura alle liti, il margine cui la stessa può essere apposta richiede, per essere considerato tale, di essere affiancato ad uno scritto. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inesistente una procura apposta a margine di un foglio bianco separato dal ricorso introduttivo).

Utili indicazioni si ritraggono, poi, in Sez. L, n. 31326/2021, Boghetich, Rv. 662684-01, secondo la quale nel caso di costituzione in giudizio in base a procura generale alle liti per atto notarile, richiamata negli atti difensivi ma non prodotta, senza che l’avversario abbia sollevato eccezioni o contestazioni nel corso del giudizio di merito, accettando senza riserve l’attività difensiva di controparte, deve ritenersi sussistente lo jus postulandi del difensore.

Ancora, secondo Sez. 6-3, n. 21777/2021, Cricenti, Rv. 662041-01, la procura alle liti rilasciata dal soccombente in primo grado per quello di appello, seguita, ad integrazione e su invito della stessa Corte di merito, da un atto successivamente depositato contenente la dichiarazione della parte di avere effettivamente conferito mandato per l’impugnazione di quella data sentenza, non può essere inteso come una ratifica con efficacia retroattiva (istituto non operante nel campo processuale, ove la procura alle liti può essere conferita con effetti retroattivi solo nei limiti stabiliti dall’art. 125 c.p.c.), atteso che esso non ha ad oggetto un precedente atto posto in essere da soggetto privo del potere di rappresentanza (cd. falsus procurator), ma costituisce atto ricognitivo di una dichiarazione di volontà già espressa, contenendo la precisazione in ordine al provvedimento che si era inteso impugnare, come tale ammissibile anche fuori dei limiti del predetto art.125 c.p.c.

Va, infine, dato rilievo al principio, enunciato da Sez. 3, n. 13597/2021, Positano, Rv. 661415-01, secondo il quale la disposizione dell’art. 182, comma 2, c.p.c., secondo cui il giudice, quando rileva un vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegna alle parti un termine perentorio per il rilascio della stessa o per la sua rinnovazione, si applica anche al giudizio d’appello e tale provvedimento può essere emesso all’udienza prevista dall’art. 350 c.p.c.

Per quanto concerne la procura speciale relativa al ricorso per cassazione, deve darsi conto di Sez. 3, n. 24893/2021, Scrima, Rv. 662207-01, secondo la quale, qualora la procura per la proposizione del ricorso per cassazione da parte di una società venga rilasciata da un soggetto nella qualità di procuratore speciale in virtù dei poteri conferitigli con procura notarile non depositata con il ricorso, né rinvenibile nel fascicolo, all’impossibilità del controllo, da parte del giudice di legittimità, della legittimazione del delegante ad una valida rappresentazione processuale e sostanziale della persona giuridica consegue l’inammissibilità del ricorso. In applicazione del principio, la Corte di Cassazione nel dichiarare inammissibile l’impugnazione, ha ritenuto irrilevante l’avvenuto deposito, come allegato alla memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., della visura storica della società ricorrente, dalla quale risultava la nomina a suo procuratore, per il compimento di alcuni atti, del soggetto indicato come tale nel ricorso per cassazione, poiché detta visura non era stata notificata al controricorrente ai sensi dell’art. 372 c.p.c. e, in relazione a siffatto deposito, non si era formato il contraddittorio, atteso che il medesimo controricorrente non aveva presentato memorie e che il suo difensore non era intervenuto all’udienza di discussione, essendo stata trattata la controversia in udienza camerale.

Deve, invece, essere dichiarata la giuridica inesistenza della procura speciale rilasciata al difensore al fine della proposizione del ricorso per cassazione, apposta su foglio separato e materialmente congiunto all’atto, quando risulti priva di uno specifico riferimento al provvedimento impugnato e riporti solo la generica indicazione “nel presente giudizio pendente davanti alla Corte di cassazione”, senza altro elemento identificativo; ne consegue l’inammissibilità del ricorso, che deve essere dichiarata d’ufficio, in quanto l’art. 83 c.p.c. configura come un obbligo del giudice quello della verifica dell’effettiva estensione della procura conferita, principalmente a garanzia della stessa parte che l’ha rilasciata, affinché la medesima non risulti esposta al rischio del coinvolgimento in una controversia diversa da quella voluta, per effetto dell’autonoma iniziativa del proprio (Sez. L, n. 31191/2021, Cinque, Rv. 662994-01).

Sempre in tema di ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 05067/2021, Scalia, Rv. 660519-01, ha puntualizzato che l’errata indicazione del codice fiscale del ricorrente nella procura speciale rilasciata al difensore non ne provoca la nullità, restando esclusa una insuperabile incertezza sull’identità di colui che abbia conferito il mandato, comunque deducibile dai dati anagrafici riportati nell’atto difensivo e nella stessa procura speciale.

Nell’annualità in rassegna le Sezioni Unite sono intervenute a dirimere il contrasto insorto sulla portata dell’art. 35 bis, comma 13 del d. lgs. n. 25 del 2008, in materia di protezione internazionale, nella parte in cui prevede che “la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato” e che “a tal fine il difensore certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima”. Con la sentenza Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-01, è stato chiarito che la procura richiede, quale elemento di specialità rispetto alle ordinarie ipotesi di rilascio della procura speciale, regolate dagli artt. 83 e 365 c.p.c., il requisito della posteriorità della data rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, prevedendo una speciale ipotesi di “inammissibilità del ricorso” nel caso di mancata certificazione della data di rilascio della procura in suo favore da parte del difensore. Ne consegue che tale procura speciale deve contenere in modo esplicito l’indicazione della data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato e richiede che il difensore certifichi, anche solo con un’unica sottoscrizione, sia la data della procura successiva alla comunicazione, che l’autenticità della firma del conferente. La norma così interpretata non può considerarsi violativa: 1) della disciplina unionale, in relazione al principio di equivalenza e di effettività, considerato che non vi è alcuna materia regolata dal diritto interno, omogenea a quella della protezione internazionale e dell’asilo, che goda di una tutela maggiormente protettiva con riguardo alla proposizione del ricorso per cassazione, e che il principio di effettività deve ritenersi limitato al giudizio di primo grado; 2) dell’art. 6 CEDU, nella parte in cui riconosce il diritto all’accesso alla giustizia, valutato anche in combinato disposto con l’art. 14 che stabilisce il divieto di non discriminazione, poiché la norma persegue l’interesse ad un corretto e leale esercizio dell’amministrazione della giustizia, anche in relazione alle ripercussioni sul complessivo funzionamento della giurisdizione ordinaria di ultima istanza, interessi che il legislatore può legittimamente valorizzare, senza violare il principio di non discriminazione, poiché la norma riguarda solo coloro che, trovandosi in una posizione di incerto collegamento con il territorio nazionale, costituiscono un gruppo nettamente distinto rispetto a quello che ha invece con il nostro paese una stabile relazione territoriale; 3) degli artt. 3 e 24 Cost., quanto al principio di eguaglianza ed al diritto di difesa, considerato che la specifica regola processuale non ha come giustificazione la condizione di richiedente protezione internazionale, quanto, piuttosto, la specificità del ricorso per cassazione rispetto alle materie disciplinate dal d.lgs. n. 25 del 2008 in relazione alle quali il legislatore ordinario ha un’ampia discrezionalità, maggiormente accentuata nella disciplina degli istituti processuali dove vi è l’esigenza della celere definizione delle decisioni.

In merito al potere di asseverazione spettante al difensore, Sez. 3, n. 28004/2021, Di Florio, Rv. 662518-01, ha precisato che l’art. 83, comma 3 c. p.c., nella parte in cui richiede, per la procura speciale alla lite conferita in calce o a margine di determinati atti, la certificazione da parte del difensore della autografia della sottoscrizione del conferente, deve ritenersi osservato - senza possibilità di operare distinzioni in riferimento agli atti di impulso, ovvero di costituzione, concernenti il giudizio di primo grado ed il giudizio di impugnazione - sia quando la firma del difensore si trovi subito dopo detta sottoscrizione, con o senza apposite diciture (come “per autentica”, o “vera”), sia quando tale firma del difensore sia apposta in chiusura del testo del documento nel quale il mandato si inserisce e, quindi, la autografia attestata dal difensore esplicitamente od implicitamente, con la firma dell’atto recante la procura a margine od in calce, può essere contestata in entrambi i casi soltanto mediante la proposizione di querela di falso, in quanto concerne una attestazione resa dal difensore nell’espletamento della funzione sostanzialmente pubblicistica demandatagli dalla succitata norma.

Ancora, sul tema merita di essere menzionata Sez. 3, n. 07765/2021, Cricenti, Rv. 660751-01, a mente della quale la certificazione del difensore nel mandato alle liti in calce o a margine di atto processuale riguarda solo l’autografia della sottoscrizione della persona che, conferendo la procura, si fa attrice o della persona che nell’atto si dichiara rappresentante della persona fisica o giuridica che agisce in giudizio, e non altro, con la conseguenza che deve considerarsi essenziale, ai fini della validità della procura stessa, che in essa, o nell’atto processuale al quale accede, risulti indicato il nominativo di colui che ha rilasciato la procura, facendosi attore nel nome proprio o altrui, in modo da rendere possibile alle altre parti e al giudice l’accertamento della sua legittimazione e dello ius postulandi del difensore. In difetto di queste indicazioni, la procura, ove la firma apposta sia illeggibile, deve considerarsi priva di effetti tutte le volte che il vizio formale abbia determinato l’impossibilità di individuazione della sua provenienza e, perciò, di controllo (anche aliunde) dell’effettiva titolarità dei poteri spesi. Da ciò consegue che quando la sottoscrizione illeggibile, nel caso di mandato conferito da una società, sia apposta sotto la menzione della carica sociale, in una procura priva dell’indicazione del nominativo del soggetto che la rilascia, e tale nominativo non possa neppure desumersi dall’atto al quale la procura medesima accede, pur ritenendosi che il soggetto astrattamente titolare del potere rappresentativo possa essere indirettamente identificabile attraverso le risultanze del registro delle imprese o con altro mezzo, rimane, in ogni caso, indimostrata l’effettiva provenienza della sottoscrizione dal predetto soggetto, poiché la certificazione dell’autografia, da parte del difensore, non si riferisce - come precisato - anche alla legittimazione e non può di per sé consentire l’individuazione indiretta della persona fisica che ha firmato dichiarandosi dotata del potere di rappresentanza senza indicare il proprio nome, con la configurazione, in definitiva, della nullità dell’atto processuale cui accede siffatta procura.

Per quel che concerne, infine, la rinuncia al mandato, Sez. 3, n. 28004/2021, Di Florio, Rv. 662518-02, ha affermato che tale atto, al pari della revoca della procura, non ha effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore e non esime il difensore rinunciante, sino a quando non ha informato il cliente, dal compimento di quelle attività difensive immanenti, connesse alla funzione di procuratore presente in udienza.

5. Successione nel processo e successione nel diritto controverso.

Nell’anno in rassegna il tema della successione nel processo è stato oggetto di significativa elaborazione, registrandosi numerose e innovative pronunce su svariati profili problematici delle fattispecie ex artt. 110 e 111 c.p.c.

Occorre, innanzitutto, dare conto della pronuncia nomofilattica n. 15911/2021, Napolitano L., Rv. 661509-03, con la quale le Sezioni Unite hanno chiarito che, in tema di riscossione dei tributi, la successione “a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali”, di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del gruppo Equitalia, prevista dall’art. 1, comma 3, del d.l. n. 193 del 2016, conv. dalla l. n. 225 del 2016, pur costituendo una fattispecie estintiva riconducibile al subentro in universum ius, riguarda il trasferimento tra enti pubblici, senza soluzione di continuità, del munus publicum riferito all’attività della riscossione, con la conseguenza che il fenomeno non comporta la necessità d’interruzione del processo in relazione a quanto disposto dagli artt. 299 e 300 c.p.c..

Merita, inoltre, di essere menzionata anche Sez. 3, n. 08521/2021, Tatangelo, Rv. 661007-01, per la quale il soggetto che agisce a tutela della pretesa creditoria di una società cancellata dal registro delle imprese ha l’onere di allegare espressamente e, poi, di dimostrare la propria qualità di avente causa della società, come assegnatario del credito in base al bilancio finale di liquidazione oppure come successore nella titolarità di un credito non inserito nel bilancio e non oggetto di tacita rinuncia, senza che assuma alcun rilievo la dichiarata qualità di ex-socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione nella posizione giuridica.

Ancora, per Sez. 5, n. 05605/2021, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 660763-01, la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 l. fall.); pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso.

Sez. 2, n. 28447/2020, Falaschi, Rv. 659994-01, ha, poi, precisato che nell’ipotesi di morte di una delle parti nel corso del giudizio, gli eredi, indipendentemente dalla natura del rapporto controverso, vengono a trovarsi, per tutta la durata del processo, in una situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, sicché, nel caso in cui intervenga volontariamente in causa uno degli eredi di detta parte, non vi è bisogno della dichiarazione del procuratore della stessa, perché la costituzione dell’erede è rivolta alla prosecuzione del giudizio, e quindi, a precludere l’effetto introduttivo con un’implicita comunicazione dell’evento interruttivo, e, pertanto, il giudice, avendo dunque conoscenza processuale di detto evento, deve ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti di altri eventuali eredi.

Importanti precisazioni si rinvengono in Sez. 1, n. 09264/2021, Caiazzo, Rv. 661148-02, per la quale, in caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo prosegue fra le parti originarie, ma la sentenza ha effetto anche contro il successore a titolo particolare, il quale può intervenire o essere chiamato nel giudizio, divenendone parte a tutti gli effetti. Qualora sia rimasto estraneo al processo, il successore ne subisce gli effetti anche in sede esecutiva, ma è legittimato ad impugnare la sentenza sfavorevole al suo dante causa ovvero ad avvalersene se favorevole. Questa disciplina, che regola gli effetti che incidono sulla situazione sostanziale, non opera con riguardo agli effetti di rito, tra i quali è compresa la condanna alle spese, che riguarda solo le parti processuali. Pertanto detta condanna non spiega effetti nei confronti del successore a titolo particolare nel diritto controverso che sia rimasto estraneo al processo.

Sez. 3, n. 08521/2021, Tatangelo, Rv. 661007-01, ha, poi, chiarito che il soggetto che agisce a tutela della pretesa creditoria di una società cancellata dal registro delle imprese ha l’onere di allegare espressamente e, poi, di dimostrare la propria qualità di avente causa della società, come assegnatario del credito in base al bilancio finale di liquidazione oppure come successore nella titolarità di un credito non inserito nel bilancio e non oggetto di tacita rinuncia, senza che assuma alcun rilievo la dichiarata qualità di ex-socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione nella posizione giuridica.

Ancora, per Sez. 1, n. 05987/2021, Vella, Rv. 660761-01, il successore a titolo particolare nel diritto controverso può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa, riguardante la disciplina di quell’autonoma fase processuale, che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che sono quelle che hanno partecipato al giudizio di merito.

Per Sez. 1, n. 00996/2021, Pazzi, Rv. 660367-01, il successore a titolo particolare che intervenga nel processo in grado di appello, ex art. 111 c.p.c., assume la stessa posizione del suo dante causa e non può proporre domande nuove salvo quella diretta all’accertamento del suo diritto di intervenire, qualora venga contestato da una o da entrambe le parti originarie, sicché ai fini del detto accertamento, l’interveniente può produrre nuovi documenti a sostegno della propria legittimazione, in parallelo con quanto previsto, nel giudizio di legittimità dall’art. 372 c.p.c.

Merita, infine, di essere menzionata Sez. 5, n. 03454/2021, Lo Sardo, Rv. 660653-01, secondo la quale in caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo prosegue fra le parti originarie, mantenendo il successore interventore tale veste processuale, salvo che nel caso di espressa estromissione dell’alienante; ne consegue l’inammissibilità del ricorso per cassazione che sia notificato unicamente al successore interventore e non alla controparte originaria. In applicazione del principio, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione notificato soltanto alla società cessionaria di azienda e non anche ai soci della società cedente, i quali erano gli unici legittimati alla prosecuzione del processo, in qualità di successori diretti nei rapporti obbligatori della società estinta dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese.

6. L’interesse ad agire.

In tema di interesse ad agire, nel 2021 varie decisioni sono tornate a soffermarsi sulle ricadute applicative del venir meno dell’interesse ad agire nel corso del processo.

Deve, anzitutto, essere richiamata, per la sua portata sistematica, Sez. 3, 16891/2021, Dell’Utri, Rv. 661639-01, la quale ha precisato che la pronuncia di cessazione della materia del contendere costituisce una fattispecie di estinzione del processo che si verifica quando sopravviene una situazione tale da eliminare la ragione di contrasto e, con ciò, il venir meno dell’interesse delle parti ad ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice con riguardo all’azione proposta e alle difese svolte, sicché, qualora la predetta pronuncia derivi dalla volontà manifestata dalle stesse parti del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, nessun rilievo assume la contrarietà del terzo intervenuto che pur essendo formalmente parte del rapporto processuale, è comunque estraneo a quello sostanziale e, come tale, privo di interesse alla definizione delle reciproche pretese spiegate dagli originari contendenti. Nella specie, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza di un interesse processualmente rilevante, ostativo alla pronuncia di cessazione della materia del contendere, in capo ai terzi, inquilini di unità immobiliari di un edificio, interventori autonomi in una controversia riguardante il contratto preliminare di compravendita del fabbricato in cui l’attore aveva domandato l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre e il convenuto aveva chiesto l’accertamento di pretesi inadempimenti contrattuali della controparte.

Ancora, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 04855/2021, Scarano, Rv. 660708-01, per la quale, nell’ipotesi di pagamento avvenuto nel corso del giudizio, non si verifica la cessazione della materia del contendere (che, presupponendo il venir meno delle ragioni di contrasto fra le parti, fa venir meno la necessità della pronuncia del giudice) allorché l’obbligato non rinunci alla domanda diretta all’accertamento dell’inesistenza del debito. In applicazione del principio, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza che aveva dichiarato cessata la materia del contendere del giudizio d’opposizione all’esecuzione, promossa per spese giudiziali pretese sulla base di sentenza provvisoriamente esecutiva ma riformata in sede di gravame, in ragione del pagamento antecedente alla notifica del precetto ma nonostante la mancata rinuncia all’accertamento negativo del debito.

Per quanto concerne il contenzioso lavoristico, Sez. L, n. 32388/2021, Cavallaro, Rv. 662765-01, ha ricordato che la tutela giurisdizionale finalizzata alla rimozione delle condotte discriminatorie, ex artt. 4 del d.lgs. n. 215 del 2003 e 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, soggiace alla disciplina generale dell’art. 100 c.p.c., sicché, in caso di conseguimento del bene della vita, nelle more del giudizio, da parte dei soggetti lesi dalla discriminazione, va esclusa la persistenza dell’interesse ad agire in capo all’ente esponenziale portatore dell’interesse collettivo, essendo venuto meno il legame con la concreta vicenda di fatto in rapporto alla quale si era posta l’esigenza di tutela.

Sempre sul tema della cessazione della materia del contendere, è stato precisato che la relativa declaratoria presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice, potendo al più residuare un contrasto solo sulle spese di lite, che il giudice con la pronuncia deve risolvere secondo il criterio della cosiddetta soccombenza virtuale. Allorquando, invece, la sopravvenienza di un fatto, che si assume suscettibile di determinare la cessazione della materia del contendere, sia allegato da una sola parte e l’altra non aderisca a tale prospettazione, il suo apprezzamento, ove esso sia dimostrato, non può concretarsi in una pronuncia di cessazione della materia del contendere, ma, ove abbia determinato il soddisfacimento del diritto azionato con la domanda dell’attore, in una valutazione dell’interesse ad agire, con la conseguenza che il suo rilievo potrà dare luogo ad una pronuncia dichiarativa dell’esistenza del diritto azionato (e, quindi, per tale aspetto, di accoglimento della domanda) e di sopravvenuto difetto di interesse ad agire dell’attore in ordine ai profili non soddisfatti da tale dichiarazione, in ragione dell’avvenuto soddisfacimento della sua pretesa per i profili ulteriori rispetto alla tutela dichiarativa (Sez. 2, n. 21757/2021, Criscuolo, Rv. 661966-01).

Di particolare interesse è, poi, Sez. 5, n. 38766/2021, Triscari, Rv. 663202-01, la quale, in tema di sequestro conservativo di cui all’art. 22 d.lgs. n. 472 del 1997, ha precisato che il sopravvenuto perfezionamento dell’accordo conciliativo con il Fisco ha effetto novativo del credito erariale basato su di uno degli atti tipici previsti dalla suddetta previsione, da cui deriva la cessazione della materia del contendere nel giudizio tributario instaurato avverso la misura del sequestro conservativo, atteso che, in questo caso, si è venuto a formare un titolo nuovo e diverso rispetto a quello tipico sulla cui base era stata richiesta e riconosciuta la misura cautelare, con conseguente perdita di efficacia della medesima.

Un’interessante applicazione del principio racchiuso nell’art. 100 c.p.c. alla materia sanzionatoria si rinviene in Sez. 2, n. 29577/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662564-01, a mente della quale in tema di sanzioni amministrative, la morte dell’autore della violazione comporta l’estinzione dell’obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall’Amministrazione, la quale, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi; ne discende la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione alla conseguente ordinanza-ingiunzione - declaratoria che può intervenire anche in sede di legittimità, ove il decesso sia documentato ex art. 372 c.p.c. - senza alcuna regolazione delle spese, non trovando applicazione il principio della soccombenza virtuale, per effetto del mancato vaglio dei motivi di doglianza.

Ancora, per Sez. 3, n. 20697/2021, Guizzi, Rv. 662193-01, in tema di impugnazione, il meccanismo sanzionatorio del raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, è applicabile solo ove il procedimento per cassazione si concluda con integrale conferma della statuizione impugnata, ovvero con la “ordinaria” dichiarazione di inamissibilità del ricorso, non anche nell’ipotesi di declaratoria di inammissibilità sopravvenuta di quest’ultimo per cessazione della materia del contendere, poiché essa determina la caducazione di tutte le pronunce emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in cosa giudicata, rendendo irrilevante la successiva valutazione della virtuale fondatezza, o meno, del ricorso in quanto avente esclusivo rilievo in merito alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

7. La legittimazione ad agire.

Tra le pronunce che nell’annualità in rassegna si sono espresse sulla legittimazione ad agire, merita di essere posta in evidenza Sez. L, n. 23721/2021, Arienzo, Rv. 662115-01, la quale, sviluppando le indicazioni esegetiche offerte da Sez. U, n. 2951/2016, Curzio, Rv. 638374-01, ha rimarcato che le contestazioni sulla legittimazione ad agire, attiva o passiva, così come sulla titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, e, di conseguenza, il difetto di legittimazione così come la carenza di titolarità del rapporto, ancorché non oggetto di contestazione dall’altra parte, sono rilevabili di ufficio se risultanti dagli atti di causa, in cassazione solo nei limiti del giudizio di legittimità e del giudicato.

Ancora, in materia lavoristica, Sez. L, n. 41019/2021, Cavallaro, Rv. 663353-01, ha precisato che il difetto di legittimazione passiva (nella specie, dell’INAIL, a fronte di una domanda di risarcimento del danno cagionato dal diniego della certificazione di avvenuta esposizione ad amianto) è rilevabile anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, salvo il limite del giudicato interno, che non è configurabile, neppure in forma implicita, nella fattispecie cd. di assorbimento improprio, dovuta alla decisione sulla base di una ragione più liquida, ossia quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione ed indotto il giudice a decidere il merito per saltum rispetto all’ordine delle questioni di cui all’art. 276, comma 2, c.p.c.

8. I termini.

In materia di termini processuali, portata sistematica deve essere riconosciuta a Sez. 5, n. 11604/2021, Gori, Rv. 661339-01, secondo la quale, alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, espressione di un principio immanente nel nostro ordinamento, la nozione di “termine processuale” non può ritenersi limitata all’ambito del compimento degli atti successivi all’introduzione del processo, dovendo invece estendersi anche a termini entro i quali lo stesso deve essere instaurato quando la proposizione della domanda costituisca l’unico rimedio per la tutela dei diritti che si assume leso. Sicché non è soggetto alla sospensione feriale il termine dilatorio di sessanta giorni di cui all’art. 50, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973 per procedere ad esecuzione forzata da parte del concessionario, poiché non costituisce termine processuale, non incidendo sul diritto ad agire, anche in considerazione dell’alternatività dell’iscrizione ipotecaria rispetto all’espropriazione ordinaria e del fatto che l’iscrizione si colloca tra la notificazione della cartella di pagamento e il pignoramento.

9. Comunicazioni e notificazioni.

Nell’annualità in esame l’elaborazione giurisprudenziale in materia di notificazioni è stata ampia ed ha offerto significative indicazioni esegetiche in relazione a diversi profili dell’istituto.

Per quanto concerne il procedimento notificatorio, Sez. 2, n. 40118/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 663134-01, ha confermato che è valida la notifica eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., nel caso in cui la consegna dell’atto venga effettuata a persona qualificatasi, senza riserve, collega di studio del destinatario (esercente, nella specie, la professione d’ingegnere), presso uffici adibiti anche a sede di una società (nella fattispecie di engineering) della quale è rappresentante legale il medesimo destinatario, spettando a quest’ultimo, ove contesti la ritualità di detta no e, dimostrare l’inesistenza di ogni relazione di collaborazione professionale con il summenzionato collega, nonché la casualità della sua presenza nel proprio studio.

Ancora, in caso di notifica di un atto a mani proprie del destinatario di esso, l’identità personale tra il destinatario indicato ed il consegnatario dell’atto medesimo è desumibile dalle dichiarazioni - penalmente sanzionate, se mendaci, ex art. 495 c.p. - rese da quest’ultimo all’ufficiale giudiziario e riportate nella relazione di notifica che, essendo munita di fede probatoria privilegiata, è confutabile unicamente mediante querela di falso (Sez. 6-2, n. 22225/2021, Abete, Rv. 662177-01).

Per quanto riguarda la notificazione alle persone giuridiche, la prescrizione che nell’atto da notificare sia indicata la qualità della persona fisica che rappresenta l’ente e ne risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale, concerne unicamente l’ipotesi di notificazione al rappresentante alternativa a quella compiuta presso la sede della persona giuridica o della società non avente personalità giuridica o dell’associazione non riconosciuta o del comitato, ai sensi dei primi due commi dell’art. 145 c.p.c., mentre non riguarda l’ipotesi di notifica eseguita, nelle forme degli artt. 140 e 143 c.p.c., in caso di esito negativo del tentativo di notificazione a norma dei predetti commi, atteso che, con riguardo a tale ipotesi, l’ultimo comma del citato art. 145 c.p.c. si limita a richiedere che la persona fisica che rappresenta l’ente sia indicata nell’atto, senza precisare dove debbano essere specificati i suoi dati anagrafici e quali debbano essere; pertanto, una volta che la notifica presso la sede sia risultata infruttuosa e l’atto sia stato restituito al notificante, questi può riaffidarlo all’ufficiale giudiziario per la notifica al legale rappresentante, provvedendo in tale occasione ad indicarne le generalità e la residenza (Sez. 6-3, n. 24061/2021, Positano, Rv. 662217-01).

È stato, inoltre, specificato che la consegna dell'atto da notificare “a persona di famiglia”, secondo il disposto dell'art. 139, comma 2, c.p.c., non postula necessariamente né il solo rapporto di parentela - cui è da ritenersi equiparato quello di affinità - né l'ulteriore requisito della convivenza del familiare con il destinatario dell'atto, non espressamente menzionato dalla norma, risultando, a tal fine, sufficiente l'esistenza di un vincolo di parentela o di affinità il quale giustifichi la presunzione, iuris tantum, che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario stesso; resta, in ogni caso, a carico di colui che assume di non aver ricevuto l’atto l’onere di provare il carattere del tutto occasionale della presenza del consegnatario in casa propria, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche del familiare medesimo. In applicazione di tale principio Sez. 1, n. 11228/2021, Amatore, Rv. 661282-01, ha ritenuto valida una notificazione che era stata effettuata nelle mani della moglie separata del destinatario, peraltro qualificatasi come “incaricata della ricezione degli atti”.

Nel caso di impresa individuale, poiché il destinatario della pretesa tributaria è la persona fisica dell’imprenditore, non avendo l’impresa alcuna soggettività o autonoma imputabilità diversa da quella del suo titolare, sia sotto l’aspetto sostanziale che processuale, la notificazione dell’avviso di accertamento deve essere fatta, ai sensi dell’art. 60, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 600 del 1973, nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditore (Sez. 5, n. 20650/2021, Nicastro, Rv. 661933-01).

Per quel che riguarda, invece, la notificazione a mezzo del servizio postale, Sez. 6-3, n. 36505/2021, Guizzi, Rv. 663128-01, ha precisato che il relativo servizio si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l’ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell’agente postale, nell’ambito di un distinto rapporto obbligatorio al quale il notificante rimane estraneo. Ne consegue ove il notificante agisca in ripetizione degli esborsi sopportati per la spedizione della c.d. raccomandata informativa (CAN) in difetto dei presupposti, legittimato passivo è esclusivamente l’ufficiale giudiziario, non anche l’agente postale del quale costui si avvalga.

Ancora, validi spunti ricostruttivi possono trarsi da Sez. 1, n. 06910/2021, Iofrida, Rv. 660960-01, la quale, in tema di notificazione a mezzo del servizio postale, ha chiarito che, se l’atto viene consegnato presso l’indirizzo del destinatario, diverso da quello di residenza anagrafica, a persona che, dichiaratasi dipendente, abbia sottoscritto l’avviso di ricevimento, la sola illeggibilità della firma del consegnatario non comporta la nullità della notifica non essendo l’indicazione delle sue generalità prevista da alcuna norma.

Merita, inoltre, di essere segnalata Sez. 5, n. 22983/2021, Balsamo, Rv. 662127-01, secondo la quale, ai fini della notificazione a mezzo del servizio postale è sufficiente individuare la residenza attraverso l’indicazione della via e del numero civico, con la conseguenza che l’eventuale indicazione erronea dell’interno o del piano è irrilevante, qualora, secondo la valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, l’agente postale abbia tuttavia individuato nell’edificio l’esatto appartamento. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha rilevato che la CTR aveva correttamente desunto dall’attività materiale posta in essere dall’agente postale la circostanza che egli, pur in assenza dell’indicazione sulla raccomandata e sul piego del numero dell’interno dell’appartamento in cui abitava il contribuente, lo aveva esattamente individuato e, pertanto, dichiarato esenti da vizi le operazioni notificatorie.

Occorre dare conto anche di Sez. 6-1, n. 06804/2021, Pazzi, Rv. 660746-01, per la quale, il mancato rinvenimento di soggetto idoneo a ricevere l’atto, proprio presso il comune di residenza del destinatario, e proprio presso la casa di abitazione ovvero il luogo in cui egli svolge la propria attività, legittima la notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza necessità di ricerca del destinatario in uno degli altri luoghi indicati alternativamente dall’art. 139 c.p.c.. Ciò in quanto la certezza che il luogo di notificazione sia quello in cui vive e lavora il notificatario - e che pertanto l’assenza sua e di altri soggetti idonei sia solo momentanea, ricorrendo un’ipotesi di cd. irreperibilità temporanea - lascia supporre che questi, o persona in grado di informarlo, verrà a conoscenza dell’avvenuta notificazione dall’affissione dell’avviso di deposito sulla porta e dalla spedizione della raccomandata.

Per quanto concerne la notifica agli irreperibili, Sez. 3, n. 40467/2021, Scoditti, Rv. 663335-01, ha affermato che il ricorso alle formalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto. Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto la invalidità di una notificazione ex art. 143 c.p.c. la cui relata recava la mera indicazione di “vane ricerche eseguite sul posto” dall’ufficiale giudiziario, senza la specificazione delle concrete attività a tal fine compiute).

Ancora, è stato affermato che l’omessa indicazione, nella relata, delle ricerche, anche anagrafiche, fatte dall’ufficiale giudiziario, delle notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario e dei motivi della mancata consegna, non costituisce causa di nullità della notificazione, non essendo tale sanzione prevista espressamente nell’elenco dei motivi di cui all’art. 160 c.p.c.; ne consegue che, rilevando, al di là dell’indicazione, solo il mancato compimento delle indagini in concreto, tale notificazione deve ritenersi legittima quando nessun addebito di negligenza e di ignoranza colpevole può essere attribuito al notificante, ovvero quando risulti, con assoluta certezza, che egli abbia proceduto ad opportune ricerche, non solo anagrafiche, tradottesi in più di un tentativo di notifica, eseguito in luoghi diversi. In applicazione di tale principio, Sez. L, n. 32444/2021, Cavallaro, Rv. 662766-01, ha riformato la decisione di merito che aveva addebitato all’ente previdenziale un onere di diligenza ulteriore rispetto alla avvenuta ricerca dell’imprenditore, obbligato al pagamento dei contributi, nel luogo ove questi aveva comunicato di esercitare la propria attività, in assenza di una successiva comunicazione di variazione o cessazione ex art. 2 del d.l. n. 352 del 1978.

Sez. 1, n. 28573/2021, Lamorgese, Rv. 663101-01, ha, poi, precisato che la notifica di atti giudiziari a persona residente o avente sede in Brasile è disciplinata dal Trattato di Roma del 17 ottobre 1989, ratificato con la l. n. 336 del 1993, alla luce del quale è necessaria l’autorizzazione alla notifica da parte dell’autorità giudiziale incaricata (nella specie, il Tribunale superiore della giustizia brasiliano), sicché deve ritenersi inesistente, e non semplicemente nulla, la notifica di un atto destinato alla Repubblica federativa del Brasile, che sia stato ricevuto dall’autorità centrale brasiliana, e cioè dal Ministero della giustizia, quando l’autorità giudiziale incaricata abbia rifiutato la menzionata autorizzazione, restando irrilevante che il plico sia pervenuto a un soggetto, il Ministero della giustizia, comunque ricollegabile allo Stato brasiliano.

Di particolare interesse sistematico è, infine, Sez. 1, n. 10983/2021, Nazzicone, Rv. 661183-01, la quale ha chiarito che l’ordinaria diligenza, alla quale il notificante è tenuto a conformare la propria condotta, per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando, al fine del legittimo ricorso alle modalità di notificazione previste dall’art 143 c.p.c., deve essere valutata in relazione a parametri di normalità e buona fede secondo la regola generale dell’art 1147 c.c. e non può tradursi nel dovere di compiere ogni indagine che possa in astratto dimostrarsi idonea all’acquisizione delle notizie necessarie per eseguire la notifica a norma dell’art. 139 c.p.c., anche sopportando spese non lievi ed attese di non breve durata. Ne consegue l’adeguatezza delle ricerche svolte in quelle direzioni (uffici anagrafici, ultima residenza conosciuta) in cui è ragionevole ritenere, secondo una presunzione fondata sulle ordinarie manifestazioni della cura che ciascuno ha dei propri affari ed interessi, siano reperibili informazioni lasciate dallo stesso soggetto interessato, per consentire ai terzi di conoscere l’attuale suo domicilio (residenza o dimora).

In materia di notifica a mezzo di posta elettronica certificata, è stato affermato che, qualora la parte non sia in grado di fornirne la prova ai sensi dell’art. 9 della l. n. 53 del 1994, la violazione delle forme digitali non integra l’inesistenza della notifica del medesimo bensì la sua nullità che pertanto può essere sanata dal raggiungimento dello scopo. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto inesistente la notifica dell’atto introduttivo, provata in forma cartacea invece che in modalità telematica, con conseguente esclusione di ogni sanatoria, nonostante l’attore avesse ricevuto proprio dal convenuto la documentazione relativa alla notifica effettuata (Sez. 6-1, n. 20214/2021, Scalia, Rv. 661904-01).

Sullo stesso tema, merita di essere menzionata Sez. 3, n. 17968/2021, Positano,Rv. 661836-01, secondo la quale Nell’ipotesi di notifica del decreto ingiuntivo a mezzo PEC, a norma dell’art.3 bis della l. n. 53 del 1994, la circostanza che la e-mail PEC di notifica sia finita nella cartella della posta indesiderata (“spam”) della casella PEC del destinatario e sia stata eliminata dall’addetto alla ricezione, senza apertura e lettura della busta, per il timore di danni al sistema informatico aziendale, non può essere invocata dall’intimato come ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore ai fini della dimostrazione della mancata tempestiva conoscenza del decreto che legittima alla proposizione dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art.650 c.p.c.; ciò in quanto l’art.20 del d.m. n. 44 del 2011 (regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi di cui al d.lgs. n. 82 del 2005), nel disciplinare i requisiti della casella PEC del soggetto abilitato esterno, impone una serie di obblighi - tra cui quello di dotare il terminale informatico di “software” idoneo a verificare l’assenza di virus informatici nei messaggi in arrivo e in partenza, nonché di “software antispam” idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi indesiderati - finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di posta elettronica certificata, il cui esatto adempimento consente di isolare i messaggi sospetti ovvero di eseguire la scansione manuale dei relativi “files”, sicché deve escludersi l’impossibilità di adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio PEC nel cestino, una volta che esso sia stato classificato dal computer come “spam”.

Ancora, per Sez. 2, n. 15001/2021, Picaroni, Rv. 661294-01, in caso di notificazione della sentenza a mezzo PEC, una volta acquisita al processo la prova della sussistenza della ricevuta di avvenuta consegna, solo la concreta allegazione di una qualche disfunzionalità dei sistemi telematici potrebbe giustificare migliori verifiche sul piano informatico, con onere probatorio a carico del destinatario - in tale ambito, peraltro, senza necessità di proporre querela di falso - in conformità ai principi già operanti in tema di notificazioni secondo i sistemi tradizionali e per cui, a fronte di un’apparenza di regolarità della dinamica comunicatoria, spetta al destinatario promuovere le contestazioni necessarie ed eventualmente fornire la prova di esse. Nella specie, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile, perché tardivo, il ricorso per cassazione sul rilievo che fosse stata ritualmente eseguita la notificazione della sentenza impugnata a mezzo PEC, non avendo il ricorrente - destinatario della stessa - fornito adeguata prova in ordine alla eccepita circostanza che il “file” allegato al messaggio di PEC contenesse solo pagine bianche.

Nel giudizio di cassazione, il difetto di asseverazione autografa in calce alla decisione impugnata ed alla relata di notificazione a mezzo PEC non comporta l’improcedibilità del ricorso ove, in base alla valutazione complessiva degli atti depositati, emerga in maniera inequivoca la volontà asseverativa, non essendo richiesta la contestualità della attestazione al deposito o l’unicità documentale con gli stessi atti di riferimento per la riconosciuta possibilità di compiere l’asseverazione sino all’udienza o alla discussione cartolare, secondo la giurisprudenza affermatasi nella transizione da processo analogico a processo compiutamente telematico presso la Corte di legittimità. In applicazione di tale principio, Sez. 6-3, n. 07610/2021, Porreca, Rv. 660928-01, la volontà asseverativa “composita” è stata desunta dal deposito di attestazioni di conformità in calce alle relate e alla decisione gravata con indicazione di sottoscrizione digitale - inidonea in assenza di deposito telematico nella fase di legittimità - esplicitamente richiamate nell’indice dei documenti depositati, contenente l’elencazione di tali atti, sottoscritto in via autografa.

Merita di essere segnalata anche Sez. 1, n. 02460/2021, Oliva, Rv. 660504-01, a seguito dell’istituzione del cd. “domicilio digitale”, di cui all’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modificazioni in l. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni in l. n. 114 del 2014, le notificazioni e comunicazioni degli atti giudiziari, in materia civile, sono ritualmente eseguite - in base a quanto previsto dall’art. 16 ter, comma 1, del d.l. n. 179 del 2012, modificato dall’art. 45-bis, comma 2, lettera a), numero 1), del d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114 del 2014, e successivamente sostituito dall’art. 66, comma 5, del d.lgs. n. 217 del 2017, con decorrenza dal 15.12.2013 - presso un indirizzo di posta elettronica certificata estratto da uno dei registri indicati dagli artt. 6 bis, 6 quater e 62 del d.lgs. n. 82 del 2005, nonché dall’articolo 16, comma 12, dello stesso decreto, dall’articolo 16, comma 6, del d.l. n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 2 del 2009, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della Giustizia e, quindi, indistintamente, dal registro denominato Ini- PEC e da quello denominato Re.G.Ind.E.

In materia di comunicazioni, va, infine, segnalata Sez. 1, n. 15783/2021, Falabella,Rv. 661583-01, la quale ha chiarito che le comunicazioni al difensore, per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, devono essere eseguite, ai sensi dell’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 221 del 2012, esclusivamente mediante deposito in cancelleria quando il difensore non abbia provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo PEC, dovendo escludersi che la cancelleria sia tenuta ad effettuare la comunicazione all’indirizzo di posta elettronica di altro difensore presso il quale quello nominato abbia dichiarato di voler ricevere le notifiche.

9.1. Nullità della notificazione.

A proposito della nullità della notificazione, utili indicazioni si rinvengono in Sez. 3, n. 04920/2021, Moscarini, Rv. 660806-02, per la quale il difensore esercente il patrocinio non può indicare per le comunicazioni la P.E.C. di altro avvocato senza specificare di volersi domiciliare presso di lui; ciò in quanto l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria deve avvenire automaticamente attraverso la ricerca nell’apposito registro, a prescindere dall’indicazione espressa della P.E.C., cosicché non può attribuirsi rilievo all’indicazione di una P.E.C. diversa da quella riferibile al legale in base agli appositi registri e riconducibile ad altro professionista, senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa alla dichiarazione di domiciliazione.

Secondo Sez. 6-3, n. 04791/2021, Rossetti, Rv. 660754-01, il mancato deposito dell’avviso di ricevimento di una notificazione effettuata a mezzo posta è causa di nullità e non di inesistenza, della notificazione, con conseguente rinnovabilità per ordine del giudice ai sensi dell’art. 291 c.p.c., costituendo tale avviso prova della regolarità della notificazione ma non elemento strutturale di essa.

Va, infine, dato conto di Sez. 5, n. 25037/2021, D’Aquino, Rv. 662139-01, per la quale, in caso di notificazione di atti processuali non andata a buon fine per ragioni imputabili al solo agente notificatore - il quale fornisca attestazioni ideologicamente errate circa la non effettività del domicilio del destinatario invece rimasto inalterato e positivamente riscontrato dal altro agente notificatore in successivo accesso -, si è in presenza di una di quelle circostanze eccezionali, di cui va data prova rigorosa, che consente al notificante incolpevole di conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria anche se abbia riattivato il processo notificatorio senza il rigoroso rispetto del limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c.

  • spese processuali
  • responsabilità

CAPITOLO VII

LE SPESE E LA RESPONSABILITÀ PROCESSUALE AGGRAVATA

(di Cecilia Bernardo )

Sommario

1 La condanna alle spese. - 1.1 Il principio di soccombenza. - 1.2 Liquidazione delle spese. - 2 Compensazione delle spese. - 3 Distrazione delle spese. - 4 Responsabilità processuale cd. aggravata.

1. La condanna alle spese.

Nel corso del 2021, la Suprema Corte è intervenuta con varie pronunce sul tema della regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile, talvolta in linea con i consolidati orientamenti precedenti, talvolta invece discostandosene. Risulta, altresì, risolta dalle Sezioni Unite una questione di massima di particolare importanza, inerente alla individuazione del giudice competente a conoscere la domanda di risarcimento dei danni per lite temeraria.

Vengono di seguito riportate le decisioni che hanno approfondito le tematiche relative al principio di soccombenza, ai parametri per la liquidazione dei compensi, ai presupposti per la compensazione delle spese di lite, alla distrazione delle stesse in favore del procuratore della parte vittoriosa, all’ambito di applicazione della responsabilità processuale cd. aggravata.

1.1. Il principio di soccombenza.

La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile si basa sul generale principio della causalità, che fa gravare sulla parte soccombente l’onere di rimborsare le spese di lite sostenute dalla controparte.

Con riferimento al principio della soccombenza, Sez. 1, n. 21823/2021, Parise, Rv. 662354-02, in linea di continuità con i precedenti orientamenti sul punto, ha ribadito che la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità, in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, con il suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo. Pertanto, essa prescinde dalle ragioni - di merito o processuali - che l’abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall’avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi, (conf. Sez. 3, n. 19456/2008, Finocchiaro, Rv. 604625-01).

Inoltre, al fine di attribuire l’onere delle spese processuali, Sez. 6-3, n. 13356/2021, Valle, Rv. 661563-01, ha precisato che il criterio della soccombenza non deve essere frazionato a seconda dell’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole, (conf. Sez. 6-3, n. 6369/2013, Ambrosio, Rv. 625486-01).

Il principio della causalità ha portata generale, con la conseguenza che il criterio della soccombenza trova applicazione in ogni tipo di processo senza distinzioni di natura e di rito. Ed infatti, nell’ambito di un’azione revocatoria volta a far valere l’inefficacia dell’intero atto di costituzione di un fondo patrimoniale, Sez. 6-3, n. 18194/2021, Positano, Rv. 661675-01, ha affermato che, qualora la domanda abbia trovato accoglimento limitatamente ai beni immobili di proprietà del debitore, solo quest’ultimo può essere ritenuto soccombente e condannato alla rifusione delle spese di lite, mentre non possono essere condannate al pagamento delle spese di lite le altre parti del fondo patrimoniale, sebbene convenute in giudizio.

Tale principio è stato affermato sulla base dell’orientamento, secondo cui i beneficiari di un fondo patrimoniale o di un trust non titolari di diritti attuali sui beni non sono legittimati passivi e litisconsorti necessari nell’azione revocatoria, (in tal senso, Sez. 3, n. 19376/2017, Barreca, Rv. 645384-01).

Il principio di responsabilità e causazione riguarda anche la fase dell’esecuzione. Infatti, Sez. 6-3, n. 09877/2021, Tatangelo, Rv. 661155-01, ha ritenuto che il debitore sia tenuto a rimborsare al creditore le spese sostenute per il pignoramento, qualora abbia provveduto al pagamento degli importi intimati con il precetto solo dopo la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la sua notifica al debitore e al terzo pignorato, atteso che in tale ipotesi le spese necessarie per il pignoramento devono ritenersi causate dal suo inadempimento. Non è, dunque, precluso al creditore procedere esecutivamente per tali spese, in forza del medesimo titolo esecutivo, a meno che non sia accertato che egli abbia compiuto tale attività in violazione del dovere di lealtà processuale.

La Suprema Corte è, poi, intervenuta in tema di spese processuali relative al giudizio di appello, osservando che, qualora la causa venga rinviata al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c. per integrare il contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, il giudice di appello deve provvedere in ordine alle spese del processo di secondo grado, condannando al pagamento delle stesse la parte riconosciuta soccombente per avere dato causa alla nullità che ha determinato il rinvio. Inoltre, ove abbia elementi sufficienti per stabilire a chi debba essere attribuita l’irregolarità che ha dato luogo alla rimessione, può decidere anche sulle spese di primo grado. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 11865/2021, Scarpa, Rv. 661476-01, ha cassato la decisione di appello, che aveva posto le spese di lite del primo grado a carico delle parti convenute, per non avere queste eccepito il difetto di integrità del contraddittorio, laddove l’imperfetta individuazione dei litisconsorti dipende, piuttosto, dalla negligenza o da un errore dell’attore ovvero da un difetto di attività del giudice, (conf. Sez. 2, n. 16765/2010, Bursese, Rv. 614173-01).

Sempre in relazione al giudizio di appello, Sez. 3, n. 02830/2021, D’Arrigo, Rv. 660521-01, ha fatto applicazione del principio secondo cui la condanna alle spese del secondo grado implica necessariamente il giudizio sulla correttezza di quella pronunciata dal primo giudice. Di conseguenza, pur in mancanza di espresso esame del motivo di impugnazione relativo alle spese di primo grado, non ricorre l’ipotesi del difetto di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato nel caso in cui l’appello sia stato interamente rigettato nel merito con condanna dell’appellante al pagamento integrale delle spese di lite anche del secondo grado. Ciò in quanto il motivo di gravame relativo a tale condanna deve intendersi implicitamente respinto e assorbito dalla generale pronuncia di integrale rigetto dell’impugnazione e piena conferma della sentenza di primo grado.

Inoltre, la Suprema Corte ha avuto modo di evidenziare che l’applicazione della regola della soccombenza presuppone che sia stata acquisita la qualità di parte processuale. Sulla base di tale principio, Sez. 6-2, n. 34174/2021, Tedesco, Rv. 662844-01, ha affermato che, in presenza di cause scindibili ex art. 332 c.p.c., la notifica dell’appello proposto dal convenuto soccombente agli altri convenuti vittoriosi nel giudizio di primo grado non ha valore di vocatio in ius ma di mera litis denuntiatio. Di conseguenza, i predetti non diventano, per ciò solo, parti del giudizio di gravame, nè sussistono i presupposti per la condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite in loro favore, ove gli stessi non abbiano impugnato incidentalmente la sentenza, (conf. Sez. 1, n. 5508/2016, Cristiano, Rv. 639030-01).

Nell’anno in rassegna, è stata affrontata anche la questione relativa alla regolamentazione delle spese di lite nel caso in cui la sentenza definitiva sia preceduta da una sentenza non definitiva. In particolare, la Suprema Corte ha più volte affermato che la riforma o la cassazione di una sentenza non definitiva pone nel nulla le statuizioni successivamente pronunciate, le quali siano dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, e ciò anche in presenza di un giudicato formale. Tuttavia, ciò non comporta che il giudice, nel pronunciare la sentenza definitiva, debba seguire il criterio di adeguamento al risultato finale dell’intero processo, indipendentemente dall’esito alterno delle sue varie fasi, ma solamente quello di adeguare la pronuncia sulle spese del giudizio al risultato dello stesso. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 12718/2021, Tedesco, Rv. 661311-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza definitiva in cui era stato applicato il criterio della soccombenza sulla base degli esiti del giudizio e che era stata impugnata solo nella parte relativa alle spese, in quanto risultava pendente ancora in cassazione il giudizio sulla sentenza non definitiva.

Come è noto, l’art 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede l’obbligo per l’impugnante soccombente di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Al riguardo, Sez. 6-1, n. 04731/2021, Campese, Rv. 660741-01, ha chiarito che la sussistenza del predetto obbligo dipende dalla coesistenza di due presupposti, l’uno di natura processuale, e cioè che il giudice abbia adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui verifica spetta al giudice ordinario, l’altro di natura sostanziale, ovvero che la parte che ha proposto l’impugnazione sia tenuta al versamento del contributo unificato iniziale, soggetto al sindacato del giudice tributario.

Infine, meritano menzione tre pronunce, in cui la Suprema Corte ha affrontato alcune peculiari questioni in ordine all’applicazione del principio della soccombenza.

In particolare, Sez. 6-3, n. 09862/2021, Dell’Utri, Rv. 661142-01, si è pronunciata in ordine al tardivo deposito della procura speciale a ricorrere da parte del difensore del ricorrente. Dopo aver ribadito, in linea con l’indirizzo consolidato, che ciò comporta l’inammissibilità dell’impugnazione, ha statuito che nel caso di specie le spese andavano poste non a carico del relativo difensore (secondo il principio fatto proprio, ex plurimis, da Sez. 6-1, n. 25435/2019, Iofrida, Rv. 655644-01), ma del suo assistito, in quanto l’avvenuto effettivo rilascio della procura speciale, al di là della tardività del deposito, consentiva di riferire al predetto l’attività processuale compiuta.

Sez. 6-1, n. 01057/2021, Pazzi, Rv. 660408-01, ha affermato che, in caso di costituzione in giudizio in via telematica, rileva non il momento in cui la cancelleria rende visibile l’atto all’interno del fascicolo telematico, ma quello in cui è generata la ricevuta di accettazione che perfeziona il deposito telematico. Di conseguenza, tale parte, se vittoriosa, ha diritto alla liquidazione delle spese processuali.

Infine, nell’ambito di una opposizione alla liquidazione del compenso in favore del difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato, ex artt. 84 e 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, Sez. 6-2, n. 35513/2021, Scarpa, Rv. 663069-01, ha precisato che l’ufficio del P.M., anche qualora abbia attivato il relativo procedimento, non può comunque essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, trattandosi di organo propulsore dell’attività giurisdizionale cui sono attribuiti poteri, diversi da quelli esercitati dalle parti, di natura meramente processuale, svolti per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico. La pronuncia si pone in linea di continuità con il principio affermato da Sez. U, n. 5165/2004, Paolini, Rv. 571109-01, secondo cui l’ufficio del pubblico ministero, così come non può sostenere l’onere delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, non può neppure essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando risulti soccombente uno dei suoi contraddittori.

1.2. Liquidazione delle spese.

Come è noto, il d.m. n. 55 del 2014 attualmente in vigore disciplina le modalità di calcolo del compenso dovuto per le prestazioni professionali rese dall’avvocato. Il legislatore ha optato per una modalità di calcolo del compenso professionale, distinto a seconda della tipologia del procedimento, del relativo valore e della fase dello stesso, con la fissazione di un parametro minimo e massimo all’interno di ciascuno scaglione di valore della controversia.

Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte ha adottato numerose pronunce, in cui vengono chiariti molti principi in tema di liquidazione delle spese processuali.

Con riferimento ai generali criteri di liquidazione previsti dal d.m. n. 55 del 2014, Sez. 3, n. 19989/2021, Scrima, Rv. 661839-03, ha affermato che l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella. Per contro, è doverosa la motivazione allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo.

Nello stesso senso, Sez. 3, n. 00089/2021, Tatangelo, Rv. 660050-02, ha ribadito che il giudice deve solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione, la quale è doverosa allorquando si decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi affinché siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo. Di conseguenza, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati.

Sempre in generale, con riferimento al perimetro temporale di applicazione dei parametri introdotti dal d.m. n. 55 del 2014, Sez. 3, n. 19989/2021, Scrima, Rv. 661839-02, ha affermato che i predetti parametri trovano applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto, ancorché la prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, purché a tale data la prestazione professionale non sia stata ancora completata. Ne consegue che, qualora il giudizio di primo grado si sia concluso con sentenza prima della entrata in vigore del detto d.m., non operano i nuovi parametri di liquidazione, dovendo le prestazioni professionali ritenersi esaurite con la sentenza, sia pure limitatamente a quel grado. Nondimeno, in caso di riforma della decisione, il giudice dell’impugnazione, investito ai sensi dell’art. 336 c.p.c. anche della liquidazione delle spese del grado precedente, deve applicare la disciplina vigente al momento della sentenza d’appello, atteso che l’accezione omnicomprensiva di "compenso" evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera prestata nella sua interezza.

Le suddette pronunce si pongono in linea di continuità con il precedente orientamento, affermato ex multis da Sez. 6-L, n. 31884/2018, Spena, Rv. 651920-01.

Con riferimento alla distinzione delle varie fasi processuali, rilevanti ai fini della liquidazione delle spese, Sez. 3, n. 10206/2021, Tatangelo, Rv. 661243-01, ha chiarito che l’effettuazione di singoli atti istruttori e, segnatamente, la produzione di documenti, in altre fasi processuali (come quella introduttiva e/o quella decisionale) non equivale allo svolgimento della fase istruttoria e/o di trattazione. La S.C. ha, quindi, precisato che nel giudizio di appello si può riconoscere la relativa voce di tariffa unicamente qualora sia effettivamente posta in essere, nel corso della prima udienza di trattazione, una o più delle specifiche attività previste dall’art. 350 c.p.c. ovvero sia fissata un’udienza a tal fine o, comunque, allo scopo di svolgere altre attività istruttorie e/o di trattazione, ma non nel caso in cui alla prima udienza di trattazione sia esclusivamente e direttamente fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni, senza il compimento di nessuna ulteriore attività, e questo anche ove siano prodotti nuovi documenti in allegato all’atto di appello ovvero, successivamente, con gli scritti conclusionali.

Vanno, altresì, menzionate alcune pronunce adottate dalla Suprema Corte in ordine alla individuazione del corretto scaglione di valore.

Come è noto, per la determinazione dello scaglione degli onorari di avvocato ai fini della liquidazione delle spese di lite, da porre a carico della parte soccombente ai sensi dell’art. 91 c.p.c., il parametro di riferimento è costituito dal valore della causa, determinato a norma del codice di procedura civile. Il problema può sorgere nel caso in cui, pur essendo stata richiesta la condanna della controparte al pagamento di una somma specifica, sia stata aggiunta l’espressione "o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia" o espressioni equivalenti. Al riguardo, Sez. 1, n. 10984/2021, Nazzicone, Rv. 661238-01, ha innanzitutto ribadito che, in caso di rigetto della domanda, il valore della causa va determinato in base al disputatum, che coincide con quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio. Tuttavia, qualora sia stata inserita anche l’espressione "o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia", la S.C. ha ritenuto che il valore della controversia vada considerato indeterminabile, in quanto espressioni di tal tipo non possono essere interpretate a priori come mere clausole di stile senza effetti. Anzi, in presenza di tali espressioni, deve presumersi che l’attore abbia voluto indicare solo un valore orientativo della pretesa, rimettendone al successivo accertamento giudiziale la quantificazione. Tale pronuncia si pone in senso parzialmente difforme rispetto a Sez. 6-2, n. 1499/2018, Manna, Rv. 647380-01 (secondo cui non può essere considerata di valore indeterminabile la domanda il cui valore può accertarsi nel corso dell’istruttoria e può essere indicato fino al momento della precisazione delle conclusioni) e rispetto a Sez. 6-L, n. 19455/2018, De Marinis, Rv. 649749-01 (secondo cui la formula "somma maggiore o minore ritenuta dovuta" costituisce una clausola meramente di stile, salvo che vi sia una ragionevole incertezza sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi. Tuttavia, tale principio non si applica se, all’esito dell’istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta).

Sempre in tema di determinazione del valore della controversia, giova ricordare che, nelle cause devolute alla giurisdizione equitativa del giudice di pace, trova solitamente applicazione l’art. 91, comma 4, c.p.c., in base al quale le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda. Al riguardo, però, Sez. 6-2, n. 09059/2021, Picaroni, Rv. 661118-02, ha precisato che il limite suddetto non si applica alle cause di opposizione a ordinanza-ingiunzione o a verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, le quali, pur se di competenza del giudice di pace e di valore non superiore ai millecento euro, esigono il giudizio secondo diritto, che giustifica la difesa tecnica e fa apparire ragionevole, sul piano costituzionale, l’esclusione del limite di liquidazione, (conf. Sez. 2, n. 9556/2014, Petitti, Rv. 630424-01).

Inoltre, il d.m. n. 55 del 2014 prevede che, per gli affari di valore superiore ad Euro 520.000,00, alla liquidazione si applica, "di regola", un incremento fino al 30% dei parametri numerici contemplati dai relativi scaglioni di riferimento (ed individuati, nella specie, dall’art. 22 del citato d.m.). Al riguardo, è intervenuta Sez. 2, n. 29170/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662703-01, affermando che, nell’ipotesi suindicata, il giudice è tenuto ad una specifica motivazione solo nel caso in cui reputi di non disporre alcun incremento percentuale, restando egli, al contrario, libero di stabilire un aumento in misura anche superiore al massimo del 30%, applicando i criteri generali di cui all’art. 4 del medesimo d.m. n. 55, con decisione non censurabile in sede di legittimità.

Per contro, realizza un’omessa pronuncia la motivazione che non espliciti le ragioni del rigetto della domanda di aumento del compenso dovuto per la redazione degli atti con modalità informatiche idonee ad agevolarne la consultazione che consentano la ricerca testuale e la navigazione all’interno dell’atto. Così ha statuito Sez. 2, n. 23088/2021, Tedesco, Rv. 662069-01, ritenendo che l’autonomia di tale domanda escluda che possa essere ravvisata un’ipotesi di rigetto implicito nel mancato riconoscimento della maggiorazione.

Inoltre, in linea di continuità con l’orientamento ormai consolidato, Sez. 2, n. 23132/2021, Oliva, Rv. 662070-02, ha ribadito che il professionista, che intenda contestare l’applicazione di un determinato scaglione, deve, a pena d’inammissibilità, indicare il valore della controversia, trattandosi di presupposto indispensabile per consentire l’apprezzamento della decisività della censura, (conf. Sez. 6-3, n. 2532/2015, Carluccio, Rv. 634324-01).

Il medesimo principio ha trovato applicazione anche in Sez. 1, n. 18584/2021, Tricomi L., Rv. 661816-02, secondo cui la parte, che intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima.

Quanto al computo delle spese, Sez. 3, n. 20847/2021, Guizzi, Rv. 662052-01, ha statuito che vanno poste a carico del ricorrente soccombente anche quelle del controricorso tempestivamente notificato nel termine di venti giorni, decorrente dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, fissato in relazione all’ultima notificazione di esso tempestivamente eseguita.

Infine, la Suprema Corte ha adottato una serie di pronunce in cui ha preso in considerazione l’aspetto della liquidazione delle spese processuali in relazione ad ipotesi particolari.

Ed invero, qualora venga dichiarata la nullità della decisione di prime cure il giudice di appello è tenuto ad esaminare nel merito la domanda, comportandosi, di fatto, come giudice di unico grado. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 23132/2021, Oliva,Rv. 662070-01, ha affermato che, in tal caso, non è possibile confermare alcuna statuizione della pronuncia ritenuta nulla, ivi inclusa quella sulle spese del primo grado. Di conseguenza, il giudice di appello deve procedere ad una nuova liquidazione delle stesse relativamente al doppio grado di merito.

Nell’ambito del giudizio instaurato per ottenere il risarcimento del danno conseguente al sinistro stradale, Sez. 6-3, n. 14444/2021, Gorgoni, Rv. 661568-01, ha preso in considerazione l’ipotesi in cui il danneggiato, in sede stragiudiziale, abbia fatto ricorso all’assistenza di uno studio di consulenza infortunistica stradale. La Suprema Corte ha ritenuto che la spesa per avvalersi di tale assistenza sia configurabile come danno emergente, anche se non abbia fatto recedere l’assicuratore dalla posizione assunta in ordine all’aspetto della vicenda che era stata oggetto di discussione e di assistenza in sede stragiudiziale. È necessario, infatti, valutare se la stessa sia stata necessitata e giustificata in funzione dell’attività di esercizio stragiudiziale del diritto al risarcimento. (conf. Sez. 3, n. 997/2010, Frasca,Rv. 611051-01).

La Suprema Corte, poi, è intervenuta con riferimento all’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione disponga l’estinzione del processo. Al riguardo, giova ricordare che, ai sensi dell’art. 310, comma 4, c.p.c., in caso di estinzione del processo di esecuzione, le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate, salvo diverso accordo tra loro. Ebbene, Sez. 3, n. 13176/2021, Valle, Rv. 661384-01, ha ritenuto che non sia ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. l’ordinanza di estinzione del processo esecutivo che provveda alla liquidazione delle spese processuali senza porle a carico del debitore esecutato, come invece richiesto dal creditore procedente, non trattandosi di provvedimento dotato di contenuto decisorio, ma di mera applicazione della regola generale suindicata, (conf. Sez. 3,n. 16711/2009, D’Amico, Rv. 609145-01).

In tema di procedimento cautelare in corso di causa, nel regime successivo alla novella introdotta con la l. n. 80 del 2005, l’ordinanza di rigetto del reclamo non deve contenere un’autonoma liquidazione delle spese della fase cautelare endoprocessuale, essendo tale liquidazione rimessa al giudice di merito contestualmente alla valutazione dell’esito complessivo della lite. Tuttavia, può accadere che tale liquidazione sia stata comunque effettuata. In tal caso, Sez. 3, n. 12898/2021, Rubino, Rv. 661381-01, ha affermato che la liquidazione delle spese deve essere riconsiderata insieme alla decisione del merito della causa e, ove non lo sia, e sia dedotto uno specifico motivo di appello sul punto, il giudice di appello è tenuto ad una riconsiderazione complessiva delle spese di lite, comprensive delle spese del procedimento endoprocessuale, sulla base dell’esito del giudizio.

Nell’ambito del procedimento di correzione dell’errore materiale, Sez. 6-L, n. 13854/2021, Leone, Rv. 661315-01, ha ritenuto ammissibile la modifica della statuizione sulle spese legali quale conseguenza della correzione della decisione principale cui detta statuizione accede, in quanto coerente con i principi di celerità e ragionevole durata che informano il giusto processo. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che correttamente il giudice dell’omologa ex art. 445 bis c.p.c. avesse fatto automaticamente seguire alla correzione della data di decorrenza dell’assegno di invalidità in senso sfavorevole all’assistito quella sul decisum in tema di spese, le quali, poste a carico dell’Istituto previdenziale nel decreto di omologa, erano poi state, in sede di procedura di correzione, compensate).

In tema di liquidazione delle spese sostenute per l’attuazione coattiva, Sez. 3,n. 00269/2021, Porreca, Rv. 660214-01, ha statuito che il decreto ingiuntivo ex art. 614 c.p.c. può essere ottenuto, durante o dopo l’esecuzione, anche per i compensi del difensore del creditore procedente e del CTU e con riferimento sia agli obblighi di fare sia a quelli di non fare, a nulla rilevando, al riguardo, il disposto dell’attuale art. 611 c.p.c. Nell’ipotesi di opposizione avverso il menzionato decreto, il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio l’intervenuta caducazione del titolo presupposto azionato e, quindi, della stessa legittima ragione creditoria, producendosi l’effetto espansivo enunciato dall’art. 336, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che le spese di cui sopra resteranno a carico del medesimo creditore procedente.

Merita menzione anche Sez. 5, n. 27634/2021, Dell’Orfano, Rv. 662425-01, che nell’ambito del processo tributario ha ritenuto che alla parte pubblica, assistita in giudizio da propri funzionari o da propri dipendenti, spetti la liquidazione delle spese in caso di vittoria della lite. Tale liquidazione deve essere effettuata mediante applicazione della tariffa ovvero dei parametri vigenti per gli avvocati, con la riduzione del venti per cento dei compensi ad essi spettanti. Ciò in quanto l’espresso riferimento ai compensi per l’attività difensiva svolta, contenuto nell’art. 15, comma 2 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, conferma il diritto dell’ente alla rifusione dei costi sostenuti e dei compensi per l’assistenza tecnica fornita dai propri dipendenti, che sono legittimati a svolgere attività difensiva nel processo.

2. Compensazione delle spese.

L’art. 92, comma 2, c.p.c. prevede una eccezione alla generale regola della soccombenza, consentendo al giudice di compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. A seguito delle modifiche introdotte dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, poi mitigate dalla pronuncia della Corte cost. del 19 aprile 2018, n. 77, cui è conseguita una nuova modifica del citato secondo comma ad opera del d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (convertito, con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162), la compensazione delle spese attualmente è consentita solo qualora vi sia soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

Nel corso del 2021, la Suprema Corte ha adottato alcune pronunce anche in tema di compensazione delle spese processuali.

In primo luogo, in continuità con un principio consolidato, Sez. 6-3, n. 21400/2021, Guizzi, Rv. 662213-01, ha ribadito che il sindacato di legittimità sulla pronuncia di compensazione è diretto ad evitare che siano addotte ragioni illogiche o erronee a fondamento della decisione di compensare i costi tra le parti e consiste, come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 157 del 2014), in una verifica "in negativo" in ragione della "elasticità" costituzionalmente necessaria che caratterizza il potere giudiziale di compensazione delle spese di lite, "non essendo indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese" in favore della parte vittoriosa, (in tal senso anche Sez. 6-3, n. 26912/2020, Valle, Rv. 659925-01).

Il principio della soccombenza e il correlativo criterio della compensazione trovano applicazione anche nell’ambito del procedimento di equa riparazione, disciplinato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89. A tal riguardo, Sez. 6-2, n. 26856/2021, Abete, Rv. 662373-01,ha osservato che la liquidazione dell’indennizzo in misura inferiore a quella richiesta dalla parte per l’applicazione, da parte del giudice, di un moltiplicatore annuo diverso da quello invocato dall’attore, non integra un’ipotesi di accoglimento parziale della domanda che legittima la compensazione delle spese, ai sensi dell’art. 92, comma 2 c.p.c.. Infatti, in assenza di strumenti di predeterminazione anticipata del danno e del suo ammontare, spetta al giudice individuare in maniera autonoma l’indennizzo dovuto, secondo criteri che sfuggono alla previsione della parte, la quale nel precisare l’ammontare della somma richiesta a titolo di danno non patrimoniale non completa il petitum sotto il profilo quantitativo, ma soltanto sollecita, a prescindere dalle espressioni utilizzate, l’esercizio di un potere ufficioso di liquidazione.

Sempre in tema di equa riparazione, Sez. 6-2, n. 18183/2021, Scarpa, Rv. 661665-01,ha statuito che, ove la domanda d’indennizzo sia accolta per un importo inferiore al richiesto, in rapporto ad una minore durata eccedente il termine ragionevole rispetto a quella pretesa dall’attore, il giudice di merito, come in ogni altro caso di accoglimento parziale di una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro, ossia di accoglimento per un importo inferiore, può ravvisare una soccombenza reciproca, agli effetti dell’art. 92, comma 2, c.p.c. e, perciò, compensare le spese di lite sulla base di una valutazione discrezionale, fondata sul principio di causalità, che resta sottratta al sindacato di legittimità.

Infine, la Suprema Corte ha preso in considerazione l’ipotesi in cui venga impugnata per cassazione la compensazione delle spese compiuta dal giudice di merito. In applicazione del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice quando il giudice rinviante potrebbe da sé svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata, Sez. L, n. 14199/2021, Di Paolantonio, Rv. 661300-01, ha ritenuto che, qualora non siano necessari accertamenti di fatto, sia consentito alla Corte decidere la causa nel merito ex art. 384 c.p.c., liquidando le spese non solo del giudizio di legittimità, ma anche dei gradi di merito, in quanto sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità.

3. Distrazione delle spese.

Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte è intervenuta anche con riferimento al tema della distrazione delle spese, prevista dall’art. 93 c.p.c..

In linea generale, la S.C. ha ribadito che, con il provvedimento di distrazione delle spese processuali in favore del difensore con procura della parte vittoriosa, si instaura, fra costui e la parte soccombente, un rapporto autonomo rispetto a quello fra i contendenti che, nei limiti della somma liquidata dal giudice, si affianca a quello di prestazione d’opera professionale fra il cliente vittorioso ed il suo procuratore. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 14082/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 661314-01, ha ritenuto che rimanga integra la facoltà del difensore di rivolgersi al cliente, oltre che per la parte del credito professionale che ecceda la somma liquidata dal giudice che gli sia stata corrisposta dalla parte soccombente, anche per l’intera somma dovutagli, per competenze professionali e spese, nonostante la distrazione disposta, (conf. Sez. 3, n. 27041/2008, Segreto, Rv. 605450-01).

Analogamente si è pronunciata Sez. 6-1, n. 6481/2021, Falabella, Rv. 660745-01, affermando che, in sede di gravame, il difensore distrattario delle spese processuali assume la qualità di parte, sia attivamente che passivamente, solo quando l’impugnazione riguarda la pronuncia di distrazione in sé considerata, con esclusione delle contestazioni relative al loro ammontare. Ed infatti, l’erroneità della liquidazione non pregiudica i diritti del difensore, che può rivalersi nei confronti del proprio cliente in virtù del rapporto di prestazione d’opera professionale. Per contro, la parte vittoriosa, che a sua volta è tenuta al pagamento della differenza al proprio difensore, è legittimata ad impugnare il capo della sentenza di primo grado relativo alle spese, pur in presenza di un provvedimento di distrazione, in caso di loro insufficiente quantificazione, avendo interesse a che la liquidazione giudiziale sia il più possibile esaustiva delle legittime pretese del professionista.

Infine, Sez. 6-3, n. 4294/2021, Scrima, Rv. 660610-01, ha chiarito che nel giudizio di cassazione (nella specie, un procedimento ex art. 380 bis c.p.c.) l’istanza volta ad ottenere la distrazione delle spese in favore del difensore dichiaratosi antistatario deve ritenersi irritualmente proposta - e, quindi, non può essere accolta - se formulata, per la prima volta, solo in calce alla nota spese. Ed infatti, in sede di legittimità, l’ultimo atto di interlocuzione tra le parti e il Collegio è costituito, secondo la sequenza procedimentale dettata dal codice di rito, dalla memoria illustrativa oppure, qualora si tenga l’udienza pubblica, dalla discussione davanti al medesimo Collegio.

4. Responsabilità processuale cd. aggravata.

Infine, la Suprema Corte ha adottato varie pronunce in tema di responsabilità processuale cd. aggravata, precisandone i presupposti e l’ambito di applicabilità nelle due diverse ipotesi previste dal primo e dal terzo comma dell’art. 96 c.p.c., entrambe finalizzate alla repressione dell’abuso dello strumento processuale.

In particolare, in linea di continuità con il precedente orientamento, Sez. L, n. 3830/2021, Di Paolantonio, Rv. 660533-02, ha ribadito che, a differenza delle ipotesi di responsabilità aggravata previste dall’art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., la condanna prevista dal terzo comma del citato articolo è applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza e configura una sanzione di carattere pubblicistico. I due strumenti, pur essendo autonomi ed indipendenti, sono tra di loro cumulabili, ma differiscono quanto ai presupposti. Infatti, per l’applicazione dell’ipotesi di cui al terzo comma, non è richiesto il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, essendo sufficiente una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l’avere agito o resistito pretestuosamente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva ravvisato un’ipotesi di abuso del processo nella condotta processuale della parte che aveva adito sia il giudice amministrativo che il giudice ordinario per ottenere l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento dei docenti in virtù del possesso del diploma magistrale, senza considerare che, all’epoca della domanda, la questione era controversa non solo nel merito ma anche in relazione alla giurisdizione), (conf. Sez. 6-2, n. 20018/2020, Oliva, Rv. 659226-01).

In applicazione dei medesimi principi, Sez. 6-L, n. 05721/2021, Leone, Rv. 660948-01, ha evidenziato che la condanna al risarcimento per lite temeraria prevista dall’art. 96, comma 1, c.p.c., presuppone sempre l’istanza di parte, anche nel caso richiamato dall’art. 152 disp. att. c.p.c..

Quanto alla proposizione della domanda di condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria, devesi menzionare la risoluzione da parte di Sez. U, n. 25478/2021, Cirillo, Rv. 662368-02, della questione di massima di particolare importanza, relativa alla individuazione del giudice competente a conoscere la domanda di risarcimento dei danni provocati da un’esecuzione compiuta in difetto della normale prudenza, e in particolare promossa in forza di titolo esecutivo di formazione giudiziale provvisorio, «cioè a caducità intrinseca e necessariamente instabile». Il problema si era posto in quanto, in precedenti arresti specifici, si era prospettata una possibile proposizione alternativa dinanzi al «giudice del processo nell’àmbito del quale il titolo esecutivo si è formato» ovvero al «giudice dell’opposizione all’esecuzione», senza tuttavia discernere «in quali casi» operasse la devoluzione all’uno o all’altro giudice.

Nell’esaminare la questione, le Sezioni Unite hanno innanzitutto ribadito il consolidato principio della natura endoprocessuale dell’illecito regolato dall’art. 96 c.p.c. e della conseguente devoluzione della domanda di responsabilità aggravata al giudice della causa di merito (del giudizio, cioè, nel quale la condotta illecita è stata serbata). Affermato ciò, le Sezioni Unite hanno statuito che l’istanza di condanna al risarcimento dei danni ex art. 96, comma 2, c.p.c., per aver intrapreso o compiuto, senza la normale prudenza, un’esecuzione forzata in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio di formazione o preordinato alla definitività del titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente, e non vi siano preclusioni di natura processuale. In questa ultima ipotesi, la domanda deve essere formulata al giudice dell’opposizione all’esecuzione. Solo qualora sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto all’articolazione della domanda anche in tale sede, ne è consentita la proposizione in un giudizio autonomo.

Giova, altresì, evidenziare che i presupposti per l’applicabilità della disciplina sulla responsabilità aggravata possono verificarsi nell’ambito di qualsiasi procedimento.

A tal riguardo, Sez. U, n. 25041/2021, Cosentino, Rv. 662248-01, ha riconosciuto l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c. anche nell’ambito del procedimento per regolamento preventivo di giurisdizione, con la conseguenza che la condanna per il risarcimento dei danni da responsabilità aggravata, ai sensi di tale articolo, può essere emessa anche dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

Sempre nell’ambito del medesimo procedimento per regolamento preventivo di giurisdizione, le Sezioni Unite hanno ribadito che l’accertamento della responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., discende esclusivamente da atti o comportamenti processuali concernenti il giudizio nel quale la domanda viene proposta, quali, ai sensi del comma 1, l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave o, per quanto riguarda il comma 3, l’aver abusato dello strumento processuale. Sez. U, n. 25041/2021, Cosentino, Rv. 662248-02, ha pertanto escluso la mala fede o colpa grave nell’introduzione di un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, in considerazione della atipicità del provvedimento impugnato e della mancanza di precedenti giurisprudenziali sulla questione, ritenendo per contro irrilevanti le condotte extraprocessuali e le iniziative processuali della parte diverse dalla proposizione di tale ricorso.

Il danno da responsabilità processuale aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 2, c.p.c. è configurabile anche nell’ambito del processo di esecuzione. A tal riguardo, e con specifico riferimento all’ipotesi in cui sia stata messa in esecuzione una sentenza di primo grado successivamente riformata, Sez. 3, n. 27689/2021, Valle, Rv. 662575-01, ha ritenuto sussistente la responsabilità processuale aggravata qualora il creditore abbia iniziato l’azione esecutiva o la abbia portata a compimento senza la normale prudenza. A tal fine, è stato ritenuto imprudente l’aver avviato l’azione esecutiva nonostante il probabile accoglimento del gravame proposto avverso il titolo esecutivo (spettando in ogni caso la relativa valutazione al giudice di merito), ovvero l’aver proseguito l’esecuzione nonostante l’assenza di un valido titolo esecutivo.

Sempre con riferimento ai presupposti per la configurabilità di un comportamento valutabile come “abuso del processo”, va segnalata Sez. 3, n. 22208/2021, Di Florio,Rv. 662202-01, secondo cui la proposizione di un ricorso per cassazione fondato su motivi palesemente inammissibili, rende l’impugnazione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 6 CEDU) e dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie. La Suprema Corte ha, quindi, ritenuto che una condotta di tal tipo determini un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali, prestandosi pertanto ad essere sanzionata con la condanna del soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c.. La pronuncia, infine, in linea di continuità con i principi già sopra riportati, ha ribadito che l’ipotesi prevista dal terzo comma della disposizione citata configura una sanzione di carattere pubblicistico, che non richiede l’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’agente ma unicamente quello della sua condotta processualmente abusiva, consistente nell’avere agito o resistito pretestuosamente.

Da ultimo, appare interessante menzionare anche Sez. 3, n. 15102/2021, Graziosi,Rv. 661561-01, secondo cui la proposizione di un motivo d’appello relativo alla pronuncia in primo grado della condanna per lite temeraria introduce una specifica censura, il cui accoglimento, in conseguenza dell’effetto devolutivo, genera soccombenza (parziale, se ricorrono altri motivi, non accolti) della controparte e può giustificare la compensazione, anche integrale, dei costi del giudizio ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c.

  • obbligazione
  • persona fisica
  • assicurazione danni
  • giurisdizione arbitrale
  • società
  • diritto al lavoro
  • diritto di famiglia
  • espropriazione

CAPITOLO VIII

IL PROCESSO LITISCONSORTILE

(di Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Ipotesi di litisconsorzio necessario: casistica. - 2.1 Diritti reali. - 2.2 Lavoro e previdenza. - 2.3 Persone, famiglia e successioni. - 2.4 Obbligazioni. - 2.5 Assicurazioni contro i danni. - 2.6 Società. - 2.7 Espropriazione forzata e opposizioni all’esecuzione. - 2.8 Procedure concorsuali. - 2.9 Arbitrato. - 2.10 Successione nel processo. - 3 Litisconsorzio necessario in fase di gravame. - 4 Conseguenze del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame. - 5 Bilanciamento tra l’esigenza di rilevare in sede di impugnazione il difetto di integrità del contraddittorio e quella di garantire la ragionevole durata del processo. - 6 Litisconsorzio facoltativo.

1. Premessa.

L’art. 102 c.p.c. contiene, come è noto, una “norma in bianco” che l’interprete è chiamato a riempire individuando le ipotesi in cui, al di là dei casi in cui è la legge stessa a prevedere la necessità della partecipazione di più parti al processo, «la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti».

Se, sul piano astratto, è stato da tempo chiarito che il litisconsorzio necessario – che determina l’inscindibilità della causa e, quindi, la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti eventualmente pretermessi – ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, anche in ragione della «particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio, che implichi, cioè, una situazione strutturalmente comune ad una pluralità di soggetti, in guisa tale che la decisione su di essa non potrebbe conseguire il proprio scopo [se] non sia resa nei confronti di tutti questi soggetti» (Sez. 1, n. 04720/2003, Carbone, Rv. 481970-01), non vi è dubbio che la concreta individuazione di tali rapporti passi attraverso l’elaborazione della giurisprudenza, in ultima istanza, di quella di legittimità. Da ciò l’essenzialità di una puntuale analisi casistica di questa.

Uno sguardo parimenti attento necessita lo sviluppo giurisprudenziale sulla disciplina del litisconsorzio nelle fasi di gravame, la quale affronta anche la diversa questione della determinazione dei soggetti che debbono partecipare al giudizio di impugnazione quando la sentenza impugnata è stata pronunciata nei confronti di più di due parti.

Infine, verrà esposta la giurisprudenza della Corte sul tema del litisconsorzio facoltativo, in cui la legge (art. 103 c.p.c.) consente, ma non impone, la contemporanea partecipazione di più parti, dal lato attivo e/o passivo, nel medesimo processo.

2. Ipotesi di litisconsorzio necessario: casistica.

Di seguito, quindi, anzitutto, una rassegna delle pronunce della Corte che, al di là dei casi in cui è la legge stessa a prevedere la necessità della partecipazione di più parti al processo, interpretando la “norma in bianco” dell’art. 102 c.p.c., hanno ravvisato (o no) fattispecie in cui «la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti».

2.1. Diritti reali.

Con riguardo, anzitutto, alle ipotesi di comunione dei diritti reali e di condominio, Sez. 2, n. 35794/2021, Scarpa, Rv. 662910-01, ha statuito che, con riguardo al giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ai sensi dell’art. 1137 c.c., la questione dell’appartenenza, o no, di un’unità immobiliare di proprietà esclusiva a un condominio edilizio, ovvero della titolarità comune o individuale di una porzione dell’edificio, in quanto inerente all’esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo – in assenza di un’esplicita domanda di una delle parti ai sensi dell’art. 34 c.p.c. – di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli, svolgendosi il giudizio ai sensi dell’art. 1137 c.c. nei confronti dell’amministratore del condominio, senza la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario.

L’azione di nullità del regolamento “contrattuale” di condominio è esperibile non già nei confronti dell’amministratore, carente di legittimazione passiva, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti altri, in situazione di litisconsorzio necessario, trattandosi, da un punto di vista strutturale, di un contratto plurilaterale avente scopo comune. Ne consegue che la sentenza che dichiari la nullità di clausole dello stesso, accogliendo la domanda proposta nei confronti del solo amministratore, non solo è inidonea a fare stato nei confronti degli altri condomini, ma neppure può essere appellata da uno ovvero alcuni di essi, benché si tratti degli effettivi titolari (dal lato attivo e passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, potendo detto potere processuale essere riconosciuto soltanto a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio conclusosi con la decisione impugnata (Sez. 6-2,n. 06656/2021, Scarpa, Rv. 660940-01).

Sempre in tema di condominio, Sez. 2, n. 06192/2021, Carrato, Rv. 660802-01, ha sancito che, qualora i vizi di costruzione di un edificio in condominio riguardino soltanto alcuni appartamenti e non anche le parti comuni, l’azione di risarcimento dei danni nei confronti del venditore-costruttore, ex artt. 1669 e 2058 c.c., ha natura personale e può essere esercitata da qualsiasi titolare del bene oggetto della garanzia, senza necessità che al giudizio partecipino gli altri comproprietari. Tale azione va proposta, peraltro, esclusivamente dai proprietari delle unità danneggiate, non sussistendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti degli altri condòmini, ancorché possa insorgere, in sede di esecuzione e in modo riflesso, un’interferenza tra il diritto al risarcimento del danno in forma specifica riconosciuto in sentenza e i diritti degli altri condòmini, dovendo i danneggiati procurarsi il consenso di questi ultimi per procedere, nella proprietà comune, ai lavori necessari a eliminare i difetti, giacché tale condizionamento dell’eseguibilità della pronuncia costituisce soltanto un limite intrinseco della stessa, che non cessa comunque di costituire un risultato giuridicamente apprezzabile.

La domanda volta a ottenere l’esecuzione di determinate opere sulle parti comuni di un edificio (nella specie, copertura del fabbricato, intonacatura esterna e lavorazioni inerenti alle strutture perimetrali) ovvero l’accertamento dell’obbligo di un condomino di realizzare delle modifiche sulle stesse, impone il litisconsorzio necessario tra tutti i condomini, trattandosi di azioni che investono un rapporto giuridico unico e inscindibile, finalizzate all’adempimento di una prestazione di facere non suscettibile di divisione, in quanto destinata ad incidere sui beni comuni (Sez. 2, n. 02634/2021, Scarpa, Rv. 660246-01).

Con riguardo alle ipotesi di comunione dei diritti reali, Sez. 2, n. 27377/2021, Tedesco, Rv. 662363-01, ha chiarito che i beni di una comunione possono provenire da titoli diversi, costituenti, essi stessi, distinte comunioni, da considerare come entità patrimoniali a sé stanti, con la conseguenza che, in sede di divisione giudiziale, ben può essere assegnata ad uno dei condividenti la quota indivisa di un bene. Da ciò l’ulteriore conseguenza che non è necessaria la partecipazione del terzo in giudizio qualora non sia stato chiesto lo scioglimento della diversa comunione relativa a quel singolo bene.

Sez. 2, n. 25497/2021, Scarpa, Rv. 662318-01, ha affermato che la proposizione, in via subordinata, di una domanda riconvenzionale (avente a oggetto, nella specie, la pretesa di accertamento della proprietà esclusiva, in capo ad un condomino, della porzione di sottotetto dell’edificio sovrastante il suo appartamento) implicante il litisconsorzio necessario passivo, la cui proposizione sia “condizionata” dalla parte all’adozione, a opera del giudice, del provvedimento di integrazione del contraddittorio e che, per identità delle questioni da risolvere, sia connessa a una simmetrica domanda principale (avente a oggetto, nella specie, l’accertamento della natura comune del medesimo sottotetto), nel senso che l’accoglimento dell’una implica il rigetto dell’altra, rende le due azioni collegate anche sotto il profilo delle conseguenze derivanti dal difetto di integrità del contraddittorio. Ne consegue, da un lato e sul piano dell’interesse ad agire, una situazione di connessione di natura processuale – dipendendo la decisione sulla subordinata da quella sulla domanda principale – e, dall’altro e sul piano dell’integrità del contraddittorio, una situazione di litisconsorzio necessario originario riguardo a ciascuna domanda, da intendersi, anche ove spiegata in via gradata, come già proposta e i cui effetti non sono validamente condizionabili all’adozione di un provvedimento sottratto alla disponibilità delle parti e necessario per assicurare il regolare contraddittorio nel processo.

2.2. Lavoro e previdenza.

Secondo Sez. L, n. 00438/2021, Arienzo, Rv. 660170-01, in caso di trasferimento di azienda o di un suo ramo, nel giudizio promosso dal lavoratore per affermare l’esistenza del rapporto lavorativo con il datore di lavoro cedente, e negare quello con il cessionario, non sussiste litisconsorzio necessario tra cedente e cessionario, in quanto il lavoratore non deduce in giudizio un rapporto plurisoggettivo, né alcuna situazione di contitolarità, ma tende a conseguire un’utilità rivolgendosi a una sola persona, ossia il vero datore di lavoro. In tal caso, l’accertamento negativo dell’altro rapporto avviene senza efficacia di giudicato e l’eventuale contrasto tra giudicati è bilanciato dalle esigenze di economia e speditezza processuale, ostacolate dalla presenza di un’altra parte nel giudizio.

In tema di selezioni concorsuali, Sez. L, n. 36356/2021, Bellé, Rv. 663002, ha chiarito che la pretesa con cui un docente di ruolo della scuola pubblica richiede il trasferimento in altra provincia, sulla base delle procedure previste dalla normativa di legge e dalla contrattazione collettiva, ha natura di azione di adempimento, alla cui introduzione è sufficiente la deduzione dell’inosservanza di regole di scelta favorevoli a tale docente e cui la P.A. era vincolata, mentre la questione in ordine all’effettiva spettanza di quel posto proprio a chi agisce e non ad altri concorrenti attiene al diverso piano della fondatezza nel merito o della prova e va definita sulla base dell’intero materiale istruttorio, acquisito o legalmente acquisibile in causa, ferma restando la necessità di integrare il contraddittorio con tutti i candidati concorrenti rispetto a quel medesimo posto e di coloro cui esso sia stato in concreto attribuito.

2.3. Persone, famiglia e successioni.

Da segnalare, anzitutto, Sez. U, n. 09006/2021, Acierno, Rv. 660971-01, che ha statuito che, nel giudizio volto a ottenere il riconoscimento dell’efficacia ai sensi dell’art. 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, del provvedimento straniero di adozione piena di un minore, gli adottanti sono litisconsorti necessari, poiché l’atto reca l’inscindibile riconoscimento dello status genitoriale di entrambi. Tuttavia, ove l’azione sia esperita da uno solo di essi, ma l’altro intervenga volontariamente nel giudizio di cassazione e aderisca in pieno alle difese del primo, consentendo di verificare l’assenza di alcun pregiudizio alle facoltà processuali delle parti, il giudice di legittimità non può rilevare il difetto del contraddittorio, né procedere alla rimessione della causa davanti al giudice di merito, ma è chiamato a esaminare il ricorso e a deciderlo, dovendo dare preminenza al principio di effettività nel valutare l’esercizio e la lesione del diritto di difesa. In tema di procedimento di adottabilità, Sez. 1, n. 23793/2021, Parise, Rv. 662381-01, ha statuito che, in tale procedimento, l’art. 10 della legge 26 maggio 1984, n. 183, che prevede la nomina del difensore d’ufficio del genitore del minore, parte necessaria, quando ha inizio la procedura, e pertanto in relazione al primo grado del giudizio, costituisce una disciplina speciale, derogatoria del diritto comune e pertanto di stretta interpretazione, che non è perciò suscettibile di estensione al grado di appello, nel quale la partecipazione del genitore è assicurata tramite la notifica dell’impugnazione, o disponendo l’integrazione del contraddittorio in suo favore, adempimenti sufficienti ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale. La Corte ha enunciato tale principio in un giudizio in cui al padre, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, era stato nominato in primo grado un difensore d’ufficio, che si era costituito, aveva ricevuto la notifica dell’impugnazione ed era comparso in secondo grado solo per dichiarare che il suo difeso non intendeva costituirsi, cosicché la Corte d’appello lo aveva correttamente dichiarato contumace. Sempre sulla medesima materia, Sez. 1, n. 20243/2021, Caradonna, Rv. 661967-01, ha affermato che, nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, i genitori del minore sono litisconsorti necessari e godono di una legittimazione autonoma, connessa a un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali, sicché, ove il giudizio sia celebrato senza la partecipazione di uno di essi e né il giudice di primo grado né quello dell’impugnazione rilevino vizio del contraddittorio, l’intero processo risulta viziato e il giudice di legittimità è tenuto a rilevare anche d’ufficio l’invalidità del provvedimento impugnato, procedendo al suo annullamento e rinviando la causa al primo giudice a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. Sempre in tema di procedimento per la dichiarazione di adottabilità, Sez. 1, n. 06247/2021, Dolmetta, Rv. 660888-02, ha statuito che, poiché ciascun genitore è parte necessaria di tale procedimento, la nullità della relativa costituzione comporta la nullità del giudizio nel quale il vizio si è verificato; tuttavia, se tale vizio riguarda il giudizio di primo grado, il giudice del gravame, una volta accertata la nullità, non può rimettere la causa al primo giudice ma deve invece provvedere alla rinnovazione degli atti nulli, essendo le ipotesi previste dall’art. 354 c.p.c. tassative e, quindi, non estensibili per via analogica. Sempre sullo stesso procedimento per lo stato di adottabilità, Sez. 1,n. 01472/2021, Valitutti, Rv. 660430-01, ha affermato che il titolo II della legge 4 maggio 1983, n. 184, attribuisce ai genitori del minore ed al suo rappresentante legale, tutore provvisorio o curatore speciale, una legittimazione autonoma, connessa a un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali, atta a far assumere loro la veste di parti necessarie dell’intero procedimento, pure in appello quand’anche in primo grado non si siano costituiti, sicché è necessario, a pena di nullità, integrare il contraddittorio nei loro confronti, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., ove tali parti non abbiano proposto il gravame. In ambito familiare, Sez. 6-3, n. 18707/2021, Positano, Rv. 661910-01, ha statuito che, nel giudizio intrapreso, ai sensi dell’art. 2901 c.c., verso uno dei coniugi in regime di comunione legale e riguardante un atto dispositivo compiuto da entrambi, non sussiste il litisconsorzio necessario dell’altro, atteso che l’eventuale accoglimento di tale azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica di quest’ultimo, ma comporterebbe esclusivamente l’inefficacia relativa dell’atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l’atto di disposizione. Nei giudizi relativi alla responsabilità dei genitori nei quali si discuta dell’affidamento della prole ai servizi sociali, la previsione di cui all’art. 336, comma 4, c.c., così come modificato dall’art. 37, comma 3, della legge 28 marzo 2001, n. 149, postula la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., sussistendo un conflitto d’interessi del minore con entrambi i genitori, sicché, ove non si sia provveduto a tale nomina, il procedimento deve ritenersi nullo ex art. 354, comma 1, c.p.c., con conseguente rimessione della causa al primo giudice perché provveda all’integrazione del contraddittorio (Sez. 1, n. 08627/2021, Caiazzo, Rv. 660899-01, la quale si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 05256/2018, Magda, Rv. 647744-01). In generale, nei giudizi che abbiano a oggetto provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, in virtù del combinato disposto dei commi 1 e 4 dell’art. 336 c.c., va nominato al minore un curatore speciale ai sensi dell’art. 78, comma 2, c.p.c., determinandosi in mancanza una nullità del procedimento che, se accertata in sede di impugnazione, comporta la rimessione della causa al primo giudice per l’integrazione del contraddittorio (Sez. 1, n. 01471/2021, Valitutti, Rv. 660382-01).

2.4. Obbligazioni.

La responsabilità della banca, in caso di abusiva concessione del credito all’impresa in stato di difficoltà economico-finanziaria, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fattori causativi del medesimo danno, senza che, per altro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo (Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-04).

2.5. Assicurazioni contro i danni.

In caso di chiamata in causa in garanzia dell’assicuratore della responsabilità civile, l’impugnazione – esperita esclusivamente dal terzo chiamato avverso la sentenza che abbia accolto sia la domanda principale, di affermazione della responsabilità del convenuto e di condanna dello stesso al risarcimento del danno, sia quella di garanzia da costui proposta – giova anche al soggetto assicurato sul piano processuale in quanto il litisconsorzio necessario che si viene a instaurare opera pienamente sul piano processuale, ma non pienamente su quello sostanziale, nel senso che i singoli rapporti giuridici rimangono distintamente soggetti alle vicende che li riguardano (Sez. 3, n. 11724/2021, Vincenti, Rv. 661322-01).

2.6. Società.

Nel procedimento arbitrale riguardante l’accertamento dell’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie, non sussiste il litisconsorzio necessario della società, poiché la controversia attiene al contratto tra fiduciante e fiduciario, efficace inter partes in virtù dell’incontro delle rispettive volontà, nel quale le partecipazioni al capitale sociale costituiscono soltanto l’oggetto del negozio (Sez. 1, n. 11226/2021, Nazzicone, Rv. 661281-01). In relazione al processo tributario, Sez. 5, n. 08882/2021, D’Orazio, Rv. 661029-01, ha statuito che, sebbene in applicazione del principio di trasparenza, ex art. 5 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, debbano partecipare al giudizio di merito sia la società di persone che i soci della stessa, non sussiste, a seguito del decesso del socio accomandatario di una società in accomandita semplice, un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra gli eredi del socio defunto e la società allorché venga a mancare la pluralità dei soci, determinandosi in tal caso lo scioglimento di quest’ultima ex art. 2272 c.c.

2.7. Espropriazione forzata e opposizioni all’esecuzione.

In difformità rispetto a Sez. 3, n. 13191/2015, Rossetti, Rv. 635974, e a Sez. 3, n. 10813/2020, Porreca, Rv. 657920-01, Sez. 3, n. 13533, Rossetti, Rv. 661412-01, ha affermato che, in tema di espropriazione presso terzi, nei giudizi di opposizione esecutiva si configura sempre litisconsorzio necessario fra il creditore, il debitore diretto ed il terzo pignorato.

2.8. Procedure concorsuali.

In tema di fallimento, Sez. 6-1, n. 29288/2021, Fidanzia, Rv. 662931-01, ha chiarito che gli originari creditori istanti per il fallimento di una società di persone o di un imprenditore individuale assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio di reclamo proposto dal socio illimitatamente responsabile, attinto dalla dichiarazione di fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147, commi 4 e 5, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. In applicazione di tale principio, la Corte ha respinto il ricorso del socio dichiarato fallito in estensione contro la pronuncia di estinzione del reclamo ex art 18 del r.d. n. 267 del 1942 per mancata integrazione del contraddittorio, nel termine assegnato dal giudice, nei confronti di uno dei creditori che avevano richiesto il fallimento della società di persone. Il giudizio per la dichiarazione di fallimento di una società di fatto non presuppone l’instaurazione del litisconsorzio necessario fra tutti i soci, dal momento che il principio generale per cui l’accertamento di un rapporto sociale postula il contraddittorio fra la totalità dei presunti e reali componenti dell’ente non trova applicazione qualora l’accertamento relativo all’esistenza del rapporto sociale sia meramente strumentale rispetto alla decisione sulla dichiarazione di fallimento (Sez. 1, n. 14365/2021, Amatore, Rv. 661494-01) .

2.9. Arbitrato.

In tema di procedimento arbitrale, Sez. 1, n. 29433/2021, Di Marzio M., Rv 662860-01, ha statuito che il difetto di integrità del contraddittorio dovuto alla pretermissione di un litisconsorte necessario determina la nullità del lodo, che può essere fatta valere anche dalla parte che abbia dato causa a tale nullità, senza che possa trovare applicazione il disposto dell’art. 829, comma 2, c.p.c., a cagione della gravità del vizio, che rende la pronuncia inutiliter data.

2.10. Successione nel processo.

Tra le ipotesi di litisconsorzio necessario processuale vi è anche quella che si determina in seguito alla successione nel processo, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., di una pluralità di eredi. Peraltro, secondo Sez. 6-2, n. 05444/2021, Scarpa, Rv. 660700-01, non va integrato il contradditorio nei confronti della persona fisica che, cumulando in sé la qualità di parte in proprio e quella di erede di altro soggetto, deceduto prima dell’inizio del giudizio, sia stata comunque citata nella causa in proprio. Ciò in quanto tale situazione, in cui è dato ravvisare l’unicità della parte in senso sostanziale, differisce da quella della morte della parte avvenuta nel corso del giudizio, la quale, in seguito all’interruzione del processo ai sensi degli artt. 299 e 300, comma 2, c.p.c., determina la necessità della citazione in riassunzione degli eredi in tale qualità, ancorché già costituiti in nome proprio, oppure della prosecuzione del processo nei loro confronti.

3. Litisconsorzio necessario in fase di gravame.

Per effetto della chiamata in causa in garanzia, si determina un litisconsorzio necessario di carattere processuale, di talché l’impugnazione proposta dal chiamante garantito, rimasto soccombente, deve essere notificata anche al chiamato garante, dovendo il giudice, in caso contrario, disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331, primo comma, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 33481/2021, Criscuolo, Rv. 662842-01). Sez. 2, n. 21610/2021, Oliva, Rv. 662056-01, ha chiarito che, in presenza di più domande proposte dalle parti del giudizio, alcune delle quali soggette al litisconsorzio necessario e altre no, tra le quali non si ravvisi un rapporto di pregiudizialità, né alcun profilo di necessario collegamento logico-giuridico, la remissione della causa al giudice di prime cure, a cagione della mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di uno o più litisconsorti pretermessi in primo grado, si giustifica solo in relazione alle domande soggette a tale regime. Ne consegue che, in siffatta evenienza, il giudice di secondo grado deve separare le cause, rimettendo al primo grado solo le domande assoggettate a litisconsorzio necessario, mentre deve esaminare i motivi di impugnazione relativi alle altre domande.

Il giudice d’appello, qualora rinvii la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c. per integrare il contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, deve provvedere in ordine alle spese del processo di secondo grado, condannando al pagamento delle stesse la parte riconosciuta soccombente per avere dato causa alla nullità che ha determinato il rinvio. Inoltre, ove abbia elementi sufficienti per stabilire a chi debba essere attribuita l’irregolarità che ha dato luogo alla rimessione, può decidere anche sulle spese di primo grado. Nella specie, la Corte ha cassato la decisione di appello, che aveva posto le spese di lite del primo grado a carico delle parti convenute, per non avere queste eccepito il difetto di integrità del contraddittorio, laddove l’imperfetta individuazione dei litisconsorti dipende, piuttosto, dalla negligenza o da un errore dell’attore ovvero da un difetto di attività del giudice (Sez. 6-2, n. 11865/2021, Scarpa, Rv. 661476-01, la quale si pone in linea di continuità con Sez. 2, n. 16765/2010, Bursese Ga., Rv. 614173-01).

Qualora il soggetto contro il quale un esattore abbia iscritto ipoteca proponga domanda di accertamento dell’illegittimità della sua iscrizione perché avvenuta nonostante l’inesistenza della relativa pretesa e convenga sia l’ente titolare di tale pretesa sia il medesimo esattore, si verifica un litisconsorzio necessario processuale, con la conseguenza che, ove detta domanda sia accolta e il menzionato ente contesti la decisione, la causa è inscindibile e l’impugnazione deve coinvolgere anche lo stesso esattore ex art. 331 c.p.c. (Sez. 3,n. 10480/2021, Fiecconi, Rv. 661245-01).

Sez. 1, n. 01472/2021, Valitutti, Rv. 660430-01, già ricordata al paragrafo 2.3, ha statuito che, in tema di procedimento per lo stato di adottabilità, il titolo II della legge 4 maggio 1983, n. 184, attribuisce ai genitori del minore ed al suo rappresentante legale, tutore provvisorio o curatore speciale, una legittimazione autonoma, connessa a un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali, atta a far assumere loro la veste di parti necessarie dell’intero procedimento, pure in appello quand’anche in primo grado non si siano costituiti, sicché è necessario, a pena di nullità, integrare il contraddittorio nei loro confronti, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., ove tali parti non abbiano proposto il gravame.

4. Conseguenze del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame.

Quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse e il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza, emessa all’esito di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. a ordinanza di convalida di sfratto per morosità, per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del conduttore (Sez. 3, n. 04665/2021, Guizzi, Rv. 660603-01).

5. Bilanciamento tra l’esigenza di rilevare in sede di impugnazione il difetto di integrità del contraddittorio e quella di garantire la ragionevole durata del processo.

Va qui rammentata Sez. 5, n. 18890/2021, Putaturo Donati Viscido di Nocera,Rv. 661760-01, secondo cui, nel giudizio di cassazione, in presenza di un accertamento di maggiore imponibile a carico di una società di persone ai fini delle imposte dirette, Irap e Iva, fondato sugli stessi fatti o su elementi comuni, la nullità dei giudizi di merito – per essere stati celebrati, in violazione dei principio del contraddittorio, senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) – non va dichiarata qualora il ricorso per cassazione dell’amministrazione finanziaria risulti inammissibile o prima facie infondato, atteso che, in tal caso, non derivando ai litisconsorti pretermessi alcun danno dalla detta pronuncia, disporre la rimessione al giudice di primo grado contrasterebbe con i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, che hanno fondamento nell’art. 111, comma 2, Cost. e nell’art. 6, par. 1, CEDU.

6. Litisconsorzio facoltativo.

In linea di principio, tra le ipotesi di litisconsorzio facoltativo vi è quella delle obbligazioni solidali. Ne è un esempio la fattispecie scrutinata da Sez. 1, n. 18610/2021, Nazzicone, Rv. 661819-04, già ricordata al par. 2.4, secondo cui la responsabilità della banca, in caso di abusiva concessione del credito all’impresa in stato di difficoltà economico-finanziaria, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fattori causativi del medesimo danno, senza che, per altro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo.

  • procedura civile
  • testimonianza
  • consulenza e perizia
  • prova
  • pubblica amministrazione

CAOITOLO IX

LE PROVE

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il principio di non contestazione. - 2 La consulenza tecnica d’ufficio. - 2.1 I poteri del c.t.u. di acquisire ulteriori elementi probatori. - 2.2 Le questioni ancora in attesa di risoluzione. - 2.3 La liquidazione del compenso del c.t.u. - 2.4 La consulenza di parte. - 3 L’ordine di esibizione. - 4 La richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione. - 5 Il disconoscimento di scritture private. - 5.1 Le modalità di disconoscimento. - 5.2 L’istruttoria. - 5.3 Il disconoscimento delle riproduzioni. - 5.4 I rapporti tra il giudizio di verificazione e quello di falso. - 5.5 Le scritture provenienti da terzi. - 6 La querela di falso. - 7 La confessione. - 8 La prova testimoniale. - 8.1 La valenza probatoria delle dichiarazioni rese dagli informatori.

1. Il principio di non contestazione.

Per quanto nel corso dell’anno in oggetto non vi siano state pronunce particolarmente significative sul tema, va segnalato che, in un’ottica di semplificazione della disciplina processuale e dell’attività istruttoria del giudice, la legge delega di riforma del processo civile propone di puntualizzare che l’applicazione del principio della non contestazione, già introdotto con la legge 18 giugno 2009, n. 69, nel comma 1 dell’articolo 115 c.p.c., riguardi le controversie su diritti disponibili e di estenderlo anche all’ipotesi in cui vi sia la contumacia della parte. In questa direzione si muove la proposta di prevedere che, in materia di diritti disponibili, siano non bisognosi di prova per il giudice comunque i fatti allegati da una parte e non specificatamente contestati dalla controparte, anche laddove la non specifica contestazione sia l’effetto della contumacia.

Attualmente, invece, quando il convenuto è contumace (evenienza che può realizzarsi, ai sensi dell’art. 171, co. 2, c.p.c., anche in relazione all’attore), l’istruzione probatoria si rende sempre necessaria. Solo il rito societario, di recente abrogato, aveva considerato la contumacia alla stregua di una ficta confessio. Questo rende la posizione del contumace più favorevole rispetto a quella della parte costituita.

In proposito, Sez. 2, 42035/2021, Dongiacomo, Rv. 663401-01, nel ribadire che la contumacia esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte e non altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti (sicchè la contumacia del convenuto non esclude che l’attore debba fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio), ha affermato che il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto.

L’estensione della non contestazione anche al contumace imporrebbe di rivedere anche la previsione attualmente contenuta nell’articolo 186-bis c.p.c. sull’ordinanza di condanna al pagamento delle somme non contestate, in quanto anche in questo caso attualmente si limitano gli effetti della non contestazione solo nei confronti della parte costituita. Peraltro, al fine di aprire ad una maggiore utilizzabilità pratica dell’ordinanza anticipatore in questione, la delega sollecita a prevedere che la sua pronuncia possa riguardare qualunque oggetto della domanda (pagamento di somme di denaro, consegna di cose mobili o rilascio di beni immobili, obblighi di fare o di non fare). In conformità a ciò, un’identica soluzione viene prospettata in relazione all’ordinanza di cui all’articolo 423 c.p.c. per il processo del lavoro.

Strettamente connessa con l’operare del principio della non contestazione è anche la questione - lasciata irrisolta dalla riforma del 2009 e fonte di divergenti orientamenti in sede applicativa – del termine entro il quale la parte possa esercitare la specifica contestazione dei fatti allegati dalla controparte. A questo fine la delega propone di introdurre, come regola generale, la previsione secondo cui la specifica contestazione vada effettuata, a pena di decadenza, nel primo atto difensivo successivo a quello in cui vi sia stata l’allegazione dei fatti in giudizio con riferimento ai quali va esercitato l’onere di contestazione.

In questo contesto, Sez. L, n. 02174/2021, Cavallaro, Rv. 660331-01, ha ribadito che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte e dedotti nel processo, non anche per quelli ad essa ignoti o allegati in sede extraprocessuale, atteso che il principio di non contestazione trova fondamento nel fenomeno di circolarità degli oneri di allegazione, confutazione e prova, di cui agli artt. 414, nn. 4 e 5, e 416 c.p.c., che è tipico delle vicende processuali.

Sez. 3, n. 24415/2021, Porreca, Rv. 662400-01, ha affermato che la valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, deve essere correlata al regime delle preclusioni che la disciplina processuale connette all’esaurimento della fase entro la quale è consentito ancora alle parti di precisare e modificare, sia allegando nuovi fatti - diversi da quelli indicati negli atti introduttivi - sia revocando espressamente la non contestazione dei fatti già allegati, sia ancora deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte; ne deriva che nel procedimento sommario di cognizione, fino alla sua eventuale conversione in rito ordinario con la fissazione dell’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c., non può rinvenirsi né letteralmente, né sistematicamente, alcuna non prevista preclusione.

Ratione temporis, Sez. 3, n. 40756/2021, Scoditti, Rv 663578-01 ha chiarito che, nei giudizi instaurati prima dell’entrata in vigore dell’art. 45, comma 14, legge n. 69 del 2009, che ha sostituito il secondo comma dell’art. 115, comma 2, c.p.c., il principio di non contestazione trova applicazione solo con riferimento ai fatti primari, cioè costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio, mentre per i fatti secondari - vale a dire quelli dedotti in mera funzione probatoria - la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., per cui tali fatti possono essere contestati per la prima volta anche nel giudizio di appello.

2. La consulenza tecnica d’ufficio.

Nel corrente anno numerose e significative sono state le pronunce della Suprema Corte in tema di consulenza tecnica d’ufficio.

Com’è noto, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o in toto, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice.

In termini generali, lo svolgimento di una prima consulenza non preclude, quindi, l’affidamento di un’ulteriore indagine a professionista qualificato nella materia, al fine di fornire al giudice un ulteriore mezzo volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti. Orbene, qualora nel corso del giudizio di merito vengano espletate più consulenze tecniche in tempi diversi con risultati difformi, il giudice può seguire il parere che ritiene più congruo o discostarsene, dando adeguata e specifica giustificazione del suo convincimento; in particolare, Sez. 3, n. 19372/2021, Vincenti, Rv. 661838-02, ha ribadito (Sez. L, n. 19572/2013, Tria L., Rv. 628271 - 01) che, quando intenda uniformarsi alla seconda consulenza, non può limitarsi ad una adesione acritica, ma deve giustificare la propria preferenza indicando le ragioni per cui ritiene di disattendere le conclusioni del primo consulente, salvo che queste risultino criticamente esaminate nell’ambito della nuova relazione con considerazioni non specificamente contestate dalle parti.

In proposito, va, peraltro, ricordato che, qualora sia stata disposta la consulenza e ne condivida i risultati, il giudice non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità.

Allorquando non abbia le cognizioni tecnico-scientifiche necessarie ed idonee a ricostruire e comprendere la fattispecie concreta in esame nella sua meccanicistica determinazione ed evoluzione, pur essendo peritus peritorum, il giudice deve fare invero ricorso a una consulenza tecnica di tipo percipiente, quale fonte oggettiva di prova, sulla base delle cui risultanze è tenuto a dare atto dei risultati conseguiti e di quelli, viceversa, non conseguiti o non conseguibili, in ogni caso argomentando su basi tecnico-scientifiche e logiche. Il giudice può anche disattendere le risultanze della disposta c.t.u. percipiente, ma, secondo Sez. 3, n. 36638/2021, Scarano, Rv. 663298-02, solo motivando in ordine agli elementi di valutazione adottati e agli elementi probatori utilizzati per addivenire all’assunta decisione, specificando le ragioni per cui ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni del c.t.u.

2.1. I poteri del c.t.u. di acquisire ulteriori elementi probatori.

L’orientamento ormai consolidato (Sez. 2, n. 02671/2020, Dongiacomo, Rv. 657091 – 01; n. 01901 del 2010, Rv. 611569 – 01; n. 12921 del 2015, Rv. 635808 – 01) ritiene che il consulente tecnico di ufficio abbia il potere di attingere aliunde notizie e dati non rilevabili dagli atti processuali, quando ciò sia indispensabile per espletare convenientemente il compito affidatogli.

Va, infatti, ricordato che la consulenza tecnica d’ufficio (Sez. 6 - 1, n. 30218/2017, Genovese, Rv. 647288 – 01) non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze.

Da ciò deriva che il perito, ai sensi dell’art. 194 c.p.c., può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse. Il principio, che non può dirsi ancora unanime, è stato riaffermato da Sez. 2, n. 21926/2021, Oliva, Rv. 662060-01, la quale si è posta nella scia di Sez. 2, n. 14577/2012, D’Ascola, Rv. 623712-01, che aveva ritenuto ammissibile l’acquisizione, ad opera del consulente tecnico d’ufficio, di documentazione relativa alla certificazione catastale ed alla regolarità urbanistica dell’immobile oggetto di divisione.

Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato, qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Sez. 1, n. 21487/2017, Ceniccola, Rv. 645410-01; Sez. 1, n. 15774/2018, Nazzicone, Rv. 649471-01).

Il perito d’ufficio, nell’espletamento del mandato ricevuto, può chiedere informazioni a terzi ed alle parti per l’accertamento dei fatti collegati con l’oggetto dell’incarico, senza bisogno di una preventiva autorizzazione del giudice, atteso che tali informazioni, di cui siano indicate le fonti in modo da permetterne il controllo delle parti, possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice, unitamente alle altre risultanze di causa; peraltro, ha sottolineato Sez. 2, n. 27723/2021, Criscuolo, Rv. 662444-01, il c.t.u., in quanto ausiliario del giudice, ha la qualità di pubblico ufficiale, sicché il verbale redatto, attestante le dichiarazioni a lui rese, fa fede fino a querela di falso.

Considerazioni parzialmente difformi valgono nel rito del lavoro Invero, in tale contesto l’acquisizione, da parte del c.t.u., di documenti non prodotti dalle parti è riconducibile ai poteri istruttori ufficiosi, sicché, da un lato, è ammissibile solo previa autorizzazione del giudice, e dall’altro impone a quest’ultimo di assegnare un termine per la formulazione della prova contraria alla parte che ne faccia richiesta. Da ciò consegue che, ai fini della legittimità dell’operato del consulente, occorre la compresenza di una preventiva autorizzazione giudiziale e di un contraddittorio ex post sulle risultanze istruttorie in tal guisa acquisite. In applicazione dell’enunciato principio, Sez. L, n. 24024/2021, Buffa, Rv. 662154-01, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, sul presupposto della sussistenza della relativa autorizzazione giudiziale, aveva ritenuto legittima l’acquisizione, da parte del c.t.u. nominato in grado d’appello, di fotografie d’epoca dalle quali era emersa l’assenza di amianto nelle lavorazioni, omettendo, tuttavia, di dar corso alla prova contraria, ritualmente richiesta dai ricorrenti nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e di appello.

2.2. Le questioni ancora in attesa di risoluzione.

In questo contesto si è in attesa di interventi chiarificatori delle Sezioni Unite su due questioni spinose.

Invero, la Prima sezione civile, con ordinanza n. 09811/2021, Valitutti, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della questione, oggetto di contrasto tra le decisioni della Corte (per quanto appare decisamente prevalente l’orientamento secondo cui si sarebbe al cospetto di una nullità relativa, da eccepirsi, a pena di decadenza, nella prima udienza – compresa quella di mero rinvio -, istanza o difesa successiva al deposito della relazione), se lo svolgimento di indagini peritali su fatti estranei al thema decidendum della controversia in violazione del principio dispositivo cagioni una nullità della consulenza tecnica, da qualificare di carattere assoluto o relativo e, pertanto, rilevabile d’ufficio ovvero solo su istanza di parte nella prima difesa utile.

La stessa Prima sezione civile, con ordinanza n. 08924/2021, Valittutti, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla questione, decisa in senso difforme dalle sezioni semplici e sostanzialmente sovrapponibile alla precedente, ma di più ampio respiro, concernente la natura della nullità della consulenza tecnica di ufficio, ed il conseguente rilievo officioso, o su istanza di parte, della stessa.

2.3. La liquidazione del compenso del c.t.u.

La liquidazione del compenso al consulente tecnico d’ufficio, ove l’accertamento richiesto dal giudice sia unico, benché implicante attività interdipendenti tra loro, deve essere unitaria, e non per sommatoria di più voci tariffarie, presupponendo, viceversa, quest’ultima una pluralità di accertamenti. Sez. 2, n. 10367/2021, Gorjan, Rv. 661045-01, ha fatto applicazione di tale principio in relazione alla liquidazione del compenso per un incarico peritale riguardante la predisposizione di un piano millesimale di un condominio che implicava lo svolgimento di attività tra loro connesse, quali la misurazione dei vani e l’elaborazione matematica delle proporzioni ai fini dell’individuazione dei millesimi da assegnare ai singoli partecipanti alla comunione.

A tal riguardo, va segnalato che, secondo Corte cost. 20 maggio 2021, n. 102, a fronte dell’introduzione, nei procedimenti civili e penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, del principio di necessaria collegialità (prevedendo l’art. 15 della legge 8 marzo 2017, n. 24, che i giudici affidino ab initio l’incarico ad un collegio, in cui uno dei membri deve essere uno specialista in medicina legale ed un altro deve essere specialista nella branca interessata dal caso in discussione – clinica o chirurgica, infermieristica o tecnico-sanitaria -), non trova giustificazione la scelta del legislatore di determinare l’onorario globale spettante al collegio in misura pari a quella che verrebbe riconosciuta in caso di conferimento di incarico al singolo.

Nel giudizio di opposizione al decreto di liquidazione del compenso a favore del consulente tecnico d’ufficio, il giudice deve verificare se l’opera svolta dall’ausiliare sia rispondente ai quesiti posti dal giudice che ha conferito l’incarico, tenuto conto, ai sensi dell’art. 51 del d.P.R. n. 115 del 2002, della difficoltà, completezza e pregio della relazione peritale che costituiscono i parametri per la determinazione del compenso; dall’accertamento è esclusa la valutazione circa l’utilità e la validità della consulenza tecnica, questioni che attengono al merito della causa e vanno fatte valere nella relativa sede. Sulla base di tale principio, Sez. 6-2, n. 36396/2021, Varrone, Rv. 663080-01, ha cassato la pronuncia di appello che, nel liquidare il compenso per la perizia, aveva computato anche l’attività di indagine svolta dal c.t.u. su un appartamento estraneo all’oggetto del giudizio e al quesito proposto dal giudice.

2.4. La consulenza di parte.

Sez. 6-2, n. 09483/2021, Abete, Rv. 660945-01, ha confermato (Sez. 3, n. 02063/2010, D’Amico, Rv. 611353-01) il principio secondo cui la consulenza di parte, ancorché confermata sotto il vincolo del giuramento, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente.

Anche in ambito tributario Sez. 5, n. 03104/2021, Lo Sardo, Rv. 660644-02, ha avuto modo di affermare che le osservazioni contenute in una perizia stragiudiziale rappresentano mere allegazioni difensive.

3. L’ordine di esibizione.

In via preliminare, va ricordato che l’ordine di esibizione, subordinato alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118, 119 c.p.c. e 94 disp. att. c.p.c., costituisce uno strumento istruttorio residuale ed è espressione di una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (in senso contrario, ma con riferimento ad una fattispecie peculiare, Sez. 6-1, n. 13903/2020, Dolmetta, Rv. 658498-01, secondo cui l’emanazione dell’ordine di esibizione da parte del giudice si sottrarrebbe al regime comune di discrezionalità), il cui mancato esercizio non può, quindi, formare oggetto di ricorso per cassazione, per violazione di norma di diritto (Sez. 2, n. 31251/2021, Scarpa, Rv. 662746-01). In particolare, come ha chiarito Sez. 3, n. 27412/2021, Scrima, Rv. 662416-02, la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata; ne consegue che il relativo esercizio è svincolato da ogni onere di motivazione e il provvedimento di rigetto dell’istanza non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte istante non abbia finalità esplorativa (in questi stessi termini si era espressa, in passato, Sez. L, n. 24188/2013, Filabozzi, Rv. 629099-01).

Ciò nonostante, la richiesta formulata da una delle parti, volta ad ottenere dal terzo l’esibizione ex art. 210 c.p.c. di un documento contenente dati personali dell’altra parte non può essere respinta per solo il fatto che il richiedente non abbia fatto istanza di accesso ex d.lgs. n. 196 del 2003, poiché le ragioni di protezione dei dati personali sono per legge recessive rispetto alle esigenze di giustizia e, in un’ottica di concentrazione delle tutele, si deve favorire la composizione dei diversi interessi in un’unica sede, secondo le regole proprie di quest’ultima. Applicando tale principio, Sez. 1, n. 05068/2021, Scalia, Rv. 660726-01, ha confermato la decisione impugnata che, per statuire sul diritto del coniuge divorziato alla quota di TFR incassato dall’altro, aveva accolto la richiesta di ordinare al suo datore di lavoro l’esibizione del documento contenente la relativa liquidazione.

La detta pronuncia sembra in linea con l’indirizzo più rigoroso (Sez. 2, n. 13533/2011, Manna F., Rv. 618320-01; conf. Sez. L, n. 01484/2014, Balestrieri, Rv. 630271-01), a tenore del quale la discrezionalità del potere officioso del giudice di ordinare alla parte o ad un terzo, ai sensi degli artt. 210 e 421 c.p.c., l’esibizione di un documento sufficientemente individuato, non potendo sopperire all’inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori, rimane subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 e 94 disp. att. c.p.c. e deve essere supportata da un’idonea motivazione, anche in considerazione del più generale dovere di cui all’art. 111, comma sesto, Cost., saldandosi tale discrezionalità con il giudizio di necessità dell’acquisizione del documento ai fini della prova di un fatto.

Parzialmente distonica rispetto a questa impostazione appare Sez. 1, n. 24641/2021, Di Marzio M., Rv. 662395-02, a mente della quale il diritto spettante al cliente, a colui che gli succede a qualunque titolo o che subentra nell’amministrazione dei suoi beni, ad ottenere, a proprie spese, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, ivi compresi gli estratti conto, sancito dall’articolo 119, quarto comma, del decreto legislativo 10 settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, non può essere soddisfatto, qualora detta documentazione non sia stata precedentemente richiesta alla banca, in sede di consulenza tecnica d’ufficio contabile, ove essa abbia ad oggetto fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (Sez. 1, n. 24641/2021, Di Marzio M., Rv. 662395-01).

4. La richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione.

Per Sez. 3, n. 14410/2021, Cricenti, Rv. 661552-01, nel caso in cui il giudice di primo grado, dopo aver preso la causa in decisione, l’abbia rimessa sul ruolo al fine di esercitare il potere di cui all’art. 213 c.p.c. per acquisire d’ufficio atti o documenti che la parte era in condizione di produrre in giudizio, e successivamente, all’esito di ulteriore rimessione in istruttoria, abbia disposto una consulenza tecnica d’ufficio, il giudice d’appello, ove la questione risulti ritualmente sollevata con l’atto d’impugnazione, sul rilievo della inutilizzabilità della documentazione illegittimamente acquisita d’ufficio in prime cure, nonché della nullità derivata della disposta c.t.u., deve riportare il processo allo stato in cui si trovava al momento della prima rimessione sul ruolo, decidendo nel merito allo stato degli atti, o rimetterlo, a sua volta, in istruttoria, esercitando i poteri di cui all’art. 356 c.p.c., eventualmente disponendo nuova consulenza tecnica.

5. Il disconoscimento di scritture private.

Come è noto, la verificazione giudiziale di una scrittura privata può essere chiesta, sulla stessa falsariga della querela di falso, in via incidentale (come incidente all’interno di un processo avente un diverso oggetto) o in via principale (proponendo con atto di citazione un’autonoma domanda avente come unico oggetto quello di verificare – la genuinità del – la sottoscrizione apposta sulla scrittura).

Sez. 6-1, n. 20882/2021, Dolmetta, Rv. 662037-01, ha ribadito (Sez. 1, n. 00974/2008, Panzani, Rv. 601300-01) che la parte che sostenga la non autenticità della sottoscrizione del documento, recante l’apparente sua firma, non è tenuta ad attendere di essere evocata in giudizio da chi affermi una pretesa sulla base di tale documento, per poter effettuare il disconoscimento, ma può assumere l’iniziativa del processo per sentir accertare la non autenticità della sottoscrizione (e accogliere le domande che postulano tale accertamento), con la conseguenza che, in tal caso, si applicano le ordinarie regole probatorie, e non la disciplina prevista dagli artt. 214 e ss. c.p.c.

Si ha riguardo alla fattispecie di una scrittura privata, che non sia stata riconosciuta e che non debba ritenersi legalmente riconosciuta, e per la quale, pertanto, non sia necessario esperire la querela di falso, al fine di contestarne la piena efficacia probatoria (art. 2702 c.c.).

5.1. Le modalità di disconoscimento.

Il disconoscimento della propria sottoscrizione, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., deve avvenire in modo formale ed inequivoco, essendo, a tal fine, inidonea una contestazione generica oppure implicita, perché frammista ad altre difese o meramente sottintesa in una diversa versione dei fatti; inoltre, la relativa eccezione deve, secondo Sez. 5, n. 17313/2021, Giudicepietro, Rv. 661429-01, contenere specifico riferimento al documento e al profilo di esso che viene contestato, sicché non vale, ove venga dedotta preventivamente, a fini solo esplorativi e senza riferimento circoscritto al determinato documento, ma con riguardo ad ogni eventuale produzione in copia che sia stata o possa essere effettuata da controparte.

Anche avuto riguardo alle copie fotostatiche di scritture prodotte in giudizio (sulle quali vedasi postea), Sez. 3, n. 40750/2021, Rossetti, Rv. 663440-01, ha confermato il principio (Sez. 5, n. 16557/2019, Rv. 654386-01, e Sez. 6-5, n. 14279/2021, Cataldi, Rv. 661573-01) secondo cui il disconoscimento delle stesse, ai sensi dell’art. 2719 c.c., impone che, pur senza vincoli di forma, la contestazione della loro conformità all’originale venga compiuta, a pena di inefficacia, mediante una dichiarazione che evidenzi in modo chiaro ed univoco sia il documento che si intende contestare, sia gli aspetti differenziali di quello prodotto rispetto all’originale, non essendo invece sufficienti né il ricorso a clausole di stile né generiche asserzioni. Sembra, quindi, ormai abbandonato un passato indirizzo (Sez. 1, n. 04912/2017, Rv. 644441-01), a dire il vero pressocchè isolato, a mente del quale l’onere, stabilito dall’art. 2719 c.c., di disconoscere “espressamente” la copia fotostatica di una scrittura non imporrebbe anche la precisazione degli aspetti per i quali si assume tale difformità.

E così per Sez. 2, n. 06890/2021, Gorjan, Rv. 660801-01, il disconoscimento preventivo della firma apposta su una scrittura privata, non ancora depositata in giudizio, è idoneo ad impedire il riconoscimento tacito, ai fini degli artt. 214 e 215 c.p.c., quando vi sia certezza del riferimento ad una scrittura determinata e conosciuta dalle parti e la stessa rappresenti un elemento probatorio rilevante nell’economia della controversia. La pronuncia non si pone in contrasto con l’orientamento decisamente maggioritario (Sez. 2, n. 03431/1998, Cardillo, Rv. 514172 - 01), secondo cui non è idonea ad impedire il riconoscimento tacito di una scrittura privata l’eccezione di disconoscimento formulata in via preventiva, e non più proposta dopo la produzione in giudizio del documento.

Quanto alla tempistica, la parte rimasta contumace nel giudizio di primo grado può disconoscere in appello la scrittura privata contro di essa prodotta nella precedente fase ed utilizzata nella sentenza impugnata ai fini della decisione. Sulla base di questa premessa, Sez. 3, n. 13145/2021, Gorgoni, Rv. 661383-01, ha affermato che l’appellante può compiere il disconoscimento con l’atto di impugnazione, primo atto successivo alla sentenza che menziona la scrittura.

5.2. L’istruttoria.

Allorché sia proposta istanza di verificazione della scrittura privata, il giudice non è tenuto a disporre necessariamente una consulenza tecnica grafologica per accertare l’autenticità della scrittura, qualora possa desumere la veridicità del documento attraverso la comparazione di esso con altre scritture incontestabilmente provenienti dalla medesima parte e ritualmente acquisite al processo, mentre resta escluso che la questione in esame possa essere risolta attraverso il ricorso ad elementi estranei al procedimento di verificazione, quali, ad esempio, la condotta delle parti. In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 25508/2021, Fiecconi, Rv. 662406-01, ha cassato la decisione del giudice di merito che, pur avendo ritenuto tacitamente proposta l’istanza di verificazione da parte dell’attore, aveva omesso di dar luogo al procedimento istruttorio autonomo disponendo l’ammissione delle prove già articolate e una consulenza grafologica d’ufficio.

Il principio secondo cui la produzione dell’originale di un documento prodotto in precedente in semplice copia non costituisce nuova produzione in senso tecnico giuridico, cosicché ne è ammissibile il deposito anche in appello (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1366 del 26/02/2016, Rv. 638327), oltre che essere certamente estensibile anche al caso, affine, di deposito dell’originale nel corso del giudizio di primo grado, ma dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 183, sesto comma, n. 2, c.p.c., non conosce eccezioni in relazione alla procedura di verificazione della scrittura che sia stata depositata in copia, la cui sottoscrizione venga disconosciuta dal soggetto nei cui confronti essa è stata prodotta. In tale ipotesi, anzi, la presenza dell’originale agli atti del giudizio è ancor più necessaria, in quanto la perizia grafica deve, preferibilmente, svolgersi su di esso, e non sulla copia, al fine di assicurare la massima affidabilità dell’indagine devoluta all’ausiliario. Sotto questo profilo, peraltro, entrambe le parti sono interessate, sia pure per opposti motivi, alla massima accuratezza dell’accertamento demandato al perito, posta la decisività degli esiti della perizia grafologica; come ha sottolineato Sez. 6-2, Oliva, n. 35167/2021,Rv. 663281-01 il deposito dell’originale, quindi, corrisponde ad una esigenza concorrente, non soltanto delle parti, ma dello stesso ordinamento giuridico, a garantire che la procedura di verificazione si svolga con modalità tali da rendere possibile l’accertamento dell’autenticità, o della falsità, della sottoscrizione o del documento disconosciuti, al di là di ogni ragionevole dubbio.

5.3. Il disconoscimento delle riproduzioni.

In tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c., Sez. 6-1, n. 12794/2021, Falabella, Rv. 661434-01, ha ribadito (conf.: Sez. L, n. 17526/2016, Amendola, Rv. 641181-01) che il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere non solo tempestivo, soggiacendo a precise preclusioni processuali, ma anche chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta.

Pertanto, anche il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche di fatti o di cose prodotte in giudizio, pur non implicando necessariamente l’uso di formule sacramentali, deve essere chiaro e circostanziato (cioè contenere un preciso riferimento alla copia concretamente individuata ed al profilo che viene contestato; Cass. civ., sez. trib., 21 gennaio 2004, n. 935; sulla specificità del disconoscimento cfr. Cass. 11 luglio 2003, n. 10912; conf. Cass. nn. 27633/18 e 17902/18) ed esplicito, con allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta. Ne deriva che una contestazione generica non può escludere di per sè la valenza probatoria del documento (Cass., sez. lav., 8 maggio 2007, n. 10430).

5.4. I rapporti tra il giudizio di verificazione e quello di falso.

Avuto riguardo ai rapporti tra giudizio di verificazione e giudizio di falso, Sez. 3,n. 02152/2021, Iannello, Rv. 660391-01, ha chiarito che, in tema di accertamento della verità di un documento, tra il giudizio di verificazione della scrittura privata e il giudizio di falso sussiste disomogeneità strutturale e funzionale, in quanto il primo ha per oggetto esclusivamente l’autenticità di una scrittura privata o della sottoscrizione ad essa apposta, mentre il secondo può investire anche l’atto pubblico o la scrittura privata riconosciuta o non riconosciuta o autenticata e può avere ad oggetto anche la genuinità della dichiarazione in essi contenuta; pertanto, avuto riguardo al combinato disposto degli artt. 221 e 355 c.p.c., la proposizione dell’istanza di verificazione di una scrittura privata, in seguito al suo disconoscimento, preclude la proponibilità della successiva querela di falso solo se il giudizio di verificazione sia culminato nell’accertamento dell’autenticità della sottoscrizione con sentenza passata in giudicato e solo se la querela di falso che si intende proporre (in via principale o incidentale) sia diretta a mettere nuovamente in discussione proprio e soltanto quella autenticità, mentre invece nessuna preclusione opera nella contraria ipotesi in cui sull’accertamento dell’autenticità della sottoscrizione non si sia ancora formato il giudicato (nel qual caso il giudizio di falso potrà riguardare anche la sola autenticità della sottoscrizione) ovvero, pur essendo passato in giudicato l’accertamento dell’autenticità della sottoscrizione operato nel giudizio di verificazione, la querela di falso sia tuttavia diretta (anche od esclusivamente) a far valere la falsità ideologica del documento. Ove, nonostante la preclusione derivante dal disposto dell’art. 221 c.p.c., la querela di falso sia stata ugualmente ammessa nel corso del giudizio di merito, l’improponibilità della querela si traduce nell’inopponibilità del giudicato eventualmente formatosi sull’esito di essa in ordine all’accertamento della falsità della sottoscrizione, sul quale prevale quello contrario relativo all’accertamento dell’autenticità della stessa, formatosi nel precedente giudizio di verificazione.

In definitiva, alla parte cui sia riferita una scrittura privata è sempre consentito non solo di disconoscerla, così facendo carico alla controparte della verificazione, ma anche di proporre alternativamente la querela di falso, al fine di negare definitivamente la genuinità del documento, poiché, in difetto di limitazioni di legge, non può negarsi la facoltà di optare per uno strumento più gravoso, ma rivolto al perseguimento di un risultato più ampio e definitivo, qual è quello della completa rimozione del valore dell’atto con effetti erga omnes (fra le tante, Sez. 6 - 1, n. 15823/2020, Terrusi, Rv. 658501-01).

Tuttavia, come confermato di recente da Sez. 3, n. 03891/2020, Guizzi, Rv. 657147-01, nell’ambito di uno stesso processo, qualora sia già stato utilizzato il disconoscimento, cui sia seguita la verificazione, la querela di falso è inammissibile, se proposta al solo scopo di neutralizzare il risultato della verificata autenticità della sottoscrizione e non, invece, per contestare la verità del contenuto del documento.

In ogni caso, sì come chiarito da Sez. 2, n. 31243/2021, Bellini, Rv. 662709-01, la querela di falso relativa a una scrittura privata postula che quest’ultima sia stata riconosciuta volontariamente dal suo autore o si consideri legalmente tale ai sensi dell’art. 2702 c.c. e che il querelante intenda eliminare l’efficacia probatoria attribuitale dalla suddetta disposizione o contestarne la genuinità, dimostrando l’avvenuta contraffazione e interrompendo così il collegamento esistente, quanto alla provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione, sicché la relativa proposizione presuppone che la scrittura rechi la sottoscrizione, quale suo elemento essenziale, oltre alla originalità del documento.

Da ultimo, la scrittura privata, una volta intervenuto il riconoscimento della sottoscrizione, è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità dell’intero contenuto al suo sottoscrittore; qualora, tuttavia, questi neghi di essere autore, totalmente o parzialmente, delle dichiarazioni risultanti dal documento, al fine di superare la presunzione, deve proporre querela di falso. In quest’ottica, Sez. L, n. 29912/2021, Arienzo, Rv. 662610-01, ha cassato la sentenza di merito che, in una controversia di lavoro, ha ritenuto di superare la presunzione di riconoscimento di una scrittura effettuata da una lavoratrice, a seguito di una transazione, sul presupposto che essa si presentava palesemente adulterata, benché la dipendente non avesse proposto querela di falso, limitandosi ad una generica contestazione di abusiva correzione della cifra inizialmente indicata come percepita.

5.5. Le scritture provenienti da terzi.

È noto che nel processo civile le scritture private provenienti da un terzo estraneo alla lite sono prove atipiche con un valore probatorio meramente indiziario e, ove non abbiano data certa, questa può essere accertata con qualsiasi mezzo di prova, ai sensi dell'art. 2704 c.c. In questo contesto Sez. 2, n. 38805/2021, Giannaccari, Rv. 663166-01, ha precisato che le prove, tuttavia, non sono ammesse se ricadenti su un atto proprio della stessa parte interessata alla prova.

6. La querela di falso.

La procura speciale alle liti, conferita ai sensi dell’art. 83, comma 3, c.p.c. è idonea ad attribuire il potere di proporre querela di falso anche in via incidentale, purché dalla stessa sia desumibile l’attribuzione di detto potere e la medesima rechi l’espressa indicazione dell’attività da compiere. In quest’ottica, Sez. 6-1, n. 01058/2021, Pazzi, Rv. 660409-01, ha cassato la decisione di merito, che aveva affermato l’indispensabilità, perché il difensore potesse proporre querela di falso in via incidentale, di una procura speciale autenticata da un pubblico ufficiale munito di idonei poteri certificativi.

Con riferimento al profilo probatorio, Sez. 3, n. 15703/2021, Sestini, Rv. 661633-01, ha avuto modo di precisare che, nell’ambito di un sub-procedimento sostanzialmente deformalizzato qual è quello con cui si propone querela di falso in via incidentale, non è configurabile una preclusione alla possibilità di articolare mezzi di prova sia perché non è applicabile la previsione di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. sia perché gli artt. 221 e 222 c.p.c. non prevedono termini perentori per la proposizione di istanze istruttorie, fatta salva la necessità che non sia leso il diritto delle altre parti alla controprova. Tale pronuncia si pone in contrasto con un pregresso indirizzo, a tenore del quale non possono essere addotti nuovi ed ulteriori elementi di falsità successivamente alla proposizione della querela. Per Cass. n. 6220/18 (conf. Cass. n. 10874/18) si tratterebbe di nullità insanabile, a meno che la falsità fosse rilevabile ictu oculi dal documento impugnato e non occorressero particolari indagini per accertarla.

Avuto riguardo alla tempistica, Sez. 2, n. 25487/2021, Giannaccari, Rv. 662255-02, ha confermato (Sez. 1, n. 01870/2016, Rv. 638382-01) che la previsione secondo cui la querela di falso può essere proposta in qualsiasi stato e grado del giudizio va intesa nel senso che la relativa istanza, in primo o in secondo grado, deve comunque intervenire prima della rimessione della causa in decisione e, cioè, entro l’udienza di precisazione delle conclusioni; ne consegue che la querela non può essere avanzata negli scritti difensivi, quale - nella specie - la comparsa conclusionale, successivi a tale scansione processuale e riservati alla sola illustrazione delle difese.

Sez. 1, n. 00988/2021, Falabella, Rv. 660209-01, ha confermato (Sez. 1, n. 01110/2010, Cultrera MR., Rv. 611465-01) che, benché il dettato normativo affidi all’istruttore il giudizio sulla rilevanza processuale dell’atto inciso dalla querela e sull’ammissibilità della proposizione della stessa, non è precluso al collegio il riesame dei presupposti suddetti, atteso che l’ordinanza dell’istruttore, non suscettibile di passare in giudicato, può essere riesaminata dal collegio, sia in ordine ai requisiti formali che nel merito della rilevanza dei documenti impugnati di falso, ai sensi dell’art. 178, comma 1, c.p.c., in sede di decisione della causa. In senso contrario, peraltro, si segnala Cass. n. 12399/2007, a tenore della quale la questione della rilevanza dell’eventuale falsità del documento, impugnato con querela in via incidentale, ai fini della decisione di merito sarebbe devoluta esclusivamente al giudice del merito e non a quello della querela, il cui unico compito sarebbe quello di affermare o negare la falsità dell’atto.

7. La confessione.

L’interrogatorio formale reso in un processo con pluralità di parti, essendo volto a provocare la confessione giudiziale di fatti sfavorevoli alla parte confitente e favorevoli al soggetto che si trova, rispetto ad essa, in posizione antitetica e contrastante, non può essere deferito, su un punto dibattuto in quello stesso processo, tra il soggetto deferente ed un terzo diverso dall’interrogando, non avendo valore confessorio le risposte, eventualmente affermative, fornite dall’interrogato. Invero, sì come ha confermato (cfr. Sez. 6 - 3,n. 20476/2015, Rv. 637515 - 01) Sez. 6-2, n. 38626/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 663224-01, la confessione giudiziale produce effetti nei confronti della parte che la fa e della parte che la provoca, ma non può acquisire il valore di prova legale nei confronti di persone diverse dal confitente, in quanto costui non ha alcun potere di disposizione relativamente a situazioni giuridiche facenti capo ad altri, distinti soggetti del rapporto processuale e, se anche il giudice ha il potere di apprezzare liberamente la dichiarazione e trarne elementi indiziari di giudizio nei confronti delle altre parti, tali elementi non possono prevalere rispetto alle risultanze di prove dirette.

8. La prova testimoniale.

Nell’ambito del processo del lavoro (ma con principio estensibile anche a quello ordinario), l’onere di allegazione concerne unicamente i fatti, non le prove (documentali e non), delle quali basta la specifica indicazione prevista, nel rito speciale, dagli artt. 414 e 416 c.p.c., senza che le parti siano gravate dall’onere ulteriore di spiegarne la rilevanza e idoneità dimostrativa, che invece vanno valutate d’ufficio dal giudice. Pertanto, sì come precisato da Sez. L, n. 22254/2021, D’Antonio, Rv. 662118-01, la specificazione dei fatti oggetto di richiesta di prova testimoniale è soddisfatta quando, sebbene non definiti in tutti i loro minuti dettagli, essi vengono esposti nei loro elementi essenziali per consentire al giudice di controllarne l’influenza e la pertinenza e all’altra parte di chiedere prova contraria, giacché la verifica della specificità e della rilevanza dei capitoli di prova va condotta non soltanto alla stregua della loro letterale formulazione, ma anche in relazione agli altri atti di causa e a tutte le deduzioni delle parti, nonché tenendo conto della facoltà del giudice di domandare ex art. 253, comma 1, c.p.c. chiarimenti e precisazioni ai testi.

Invero, in sede di assunzione della prova testimoniale, il giudice del merito non è un mero registratore passivo di quanto dichiarato dal testimone, ma un soggetto attivo partecipe dell’escussione, al quale l’ordinamento attribuisce il potere-dovere, non solo di sondare con zelo l’attendibilità del testimone, ma anche di acquisire da esso tutte le informazioni indispensabili per una giusta decisione, sicché egli non può, senza contraddirsi, dapprima, astenersi dal rivolgere al testimone domande a chiarimento, e, successivamente, ritenerne lacunosa la deposizione perché carente su circostanze non capitolate, sulle quali nessuno abbia chiesto al testimone di riferire (Cass. n. 17981/2020). Tuttavia, la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ex art. 253 c.p.c., di natura esclusivamente integrativa, non può tradursi in un’inammissibile sanatoria della genericità e delle deficienze dell’articolazione probatoria (Cass., sez. III, 12 febbraio 2008,n. 3280; conf. Cass. n. 14364/2018).

In tale ambito, Sez. L, n. 09823/2021, Amendola F., Rv. 661008-01, ha confermato (Sez. L, n. 01863/2010, Curzio, Rv. 611388 – 01) che, nel rito del lavoro, è corretto l’operato del giudice che, nell’ambito di una controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se venisse rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall’art. 421 c.p.c., e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un orario a tempo pieno.

Quanto alla fase dell’amissione, per Sez. 3, n. 02149/2021, Moscarini, Rv. 660267-01, l’apprezzamento circa la specificità dei capitoli di prova testimoniale dedotti dalla parte istante deve essere compiuto dal giudice del merito, con adeguata motivazione, non solo alla stregua della loro formulazione letterale, ma ponendo il loro contenuto in relazione agli altri atti di causa e alle deduzioni delle altre parti.

Per Cass. n. 14364/2018 l’indagine del giudice di merito sui requisiti di specificità e rilevanza dei capitoli formulati va condotta anche in correlazione all’adeguatezza formale e temporale delle circostanze articolate, oltre che agli altri atti di causa ed alle deduzioni delle parti (conf. Cass. n. 11765/2019).

8.1. La valenza probatoria delle dichiarazioni rese dagli informatori.

Nel procedimento possessorio, le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio, ove siano state assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite dalle parti nei rispettivi atti introduttivi, sono da considerare come provenienti da veri e propri testimoni, mentre devono essere qualificati come "informatori" - le cui dichiarazioni sono comunque utilizzabili ai fini della decisione, anche quali indizi liberamente valutabili - coloro che abbiano reso "sommarie informazioni" ai sensi dell’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., ai fini dell’eventuale adozione del decreto inaudita altera parte. Il principio è stato affermato da Sez. 2, n. 21072/2021, Varrone, Rv. 661942-01, ponendosi nel solco di Sez. 2, n. 24705/2006, Piccialli L., Rv. 593758-01.

Per Cass. pen., sez. II, 13 aprile 2010, n. 16733, le dichiarazioni assunte dal giudice in un procedimento cautelare civile hanno natura di testimonianza, sicché la loro falsità integrerebbe il delitto di falsa testimonianza, nonostante la mancata osservanza degli adempimenti preliminari di cui all’art. 251 c.p.c..

Per completezza, va evidenziato che, nel giudizio di merito in cui si controverte sull’esistenza di un diritto contrattuale, le dichiarazioni rese dagli informatori nella fase cautelare ante causam, pur se assunte in contraddittorio e previo impegno di dire la verità, non hanno il valore probatorio delle deposizioni testimoniali, poiché in questo tipo di causa, a differenza che nei procedimenti possessori e nunciatori, le dichiarazioni degli informatori non vertono unicamente su situazioni di fatto, ma anche sull’esistenza del contratto, il cui accertamento incontra, nel giudizio a cognizione piena, i limiti stabiliti dagli artt. 2721 ss. c.c. (Cass. 7 agosto 2013, n. 18865).

  • giudice
  • mandato
  • procedura civile
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO X

IL PROCESSO DI PRIMO GRADO

(di Paola D’Ovidio )

Sommario

1 La nullità dell’atto di citazione ed i meccanismi di sanatoria. - 2 La domanda e l’eccezione riconvenzionale. - 2.1 Domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo. - 3 Il mandato alle liti. - 4 Mediazione obbligatoria e mediazione delegata. - 5 Nullità degli atti e della sentenza. - 6 La mutatio e la emendatio libelli. Preclusioni processuali. - 6.1 Preclusioni processuali nelle cause riunite. - 7 La rimessione in termini. - 8 Il litisconsorzio, l’intervento e la chiamata in causa. - 9 La sospensione del processo. - 10 L’interruzione del processo. - 11 La riassunzione del processo interrotto. - 12 L’estinzione del processo. - 13 La fase decisoria. - 14 Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. - 15 Le sentenze non definitive. - 16 La correzione dei provvedimenti giudiziali.

1. La nullità dell’atto di citazione ed i meccanismi di sanatoria.

Come è noto, l’art. 164 c.p.c.., nel testo novellato dall’art. 9 della legge 26 novembre 1990, n. 353, ha introdotto una articolata disciplina dei casi di nullità della citazione e dei modi ed effetti della sanatoria, basata sulla netta distinzione tra vizi della citazione afferenti alla vocatio in ius (primi tre commi) e vizi concernenti la editio actionis (ultimi tre commi).

Tale distinzione rileva fondamentalmente in relazione agli effetti - ex tunc nel primo caso, ex nunc nel secondo - delle fattispecie sananti rispettivamente previste.

Le pronunce emesse sul tema nel corso dell’anno in rassegna hanno ribadito o precisato alcuni aspetti applicativi di tale disciplina.

In particolare, Sez. 6-3, n. 00709/2021, Cricenti, Rv. 660274-01, richiamando un consolidato orientamento, ha ribadito la precisazione secondo la quale la nullità della citazione per omessa indicazione dell’udienza di comparizione si verifica soltanto nel caso in cui l’indicazione manchi del tutto o, per la sua incompletezza, risulti tanto incerta da non rendere possibile al destinatario dell’atto individuare, con un minimo di diligenza e buon senso, la data che si intendeva effettivamente indicare, con la conseguenza che, ove non ricorra propriamente questa eventualità, la citazione deve essere considerata valida. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva dichiarato la nullità della decisione di primo grado in ragione dell’erronea trascrizione della data dell’udienza di comparizione nell’atto di citazione, senza svolgere alcun accertamento sulla riconoscibilità dell’errore da parte del destinatario dell’atto).

Riguardo alla sanatoria dei vizi afferenti la vocatio in ius, Sez. 3, n. 21374/2021, Moscarini, Rv. 662195-01 ha chiarito che la costituzione del convenuto alla prima udienza sana i vizi della citazione anche nel caso in cui il giudizio sia stato iscritto a ruolo dal medesimo convenuto, e non dall’attore, rimasto contumace.

Con specifico riferimento alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per violazione dei termini a comparire, Sez. L, n. 02673/2021, Pagetta, Rv. 660342-01 ha riaffermato il principio, già espresso da Sez. L, n. 9150/2004, De Mattesi, Rv. 572857 – 01, a mente del quale tale nullità è, sì, sanata dalla costituzione del convenuto ma, ove quest’ultimo eccepisca, costituendosi, siffatto vizio, il giudice è tenuto a fissare nuova udienza nel rispetto dei suddetti termini, dovendosi presumere che la loro violazione abbia impedito al convenuto, che pure si sia difeso nel merito, una più adeguata difesa.

Merita di essere ricordato, inoltre, che il termine così concesso per la rinnovazione della citazione nulla ex art. 164 c.p.c. ha natura perentoria, con la conseguenza che, come affermato da Sez. 6-3, n. 32207/2021, Iannello, Rv. 662960-01, in caso di mancata rinnovazione, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, comma 3, c.p.c., comporta la contemporanea ed automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte.

Tuttavia, Sez. 6-2, n. 22735/2021, Casadonte, Rv. 662331-01, con specifico riferimento all’ordine di integrazione della domanda per ritenuta nullità della citazione, ha precisato che qualora tale ordine sia stato emesso in difetto dei presupposti per la sua emanazione, esso è improduttivo di effetti, sicché la mancata ottemperanza al medesimo, essendo irrilevante, non può determinare l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307, comma 3, c.p.c.

2. La domanda e l’eccezione riconvenzionale.

Va premesso, in linea generale, che l’eccezione riconvenzionale consiste in una prospettazione difensiva che, pur ampliando il tema della controversia, tende a paralizzare il diritto della controparte rimanendo nell’ambito della difesa e del petitum, essendo finalizzata esclusivamente alla reiezione della domanda attrice attraverso l’opposizione al diritto fatto valere dall’attore di un altro diritto idoneo a paralizzarlo; essa, quindi, si differenzia dalla domanda riconvenzionale che, invece, è diretta ad ottenere l’accertamento di un diritto con autonomo provvedimento avente forza di giudicato.

Tale distinzione si riflette su variegate e rilevanti conseguenze processuali, alcune delle quali affrontate nell’anno in rassegna in relazione a specifiche fattispecie.

Segnatamente, con riferimento ad un giudizio di riscatto di un fondo rustico in cui era stata proposta in via riconvenzionale dal convenuto una domanda di accertamento di prelazione agraria, Sez. 3, n. 07292/2021, F.M. Cirillo, Rv. 661001-01, ha affermato che la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale di accertamento del diritto di prelazione agraria (per avere il convenuto già ottenuto l’effetto conseguente al riconoscimento del diritto medesimo mediante l’acquisto diretto del fondo) non incide sul rilievo dei fatti posti a suo fondamento come fatti impeditivi rispetto alla domanda principale, rendendo necessario, ad opera del giudice del merito, il giudizio di comparazione tra le due confliggenti posizioni.

Un’altra pronuncia che ha posto in luce la distinzione tra eccezione e domanda riconvenzionale è Sez. 2, n. 20325/2021, Fortunato, Rv. 661700-01, la quale, in considerazione della distinzione sopra delineata, ha precisato che il convenuto in un giudizio di negatoria servitutis ha diritto di dimostrare l’interclusione del fondo e di chiedere la costituzione di una servitù di passaggio, ma è tenuto, in tal caso, a formulare un’espressa domanda riconvenzionale, perché non è la semplice allegazione dell’interclusione del fondo a costituire il corrispondente limite a carico dell’immobile gravato, ma solo l’accoglimento della domanda del proprietario del fondo intercluso.

Infine, merita di essere segnalata Sez. 6-1, n. 22700/2021, Campese, Rv. 662349-01, in tema di rapporti tra la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio e quella, proposta in via riconvenzionale, volta ad ottenere l’annullamento dell’accordo di separazione consensuale per vizio del consenso: tali domande, assoggettate a riti diversi, generano una situazione di connessione "per subordinazione" o "forte", atteso il nesso di pregiudizialità che lega le due azioni, la quale rende applicabile l’art. 40, comma 3, c.p.c., salva ogni determinazione del giudice di merito in ordine alla sospensione ex art. 295 c.p.c. della domanda (pregiudicata) di divorzio in attesa della definizione di quella (pregiudicante) sul richiesto annullamento della separazione.

2.1. Domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo.

Di particolare interesse, nel corso dell’anno in Rassegna, una pronuncia della Seconda Sezione che, in tema di improponibilità della domanda per frazionamento del credito, ha ribadito ed ulteriormente precisato il principio enunciato da Sez. U, n. 04090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01.

Si tratta di Sez. 2, n. 14143/2021, Dongiacomo, Rv. 661293-01, la quale ha chiarito che, in tema di frazionamento del credito, il principio (espresso dalle Sezioni Unite con la citata pronuncia del 2017) in base al quale i diritti di credito che, oltre a fare capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche in proiezione iscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque fondati sul medesimo fatto costitutivo, non possono essere azionati in separati giudizi, a meno che il creditore non risulti titolare di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, deve essere inteso con la duplice specificazione per cui: a) l’espressione "medesimo rapporto di durata" va letta in senso storico/fenomenologico, con conseguente attribuzione ad essa del significato di relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia; b) nell’espressione "medesimo fatto costitutivo", l’aggettivo "medesimo" va inteso come sinonimo di "analogo" e non di "identico".

La medesima pronuncia Sez. 2, n. 14143/2021, Dongiacomo, Rv. 661293-02 (e, poco dopo, in senso conforme anche Sez. 2, n. 24371/2021, Cosentino, Rv. 662163-01) ha proseguito affermando che le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi, ancorché diversi, si inscrivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia, a meno che l’attore non abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad esercitare l’azione solo per uno o alcuni dei predetti crediti.

Di particolare rilevanza processuale è, poi, l’ulteriore precisazione contenuta nella medesima decisione, a mente della quale l’’improponibilità della domanda, conseguente alla violazione di tale divieto, non preclude tuttavia al creditore la facoltà di riproporre la stessa in giudizio, in cumulo oggettivo ex art. 104 c.p.c. con tutte le altre relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti. (Nella fattispecie esaminata dalla citata Sez. 2, n. 24371/2021, è dato cogliere una chiara esemplificazione del principio enunciato, peraltro riferito ad un caso di frequente ricorrenza nei rapporti professionali: la S.C., infatti, ha cassato la pronuncia di merito che, dando esclusivo rilievo alla riscontrata inesistenza di un unico incarico professionale - aveva escluso la parcellarizzazione del credito in un’ipotesi in cui un avvocato aveva ottenuto una pluralità di decreti ingiuntivi, tutti uguali tra loro perché fondati su identici riconoscimenti di debito, emessi a fronte dell’attività professionale svolta in maniera seriale e continuativa nell’ambito di un unico rapporto pluriennale).

3. Il mandato alle liti.

Nel corso del 2021 la S.C. è più volte intervenuta sul delicato tema del mandato alle liti, affrontando alcune delle problematiche che con maggiore frequenza si pongono in rapporto all’atto con il quale la parte investe il difensore del ruolo di suo rappresentante in giudizio, conferendo allo stesso lo ius postulandi.

In relazione alle modalità di conferimento della procura ed alla persistenza dello ius postulandi correlato al rilascio della stessa, si segnala Sez. 3, n. 28004/2021, Di Florio,Rv. 662518-01 e Rv. 662518-02, la quale, inserendosi nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata (a partire da Sez. U, n. 25032/2005, Graziadei, Rv. 584231-01, che ha risolto un contrasto sulla questione), ha ribadito che l’art. 83, comma 3 c.p.c., nella parte in cui richiede, per la procura speciale alla lite conferita in calce o a margine di determinati atti, la certificazione da parte del difensore della autografia della sottoscrizione del conferente, deve ritenersi osservato - senza possibilità di operare distinzioni in riferimento agli atti di impulso, ovvero di costituzione, concernenti il giudizio di primo grado ed il giudizio di impugnazione - sia quando la firma del difensore si trovi subito dopo detta sottoscrizione, con o senza apposite diciture (come "per autentica", o "vera"), sia quando tale firma del difensore sia apposta in chiusura del testo del documento nel quale il mandato si inserisce; ne consegue che la autografia attestata dal difensore esplicitamente od implicitamente, con la firma dell’atto recante la procura a margine od in calce, può essere contestata in entrambi i casi soltanto mediante la proposizione di querela di falso, in quanto concerne una attestazione resa dal difensore nell’espletamento della funzione sostanzialmente pubblicistica demandatagli dalla succitata norma.

La medesima pronuncia ha anche riaffermato il risalente principio (cfr. Sez. 3, n. 6605/1986, Muglia, Rv. 448759-01) secondo il quale la rinuncia al mandato - al pari della revoca della procura - non ha effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore e non esime il difensore rinunciante, sino a quando non ha informato il cliente, dal compimento di quelle attività difensive immanenti, connesse alla funzione di procuratore presente in udienza.

Con riferimento ai vizi della procura e alle modalità della loro possibile sanatoria, Sez. 1, n. 29244/2021, Vella, Rv. 662858-01, ha ribadito il principio, anch’esso consolidato (da ultimo, nello stesso senso si è espressa Sez. 2, n. 22564/2020, Criscuolo, Rv. 659395-01), in forza del quale, nel caso in cui l’eccezione di difetto di rappresentanza, sostanziale o processuale, ovvero un vizio della "procura ad litem" sia stata tempestivamente proposta da una parte, è onere della controparte interessata produrre immediatamente la documentazione all’uopo necessaria, senza che operi il meccanismo di assegnazione del termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c., prescritto solo per il caso di rilievo officioso. (Nella specie, la S.C. ha annullato la decisione impugnata che aveva ritenuto ammissibile, nel giudizio di rinvio ex art. 392 c.p.c., la produzione della procura notarile conferita per la rappresentanza volontaria della parte, sebbene la sua mancanza fosse stata già eccepita nella precedente fase di merito).

Affermazione, questa, che si inserisce nel solco dell’impostazione (Sez. 2, n. 24212/2018, Sabato, Rv. 650641-01; n. 4248 del 2016, Rv. 638746-01) secondo cui mentre ai sensi dell’art. 182 c.p.c. il giudice che rileva d’ufficio un difetto di rappresentanza deve promuovere la sanatoria, assegnando alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze di carattere processuale, nel diverso caso in cui l’eccezione di difetto di rappresentanza sia stata tempestivamente proposta da una parte, l’opportuna documentazione va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o comunque assegnato dal giudice, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire.

In linea di continuità con numerosi precedenti di legittimità relativi all’ipotesi di illeggibilità della firma del conferente la procura (cfr. Sez. 3, n. 13018/2006, Fantacchiotti, Rv. 590635-01; Sez. U, n. 25036/2013, Virgilio, Rv. 628052-01), si è posta Sez. 3, n. 07765/2021, Cricenti, Rv. 660751-01, la quale ha rimarcato che la certificazione del difensore nel mandato alle liti in calce o a margine di un atto processuale riguarda solo l’autografia della sottoscrizione della persona che, conferendo la procura, si fa attrice, o della persona che nell’atto si dichiara rappresentante della persona fisica o giuridica che agisce in giudizio, e non altro: da tale rilievo deriva che deve considerarsi essenziale, ai fini della sua validità, che nella procura o nell’atto processuale al quale essa accede, risulti indicato il nominativo di colui che la ha rilasciata, in modo da rendere possibile alle altre parti e al giudice l’accertamento della sua legittimazione e dello ius postulandi del difensore. In difetto di queste indicazioni, la procura, ove la firma apposta sia illeggibile, deve considerarsi priva di effetti tutte le volte che il vizio formale abbia determinato l’impossibilità di individuazione della sua provenienza e, perciò, di controllo (anche "aliunde") dell’effettiva titolarità dei poteri spesi. Da ciò consegue che quando la sottoscrizione illeggibile, nel caso di mandato conferito da una società, sia apposta sotto la menzione della carica sociale, in una procura priva dell’indicazione del nominativo del soggetto che la rilascia, e tale nominativo non possa neppure desumersi dall’atto al quale la procura medesima accede, pur ritenendosi che il soggetto astrattamente titolare del potere rappresentativo possa essere indirettamente identificabile attraverso le risultanze del registro delle imprese o con altro mezzo, rimane, in ogni caso, indimostrata l’effettiva provenienza della sottoscrizione dal predetto soggetto, poiché la certificazione dell’autografia, da parte del difensore, non si riferisce anche alla legittimazione e non può di per sé consentire l’individuazione indiretta della persona fisica che ha firmato dichiarandosi dotata del potere di rappresentanza senza indicare il proprio nome, con la configurazione, in definitiva, della nullità dell’atto processuale cui accede siffatta procura.

Quanto poi alle conseguenze della nullità della procura alle liti, Sez. 1, n. 08104/2021, Scalia, Rv. 660896-01 ha precisato che tale nullità non è qualificata dalla legge come assoluta e insanabile sicché, qualora essa non venga rilevata d’ufficio in primo grado, ne discende la nullità della sentenza che definisce il relativo giudizio, la quale si converte in motivo di gravame ex art. 161 c.p.c., da far valere tempestivamente con l’atto d’appello, non potendo essere dedotta in detta sede solo con la comparsa conclusionale.

Infine, sul diverso versante dei poteri del difensore munito di procura, si segnala Sez. 6-1, n. 01058/2021, Pazzi, Rv. 660409-01, la quale ha chiarito che la procura speciale alle liti, conferita ai sensi dell’art. 83, comma 3, c.p.c. è idonea ad attribuire il potere di proporre querela di falso anche in via incidentale, purché dalla stessa sia desumibile l’attribuzione di detto potere e la medesima rechi l’espressa indicazione dell’attività da compiere. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva affermato l’indispensabilità, perché il difensore potesse proporre querela di falso in via incidentale, di una procura speciale autenticata da un pubblico ufficiale munito di idonei poteri certificativi).

4. Mediazione obbligatoria e mediazione delegata.

In tema di mediazione obbligatoria ex art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, l’unica pronuncia emessa nell’anno in rassegna ha riguardato una controversia con la quale era stata proposta un’azione revocatoria senza essere stata preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione.

In proposito, Sez. 2, n. 25855/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662258-01, dopo aver ricordato che l’art. 5, comma 1-bis del d.lgs. citato impone il tentativo di conciliazione, fra le altre, per le controversie in materia di diritti reali, ha chiarito che l’azione revocatoria, non vertendo sulla qualificazione e attribuzione di diritti reali ed avendo solo l’effetto di rendere insensibile, nei confronti dei creditori, l’atto dispositivo a contenuto patrimoniale del debitore, senza incidere sulla validità inter partes dell’atto stesso, non rientra fra le controversie assoggettate alla condizione di procedibilità della domanda consistente nel previo esperimento del procedimento di mediazione ex art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010.

Con riferimento invece all’ipotesi di mediazione delegata ex art. 5, commi 2 e 2-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, Sez. 2, n. 40035/2021, Casadonte, Rv. 663177-01, ha precisato che, ai fini della sussistenza della condizione di procedibilità, ciò che rileva è l’utile esperimento, entro l’udienza di rinvio fissata dal giudice, della procedura di mediazione - da intendersi quale primo incontro delle parti innanzi al mediatore e conclusosi senza l’accordo - e non già l’avvio di essa nel termine di quindici giorni indicato dal medesimo giudice delegante con l’ordinanza che dispone la mediazione.

5. Nullità degli atti e della sentenza.

Riguardo al vizio di costituzione del giudice ed alla nullità della sentenza per violazione dell’art. 25 Cost, Sez. 1, n. 11536/2021, Marulli, Rv. 661191-01, ha richiamato il consolidato insegnamento secondo cui tali patologie sono ravvisabili solo quando la sentenza sia stata posta in essere da persona estranea all’ufficio e non investita della funzione esercitata. L’art. 25 Cost., infatti, nel disporre che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge considera la competenza dell’organo giudiziario nel suo complesso, ma non esclude che nell’ambito di questo possano verificarsi variazioni nella concreta composizione dell’organo giudicante, le quali possono essere determinate sia dall’avvicendarsi dei magistrati assegnati all’ufficio giudiziario competente in virtù di legge preesistente, sia dalle sostituzioni che, consentite dalle norme processuali, possano essere determinate da necessità organizzative del medesimo ufficio. Pertanto, conclude la citata pronuncia, non danno luogo a nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice le violazioni delle disposizioni relative alla destinazione del giudice alle sezioni e quelle relative alla formazione dei collegi (in senso conforme si era espressa in precedenza Sez. III, n. 01643/2000, Segreto, Rv. 533858 - 01).

Neppure è causa di nullità, secondo Sez. 1, n. 14361/2021, Ferro, Rv. 661578-02, ma ha natura di mero errore materiale, come tale emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c., la mancata indicazione, nell’intestazione della sentenza, del nome di un magistrato non relatore facente parte del collegio che, secondo le risultanze del verbale d’udienza, ha riservato la decisione, poiché, in difetto di elementi contrari dedotti dal ricorrente, si devono ritenere coincidenti i magistrati indicati nel predetto verbale con quelli che in concreto hanno partecipato alla deliberazione, atteso che l’intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria, esaurendosi nella riproduzione dei dati del verbale d’udienza.

Ancora, non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, come chiarito da Sez. 1,n. 11306/2021, Casadonte, Rv. 661283-01, la sentenza redatta in formato elettronico, recante la firma digitale del giudice a norma dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, attesa l’applicabilità al processo civile e ai documenti informatici adottati nel suo ambito del d.lgs. n. 82 del 2005 (cd. "Codice dell’amministrazione digitale"), sicché, in applicazione dell’art. 23 d.lgs. cit., deve ritenersi provata fino a querela di falso la sottoscrizione da parte del giudice della sentenza redatta in formato elettronico, quando su ogni pagina della copia estratta su supporto analogico vi siano i segni grafici (coccarda e stringa) che attestano la presenza della firma digitale.

Una nullità insanabile della decisione, per vizio di costituzione del giudice, è stata invece rilevata da Sez. 1 n. 01252/2021, Fidanzia, Rv. 660368-01 con riferimento al diverso caso in cui l’intestazione di un provvedimento del tribunale in composizione collegiale rechi l’indicazione dei nominativi di due soli giudici e dal resto dell’atto non risulti che la statuizione sia stata comunque adottata con la partecipazione di tre magistrati.

Sotto diverso profilo, come ribadito da Sez. L, n. 06494/2021, Garri, Rv. 660631-01 (in precedenza cfr. Sez. 2, n. 03161/2006, Trombetta, Rv. 587507-01), la sottoscrizione di una sentenza emessa da un organo collegiale ad opera di un magistrato che non componeva il collegio giudicante, in luogo del magistrato (nella specie, il presidente) che ne faceva parte e che avrebbe dovuto sottoscriverla, integra l’ipotesi della mancanza della sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, disciplinata dagli artt. 132 e 161, comma 2, c.p.c.; il difetto di tale sottoscrizione, se rilevato, anche d’ufficio, nel giudizio di cassazione, comporta la dichiarazione di nullità della sentenza ed il rinvio della causa, ai sensi degli artt. 354, comma 1, 360, comma 1, n. 4, e 383, comma 4, c.p.c., al medesimo giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione, il quale viene investito del potere-dovere di riesaminare il merito della causa stessa e non può limitarsi alla mera rinnovazione della sentenza.

Una ulteriore ipotesi di nullità è stata riscontrata da Sez. 2, n. 11440/2021, Varrone,Rv. 661095-01 (in linea di continuità con Sez. 3 n. 11308/2020, Scrima, Rv. 658167-01), con riferimento alla sentenza cd. della “terza via” o “a sorpresa”, che si realizza nell’ipotesi in cui sia stata omessa l’indicazione alle parti di una questione di fatto, oppure mista di fatto e di diritto, rilevata d’ufficio, sulla quale si fondi la decisione, atteso che tale decisione priva le parti del potere di allegazione e di prova sulla questione decisiva e, pertanto, comporta la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa tutte le volte in cui la parte che se ne dolga prospetti, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto fare valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva rilevato d’ufficio - senza previamente sottoporre la questione alle parti - la mancanza del certificato di destinazione urbanistica del terreno promesso in vendita, ex art. 30 d.P.R. n. 380 del 2001 e, conseguentemente, rigettato la domanda di esecuzione in forma specifica del relativo contratto preliminare).

In proposito giova segnalare anche Sez. 3, n. 11724, Vincenti, Rv. 661322-03, la quale ha ulteriormente chiarito che l’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese. (In applicazione del principio, la S.C. ha escluso che la Corte territoriale - nel ridurre il quantum di invalidità permanente in base a parametri di quantificazione delle conseguenze diversi da quelli impiegati in primo grado - avesse reso una decisione "a sorpresa" per non aver sollecitato le parti ad interloquire sull’applicabilità di detti parametri e sul loro contenuto, rientrando nel potere del giudice la scelta dei barèmes medico legali di riferimento ai fini della liquidazione secondo equità a garanzia delle specificità del caso concreto e della parità di trattamento).

Riguardo al difetto di ius postulandi del difensore, va evidenziato che non sempre la partecipazione al processo di una parte che si sia avvalsa di un difensore privo di ius postulandi determina la nullità del procedimento e della sentenza, atteso che, come evidenziato da Sez. 6-1, n. 01051/2021, Pazzi, Rv. 660449-01, ciò si verifica solo quando la decisione sia fondata su domande, eccezioni, allegazioni o prove che quella parte ha introdotto nel processo e che il giudice non avrebbe potuto prendere in esame d’ufficio, perché la nullità di un atto processuale si estende a quello successivo soltanto nel caso in cui quest’ultimo sia dipendente da quello viziato, nel senso che il primo atto sia non solo cronologicamente anteriore, ma anche indispensabile per la realizzazione di quello che segue. Nella specie, relativa ad un giudizio di reclamo avverso la dichiarazione di fallimento nel quale il difetto di jus postulandi riguardava la posizione del creditore istante, la S.C. ha escluso la nullità dedotta dal falllito, atteso, da un lato, che il creditore istante, essendo litisconsorte necessario, deve partecipare al processo ma non essere necessariamente costituito e, dall’altro, che non risulta neppure allegato che la decisione impugnata si fosse fondata su domande, eccezioni, allegazioni o prove introdotte da quella parte e non rilevabili d’ufficio dal giudice.

Un’altra ipotesi in cui non sempre si determina la nullità, occorrendo una verifica in concreto, riguarda i casi in cui sia stata omessa la comunicazione alla parte costituita, a cura del cancelliere ex art. 176, comma 2, c.p.c., dell’ordinanza istruttoria pronunciata dal giudice fuori dell’udienza: infatti, come precisato da Sez. U, n. 09839/2021, Lombardo,Rv. 661084-01, tale omissione provoca la nullità dell’ordinanza stessa e quella degli atti successivi dipendenti, ai sensi dell’art. 159 c.p.c., a condizione che essa abbia concretamente impedito all’atto il raggiungimento del suo scopo, nel senso che abbia provocato alla parte un concreto pregiudizio per il diritto di difesa; se la parte abbia comunque avuto conoscenza dell’udienza fissata per la prosecuzione del processo ed abbia partecipato ad essa senza dedurre specificamente l’eventuale pregiudizio subito, né formulare istanze dirette ad ottenere il rinvio dell’udienza, la nullità deve ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo dell’atto, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.

Infine, merita di essere segnalata Sez. 6-L, n. 09910/2021, Ponterio, Rv. 661124-01, la quale ha indicato i rimedi esperibili in caso di cd. inesistenza giuridica o nullità radicale di una sentenza, precisando che tale vizio può essere fatto valere o mediante un’autonoma azione di accertamento negativo (actio nullitatis) esperibile in ogni tempo, oppure attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione dinanzi al giudice sovraordinato (secondo i casi, appello o ricorso per cassazione), i quali, tuttavia, come rimedi alternativi all’actio nullitatis, devono essere esperiti secondo le regole loro proprie, e, quindi, tempestivamente, nel rispetto dei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto, dopo il decorso dei termini di decadenza per l’impugnativa, al fine di ottenere la declaratoria di nullità della sentenza di appello, derivata dalla nullità radicale della sentenza di primo grado, asseritamente priva della sottoscrizione del giudice).

6. La mutatio e la emendatio libelli. Preclusioni processuali.

La modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c. è consentita sempre che rimangano immutate le parti del giudizio, nonché la vicenda sostanziale oggetto dello stesso.

In termini generali, il divieto di proporre domande nuove nel corso del processo deve ritenersi violato solo se la parte fa valere una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, attraverso l’immutazione dell’oggetto della domanda o dei fatti posti a fondamento di essa, e non anche quando essa precisi una domanda implicitamente compresa in quella originaria, come presupposto indispensabile o come logica conseguenza immediata e diretta del suo accoglimento, o formuli un’istanza resa necessaria da una nuova e imprevedibile eccezione della controparte (in questi termini Sez. 2, n. 02093/2018, Abete).

Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015, operando un’ampia rivisitazione del tema della modifica della domanda, hanno chiarito che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali.

Tale principio è stato ribadito nell’anno in rassegna da Sez. 3, n. 04031/2021, Moscarini, Rv. 660594-01 (molteplici i precedenti conformi, tra i più recenti si ricorda Sez. 6-2, n. 20898/2020, Mauro, Rv. 659230-01 e S3, n. 31078/2019, Iannello, Rv. 655978-01), la quale ha conseguentemente cassato la decisione di appello che, in un giudizio intentato nei confronti di una struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti per avere contratto l’epatite C in conseguenza di una trasfusione di sangue, aveva ritenuto inammissibile la successiva domanda, avanzata nella memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., volta ad accertare che l’attore era stato contagiato dal virus non con tale trasfusione, ma per effetto di una "generica infezione nosocomiale nel periodo di degenza".

Nel solco dell’orientamento segnato da Sez. U, n. 22404/2018, Scrima, Rv. 650451-01, interessate da un potenziale contrasto sul tema specifico della ammissibilità della domanda di indennizzo per arricchimento senza causa proposta in un giudizio introdotto con domanda di adempimento contrattuale, Sez. 3, n. 03127/2021, Scarano, Rv. 660591-01, ha ribadito che la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento formulata, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, comma 6, c.p.c., è ammissibile qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta.

In coerenza con tali principi, Sez. 2, n. 10141/2021, Giannaccari, Rv. 661000-01 ha affermato che, nel caso di proposizione di una domanda di risoluzione del contratto per inadempimento contrattuale, la deduzione, nel corso del giudizio, di un fatto diverso da quello originario non costituisce una mera emendatio libelli, ma configura un mutamento della causa petendi, indipendentemente dal fatto che il comportamento successivamente dedotto costituisca, a sua volta, violazione degli obblighi contrattuali; del resto, in tali controversie l’attore ha l’onere di indicare le specifiche circostanze materiali lesive del proprio diritto e di allegare le specifiche circostanze integranti l’inadempimento, in quanto l’allegazione costituisce l’imprescindibile presupposto che circoscrive i fatti cui si correla il diritto di difesa, a presidio del contraddittorio.

Non si pone invece una questione di mutamento della domanda nel caso in cui sia stato originariamente dedotto l’avvenuto acquisto del diritto di proprietà per usucapione ordinaria e successivamente sia stata invocata l’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c.: Sez. 2 n. 34819/2021, Besso Marcheis, Rv. 662866-01, ha infatti chiarito che in tali ipotesi, la diversa fattispecie di usucapione può essere invocata, nel corso del primo grado di giudizio, per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni ed in comparsa conclusionale, non determinando un mutamento della domanda né della situazione giuridica con essa fatta valere, posto che la causa petendi delle azioni a difesa della proprietà è lo stesso diritto vantato dall’attore e non il titolo che ne costituisce la fonte.

I limiti di ammissibilità della mutatio libelli si riverberano anche sui poteri del giudice, al quale è preclusa la decisione basata su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa; ciò in quanto, come affermato da Sez. L, n. 05832/2021, Blasutto,Rv. 660681-01, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c., importa la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio, però, deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extra-petizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è invece precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Conseguentemente, nella specie, la S.C. ha ritenuto che, rispetto all’originaria di domanda di applicazione della comunione tacita familiare di cui all’art. 2140 c.c. abrogato, costituisce inammissibile mutatio libelli, e non già mera riqualificazione giuridica, la pretesa volta a conseguire, in forza di una “riqualificazione” d’ufficio ed in rapporto alla quantità e qualità del lavoro prestato, i diritti nascenti dall’impresa familiare ex art. 230-bis c.c. ancora dovuti al momento della cessazione del rapporto di collaborazione.

Il medesimo principio era stato già affermato da Sez. 6-1, n. 08645/2018, Marulli,Rv. 649502-01 , ma arrivando a conclusioni opposte in relazione alla diversità della concreta fattispecie esaminata. Infatti, in quel caso, il giudice, a fronte di una domanda originaria avente ad oggetto la liquidazione del danno da occupazione appropriativa, aveva deciso sulla natura dei suoli in assenza di esplicita domanda: la S.C. ha tuttavia escluso la sussistenza della lamentata violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato rilevando che per la liquidazione del danno da occupazione appropriativa è comunque necessario il previo accertamento della natura dell’area occupata, rurale o edificatoria, con la conseguenza che la relativa questione è sempre ricompresa nell’oggetto del giudizio.

Sotto il profilo delle preclusioni, giova evidenziare che le stesse, sia assertive che probatorie, non possono essere superate neppure nel caso di questione rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c.. Come chiarito da Sez. L, n. 35974/2021, Cavallaro,Rv. 662917-01, infatti, la locuzione “questione rilevata d’ufficio” deve intendersi riferita alle questioni - siano esse di fatto o miste di fatto e diritto - che implichino la valorizzazione di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere in giudizio, non potendo la parte attrice, che abbia errato nella definizione del thema decidendum o del thema probandum relativi al fatto costitutivo del diritto, confidare nel proprio errore per essere rimessa in termini al fine di chiedere prove o integrare le argomentazioni difensive, atteso che, diversamente, la previsione di cui all’art. 101, comma 2, c.p.c. si troverebbe in aperta contraddizione con il sistema delle preclusioni assertive e probatorie. (Nella specie, e con specifico riferimento al processo del lavoro in relazione agli artt. 414 e 416 c.p.c., la S.C. ha confermato la sentenza della corte territoriale che aveva escluso il diritto agli sgravi in capo al datore per mancata allegazione dei requisiti per la fruizione, senza concessione del termine c.d. a difesa, non venendo in tale ipotesi in rilievo una questione rilevabile d’ufficio, ma l’interpretazione dell’onere di allegazione e prova concernente il fatto costitutivo).

Con riferimento alle preclusioni nelle ipotesi di mutamento del rito, di generale interesse è il principio fissato da Sez. 1, n. 07696/2021, Terrusi, Rv. 660798-01, secondo cui la regola stabilita dall’art. 4, comma 5 del d.lgs. n. 150 del 2011, a tenore della quale gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, restando ferme le decadenze e le preclusioni già maturate in tale fase, trova applicazione in tutti i casi di passaggio dal rito ordinario ad un rito speciale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva accolto l’eccezione di prescrizione formulata dai convenuti costituiti in giudizio tardivamente, ex art. 166 c.p.c., prima che fosse disposto il mutamento dal rito ordinario a quello sommario).

Da ultimo, si segnalano quattro pronunce relative al regime delle preclusioni con riferimento ad alcune eccezioni che spesso vengono proposte nei giudizi civili.

La prima riguarda l’eccezione di giudicato esterno, in relazione alla quale Sez. 6-3,n. 00048/2021, Iannello, Rv. 660273-01 ha precisato che non è soggetta a preclusioni per quanto riguarda la sua allegazione in sede di merito in quanto prescinde da qualsiasi volontà dispositiva della parte e, in considerazione del suo rilievo pubblicistico, è rilevabile d’ufficio.

La seconda attiene alla eccezione di prescrizione, rispetto alla quale Sez. 6-3, n. 21404, Guizzi, Rv. 662040-02, ponendosi nel solco di un orientamento consolidato, ha ribadito che la deduzione relativa all’applicabilità di uno specifico termine di prescrizione (nella specie, quello indicato al comma 3 dell’art. 2947 c.c.) integra una controeccezione in senso lato, il cui rilievo può avvenire anche d’ufficio, nel rispetto delle preclusioni cd. assertive di cui all’art. 183 c.p.c., qualora sia fondata su nuove allegazioni di fatto; laddove, invece, sia basata su fatti storici già allegati entro i termini di decadenza propri del procedimento ordinario di cognizione, la sua proposizione è ammissibile nell’ulteriore corso del giudizio di primo grado, in appello e, con il solo limite della non necessità di accertamenti di fatto, in cassazione, dove non costituisce questione nuova inammissibile (in senso conforme, recentemente, Sez. 3, n. 24260/2020, Sestini, Rv. 659846–01).

Con riferimento all’eccezione di frazionamento del credito sollevata dalla parte, Sez. 2, n. 27089/2021, Orilia, Rv. 662357-01, ha precisato che, salvo il giudicato interno, tale eccezione non soggiace a preclusioni, in quanto, attenendo alla proponibilità della domanda, è rilevabile anche di ufficio dal giudice, il quale, ove provveda in tal senso, è tenuto ad assegnare al creditore un termine a difesa al fine di consentirgli di provare l’esistenza di un interesse alla tutela processuale. (In contrasto con tale principio, il giudice di pace, nella causa di opposizione a due decreti ingiuntivi azionati da un avvocato, aveva invece omesso di concedere all’opposto un termine per replicare all’eccezione di frazionamento del credito sollevata con memoria dall’opponente).

Infine, Sez. 6-3, n. 03765/2021, Valle, Rv. 660420–01 ha ribadito il principio (enunciato, a risoluzione di un contrasto giurisprudenziale, da Sez. U, n. 02051/2016, Curzio,Rv. 638372-01) secondo il quale le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotta dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti.(Principio affermato con riferimento ad una fattispecie in cui la chiamata all’eredità, convenuta in giudizio per un debito del coniuge deceduto, era stata condannata in contumacia in prime cure, condanna riformata dal giudice di appello dinanzi al quale la predetta aveva contestato di aver validamente rinunciato all’eredità prima dell’instaurazione del giudizio di primo grado).

6.1. Preclusioni processuali nelle cause riunite.

La delicata questione concernente le attività ammesse e quelle precluse nel caso di riunione di cause, tra loro in rapporto di continenza e pendenti davanti al medesimo giudice, è stata affrontata da Sez. 3, n. 18808/2021, Iannello, Rv. 661705-02 affermando che le preclusioni maturate nel giudizio preveniente anteriormente alla riunione rendono inammissibili nel giudizio prevenuto - in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l’abuso dello strumento processuale - solo le attività, soggette alle scansioni processuali dettate a pena di decadenza, svolte con riferimento all’oggetto di esso che sia comune al giudizio preveniente e non si comunicano, pertanto, né alle attività assertive che, come le mere difese e le eccezioni in senso lato, non soggiacciono a preclusione, né alle attività assertive e probatorie che, pur soggette a preclusione, concernono la parte del giudizio prevenuto non comune con quello preveniente.

Tale principio si pone nel solco di una impostazione già espressa con riferimento a varie fattispecie esaminate dalla Corte di legittimità, fra le quali quelle relative alla eccezione di prescrizione. In proposito, infatti, già Sez. 2, n. 22342/2019, Grasso Giuseppe, Rv. 654923-01, aveva affermato che la inammissibilità, per tardività, dell’eccezione di prescrizione di un diritto non consente la riproposizione della medesima difesa, sia pure in via di azione, in un secondo giudizio, successivamente riunito al primo in quanto, ove fosse consentito rimediare alla tardività "rimettendo la palla in gioco" per mezzo di una nuova citazione, non solo risulterebbe agevolmente elusa la decadenza, avente funzione di ordine pubblico processuale, ma resterebbe anche sensibilmente minato il diritto di difesa della controparte che, diligentemente attenutasi al rispetto delle decadenze processuali e impostata la propria strategia tenendo conto dell’avversa difesa, subirebbe l’abuso dell’aggiramento della preclusione.

Analoga la conclusione cui è giunta nell’anno in rassegna Sez. 2, n. 05434/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660783-01 con riferimento ad in giudizio, relativo a cause connesse e riunite, in una sola delle quali la parte convenuta aveva proposto, ai sensi dell’art. 1667, comma 2, c.c., l’eccezione di decadenza del committente dalla possibilità di far valere i vizi o le difformità dell’opera. Ciò in quanto, come ribadito da tale pronuncia (ma già in precedenza cfr. Sez. 3, n. 15383/2011, Carleo, Rv. 618791-01), la riunione di cause connesse lascia inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto quanto concerne la posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi, con la conseguenza che le statuizioni e gli atti riferiti ad un processo non si ripercuotono sull’altro processo sol perché questo è stato riunito al primo.

7. La rimessione in termini.

Da tempo la rimessione in termini è diventata un rimedio restitutorio di carattere generale - non limitato alla fase istruttoria del procedimento ordinario di cognizione -, che si aggiunge agli speciali rimedi già previsti per specifiche situazioni (si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 294 c.p.c. per la rimessione in termini del convenuto contumace, all’art. 208 c.p.c. per la revoca dell’ordinanza di decadenza della prova, all’art. 104 disp. att. c.p.c. per la revoca dell’ordinanza che ha dichiarato la decadenza dall’assunzione della prova testimoniale). Pertanto, trova applicazione, alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (Sez. 5, n. 03277/2012, Virgilio, Rv. 622005-01).

Va ulteriormente precisato che, come più recentemente precisato da Sez. U, n. 04135/2019, Lamorgese, Rv. 652852-03, la rimessione in termini per causa non imputabile, in entrambe le formulazioni che si sono succedute (artt. 184-bis e 153 c.p.c.), ossia per errore cagionato da fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti i caratteri dell’assolutezza e non della mera difficoltà e si ponga in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza, non è invocabile in caso di errori di diritto nell’interpretazione della legge processuale, pur se determinati da difficoltà interpretative di norme nuove o di complessa decifrazione, in quanto imputabili a scelte difensive rivelatesi sbagliate.

In termini generali, dunque, il presupposto della rimessione in termini è che la parte dimostri di essere incorsa nella decadenza per causa non solo ad essa non imputabile (perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà), ma anche assoluta, non essendo sufficiente la prova di un’impossibilità relativa, cioè della semplice difficoltà (cfr. Sez. U, n. 27773/2020, Giusti, Rv. 659663-02), ovvero dell’impedimento che possa comunque essere superato, anche se con una intensità di sforzo o di diligenza superiore alla norma. Da ciò deriva che, di fatto, la causa non imputabile coincide con il caso fortuito e la forza maggiore, vale a dire con quegli accadimenti imprevedibili ed inevitabili con una diligenza superiore al normale.

Tali principi sono ormai consolidati e hanno trovato specificazione nell’anno in rassegna, in diverse pronunce.

In particolare, si segnala Sez. U, n. 02610/2021, Scarpa, Rv. 660309-01, la quale, con specifico riguardo alla tardiva formulazione della richiesta di discussione orale ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla l. n. 176 del 2020, ha statuito che non può essere accolta l’istanza di rimessione in termini basata sull’esiguità del termine imposto dal regime transitorio correlato alla immediata vigenza della norma, perché l’istituto previsto dall’art. 153, comma 2, c.p.c. presuppone la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell’assolutezza, e non già un’impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che le circostanze dedotte, costituite dalla brevità del termine di 25 giorni prescritto dalla norma transitoria e dal "particolare periodo in cui è avvenuta la pubblicazione della legge", comportassero semplici difficoltà per il compimento tempestivo di un’attività difensiva elementare, quale la formulazione della richiesta di discussione).

Sulla stessa scia, Sez. 1, n. 23279/2021, Mercolino, Rv. 662309-01), ha precisato che lo stato di detenzione non costituisce un impedimento di carattere assoluto tale da rendere impossibile la proposizione dell’impugnazione e, pertanto, non giustifica la rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.c., poiché non interrompe ogni contatto con l’esterno, né impedisce all’interessato di esercitare, per il tramite del suo difensore, le facoltà processuali che gli spettano, prevedendo, anzi, l’art. 18, comma 1, della legge n. 354 del 1975 il diritto del detenuto di avere colloqui e d’intrattenere corrispondenza, anche al fine di compiere atti giuridici.

Sotto diverso profilo, Sez. 1, n. 03340/2021, Marulli, Rv. 660721-01, ha escluso la possibilità di invocare la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. in caso di tardiva proposizione dell’impugnazione quando il ritardo sia dovuto a fatto imputabile al difensore, costituendo la negligenza di quest’ultimo un evento esterno al processo, che attiene alla patologia del rapporto con il professionista, rilevante solo ai fini dell’azione di responsabilità nei confronti del medesimo, senza che ciò comporti alcuna violazione dell’art. 6 CEDU, poiché l’inammissibilità dell’impugnazione, che consegue all’inosservanza del termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica (cfr. Corte EDU, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia).

In materia tributaria, Sez. 5, n. 17237/2021, Balsamo, Rv. 661473-01 ha precisato che la remissione in termini è istituto applicabile al rito tributario, operante - tanto nella versione prevista dall’art. 184-bis c.p.c., quanto in quella, più ampia, prefigurata nel novellato art. 153, comma 2, c.p.c. - sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali interni al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l’impugnazione dei provvedimenti sostanziali. In particolare, nel caso esaminato, la citata pronuncia ha conseguentemente ritenuto che l’’omessa indicazione, nell’atto impositivo, delle informazioni relative all’autorità cui proporre ricorso e del termine entro cui il destinatario può impugnare non determina l’invalidità del provvedimento, ma comporta sul piano processuale, avuto riguardo alle circostanze concrete, la scusabilità dell’errore in cui sia eventualmente incorso il ricorrente, da esaminarsi caso per caso, con conseguente possibilità di remissione in termini.

La rimessione in termini è applicabile anche nell’ambito del procedimento di opposizione all’esclusione dallo stato passivo fallimentare, ex artt. 98 ss. della l. fall., come chiarito da Sez. 6-1, n. 22342/2021, Dolmetta, Rv. 661991-01, la quale ha tuttavia ricordato che tale istituto richiede la verifica della ricorrenza di due elementi e, cioè, dell’esistenza di un fatto ostativo esterno alla volontà della parte, non governabile da quest’ultima e dell’immediatezza della reazione diretta a superarlo prontamente. Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva escluso la decadenza del curatore fallimentare dall’eccezione di compensazione rispetto ad altro maggior credito vantato dall’opponente, sul rilievo che l’impedimento ad una tempestiva costituzione addotto dal curatore medesimo, consistente in un disguido informatico, non risultava coniugabile né con il caso fortuito né con l’insuperabilità oggettiva dell’asserito ostacolo - ben potendo essere utilizzati altri mezzi per sottoporre al G.D. l’istanza di autorizzazione alla costituzione - e che l’inazione di costui si era protratta per ben cinque mesi dall’asserito impedimento.

Infine, merita di essere segnalata Sez. 6-2, n. 32827/2021, Criscuolo, Rv. 662838-01, la quale ha ribadito, sulla scia di precedenti ormai consolidati (tra i più recenti cfr. Sez. 6-5, n. 23834/2020, Conti, Rv. 659359-01; Sez. 2, n. 06918/2019, Scarpa, Rv. 652940-01), che non costituisce presupposto per la rimessione in termini della parte che sia incorsa nella preclusione o nella decadenza la pronuncia delle Sezioni Unite che componga il contrasto sull’interpretazione di una norma processuale, atteso che una tale pronuncia non configura un’ipotesi di overruling, postulando essa un rivolgimento ermeneutico avente carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non spettante la rimessione in termini alla parte che, confidando in uno dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali di legittimità, in ordine allo strumento processuale utilizzabile per contrastare l’autenticità di un testamento olografo - poi superato da Cass., S.U., n. 12307 del 2015 -, si era limitata a disconoscere la conformità della copia prodotta all’originale, anziché proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura).

8. Il litisconsorzio, l’intervento e la chiamata in causa.

In linea generale, come recentemente chiarito da Sez. 3, n. 03692, Guizzi, Rv. 656899-01, il litisconsorzio necessario, la cui violazione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti coloro che ne siano partecipi, onde non privare la pronuncia dell’utilità connessa con l’esperimento dell’azione proposta, il che non può mai verificarsi per esigenze probatorie, ma solo ove tale azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all’adempimento di una prestazione inscindibile incidente su una situazione pure inscindibile comune a più soggetti.

Ancora in termini generali, con riferimento alla violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, è consolidato il principio, riaffermato da Sez. 3, n. 04665/2021, Guizzi, RV. 660603-01 (in conformità alla recente Sez. 2, n. 23315/2020, Tedesco, Rv. 659380-01), secondo il quale, quando risulta integrata la violazione delle predette norme, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero processo e s’impone, in sede di giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

Tuttavia, in presenza di più domande proposte dalle parti del giudizio, alcune delle quali soggette al litisconsorzio necessario ed altre no, tra le quali non si ravvisi un rapporto di pregiudizialità, né alcun profilo di necessario collegamento logico-giuridico, Sez. 2,n. 21610/2021, Oliva, Rv. 662056-01, ha specificato che la remissione della causa al giudice di prime cure, a cagione della mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di uno o più litisconsorti pretermessi in primo grado, si giustifica solo in relazione alle domande soggette a tale regime; ne consegue che, in siffatta evenienza, il giudice di secondo grado deve separare le cause, rimettendo al primo grado solo le domande assoggettate a litisconsorzio necessario, mentre deve esaminare i motivi di impugnazione relativi alle altre domande.

In ogni caso, come precisato da Sez. 6-3, n. 38024/2021, Tatangelo, Rv. 663351-01, il difetto di integrità del contraddittorio nel primo grado del giudizio, in riferimento all’ipotesi di litisconsorzio necessario per ragioni di ordine sostanziale, può essere rilevato d’ufficio dal giudice d’appello, ad eccezione del caso di giudicato interno, formatosi su una statuizione di merito resa tra le parti dalla sentenza appellata.

Quanto all’individuazione della natura unitaria o meno del rapporto plurisoggettivo dedotto in giudizio, la casistica giurisprudenziale è varia.

Tra le pronunce che hanno ritenuto la sussistenza di un litisconsorzio necessario si segnalano in particolare alcune decisioni emesse in diverse tipologie di procedimenti, rispettivamente in tema di scioglimento della comunione ereditaria, di procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, di provvedimenti ablativi, limitativi o restituivi della potestà genitoriale, di espropriazione presso terzi, di rapporti condominiali e di opposizione al decreto di pagamento emesso a favore del consulente tecnico d’ufficio.

Con riferimento alle cause di scioglimento della comunione ereditaria, Sez. 2. n. 39340/2021, Manna F., Rv. 663170-01, ha precisato che ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra coloro che abbiano accettato l’eredità, espressamente o tacitamente, e i chiamati il cui diritto di accettare non sia stato dichiarato prescritto con sentenza passata in giudicato, essendo tutti legittimati passivi legittimati; infatti, la sola constatazione del decorso del termine decennale di cui al comma 1 dell’art. 480 c.c. non basta a produrre l’effetto estintivo del diritto di accettare l’eredità, in quanto questo deve essere sempre accertato nel contraddittorio di tutte le parti interessate, dovendo l’atto con cui si solleva l’eccezione di prescrizione, per il suo carattere recettizio, essere partecipato al titolare del diritto stesso o, in caso di decesso successivo all’apertura di successione, ai suoi eredi, in modo da loro consentire la facoltà di dimostrare il contrario, per effetto dell’interruzione del termine o dell’avvenuta accettazione, tacita o espressa, effettuata dal "de cuius".

In relazione al procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, Sez. 1 n. 20243/2021, Caradonna, Rv. 661967-01, ha chiarito che i genitori del minore sono litisconsorti necessari e godono di una legittimazione autonoma, connessa ad un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali, sicché, ove il giudizio sia celebrato senza la partecipazione di uno di essi e né il giudice di primo grado né quello dell’impugnazione rilevino vizio del contraddittorio, l’intero processo risulta viziato e il giudice di legittimità è tenuto a rilevare anche d’ufficio l’invalidità del provvedimento impugnato, procedendo al suo annullamento e rinviando la causa al primo giudice a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

Sempre in tema di adozione, ma con riferimento al giudizio volto ad ottenere il riconoscimento dell’efficacia ex art. 67 della l. n. 218 del 1995 del provvedimento straniero di adozione piena di un minore, rilevante è l’arresto di Sez. U, n. 09006/2021, Acierno, Rv. 660971-01, secondo il quale gli adottanti sono litisconsorti necessari, poiché l’atto reca l’inscindibile riconoscimento dello "status" genitoriale di entrambi; tuttavia, ove l’azione sia esperita da uno solo di essi, ma l’altro intervenga volontariamente nel giudizio di cassazione e aderisca in pieno alle difese del primo, consentendo di verificare l’assenza di alcun pregiudizio alle facoltà processuali delle parti, il giudice di legittimità non può rilevare il difetto del contraddittorio, né procedere alla rimessione della causa davanti al giudice di merito, ma è chiamato ad esaminare il ricorso e a deciderlo, dovendo dare preminenza al principio di effettività nel valutare l’esercizio e la lesione del diritto di difesa.

Con riferimento ai giudizi riguardanti l’adozione di provvedimenti limitativi, ablativi o restitutivi della responsabilità genitoriale, riguardanti entrambi i genitori, Sez. 1, 11786/2021, Tricomi L., Rv. 661365-01, ha sottolineato che l’art. 336, comma 4, c.c., così come modificato dall’art. 37, comma 3, della l. n. 149 del 2001, in ragione del conflitto di interessi verso entrambi i genitori, richiede la nomina di un curatore speciale del minore, ex art. 78 c.p.c., ove non sia stato nominato un tutore provvisorio, il quale assume la veste di litisconsorte necessario.

In tema di espropriazione presso terzi, ed in linea di discontinuità con un consolidato orientamento, Sez. 3, n. 13533/2021, Rossetti, Rv. 661412-01 (e successivamente, in senso conforme, Sez. 3, n. 39973/2021, Porreca, Rv. 663189-01, ha affermato che nei giudizi di opposizione esecutiva si configura sempre litisconsorzio necessario fra il creditore, il debitore diretto ed il terzo pignorato. Tale pronuncia segna una evoluzione giurisprudenziale sulla questione esaminata, sino ad allora risolta dalla giurisprudenza affermando che il terzo pignorato non è parte necessaria nel giudizio di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi qualora non sia interessato alle vicende processuali relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo (così, tra le più recenti, Sez. 3, n. 13191/2015, Rossetti, Rv. 635974-01,Sez. 3, n. 10813 del 2020, Porreca). In proposito la decisione qui segnalata ha osservato che la precedente giurisprudenza di legittimità, pur affermando in teoria che non sempre il terzo pignorato debba ritenersi litisconsorte necessario nel giudizio di opposizione, ha definito in modo così ampio le ipotesi di processi oppositivi litisconsortili, da pervenire di fatto a negare nella sostanza il principio affermato in teoria. Infatti, si legge nella medesima sentenza dopo un breve excursus delle pronunce più significative succedutesi nel tempo, la Corte di cassazione ha “talmente allargato il novero delle ipotesi di necessaria partecipazione del terzo pignorato al giudizio di opposizione, da imporre la conclusione che tale partecipazione costituisca per diritto vivente la regola, e non l’eccezione. Dire, infatti, che il terzo "di regola" non è litisconsorte necessario salvo che abbia un interesse, e definire poi questo "interesse" in termini così ampi da ricomprendervi tutte le ipotesi più frequenti e rilevanti, è conclusione non coerente con la logica formale e con le necessarie indicazioni di chiarezza che legittimamente gli interpreti si attendono da questa Corte, ai sensi dell’art. 65 ord. giud.”

Una situazione di litisconsorzio necessario è stata individuata da Sez. 6-2, n. 06656/2021, Scarpa, Rv. 660940-01 con riferimento all’azione di nullità del regolamento "contrattuale" di condominio, la quale è esperibile non già nei confronti dell’amministratore, carente di legittimazione passiva, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, trattandosi, da un punto di vista strutturale, di un contratto plurilaterale avente scopo comune. Conseguenza di tale rilievo è che la sentenza che dichiari la nullità di clausole del regolamento contrattuale accogliendo la domanda proposta nei confronti del solo amministratore, non solo è inidonea a fare stato nei confronti degli altri condomini, ma neppure può essere appellata da uno ovvero alcuni di essi, benché si tratti degli effettivi titolari (dal lato attivo e passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, potendo tale potere processuale essere riconosciuto soltanto a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio conclusosi con la decisione impugnata.

Ancora in materia condominiale, Sez. 2, n. 02634/2021, Scarpa, Rv. 660246-01, ha affermato la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra tutti i condomini nell’ipotesi di domanda volta ad ottenere l’esecuzione di determinate opere sulle parti comuni di un edificio (nella specie, copertura del fabbricato, intonacatura esterna e lavorazioni inerenti alle strutture perimetrali) ovvero l’accertamento dell’obbligo di un condomino di realizzare delle modifiche sulle stesse, trattandosi di azioni che investono un rapporto giuridico unico ed inscindibile, finalizzate all’adempimento di una prestazione di facere non suscettibile di divisione, in quanto destinata ad incidere sui beni comuni.

Nella specifica ipotesi del giudizio di opposizione al decreto di pagamento emesso a favore del consulente tecnico d’ufficio, Sez. 6-2, n. 32005/2021, Oliva, Rv. 663218-01, ha statuito che le parti del processo nel quale è stata espletata la consulenza sono litisconsorti necessari, ma ha aggiunto che l’omessa integrazione del contradditorio può dare luogo ad un’impugnazione per violazione di norme processuali solo a condizione che sia stato, all’epoca, tempestivamente sollecitato al riguardo l’esercizio dei poteri officiosi del giudice e che, poi, sia stato dedotto, nell’impugnativa, il concreto pregiudizio subito per la mancata partecipazione al giudizio; né può ritenersi inutiliter data la sentenza di rigetto dell’opposizione intervenuta senza l’integrità del contradditorio, poiché la stessa, negando la revisione del compenso e confermando, quindi, la liquidazione effettuata dal giudice del merito innanzi al quale la parte opponente era presente, non ha leso alcun diritto di difesa.

Nell’anno 2021 non sono mancate pronunce che hanno invece escluso la configurabilità di un litisconsorzio necessario in diverse situazioni processuali

Fra queste, in materia condominiale, si segnala Sez. 2, n. 35794/2021, Scarpa,Rv. 662910-01, la quale ha precisato che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 c.c., la questione dell’appartenenza, o meno, di un’unità immobiliare di proprietà esclusiva ad un condominio edilizio, ovvero della titolarità comune o individuale di una porzione dell’edificio, in quanto inerente all’esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell’atto collegiale, ma privo - in assenza di esplicita domanda di una delle parti ai sensi dell’art. 34 c.p.c. - di efficacia di giudicato in ordine all’estensione dei diritti reali dei singoli, svolgendosi il giudizio ai sensi dell’art. 1137 c.c. nei confronti dell’amministratore del condominio, senza la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario.

Ancora in materia condominiale, è di interesse l’arresto di Sez. 2, n. 06192/2021, Carrato, Rv. 660802-01 relativo ad una azione di risarcimento dei danni nei confronti del venditore-costruttore, ex artt. 1669 e 2058 c.c., per i vizi di costruzione di un edificio in condominio relativi soltanto ad alcuni appartamenti e non anche alle parti comuni: tale azione, precisa la citata pronuncia (in continuità con Sez. 2, n. 24301/2006, Mazziotti Di Celso, Rv. 593357 – 01), ha natura personale e può essere esercitata da qualsiasi titolare del bene oggetto della garanzia, senza necessità che al giudizio partecipino gli altri comproprietari con la conseguenza che va proposta esclusivamente dai proprietari delle unità danneggiate, non sussistendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti degli altri condòmini, ancorché possa insorgere, in sede di esecuzione ed in modo riflesso, un’interferenza tra il diritto al risarcimento del danno in forma specifica riconosciuto in sentenza ed i diritti degli altri condòmini, dovendo i danneggiati procurarsi il consenso di questi ultimi per procedere, nella proprietà comune, ai lavori necessari ad eliminare i difetti, giacché tale condizionamento dell’eseguibilità della pronuncia costituisce soltanto un limite intrinseco della stessa, che non cessa comunque di costituire un risultato giuridicamente apprezzabile.

Altro peculiare caso, rilevante in alcune cause che involgono rapporti patrimoniali tra coniugi, è stato risolto da Sez. 6-3, n. 18707/2021, Positano, Rv. 661910-01 in senso conforme ad un analogo precedente (cfr. Sez. 3, n. 17021/2015, Rubino, Rv. 636301-01) con riguardo al giudizio intrapreso, ex art. 2901 c.c., verso uno dei coniugi in regime di comunione legale e riguardante un atto dispositivo compiuto da entrambi: in tale ipotesi la pronuncia citata ha escluso la sussistenza di un litisconsorzio necessario nei confronti dell’altro coniuge, atteso che l’eventuale accoglimento dell’azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica di quest’ultimo, ma comporterebbe esclusivamente l’inefficacia relativa dell’atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l’atto di disposizione.

Neppure il giudizio per la dichiarazione di fallimento di una società di fatto richiede l’instaurazione del litisconsorzio necessario fra tutti i soci, atteso che, come osservato da Sez. 1, n. 14365/2021, Amatore, Rv. 661494-01, il principio generale per cui l’accertamento di un rapporto sociale postula il contraddittorio fra la totalità dei presunti e reali componenti dell’ente non trova applicazione qualora l’accertamento relativo all’esistenza del rapporto sociale sia meramente strumentale rispetto alla decisione sulla dichiarazione di fallimento.

Sez. 1, n. 11226/2021, Nazzicone, Rv. 661281-01 ha a sua volta escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario della società nel procedimento arbitrale riguardante l’accertamento dell’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie, poiché, come ha evidenziato la citata pronuncia, tale controversia attiene al contratto tra fiduciante e fiduciario, efficace inter partes in virtù dell’incontro delle rispettive volontà, nel quale le partecipazioni al capitale sociale costituiscono soltanto l’oggetto del negozio.

Altra fattispecie è stata affrontata da Sez. L, n. 00438/2021, Arienzo, Rv. 660170-01, che ha escluso la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra cedente e cessionario, in caso di trasferimento di azienda o di un suo ramo, nel giudizio promosso dal lavoratore per affermare l’esistenza del rapporto lavorativo con il datore di lavoro cedente, e negare quello con il cessionario; ciò in quanto, osserva la citata pronuncia, il lavoratore non deduce in giudizio un rapporto plurisoggettivo, né alcuna situazione di contitolarità, ma tende a conseguire un’utilità rivolgendosi ad una sola persona, ossia il vero datore di lavoro; in tal caso, l’accertamento negativo dell’altro rapporto avviene senza efficacia di giudicato e l’eventuale contrasto tra giudicati è bilanciato dalle esigenze di economia e speditezza processuale, ostacolate dalla presenza di un’altra parte nel giudizio (in senso conforme già si era espressa Sez. L, n. 13171/2009, Roselli, Rv. 608859-01).

Inoltre, si segnalano due pronunce relative a procedimenti tributari che pure hanno escluso la configurabilità di un litisconsorzio necessario.

La prima è Sez. 5, n. 8882/2021, D’Orazio, Rv. 661029-01, la quale ha affermato che, sebbene in applicazione del principio di trasparenza ex art. 5 d.P.R. n. 917 del 1986, debbano partecipare al giudizio di merito sia la società di persone che i soci della stessa, non sussiste, a seguito del decesso del socio accomandatario di una società in accomandita semplice, un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra gli eredi del socio defunto e la società allorché venga a mancare la pluralità dei soci, determinandosi in tal caso lo scioglimento di quest’ultima ex art. 2272 c.c.

La seconda è Sez. 5, n. 03226/2021, Balsamo, Rv. 660645-02 la quale ha invece precisato che, nel giudizio di impugnazione dell’atto di attribuzione della rendita catastale, costituente il presupposto di un diverso atto impositivo, come l’ICI, anch’esso impugnato, atteso il rapporto di pregiudizialità tra i due procedimenti non sussiste litisconsorzio necessario fra l’Agenzia del territorio ed il Comune, privo di autonoma legittimazione nella causa relativa alla rendita catastale.

Con specifico riguardo al litisconsorzio di carattere processuale, Sez. 6-2, n. 33481/2021, Criscuolo, Rv. 662842-01 ha evidenziato che esso si determina anche per effetto della chiamata in causa in garanzia, con la conseguenza che l’impugnazione proposta dal chiamante garantito, rimasto soccombente, deve essere notificata anche al chiamato garante, dovendo il giudice, in caso contrario, disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331, primo comma, c.p.c.

Infine, un litisconsorzio necessario processuale è stato ravvisato, in ambito tributario, da Sez. 3, n. 10480/2021, Fiecconi, Rv. 661245-01, nel caso in cui il soggetto contro il quale un esattore abbia iscritto ipoteca proponga domanda di accertamento dell’illegittimità della sua iscrizione perché avvenuta nonostante l’inesistenza della relativa pretesa e convenga sia l’ente titolare di tale pretesa sia il medesimo esattore; a ciò consegue, secondo la citata pronuncia, che, ove detta domanda sia accolta e il menzionato ente contesti la decisione, la causa è inscindibile e l’impugnazione deve coinvolgere anche lo stesso esattore ex art. 331 c.p.c.

In tema di intervento volontario, Sez. 3, n. 36639/2021, Scarano, Rv. 663186-01, ha ribadito che l’intervento di cui all’art 105 c.p.c. concerne non la causa, ma il processo ed è tale che il terzo, una volta intervenuto nel giudizio e proposta domanda contro le altre parti o anche una sola di esse, diventa parte egli stesso nel processo medesimo, al pari di tutte le altre parti e nei confronti di queste ultime. Ne consegue che, qualora il terzo spieghi volontariamente intervento litisconsortile, assumendo essere lui (o pure lui) - e non gli altri convenuti (ovvero non esclusivamente le altre parti chiamate originariamente in giudizio) - il soggetto nei cui riguardi si rivolge la pretesa dell’attore, la domanda iniziale, benché in difetto di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo, nei confronti del quale il giudice è legittimato ad assumere le conseguenti statuizioni (tra i precedenti conformi cfr. .Sez. 2, n. 743/2012, Carrato, Rv. 621237-01).

Sempre in tema di intervento volontario, meritano di essere segnalate due interessanti pronunce relative a specifici procedimenti riguardanti, rispettivamente, la limitazione della capacità di soggetti disabili e i giudizi di separazione o divorzio

In particolare, Sez. 1, n. 36324/2021, Acierno, Rv. 662950-01, ha sottolineato, alla luce della vigente legislazione, come debba ritenersi escluso che la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi di soggetti disabili esposti ad interventi limitativi della capacità di autodeterminarsi possa essere assunta - sia pure sotto forma di intervento in causa "ad adiuvandum" - da enti esponenziali che abbiano quale finalità statutaria la tutela collettiva di specifiche categorie di disabilità, anche se rivolta ad escludere ogni forma di discriminazione per ragioni di handicap.

Con riferimento al giudizio di separazione o di divorzio, in cui il genitore convivente con il figlio maggiorenne agisca per ottenere il rimborso di quanto versato per il mantenimento di questi ovvero la determinazione del contributo per il futuro, secondo Sez. 1, n. 21819/2021, Valitutti, Rv. 662302-01, è ammissibile l’intervento anche del predetto figlio per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia o eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente connesse, che comportano la legittimazione ad agire, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa; inoltre, tale intervento assolve, altresì, ad un’opportuna funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all’entità del versamento, anche in forma ripartita, del contributo al mantenimento.

Un’altra rilevante decisione in ambito familiare ha riguardato la possibilità di intervento dei nonni in caso di adozione, nel corso dei procedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, di provvedimenti che incidano, in concreto, su situazioni giuridiche degli ascendenti, ai quali l’art. 317 bis c.c. riconosce il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni: in proposito Sez. 1, n. 18607/2021, Fidanzia, Rv. 661615-01 ha affermato che non solo tale evenienza legittima il loro intervento nel processo, ma a ciò consegue anche consegue il potere di impugnare le statuizioni ad essi pregiudizievoli. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto ammissibile il reclamo degli ascendenti contro il provvedimento che, ai sensi dell’art. 336 c.c., aveva sospeso la responsabilità genitoriale e vietato l’avvicinamento al minore anche ai nonni).

Da ultimo, con riguardo alla chiamata in causa di un terzo in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 2, n. 25499/2021, Orilia, Rv. 662257-02, in linea di continuità con Sez. 1, n. 21101/2015, Didone, Rv. 637413-01 (quest’ultima riferita alla posizione dell’opponente che intenda chiamare in causa un terzo) ha ribadito il principio secondo il quale, per effetto dell’opposizione - anche tardiva, ex art. 650 c.p.c. - non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore (opposto) mantiene la veste di attore ed il debitore (opponente) quella di convenuto. Da tale affermazione discende che, ai fini della chiamata in causa del terzo da parte dell’opposto - la cui autorizzazione è subordinata alla valutazione discrezionale, da parte del giudice istruttore, che l’esigenza di estensione del contraddittorio sia effettivamente derivata dalle difese dell’opponente, convenuto in senso sostanziale - trova applicazione l’art. 269, comma 3, c.p.c, dovendosi pertanto ritenere corretta la relativa istanza avanzata nella prima udienza.

9. La sospensione del processo.

Come è noto, l’art. 295 c.p.c. disciplinando la sospensione “necessaria” (così definita dalla rubrica del citato articolo) introduce una vicenda anomala o di crisi del processo di cognizione, la quale si pone in via autonoma al di fuori delle ipotesi in cui la sospensione è esplicitamente prevista dalla legge (cfr., ad es., il disposto dell’art. 75, comma 3, c.p.p., sul cui ambito di interpretazione v. la recente sentenza Sez. U., n. 13661/2019, Perrino, Rv. 653898-01) e che influisce sull’andamento normale del processo, cui imprime un arresto dello svolgimento.

Accanto alla sospensione “necessaria”, vengono disciplinate due ulteriori ipotesi di sospensione: quella volontaria, concordata su istanza di tutte le parti di cui all’art. 296 c.p.c., che può avere una durata massima di "tre mesi" e può essere disposta "per una sola volta", e quella cd. facoltativa prevista dall’art. 337, comma 2, c.p.c., secondo il quale "quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo" può farsi luogo alla sospensione "se tale sentenza è impugnata".

Per completezza, giova ricordare che nel codice di rito vengono disciplinate anche ulteriori e specifiche ipotesi di sospensione, tra le quali si richiamano quelle previste: dall’art. 279, comma 4, c.p.c., che legittima la sospensione del gravame "sino alla definizione del giudizio di appello" contro le sentenze non definitive di cui al comma 2, n. 4 dello stesso articolo e in caso di riforma; dall’art. 129-bis, comma 1, disp. att. c.p.c., che consente, a sua volta, la sospensione del processo "sino alla definizione del giudizio di cassazione"; dall’art. 398, comma 4, c.p.c., il quale consente la sospensione "fino alla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla revocazione"; dagli artt. 624 e 624-bis c.p.c., i quali dettano la disciplina della sospensione nel processo di esecuzione; dall’art. 819-bis c.p.c. in tema di procedimento arbitrale.

In tema di sospensione del giudizio per pregiudizialità necessaria, di particolare rilievo nell’anno in rassegna è l’arresto di Sez. U, n. 21763/2021, Carrato, Rv. 662227-03 che, pronunciando su una questione di massima di particolare importanza prospettata dall’ordinanza di remissione di Sez. 6-3, n. 362/2021, Graziosi, non massimata, ha enunciato, nell’interesse della legge ex art. 363, terzo comma, c.p.c., il principio secondo il quale, salvi i casi in cui la sospensione sia imposta da una disposizione normativa specifica che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se disposta, può essere proposta subito istanza di prosecuzione ex art. 297 c.p.c.), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, secondo comma, c.p.c.

La citata ordinanza di remissione n. 00362/2021 aveva invocato una possibile rimeditazione sulla sentenza delle Sezioni unite n. 10027 del 2012 (sull’interpretazione dell’endiadi composta dagli artt. 295 e 297 c.p.c.), la cui portata, peraltro, non era stata pienamente condivisa nella successiva giurisprudenza dalla Corte (cfr., per tutte, Sez. 6-1 n. 17623/2020, Valitutti, Rv. 658720 – 01), con la quale era stato affermato che, pur essendo solo facoltativa la sospensione del processo ex art. 337, comma 2, c.p.c., perché può essere disposta in presenza di un rapporto di pregiudizialità in senso lato tra la causa pregiudicante e quella pregiudicata senza che la statuizione assunta nella prima abbia effetto di giudicato nella seconda, né richiede che le parti dei due giudizi siano identiche, quella disciplinata dall’art. 295 c.p.c. è sempre necessaria (e va mantenuta fino alla formazione del predetto giudicato), essendo, per l’appunto, finalizzata ad evitare il contrasto tra giudicati nei casi di pregiudizialità (tecnica) in senso stretto (e presuppone altresì l’identità delle parti dei procedimenti).

Invece, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10027/2012, avevano ritenuto che nell’ipotesi di un nesso di pregiudizialità c.d. tecnica, il giudice della causa dipendente deve applicare l’art. 295 c.p.c. sino a che la causa pregiudicante pende in primo grado e così disporre necessariamente la sospensione del processo innanzi a lui. La sospensione della causa pregiudicata, però, non deve durare per forza sino al passaggio in giudicato della sentenza resa sulla lite pregiudicante.

Il fondamento di tale soluzione era stato espressamente collegato dalle Sezioni Unite del 2012, da un lato, alla provvisoria esecutività della sentenza di primo grado e, dall’altro, al correlato progressivo restringersi degli elementi di novità suscettibili di essere introdotti nel giudizio di impugnazione che consente di ritenere che «l’ordinamento preferisca all’attesa del giudicato la possibilità che il processo dipendente riprenda assumendo a suo fondamento la decisione, ancorché suscettibile di impugnazione, che si è avuta sulla causa pregiudicante, perché, essendo il risultato di un accertamento in contraddittorio e provenendo dal giudice, giustifica la presunzione di conformità al diritto».

La citata pronuncia delle Sez. U, n. 21763/2021, Carrato, Rv. 662227-03, nell’enunciare il principio sopra riportato, pur evidenziando qualche distinguo e apportando ulteriori argomenti per corroborarne la fondatezza, ha ritenuto di condividere l’approdo raggiunto con la precedente sentenza n. 10027/2012, sottolineando che essa “si pone nella giusta - e ormai imprescindibile - ottica di limitare per quanto possibile i casi di applicazione dell’art. 295 c.p.c. per evitare l’enorme dilatazione della durata dei processi che la sospensione (forzatamente) necessaria comporterebbe (e, quindi, per assicurare, nella sua effettività, il principio della durata ragionevole del processo, nella specie di quello "pregiudicato"), esigenza alla quale contribuisce una razionale e mirata concezione dell’ambito e dei presupposti di operatività dell’art. 337, comma 2, c.p.c.” .

La soluzione adottata dalle Sezioni unite nel 2012 costituisce, secondo le stesse Sezioni Unite del 2021, “un giusto bilanciamento tra diverse esigenze”: fin tanto che la causa pregiudicante penderà in primo grado, la causa dipendente resterà comunque soggetta a sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c.. Negli ulteriori sviluppi processuali, si configurerà tuttavia la possibilità di sciogliere il vincolo necessario della sospensione ove una parte del giudizio pregiudicato si attivi per riassumerlo e sempre che il giudice non reputi opportuno mantenere lo stato di sospensione (ovvero di quiescenza), ma, a tal riguardo, facendo ricorso all’esercizio del potere facoltativo di sospensione previsto dall’art. 337, comma 2, c.p.c. Tale interpretazione, come si legge nella motivazione della pronuncia di cui si discorre, cerca, in ultima analisi, di coordinare la disciplina dell’art. 295 c.p.c. con le norme e i principi che hanno inciso sulla nuova impostazione del sistema processualcivilistico in generale, implicante la necessaria valorizzazione di un’interpretazione costituzionalmente orientata come imposta dalla diretta applicazione dell’art. 6 CEDU e dell’art. 111, commi 1 e 2, Cost.

In questa dimensione ermeneutica, si legge ancora nel prosieguo della motivazione, il conflitto tra il valore di armonizzazione tra giudicati e l’esigenza di evitare presumibili azioni di ripetizione è risolvibile attraverso il ricorso alla portata applicativa assegnata al disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c. (da non potersi ritenere limitata solo alle ipotesi di pregiudizialità logica), per cui, ferma l’esigenza prioritaria di assicurare coerenza ai giudicati, si può ricorrere all’operatività, in chiave sistematica, del meccanismo di coordinamento a posteriori anche nei casi di pregiudizialità tecnica, che garantirebbe, comunque, la celerità nella definizione del giudizio dipendente, altrimenti esposto ad una sospensione necessaria di durata non predeterminabile. In altri termini, per effetto dell’applicabilità del citato art. 336, comma 2, c.p.c. - che verrebbe ad assumere il ruolo di "norma di chiusura" (esplicante, cioè, la funzione di una sorta di "valvola di sicurezza") la sentenza (già eventualmente) passata in giudicato sulla causa pregiudicata sarà colpita di riflesso in forza dell’effetto espansivo esterno conseguente alla riforma o alla cassazione della sentenza che definisce la causa pregiudiziale, ristabilendosi - ancorché ex post - l’armonia tra i giudicati.

Nel solco di tale arresto si colloca la successiva Sez. 5 n. 34966/2021, Condello, Rv. 663052-01, secondo la quale l’ambito di applicazione dell’art. 337, comma 2, c.p.c. deve essere esteso alle impugnazioni diverse dalla revocazione straordinaria e dalla opposizione di terzo, e la stessa disposizione deve essere interpretata nel senso che essa impone al giudice l’alternativa di tenere conto della sentenza invocata - che è quella sulla quale può essere fondata un’azione o un’eccezione - senza alcun impedimento derivante dalla sua impugnazione o dalla sua impugnabilità, o di sospendere il processo nell’esercizio del suo potere discrezionale.

In relazione alla sospensione necessaria del processo civile, ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., in attesa del giudicato penale, Sez. 6-3, n. 15248/2021, Cirillo F. M., Rv. 661669-01 ha ribadito un orientamento ormai consolidato, secondo il quale in tali ipotesi la sospensione può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile, e a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale.

Un particolare ipotesi di sospensione è stata evidenziata da Sez. 3, n. 12685/2021, Rossetti, Rv. 661329-01, in relazione alla sospensione del processo esecutivo nelle more della divisione dei beni pignorati, ai sensi dell’art. 601 c.p.c. (cd. divisione "endoesecutiva"): tale disposizione, precisa la pronuncia citata, integra una ipotesi speciale della sospensione per pregiudizialità necessaria prevista in via generale dall’art. 295 c.p.c.; pertanto, in applicazione estensiva dell’art. 297 c.p.c., il processo va riassunto nel termine di tre o sei mesi (secondo la disciplina applicabile ratione temporis) dalla pronuncia dell’ordinanza non impugnabile di cui all’art. 789, comma 3, c.p.c., ove non vi siano contestazioni, oppure dal passaggio in giudicato della sentenza che risolve le eventuali contestazioni.

A conclusione della rassegna sulle decisioni più rilevanti in tema di sospensione del processo, si segnalano due pronunce relative al giudizio tributario, al quale la sospensione ex art. 295 c.p.c. è applicabile in forza dell’art. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992.

Sez. 5, n. 01574/2021, Federici, Rv. 660244-01, in tema di redditi da partecipazione in società di capitali a base ristretta, ha statuito che, ogni qual volta vi sia pendenza separata dei giudizi relativi all’accertamento del maggior reddito contestato alla società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, si impone la sospensione ex art. 295 c.p.c. in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società, costituente l’antecedente logico-giuridico non solo nelle ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili ma in tutti i casi di contestazione rivolti alla compagine sociale relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.

Sez. 6-5, n. 00331/2021, Russo, Rv. 660259-01 (la quale, si noti, essendo intervenuta prima dell’arresto delle Sez. U., n. 21763/2021 sopra citato, si colloca in quel filone giurisprudenziale che tendeva a discostarsi dai principi già affermati dalle stesse Sezioni Unite nel 2012) ha affermato, in conformità con analoghi precedenti (cfr. Sez. 5, n. 16615/2015, Federico, Rv. 636825-01) che va cassata con rinvio la sentenza che decida la causa pregiudicata (nella specie avente ad oggetto l’avviso di irrogazione delle sanzioni) in base alla decisione, non ancora passata in giudicato, della causa pregiudiziale (nella specie avente ad oggetto l’annullamento dell’avviso di accertamento concernente l’indebita detrazione d’imposta per fatturazioni inesistenti, presupposto delle sanzioni applicate) dovendosi, in tale ipotesi, sospendere il processo pregiudicato ex art. 295 c.p.c., atteso che i principi del giudicato esterno consentono di attribuire efficacia riflessa alle sole sentenze definitive.

10. L’interruzione del processo.

Riguardo all’ipotesi di interruzione per morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore Sez. 5, n. 08037/2021, Balsamo, Rv. 660820-01 ha ribadito il consolidato principio (tra i precedenti in senso conforme, ex multis, cfr. Sez. L, 24845/2018, Lorito, Rv. 650728-01) secondo cui la mancata dichiarazione in udienza o la notificazione alle altre parti di tali eventi da parte di quest’ultimo comporta, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione - ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale - in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo tuttora in vita e capace; di conseguenza, è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, primo comma, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante.

In analogo caso, Sez. 3, n. 12183/2021, Olivieri, Rv. 661327-01, ha anch’essa richiamato la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, in forza della quale il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione; conseguentemente, osserva la pronuncia di cui si discorre, una volta ricevuta la notifica della impugnazione principale, il procuratore è abilitato a svolgere il ministero costituendosi con comparsa di costituzione ed eventualmente proponendo appello incidentale in nome e per conto della parte deceduta, senza che, in mancanza di costituzione, la mera dichiarazione o notifica dell’evento interruttivo impedisca l’operare delle preclusioni già maturate a carico di quest’ultima. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la statuizione di inammissibilità dell’appello incidentale, da ritenersi tardivamente proposto in seguito alla riassunzione da parte degli eredi, in quanto il difensore si era costituito irregolarmente, senza depositare comparsa di risposta, limitandosi ad indicare nella prima udienza di comparizione l’avvenuto decesso della de cuius).

Diversamente avviene nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca l’unico difensore a mezzo del quale la parte è costituita nel giudizio di merito: infatti, come precisato da Sez. 1, n. 23486/2021, Ferro, Rv. 662315-01, la morte, la radiazione e la sospensione dall’albo dell’unico difensore determinano l’automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altri parti non ne hanno conoscenza, con preclusione di ogni ulteriore attività processuale che, se compiuta, è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza, la quale può essere impugnata per tale motivo, ma solo dalla parte colpita dagli eventi sopra descritti, poiché le norme che disciplinano l’interruzione sono finalizzate alla sua esclusiva tutela.

Con riguardo alle società, Sez. 5, n. 5605/2021, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 660763-01 ha ribadito che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 l. fall.); pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso (v. Sez. U, n. 06070/2013, Rodorf, Rv. 625324).

Ancora in ambito societario, con specifico riguardo al caso di fusione per incorporazione ex art. 2504-bis c.c. intervenuta in corso di causa, merita di essere posta in evidenza Sez. U, n. 21970/2021, Nazzicone, Rv. 661864-01, l quale ha risolto il contrasto, esistente all’interno delle sezioni civili della Corte, in ordine alla questione della perdurante legittimazione processuale attiva e passiva della società incorporata o che abbia partecipato alla fusione paritaria. Invero, prima di tale importante arresto, nella giurisprudenza di legittimità si erano registrati al riguardo tre diversi orientamenti, pur partendo tutti dal comune assunto (affermato per la prima volta da Sez. U, n. 2637/2006, Proto, Rv. 586134-01) che la fusione integri una vicenda meramente “evolutiva-modificativa” e non estintiva. In particolare, le sezioni civili avevano alternativamente ritenuto che, intervenuta la cancellazione dal registro delle imprese dopo la fusione, la legittimazione attiva e passiva fosse conservata dalla società incorporata, ovvero spettasse esclusivamente alla società incorporante, ovvero ancora ad entrambe senza dar luogo ad una successione mortis causa ed essendo impedita l’interruzione del processo.

Al descritto contrasto hanno posto fine le citata Sez. U, n. 21970/2021, Nazzicone,Rv. 661864-01, affermando che la fusione per incorporazione estingue la società incorporata, che non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore. Tuttavia, qualora la fusione intervenga in corso di causa, non si determina l’interruzione del processo, esclusa ex lege dall’art. 2504-bis c.c., ma la società incorporante ha la facoltà di spiegare intervento volontario, ai sensi e per gli effetti dell’art. 105 c.p.c..

Nel caso di unico processo con pluralità di parti, Sez. 3, n. 18804/2021, Iannello, Rv. 661714-01, ha affermato che soltanto la parte pregiudicata dall’evento stesso può far valere l’irregolare prosecuzione del giudizio, non le altre parti, le quali nessun pregiudizio risentono dall’omessa interruzione del processo; ciò in quanto, osserva la citata pronuncia, le norme sull’interruzione del processo sono rivolte a tutelare la parte nei cui confronti si sia verificato l’evento interruttivo.

Per quanto riguarda la rilevanza processuale della dichiarazione di fallimento di una delle parti, di particolare importanza è l’arresto di Sez. U, n. 12154/2021, Ferro, Rv. 661210-01. Per meglio comprendere la portata di tale pronuncia, è opportuno preliminarmente ricordare che l'apertura del fallimento “determina l'interruzione del processo” ai sensi del terzo comma all'art. 43 L.F., (norma introdotta dall'art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2006). Tale disposizione è stata sempre interpretata nel senso che la dichiarazione di fallimento di una parte processuale determina ipso iure l’interruzione del giudizio in corso, rendendo così irrilevante ai fini della produzione dell’effetto interruttivo la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito, la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento, e gli atti e i fatti previsti dal quarto comma dell’art. 300 c.p.c. nel caso di fallimento del contumace. La giurisprudenza di legittimità, pur concordando sul fatto che la dichiarazione di fallimento produce ex lege, ai sensi dell’art. 43, comma 3 L.F., l’interruzione del giudizio, non era tuttavia univoca nell’individuazione del dies a quo del termine di decadenza per riassumere (a cura della controparte del soggetto fallito) o per proseguire (a cura della curatela del fallimento) il giudizio. In particolare, se da un lato ricorreva nelle sentenze e nelle ordinanze della Suprema Corte l’espressione secondo la quale quel dies a quo coincide con il momento in cui la controparte del fallito acquisisce “conoscenza legale” dell’intervenuto fallimento dell’altra parte, dall’altro lato era meno chiaro quali fossero gli atti o i fatti idonei a determinare tale forma di conoscenza.

Le Sezioni Unite, con la citata sentenza Sez. U, n. 12154/2021, Ferro, Rv. 661210-01, hanno risolto tale questione di massima di particolare importanza, prospettata dalla Prima Sezione civile con l’ordinanza di remissione Sez. 1, n. 21961/2020, Falabella, non massimata, affermando il principio di diritto secondo il quale in caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ai sensi dell’art. 43, comma 3, l. fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario.

Con specifico riguardo al procedimento di divisione dei beni, si evidenzia quanto affermato da Sez. 3, n. 15080/2021, Valle, Rv. 661577-01, secondo la quale, nell’ipotesi di morte del professionista incaricato della vendita dei beni che formano oggetto del giudizio di divisione in cui è parte il debitore esecutato ed in attesa della cui definizione è stata disposta la sospensione di un procedimento esecutivo immobiliare, non si determina alcuna interruzione suscettibile di essere superata con riassunzione, atteso che detto evento provoca soltanto una stasi tra le due fasi che compongono il giudizio divisorio, la cui definizione, con il conseguimento del risultato utile della divisione e l’attribuzione al debitore esecutato del ricavato della medesima, è presupposto della riassunzione della procedura esecutiva sospesa.

Infine, di peculiare interesse in tema di riscossione dei tributi, è l’arresto di Sez. U, n. 15911/2021, Napolitano, Rv. 661509-03, la quale ha risolto una questione di massima di particolare importanza, prospettata dalla Sesta Sezione civile con l’ordinanza interlocutoria Sez.. 6. n. 17710/2020, Amendola, non massimata, proponendo i seguenti quesiti: “a) se, entrata in vigore la riforma del settore di cui al d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, conv. con modif. in l. 1 dicembre 2016, n. 225, sia rituale l’instaurazione del contraddittorio per il giudizio di legittimità mediante notifica del ricorso al procuratore o difensore costituito per l’estinta società del gruppo Equitalia nel grado concluso con la sentenza impugnata, anziché alla neoistituita Agenzia delle Entrate - Riscossione: e, in particolare, se debba applicarsi la regola generale, oppure l’eccezione, prevista da Cass. Sez. U. 04/07/2014, n. 15295 … e, così, se possa considerarsi validamente ultrattivo il mandato conferito al professionista, oppure se debba ritenersi, con l’estinzione di questo o per altra causa, malamente evocata in giudizio una parte non corrispondente a quella giusta, trattandosi di soggetto formalmente e notoriamente estinto; b) se sia poi legittimo e su quali presupposti ed entro quali termini … il dispiegamento di attività difensiva nel giudizio di legittimità ad opera della detta Agenzia … mediante notifica di controricorso a seguito della notifica del ricorso alla singola società dante causa, agente della riscossione”.

Le Sezioni Unite, con la citata pronuncia n. 15911/2021 hanno risolto la questione affermando, per quanto qui interessa ai fini dell’operatività dell’interruzione, che la successione "a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali", di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del gruppo Equitalia, prevista dall’art. 1, comma 3, del d.l. n. 193 del 2016, conv. dalla l. n. 225 del 2016, pur costituendo una fattispecie estintiva riconducibile al subentro in universum ius, riguarda il trasferimento tra enti pubblici, senza soluzione di continuità, del munus publicum riferito all’attività della riscossione, con la conseguenza che il fenomeno non comporta la necessità d’interruzione del processo in relazione a quanto disposto dagli artt. 299 e 300 c.p.c.

11. La riassunzione del processo interrotto.

In linea generale, come è noto, la morte della parte avvenuta nel corso del giudizio, determina, in seguito all’interruzione del processo ai sensi degli artt. 299 e 300, comma 2, c.p.c., la necessità della citazione in riassunzione degli eredi in tale qualità, ancorché già costituiti in nome proprio, oppure della prosecuzione del processo nei loro confronti; diverso però è il caso, evidenziato da Sez. 6-2, n. 05444/2021, Scarpa, Rv. 660700-01, della parte che, cumulando in sé la qualità di parte in proprio e quella di erede di altro soggetto, deceduto prima dell’inizio del giudizio, sia stata comunque citata nella causa in proprio: nei confronti di tale parte, infatti, non va integrato il contradditorio in quanto in siffatta ipotesi si ravvisa l’unicità della parte in senso sostanziale.

Sotto il profilo dei termini per la riassunzione, giova ricordare che, in presenza di un meccanismo di riattivazione del processo interrotto destinato a realizzarsi distinguendo il momento della rinnovata edictio actionis da quello della vocatio in ius, il termine perentorio di sei (recte, di tre) mesi, previsto dall’art. 305 c.p.c., è riferibile solo al deposito del ricorso nella cancelleria del giudice, sicché, una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius. Ne consegue che, come confermato da Sez. 6-3, n. 02526/2021, Valle, Rv. 660418-01 (cfr., tra i precedenti conformi, Sez. 3, 09819/2018, Graziosi, Rv. 648428-01) il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice di ordinare, anche qualora sia già decorso il (diverso) termine di cui all’art. 305 c.p.c., la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio, solo il mancato rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3, e del successivo art. 307, comma 3, c.p.c.

12. L’estinzione del processo.

Tra le diverse ipotesi che possono determinare l’estinzione del processo, una fattispecie frequente è costituita dalla pronuncia di cessazione della materia del contendere, la quale, come ricordato da Sez. 3, n. 16891/2021, Dell’Utri, Rv. 661639-01, si verifica quando sopravviene una situazione tale da eliminare la ragione di contrasto e, con ciò, il venir meno dell’interesse delle parti ad ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice con riguardo all’azione proposta e alle difese svolte; pertanto, qualora la predetta pronuncia derivi dalla volontà manifestata dalle stesse parti del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, nessun rilievo assume la contrarietà del terzo intervenuto che, pur essendo formalmente parte del rapporto processuale, è comunque estraneo a quello sostanziale e, come tale, privo di interesse alla definizione delle reciproche pretese spiegate dagli originari contendenti. (Nella specie, la S.C. ha escluso la sussistenza di un interesse processualmente rilevante, ostativo alla pronuncia di cessazione della materia del contendere, in capo ai terzi, inquilini di unità immobiliari di un edificio, interventori autonomi in una controversia riguardante il contratto preliminare di compravendita del fabbricato in cui l’attore aveva domandato l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre e il convenuto aveva chiesto l’accertamento di pretesi inadempimenti contrattuali della controparte).

Sul medesimo tema, Sez. 2, n. 21757/2021, Criscuolo, Rv. 661966-01, ha ulteriormente chiarito, in linea di continuità con quanto già affermato da Sez. 3 n. 11962/2005, Frasca, Rv. 582510 – 01, che la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice, potendo al più residuare un contrasto solo sulle spese di lite, che il giudice con la pronuncia deve risolvere secondo il criterio della cosiddetta soccombenza virtuale. Allorquando, invece, la sopravvenienza di un fatto, che si assume suscettibile di determinare la cessazione della materia del contendere, sia allegato da una sola parte e l’altra non aderisca a tale prospettazione, il suo apprezzamento, ove esso sia dimostrato, non può concretarsi in una pronuncia di cessazione della materia del contendere, ma, ove abbia determinato il soddisfacimento del diritto azionato con la domanda dell’attore, in una valutazione dell’interesse ad agire, con la conseguenza che il suo rilievo potrà dare luogo ad una pronuncia dichiarativa dell’esistenza del diritto azionato (e, quindi, per tale aspetto, di accoglimento della domanda) e di sopravvenuto difetto di interesse ad agire dell’attore in ordine ai profili non soddisfatti da tale dichiarazione, in ragione dell’avvenuto soddisfacimento della sua pretesa per i profili ulteriori rispetto alla tutela dichiarativa.

Una ipotesi in cui deve essere escluso il verificarsi della cessazione della materia del contendere (la quale, presupponendo il venir meno delle ragioni di contrasto fra le parti, fa venir meno la necessità della pronuncia del giudice) è stata evidenziata da Sez. 3,n. 04855/2021, Scarano, Rv. 660708-01 riguardo al caso di pagamento avvenuto nel corso del giudizio, allorché l’obbligato non rinunci alla domanda diretta all’accertamento dell’inesistenza del debito. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva dichiarato cessata la materia del contendere del giudizio di opposizione all’esecuzione, promossa per spese giudiziali pretese sulla base di sentenza provvisoriamente esecutiva ma riformata in sede di gravame, in ragione del pagamento antecedente alla notifica del precetto ma nonostante la mancata rinuncia all’accertamento negativo del debito).

Altra ipotesi di estinzione è stata affrontata da Sez. 6-3, n. 32207/2021, Iannello, Rv. 662960-01 con riferimento alla mancata rinnovazione della citazione nulla nel termine concesso dal giudice ex art. 164 c.p.c.: in tale caso, infatti, poiché il detto termine ha natura perentoria, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, comma 3, c.p.c., comporta la contemporanea ed automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte.

Infine, giova ricordare che, come statuito da Sez. 6-2, n. 22735/2021, Casadonte,Rv. 662331-01, l’ordine di integrazione della domanda per ritenuta nullità della citazione, emesso in difetto dei presupposti per la sua emanazione, è improduttivo di effetti, sicché la mancata ottemperanza al medesimo, essendo irrilevante, non può determinare l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307, comma 3, c.p.c.

13. La fase decisoria.

Nella giurisprudenza di legittimità è consolidato l’orientamento secondo il quale la mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda in precedenza formulata non autorizza alcuna presunzione di rinuncia tacita in capo a colui che ebbe originariamente a proporla, essendo necessario che, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, possa desumersi inequivocabilmente il venir meno del relativo interesse (cfr. Sez. 3, n. 3593/2010, Amatucci, Rv. 611715 - 01; Sez. 2, n 14104/2008, Bertuzzi, Rv. 603534-01; Sez. 1, n. 15860/2014, Di Amato, Rv. 632116-01; Sez. 2, n. 17582/2017, Giuseppe Grasso, Rv. 644854-01). Tale principio è stato riaffermato da Sez. 3, n. 00723/2021, Sestini, Rv. 660387-01, precisando che esso deve ritenersi operante anche nell’eventualità che la domanda sia stata estesa automaticamente all’attore per effetto della chiamata in causa, su iniziativa del convenuto, del terzo ritenuto responsabile.

Con riferimento alle istanze istruttorie, invece, sino all’anno in rassegna costituiva orientamento consolidato il principio secondo cui la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, in modo specifico, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello (cfr. Sez. 3, n. 25157/2008, Segreto, Rv. 605482 - 01; conformi Sez. 3 n. 16290/2016, Scrima, Rv. 642097 - 01; Sez. 3, n. 19352/2017, Sestini, Rv. 645492 - 01; Sez. 2, n. 05741/2019, Criscuolo M., Rv. 652770 - 02; Sez. 2 n. 15029/2019, Abete, Rv. 654190 - 0; anche Sez. 6-2 n. 10748/2012, Proto C.A., Rv. 623121 - 01 e S. 6-3, n. 3229/2019, Scarano, Rv. 653001 - 01).

Il rigore di tale affermazione risulta ora attenuato dall’arresto di Sez. 2, n. 33103/2021, Orilia, Rv. 662750-01, la quale, proprio in considerazione del diverso orientamento seguito dalla stessa Corte con riferimento alla domanda (e ad altre analoghe situazioni), ha affermato che la predetta presunzione di abbandono può tuttavia essere ritenuta superata dal giudice di merito, qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi. A tale conclusione la pronuncia di cui si discorre è giunta osservando che, per ragioni di coerenza sistematica e nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata sull’effettività del diritto di difesa (artt. 24 e 111 Cost.), il principio in precedenza affermato deve essere coordinato con gli altri principi, pure rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità in tema di interpretazione del contegno processuale del difensore in sede di precisazione delle conclusioni, in forza dei quali il tema della presunzione di rinuncia/abbandono delle domande o eccezioni non riproposte in sede di precisazione delle conclusioni viene prevalentemente risolto nel senso di una ricerca ricostruttiva dell’effettiva volontà della parte. Dunque, dopo aver ricostruito il panorama giurisprudenziale pertinente, con la pronuncia in discorso la Corte ha ritenuto che anche una presunzione di abbandono di istanze istruttorie in sede di precisazione delle conclusioni non possa, in taluni casi, prescindere da una doverosa indagine volta ad accertare se, effettivamente, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi, quali la comparsa di costituzione, le memorie di cui all’art. 183 c.p.c. (o 184 c.p.c., nella formulazione ratione temporis applicabile), e poi con la comparsa conclusionale di cui all’art. 190 c.p.c..

Coerente con tale impostazione è, invece, l’orientamento già da tempo seguito dalla Suprema Corte con riferimento all’ipotesi in cui la causa viene trattenuta in decisione senza che il giudice istruttore si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie avanzate dalle parti: in tal caso, come ribadito nell’anno in rassegna da Sez. 1, n. 04487/2021, Iofrida, Rv. 660569-01, il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le dette istanze istruttorie, non consente al decidente di ritenerle abbandonate, ove la volontà in tal senso non risulti in modo in equivoco (in precedenza, nello stesso senso, cfr. Sez. 3, n. 08576/2012, F.M. Cirillo, Rv. 622631-01).

Con riguardo alla motivazione della decisione, di peculiare interesse, anche in considerazione della fattispecie esaminata, è il principio espresso da Sez. 1, n. 22651/2021, Fidanzia, Rv. 662308-01, secondo il quale l’esposizione del percorso logico-giuridico nel quale si concreta la motivazione, non può consistere nel richiamo integrale ad un testo in lingua inglese (o in altra lingua di uso comune in Europa) privo di traduzione, seguito dalla mera affermazione che da esso si desumono i fatti che il giudice ha posto a base del proprio convincimento; il giudice del merito deve, infatti, esplicitare, in italiano quali sono detti fatti così da consentire al ricorrente di comprendere su quali elementi si fondi la decisione e di esercitare quindi il proprio diritto di difesa (Nella specie la Corte ha cassato il provvedimento impugnato in cui si era escluso che la Guinea versi in una situazione di diffusa violazione dei diritti umani, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, e/o di violenza indiscriminata, rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della lett. c) dell’art. 14 del d.lgs. n. 251/07, limitandosi a richiamare le notizie sulla Guinea tratte dalla fonte inglese Human Rights Watch, inserite integralmente e senza traduzione nel testo del decreto impugnato).

Ancora in tema di motivazione, Sez. 3, n. 29017/2021, Valle, Rv. 662639-01, ha ribadito il principio (tra i precedenti conformi più recenti cfr. Sez. 5, n. 02861/2019, Fuochi Tinarelli, Rv. 652375-01; Sez. L, n. 17640/2016, Negri Della Torre, Rv. 640819-01) secondo il quale la sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai "precedenti conformi" contenuto nell’art. 118 disp. att. c.p.c. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell’ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicché la parte che intenda impugnarla ha l’onere di compiere una precisa analisi anche delle argomentazioni che vi sono inserite mediante l’operazione inclusiva del precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione.

Sotto il profilo della coerenza della motivazione, Sez. 2, n. 25183/2021, Tedesco,Rv. 662222-01, ha ricordato e confermato il principio, già da tempo affermato (cfr. Sez. 2, n. 02213/1984, Pierantoni, Rv. 434253 – 01), secondo il quale la contraddittorietà fra un’ordinanza istruttoria e la successiva sentenza di merito di primo grado non costituisce vizio di attività o di giudizio, ma espressione del principio di cui all’art. 177, comma 1, c.p.c., secondo cui le ordinanze comunque motivate non possono mai pregiudicare la decisione della causa.

Con riferimento all’ipotesi in cui la sentenza sia stata deliberata prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle conclusionali o delle memorie di replica, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che ricorra una nullità, ma in ordine agli oneri gravanti sulla parte in caso di impugnazione per far valere tale nullità nell’anno 2021 è intervenuta Sez. U, n. 36596/2021, Terrusi, Rv. 663244-01 che, risolvendo un contrasto, ha affermato il principio secondo il quale la parte che proponga l’impugnazione della sentenza d’appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero di replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; invero, la violazione determinata dall’avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto alla possibilità per i difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all’atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo senza che la parte debba indicare, al momento dell’impugnazione, se e quali argomenti non svolti nei precedenti atti difensivi avrebbe potuto sviluppare ove detto deposito fosse stato consentito. Sebbene tale arresto abbia specificamente riguardato l’ipotesi in cui la nullità colpisca la sentenza d’appello, nella motivazione della medesima pronuncia delle Sezioni Unite il problema viene affrontato anche con rifermento all’ipotesi in cui sia la sentenza di primo grado ad essere stata deliberata anticipatamente rispetto alla scadenza dei termini dell’art. 190 c.p.c..

In tal caso, chiariscono le Sezioni Unite, non basta alla parte soccombente impugnare la sentenza denunziandone la nullità. Non le basta perché il giudice d’appello, una volta constatata tale nullità, non potrebbe rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., essendo tenuto a deciderla invece egli stesso nel merito. E poiché ciò comporta che la decisione avvenga sempre nei limiti delle doglianze prospettate, è in questo caso da individuare, sotto pena di inammissibilità, l’onere della parte di impugnare la sentenza di primo grado anche in rapporto alle statuizioni di merito. Alla base della differenza, precisano le Sezioni Unite, non sta però una sorta di differente onere esplicativo della rilevanza della nullità in capo alla parte lesa (quasi che la nullità non sia in tale ipotesi essa stessa automatica), ma semplicemente il fatto che nel sistema di diritto processuale la nullità della sentenza si converte nell’apposito mezzo di gravame: l’appello o il ricorso per cassazione.

Peraltro, tali principi espressi dalle citate Sez. U, n. 36596/2021, Terrusi, Rv. 663244-01, non sembrano elidere il chiarimento offerto da Sez. 3, n. 03569/2021, D’Arrigo,Rv. 660593-01, ancorchè emessa qualche mese prima, secondo la quale, se la data di deliberazione riportata in calce ad una sentenza collegiale è anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., ma la data di pubblicazione - che segna il momento in cui la decisione viene ad esistenza - è successiva a detta scadenza, si presume, in assenza di contrari elementi, che l’indicata data di deliberazione sia affetta da semplice errore materiale e che, pertanto, il processo deliberativo si sia correttamente svolto mediante l’esame degli scritti difensivi depositati, senza alcun pregiudizio del diritto di difesa delle parti.

Infine, riguardo alla sottoscrizione del provvedimento, Sez. 1, n. 22453/2021, Amatore, Rv. 661998-01 ha precisato che il decreto decisorio emesso dal Tribunale in composizione collegiale deve essere sottoscritto dal solo Presidente, anche quando la relazione della causa e l’estensione del provvedimento siano state affidate ad un altro membro del collegio. (Fattispecie in tema di opposizione allo stato passivo di un’amministrazione straordinaria).

14. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato trova la sua collocazione nell’art. 112 c.p.c. ai sensi del quale “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Attraverso la norma in esame si stabilisce in termini generali: a) la stretta relazione fra la pronuncia giudiziale e quanto dedotto in giudizio dalle parti, sia con la domanda che con le relative eccezioni, di qui il fondamento del dovere decisorio; b) ai fini del vincolo del giudice a quanto dedotto, è necessario che la volontà delle parti sia formalizzata attraverso la formulazione di una vera e propria domanda giudiziale o un’eccezione, di qui la stretta correlazione con il principio della domanda enunciato dall’art 99 c.p.c.; c) una volta che la volutans partium si sia formalizzata nei termini di una domanda o di un’eccezione, a ciò va rapportato il dovere decisorio del giudice, anche al fine di verificare se la sua pronuncia sia o meno viziata per ultrapetizione od omissione di pronuncia.

Nel corso del 2021 la S.C. è più volte intervenuta, in diverse fattispecie concrete, a perimetrare la portata del richiamato principio nelle sue diverse declinazioni.

In particolare, Sez. 3, n. 09255/2021, Scoditti, Rv. 661072-01 ha chiarito che la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato si determina nell’ipotesi in cui il giudice del merito sostituisca la causa petendi dedotta dall’attore con una differente, fondata su un fatto diverso da quello posto a fondamento della domanda. (Nella specie, relativa a risarcimento del danno da denegata paternità, la sentenza di merito, cassata dalla S.C. per la violazione del principio sopra indicato, aveva rigettato la domanda del presunto figlio sulla base della ritenuta insussistenza del collegamento eziologico tra la denegata paternità e la patologia schizoaffettiva di cui egli era portatore, ma la domanda era fondata sulla diversa circostanza che la denegata paternità avrebbe determinato il danno-evento di non poter accedere alle opportunità sociali ed economiche consentite dalla collocazione professionale del presunto padre, da cui sarebbe poi dipeso il danno-conseguenza, identificabile nel dedotto pregiudizio patrimoniale).

A sua volta, Sez. 2, n. 01616/2021, Giusti, Rv. 660163-02, ha precisato che il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione. (La S.C., nell’enunciare il detto principio, ha escluso che ricorresse la violazione dell’art. 112 c.p.c. in un caso in cui il ricorrente si era lamentato che il giudice del merito, chiamato a decidere sull’osservanza dei termini previsti per l’azione di garanzia per i vizi, non aveva "fatto buon uso dei suoi poteri di indagine sui beni oggetto della compravendita").

Più in generale, come ribadito da Sez. 6-3, n. 16608/2021, Dell’Utri, Rv. 661686-01 (affermando un principio risalente già a Sez. 3, n. 00702/1968, Poddighe, Rv. 331920 – 01), il dovere imposto al giudice di non pronunciare oltre i limiti della domanda, né di pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, non comporta l’obbligo di attenersi all’interpretazione prospettata dalle parti in ordine ai fatti, agli atti ed ai negozi giuridici posti a base delle loro domande ed eccezioni, essendo la valutazione degli elementi documentali e processuali, necessaria per la decisione, pur sempre devoluta al giudice, indipendentemente dalle opinioni, ancorché concordi, espresse in proposito dai contendenti. Al riguardo non è configurabile un vizio di ultrapetizione, ravvisabile unicamente nel caso in cui il giudice attribuisca alla parte un bene non richiesto, o maggiore di quello richiesto.

Si evidenziano, infine, tre pronunce relative a specifiche fattispecie, in una delle quali è stata ravvisata la sussistenza della violazione del principio, mentre nelle altre due è stata esclusa.

La prima, Sez. 3, n. 12159/2021, Scarano, Rv. 661324-01, relativa ad un giudizio di risarcimento del danno derivante da fatto illecito, ha ribadito il principio (in senso conforme a Sez. L, n. 16450/2012, Filabozzi, Rv. 624212-01 e Sez. 3 n. 02078/2002, Amatucci, Rv. 552245-01) secondo il quale costituisce violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., il prescindere dalla specifica quantificazione formulata dalla parte in ordine a ciascuna delle voci di danno oggetto della domanda, salvo che tali indicazioni non siano da ritenere - in base ad apprezzamento di fatto concernente l’interpretazione della domanda e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione - meramente indicative. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto, all’esito delle risultanze peritali, come mera emendatio l’ampliamento dell’originaria domanda attrice, così trascurando di considerare la limitazione posta dalla stessa danneggiata alla propria domanda risarcitoria manifestata attraverso la quantificazione analitica di ogni singola voce di danno e il relativo ammontare espresso in una somma complessiva certa e determinata, tale da escludere un’ulteriore richiesta di liquidazione del danno secondo giustizia ed equità).

La seconda pronuncia, costituita Sez. 6-3, n. 13504/2021, Cricenti, Rv. 661564-01, ha affermato che la decisione che accolga la domanda di restituzione fondata sulla risoluzione del contratto per inadempimento, quale conseguenza del rilievo d’ufficio dell’avvenuta risoluzione consensuale, non viola il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso che il venir meno del titolo, quale che ne sia la causa, rende indebita la prestazione effettuata in base ad esso e, una volta che ne sia stata chiesta la restituzione, non rileva la ragione per cui il pagamento è divenuto indebito, potendo identico effetto restitutorio seguire all’accertamento d’ufficio di altra causa di risoluzione.

La terza pronuncia, costituita da Sez. 6-3, n. 14432/2021, Rossetti, Rv. 661567-01 (in linea di continuità con Sez. 3, n. 15223/2014, Carluccio, Rv. 631733-01), ha escluso che ricorra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sotto il profilo del limite costituito dal divieto di immutazione degli effetti giuridici che la parte intende conseguire, nel caso in cui il giudice di merito, nell’individuare la norma applicabile, qualifichi quale domanda di indennizzo, ai sensi non del solo art. 844 c.c. ma anche dell’art. 46 della l. n. 2359 del 1865, quella proposta dalla parte attrice per l’intollerabilità delle immissioni derivanti dalle esalazioni prodotte da un impianto di depurazione comunale.

15. Le sentenze non definitive.

Giova ricordare che, in termini generali (cfr. Sez. 3, n. 16289/2019, Pellecchia, Rv. 654349-02; v. altresì Sez. 2, n. 05443/2002, Triola, Rv. 553752-01), è da considerarsi definitiva la sentenza con la quale il giudice si pronunci su una (o più) delle domande o su capi autonomi della domanda, mentre è da considerarsi non definitiva, agli effetti della riserva di impugnazione differita, la sentenza resa su questioni preliminari alla decisione finale e che non contenga quegli elementi formali sulla base dei quali va operata la distinzione, cioè la pronuncia sulle spese o un provvedimento relativo alla separazione dei giudizi.

I passaggi dell’evoluzione normativa riguardo all’istituto delle sentenze non definitive, dall’impostazione del legislatore del 1865 all’impianto previsto nel codice di procedura civile del 1940, fino all’intervento della l. 14 luglio 1950, n. 581, che, modificando gli artt. 279, 339 e 340 c.p.c., ha determinato l’attuale assetto complessivo, si trovano descritti, unitamente alle linee dell’evoluzione giurisprudenziale sul tema (per le quali cfr. in particolare gli arresti di Sez. U, n. 01577/1990, Caturani, Rv. 465607-01 e Sez. U, n. 00711/1999, Preden, Rv. 530707 - 01), in Cass. 25 marzo 2011 n. 6993. Nella stessa sentenza si legge che «tirando le fila del discorso sull’enucleazione della differenziazione tra sentenza definitiva e non definitiva, possono essenzialmente evidenziarsi, alla luce del percorso segnato dalle Sezioni unite, i seguenti punti fermi: a) allorquando si sia generato, fra le stesse parti, un cumulo oggettivo di cause (ai sensi degli artt. 104, 36 in dipendenza della proposizione di domanda riconvenzionale, 34 in virtù della formulazione di domanda di accertamento incidentale o per legge, per effetto di riunione dei processi ex artt. 40 e/o 274 c.p.c.), si configurerà la possibilità di scegliere fra la pronuncia di una sentenza non definitiva su una singola domanda e la pronuncia di una sentenza definitiva parziale, ricadendosi nella seconda ipotesi solo allorché la separazione sia esplicitamente statuita dal giudice nella pronuncia della sentenza, oppure allorché la sua intenzione di separare la causa non decisa e di farne l’oggetto di un residuo ma distinto rapporto processuale sia resa palese dall’avvenuta disciplina delle spese in ordine all’esito della controversia già decisa; b) allorquando si tratti, invece, di un cumulo litisconsortile di cause (insorto ai sensi degli artt. 103 o 105, comma 1, o art. 40 e/o 274 ovvero, per effetto di chiamata in causa di terzi, ex artt. 106 e, entro certi limiti, 107 c.p.c.), consegue che ogni sentenza, che definisca integralmente la pendenza delle controversie che concernano uno dei litisconsorti facoltativi attivi o passivi, od anche uno degli intervenienti o uno dei chiamati in causa, dovrà considerarsi sentenza definitiva e contenere, perciò, la pronuncia sulle spese e, per quanto possibile, un’espressa statuizione di separazione delle restanti cause relative solo agli altri litisconsorti facoltativi; c) nel caso in cui si versi in una ipotesi di cumulo solo oggettivo di due cause fra le stesse parti e le cause stesse non presentino alcun nesso di condizionamento o di subordinazione o di pregiudizialità e possano, quindi, dar luogo alla pronuncia di una sentenza parziale definitiva con separazione dell’altra causa ancora non matura per la decisione, bisogna ritenere che operi pienamente la disciplina della scelta fra l’impugnazione immediata e la riserva di impugnazione differita».

In tale cornice, nell’anno in rassegna spicca l’arresto di Sez. U, n. 10242/2021, Carrato, Rv. 661061-01, il quale ha risolto una questione di massima di particolare importanza, prospettata con ordinanza interlocutoria da Sez. 2, n. 06624/2020, Criscuolo, non massimata. In particolare, la questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite riguardava la verifica dei criteri ai quali ricorrere per pervenire alla corretta individuazione della natura definitiva o meno della sentenza, ai fini del regime di impugnazione applicabile e della possibilità per la parte di proporre impugnazione differita, specificamente con riguardo all’eventualità in cui, a fronte dell’affermazione formale indicata in dispositivo di "non definitivamente" pronunciare, il giudice, in un processo con una pluralità di domande, abbia definito parzialmente il giudizio, decidendo sul merito di una o più domande, provvedendo alla regolazione delle relative spese e disponendo con ordinanza la prosecuzione del giudizio in vista del compimento dell’attività istruttoria necessaria ai fini della decisione su altra domanda.

L’ordinanza interlocutoria, infatti, evidenziava come l’idoneità e sufficienza dei criteri formali enucleati dalla giurisprudenza (pronuncia sulle spese o provvedimento di separazione) vacillino in presenza di elementi formali di segno contrario, come ad esempio nel caso esaminato, in cui i giudici avevano fatto precedere il dispositivo dall’affermazione “non definitivamente pronunciando”, ma contemporaneamente avevano deciso sulle spese, disponendo la prosecuzione del giudizio per l’istruttoria sul residuo capo.

La citata pronuncia di Sez. U, n. 10242/2021, Carrato, Rv. 661061-01 ha risolto la questione (ri)affermando che, ai fini dell’individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte dalle parti stesse, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Tuttavia, qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell’ambiguità derivante dall’irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l’appello in concreto proposto mediante riserva.

A conclusione della rassegna sulle sentenze non definitive, si segnala, con riferimento ai poteri del giudice, Sez. 2, n. 29321/2021, Criscuolo, Rv. 662604-01, la quale ha precisato che il giudice che abbia pronunciato con sentenza non definitiva su alcuni capi di domanda, continuando l’esame della causa per la decisione su altri, non può riesaminare le questioni già decise con la sentenza non definitiva, neppure al fine di applicare nuove norme sopravvenute in corso del procedimento, in quanto la nuova regolamentazione giuridica del rapporto va applicata dal giudice dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva.

16. La correzione dei provvedimenti giudiziali.

In termini generali è stato da tempo affermato il principio secondo cui il procedimento per la correzione degli errori materiali di cui all’articolo 287 c.p.c. è esperibile per ovviare ad un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo stesso del provvedimento mediante il semplice confronto della parte del documento che ne è inficiata con le considerazioni contenute in motivazione, senza che possa incidere sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione (cfr. Sez. 3, n. 00816/2000, Segreto, Rv. 533133-01; Sez. 6 - L, n. 572/2019, Ghinoy, Rv. 652132-01; Sez. L, n. 16877/2020, Lorito, Rv. 658775-01).

Altro consolidato principio relativo al procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 391-bis c.p.c., affermando che all’esito dello stesso non è ammessa alcuna statuizione sulle spese processuali, trattandosi di procedimento di natura amministrativa senza una parte soccombente in senso proprio (già in precedenza, tra le molte, Sez. U, n. 9438/2002, Roselli, Rv. 555429-01; Sez. 3, n. 10203/2009, Frasca, Rv. 608122-01; Sez. 6-2, n. 21213/2013, Proto CA, Rv. 627802-01; Sez. 6-2, n. 12184/2020, Falaschi,Rv. 658456-01).

Tra le pronunce di maggiore interesse emesse sul tema nell’anno in rassegna, si segnala Sez. 2, n. 13629/2021, Abete, Rv. 661291-01 la quale, con riferimento all’individuazione del giudice competente all’emanazione del provvedimento correttivo, ha dato continuità al reiterato insegnamento della Corte (cfr. Sez. 3, n. 10289/2001, Segreto, Rv. 548563-01), secondo il quale la speciale disciplina, dettata dagli artt. 287 e seguenti c.p.c., per la correzione degli errori materiali incidenti sulla sentenza, la quale attribuisce la competenza all’emanazione del provvedimento correttivo allo stesso giudice che ha emesso la decisione da correggere, mentre non è applicabile quando contro la decisione stessa sia già stato proposto appello dinanzi al giudice del merito, in quanto l’impugnazione assorbe anche la correzione di errori, è invece da osservarsi rispetto alle decisioni impugnate con ricorso per cassazione, atteso che il giudizio relativo a tale ultima impugnazione è di mera legittimità e la Corte di cassazione non può correggere errori materiali contenuti nella sentenza del giudice di merito, al quale va, pertanto, rivolta l'istanza di correzione, anche dopo la presentazione del ricorso per cassazione.

Rilevante, anche in considerazione della sua applicabilità generalizzata, è il principio affermato da Sez. 6-L, n. 13854/2021, Leone, Rv. 661315-01, secondo cui, in sede di procedura di correzione di errore materiale, la modifica della statuizione sulle spese legali quale conseguenza della correzione della decisione principale cui detta statuizione accede è ammissibile, in quanto coerente con i principi di celerità e ragionevole durata che informano il giusto processo. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che correttamente il giudice dell’omologa ex art. 445 bis c.p.c. avesse fatto automaticamente seguire alla correzione della data di decorrenza dell’assegno di invalidità in senso sfavorevole all’assistito quella sul decisum in tema di spese, le quali, poste a carico dell’Istituto previdenziale nel decreto di omologa, erano poi state, in sede di procedura di correzione, compensate).

Da ultimo, giova evidenziare il chiarimento offerto da Sez. 6-2, n. 38473/2021, Oliva, Rv. 663255-01 circa le conseguenze che il procedimento di correzione determina sui giudizi di equa riparazione per irragionevole durata del processo; in proposito, la citata pronuncia ha affermato che il procedimento di correzione dell’errore materiale, proponibile senza limiti di tempo, rileva ai fini della valutazione del superamento del termine previsto dalla legge, ma non ai fini dell’individuazione del dies a quo del termine perentorio di sei mesi per la proposizione del ricorso ex art. 3 della l. n. 89 del 2001, il quale, pure in pendenza di un procedimento di correzione dell’errore materiale, decorre dal momento della definizione del giudizio presupposto.

  • giurisdizione civile
  • giurisdizione di grado superiore
  • azione dinanzi a giurisdizione civile

CAPITOLO XI

LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Profili generali. - 2 L’interesse all’impugnazione. - 3 La soccombenza e il raddoppio del contributo unificato. - 4 I termini di impugnazione: a) il termine cd. breve. - 4.1 (Segue) b) il termine cd. lungo. - 4.2 (Segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione. - 4 Le impugnazioni incidentali. - 6 La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione. - 7 Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione.

1. Profili generali.

L’art. 323 c.p.c. elenca i mezzi per impugnare le sentenze (e, più in generale, le decisioni giurisdizionali) individuandoli nel regolamento di competenza, nell’appello, nel ricorso per cassazione, nella revocazione e nell’opposizione di terzo.

In base al combinato disposto degli artt. 324, 325, 326 e 327 c.p.c. i mezzi di impugnazione si distinguono in (a) ordinari – proponibili fino al passaggio in giudicato della decisione che intendono censurare e volti a evitare il formarsi della cosa giudicata (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione, revocazione “ordinaria” per i motivi indicati nei nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. e opposizione di terzo ordinaria) – e (b) straordinari, insensibili al passaggio in giudicato(revocazione “straordinaria” per i motivi indicati nei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. e opposizione di terzo revocatoria).

Con l’ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 13556/2021, Scrima, non massimata, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibile inclusione nel novero delle impugnazioni dell’opposizione a decreto ingiuntivo, con particolare riferimento all’applicabilità a tale giudizio del disposto dell’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011.

Il mezzo d’impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va individuato in base al principio dell’apparenza, a tutela dell’affidamento della parte, con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni assunte secondo il rito in concreto adottato, indipendentemente dalla correttezza o inesattezza della qualificazione dell’azione effettuata dal giudice. (Sez. 1, n. 17646/2021, Vannucci, Rv. 661595-01).

Infatti, il principio dell’apparenza prevale sul contrario principio cd. “sostanzialistico” (il divieto di esperire un mezzo d’impugnazione vietato) nelle ipotesi in cui la forma e la qualificazione del provvedimento, sebbene non corrette, risultino determinate da una consapevole scelta – esplicita o implicita – del giudice (Sez. 6-3, n. 38587/2021, Gorgoni,Rv. 663343 - 01; Sez. 6-2, n. 26083/2021, Fortunato, Rv. 662297-01); perciò, se il giudice ha operato una qualificazione, pur se non esplicitata con una motivazione espressa, questa – ancorché erronea – assume rilievo ai fini dell’individuazione del mezzo d’impugnazione (Sez. 6-3, n. 32833/2021, Valle, Rv. 663336-01, ha ritenuto esperibile l’appello nel caso in cui l’azione sia stata qualificata come opposizione all’esecuzione, indipendentemente dalla esattezza dell’inquadramento effettuato).

Il principio di apparenza va impiegato anche per l’individuazione del mezzo di impugnazione di un provvedimento che abbia trattato come questione di competenza una questione attinente al rito o alla ripartizione degli affari interna all’ufficio; pertanto, ove sia impugnata con regolamento di competenza una pronuncia che abbia deciso una questione attinente al rito (nella specie, la decisione, emessa erroneamente nella veste dell’ordinanza, con cui sono state dichiarate “improseguibili” domande dirette a far valere, nelle forme ordinarie, pretese creditorie soggette al regime del concorso fallimentare), occorre accertare se la questione di rito sia stata erroneamente qualificata dal giudice, espressamente o comunque in modo inequivoco, come questione di competenza, creando le condizioni per una tutela dell’affidamento della parte in ordine al regime di impugnazione, dipendendo dall’esito positivo di tale accertamento l’ammissibilità del proposto regolamento (Sez. 6,n. 18182/2021, Doronzo, Rv. 661875-01).

Indipendentemente dalla disciplina specifica dettata per ciascuno dei predetti mezzi di impugnazione, il codice di rito definisce alcune regole comuni (artt. 323-338 c.p.c.), applicabili a tutti i mezzi di impugnazione, nonché, in quanto compatibili, anche al contenzioso tributario, come previsto dall’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 (“alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”).

Rinviando agli specifici capitoli per ciò che concerne i singoli mezzi di impugnazione, ci si soffermerà, nella presente trattazione, sulle regole “delle impugnazioni in generale”.

2. L’interesse all’impugnazione.

L’esercizio della facoltà di impugnazione presuppone l’esistenza un “interesse ad impugnare” (species dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.) che consiste in un interesse, concreto e attuale, alla proposizione del mezzo di gravame: è condizione dell’impugnazione una “soccombenza” sostanziale.

Si è così statuito che la parte vittoriosa in primo grado non ha interesse a (né onere di) proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte potendo limitarsi alla loro espressa riproposizione (Sez. 1, n. 25840/2021, Caradonna, Rv. 662488-01); al contrario, la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione di cui intende ottenere l’accoglimento è titolare di interesse a proporre appello incidentale per evitare la formazione del giudicato di rigetto (Sez. 1,n. 09265/2021, Caiazzo, Rv. 661062-01).

Proprio per l’impossibilità di configurare una soccombenza, Sez. 2, n. 11199/2021, Scarpa, Rv. 661213-01, ha escluso che il debitore, convenuto con altri in giudizio dal medesimo credito e poi condannato, possa avere un interesse ad impugnare la sentenza di condanna nella parte in cui esclude la solidarietà passiva, ove non abbia proposto alcuna domanda di rivalsa nei confronti del preteso condebitore solidale; difatti, in mancanza di una domanda attinente al rapporto interno tra condebitori, tale decisione non aggrava la sua posizione di debitore dell’intero, né pregiudica il suo eventuale diritto di rivalsa (il principio è stato espresso con riguardo all’obbligazione solidale di chi subentra al condomino nel pagamento dei contributi dell’anno in corso e di quello precedente, ex art. 63, comma 4, disp. att. c.c.).

Specularmente, poiché la solidarietà passiva nel rapporto obbligatorio è prevista dal legislatore nell’interesse del creditore e serve a rafforzare il diritto di quest’ultimo consentendogli di ottenere l’adempimento dell’intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, il preteso creditore ha interesse ad impugnare la pronuncia che accolga la domanda solo nei confronti di alcuno dei pretesi condebitori solidali anche quando l’impugnazione riguardi soltanto il rigetto parziale dell’istanza globale, in quanto il giudicato comportante la definitività di alcuni rapporti obbligatori non fa venir meno il vantaggio derivante al creditore dalla concorrenza degli altri, concernenti la stessa prestazione. (Sez. 6-3, n. 13718/2021, Scrima, Rv. 661565-01)

Nel processo con pluralità di parti, poi, soltanto quella pregiudicata dall’evento interruttivo può impugnare la decisione emessa in seguito ad un irregolare prosecuzione del giudizio, posto che le altre parti non risentono di alcun pregiudizio derivante dall’omessa interruzione del processo (Sez. 3, n. 18804/2021, Iannello, Rv. 661714-01, ha dichiarato inammissibile la censura con cui una parte diversa da quella dichiarata fallita nel corso del giudizio d’appello aveva denunciato la nullità della decisione, assunta dalla Corte di merito nonostante l’automatica interruzione del processo).

Come statuito da Sez. 6-1, n. 06481/2021, Falabella, Rv. 660745-01, mentre va riconosciuto l’interesse del difensore distrattario delle spese processuali alla (o ad essere destinatario della) impugnazione della pronuncia di distrazione in sé considerata, lo stesso va escluso quando le contestazioni attengono all’ammontare dell’importo liquidato, posto che eventuali errori nella liquidazione non incidono sui diritti del difensore, che può rivalersi nei confronti del proprio cliente in virtù del rapporto di prestazione d’opera professionale; è la parte tenuta al pagamento della differenza, dunque, titolare dell’interesse interesse a che la liquidazione giudiziale venga emendata ed è così abilitata ad impugnare il capo della sentenza di primo grado relativo alle spese, pur in presenza di un provvedimento di distrazione.

In una fattispecie peculiare, Sez. L, n. 02677/2021, Buffa, Rv. 660255-01, ha ritenuto insussistente l’interesse ad impugnare il provvedimento di estinzione del processo in tema di sgravi contributivi in favore delle imprese operanti nei territori di Venezia e Chioggia, già oggetto di contestazione giudiziale; infatti, la qualificazione dei medesimi come aiuti di Stato vietati dalla Commissione europea (soggetti a recupero ex art. 1, commi 351 ss., della l. n. 228 del 2012) comporta che tale esito della lite sia previsto da una disposizione normativa procedimentale.

L’interesse all’impugnazione può venir meno nel corso del processo (e, secondo Sez. 2, n. 21757/2021, Criscuolo, Rv. 661966-01, spetta al giudice apprezzarlo quando sopravviene un fatto, astrattamente suscettibile di determinare la cessazione della materia del contendere, che sia allegato e dimostrato da una sola parte senza l’adesione dell’altra), il che si verifica in caso di revocazione della sentenza d’appello impugnata con ricorso con conseguente cessazione della materia del contendere, posto che l’interesse deve sussistere sino al momento della decisione (Sez. 3, n. 09201/2021, Cirillo F.M., Rv. 661077-01, che, nel solco di Sez. U, n. 10553/2017, Barreca, Rv. 643788-01, precisa altresì che è irrilevante, ai fini della valutazione dell’interesse, l’astratta esperibilità di un’impugnazione avverso la revocazione, dovendosi invece avere riguardo al concreto venir della pronuncia già fatta oggetto di impugnazione).

Di contro, l’interesse all’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza di primo grado esecutiva viene meno solo al passaggio in giudicato della sentenza di appello, il quale comporta, l’opponibilità della pronuncia del giudice di secondo grado. (Sez. 2,n. 27715/2021, Gorjan, Rv. 662546-01, che ha statuito la proponibilità dell’opposizione de qua in pendenza del giudizio di impugnazione ordinaria).

Non può escludersi, invece, la permanenza dell’interesse all’impugnazione in caso di esecuzione spontanea di un provvedimento giudiziario, a meno che non si possa ravvisare un riconoscimento – anche implicito purché inequivoco – della fondatezza dell’avversaria domanda (Sez. 5, n. 34539/2021, Succio, Rv. 663032-01, ha statuito che la spontanea esecuzione, da parte dell’Amministrazione, della pronunzia di primo grado favorevole al contribuente non comporta acquiescenza alla sentenza, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione).

3. La soccombenza e il raddoppio del contributo unificato.

La soccombenza si pone quale presupposto dell’ammissibilità stessa del gravame (individuando i soggetti legittimati alla sua proposizione), ma rileva anche per l’applicazione, nei procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, disposizione che prevede l’obbligo, in capo all’impugnante, del pagamento di una somma pari al doppio del contributo unificato “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile” e che il giudice debba dare “atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente”.

Sez. 5, n. 37166/2021, Fuochi Tinarelli, Rv. 663142-02, ha chiarito che la disposizione concerne le sole impugnazioni avverso provvedimenti giurisdizionali e non quelle avanzate, pure con ricorso per cassazione, per contrastare il provvedimento amministrativo di diniego di condono; analogamente, poiché è presupposto applicativo dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, la soccombenza in un giudizio di tipo impugnatorio, si è esclusa la debenza dell’importo supplementare in caso di giudizio di reclamo innanzi alla Corte d’appello avverso il provvedimento disciplinare assunto nei confronti di un notaio da una Commissione regionale di disciplina (Sez. 2, n. 05426/2021, Oricchio,Rv. 660699-01).

Sulla natura tributaria del menzionato raddoppio si sono pronunciate le Sezioni Unite nel 2020 (Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-02); la citata norma si basa su due presupposti: il primo, di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, che è oggetto dell’attestazione resa dal giudice; il secondo attiene, invece, al diritto sostanziale tributario e concerne l’obbligo di versamento del contributo unificato iniziale, il cui accertamento spetta all’amministrazione (Sez. 6-1, n. 04731/2021, Campese, Rv. 660741-01), tenendo conto di cause di esenzione o di prenotazione a debito, originarie o sopravvenute, e del loro eventuale venir meno (Sez. U, n. 10013/2021, Lamorgese, Rv. 661014-01, ha statuito che le associazioni di volontariato senza scopo di lucro e le Onlus non sono esenti dal pagamento del contributo unificato per le attività giurisdizionali connesse allo svolgimento di quelle statutarie).

È doverosa l'attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma (integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione), mentre il meccanismo sanzionatorio non opera nell'ipotesi di declaratoria di inammissibilità sopravvenuta dell'impugnazione (nella specie, ricorso per cassazione) per cessazione della materia del contendere, poiché essa determina la caducazione di tutte le pronunce emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in cosa giudicata, rendendo irrilevante la successiva valutazione della virtuale fondatezza, o meno, del ricorso in quanto avente esclusivo rilievo in merito alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità. (Sez. 3, n. 20697/2021, Guizzi, Rv. 662193-01).

L’invalidità della procura speciale nel giudizio di cassazione, determinante l’inammissibilità del ricorso, comporta l’obbligo di pagamento della somma pari al doppio del contributo unificato a carico della parte ricorrente e non del difensore, qualora la procura sia affetta da nullità e non da inesistenza (Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-02, in relazione alla mancata presenza, all’interno della procura speciale, della data o della certificazione del difensore della sua posteriorità rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato).

4. I termini di impugnazione: a) il termine cd. breve.

Le impugnazioni ordinarie, come detto, sono soggette, ai fini della loro ammissibilità, al rispetto dei termini perentori dettati dagli artt. 325 ss. c.p.c., nel senso che il decorso di questi ultimi determina il passaggio in giudicato del provvedimento, con conseguente chiusura, in rito, del giudizio di gravame.

I termini in questione sono sostanzialmente di due tipi: a) uno cd. “breve” (ex artt. artt. 325 e 326 c.p.c.) – di trenta giorni per il regolamento di competenza, l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo revocatoria e di sessanta giorni per il ricorso per cassazione – avente un dies a quo differente a seconda della tipologia di impugnazione; b) uno cd. “lungo” (ex art. 327 c.p.c.), attualmente di sei mesi (di un anno, prima della modifica apportata dall’art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69) con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza.

Il termine cd. breve decorre, di regola, dalla notificazione ad istanza di parte, ai sensi degli artt. 285 e 286 c.p.c., del provvedimento suscettibile di impugnazione, la quale deve essere eseguita, a garanzia del diritto di difesa del destinatario, nei confronti del procuratore della controparte o della controparte presso il suo procuratore, nel domicilio eletto o nella residenza dichiarata, in ragione della competenza tecnica del difensore nella valutazione dell’opportunità della condotta processuale più conveniente da porre in essere ed in relazione agli effetti decadenziali derivanti dalla notificazione.

È idonea a far decorrere il termine breve anche la notificazione eseguita ad uno soltanto dei difensori nominati dalla parte: il fatto che il destinatario della notifica non sia anche il domiciliatario è privo di rilievo a tali fini, non potendosi configurare un diritto a ricevere le notifiche esclusivamente nel domicilio eletto fuori dal circondario di appartenenza (Sez. 1, n. 10129/2021, Di Marzio M., Rv. 661068-01).

Anche dopo l’introduzione, da parte dell’art. 16-sexies del d.l. n. 179 del 2012 (inserito dall’art. 52, comma 1, d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla l. n. 114 del 2014) del cd. domicilio digitale, al quale non può essere riconosciuto carattere esclusivo, può procedersi alla notificazione al domicilio fisico eletto dal destinatario, (Sez. L, n. 03557/2021, Torrice, Rv. 660528-01).

Sempre in tema di domiciliazione digitale, nonostante l’indicazione della parte destinataria di un domicilio “fisico” ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, è possibile procedere alla notificazione della sentenza d’appello presso il domiciliatario mediante posta elettronica certificata, poiché il domicilio digitale, pur non indicato negli atti, può essere utilizzato per la notificazione in questione in quanto le due opzioni concorrono (Sez. 3,n. 39970/2021, Porreca, Rv. 663188-01).

Nessuna rilevanza, invece, può riconoscersi all’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata del funzionario incaricato della difesa diretta della P.A. ex art. 417-bis c.p.c. (Sez. L, n. 12345/2021, Marotta, Rv. 661216-01, ha statuito che, qualora il funzionario costituito abbia omesso di eleggere domicilio ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, devono ritenersi valide le notifiche effettuate presso la cancelleria del giudice adito, anche ai fini della decorrenza del termine breve). Per analoghe ragioni, Sez. L, n. 14195/2021, Bellè, Rv. 661299-01, ha ritenuto che non determini la decorrenza del termine breve la notificazione effettuata al funzionario della pubblica amministrazioni (in giudizio mediante propri dipendenti) con modalità diverse da quelle prescritte, nei giudizi di lavoro, per le comunicazioni e le notificazioni (successive alla data di entrata in vigore dell’art. 16, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012) aventi ad oggetto i provvedimenti finali del giudizio di primo grado, le quali vanno eseguite esclusivamente per via telematica agli indirizzi di posta elettronica comunicati ai sensi del comma 12 dell’art. 16 citato; nella sola ipotesi di impossibilità di procedere alla notifica telematica, imputabile alla medesima pubblica amministrazione, è ammissibile la notificazione presso la cancelleria (Sez. L, n. 32166/2021, Bellè, Rv. 662673-02).

Nel solo caso di contestazione sull’oggetto della notificazione eseguita tramite posta elettronica certificata – per essere stata trasmessa, con unico invio, una pluralità di sentenze rese tra le stesse parti – spetta al notificante l’onere di provare che la spedizione telematica conteneva anche la decisione per la quale si assume l’avvenuto decorso del termine breve (Sez. 6-5, n. 31779/2021, Cataldi, Rv. 663093-02).

Non è sufficiente, tuttavia, un qualsivoglia invio della pronuncia per la decorrenza del termine ex art. 325 c.p.c., ma, piuttosto, occorre che la notifica della sentenza costituisca espressione della volontà di porre fine al processo, attraverso il compimento di un atto chiaramente preordinato a far decorrere i termini per l’impugnazione nei confronti sia del notificato sia del notificante (Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-01).

Di regola, perciò, il termine per l’impugnazione decorre dalla notificazione della sentenza, senza che assuma rilievo il fine processuale per cui la notificazione è stata eseguita, ma – in caso di sentenza non definitiva fatta oggetto di una valida riserva di impugnazione differita – non è la sua notificazione a determinare la decorrenza del termine acceleratorio ex art. 325 c.p.c., bensì quella della sentenza che definisce il giudizio (Sez. 6-2, n. 08271/2021, Besso Marcheis, Rv. 661050-01).

Ai fini dell’adempimento del dovere di controllo, in sede di legittimità, sulla tempestività dell’impugnazione rispetto alla notificazione del provvedimento impugnato, la dichiarazione dell’impugnante (o l’eccezione del controricorrente) che la suddetta notificazione è avvenuta in una certa data fa sorgere a carico del ricorrente l’onere di depositare, unitamente al ricorso o nei modi di cui all’art. 372, comma 2, c.p.c., la copia autentica della sentenza impugnata, munita della relata di notificazione, entro il termine previsto dall’art. 369, comma 1, c.p.c., la cui mancata osservanza comporta l’improcedibilità del ricorso, a meno che la notificazione del ricorso risulti effettuata prima della scadenza del termine breve decorrente dalla pubblicazione del provvedimento impugnato o, comunque, la relazione di notificazione risulti presente nel fascicolo d’ufficio (Sez. 6, n. 15832/2021, Lombardo, Rv. 661874-01).

Per il decorso del termine breve, alla notificazione della decisione su iniziativa di parte va parificata l’attività processuale di colui che avrebbe dovuto essere il destinatario di tale notificazione dalla quale emerga una precisa volontà di “reagire” alla statuizione, purché denoti una situazione di conoscenza della pronuncia equivalente a quella derivante dalla notificazione: in applicazione del principio, Sez. 1, n. 18607/2021, Fidanzia, Rv. 661615-02, ha equiparato alla notificazione del provvedimento, la richiesta di una sua modifica già avanzata dal soggetto che aveva poi proposto, tardivamente, l’impugnazione, mentre Sez. U, n. 25476/2021, Napolitano L., Rv. 662251-01, ha deciso che la riassunzione della causa dinanzi al giudice indicato come munito di giurisdizione equivale alla legale conoscenza della sentenza e fa decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte destinataria dell’atto di riassunzione (sempreché quest’ultimo abbia un contenuto corrispondente a quello della notifica della pronuncia da impugnare).

È peculiare la fattispecie relativa al ricorso per cassazione avverso una decisione emanata dalla Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell'Ufficio Italiano brevetti e Marchi: la notificazione della pronuncia a cura della segreteria della Commissione e nei confronti delle parti interessate, prevista dall'art. 136, comma 16, del d.lgs. n. 30 del 2005 (ratione temporis vigente), equivale all’avviso di cancelleria del deposito della sentenza di cui all’art. 133 c.p.c. e non integra, invece, la notifica ad istanza di parte ai fini della decorrenza del termine breve (Sez. 1, n. 12566/2021 Falabella, Rv. 661319-01).

Specifici termini di decorrenza delle impugnazioni, diversi dalla data di notificazione o pubblicazione o comunicazione della sentenza, si applicano nel caso di

(a) revocazione straordinaria ex art. 395, nn. 1, 2, 3, e 6, relativamente alla quale il termine di 30 giorni decorre, alternativamente, dal giorno in cui è stato scoperto il dolo di una delle parti a danno dell’altra, dal giorno in cui è stata scoperta la falsità delle prove (in caso di sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false), dal giorno in cui è stato recuperato il documento decisivo non precedentemente prodotto per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario, dal giorno in cui è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice,

(b) revocazione da parte del pubblico ministero ex art. 397 c.p.c. (rispetto alla quale il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui il pubblico ministero ha avuto notizia della sentenza, qualora essa sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; o dal giorno in cui egli ha scoperto la collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge),

(c) di opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2 c.p.c. (nel qual caso il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui è stata scoperto il dopo o la collusione delle parti in danno dei propri creditori e aventi causa).

4.1. (Segue) b) il termine cd. lungo.

Quanto al termine cd. lungo, Sez. 3, n. 17949/2021, Guizzi, Rv. 661957-03, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 46, comma 17, della l. n. 69 del 2009, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui, nel ridurre da un anno a sei mesi il termine stabilito dall’art. 327 c.p.c., non ha previsto che la sospensione feriale si applichi anche ai termini per impugnare che non ricadano nel periodo feriale (secondo la prospettazione del ricorrente, invece, il termine di impugnazione dovrebbe essere unico e certo in tutti i casi, come avveniva col termine lungo di durata annuale, indipendentemente dal dies a quo della sua decorrenza, dovendosi sempre computare una sospensione di 31 giorni); già in precedenza, Sez. 2, n. 18485/2020, Carrato, Rv. 659170-01, aveva ritenuto manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale dell’abbreviazione del periodo di sospensione.

Il menzionato termine decorre dalla pubblicazione della sentenza a norma dell’art. 133 c.p.c. (“La sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata. Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma, ed entro cinque giorni, mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti che si sono costituite”) e non dalla data di comunicazione dell’avvenuto deposito della sentenza alla parte costituita (art. 133, comma 2, ult. parte, c.p.c.: “La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’articolo 325”).

Il termine lungo per impugnare l’ordinanza di estinzione del giudizio pronunciata dal giudice monocratico – provvedimento avente contenuto decisorio e natura sostanziale di sentenza – decorre dal deposito del provvedimento, coincidente, nell’ipotesi di sua pronuncia in udienza, con la data di quest’ultima (Sez. 2, n. 18499/2021, Picaroni, Rv. 661623-01).

Nel rito del lavoro, il termine lungo per proporre l’impugnazione ex art. 327 c.p.c. decorre dalla data della pronuncia – che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c. – quando il giudice, all’udienza di discussione, decide la causa e procede alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione (ai sensi dell’art. 429, comma 1, c.p.c., come modificato dall’art. 53, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008); nella residuale ipotesi di particolare complessità della controversia, in cui il giudice ha facoltà di fissare un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza (art. 430 c.p.c.), il termine decorre, invece, dalla comunicazione alle parti dell’avvenuto deposito da parte del cancelliere (Sez. 6-L, n. 03394/2021, De Felice, Rv. 660637-01).

Anche la sentenza non definitiva va impugnata entro il termine ex art. 327 c.p.c. dalla sua pubblicazione, poiché la previsione dell’art. 340 c.p.c., che consente l’esercizio dell’impugnazione differita entro il termine per appellare e comunque non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione, è volta a restringere i termini di impugnazione nel caso in cui la prima udienza successiva intervenga prima dello scadere degli stessi (Sez. 2,n. 27720/2021, Dongiacomo, Rv. 662552-01).

Se un provvedimento redatto in formato analogico (cartaceo) è stato successivamente digitalizzato ed inserito nel fascicolo telematico del processo, il termine lungo per l’impugnazione ex art. 327 c.p.c. decorre dalla data del deposito dell’atto in cancelleria in base all’attestazione del cancelliere, poiché la data di recepimento del provvedimento nel sistema informatico rileva per i soli provvedimenti redatti in formato digitale (Sez. 2,n. 29319/2021, Tedesco, Rv. 662562-01).

La decadenza dall’impugnazione determinata da un errore del difensore sulla decorrenza del termine ex art. 327 c.p.c. impedisce la rimessione in termini prevista dall’art. 153, comma 2, c.p.c. costituendo la negligenza del professionista un evento esterno al processo, rilevante solo ai fini dell’azione di responsabilità professionale (Sez. 1, n. 03340/2021, Marulli,Rv. 660721-01); neanche lo stato di detenzione costituisce un impedimento tale da rendere impossibile la proposizione dell’impugnazione e, pertanto, a giustifica la rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.c. (Sez. 1, n. 23279/2021, Mercolino, Rv. 662309-01).

Al termine di decadenza dal gravame ex art. 327, comma 1, c.p.c. devono aggiungersi i giorni di sospensione previsti dall’art. 1, comma 1, della l. n. 742 del 1969, se il termine d’impugnazione ricade nel periodo feriale (Sez. 3, n. 17949/2021, Guizzi, Rv. 661957-02).

In proposito, Sez. 3, n. 17949/2021, Guizzi, Rv. 661957-01, ha affermato che la riduzione del periodo di sospensione feriale da quarantasei a trentuno giorni, introdotta dall’art. 16, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 162 del 2014, si applica, ai fini del computo dei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., alle impugnazioni delle sole decisioni pubblicate o notificate a partire dal 1° gennaio 2015; la pronuncia si pone in consapevole contrasto con Sez. 6-1, n. 30053/2020, Iofrida, Rv. 660149-01, e con Sez. 6-2, n. 11758/2017, Orilia, Rv. 644185-01, secondo cui la riduzione della durata del periodo di sospensione feriale è immediatamente applicabile, in mancanza di una disciplina transitoria, a partire dalla sospensione dei termini relativa al periodo feriale dell’anno solare 2015, senza che assuma rilievo, a tal fine, la data dell’impugnazione o quella di pubblicazione della sentenza.

Nelle controversie rientranti nella definizione agevolata delle liti fiscali, di cui al d.l.n. 119 del 2018, conv. dalla l. n. 136 del 2018, alla sospensione legale del termine di impugnazione ai sensi dell’art. 6, comma 11, del citato decreto si cumula il periodo di sospensione dei termini processuali per l’emergenza epidemiologica da Covid-19, previsto dal d.l. n. 18 del 2020, conv. dalla l. 27 del 2020 e dal d.l. n. 23 del 2020, conv. dalla l. n. 40 del 2020 (Sez. 6-5, n. 30397/2021, Cataldi, Rv. 662822-01).

Il termine “lungo” semestrale non decorre dalla pubblicazione della sentenza, in assenza di notifica, per la parte contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa o degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.: per evitare la decadenza dall’impugnazione, il contumace deve dimostrare la sussistenza, oltre che del presupposto oggettivo della nullità della notificazione, di quello soggettivo della mancata conoscenza – anche solo di fatto – del processo a causa di detta nullità, senza che rilevi il momento in cui la parte abbia acquisito la prova della non colpevolezza della decadenza (Sez. 6-3, n. 36387/2021, Rossetti, Rv. 663318 - 01).

Non rientra tra le ipotesi previste dall’art. 327, comma 2, c.p.c. – che giustificano una diversa decorrenza del termine per la proposizione del ricorso per revocazione dei provvedimenti della Corte di cassazione ex art. 391-bis, comma 1, c.p.c. – la mancata comunicazione al ricorrente della data fissata per la trattazione del ricorso definito con il provvedimento impugnato, poiché il ricorrente, in quanto tale a conoscenza della pendenza del procedimento, è in grado di informarsi sul suo esito in tempo utile per proporre tempestivamente l’impugnazione (Sez. 6-3, n. 19622/2021, Iannello, Rv. 661916-01).

4.2. (Segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione.

Il termine per notificare l’impugnazione (nella specie, ricorso per cassazione) a mezzo PEC scade allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno (Sez. 2, n. 29584/2021, Scarpa, Rv. 662706-01, che ha pure affermato l’applicabilità alla PEC della regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione per notificante e destinatario).

L’inammissibilità dell’impugnazione per tardività (così come l’improcedibilità della stessa) è oggetto di verifica ex officio anche da parte del giudice di legittimità (Sez. 6,n. 15832/2021, Lombardo, Rv. 661874-01), fermo restando che il ricorso improcedibile non può essere esaminato nemmeno per rilevarne l’inammissibilità (Sez. 3, n. 01389/2021, Scrima, Rv. 660388-01).

Il rispetto dei termini ex artt. 325 e 327 c.p.c. concerne anche l’impugnazione coi mezzi ordinari mezzi volta a denunciare la cd. inesistenza giuridica o nullità radicale di una sentenza, qualora la parte opti per tali rimedi anziché per l’actio nullitatis, che è esperibile in ogni tempo (Sez. 6-L, n. 09910/2021, Ponterio, Rv. 661124-01).

Nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la S.C. deve ritenere che lo stesso ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza. Al contrario, qualora lo stesso ricorrente indichi che il provvedimento impugnato era stato notificato ai fini del decorso del termine di impugnazione, l’art. 369, comma 2, c.p.c. impone il deposito, a pena di improcedibilità del ricorso, della copia autentica della sentenza impugnata con la relata di notifica, allo scopo di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività del gravame in relazione al termine di cui all’art. 325, comma 2, c.p.c. (Sez. 6, n. 15832/2021, Lombardo, Rv. 661874-01, dove si precisa che l’improcedibilità è esclusa se la notificazione del ricorso risulta effettuata prima della scadenza del termine breve decorrente dalla pubblicazione del provvedimento impugnato oppure se la relazione di notificazione risulta prodotta dal controricorrente o presente nel fascicolo d’ufficio).

Della decisione impugnata e della relata di notificazione a mezzo PEC, da depositare in formato analogico nel giudizio di legittimità, deve essere eseguita un’attestazione di conformità, di regola in calce, ma non può pronunciarsi l’improcedibilità del ricorso se, in base alla valutazione complessiva dei documenti depositati, comunque risulta in maniera inequivoca la volontà asseverativa (Sez. 6-3, n. 07610/2021, Porreca, Rv. 660928-01, ha desunto un’asseverazione “composita” dal deposito di attestazioni di conformità in calce alle relate e alla decisione gravata con indicazione di sottoscrizione digitale che erano state, però, esplicitamente richiamate nell’indice dei documenti depositati, sottoscritto in forma autografa). A riguardo, si rileva un contrasto in tema di attestazione di conformità della copia analogica della sentenza impugnata da parte del difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio: secondo Sez. 1, n. 04401/2021, Scordamaglia, Rv. 660510-01 (conforme a Sez. 1, n. 06907/2020, Rossetti, Rv. 657478-01), i poteri processuali e di rappresentanza permangono finché il cliente non conferisca il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore; al contrario, Sez. 1, n. 02445/2021, Ariolli, Rv. 660491-01, ha statuito che il precedente difensore mantiene detti poteri anche quando il cliente ha conferito il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore.

L’atto di impugnazione impedisce la formazione del giudicato se il gravame viene intrapreso entro il termine (breve o lungo) con la proposizione dell’atto introduttivo prescritto dalla legge.

La notifica dell’impugnazione a mezzo del servizio postale si perfeziona con la consegna del plico al destinatario, attestata dall’avviso di ricevimento, il quale va allegato all’originale, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione per inesistenza della notifica e senza possibilità di rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c. (Sez. 5, n. 20778/2021, D’Angiolella, Rv. 661937-01).

La notifica dell’impugnazione va effettuata, in mancanza di diversa indicazione contenuta nell’atto di notificazione della sentenza, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il precedente grado di giudizio, anche in caso di proposizione di revocazione per errore di fatto contro le sentenze della Corte di cassazione (Sez. 3, n. 25349/2021, Scrima, Rv. 662403-01).

Tuttavia, la notifica del ricorso per cassazione al successore dell’agente della riscossione già parte in causa (e, quindi, ad Agenzia delle Entrate-Riscossione) è invalida – integrando una nullità, suscettibile di sanatoria – se eseguita al difensore nominato dal precedente agente, perché l’ultrattività del mandato in origine conferito prima dell’istituzione del nuovo ente non opera, ai fini della ritualità della notifica del ricorso, essendo la cessazione dell’originario agente della riscossione ed il subentro automatico del suo successore disposti da una norma di legge e, cioè, dall’art. 1 del d.l. n. 193 del 2016 (Sez. U, n. 04845/2021, De Stefano, Rv. 660464-01; Sez. U, n. 15911/2021, Napolitano L., Rv. 661509-02).

Non è inesistente – bensì, affetta da nullità, sanabile con effetto ex tunc attraverso la costituzione dell’intimato o la rinnovazione – nemmeno la notificazione dell’atto di impugnazione (nella specie, appello) effettuata presso l’originario difensore revocato, anziché presso quello nominato in sua sostituzione (Sez. 3, n. 20840/2021, Guizzi, Rv. 661983-01); parimenti, è nulla (ma non inesistente) la notificazione effettuata nei confronti dell’unico procuratore mediante consegna di una sola copia dell’atto di impugnazione destinato a più controparti, posto che si sarebbe invece dovuto eseguire la stessa attraverso la consegna di un numero di copie pari a quello dei destinatari (Sez. 5, n. 20982/2021, Fanticini,Rv. 661891-01).

Qualora manchi l’elezione di domicilio (o la dichiarazione di residenza) della parte, rimasta contumace o, comunque, costituita senza compiere tale atto, l’impugnazione dev’essere notificata alla parte personalmente e, dunque, quando la notificazione dell’atto d’impugnazione va eseguita nei confronti degli eredi, questi devono essere individuati personalmente e non può farsi una notifica collettiva e impersonale, indipendentemente dalla circostanza che il decesso si sia verificato prima o dopo la notificazione della sentenza impugnata (Sez. 6-3, n. 19092/2021, Guizzi, Rv. 661915-01).

Se, invece, la parte è costituita a mezzo di procuratore, in caso di sua morte o perdita della capacità di stare in giudizio, la mancata dichiarazione o notificazione dell’evento alle altre parti comporta, per ultrattività del mandato alla lite, che il suo difensore può essere destinatario della notificazione dell’impugnazione, a nulla rilevando la conoscenza aliunde dei predetti eventi da parte del notificante (Sez. 5, n. 08037/2021, Balsamo, Rv. 660820-01).

La fusione per incorporazione di una società costituita in appello a mezzo di procuratore, evento da questo non dichiarato o notificato all’altra parte, non assume alcun rilievo sulla destinazione al procuratore costituito del ricorso per cassazione nei confronti della società incorporata, posto che la società che risulta dalla fusione non è soggetto estraneo al rapporto giuridico processuale intestato alla società fusa e al connesso rapporto di mandato alle liti (Sez. 3, n. 16605/2021, Moscarini, Rv. 661637-01).

Quando si verifica una successione a titolo particolare nel diritto controverso, l’impugnazione (nella specie, ricorso per cassazione) va notificata unicamente alla controparte originaria e non al successore interventore (Sez. 5, n. 03454/2021, Lo Sardo, Rv. 660653-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso notificato soltanto alla società cessionaria di azienda e non anche ai soci della società cedente, i quali erano gli unici legittimati alla prosecuzione del processo, in qualità di successori diretti nei rapporti obbligatori della società estinta dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese); peraltro, mentre il successore a titolo particolare può impugnare per cassazione la sentenza di merito, allo stesso è precluso l’intervento nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa che consenta al terzo di esplicare difese assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che sono quelle che hanno partecipato al giudizio di merito (Sez. 1, n. 05987/2021, Vella, Rv. 660761-01).

4. Le impugnazioni incidentali.

Gli artt. 333 e 334 c.p.c. disciplinano, rispettivamente, l’impugnazione incidentale tempestiva e tardiva (sebbene il codice di rito detti specifiche disposizioni per l’appello incidentale – art. 343 c.p.c. – e per il ricorso per cassazione incidentale – art. 371 c.p.c.), tradizionalmente contrapposte, in via di definizione, a quella principale: il carattere, principale o incidentale, dell’impugnazione deriva, peraltro, da una questione meramente cronologica, nel senso che è principale l’impugnazione proposta per prima, mentre è incidentale quella successiva.

Alla base della disciplina in esame si pone, da un lato, l’esistenza di una situazione di soccombenza reciproca (che ha luogo ogni qual volta le parti abbiano visto solo parzialmente accolte le proprie conclusioni) e, dall’altro, il cd. principio di unità del giudizio di impugnazione, che trova esplicitazione anche nel successivo art. 335 c.p.c., in virtù del quale va disposta la riunione di tutte le impugnazioni proposte separatamente al fine di scongiurare la possibilità di frammentazione del giudicato.

Proprio in base al principio dell’unicità del processo di impugnazione si è stabilito che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e, quindi, nel giudizio di cassazione, con l’atto contenente il controricorso; la forma, però, non assume rilievo essenziale, sicché ogni ricorso successivo al primo si converte in ricorso incidentale, ancorché proposto con atto a sé stante (Sez. 3, n. 27680/2021, Valle, Rv. 662574-01, dove si precisa che l’ammissibilità del ricorso incidentale è condizionata al rispetto del complessivo termine ex artt. 370 e 371 c.p.c., decorrente dall’ultima notificazione dell’impugnazione principale, indipendentemente dai termini di impugnazione in astratto operanti); il menzionato principio riguarda anche le impugnazioni di tipo adesivo, proposte dal litisconsorte dell’impugnante principale e tese al medesimo intento di rimuovere il capo della sentenza sfavorevole ad entrambi, e quelle rivolte contro una parte non impugnante o avverso capi della sentenza diversi da quelli oggetto della già proposta impugnazione (Sez. 3, n. 36057/2021, Scarano, Rv. 663183-01).

L’ordine di trattazione delle impugnazioni, principali e incidentali, avverso lo stesso provvedimento è oggetto di Sez. 1, n. 14039/2021, Marulli, Rv. 661395-01: per regola di ordine logico sono dapprima scrutinate le questioni introdotte con il ricorso principale e poi quelle del ricorso incidentale, ma, per il principio di ragionevole durata del processo, le questioni pregiudiziali sollevate con l’impugnazione incidentale possono formare oggetto di un esame prioritario se la loro definizione consente una più sollecita definizione della vicenda in giudizio in base al principio della ragione più liquida.

L’impugnazione incidentale in senso stretto è ammissibile, se ritualmente proposta, anche se è decorso il termine per impugnare o se la parte ha fatto acquiescenza alla decisione (Sez. 6-2, n. 36127/2021, Dongiacomo, Rv. 663078-01).

Se, però, l’impugnazione principale è inammissibile, a norma dell’art. 334, comma 2, c.p.c., quella incidentale avanzata oltre i termini di cui agli artt. 325, comma 2, o 327, comma 1, c.p.c. è inefficace, anche se sia stato rispettato il termine (ex art. 343 o ex art. 371 c.p.c.) per la sua proposizione (Sez. 5, n. 17707/2021, Manzon, Rv. 661757-01).

La stessa regola dell’art. 334, comma 2, c.p.c. determina la perdita di efficacia anche dell’impugnazione incidentale della sentenza non definitiva: il diritto a tale impugnazione incidentale, infatti, sorge concretamente solo con l’avvenuta proposizione dell’impugnazione principale e solo per questa è necessario formulare riserva d’impugnazione, mentre quelle incidentali possono essere avanzate pure dopo il decorso del termine o l’acquiescenza (Sez. L, n. 21173/2021, Cavallaro, Rv. 661931-01).

Ai sensi dell’art. 334, comma 2, c.p.c. il gravame incidentale tardivamente proposto, processualmente dipendente da quello principale, perde efficacia anche quando quest’ultimo sia dichiarato improcedibile, attesa la similitudine tra inammissibilità e improcedibilità (Sez. 3, n. 28131/2021, Sestini, Rv. 662728-01).

6. La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione.

Si osserva, innanzitutto, che il controllo sulla corretta instaurazione del contraddittorio, sin dalla originaria chiamata in giudizio dei litisconsorti necessari, ha carattere preliminare rispetto all’esame dei motivi di impugnazione, riguardando la valida costituzione del rapporto processuale: quando la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario non è stata rilevata né dal giudice di primo grado, né da quello di appello, l’intero processo è viziato e s’impone, nel giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. (Sez. 3, n. 04665/2021, Guizzi, Rv. 660603-01, a proposito di sentenza, emessa all’esito di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. ad ordinanza di convalida di sfratto per morosità, in assenza di contraddittorio col conduttore; Sez. 1, n. 20243/2021, Caradonna, Rv. 661967-01, riguardante un procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità svoltosi senza la partecipazione di uno dei genitori del minore).

Se è il giudice d’appello ad avvedersi della non integrità del contraddittorio nei confronti di uno o più litisconsorti pretermessi in primo grado deve rimettere la causa al giudice di prime cure ma solo, ma, in presenza di più domande proposte dalle parti del giudizio, solo in relazione alle domande soggette al regime litisconsortile, mentre quelle dove non sussiste un rapporto di pregiudizialità, né alcun profilo di necessario collegamento logico-giuridico vanno separate e si devono esaminare i motivi di impugnazione ad esse relativi (Sez. 2, n. 21610/2021, Oliva, Rv. 662056-01). Giova precisare che il rinvio della causa al primo giudice per integrare il contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, comporta, in ordine alle spese del processo, una valutazione sulla parte a cui debba essere attribuita l’irregolarità che ha dato luogo alla rimessione (Sez. 6-2, n. 11865/2021, Scarpa, Rv. 661476-01).

Poiché l’esecutato è litisconsorte necessario in tutte le cause connesse alla procedura esecutiva anche se promosse da terzi estranei (Sez. 3, n. 13533/2021, Rossetti, Rv. 661412-01; Sez. 3, n. 39973/2021, Porreca, Rv. 663189-01), la non integrità del contraddittorio derivante dalla sua pretermissione nell’opposizione esecutiva determina un vizio rilevabile d’ufficio anche per la prima volta in sede di legittimità e comporta, di regola, la cassazione della decisione impugnata con rinvio al giudice di primo grado, salvo il caso di cassazione senza rinvio della pronuncia di merito per la ragione che l’azione non poteva ab origine essere proposta (Sez. 3, n. 37847/2021, Fanticini, Rv. 663431 - 01, dove si precisa che nella fattispecie esaminata il rinvio avrebbe determinato un allungamento dei tempi del processo senza alcun vantaggio per la parte pretermessa).

Analogamente, Sez. 1, n. 28565/2021, Acierno, Rv. 662856-01, ha escluso la necessità della rimessione della causa al primo giudice nel caso in cui il controricorrente abbia eccepito un vizio di notifica che gli abbia impedito di partecipare alle fasi di merito del processo, comunque definite con esito a lui favorevole, mentre Sez. 5, n. 18890/2021, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 661760-01, ha statuito che la nullità dei giudizi di merito, celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci), non va dichiarata qualora il ricorso per cassazione dell’Amministrazione finanziaria risulti inammissibile o prima facie infondato.

Se nel primo grado non è stato rilevato il difetto di integrità del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario per ragioni di ordine sostanziale, spetta al giudice d’appello il suo rilievo ex officio, ad eccezione del caso di giudicato interno, formatosi su una statuizione di merito resa tra le parti dalla sentenza appellata. (Sez. 6-3, n. 38024/2021, Tatangelo, Rv. 663351 - 01, ha cassato con rinvio la decisione del giudice d’appello che – investito dell’appello della parte totalmente vittoriosa sul solo capo relativo alla liquidazione delle spese e in assenza di impugnazione incidentale – aveva rilevato un difetto di litisconsorzio sostanziale in primo grado e rimesso la controversia al giudice di pace).

Quando la sentenza di prime cure è stata pronunciata in una situazione di litisconsorzio (cioè nei confronti di più parti), occorre stabilire quali parti devono partecipare al giudizio di impugnazione.

Il codice di rito distingue a seconda del vincolo che ha determinato il litisconsorzio, prevedendo che (a) quando si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, il giudizio di impugnazione si deve svolgere nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato alla precedente fase (art. 331 c.p.c.), mentre (b) nella diversa ipotesi di plurime cause che avrebbero potuto essere trattate separatamente (e, solo per motivi contingenti, le cause – scindibili – sono state trattate in un solo processo) il giudizio di impugnazione non richiede necessariamente la partecipazione di ognuno dei contendenti (art. 332 c.p.c.).

Tale diversità di disciplina implica che, nel primo caso, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina “ex se” l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d’ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa.

Affinché possa partecipare al giudizio d’impugnazione come parte formale e non soltanto come parte sostanziale rappresentata, nei confronti del figlio divenuto maggiorenne, rappresentato dai genitori in primo grado, va dato l’ordine di integrazione del contraddittorio (Sez. 3, n. 06515/2021, Tatangelo, Rv. 660799-01).

Assolve la funzione di notificazione per integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. la notifica dell’impugnazione relativa a cause inscindibili eseguita nei confronti di uno solo dei litisconsorti nei termini di legge, la quale introduce validamente il giudizio di gravame nei confronti di tutte le altre parti, ancorché l’atto di impugnazione sia stato a queste tardivamente notificato (Sez. 3, n. 19379/2021, Vincenti, Rv. 661746-01).

Non si fa luogo, però, a integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. se il ricorso per cassazione avverso il decreto che ha deciso il reclamo sull’affidamento di un figlio di età minore sia stato notificato dal ricorrente soltanto al P.M. presso il giudice a quo e non all’altro genitore, unico contraddittore necessario (Sez. 1, n. 31498/2021, Valitutti,Rv. 663265 - 01).

Sez. 1, n. 23313/2021, Mercolino, Rv. 662310-01, ha precisato che, nei giudizi d’impugnazione che seguono il rito camerale, la parte onerata dell’integrazione del contraddittorio deve fornire la prova di aver dato tempestiva esecuzione all’ordine previsto dall’art. 331 c.p.c. prima della chiusura della discussione dinanzi al collegio, in modo da consentire a quest’ultimo il controllo della ritualità e della tempestività della notifica; non assume rilievo, in mancanza di tale prova, l’intervenuta concessione di un ulteriore termine, che costituisce una proroga illegittima (perché non consentita dall’art. 153 c.p.c.) dell’originario termine perentorio.

L’art. 331 c.p.c. trova applicazione non solo alle fattispecie in cui la necessità del litisconsorzio in primo grado derivi da ragioni di ordine sostanziale, ma anche a quelle di “cd. litisconsorzio necessario processuale”, che si verificano quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio. Pertanto, è necessario provvedere all’integrazione del contraddittorio anche nei confronti del soggetto chiamato in causa in garanzia, poiché la sua partecipazione in primo grado determina un litisconsorzio necessario processuale che impone il suo coinvolgimento nell’impugnazione proposta dal chiamante garantito, rimasto soccombente (Sez. 6-2, n. 33481/2021, Criscuolo, Rv. 662842-01).

Si verifica una situazione di litisconsorzio necessario processuale – in quanto non imposto dalla legge, ma quale effetto determinato dall’estensione del potere di azione per libera scelta dell’attore – nel caso in cui la contestazione dell’iscrizione di ipoteca ex art. 77 d.P.R. n. 602 del 1973, per l’illegittimità della pretesa di riscossione, sia stata svolta in primo grado sia nei confronti dell’agente della riscossione (contraddittore direttamente legittimato), sia verso l’ente impositore: qualora la domanda sia accolta dal primo giudice e il predetto ente contesti la decisione, la causa deve reputarsi inscindibile e l’impugnazione deve coinvolgere anche l’agente della riscossione ex art. 331 c.p.c. (Sez. 3, n. 10480/2021, Fiecconi,Rv. 661245-01).

Sez. 1, n. 01472/2021, Valitutti, Rv. 660430-01, individua un rapporto avente natura litisconsortile tra i genitori del minore e il suo rappresentante legale (tutore provvisorio o curatore speciale) nel procedimento per lo stato di adottabilità, sicché detti soggetti sono parti necessarie dell’intero procedimento e pure in appello, quand’anche in primo grado non si siano costituiti.

La distinzione tra cause scindibili e inscindibili è significativa non solo per l’introduzione dell’impugnazione, ma anche per la decisione sulle spese del gravame.

Infatti, la notificazione dell’impugnazione a parti diverse da quelle dalle quali o contro le quali è stata proposta ai sensi dell’art. 332 c.p.c. non ha la stessa natura della notificazione prevista dall’art. 331 c.p.c., che concerne l’integrazione del contraddittorio in cause inscindibili e realizza la vocatio in jus; nelle cause scindibili, la notifica integra una litis denuntiatio con la quale si avvertono coloro che hanno partecipato al giudizio della necessità di proporre le impugnazioni, non ancora precluse, nel processo già instaurato; in quest’ultima ipotesi, questi ultimi non diventano parti del giudizio di gravame, né sussistono i presupposti per la condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite in loro favore, ove gli stessi non abbiano impugnato incidentalmente la sentenza, difettando, i presupposti, ex art. 91 c.p.c., della qualità di parte e della soccombenza (Sez. 6-2, n. 34174/2021, Tedesco, Rv. 662844-01).

7. Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione.

L’art. 336 c.p.c. disciplina il cd. effetto espansivo della sentenza riformata o cassata: per l’effetto espansivo interno (primo comma), l’accoglimento del gravame può riverberarsi sulle parti della decisione che sono da esso dipendenti anche se non investite dall’impugnazione, posto che rispetto ad esse non si verifica acquiescenza se sono in nesso di conseguenza con quelle intercettate dalla statuizione del giudice superiore o se in esse rinvengono il loro presupposto (Sez. L, n. 05550/2021, Cavallaro, Rv. 660830-01, ha ritenuto dipendente dalla decisione di merito sull’azione di recupero contributivo intrapresa dall’INPS il capo della pronuncia concernente la natura subordinata dei rapporti di lavoro, benché il ricorrente non avesse specificamente impugnato i capi della sentenza riguardanti quest’ultimo profilo); l’effetto espansivo esterno (secondo comma), invece, si ripercuote sui provvedimenti e sugli atti dipendenti dalla riforma o dalla cassazione della sentenza impugnata.

Un tipico caso di effetto espansivo ex art. 336 c.p.c. attiene alle spese del giudizio: la dichiarazione di nullità della decisione di prime cure impone al giudice d’appello di esaminare nel merito la domanda come giudice di unico grado, sicché è impossibile confermare alcuna statuizione della pronuncia ritenuta nulla, ivi inclusa quella sulle spese del primo grado, che devono essere soggette ad una nuova liquidazione (Sez. 2, n. 23132/2021, Oliva, Rv. 662070-01); peraltro, anche in caso di riforma della decisione primo grado, il giudice dell’impugnazione, investito ai sensi dell’art. 336 c.p.c. anche della liquidazione delle spese del grado precedente, deve applicare la disciplina vigente al momento della sentenza d’appello, ancorché la prestazione professionale abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione (Sez. 3, n. 19989/2021, Scrima,Rv. 661839-02).

Ai sensi dell’art. 336 c.p.c., la riforma in appello della pronuncia di condanna comporta la caducazione di quella avente ad oggetto la liquidazione del danno soltanto nel caso in cui faccia venir meno ogni fondamento di quest’ultima; se, invece, la condanna al risarcimento viene confermata, pur se per una ragione diversa, la statuizione sul quantum che non sia oggetto di autonoma impugnazione non può essere travolta, stante la formazione del giudicato interno sulla misura del risarcimento (Sez. 1, n. 10112/2021, Mercolino,Rv. 661267-01).

Analogamente, in tema di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato, l’impugnazione rivolta contro il capo della sentenza relativo all’illegittimità dell’apposizione del termine impedisce la formazione del giudicato interno anche sui capi concernenti le conseguenze risarcitorie (in quanto legati al primo da un nesso di pregiudizialità-dipendenza), mentre la sentenza impugnata solo sui capi relativi al risarcimento del danno comporta acquiescenza su quello principale (Sez. L, n. 32179/2021, Spena, Rv. 662691-01).

L’annullamento dell’atto impositivo di rideterminazione dei redditi della società di persone produce un effetto espansivo interno, ai sensi dell’art. 336, comma 1, c.p.c., anche sulle parti della sentenza afferenti all’avviso di accertamento emesso nei confronti dei soci (i cui redditi sono tassati secondo il regime di “trasparenza”), anche quando quest’ultimo atto sia definitivo per decorso del termine di decadenza ovvero non siano stati autonomamente impugnati i capi della pronuncia che lo riguardano o, persino, quando l’avviso sia stato confermato con sentenza passata in giudicato (Sez. 5, n. 39817/2021, Pirari,Rv. 663211-01).

Di grande rilevanza pratica è la statuizione di Sez. 3, n. 11724/2021, Vincenti,Rv. 661322-01, secondo cui la chiamata in causa in garanzia dell’assicuratore della responsabilità civile dà luogo ad un litisconsorzio processuale col soggetto assicurato nell’impugnazione esperita dal terzo chiamato avverso la sentenza che abbia accolto sia la domanda principale sulla responsabilità del convenuto e di condanna dello stesso al risarcimento del danno, sia quella di garanzia proposta contro l’assicuratore; ciononostante, i singoli rapporti giuridici rimangono distinti e, dunque, l’atto dispositivo del rapporto principale (acquiescenza), compiuto stragiudizialmente dall’assicurato nella pendenza del termine per impugnare la decisione a lui sfavorevole, è produttivo di effetti nel rapporto fra garantito e danneggiato e l’impugnazione della decisione sul rapporto principale da parte del garante gli preclude di giovarsi dell’eventuale decisione favorevole resa nel gravame.

Un particolare effetto espansivo esterno, ai sensi dell’art. 336, comma 2, c.p.c., è stato riconosciuto da Sez. 3, n. 00269/2021, Porreca, Rv. 660214-01, alla caducazione del titolo esecutivo azionato dal creditore procedente: il decreto ingiuntivo ex art. 614 c.p.c. ottenuto dal creditore per la liquidazione delle spese sostenute per l’attuazione coattiva è travolto dalla caducazione della stessa ragione creditoria, con la conseguenza che le spese dell’esecuzione in forma specifica restano definitivamente a carico del medesimo procedente.

Anche nel corso del 2021 è stata più volte esaminata la questione relativa alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza poi riformata.

Secondo Sez. 1, n. 07144/2021, Caradonna, Rv. 660998-01, la richiesta di restituzione delle somme versate in esecuzione della decisione di primo grado deve essere formulata a pena di decadenza mediante l’atto di impugnazione se il pagamento è avvenuto prima della sua notificazione, essendo ammissibile la proposizione della domanda nel corso del giudizio di secondo grado (sino alla precisazione delle conclusioni), soltanto in caso di pagamento posteriore all’introduzione del gravame (Sez. 1, n. 23972/2020, Nazzicone,Rv. 659603-01, aveva invece ritenuto che nel giudizio d’appello la parte interessata potesse proporre la relativa domanda – non integrante una domanda nuova ex art. 345 c.p.c. – in qualunque momento, anche nell’udienza di discussione della causa, in sede di precisazione delle conclusioni, oppure nella comparsa conclusionale).

In ogni caso, la domanda di restituzione delle somme pagate in base ad una pronuncia poi caducata non è riconducibile allo schema della ripetizione d’indebito e, dunque, non si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dell’accipiens; il titolo restitutorio comprende ex lege, senza bisogno di una specifica domanda in tal senso e a prescindere anche da una sua espressa menzione nel dispositivo, il diritto di recuperare pure gli interessi legali, con decorrenza, ex art. 1282 c.c., dal giorno dell’avvenuto pagamento (Sez. 3, n. 34011/2021, Rubino, Rv. 662956-01).

  • giurisdizione di grado superiore
  • procedura civile
  • prova

CAPITOLO XII

L’APPELLO

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Caratteri generali del processo d’appello. - 2 I provvedimenti appellabili. - 3 Forme e termini dell’impugnazione. - 4 L’oggetto dell’impugnazione. - 5 L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. - 6 Le parti e il contraddittorio. - 7 I nova in appello. - 7.1 (Segue) Nuovi mezzi di prova in appello. - 8 La decisione e trattazione dell’appello.

1. Caratteri generali del processo d’appello.

Con la riforma introdotta dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, il legislatore ha inteso trasformare il giudizio di appello da novum iudicium (da intendersi quale mezzo per sottoporre nuovamente al secondo giudice, in tutto o in parte, l’oggetto della lite svoltasi in prime cure) a revisio prioris instantiae (e, cioè, a strumento di controllo degli errori di diritto o di fatto contenuti nel provvedimento impugnato, così come denunciati dalle parti), cosicché l’appellante ha sempre la veste di attore rispetto all’impugnazione instaurata e, dunque, l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame (indipendentemente dalla posizione processuale assunta nel giudizio di primo grado (Sez. 6-3, n. 40606/2021, Scrima, Rv. 663229-01, secondo cui la dedotta erroneità della valutazione di documenti prodotti dalla controparte implica l’onere, per l’appellante, di estrarne copia ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c. e di produrli in sede di gravame).

Anche se già in precedenza si riteneva che il giudice d’appello potesse esercitare il proprio sindacato entro la griglia di soluzioni proposte dall’appellante sui capi e sulle questioni specificamente devolute, l’effetto devolutivo tracciato dalla riforma risulta maggiormente definito entro i limiti delle contrapposte iniziative delle parti, le quali – con un appello necessariamente motivato (ex artt. 342 e 434 c.p.c.) o attraverso la riproposizione delle questioni (ex art. 346 c.p.c.) o con l’appello incidentale (ex artt. 343 e 436 c.p.c.) – delineano i confini del gravame e, nel contempo, così sanciscono l’abbandono delle domande e delle eccezioni non riproposte (ex art. 346 c.p.c.) e segnano i margini dell’acquiescenza parziale (ex art. 329, comma 2, c.p.c.).

Nel solco di Sez. U, n. 27199/2017, F.M. Cirillo, Rv. 645991-01 – che ha respinto l’orientamento, formalistico e restrittivo – la S.C. ha ribadito, pure nel 2021, che l’oggetto dell’impugnazione è costituito dall’originario rapporto dedotto in primo grado e che i motivi di impugnazione sono sufficientemente specifici (come prescritto dall’art. 342 c.p.c.) se sono dedotte in maniera sufficientemente chiara le doglianze rivolte alla pronuncia di prime cure, senza necessità di proporre un progetto alternativo di sentenza, con la conseguenza che l’appellante, per validamente denunciare l’erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado, può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare ex novo le prove già raccolte e sottoporre le argomentazioni già svolte nel processo di primo grado (Sez. 6-3, n. 40560/2021, Rossetti, Rv. 663516-01); analogamente, Sez. 6-3, n. 21401/2021, Guizzi, Rv. 662214-01, ha statuito che la specificità dei motivi di appello va commisurata all’ampiezza ed alla portata delle argomentazioni della sentenza impugnata, sicché è ammissibile l’impugnazione con cui sia ribadita l’idoneità dei documenti prodotti – la cui valenza probatoria è invece stata esclusa dal primo giudice – a provare i fatti costitutivi del diritto azionato.

Equivalente all’appello è il ricorso alla commissione tributaria di secondo grado, il quale ha il medesimo effetto devolutivo, con la conseguenza che il giudice del gravame risulta investito, sia pure nell’ambito del capo di decisione oggetto di censura, del riesame di tutte le questioni da questo stesso capo implicate e, quindi, della rinnovazione del relativo giudizio (Sez. 5, n. 25608/2021, Succio, Rv. 662319-01).

Il difetto di specificità dei motivi d’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., rilevato d’ufficio dal giudice del gravame, può essere oggetto di ricorso per cassazione come error in procedendo, ma, per essere ammissibile tale censura, il ricorrente ha l’onere di precisare le ragioni per cui ritiene erronea la statuizione d’appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame, riportandone il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Sez. 1, n. 24048/2021, Falabella, Rv. 662388-01).

2. I provvedimenti appellabili.

Le sentenze di primo grado sono, di regola, suscettibili di impugnazione con appello, a meno che la legge non disponga diversamente.

Una rilevante eccezione si rinviene nell’art. 617 c.p.c.: la decisione sull’opposizione agli atti esecutivi, infatti, non è appellabile per legge o per effetto della qualificazione, ancorché erronea, operata dal giudice in funzione del principio dell’apparenza (Sez. 6-3,n. 32833/2021, Valle, Rv. 663336-01); se l’appello è comunque proposto e viene dichiarato inammissibile ex art. 348-bis, comma 1, c.p.c., il tempestivo ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma 3, c.p.c. non comporta la rimessione in termini del ricorrente ai fini della proposizione del ricorso straordinario ex art. 111 Cost. avverso la sentenza di primo grado, sulla quale, in difetto di una tempestiva impugnazione, si è formato il giudicato (Sez. 6-3, n. 09868/2021, Tatangelo, Rv. 661143-01).

In tema di procedure esecutive concorsuali, non è impugnabile con l’appello il provvedimento del tribunale che decide sull’ammissione allo stato passivo di una società assicuratrice in liquidazione coatta amministrativa (Sez. 1, n. 16549/2021, Terrusi, Rv. 661589-01, ha ritenuto che il combinato disposto degli artt. 194 e 209, comma 2, l.fall., nella formulazione successiva alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 169 del 2007 – che rinvia agli artt. 98, 99, 101 e 103 della stessa legge per il procedimento di formazione dello stato passivo nella l.c.a. – determini una tacita abrogazione del riferimento all’appello contenuto nell’art. 255 c.ass.)

Anche l’art. 339, comma 2, c.p.c. sancisce l’inappellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità, ma il successivo comma 3 della citata disposizione prevede – quale “eccezione alla eccezione” – la proponibilità dell’appello avverso le decisioni del giudice di pace pronunciate secondo equità in cause di valore non eccedente Euro 1.100,00 (tale valore va determinato senza considerare le spese successive alla proposizione della domanda, come quelle liquidate dal giudice che ha pronunciato il decreto ingiuntivo oggetto di opposizione; Sez. 6-2, n. 10188/2021, Dongiacomo, Rv. 661034-01), ma soltanto per specifici motivi e, cioè, per violazione a) delle norme sul procedimento, b) di norme costituzionali, c) di disposizioni comunitarie oppure d) dei principi regolatori della materia, che non possono essere violati nemmeno in un giudizio di equità (Sez. 2, n. 00769/2021, Dongiacomo, Rv. 660123-01); riguardo alle sentenze pronunciate dal giudice di pace nell’ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, l’appello “a motivi limitati” è l’unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso (essendo inutilizzabile il ricorso per cassazione), anche quando siano dedotti motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza o al difetto radicale di motivazione (Sez. 6-3, n. 34524/2021, Cirillo F.M., Rv. 663012-01).

Peculiare è il caso deciso da Sez. 6-2, n. 06817/2021, Criscuolo, Rv. 660853-01, riguardante una controversia avente ad oggetto la liquidazione di compensi maturati per la difesa della parte civile nel processo penale: la S.C. ha ritenuto che tale lite sia assoggettata al rito del processo ordinario ovvero, in alternativa, del procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. innanzi al tribunale in composizione monocratica, con conseguente appellabilità del provvedimento che definisce il relativo giudizio, in quanto l’immediato ricorso per cassazione è limitato alle decisioni rese ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, applicabile alle sole controversie di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, concernente i compensi per prestazioni giudiziali in materia civile.

In tema di protezione internazionale, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma 1, lett. g), del d.l. n. 13 del 2017, conv. dalla l. n. 46 del 2017, i procedimenti giudiziari instaurati dopo la data del 17 agosto 2017 – stante la disciplina transitoria dettata dall’art. 21 del citato d.l. – sono disciplinati dall’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, il quale prevede l’inappellabilità del decreto del tribunale concernente l’impugnazione dei provvedimenti delle Commissioni territoriali (Sez. 1, n. 20629/2021, Fidanzia, Rv. 661968-01; tuttavia, l’appello va giocoforza ritenuto ammissibile, secondo Sez. 1,n. 17646/2021, Vannucci, Rv. 661595-01, in base al principio dell’apparenza, indipendentemente dalla correttezza o inesattezza della qualificazione dell’azione effettuata dal giudice).

Sono sempre soggetti a reclamo dinanzi alla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2, c.p.c., i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno, sia quello aventi contenuto decisorio, sia quelli di carattere gestorio (Sez. U, n. 21985/2021, Criscuolo, Rv. 662034-01).

3. Forme e termini dell’impugnazione.

I termini per la proposizione dell’appello sono stabiliti, nel rito ordinario, dagli artt. 325 e 327 c.p.c., per il rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c. e, nel procedimento sommario di cognizione, dall’art. 702-quater c.p.c.

Il termine “lungo” semestrale decorre dalla pubblicazione della sentenza, in assenza di notifica, salvo che per la parte contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa o degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.: per evitare la decadenza dall’impugnazione, il contumace deve dimostrare la sussistenza, oltre che del presupposto oggettivo della nullità della notificazione, di quello soggettivo della mancata conoscenza – anche solo di fatto – del processo a causa di detta nullità, senza che rilevi il momento in cui la parte abbia acquisito la prova della non colpevolezza della decadenza (Sez. 6-3, n. 36387/2021, Rossetti, Rv. 663318-01).

Nel 2020 si è statuito che per le sentenze redatte in formato elettronico il dies a quo di decorrenza del termine semestrale di decadenza ex art. 327 c.p.c. va individuato nel momento di trasmissione per via telematica (tramite PEC) del provvedimento, poiché a quella data esso diviene irretrattabile e legalmente noto (Sez. 6-2, n. 09546/2020, Falaschi, Rv. 658011-01); nel 2021 si è precisato che tale regola non vale per il provvedimento redatto in formato analogico (cartaceo) successivamente digitalizzato ed inserito nel fascicolo telematico del processo, per il quale il termine lungo per l’impugnazione decorre dalla data del deposito dell’atto in cancelleria in base all’attestazione del cancelliere (Sez. 2,n. 29319/2021, Tedesco, Rv. 662562-01).

Il termine “breve” ex art. 325 c.p.c. decorre, invece, dalla notificazione della sentenza – quale espressione della volontà di porre fine al processo, attraverso il compimento di un atto acceleratorio (Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-01) –, a cui equivale lo svolgimento, da parte di colui che avrebbe dovuto essere il destinatario di tale notificazione, di un’attività processuale tale da integrare una situazione di conoscenza della pronuncia e da dimostrare la volontà di “reagire” alla statuizione (Sez. 1, n. 18607/2021, Fidanzia, Rv. 661615-02, ha equiparato alla notificazione del provvedimento, la richiesta di una sua modifica già avanzata dal soggetto che aveva poi proposto, tardivamente, l’impugnazione; in relazione a diversa fattispecie, Sez. U, n. 25476/2021, Napolitano L.,Rv. 662251-01, ha deciso che la riassunzione della causa dinanzi al giudice indicato come munito di giurisdizione equivale alla legale conoscenza della sentenza e fa decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte destinataria dell’atto di riassunzione).

L’art. 702-quater c.p.c. stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria: tale regola vale anche nelle controversie relative alla protezione internazionale per le quali è applicabile il rito sommario di cognizione ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, con la conseguenza che la lettura dell’ordinanza in udienza e il suo inserimento a verbale, equivalenti a “comunicazione” ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c., fanno decorrere immediatamente il termine predetto (Sez. 1, n. 14669/2021, Caradonna, Rv. 661400-01).

Nei giudizi di appello soggetti al rito del lavoro – come quello inerente all’opposizione a verbale di accertamento di violazione di norme del codice della strada instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011 – l’appello avverso la sentenza di primo grado va proposto con ricorso da depositare in cancelleria entro il termine decadenziale di trenta giorni dalla notifica della sentenza o, in caso di mancata notifica, entro il termine lungo ex art. 327 c.p.c. (Sez. 6-2, n. 21153/2021, Falaschi, Rv. 661952-01, ha statuito che l’irrituale proposizione dell’appello con citazione evita l’inammissibilità solo se quest’ultima è depositata entro il termine predetto). Si rileva che con ordinanza interlocutoria del 10/5/2021 (Sez. 3, n. 12233/2021, Scoditti, non massimata) è stata rimessa alle Sezioni Unite una questione attinente al consolidamento del rito erroneo, pur in mancanza di un espresso provvedimento di mutamento del rito ex art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011, la cui soluzione incide anche sulla verifica della tempestività dell’appello.

L’appello incidentale deve essere proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (art. 343 c.p.c.), ma alla parte totalmente vittoriosa in primo grado non sono richieste formule sacramentali o forme particolari, essendo sufficiente che risulti in modo non equivoco la volontà di ottenere la riforma della decisione (Sez. 3, n. 04860/2021, Valle,Rv. 660709-01).

L’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione (giusta od errata che sia) dell’azione e del provvedimento scientemente compiuta dal giudice (Sez. 1, n. 17646/2021, Vannucci, Rv. 661595-01; Sez. 6-3, n. 38587/2021, Gorgoni, Rv. 663343-01; Sez. 6-2, n. 26083/2021, Fortunato, Rv. 662297-01; Sez. 6-3, n. 32833/2021, Valle, Rv. 663336-01).

Salve le ipotesi di successione, a titolo universale (come nel caso di fusione per incorporazione non dichiarata o notificata all’altra parte; Sez. 3, n. 16605/2021, Moscarini, Rv. 661637-01) o particolare, nell’appello le parti sono le medesime del primo grado, sicché la sentenza che abbia pronunciato nei confronti di una persona diversa da quella evocata in primo grado va cassata senza rinvio, dovendosi radicalmente escludere la possibilità di proseguire l’azione. (Sez. 1, n. 10115/2021, Lamorgese, Rv. 661066-01).

Si deve tuttavia precisare che nell’appello proposto avverso la decisione che vedeva come parte i genitori rappresentanti del figlio minore la legittimazione spetta al figlio nelle more divenuto maggiorenne (Sez. 3, n. 06515/2021, Tatangelo, Rv. 660799-01).

L’atto di appello deve essere notificato al difensore della controparte nel domicilio eletto, ma non può dirsi inesistente la notifica eseguita all’originario difensore revocato, anziché presso quello nominato in sua sostituzione, (Sez. 3, n. 20840/2021, Guizzi, Rv. 661983-01).

È nulla, per mancanza di certezza legale della data di consegna dell'atto al destinatario, la notifica di un appello a mezzo di operatore privato privo di titolo abilitante, se la stessa non è sanata dalla costituzione della parte appellata: ne consegue l'inammissibilità dell'impugnazione per tardività (Sez. 5, n. 19019/2021, D’Oriano, Rv. 661808-01).

È invece suscettibile di sanatoria, la notifica dell'appello (ex art. 702-quater c.p.c.) al Ministero degli Interni presso l’Amministrazione anziché presso l’Avvocatura dello Stato, nulla per violazione dell’art. 11 del r.d. n. 1611 del 1933 (Sez. 6-1, n. 12339/2021, Campese, Rv. 661431-01, in tema di protezione internazionale, nel vigore dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, come modificato dal d.lgs. n. 142 del 2015).

Riguardo al contenuto dell’atto di citazione in appello, il rinvio alle norme dettate per il procedimento di primo gradi innanzi al tribunale (ex art. 359 c.p.c.) implica la necessaria presenza dei requisiti stabiliti dall’art. 163 c.p.c., ivi compresi gli elementi integranti la vocatio in jus.

La procura al difensore conferita per l’appello, se nulla (vizio che non deriva dall’erronea indicazione del codice fiscale della parte; Sez. 1, n. 05067/2021, Scalia, Rv. 660519-01), non comporta l’inammissibilità del gravame, qualora la parte abbia rilasciato in primo grado una procura alle liti valida per tutti i gradi del giudizio (Sez. 3, n. 06162/2020, Scarano, Rv. 657159-01); se, poi, la Corte di merito richiede un’integrazione della procura rilasciata dal soccombente in primo grado per quello di appello, l’atto successivamente depositato contenente la dichiarazione della parte di avere effettivamente conferito mandato per l’impugnazione di quella data sentenza non può essere inteso come una ratifica con efficacia retroattiva (istituto non operante nel campo processuale, ove la procura alle liti può essere conferita con effetti retroattivi solo nei limiti stabiliti dall’art. 125 c.p.c.), bensì quale atto ricognitivo di una dichiarazione di volontà già espressa (Sez. 6-3, n. 21777/2021, Cricenti, Rv. 662041-01).

In ogni caso, poiché si applica anche al giudizio d’appello l’art. 182, comma 2, c.p.c., al rilievo di un vizio determinante la nullità della procura al difensore il giudice deve far seguire, entro l’udienza prevista dall’art. 350 c.p.c., l’assegnazione di un termine perentorio per il rilascio della stessa o per la sua rinnovazione (Sez. 3, n. 13597/2021, Positano,Rv. 661415-01).

L’applicazione delle regole del primo grado e, in particolare, delle norme sulla sanatoria dell’atto introduttivo viziato è confermata anche da Sez. 3, n. 06515/2021, Tatangelo,Rv. 660799-01: l’indicazione nell’atto d’appello del figlio divenuto maggiorenne come parte in senso sostanziale (rappresentata dai genitori) implica un’incertezza sul requisito ex art. 163, comma 3, n. 2, c.p.c. alla quale la rinnovazione della citazione pone rimedio sanando il vizio.

Nel rito ordinario, una volta notificato l’atto di impugnazione, l’appellante deve costituirsi, iscrivendo il gravame al ruolo generale civile, entro il termine di dieci giorni soggetto a proroga se in scadenza nella giornata di sabato, ex art. 155, comma 5, c.p.c., disposizione applicabile anche alla costituzione in appello, che avviene, ai sensi dell’art. 347, comma 1, c.p.c., secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al tribunale (Sez. 2,n. 21925/2021, Varrone, Rv. 661956-01).

Al momento della costituzione in secondo grado, l’appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata, ai sensi dell’art. 347, comma 2, c.p.c.: tale incombente, però, non è richiesto a pena di inammissibilità o di improcedibilità dell’appello, non essendo questa prevista dall’art. 347 c.p.c., sicché al giudice non è preclusa la decisione di merito ove il contenuto della sentenza impugnata sia desumibile in modo non equivoco dall’atto introduttivo (Sez. 6-1, n. 12751/2021, Di Marzio M., Rv. 661444-01).

Nel processo tributario, in caso di mancato tempestivo deposito da parte dell’appellante principale dell’atto notificato presso la segreteria della Commissione tributaria adita, va depositato in copia alla segreteria della Commissione che ha emesso la sentenza impugnata l’appello incidentale tempestivo non notificato a mezzo di ufficiale giudiziario; tale adempimento, prescritto a pena di inammissibilità del gravame incidentale, non è validamente supplito dalla richiesta di acquisizione del fascicolo di primo grado ex art. 53, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992, attesa la sua inidoneità a far conseguire una sicura informazione circa l’avvenuta proposizione dell’impugnazione incidentale (Sez. 5, n. 08809/2021, Mancini, Rv. 661028-01).

4. L’oggetto dell’impugnazione.

Oltre alle questioni di merito, possono formare oggetto dell’impugnazione anche questioni di rito, ma il riscontro del vizio comporta la rimessione al primo giudice soltanto nei limitati casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., che, secondo consolidata giurisprudenza, sono tassativi (Sez. 1, n. 06247/2021, Dolmetta, Rv. 660888-02; Sez. 1, n. 11219/2021, Fidanzia, Rv. 661188-01; Sez. 5, n. 32593/2021, D’Angiolella, Rv. 662800-01); altrimenti, il giudice d’appello è tenuto a decidere nel merito la controversia nei limiti delle doglianze prospettate, anche nel caso di invalidità del giudizio di primo grado a causa della nullità, rilevata in sede di gravame, della citazione introduttiva per mancanza dell’avvertimento ex art. 163, n. 7, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 00032/2021, Picaroni, Rv. 660002-01).

Neanche la nullità della sentenza pronunciata nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo costituito dalla morte del difensore di una delle parti costituite permette, in sede di gravame, di rimettere la causa innanzi al giudice di prime cure ed impone, al contrario, la declaratoria di nullità della decisione impugnata e di procedere ad un nuovo esame del merito (Sez. 2, n. 10912/2021, Gorjan, Rv. 661132-01).

L’art. 354, comma 2, c.p.c. impone la rimessione della causa al primo giudice in caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sull’estinzione del processo a norma e nelle forme dell’art. 308 c.p.c. e, dunque, quando il giudice d’appello ritenga che sia stato dichiarato estinto un processo che sarebbe dovuto proseguire; al contrario, non si fa luogo a regressione della causa quando il giudice d’appello ritenga corretta, nel merito, l’ordinanza di estinzione del processo, ancorché il provvedimento fosse nullo perché pronunciato fuori udienza e senza sentire le parti (Sez. 6-3, n. 39170/2021, Rossetti,Rv. 663349 - 01).

Esula dalle ipotesi tassative previste dalla menzionata disposizione – pur trattandosi di nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa – il caso in cui il giudice tributario, in esito alla camera di consiglio fissata per la decisione cautelare di sospensione dell’atto impugnato, provveda, senza il consenso delle parti, a decidere anche nel merito la controversia senza fissare l’udienza di trattazione (Sez. 5, n. 32593/2021, D’Angiolella,Rv. 662800-01).

Rientra, invece, tra le fattispecie di rimessione dell’intero processo al primo giudice la nullità insanabile che affligge il provvedimento recante la sottoscrizione di un magistrato che non componeva l’organo collegiale giudicante, vizio integrante l’ipotesi di difetto di sottoscrizione ex artt. 132 e 161, comma 2, c.p.c. (Sez. L, n. 06494/2021, Garri, Rv. 660631-01, riguardo a sentenza sottoscritta da magistrato diverso dal presidente che avrebbe dovuto sottoscriverla).

Insanabilmente nulla è la sentenza resa in un giudizio di primo grado intrapreso sulla scorta di un atto introduttivo la cui notificazione sia riconosciuta come inesistente: in tal caso, il giudice d’appello non può rimettere la causa al primo giudice, non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c. (Sez. 1, n. 11219/2021, Fidanzia, Rv. 661188-01).

Come statuito dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 10015/2021, Bruschetta, Rv. 661015-01), la sentenza di riforma/annullamento della decisione di primo grado e di rimessione della causa al primo giudice è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di pronuncia che presenta un carattere definitivo, concludendo il procedimento davanti al giudice di appello.

5. L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c.

Le parti del processo di impugnazione – che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae – nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia, a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado in quanto rimaste assorbite (Sez. 1, n. 25840/2021, Caradonna, Rv. 662488-01, nel solco di Sez. U, n. 07700/2016, Frasca, Rv. 639281-01), a meno che si tratti di domande o di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c. (ad esempio, rispetto all’inutilizzabilità di alcuni documenti, oggetto di eccezione in primo grado e di implicito rigetto nell’affermazione della loro inidoneità probatoria, come statuito da Sez. 5, n. 20315/2021, Succio, Rv. 661888-01, sulla scia di Sez. U, n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01).

La mera riproposizione nel controricorso non è sufficiente nel giudizio di cassazione della sentenza che abbia, sia pur implicitamente, risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione preliminare o pregiudiziale, atteso che la struttura del procedimento di legittimità, non soggetto alla disciplina dettata per l’appello dall’art. 346 c.p.c., pone a carico dell’intimato l’onere dell’impugnazione, con ricorso incidentale, anche in caso di soccombenza teorica e non solo pratica (Sez. 2, n. 33109/2021, Dongiacomo, Rv. 662752-01).

In tema di appello, Sez. 1, n. 09265/2021, Caiazzo, Rv. 661062-01, precisa che soltanto la parte vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte, mentre la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione di cui intende ottenere l’accoglimento ha l’onere di proporre appello incidentale.

L’esigenza di un vero e proprio appello incidentale sull’eccezione formulata dalla parte vittoriosa e rigettata è affievolita nel processo tributario d’appello, perché la mera riproposizione dell’eccezione unita alla contestazione della statuizione sul punto permette al giudice del gravame di procedere alla sua riqualificazione, tenuto anche conto che, nel contenzioso tributario, l’appello incidentale non deve essere notificato, ma è contenuto nelle controdeduzioni depositate nel termine di costituzione dell’appellato (Sez. 5, n. 18119/2021, Fracanzani, Rv. 661767-01; in precedenza, con riguardo alla possibilità di un’analoga riqualificazione nel rito ordinario, Sez. 3, n. 24456/2020, Valle, Rv. 659756-01).

La prescrizione del diritto fatto valere non può essere rilevata ex officio dal giudice d’appello sulla base di una circostanza fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione impugnata, a meno che essa non sia stata devoluta nel gravame con appello incidentale o riproposizione ex art. 346 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 07592/2021, Valle, Rv. 660975-01).

Una specifica riproposizione ex art. 346 c.p.c. è necessaria anche per l’eccezione di giudicato esterno, oggetto di rigetto in o di mancata pronuncia da parte del primo giudice: infatti, il formarsi del giudicato interno sulle questioni non riproposte che abbiano formato oggetto di dibattito in primo grado e della relativa pronunzia (Sez. L, n. 34424/2021, Cavallaro, Rv. 662777-01) preclude definitivamente l’esame dell’eccezione, quand’anche la stessa fosse rilevabile d’ufficio (Sez. 2, n. 38243/2021, Falaschi, Rv. 663161-01).

Non occorre, invece, una specifica impugnazione della decisione relativa al quantum debeatur, quando la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria è stata devoluta al giudice del gravame sotto il profilo dell’an della responsabilità, che del primo costituisce il necessario antecedente logico-giuridico (Sez. 6-L, n. 36533/2021, Boghetich, Rv. 663089-01).

6. Le parti e il contraddittorio.

Già si è detto che il giudice dell’appello deve trattenere la causa e deciderla, anche se sulle questioni dedotte non vi sia stata una pronunzia di merito da parte del giudice di primo grado, essendo eccezionali e tassative le ipotesi di “regressione” al primo grado previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., i quali riguardano, rispettivamente, la riforma della sentenza con cui il giudice ordinario di prime cure abbia declinato la propria giurisdizione e le specifiche fattispecie di nullità della notificazione della citazione introduttiva, di non integrità del contraddittorio in primo grado, di nullità della sentenza priva della sottoscrizione del primo giudice o di erronea sentenza di estinzione del processo.

Tra le diverse pronunce che hanno affrontato il tema del litisconsorzio in materia di famiglia, si osserva che – mentre Sez. 1, n. 06247/2021, Dolmetta, Rv. 660888-02, ha statuito che nel procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità del minore ogni genitore è parte necessaria, ma che la nullità del giudizio conseguente all’invalidità della sua costituzione non implica la rimessione della causa al primo giudice – Sez. 1, n. 08627/2021, Caiazzo, Rv. 660899-01, con riguardo ai giudizi relativi alla responsabilità dei genitori nei quali si discuta dell’affidamento della prole ai servizi sociali, e Sez. 1, n. 01471/2021, Valitutti, Rv. 660382-01, in relazione a tutti i procedimenti che abbiano ad oggetto provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, hanno stabilito che l’omessa nomina del curatore speciale del minore ex art. 78 c.p.c. determina la nullità che, se accertata in sede di impugnazione, comporta la rimessione della causa in primo grado per l’integrazione del contraddittorio.

La violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata nemmeno dal giudice d’appello (tenuto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, comma 1, c.p.c.), vizia l’intero processo e impone, nel giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa in primo grado (Sez. 3, n. 04665/2021, Guizzi, Rv. 660603-01).

La pronuncia di rinvio della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c. per integrare il contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario può prevedere, ove si rinvengano elementi sufficienti per stabilire a quale delle parti debba essere attribuita l’irregolarità che ha dato luogo alla rimessione, la condanna al pagamento delle spese di primo e secondo grado a carico della parte che ha dato causa alla nullità (Sez. 6-2, n. 11865/2021, Scarpa, Rv. 661476-01).

7. I nova in appello.

Ai sensi dell’art. 345, comma 1, c.p.c., “nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio”.

Il secondo comma della citata norma stabilisce, poi, che “non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio”: alla vigente disposizione il legislatore è addivenuto modificando il testo normativo risultante dall’art. 36 della legge n. 581 del 1950 (“Le parti possono proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma se la deduzione poteva essere fatta in primo grado si applicano per le spese del giudizio d’appello le disposizioni dell’articolo 92, salvo che si tratti del deferimento del giuramento decisorio”) con la legge n. 353 del 1990 (in vigore dal 30 aprile 1995), che ha introdotto il regime delle preclusioni rimasto immutato anche a seguito delle successive novelle legislative recanti diverse disposizioni transitorie. Sulla portata del divieto di nuove eccezioni si sono pronunciate Sez. 3, n. 39232/2021, Scrima, Rv. 663332 - 01, stabilendo che il vigente art. 345 c.p.c. trova applicazione, quanto al giudizio di appello, anche nei giudizi iniziati in primo grado in data anteriore al 30 aprile 1995, ancora pendenti in primo grado al 4 luglio 2009 e conclusi con sentenza appellata prima del 12 agosto 2012 e Sez. 6-5, n. 28062/2021, Ragonesi, Rv. 662814-01, in base alla quale il divieto si riferisce ad ogni eccezione non rilevabile d’ufficio, senza che possa distinguersi tra “eccezioni in senso stretto”, per le quali opererebbe il divieto di jus novorum in appello, ed altre eccezioni non rilevabili d’ufficio, per le quali detto divieto non opererebbe (nella specie, si è ritenuta inammissibile l’eccezione di prescrizione presentata tardivamente dal contribuente in sede di gravame).

La violazione del divieto di proporre in appello domande nuove è rilevabile in sede di legittimità anche d’ufficio, senza che possa spiegare alcuna influenza l’accettazione del contraddittorio, trattandosi di un divieto posto a tutela di interessi di natura pubblicistica (Sez. U, n. 00157/2020, Genovese, Rv. 656509-03).

Una domanda è nuova – e, come tale, inammissibile in appello, quando concerne e un diritto cd. eterodeterminato (o non autoindividuante) e i fatti storici allegati in primo grado a sostegno dell’azione vengono sostituiti o integrati da fatti nuovi e diversi, dedotti con i motivi di gravame.

Si è così statuito che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa integra, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente formulata, una domanda nuova, come tale inammissibile se proposta per la prima volta in appello (Sez. 6-1, n. 03058/2021, Iofrida, Rv. 660579-01; in senso contrario si era espressa Sez. 2, n. 26694/2020, Oliva, Rv. 659722-01, secondo cui la domanda ex art. 2041 c.c. può essere proposta anche in appello, purché prospettata sulla base delle medesime circostanze di fatto fatte valere in primo grado).

È inammissibile – perché comporta novità della domanda – la modificazione della causa petendi quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, è impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado e comporta il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato oppure, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa da avanzata in primo grado.

Ad esempio, in tema di agenzia, si è ritenuto che sia nuova e, dunque, inammissibile in appello la domanda di risarcimento del danno da illegittimo recesso ante tempus (caratteristica dei rapporti a tempo determinato) rispetto a quella di condanna al pagamento dell’indennità di preavviso, prevista per i soli rapporti a tempo indeterminato, già proposta in primo grado (Sez. L, n. 30457/2021, Lorito, Rv. 662758-01).

Analogamente, si basano su diverse causae petendi la domanda del lavoratore di risarcimento dei danni derivanti da attività di dequalificazione e mobbing da parte del datore di lavoro, avanzata in primo grado, e quella volta ad accertare comportamenti lesivi successivi al deposito del ricorso introduttivo del giudizio, ovviamente concernente nuovi accadimenti, ancorché omogenei rispetto ai precedenti (Sez. L, n. 31558/2021, Lorito, Rv. 662764-02, ha ritenuto altresì inapplicabile la deroga prevista dall’art. 345, comma 1, c.p.c., per “i danni sofferti dopo la sentenza”, dato che la norma si riferisce alle conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa e non ad altri danni derivanti da fatti nuovi e diversi).

La differenza tra i presupposti, la ratio e la disciplina delle distanze per l’apertura di vedute, da un lato, e di luci, dall’altro, ha fondato la decisione di Sez. 2, n. 21615/2021, Bellini, Rv. 662059-01, secondo cui, una volta proposta una domanda di riduzione alla distanza legale di una servitù di veduta sul proprio fondo, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la regolarizzazione di una luce irregolare.

È caratterizzata da novità – e, dunque, presuppone una domanda del contribuente formulata nei modi e nei termini processuali appropriati, non potendo essere proposta per la prima volta in appello – la richiesta al giudice tributario di dichiarare l'inapplicabilità delle sanzioni amministrative per violazioni di norme fiscali in ragione di errore sulla norma tributaria per il caso di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito applicativo della stessa (Sez. 5, n. 15406/2021, Penta, Rv. 661600-01).

Non costituisce domanda nuova, invece, quella svolta in appello e tesa ad accertare in appello, nei limiti degli elementi di fatto ritualmente prospettati, la concorrente responsabilità nella determinazione di un sinistro stradale ex art. 2054, comma 2, c.c., giacché l’accertamento del concorso paritario costituisce un possibile esito (di accoglimento parziale) dell’originaria domanda attorea (Sez. 6-3, n. 27169/2021, Scrima, Rv. 662463-01); analogamente, in termini più generali, si è pronunciata Sez. 3, n. 09200/2021, Scarano, Rv. 661071-01, con riguardo all’ipotesi di concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227, comma 1, c.c., questione che dev’essere esaminata e verificata anche d’ufficio dal giudice investito dell’appello del danneggiante che abbia contestato in toto la propria responsabilità.

Sempre in tema di risarcimento dei danni, si è statuito che la richiesta di rivalutazione monetaria – in quanto tesa a conseguire, attraverso una aestimatio che tenga conto dell’effettivo valore della moneta, lo stesso petitum originario – non costituisce domanda nuova e, perciò, essa può essere avanzata in appello, purché non si sia verificato un giudicato interno, come nel caso in cui la rivalutazione sia stata espressamente negata dal giudice di primo grado e il danneggiato abbia omesso di impugnare tale capo della decisione (Sez. 1, n. 06711/2021, Iofrida, Rv. 660829-01).

In tema di assegno divorzile, Sez. 6-1, n. 29290/2021, Fidanzia, Rv. 662933-01, ha statuito che la domanda di assegno va proposta nell’atto introduttivo del giudizio (o nella comparsa di risposta) e che, tuttavia, essa deve essere considerata ammissibile anche se proposta per la prima volta in appello quando solo nel corso della causa si sono modificate le condizioni economiche dei coniugi rispetto all’inizio della lite.

Secondo Sez. 1, n. 07144/2021, Caradonna, Rv. 660998-01, la domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione della decisione di primo grado è ammissibile in appello e anche nel corso del giudizio di secondo grado (sino alla precisazione delle conclusioni) in caso di pagamento posteriore all’introduzione del gravame; se, invece, il pagamento è avvenuto prima della notificazione dell’atto introduttivo, essa deve essere necessariamente formulata mediante l’atto di impugnazione.

Il divieto ex art. 345 c.p.c. non riguarda le eccezioni in senso lato, le quali consistono nell’allegazione o rilevazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio ai sensi dell’art. 2697 c.c., con cui sono opposti nuovi fatti o temi di indagine non compresi fra quelli indicati dall’attore e non risultanti dagli atti di causa; essendo rilevabili d’ufficio, sono sottratte al succitato divieto, a condizione che riguardino fatti principali o secondari emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo e anche se non siano state oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva (pronunciandosi con riguardo al rilievo d’ufficio, in grado d’appello, della mancanza di prova del requisito dimensionale, ai fini della reintegrazione del lavoratore a seguito di licenziamento illegittimo, Sez. L, n. 22371/2021, Piccone, Rv. 662113-01, sottolinea che il principio vale a maggior ragione nel processo del lavoro, nel quale il sistema delle preclusioni trova un contemperamento, ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, nei poteri officiosi del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, anche in appello, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione).

In riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n. 02271/2021, Cinque, Rv. 660333-01, ha ribadito che la preclusione in appello di un’eccezione nuova sussiste nel solo caso in cui la stessa, essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, abbia introdotto in sede di gravame un nuovo tema d’indagine. Ad esempio, nel giudizio proposto contro l’I.N.A.I.L. per il riconoscimento delle prestazioni conseguenti ad infortunio sul lavoro, la negazione della causa o dell’occasione di lavoro da parte dell’assicuratore pubblico integra una mera difesa non soggetta alla preclusione ex art. 437 c.p.c. per l’appello, non già un’eccezione in senso sostanziale idonea ad invertire l’onere della prova, gravante sull’infortunato, dei fatti costitutivi della domanda (Sez. L, n. 10375/2021, Calafiore, Rv. 661101-01).

Rientra nel novero delle eccezioni in senso lato la deduzione – come fatto impeditivo del diritto del correntista alla ripetizione delle somme illegittimamente addebitate – della banca circa la perdurante pendenza del rapporto di conto corrente (Sez. 6-1, n. 04066/2021, Mercolino, Rv. 660585-01).

Non forma oggetto di un’eccezione in senso stretto l’intervenuta transazione della lite e pertanto essa può essere dedotta anche in appello o rilevata dal giudice d’ufficio, purché i fatti risultino documentati ex actis (nel dichiarato intento di risolvere contrasti interpretativi, Sez. 3, n. 26118/2021, Rossetti, Rv. 662498-03, ha ritenuto ammissibile in appello l’eccezione di transazione intervenuta nel corso del giudizio, indipendentemente dalla sua natura novativa o non novativa).

Mentre l’eccezione di prescrizione costituisce certamente un’eccezione in senso stretto (Sez. 6-5, n. 28062/2021, Ragonesi, Rv. 662814-01), integra una controeccezione in senso lato la deduzione relativa all’applicabilità di uno specifico termine di prescrizione (nella specie, quello indicato dall’art. 2947, comma 3, c.c.), la quale, se basata su fatti storici già tempestivamente allegati, può essere proposta anche in appello e, con il solo limite della non necessità di accertamenti di fatto, pure nel giudizio di cassazione (Sez. 6-3,n. 21404/2021, Guizzi, Rv. 662040-02).

Al contrario, è un’eccezione in senso stretto – che la parte non può sollevare per la prima volta in appello – quella di intervenuta risoluzione del contratto per avveramento della condizione risolutiva (Sez. 6-2, n. 17463/2021, Oliva, Rv. 661486-01).

Il divieto di domande ed eccezioni nuove in appello è previsto, nel contenzioso tributario, dall’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992 e si applica anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria; tuttavia, il secondo comma concerne le eccezioni in senso tecnico e non le difese, le argomentazioni e le prospettazioni difensive tendenti ad inficiare la sentenza sotto un profilo logico ulteriore rispetto a quello esposto in primo grado (Sez. 5,n. 02413/2021, Novik, Rv. 660482-01).

Così, la contestazione in appello dell’efficacia del giudicato esterno eccepito in primo grado dal contribuente introduce nel processo una mera argomentazione difensiva, tendente ad evidenziare un vizio logico della sentenza, che non determina un mutamento del thema decidendum originario, e che non soggiace alla preclusione prevista dall’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 (Sez. 6-5, n. 34662/2021, Cataldi, Rv. 663235-01).

Nel processo tributario, poi, la nullità dell’avviso di accertamento non è rilevabile d’ufficio, né la relativa eccezione può essere formulata in appello (Sez. 5, n. 24669/2021, Nicastro, Rv. 662173-01, riguardante un avviso con sottoscrizione di persona diversa da quelle indicate nel primo comma dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973).

7.1. (Segue) Nuovi mezzi di prova in appello.

Con riguardo ai mezzi istruttori, l’art. 345, comma 3, c.p.c., nella sua attuale formulazione, stabilisce che in appello “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

Tale formulazione del terzo comma, introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, trova applicazione, in difetto di un’espressa disciplina transitoria ed in base al generale principio processuale tempus regit actum, quando la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 (Sez. 2, n. 21606/2021, Criscuolo, Rv. 661833-01).

Anche nel previgente testo dell’art. 345, comma 3, anteriore alla citata novella del 2012, dove era prevista l’eccezionale ammissibilità in appello di documenti ritenuti “indispensabili ai fini della decisione della causa”, il potere del giudice non poteva essere esercitato rispetto a prove già dichiarate inammissibili in primo grado (perché dedotte in modo difforme dalla legge), o a prove dalla cui assunzione il richiedente era decaduto (Sez. 3, n. 11804/2021, Valle, Rv. 661323-01, relativa all’irritualità del deposito del documento comprovante l’iscrizione all’albo dei mediatori, allegato dalla parte attrice soltanto con la conclusionale, quando la mancata allegazione era stata eccepita dalla parte convenuta sin dalla costituzione in primo grado).

Il divieto di produrre nuovi documenti non riguarda, tuttavia, quelli presentati a sostegno della legittimazione ad intervenire nel processo in grado di appello del successore a titolo particolare, il quale assume la stessa posizione del suo dante causa e non può proporre domande nuove salvo, appunto, quella diretta all’accertamento del suo diritto di intervenire (Sez. 1, n. 00996/2021, Pazzi, Rv. 660367-01).

Nel processo tributario, l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 consente alle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., purché ciò sia effettuato entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1, del citato d.lgs. e, cioè, fino a venti giorni liberi prima dell’udienza (Sez. 5, n. 18103/2021, Balsamo, Rv. 661783-01); in ogni caso, la parte rimasta contumace in primo grado può produrre per la prima volta in appello l’originale dell’atto impositivo notificato (e di cui era contestata dal contribuente l’avvenuta notifica), costituendo tale produzione una mera difesa, volta alla confutazione delle ragioni poste a fondamento del ricorso della controparte (Sez. 5, n. 14567/2021, Giudicepietro, Rv. 661352-01).

L’art. 345 c.p.c. vieta in appello l’acquisizione di prove nuove e, quindi, di documenti non introdotti prima dell’introduzione del gravame: il divieto non riguarda, perciò, i documenti contenuti nel fascicolo di parte di primo grado ed è, anzi, onere dell’appellante produrre o ripristinare in appello i documenti sui quali si basa il gravame o comunque attivarsi perché tali documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello (Sez. 6-3, n. 40606/2021, Scrima, Rv. 663229-01, ha statuito che l’appellante ha l’onere di estrarre copia ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c. dei documenti prodotti dalla controparte e da questa non depositati in appello e di produrli in sede di gravame); in difetto – anche se l’appellante si è riservato, nella nota di iscrizione a ruolo dell’impugnazione, di presentare il fascicolo di parte formato in primo grado e abbia poi omesso di farlo – il giudice d’appello deve decidere sul gravame in base agli atti legittimamente a sua disposizione al momento della decisione (Sez. 3, n. 18287/2021, Scarano, Rv. 661744-01).

8. La decisione e trattazione dell’appello.

L’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., deve essere pronunciata dal giudice competente prima di procedere alla trattazione della causa, a pena di nullità del provvedimento, il quale è altrimenti affetto da un vizio proprio, deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., senza che sia anche necessario valutare la derivazione di un concreto ed effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti, poiché il giudice di appello, dopo l’inizio della trattazione, perde il potere di definire anticipatamente il merito della lite con l’ordinanza predetta (Sez. 1, n. 15786/2021, Vannucci, Rv. 661811-01).

L’inosservanza della citata disposizione sul momento entro cui può pronunciarsi l’inammissibilità dell’appello non può desumersi unicamente dal fatto che il collegio abbia invitato le parti a concludere, poiché la precisazione delle conclusioni è un adempimento preliminare necessario prima che il giudice riservi la causa in decisione e dunque prescinde dal previo svolgimento della fase di trattazione (Sez. 1, n. 03642/2021, Amatore, Rv. 660493-01); si deve peraltro ritenere, qualora non risulti espressamente il contrario in base al verbale, che la questione dell’inammissibilità dell’impugnazione sia stata oggetto di discussione nel corso dell’udienza o che, comunque, sia stata sottoposta al contraddittorio delle parti presenti, senza che sia necessario indicare di avere invitato, con formula sacramentale, le dette parti a svolgere le loro difese sul punto (Sez. 3, n. 00270/2021, Tatangelo, Rv. 660212-01; Sez. 6-3, n. 37161/2021, Dell’Utri, Rv. 663132-01).

Alla deliberazione della decisione «possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione» ai sensi dell'art. 276, comma 1, c.p.c., sicché, in grado di appello, il collegio deliberante deve essere composto dagli stessi magistrati dinanzi ai quali è stata compiuta l'ultima attività processuale e, cioè, la discussione o la precisazione delle conclusioni (in base alla disciplina di cui al novellato art. 352 c.p.c.), a pena di nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice (Sez. L, n. 06494/2021, Garri, Rv. 660631-01, riguardo a sentenza d’appello sottoscritta da magistrato diverso dal presidente che avrebbe dovuto sottoscriverla).

La rimessione della causa sul ruolo per sollecitare il contraddittorio delle parti su questioni sopravvenute, comporta, anche in appello, il ritorno del processo nella fase decisoria, con conseguente necessità di osservare le prescrizioni poste dall’art. 352 c.p.c., anche in ordine ai termini prescritti per lo scambio di comparse conclusionali e repliche, la cui mancata concessione determina la nullità della sentenza per la lesione, ex se, del diritto di difesa (Sez. 3, n. 04202/2021, Di Florio, Rv. 660599-01).

Una fondamentale riaffermazione del diritto di difesa che si esplica con le difese finali si rinviene nella pronuncia di Sez. U, n. 36596/2021, Terrusi, Rv. 663244-01: l’avere il giudice d’appello deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica o senza attendere la loro scadenza determina di per sé la nullità della sentenza per avere impedito lo svolgimento, con completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario indicare in concreto quali argomentazioni sarebbero state addotte nella prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia.

  • giurisdizione di grado superiore
  • azione civile

CAPITOLO XIII

IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Il giudizio di cassazione. Novità normative. Evoluzione applicativa. - 2 Il procedimento. - a) La notificazione del ricorso (o del controricorso) e il successivo deposito. - b) L’onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. - c) L’interesse ad impugnare. - d) La legittimazione attiva e passiva. - e) L’impugnazione incidentale. - f) I requisiti di forma e contenuto del ricorso e del controricorso. L’inammissibilità. - g) I vizi denunciabili. - h) Ulteriori questioni procedurali. - 4 Il giudizio di rinvio.

1. Il giudizio di cassazione. Novità normative. Evoluzione applicativa.

Nell’attuale contesto politico, sociale e storico, anche europeo, il dibattito attorno alla funzione di una Corte Suprema di legittimità vede ormai costantemente all’ordine del giorno la singolarità del caso italiano, il cui ordinamento, nel corso del tempo e al di là delle intenzioni del legislatore, ha finito col consentire l’assunzione da parte della Corte di cassazione di compiti sempre più lontani dalla nomofilachia, per occuparsi la stessa assai più frequentemente dello ius litigatoris. Ne costituisce plastica testimonianza il numero delle decisioni assunte, nel solo settore civile, nel corso del 2021: sono stati emessi ben 42145 provvedimenti, numero – mai raggiunto prima - che non si esita a definire abnorme e che esprime di per sé la stessa intrinseca difficoltà di procedere ad una reconductio ad unum in relazione a qualsivoglia area di intervento da parte della giurisprudenza di legittimità, sia con riguardo agli ambiti più settoriali e specialistici, sia con riguardo a quelli più generali ed, in primo luogo, a quelli processuali.

Non stupisce, quindi, che nel quadro della destinazione delle risorse del PNRR, sia stata di recente emanata la legge delega 26 novembre 2021, n. 206, che in particolare all’art. 1, comma 9, ha fissato i seguenti principi cui il legislatore delegato, nella conseguente modifica al codice di procedura civile, dovrà attenersi nella ridefinizione dell’assetto del giudizio di cassazione:

a) prevedere che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione;

b) uniformare i riti camerali disciplinati dagli artt. 380-bis e 380-bis.1 del codice di procedura civile, prevedendo:

1) la soppressione della sezione prevista dall’art. 376 del c.p.c. e lo spostamento della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici;

2) la soppressione del procedimento disciplinato dall’art. 380-bis del c.p.c.;

c) estendere la pronuncia in camera di consiglio all’ipotesi in cui la Corte ritenga di dover dichiarare l’improcedibilità del ricorso;

d) prevedere, quanto alla fase decisoria del procedimento in camera di consiglio disciplinato dagli artt. 380-bis.1 e 380-ter, c.p.c., che, al termine della camera di consiglio, l’ordinanza, succintamente motivata, possa essere immediatamente depositata in cancelleria, rimanendo ferma la possibilità per il collegio di riservare la redazione e la pubblicazione della stessa entro sessanta giorni dalla deliberazione;

e) introdurre un procedimento accelerato, rispetto all’ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, prevedendo:

1) che il giudice della Corte formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell’inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata;

2) che la proposta sia comunicata agli avvocati delle parti;

3) che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del T.U. Spese di giustizia;

f) prevedere che la Corte proceda in udienza pubblica quando la questione di diritto è di particolare rilevanza, anticipando fino a quaranta giorni prima dell’udienza l’onere di comunicazione della data della stessa al pubblico ministero e agli avvocati, introducendo la facoltà per il pubblico ministero di depositare una memoria non oltre quindici giorni prima dell’udienza;

g) introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto, prevedendo che:

1) l’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione è subordinato alla sussistenza dei seguenti presupposti:

1.1) la questione è esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza;

1.2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative;

1.3) la questione è suscettibile di porsi in numerose controversie;

2) ricevuta l’ordinanza con la quale il giudice sottopone la questione, il Primo presidente, entro novanta giorni, dichiara inammissibile la richiesta qualora risultino insussistenti i presupposti di cui al numero 1) della presente lettera;

3) nel caso in cui non provvede a dichiarare l’inammissibilità, il Primo presidente assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente;

4) la Corte di cassazione decide enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento da svolgere mediante pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa;

5) il rinvio pregiudiziale in cassazione sospende il giudizio di merito ove è sorta la questione oggetto di rinvio;

6) il provvedimento con il quale la Corte di cassazione decide sulla questione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conserva tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che è instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti.

Naturalmente, non è questa la sede per affrontare la portata e le ragionevoli probabilità di successo di tali pur importanti principi, ovviamente non ancora efficaci, per quanto possa sin d’ora salutarsi con favore il prossimo abbandono del c.d. “triplo binario” del rito di legittimità, derivante dalla soppressione della Sezione sesta civile (c.d. Sezione “filtro”), il cui pur meritevole ruolo sul piano storico era stato di fatto reso superfluo dal conio, nel 2016, del rito camerale di sezione semplice, come meglio si dirà tra breve.

Nell’attesa che venga emessa la normativa delegata, e nell’ambito della funzione tipica del presente lavoro, si procederà ora alla rassegna delle più rilevanti pronunce adottate, nel corso del 2021, in relazione al giudizio di legittimità, con uno sguardo da un lato alle questioni tipicamente e storicamente ricorrenti, dall’altro al modo con cui le riforme adottate al riguardo, specie nell’ultimo decennio, sono state affrontate e risolte, se del caso con opportuni distinguo, dalla stessa giurisprudenza della Corte.

Il riferimento, da tale ultimo punto di vista, non può che investire quelle norme – si pensi alla modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., apportata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, in tema di motivi di ricorso per cassazione, ovvero alla creazione del rito camerale disposta dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni con la l. 25 ottobre 2016, n. 197 - dettate negli ultimi anni per incrementare la produttività e, ad un tempo, per smaltire il grave arretrato che affligge la stessa S.C.

Il vigente sistema del “triplo binario” (che verrà abbandonato, come detto, a seguito dell’entrata in vigore del decreto delegato) prevede che ogni nuovo ricorso per cassazione destinato alla Sezione ordinaria – fatta eccezione, quindi, per a) quelli destinati “ab origine” alle Sezioni Unite, nonché per b) i regolamenti di competenza e di giurisdizione – vadano in realtà ripartiti tra la Sezione “filtro” e la Sezione cui “compete” per tabella la materia di pertinenza del ricorso stesso.

Infatti, è stata accentuata la cameralizzazione del procedimento (già disciplinata dall’art. 375 c.p.c. e regolata dall’art. 380-bis c.p.c.), prevedendosi: a) una procedura camerale di definizione accelerata (e senza partecipazione delle parti) per i ricorsi destinati alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, ovvero manifestamente fondati o infondati, da definirsi in sesta sezione civile; b) una procedura camerale di sezione semplice (anche qui, senza partecipazione delle parti), per i ricorsi di rilevanza non nomofilattica, ossia quelli in cui vengano in rilievo solo elementi attinenti allo ius litigatoris; c) la pubblica udienza per i ricorsi a rilevanza nomofilattica, ove cioè si presentino questioni attinenti allo ius constitutionis.

Il prudente assetto dettato al riguardo dalla disciplina emergenziale inerente alla pandemia da Covid-19, ha anche superato il giudizio di sospetta incostituzionalità, giacché Sez. U, n. 02610/2021, Scarpa, Rv. 660309-02, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - per asserita violazione dell’art. 24, comma 2, Cost. - dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla l. n. 176 del 2020, in relazione al termine ivi previsto per la richiesta di discussione orale del ricorso, perché la norma, inclusa tra le misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria, è giustificata, sul piano della ragionevolezza, dalla finalità di tutela della salute collettiva e, stante la facoltà di ottenere la discussione orale su semplice richiesta del procuratore generale o del difensore di una delle parti, non scalfisce il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze, né la mancanza dell’udienza ex art. 379 c.p.c. ostacola l’esercizio del diritto di difesa, nemmeno nel giudizio di impugnazione nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati, essendo consentito, dopo la formulazione delle conclusioni motivate del procuratore generale con atto spedito alla cancelleria e da questa inviato ai difensori, il deposito di memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Sempre riguardo ai poteri delle parti nel regime emergenziale, Sez. 5, n. 20950/2021, Manzon, Rv. 661898-01, ha affermato che il deposito tardivo, rispetto al termine prescritto dall’art. 23, comma 8-bis, del d.l. n. 137 del 2020, conv. con modif., dalla l. n. 176 del 2020, delle conclusioni del P.G. è fonte di nullità processuale di carattere relativo che resta sanata a seguito dell’acquiescenza delle parti ai sensi dell’art. 157 c.p.c., in quanto la tempestività dell’intervento opera esclusivamente a tutela del diritto di difesa delle parti, sicché è rimessa a queste ultime la facoltà e l’onere di eccepire la tardività.

Da ultimo, si segnala Sez. U, n. 42090/2021, Sestini, Rv. 663581-02, che ha negato l’ammissibilità della memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dalla parte che era rimasta intimata, la relativa udienza essendo disciplinata dall’art. 23, comma 8 bis, del d.l. n. 137/2020 convertito (con modificazioni) dalla l. n. 176/2020, la cui applicazione è stata estesa al periodo dal 1° ottobre al 31 dicembre 2021 dall’art. art. 7, co. 1 del d.l. n. 105 del 23.7.2021, convertito in l. n. 126 del 16.9.21; ciò ha comportato, secondo il Supremo Consesso, che la parte intimata e non costituita era nella specie informata che, in difetto di istanza di discussione orale, l’udienza pubblica sarebbe stata tenuta con modalità "cartolari" e, quindi, avrebbe potuto proporre essa stessa, nel termine di venticinque giorni liberi prima dell’udienza, l’anzidetta istanza di discussione per poter svolgere le difese riversate nella memoria.

Sotto altri profili, sono andati consolidandosi alcuni orientamenti affermatisi negli anni più recenti.

Così, nel solco di Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, Rv. 638368-01, la recente Sez. 1, n. 15786/2021, Vannucci, Rv. 661811-01, ha affermato che l’inosservanza da parte del giudice di appello della specifica previsione contenuta nell’art. 348 ter, comma 1, primo periodo, c.p.c. – che gli consente di dichiarare inammissibile l’appello che non abbia ragionevole probabilità di essere accolto soltanto prima di procedere alla trattazione ai sensi dell’art. 350 c.p.c. -, costituisce un vizio proprio dell’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 bis, comma 1, c.p.c. deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., senza che sia anche necessario valutare se dalla stessa sia derivato un concreto ed effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti, avendo il giudice di appello, dopo l’inizio della trattazione, perduto il potere di definire anticipatamente il merito della lite mediante l’ordinanza predetta. Conseguente è il principio affermato da Sez. 6-L, n. 37272/2021, Bellè, Rv. 663151-01, secondo cui la scelta del giudice d’appello di definire il giudizio prendendo in esame il merito della pretesa azionata (sia con il rigetto che con l’accoglimento) non può dirsi proceduralmente viziata sul presupposto che si sarebbe dovuta affermare l’inammissibilità per assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; pertanto, ove il giudice non ritenga di assumere la decisione ai sensi dell’art. 348-ter, comma 1, c.p.c., la questione di inammissibilità resta assorbita dalla sentenza che definisce l’appello, che è l’unico provvedimento impugnabile, ma per vizi suoi propri, "in procedendo" o "in iudicando", e non per il solo fatto del non esservi stata decisione nelle forme semplificate.

Con specifico riferimento all’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (la cui sentenza di primo grado, com’è noto, non è appellabile), Sez. 6-3, n. 09868/2021, Tatangelo, Rv. 661143-01 ha sancito che nel caso in cui venga impugnata con l’appello una sentenza non appellabile per legge, o per effetto della qualificazione operata dal giudice in funzione del principio dell’apparenza, e l’appello sia dichiarato inammissibile ex art. 348-bis, comma 1, c.p.c., la proposizione del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 348-ter, comma 3, c.p.c., nel termine previsto da tale ultima disposizione, non vale a rimettere in termini il ricorrente ai fini della proposizione del ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso la sentenza di primo grado, essendosi formato il giudicato in difetto di tempestiva impugnazione.

Sempre in relazione a pretesi vizi della fase decisoria in appello, Sez. 1, n. 03642/2021, Amatore, Rv. 660493-01, ha affermato che l’inosservanza della previsione, di cui all’art. 348 ter, comma 1, c.p.c., secondo cui l’inammissibilità dell’appello deve essere dichiarata, sentite le parti, prima di procedere alla trattazione ex art. 350 c.p.c., e che integra una violazione della legge processuale deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. non può desumersi unicamente dal fatto che il collegio abbia invitato le parti a concludere, in quanto la precisazione delle conclusioni è un adempimento preliminare necessario prima che il giudice riservi la causa in decisione e dunque prescinde dal previo svolgimento della fase di trattazione.

Viene poi in rilievo la questione della c.d. "doppia conforme in facto", che come è noto, ai sensi dell’art. 348-ter, commi 4 e 5, c.p.c., determina la non proponibilità del ricorso per cassazione limitatamente al motivo di censura di cui al riformulato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; in proposito, la recente Sez. 1, n. 02010/2021, Amatore, Rv. 660372-01, ha escluso l’applicabilità di detta disposizione in tema di protezione internazionale, trattandosi di procedimento in materia di status in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero.

Per quanto riguarda il rito camerale di sezione semplice “non partecipato”, nel regime intermedio, va anzitutto rilevato che Sez. 5, n. 06592/2021, Fichera, Rv. 660817-01, ha consolidato l’orientamento estensivo secondo cui, relativamente ai ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 e per i quali venga successivamente fissata adunanza camerale, la parte intimata che non abbia provveduto a notificare e a depositare il controricorso nei termini di cui all’art. 370 c.p.c. ma che, in base alla pregressa normativa, avrebbe ancora la possibilità di partecipare alla discussione orale, per sopperire al venir meno di siffatta facoltà può presentare memoria, munita di procura speciale, nei medesimi termini entro i quali può farlo il controricorrente, trovando in tali casi applicazione l’art. 1 del Protocollo di intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016 tra il Consiglio Nazionale Forense, l’Avvocatura generale dello Stato e la Corte di cassazione.

Quanto invece la facoltà di deposito della memoria nel rito camerale non partecipato "a regime" (ossia, per i ricorsi notificati dal 30 ottobre 2016 in poi), Sez. 5, n. 17030/2021, Balsamo, Rv. 661609-01, ha ribadito che, alla parte contro cui è diretto il ricorso, che abbia depositato un atto non qualificabile come controricorso in quanto privo dei requisiti essenziali previsti dagli artt. 370 e 366 c.p.c., nel periodo che va dalla scadenza del termine per il deposito del controricorso alla data fissata per l’adunanza camerale è preclusa qualsiasi attività processuale, sia essa diretta alla costituzione in giudizio o alla produzione di documenti e memorie ai sensi degli artt. 372 e 380 bis.1 c.p.c., sicché la memoria depositata da chi si era costituito ai soli fini di partecipare all’udienza di discussione va considerata inammissibile (conf., Sez. 3, n. 34791/2021, Scarano, Rv. 663181-01). Infine, Sez. 5, n. 20996/2021, Federici, Rv. 662080-01, ha poi escluso che una semplice “memoria di costituzione” depositata in cancelleria ma non notificata, possa assurgere a controricorso, anche nel procedimento in camera di consiglio.

Sul piano più generale, Sez. 1, n. 10396/2021, Falabella, Rv. 661133-01, ha affermato – discostandosi da precedente orientamento – che la Corte può enunciare d’ufficio il principio di diritto anche all’esito del procedimento camerale disciplinato dall’art. 380 bis.1 c.p.c., qualora ritenga di dover decidere una questione di particolare importanza, che può riguardare tutte le ragioni, di merito o processuali, oggetto del giudizio di legittimità.

Per quanto concerne il vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», oggi previsto dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, permane il contrasto di giurisprudenza circa la denunciabilità, col mezzo predetto, di errori o omissioni concernenti le risultanze della CTU. Nel senso estensivo, ancora Sez. 3,n. 14599/2021, Sestini, Rv. 661553-01, ha ribadito che l’adesione acritica da parte del giudice alle conclusioni peritali di una delle consulenze tecniche d’ufficio, espletate in tempi diversi e pervenute a conclusioni difformi, senza farsi carico di un’analisi comparativa, integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, salvo che le conclusioni recepite siano, da sole, idonee a palesare le ragioni della scelta compiuta dal giudice. Va notato che, nella specie, si trattava di questione di colpa medica neonatale, in cui la Corte d’appello aveva prestato totale adesione all’ultima C.T.U., senza tenere conto della genericità e apoditticità delle motivazioni in essa espresse e senza specificatamente confutare le ragioni degli opposti esiti della consulenza svolta in primo grado.

Per contro, Sez. 6-L, n. 08429/2021, Esposito, Rv. 660858-01, ha affermato che in presenza di due successive contrastanti consulenze tecniche d’ufficio (nella specie, la prima disposta nel giudizio di primo grado e la seconda in sede di gravame), qualora il giudice aderisca al parere del consulente che abbia espletato la sua opera per ultimo, va escluso il vizio di motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., e va ritenuta sufficiente la motivazione della sentenza, pur se l’adesione non sia specificamente giustificata, ove il secondo parere tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario, siano essi esposti nella prima relazione o "aliunde" deducibili. In tal caso, non possono configurare l’anzidetto vizio di motivazione le doglianze di parte che, dirette al solo riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, non individuino gli specifici passaggi della sentenza idonei ad inficiarne la logicità, anche per derivazione dal ragionamento del consulente.

Non mancano, del pari, ulteriori sensibilità circa il perimetro del vizio in discorso. Così, in materia di libero convincimento del giudice, Sez. 3, n. 15276/2021, Olivieri, Rv. 661628-01, ha affermato che esula dal vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. qualsiasi contestazione volta a criticare il "convincimento" che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (sost. conf., Sez. 2, n. 20553/2021, Dongiacomo, Rv. 661734-01). Per contro, Sez. 1, n. 10253/2021, Lamorgese, Rv. 661151-01, ha affermato che il libero convincimento del giudice di merito in tema di presunzioni è sindacabile nei ristretti limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., e cioè per mancato esame di fatti storici, anche quando veicolati da elementi indiziari non esaminati e dunque non considerati dal giudice, benchè decisivi, con l’effetto di invalidare l’efficacia probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento è fondato, nonché quando la motivazione non sia rispettosa del “minimo costituzionale”. Sempre a tal riguardo, si veda Sez. L, n. 18611/2021, Cavallaro, Rv. 661649-01, secondo cui in tema di presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione concreta; nondimeno, per restare nell’ambito della violazione di legge, la critica deve concentrarsi sull’insussistenza dei requisiti della presunzione nel ragionamento condotto nella sentenza impugnata, mentre non può svolgere argomentazioni dirette ad infirmarne la plausibilità (criticando la ricostruzione del fatto ed evocando magari altri fatti che non risultino dalla motivazione), vizio valutabile, ove del caso, nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. Decisamente eccentrica appare infine l’affermazione di Sez. 6-2, n. 27847/2021, Fortunato, Rv. 662803-01, secondo cui il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice di merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1 , n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto che va censurato nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (affermazione che non sembra del tutto in linea con l’insegnamento di Sez. U, n. 20867/2020, De Stefano, Rv. 659037-01 e 02).

Peculiare è l’affermazione di Sez. 2, n. 23128/2021, Scarpa, Rv. 662142-01, secondo cui l’interpretazione delle clausole di un regolamento contrattuale contenenti criteri convenzionali di ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento delle cose comuni è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l’omesso esame di un fatto storico, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

In materia di procedimento camerale dinanzi alla sesta sezione civile (come s’è visto, di prossima eliminazione), istituita a seguito della modifica apportata all’art. 376 c.p.c. dall’art. 47 della l. 18 giugno 2009, n. 69), si segnala anzitutto Sez. 6-3, n. 04294/2021, Scrima, Rv. 660610-01, che ha individuato nella memoria ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c., il termine ultimo per avanzare la richiesta di distrazione delle spese. Sempre riguardo al contenuto della memoria, Sez. 6, n. 15832/2021, Lombardo, Rv. 661874-03, ha escluso che la dichiarazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata contenuta nel ricorso per cassazione, quale atto processuale formale, indipendente dall’intenzione del dichiarante e produttivo degli effetti cui è destinato dalla legge nella serie procedimentale, possa essere successivamente corretta dal ricorrente con la memoria ex art. 380 bis c.p.c., atteso, per un verso, che l’ordinamento processuale non prevede un istituto che consenta la correzione degli atti processuali di parte (i quali sono normalmente ripetibili, salvo lo spirare dei termini stabiliti a pena di decadenza e il maturare delle preclusioni) e considerato, per altro verso, che la dichiarazione medesima, in quanto espressione dell’"autoresponsabilità" della parte, deve ritenersi inemendabile, rimettendosi altrimenti nella disponibilità della parte stessa l’applicabilità della sanzione dell’improcedibilità del ricorso.

Sez. 6-2, n. 08939/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 660943-01, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per revocazione dei provvedimenti della Corte di cassazione avanzata avverso la proposta del relatore ex art. 380-bis c.p.c., per avere detta proposta, a seguito della riforma operata dall’art. 47, comma 1, lett. c, della l. n. 69 del 2009, natura di atto interno, siccome diretta esclusivamente al presidente per la fissazione dell’adunanza camerale nel caso della cd. evidenza decisoria, la cui comunicazione alle parti costituisce una mera prassi curiale di cortesia.

Sez. 6-3, n. 27305/2021, Tatangelo, Rv. 662443-01, ha infine ribadito che la proposta formulata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis, comma 1, c.p.c. ha rilievo ai soli fini del rito applicabile senza determinare alcun vincolo per la decisione del collegio che può sempre assumerne una di segno contrario nonché decidere il merito del ricorso, anche nel caso in cui la proposta sia stata erroneamente riferita dal relatore al solo ricorso principale e non anche a quello incidentale.

2. Il procedimento.

Di seguito, raggruppate per argomento, si segnalano le più rilevanti pronunce su questioni attinenti al procedimento di cassazione.

a). La notificazione del ricorso (o del controricorso) e il successivo deposito.

In relazione all’attività notificatoria, sul piano generale, Sez. 6-1, n. 26399/2021, Vella, Rv. 662632-01 (concernente l’impugnazione del provvedimento di revoca dall’incarico di commissario giudiziale), ha affermato che la notificazione è requisito ordinario di ammissibilità del ricorso per cassazione, non soltanto nei giudizi contenziosi, ma anche nei procedimenti che, coinvolgendo gli interessi di una pluralità di parti, postulano l’instaurazione del contraddittorio nei confronti di ciascun soggetto controinteressato (nella specie individuati nella società in concordato preventivo, nei creditori e nei nuovi commissari giudiziali nominati in sua sostituzione), donde l’inammissibilità del ricorso non notificato a tutti i controinteressati. Nello stesso senso, in tema di affidamento di figlio minorenne, si veda Sez. 1, n. 31498/2021, Valitutti, Rv. 663265 – 01.

In tema di notifica a mezzo posta elettronica certificata, va anzitutto segnalata Sez. 2, n. 29584/2021, Scarpa, Rv. 662706-01, che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 75 del 2019 (dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif., dalla l. n. 221 del 2012, nella parte in cui tale norma prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24, si perfeziona, per il notificante, alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta), ha affermato che l’applicazione della regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione per notificante e destinatario - soluzione che consente la reductio ad legitimitatem dell’art. 16 cit. - implica che il termine per impugnare scade allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno, essendo altrimenti impedito al ricorrente di utilizzare appieno il tempo per approntare la propria difesa. Assai interessante è poi Sez. 1, n. 02961/2021, Caradonna, Rv. 660554-01, che ha affermato che la notifica tramite PEC della copia del ricorso per cassazione che consti di un unico foglio, contenente esclusivamente il nome delle parti e il riferimento al provvedimento impugnato, non comporta l’inammissibilità del gravame ma costituisce un vizio del procedimento notificatorio con la conseguente possibilità di una sanatoria "ex tunc" mediante la rinnovazione della notifica, che peraltro deve ritenersi sanata (come nella specie) anche dalla costituzione del destinatario della notificazione, che abbia dimostrato di essere in grado di svolgere compiutamente le proprie difese.

Non mancano, ovviamente, pronunce in tema di notificazione “tradizionale”. Così, Sez. 5, n. 20778/2021, D’Angiolella, Rv. 661937-01, ha ribadito che i fini della verifica della tempestività del ricorso per cassazione, la notifica a mezzo del servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell’atto per raccomandata, ma si perfeziona con la consegna del plico al destinatario, attestata dall’avviso di ricevimento da allegarsi all’originale a norma dell’art. 149, ult. comma, c.p.c.; ne consegue che la mancanza di tale documento impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso per inesistenza della notifica, senza possibilità di rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.

Peculiare è la pronuncia di Sez. 5, n. 03454/2021, Lo Sardo, Rv. 660653-01, adottata in un caso in cui il ricorso per cassazione era stato notificato soltanto alla società cessionaria di azienda e non anche ai soci della società cedente, i quali erano gli unici legittimati alla prosecuzione del processo, in qualità di successori diretti nei rapporti obbligatori della società estinta dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese. La Corte ha ritenuto che, trattandosi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo prosegue fra le parti originarie, mantenendo il successore interventore tale veste processuale, salvo che nel caso di espressa estromissione dell’alienante; ne consegue l’inammissibilità del ricorso per cassazione che sia notificato unicamente al successore interventore e non alla controparte originaria. Ancora sul tema, si segnala Sez. 3, n. 16605/2021, Moscarini, Rv. 661637-01, che ha affermato che qualora una società, costituita in secondo grado a mezzo di procuratore, venga fusa per incorporazione nel corso del giudizio di appello e il suo procuratore non dichiara in udienza l’avvenuta fusione o non la notifica all’altra parte, è valido il ricorso per cassazione proposto nei confronti della società incorporata e notificato al procuratore costituito, atteso che, in forza del particolare rapporto di continuità identitaria tra le società partecipanti alla fusione, non può ritenersi che la società che risulta dalla fusione sia soggetto estraneo al rapporto giuridico processuale intestato alla società fusa ed al connesso rapporto di mandato alle liti.

In ambito tributario, Sez. 5, n. 17700/2021, Paolitto, Rv. 661765-01, ha ribadito che qualora nel giudizio di merito l’Agenzia delle entrate non sia stata rappresentata dall’Avvocatura dello Stato, è nulla, e non inesistente, la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso l’Avvocatura dello Stato, non potendosi escludere l’esistenza di un astratto collegamento tra il luogo di esecuzione della notifica ed il destinatario della stessa, in considerazione delle facoltà, concesse all’Agenzia dall’art. 72 del d.lgs. n. 300 del 1999, di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura. Tale nullità, inoltre, può essere sanata sia nel caso in cui l’Agenzia si costituisca senza sollevare eccezioni al riguardo, sia per effetto di rinnovazione della notifica, ai sensi dell’art. 291 c.p.c.

Quanto al controricorso, assai interessante è Sez. 2, n. 03685/2021, Criscuolo, Rv. 660318-01, secondo cui la notificazione dello stesso è validamente effettuata all’indirizzo di posta elettronica certificata indicata dal difensore di fiducia del ricorrente per cassazione esercente fuori giurisdizione, indipendentemente dalla limitazione di siffatta indicazione alle sole comunicazioni di cancelleria giacché, a seguito dell’introduzione dell’art. 16-sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modific., dalla l. n. 221 del 2012, fermo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c. e salvo che non sia possibile per causa imputabile al destinatario, le notificazioni e le comunicazioni vanno eseguite al "domicilio digitale" di cui ciascun avvocato è dotato, corrispondente all’indirizzo P.E.C. - risultante dal ReGindE - indicato, una volta per tutte, al Consiglio dell’ordine di appartenenza e conoscibile dai terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC). Ancora, Sez. 2, n. 25498/2021, Orilia, Rv. 662256-01, ha precisato che la tardività della notificazione del controricorso al ricorrente non ne determina l’inammissibilità, se esso sia stato tempestivamente notificato ad un altro dei legittimi contraddittori.

Si segnala, poi, quanto al regolamento delle spese, Sez. 6-3, n. 20847/2021, Guizzi, Rv. 662052-01, secondo cui nel computo delle spese a carico del ricorrente soccombente vanno ricomprese quelle del controricorso tempestivamente notificato nel termine di venti giorni, decorrente dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, fissato in relazione all’ultima notificazione di esso tempestivamente eseguita.

La questione del subentro di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del Gruppo Equitalia continua poi ad occupare, sotto vari profili, la S.C. Così, Sez. U, n. 04845/2021, De Stefano, Rv. 660464-01, ha affermato che la notifica del ricorso al successore "ex lege" dell’agente della riscossione già parte in causa, cioè alla sopravvenuta Agenzia delle Entrate-Riscossione - è invalida se eseguita al difensore nominato dal precedente agente della riscossione, perché l’ultrattività del mandato in origine conferito prima dell’istituzione del nuovo Ente non opera, ai fini della ritualità della notifica del ricorso, essendo la cessazione dell’originario agente della riscossione ed il subentro automatico del suo successore disposti da una norma di legge, l’art. 1 del d.l. n. 193 del 2016; tale invalidità, tuttavia, integra una nullità, suscettibile di sanatoria, vuoi per spontanea costituzione dell’Agenzia, vuoi a seguito della rinnovazione di quella notificazione, da eseguirsi, ove non già avvenuta, all’Agenzia stessa nella sua sede o al suo indirizzo di posta elettronica certificata (conf., Sez. U, n. 15911/2021, Napolitano, Rv. 661509-02).

Quanto alle attività successive alla notifica del ricorso e del controricorso, Sez. 5, n. 12844/2021, Pepe, Rv. 661350-01, ha affermato che ai fini della procedibilità, rileva che il ricorrente, nel rispetto del termine indicato dall’art. 369 c.p.c., depositi il ricorso e formuli l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio al giudice "a quo", la quale deve essere restituita munita del visto di cui al comma terzo della disposizione in esame, non potendo discendere dal suo mancato deposito «insieme col ricorso» la sanzione della improcedibilità del giudizio di legittimità, atteso che una differente soluzione, di carattere formalistico, determinerebbe un ingiustificato diniego di accesso al giudizio di impugnazione, in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Ancora, Sez. 2, n. 21905/2021, Picaroni, Rv. 661945-01, ha affermato che ove si constati l’assenza del provvedimento di ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, trova applicazione l’art. 369, comma 2, n. 1, c.p.c., che prevede l’improcedibilità del ricorso per cassazione per mancato deposito dell’indicato provvedimento entro il termine fissato nel primo comma del medesimo art. 369, specie allorquando il provvedimento, che era valso per i giudizi di merito, sia stato revocato con efficacia retroattiva.

Sez. 6-3, n. 34916/2021, Valle, Rv. 663015-01, ha ribadito che l’omesso o tardivo deposito del ricorso per cassazione dopo la scadenza del ventesimo giorno dalla notifica del gravame comporta l’improcedibilità dello stesso, rilevabile anche d’ufficio e non esclusa dalla costituzione del resistente, posto che il principio - sancito dall’art. 156 c.p.c. - di non rilevabilità della nullità di un atto per mancato raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente all’inosservanza di forme in senso stretto e non di termini perentori, per i quali vigano apposite e separate norme. Infine, Sez. 6-3, n. 37579/2021, Iannello, Rv. 663321 - 01, ha ribadito che il termine di venti giorni per il deposito del ricorso per cassazione, fissato a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., decorre, nel caso di notifica reiterata alla stessa parte, dalla data della prima notifica, a meno che questa non sia nulla, nel qual caso il termine decorre dalla data della seconda notifica.

b). L’onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c.

Strettamente connesso al tema del deposito del ricorso in cancelleria è quello del deposito di copia conforme della sentenza, la cui mancanza determina anch’essa l’improcedibilità del ricorso.

Al riguardo, va qui anzitutto segnalata Sez. 1, n. 14360/2021, Caiazzo, Rv. 661397-01, che ha ribadito il più risalente orientamento secondo cui, quando la sentenza impugnata sia stata notificata e il ricorrente abbia depositato la sola copia autentica della stessa priva della relata di notifica, deve applicarsi la sanzione dell’improcedibilità, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., a nulla rilevando che il ricorso sia stato notificato nel termine breve decorrente dalla data di notificazione della sentenza, ponendosi la procedibilità come verifica preliminare rispetto alla stessa ammissibilità. Parimenti, il deposito di una ulteriore istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio, con ad essa allegata anche la relata di notifica della sentenza gravata, avvenuto in data successiva alla comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale non impedisce la menzionata sanzione, atteso che, da un lato, il detto deposito, a tal fine, deve avvenire entro il termine perentorio di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e, dall’altro, non è previsto, al di fuori di ipotesi eccezionali, che nel fascicolo d’ufficio debba inserirsi copia della relata di notifica, trattandosi di attività che non avviene su iniziativa dell’ufficio e che interviene in un momento successivo alla definizione del giudizio.

In posizione diametralmente opposta si pone, sul punto, la successiva Sez. 6, n. 15832/2021, Lombardo, Rv. 661874-01, secondo cui, riguardo alla notificazione del provvedimento impugnato ad opera della parte, ai fini dell’adempimento del dovere di controllare la tempestività dell’impugnazione in sede di giudizio di legittimità, assumono rilievo le allegazioni delle parti, nel senso che, ove il ricorrente non abbia allegato che la sentenza impugnata gli è stata notificata, si deve ritenere che il diritto di impugnazione sia stato esercitato entro il c.d. termine "lungo" di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza, mentre, nella contraria ipotesi in cui l’impugnante abbia allegato espressamente o implicitamente che la sentenza contro cui ricorre gli sia stata notificata ai fini del decorso del termine breve di impugnazione (nonché nell’ipotesi in cui tale circostanza sia stata eccepita dal controricorrente o sia emersa dal diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio), deve ritenersi operante il termine di cui all’art. 325 c.p.c., sorgendo a carico del ricorrente l’onere di depositare, unitamente al ricorso o nei modi di cui all’art. 372, comma 2, c.p.c., la copia autentica della sentenza impugnata, munita della relata di notificazione, entro il termine previsto dall’art. 369, comma 1, c.p.c., la cui mancata osservanza comporta l’improcedibilità del ricorso, escluso il caso in cui la notificazione del ricorso risulti effettuata prima della scadenza del termine breve decorrente dalla pubblicazione del provvedimento impugnato e salva l’ipotesi in cui la relazione di notificazione risulti prodotta dal controricorrente o presente nel fascicolo d’ufficio.

Sotto altro profilo, Sez. 6-3, n. 07610/2021, Porreca, Rv. 660928-01, ha affermato che il difetto di asseverazione autografa in calce alla decisione impugnata ed alla relata di notificazione a mezzo PEC non comporta l’improcedibilità del ricorso ove, in base alla valutazione complessiva degli atti depositati, emerga in maniera inequivoca la volontà asseverativa, non essendo richiesta la contestualità della attestazione al deposito o l’unicità documentale con gli stessi atti di riferimento per la riconosciuta possibilità di compiere l’asseverazione sino all’udienza o alla discussione cartolare, secondo la giurisprudenza affermatasi nella transizione da processo analogico a processo compiutamente telematico presso la Corte di legittimità.

Ancora, Sez. 2, n. 15001/2021, Picaroni, Rv. 661294-01, ha ritenuto che, in caso di notificazione della sentenza a mezzo PEC, una volta acquisita al processo la prova della sussistenza della ricevuta di avvenuta consegna, solo la concreta allegazione di una qualche disfunzionalità dei sistemi telematici potrebbe giustificare migliori verifiche sul piano informatico, con onere probatorio a carico del destinatario - in tale ambito, peraltro, senza necessità di proporre querela di falso - in conformità ai principi già operanti in tema di notificazioni secondo i sistemi tradizionali e per cui, a fronte di un’apparenza di regolarità della dinamica comunicatoria, spetta al destinatario promuovere le contestazioni necessarie ed eventualmente fornire la prova di esse.

Infine, Sez. 1, n. 02445/2021, Ariolli, Rv. 660491-01, ha affermato che, ai fini dell’osservanza di quanto imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369, comma 2 n. 2, c.p.c., nel caso in cui la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale e notificata tramite PEC, l’attestazione di conformità della copia analogica predisposta per la Corte di cassazione può essere effettuata, ai sensi dell’art. 9, commi 1 bis e 1 ter della l. n. 53 del 1994, anche dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, i cui poteri processuali e di rappresentanza permangono anche quando il cliente ha conferito il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore. In senso diametralmente opposto, si veda però la successiva Sez. 1, 04401/2021, Scordamaglia, Rv. 660510-01, che ha ritenuto essere improcedibile il ricorso per cassazione nel caso in cui la sentenza impugnata sia stata redatta in formato digitale e l’attestazione di conformità della copia analogica prodotta risulti sottoscritta, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994, dal difensore che ha assistito la parte nel precedente grado di giudizio, dopo che il cliente aveva già conferito il mandato alle liti per il giudizio di legittimità ad un altro difensore.

c). L’interesse ad impugnare.

Sez. 2, n. 28077/2021, Giusti, Rv. 662570-01, in materia di esecuzione forzata, ed in relazione al principio già affermato da Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704-01, ha sancito che in tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., l’interesse a promuovere l’espropriazione forzata; da tale principio, tuttavia non può derivare il potere del giudice di stabilire i limiti di accesso al giudizio di legittimità, posto che nel nostro ordinamento la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge ed è sempre ammesso, pertanto, il diritto di ricorrere per cassazione avverso le sentenze per violazione di legge.

Circa la carenza d’interesse sopravvenuta in corso di giudizio, va qui segnalata Sez. 3, n. 09201/2021, Cirillo, Rv. 661077-01, che ha ribadito che la revocazione della sentenza d’appello impugnata con ricorso per cassazione determina la cessazione della materia del contendere, che dà luogo all’inammissibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse, in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche l’interesse ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione (o l’impugnazione), ma anche al momento della decisione, perché è in relazione quest’ultimo - e alla domanda originariamente formulata - che l’interesse va valutato, a nulla rilevando che la sentenza di revocazione possa essere a sua volta impugnata per cassazione, giacché la suddetta revocazione costituisce una mera possibilità mentre la carenza di interesse del ricorrente a coltivare il ricorso è attuale, per essere venuta meno la pronuncia che ne costituiva l’oggetto.

d). La legittimazione attiva e passiva.

Sez. 1, n. 05987/2021, Vella, Rv. 660761-01, ha statuito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa, riguardante la disciplina di quell’autonoma fase processuale, che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che sono quelle che hanno partecipato al giudizio di merito.

Ancora, Sez. 6-3, n. 02496/2021, Tatangelo, 660546-01, ha ritenuto l’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto da società titolare dei diritti di cui si controverte, legittimata a stare ed a resistere in giudizio anche in sede di legittimità, a prescindere dalla circostanza dell’avvenuta incorporazione della società che l’aveva rappresentata nel giudizio di merito, della quale, di conseguenza, non è necessaria la prova mediante produzione documentale dell’atto di fusione.

Sez. 1, n. 15168/2021, Ferro, Rv. 661499-01, ha affermato che l’assuntore del concordato fallimentare è legittimato a ricorrere per cassazione avverso il decreto di liquidazione del compenso del curatore fallimentare, trattandosi di questione destinata ad incidere sulla commisurazione dell’impegno da lui assunto. Al contrario, secondo Sez. 1, n. 19461/2021, Fidanzia, Rv. 662544-01, avverso il decreto di omologazione pronunciato in assenza di opposizioni, ai sensi dell’art. 129, comma 4, l.fall., non è legittimato alla presentazione del ricorso immediato per cassazione ex art. 111 Cost. il creditore che abbia ricevuto la comunicazione individuale del deposito del decreto ex art. 129, comma 2, l.fall. e che sia stato conseguentemente posto nelle condizioni di poter proporre opposizione (facoltà non esercitata) nel termine ex art. 129, comma 3, l.fall.; tale legittimazione spetta, pertanto, solo a quei soggetti potenzialmente interessati al decreto di omologa del concordato fallimentare che, pur pienamente identificabili dall’esame degli atti della procedura fallimentare, non abbiano ricevuto la comunicazione del decreto del giudice delegato riportante la proposta di concordato.

Ancora in ambito fallimentare, Sez. 1, n. 22449/2021, Falabella, Rv. 661997-01, ha affermato che il ricorso per cassazione contro la sentenza che, in sede di reclamo, abbia confermato la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata entro l’anno dalla sua estinzione, deve essere proposto, a pena di inammissibilità, da colui che rappresentava la società stessa al tempo della cancellazione di quest’ultima dal registro delle imprese, non avendo gli ex soci, che non sono rappresentanti né successori della stessa, alcuna legittimazione ad impugnare. In tema di concordato preventivo, Sez. 1, n. 32248/2021, Fichera, Rv. 662948-01, ha ritenuto che, qualora il giudizio di omologa si svolga senza opposizioni, la legittimazione a proporre ricorso per cassazione avverso il decreto che lo conclude spetta alle sole parti che vi abbiano partecipato, salva la sola ipotesi in cui con il ricorso si lamentino un vizio impeditivo di detta partecipazione o altro vizio processuale afflittivo del decreto anzidetto.

Sul piano della legittimazione passiva, Sez. 1, n. 03630/2021, Mercolino, Rv. 660567-01, ha ribadito che il fallimento di una delle parti che si verifichi nel corso del giudizio di legittimità non determina l’interruzione del processo ex art. 299 e ss. c.p.c., trattandosi di procedimento dominato dall’impulso di ufficio. Ne consegue che, una volta instauratosi il giudizio con la notifica ed il deposito del ricorso per cassazione, il curatore del fallimento non è legittimato a stare in giudizio in luogo del fallito, essendo irrilevanti i mutamenti della capacità di stare in giudizio di una delle parti e non essendo ipotizzabili, nel giudizio di cassazione, gli adempimenti di cui all’art. 302 c.p.c.

Sez. 2, n. 35795/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662911-01, ha poi affermato che nel giudizio di opposizione ex art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 (già art. 23 della l. n. 689 del 1981), la legittimazione passiva spetta, ai sensi del comma 5 dell’art. 7 cit., alternativamente al prefetto ovvero a regioni, province e comuni, anche quando l’autorità che ha emesso l’ordinanza agisca quale organo periferico dell’amministrazione statale, per effetto di una specifica autonomia funzionale che comporta deroga a quanto stabilito dall’art. 11, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933 (come sostituito dall’art. 1 della l. n. 260 del 1958), in tema di rappresentanza in giudizio dello Stato; tale legittimazione resta ferma nella successiva fase di impugnazione davanti alla Corte di cassazione, non rinvenendosi, nell’attuale disciplina dell’art. 7 cit. (e, prima, dell’art. 23 della l. n. 689 del 1981), alcun elemento da cui possa desumersi che, alla legittimazione in primo grado dell’autorità che ha emesso il provvedimento sanzionatorio subentri, nella fase di impugnazione, quella del Ministro, con la conseguenza che il ricorso per cassazione proposto nei confronti del Ministro, anziché nei confronti dell’autorità che ha emesso l’ordinanza, è inammissibile.

e). L’impugnazione incidentale.

Sul piano generale, Sez. 3, n. 27680/2021, Valle, Rv. 662574-01, nonché Sez. 3, n. 36057/2021, Scarano, Rv. 663183-01, hanno ribadito che il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; quest’ultima modalità, tuttavia, non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’ordinario) di impugnazione in astratto operativi.

Sempre sul piano generale, Sez. 2, n. 33109/2021, Dongiacomo, Rv. 662752-01, ha ribadito che qualora la sentenza impugnata con ricorso principale abbia, sia pur implicitamente, risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione preliminare o pregiudiziale, il ricorso per cassazione dell’avversario impone a detta parte, che intenda sottoporre all’esame della Corte la medesima questione, di proporre ricorso incidentale, non potendo la stessa limitarsi a ripresentarla con il controricorso, atteso che la struttura del procedimento di legittimità, che non è soggetto alla disciplina dettata per l’appello dall’art. 346 c.p.c., pone a carico dell’intimato l’onere dell’impugnazione anche in caso di soccombenza teorica e non solo pratica.

Interessante, in tema di ricorso incidentale condizionato, è Sez. 1, n. 14039/2021, Marulli, Rv. 661395-01, che ha riaffermato che il principio di salvaguardia dell’ordine logico nella trattazione delle questioni, secondo il criterio di graduazione che impone prima lo scrutinio di quelle introdotte con il ricorso principale e poi di quelle di cui al ricorso incidentale, può cedere al cospetto delle esigenze sottese al principio della ragionevole durata del processo, sicché le questioni pregiudiziali sollevate a mezzo del ricorso incidentale dalla parte totalmente vittoriosa possono formare oggetto di esame prioritario quando la loro definizione, rendendo ultroneo l’esame delle questioni sollevate con il ricorso principale, consenta una più sollecita definizione della vicenda in giudizio in base al principio della ragione più liquida. Sempre sul tema del ricorso incidentale, Sez. 6-5, n. 24800/2021, Lo Sardo, Rv. 662940-01, ha ribadito che esso (quand’anche condizionato) presuppone la soccombenza e non può, quindi, essere proposto dalla parte che sia risultata completamente vittoriosa nel giudizio di appello; quest’ultima, del resto, non ha l’onere di riproporre le domande e le eccezioni non accolte o non esaminate dal giudice d’appello, poiché l’eventuale accoglimento del ricorso principale comporta la possibilità che dette domande o eccezioni vengano riesaminate in sede di giudizio di rinvio.

Costante poi il principio, nuovamente affermato da Sez. 5, n. 17707/2021, Manzon, Rv. 661757-01, secondo cui il ricorso incidentale tardivo, proposto oltre i termini di cui agli artt. 325, comma 2, ovvero 327, comma 1, c.p.c., è inefficace qualora il ricorso principale per cassazione sia inammissibile, senza che, in senso contrario rilevi che lo stesso sia stato proposto nel rispetto del termine di cui all’art. 371, comma 2, c.p.c. (quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale). Ancora, va segnalata Sez. 3, n. 01542/2021, Scrima, Rv. 660462-02, secondo cui, per resistere al ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 371, comma 4, c.p.c., il ricorrente principale (salvo che non intenda difendersi solo in sede di discussione orale) può proporre controricorso tempestivamente notificato, ma non produrre prima dell’udienza una semplice memoria, da considerare, quindi, tamquam non esset.

Infine, Sez. L, n. 41008/2021, Cavallaro, Rv. 663366-01, ha ritenuto che la richiesta avanzata dal controricorrente per la “conferma con diversa motivazione” della sentenza impugnata contenga nella sostanza una richiesta di cassazione sostitutiva della sentenza stessa, con eguale decisione di rigetto nel merito della domanda a suo tempo proposta dagli odierni ricorrenti.

f). I requisiti di forma e contenuto del ricorso e del controricorso. L’inammissibilità.

Il tema dei requisiti di contenuto-forma del ricorso e del controricorso, previsti in via generale dagli artt. 365, 366 e 370 del codice di rito, impegna abitualmente la S.C. in numerose pronunce, trattandosi in definitiva di vagliare la sussistenza o meno delle più tipiche cause di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, oppure del primo atto responsivo dell’intimato. Ed in proposito, pare opportuno qui ribadire che il rispetto dei requisiti di contenuto-forma previsti dall’art. 366 c.p.c. non è fine a se stesso, ma è strumentale al dispiegamento della funzione che è propria di detti requisiti (così, Sez. T, n. 01150/2019, Saija, Rv. 652710-02), sicché l’atto è da considerare inammissibile quando non soltanto non rispetti i requisiti in discorso, ma quando dal loro mancato rispetto discende l’irrealizzabilità del loro fine.

Ciò premesso, sul piano generale, si segnala anzitutto Sez. 1, n. 21831/2021, Scotti, Rv. 661927-01, che ha affermato che il protocollo d’intesa fra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense non può radicare, di per sè, sanzioni processuali di nullità, improcedibilità o inammissibilità che non trovino anche idonea giustificazione nelle regole del codice di rito. Ne consegue che non può essere considerato improcedibile il ricorso ove il ricorrente non abbia provveduto alla formazione di apposito fascicoletto contenente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, atteso che l’onere del ricorrente di cui all’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., come modificato dall’art. 7 del d. lgs. n. 40 del 2006 è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, anche mediante la produzione del fascicolo di parte del giudizio di merito, mentre per gli atti e i documenti del fascicolo d’ufficio, è sufficiente il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ferma in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6 c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi.

Significativa è anche Sez. U, n. 32415/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662880-01, secondo cui il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifiche censure riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti dall’art. 360, comma 1, c.p.c., sicché, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di uno dei predetti motivi, è indispensabile che le censure individuino con chiarezza i vizi prospettati, tra quelli inquadrabili nella tassativa griglia normativa.

Il rispetto delle disposizioni sul contenuto-forma del ricorso riveste particolare rilevanza anche sotto il profilo della responsabilità aggravata, tanto vero che Sez. 3, n. 22208/2021, Di Florio, Rv. 662202-01, ha ribadito che la proposizione di un ricorso per cassazione fondato su motivi palesemente inammissibili, rende l’impugnazione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 6 CEDU) e dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie; essa, pertanto, costituisce condotta oggettivamente valutabile come "abuso del processo", poiché determina un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali e si presta, dunque, ad essere sanzionata con la condanna del soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., la quale configura una sanzione di carattere pubblicistico che non richiede l’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa dell’agente ma unicamente quello della sua condotta processualmente abusiva, consistente nell’avere agito o resistito pretestuosamente (sost. conf., Sez. 2, n. 38528/2021, Falaschi, Rv. 663164-01).

Venendo in particolare ai requisiti specificamente previsti dall’art. 366 c.p.c., nel corso del 2021 sono intervenute importanti pronunce specialmente inerenti al principio di autosufficienza del ricorso, essendosi registrate dapprima tre sentenze della Corte EDU, e successivamente ulteriori prese di posizione della S.C., anche a Sezioni Unite. Prima di approfondire le questioni, è qui opportuno evidenziare che il requisito in discorso, di matrice giurisprudenziale, viene oggi per lo più ricondotto alla disposizione normativa di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., ma spesse volte esso viene trasposto sul piano della esposizione sommaria dei fatti, processuali e sostanziali, di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., la cui funzione è però quella di rendere immediatamente intellegibili le censure mosse alla decisione impugnata. La funzione del requisito dell’autosufficienza attiene invece, a nostro avviso, al piano più propriamente probatorio, mirando essenzialmente alla dimostrazione, da parte del ricorrente, della tempestività della produzione del documento invocato a sostegno dell’impugnazione nel giudizio di merito (salvo che non si tratti di documento producibile, per la prima volta, nel giudizio di legittimità, ex art. 372 c.p.c.), fermo lo scopo illustrativo-descrittivo del contenuto del documento stesso (in ciò, i requisiti di cui ai nn. 3 e 6 dell’art. 366 c.p.c. finiscono spesso con il sovrapporsi). Non è un caso che, di frequente, il principio di autosufficienza venga ricondotto, nelle massime ufficiali, all’una o all’altra fonte normativa.

In quest’ottica, si segnalano anche alcune pronunce rese fino all’autunno del 2021. Così, in tema di pretesa responsabilità del Ministero dell’Economia quale azionista di maggioranza di Alitalia, Sez. 3, n. 15276/2021, Olivieri, Rv. 661628-02, ha affermato che il ricorso per cassazione con il quale si censura la ritenuta non configurabilità della responsabilità dell’amministrazione dello Stato ex art. 2497, comma 1, c.c. da parte del giudice di merito, deve contenere una esaustiva e puntuale descrizione delle condotte materiali tenute dall’ente pubblico, integranti "attività di direzione e coordinamento" ai sensi della predetta norma, non essendo consentito al giudice di legittimità sopperire a tale lacuna mediante l’esame della sentenza impugnata o degli altri atti regolamentari, con la conseguenza che, in mancanza di tale indicazione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per difetto di compiuta esposizione del fatto ex art. 366, c. 1, n. 3 c.p.c.

Ancora Sez. 3, n. 19989/2021, Scrima, Rv. 661839-01, ha affermato che ove si denunci il vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione di consulenza e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione.

Come si vede, dunque, il principio in questione viene in tal caso più ricondotto al disposto dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., più che al n. 6 della stessa disposizione.

Nello stesso senso, Sez. 1, n. 24048/2021, Falabella, Rv. 662388-01, ha affermato che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un "error in procedendo", presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche puntualmente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, dovendo tale specificazione essere contenuta, a pena d’inammissibilità, nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso.

In questo quadro interpretativo, sono intervenute le tre coeve sentenze della Corte EDU, pubblicate il 28 ottobre 2021 (note come “Succi ed altri contro Italia”, nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/14). Nel rinviare, per maggiori approfondimenti, alla Relazione tematica di questo Ufficio n. 116/2021 (Red. D’Ovidio), può qui rilevarsi che i giudici di Strasburgo hanno ritenuto in linea di principio legittimo e del tutto coerente con l’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo il principio di autosufficienza, come elaborato dalla giurisprudenza, mirando esso a semplificare l’attività della Corte di cassazione e a garantire, al contempo, la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia. Tuttavia, la stessa Corte EDU ha chiaramente affermato che detto principio, nella sua applicazione concreta, può mantenere la sua legittimità ove si attenga alla proporzionalità delle restrizioni, rispetto al suo scopo legittimo, occorrendo in particolare tenere presente due fattori: 1) che l’applicazione concreta del principio non riveli un eccessivo formalismo, non congruente rispetto allo scopo legittimo; 2) che la restrizione sia prevedibile.

A questa stregua, la Corte di Strasburgo, pur dando atto di un progressivo adeguamento a tali esigenze, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire dal 2012, ha tuttavia ritenuto non coerente con i suddetti fattori, perché affetto da eccessivo formalismo, quell’orientamento che tutt’ora esige la trascrizione dei documenti o degli atti su cui si fonda il motivo, oltre alla loro indicazione e “localizzazione”, nei termini di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. Al contempo, la stessa Corte EDU ha invece ritenuto compatibile con l’art. 6 della Convenzione una perimetrazione del principio di autosufficienza che ne comporti l’applicabilità, ai fini della declaratoria di inammissibilità, al ricorso privo di puntuali riferimenti ai documenti presenti nei fascicoli dei giudizi di merito. Nello stesso tempo, la Corte EDU ha ritenuto del tutto compatibile con l’art. 6 della Convenzione quella giurisprudenza che, avuto riguardo alla esposizione dei fatti di causa (art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c.), richiede un’attività di sintesi e chiarezza, occorrendo selezionare i fatti alla luce delle censure che si intendono svolgere, riassumendo gli aspetti rilevanti del procedimento di merito.

Pare opportuno, a tal punto, trascrivere testualmente le conclusioni di cui alla citata Relazione tematica, perché senz’altro utili sia a fare il punto, sulle questioni già trattate, sia a costituire una base di riflessione avanzata per quanto ancora occorre esaminare.

“5.4. Sintesi delle rispondenze e dissonanze dell’attuale giurisprudenza della Corte di Cassazione con i principi affermati nella sentenza della CEDU del 28 ottobre 2021 (Succi ed altri contro Italia).

a) Viola l’art. 6 della Convenzione, in quanto affetto da eccessivo formalismo e non prevedibile, quell’orientamento di una parte della giurisprudenza di legittimità che impone l’onere della integrale trascrizione degli atti o documenti di causa su cui il motivo si fonda.

b) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere di “localizzare” gli atti ed i documenti su cui il motivo si fonda, inteso come onere di allegazione e indicazione dei riferimenti utili al reperimento del documento originale nei fascicoli del processo di merito.

c) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere della esposizione sommaria dei fatti, intesa come un’attività di sintesi e chiarezza, la quale implica uno sforzo da parte dell’avvocato di selezionare i fatti alla luce delle censure che intende svolgere.

d) Non viola l’art. 6 della Convenzione la giurisprudenza di legittimità sul cd. “assemblaggio”, in particolare nel suo orientamento più recente, il quale sembra essersi stabilizzato nel senso di dichiarare l’inammissibilità del ricorso in cui siano stati “assemblati” atti o documenti solo quando il motivo non possa essere ricondotto al canone di sinteticità, nel rispetto del principio di autosufficienza, inteso nel suo scopo legittimo.

f) Non violano l’art. 6 della Convenzione quelle interpretazioni giurisprudenziali delle regole redazionali dei ricorsi per cassazione che, prescindendo dal rigore formalistico, portano a ritenere ammissibile il motivo nei casi in cui esso sia comunque in grado di consentire il raggiungimento dello scopo suo proprio, consistente nell’identificazione della violazione che si assume viziare la sentenza e che fonda la richiesta di annullamento.

e) Meritano una riflessione alla luce della sentenza Succi e altri c/Italia, sotto il profilo della loro compatibilità con i criteri di prevedibilità e di proporzionalità rispetto alla inammissibilità che ne può conseguire, le disomogeneità della giurisprudenza interna, come sopra evidenziate, in tema di: 1) ammissibilità o meno della esposizione sommaria dei fatti insieme ai motivi; 2) necessità o meno della esplicita indicazione delle norme di legge violate; 3) ammissibilità o meno dei motivi cd. “misti”.

Ciò posto, dopo la pubblicazione delle tre sentenze della Corte di Strasburgo (che, è bene evidenziarlo, in un solo caso hanno statuito la condanna dello Stato italiano per violazione dell’art. 6 della Convenzione, peraltro in fattispecie in cui, come anche osservato da attenta dottrina, il ricorrente avrebbe ben potuto attingere all’impugnazione straordinaria della revocazione per errore di fatto), sono anche intervenute le Sezioni Unite (Sez. U, n. 37552/2021, Giusti, Rv. 662971-01), che – alle prese con un ricorso avverso una sentenza della Corte dei conti di quattordici pagine, fondato su un solo motivo ed articolato in oltre novanta pagine, con testo complessivo caratterizzato da una eccessiva e non necessaria lunghezza e da una certa farraginosità dell’esposizione – ha affermato che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. Nella specie, dunque, la S.C. ha respinto l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in quanto esso, nonostante le riportate anomalie, consentiva di comprendere lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza le censure rivolte alla sentenza impugnata.

Per quanto concerne la specificità dei motivi di ricorso, requisito prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., va anzitutto segnalata Sez. 5, n. 00342/2021, Galati, Rv. 660233-01, che ha affermato che l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, prescritto qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata. Ancora sul piano generale, Sez. 1, n. 00995/2021, Lamorgese, Rv. 660378-01, ha affermato che la censura svolta dal ricorrente che lamenti la mancata applicazione del criterio di interpretazione letterale, per non risultare inammissibile deve essere specifica, dovendo indicare quale sia l’elemento semantico del contratto che avrebbe precluso l’interpretazione letterale seguita dai giudici di merito e, al contrario, imposto una interpretazione in senso diverso; nel giudizio di legittimità, infatti, le censure relative all’interpretazione del contratto offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo in relazione al profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della radicale inadeguatezza della motivazione, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, mentre la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta dai giudici di merito non riveste alcuna utilità ai fini dell’annullamento della sentenza impugnata.

In tema di protezione internazionale, si segnala Sez. 1, n. 00899/2021, Dell’Orfano, Rv. 660278-01, secondo cui è inammissibile il motivo con il quale si censuri l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI acquisite d’ufficio, ove il motivo stesso non indichi in quale modo l’omessa conoscenza delle COI da parte del richiedente abbia inficiato il giudizio conclusivo del giudice, né si alleghino nel ricorso altre e diverse fonti di conoscenza che si pongano in contrasto con le informazioni acquisite dal tribunale, così rendendo la censura priva di specificità.

Interessante, in tema di impugnazione di lodo arbitrale per nullità, è anche Sez. 1, n. 14041/2021, Marulli, Rv. 661492-01, secondo cui la prospettazione "a grappolo" di un insieme di pretesi vizi della pronuncia arbitrale non è ragione di inammissibilità del gravame per difetto di specificità dei motivi, quando, scandagliandone la formulazione, sia possibile scindere il contenuto cassatorio di ciascuna censura e - indipendentemente dalla rubricazione e, ancor più, dalla correttezza della indicazione numerica adottata - sia identificabile il parametro normativo di riferimento tra quelli enunciati dall’art. 829 c.p.c., operando una valutazione in tutto simile a quella che compie il giudice di legittimità nell’esaminare il ricorso per cassazione contenente, in un unico motivo, più profili di doglianza. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 39169/2021, Scotti, Rv. 663425 – 02, ha affermato che l’inammissibilità della censura per sovrapposizione di motivi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c., può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati. Per contro, Sez. 6-L, n. 36881/2021, Amendola F., Rv. 662938-01, ha ritenuto l’inammissibilità del motivo che contiene la contemporanea deduzione di violazione di disposizioni di legge e di contratto collettivo, oltre alla doglianza di una erronea valutazione dei fatti di causa, con riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, c.p.c., senza adeguata indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi tra quelli tipicamente indicati, in quanto la sovrapposizione di censure di diritto, sostanziali e processuali, non consente alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate, dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irredimibile eterogeneità. Ancora sul tema, Sez. 5, n. 06150/2021, Putaturo Donato Viscido di Nocera, Rv. 660696-01, ha affermato che è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360, n. 4, c.p.c. e non con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo previgente), mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.

In ambito di revocazione, Sez. 6-2, n. 26161/2021, Varrone, Rv. 662332-01, ha affermato che il ricorso è soggetto al disposto dell’art. 366 c.p.c., secondo cui la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intellegibile del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c.; ne consegue che il mancato rispetto di tali requisiti espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, non consentendo la valorizzazione dello scopo del processo, volto, da un lato, ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nell’ambito dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU e, dall’altro, ad evitare di gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.

Per quanto concerne la procura speciale, che deve essere indicata ex art. 366, comma 1, n. 5, c.p.c., e di cui deve essere comunque munito l’avvocato che sottoscrive il ricorso o il controricorso, ex artt. 365 e 370 c.p.c., si segnala anzitutto la recentissima Sez. U, n. 35466/2021, Graziosi, Rv. 662974-01, che – risolvendo il contrasto di giurisprudenza sul punto – ha affermato che la procura ex artt. 83, comma 3, e 365 c.p.c., se incorporata nell’atto di impugnazione, si presume rilasciata anteriormente alla notifica dell’atto che la contiene, sicché non rileva, ai fini della verifica della sussistenza della procura, la sua mancata riproduzione o segnalazione nella copia notificata, essendo sufficiente, per l’ammissibilità del ricorso per cassazione, la sua presenza nell’originale. Ancora sul piano generale, Sez. 3, n. 15706/2021, Valle, Rv. 66 1629-01, ha ribadito che la sottoscrizione del ricorso per cassazione e l’esistenza di una valida procura speciale devono necessariamente sussistere all’atto della notificazione dell’impugnazione, connotandosi alla stregua di requisiti di ritualità della stessa, la cui mancanza è insanabile, senza che assumano rilievo attività o atti successivi al momento della notifica.

Peculiare, com’è noto, è la disciplina in tema di protezione internazionale; al riguardo, si segnala Sez. 1, n. 02955/2021, Campese, Rv. 660564-01, che ha affermato che, ai sensi dell’articolo 35 bis, comma 13, del d.lgs n. 25 del 2008, il conferimento della procura alle liti per proporre ricorso per cassazione, al fine di assolvere al requisito della posteriorità alla comunicazione del decreto impugnato, va certificato nella sua data di rilascio dal difensore. Ne consegue che è inammissibile il ricorso nel quale la procura (nella specie allegata all’atto) indichi, quale sua data di conferimento, un giorno anteriore a quello di pubblicazione del decreto impugnato, non assolvendo alla funzione certificatore la sola autentica della firma, né il citato requisito potendo discendere dalla mera sequenza notificatoria (conf., Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-01). Sempre in tema di protezione internazionale, si veda, però, Sez. L, n. 31191/2021, Cinque, Rv. 662994-01, secondo cui deve essere dichiarata la giuridica inesistenza della procura speciale rilasciata al difensore al fine della proposizione del ricorso per cassazione, apposta su foglio separato e materialmente congiunto all’atto, quando risulti priva di uno specifico riferimento al provvedimento impugnato e riporti solo la generica indicazione "nel presente giudizio pendente davanti alla Corte di cassazione", senza altro elemento identificativo; ne consegue l’inammissibilità del ricorso, che deve essere dichiarata d’ufficio, in quanto l’art. 83 c.p.c. configura come un obbligo del giudice quello della verifica dell’effettiva estensione della procura conferita, principalmente a garanzia della stessa parte che l’ha rilasciata, affinché la medesima non risulti esposta al rischio del coinvolgimento in una controversia diversa da quella voluta, per effetto dell’autonoma iniziativa del proprio difensore.

Non provoca la nullità della procura – secondo Sez. 1, n. 05067/2021, Scalia, Rv. 660519-01 - l’errata indicazione del codice fiscale del ricorrente nella procura stessa, restando esclusa una insuperabile incertezza sull’identità di colui che abbia conferito il mandato, comunque deducibile dai dati anagrafici riportati nell’atto difensivo e nella stessa procura speciale. Ancora, Sez. 6-3, n. 09862/2021, Dell’Utri, Rv. 661142-01, ha rilevato che il tardivo deposito della procura speciale a ricorrere comporta l’inammissibilità dell’impugnazione, cui consegue la condanna a pagare le spese di lite a carico non del difensore ma del suo assistito, al quale l’attività processuale compiuta va riferita in ragione dell’effettivo rilascio della detta procura. Sempre a tal ultimo riguardo, Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-02, ha affermato che il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione conseguente alla mancata presenza, all’interno della procura speciale, della data o della certificazione del difensore della sua posteriorità rispetto alla comunicazione del provvedimento impugnato, va posto a carico della parte ricorrente e non del difensore, risultando la procura affetta da nullità e non da inesistenza.

Le spese vanno invece poste a carico del difensore – secondo Sez. 5, n. 17360/2021, Fanticini, Rv. 661475-01 – ove l’inammissibilità del ricorso per cassazione sia proposto dall’ex legale rappresentante di una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, perché la procura speciale conferita al difensore, indispensabile per la proposizione dell’impugnazione, è giuridicamente inesistente, in ragione della mancanza del mandante.

Questione diversa, seppur connessa (occorrendo pur sempre che la procura speciale sia rilasciata da soggetto dotato della necessaria capacità), è quella decisa da Sez. 5, n. 00576/2021, Dell’Orfano, Rv. 660237-01, che ha ribadito il costante orientamento secondo cui il principio per cui la persona fisica che riveste la qualità di organo della persona giuridica non ha l’onere di dimostrare tale veste, spettando invece alla parte che ne contesta la sussistenza l’onere di formulare tempestiva eccezione e fornire la relativa prova negativa, si applica anche al caso in cui la persona giuridica si sia costituita in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante, se tale potestà deriva dall’atto costitutivo o dallo statuto, mentre laddove il conferimento dei poteri rappresentativi del soggetto che si costituisce nel giudizio di cassazione sia avvenuto con procura notarile, questa deve essere depositata con il ricorso o il controricorso, a pena di inammissibilità (conf., Sez. 3, n. 24893/2021, Scrima, Rv. 662207-01).

g). I vizi denunciabili.

Rinviando, quanto alle questioni di giurisdizione e di competenza, ai relativi capitoli di questa Rassegna, si procederà di seguito ad indicare le più significative pronunce sui restanti vizi proponibili con ricorso ordinario, ai sensi dell’art. 360, comma 1, c.p.c.

Iniziando dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., Sez. 5, n. 18998/2021, Saija, Rv. 661805-01, ha ribadito che l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare - con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni - la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa.

Sez. L, n. 34424/2021, Cavallaro, Rv. 662777-01, ha poi precisato che ai fini della denuncia, con il ricorso per cassazione, della violazione di norme di diritto, assumono rilievo solo le statuizioni del giudice di appello relative ai motivi e alle richieste formulate dall’appellante, mentre consegue la formazione del giudicato interno sulle questioni che abbiano formato oggetto di dibattito in primo grado, e della relativa pronunzia, e che non siano state ritualmente riproposte dalla parte interessata in sede di gravame.

Alcune pronunce attengono al tema dell’interpretazione del contratto, le cui norme si assumono violate. Si segnala, in proposito, Sez. 1, n. 09461/2021, Falabella, Rv. 661265-01, secondo cui – posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito - il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata.

In quest’ambito, di particolare interesse è Sez. 3, n. 15603/2021, Iannello, Rv. 661741, che – ravvisando uno stretto collegamento funzionale tra i due contratti di locazione oggetto di giudizio, tale da consentire una considerazione unitaria dell’intera operazione negoziale - ha precisato che a differenza dell’attività di interpretazione del contratto, che è diretta alla ricerca della comune volontà dei contraenti e integra un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, l’attività di qualificazione giuridica è finalizzata a individuare la disciplina applicabile alla fattispecie e, affidandosi al metodo della sussunzione, è suscettibile di verifica in sede di legittimità non solo per ciò che attiene alla descrizione del modello tipico di riferimento, ma anche per quanto riguarda la rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati e le implicazioni effettuali conseguenti (alla luce di tale principio, si è quindi ritenuto di dover qualificare il complesso accordo in termini di affitto di azienda).

Incorre nel vizio di sussunzione – secondo Sez. 3, n. 36718/2021, Valle, Rv. 663187-01 - il giudice di merito che, in ragione dell’inagibilità dell’immobile, escluda in ogni caso la configurabilità di un danno ai sensi dell’art. 2053 c.c. tenuto conto che la caduta del tetto dell’immobile - come nella specie - anche se fatiscente, costituisce una fattispecie di danno da rovina di edificio in quanto l’evento lascia il cespite esposto alle intemperie e, dunque, in una condizione diversa da quella precedente.

In ambito giuslavoristico, si segnala Sez. L, n. 00551/2021, Spena, Rv. 660172-01, che ha affermato che la denuncia ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., come modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, della violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammissibile limitatamente ai contratti nazionali, con esclusione dunque dei contratti provinciali, anche delle province autonome, senza che tale limitazione possa dar luogo a un dubbio di costituzionalità, atteso che il rilievo nazionale della disciplina, che giustifica l’intervento nomofilattico e la parificazione di disposizioni negoziali a norme di diritto, rappresenta altresì l’elemento differenziale tra le fattispecie sufficiente a giustificare l’esercizio della discrezionalità del legislatore statale nel disciplinare i rimedi giurisdizionali. Ancora in tale ambito, Sez. L, n. 24408/2021, Lorito, Rv. 662174-01, ha affermato che il ricorrente che assume che vi sia stata una violazione di legge, contestando l’avvenuta applicazione del diritto italiano per essere, invece, applicabile il diritto di uno Stato estero, ha l’onere di specificare quale sia almeno la diversa regola o principio del diritto straniero a suo avviso in concreto applicabile, atteso che anche il vizio di violazione di legge deve, per regola generale, essere decisivo, ossia tale da comportare, se sussistente, una decisione diversa, favorevole al ricorrente; solo dopo che la parte abbia rispettato il suddetto onere, relativamente alle fattispecie interamente regolate dall’art. 14 della l. n. 218 del 1995, sorge l’obbligo del giudice - anche della Corte di cassazione - di ricercare, anche d’ufficio e con ogni mezzo, le norme giuridiche dell’ordinamento straniero che interessano.

Con riguardo al tema della valutazione delle prove, sembra porsi in linea con Sez. U, n. 20867/2020, De Stefano, Rv. 659037-02, la pronuncia di Sez. 3, n. 34786/2021, Scoditti, Rv. 663118-01, secondo cui il potere del giudice di valutazione della prova non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 116 c.p.c., quale apprezzamento riferito ad un astratto e generale parametro non prudente della prova, posto che l’utilizzo del pronome "suo" è estrinsecazione dello specifico prudente apprezzamento del giudice della causa, a garanzia dell’autonomia del giudizio in ordine ai fatti relativi, salvo il limite che "la legge disponga altrimenti". Senz’altro coerente con orientamento consolidato è Sez. 3, n. 15276/2021, Olivieri, Rv. 661628-01, secondo cui esula dal vizio di legittimità ex art. 360, n. 5, c.p.c. qualsiasi contestazione volta a criticare il "convincimento" che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, commi 1 e 2 c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (conf. Sez. 2, n. 20553/2021, Dongiacomo, Rv. 661734-01).

Per quanto riguarda la nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., va qui anzitutto richiamata Sez. 2, n. 28072/2021, Bellini, Rv. 662554-01, che ha ribadito che la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi.

Si consolida ulteriormente il principio della nullità “in concreto”; Sez. 3, n. 27419/2021, Gorgoni, Rv. 662418-01, ha infatti ribadito che la parte che propone ricorso per cassazione deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata (sost. conf., sul punto, Sez. 1, n. 28565/2021, Acierno, Rv. 662856-01).

Peculiare è la fattispecie in Sez. L, n. 06494/2021, Garri, Rv. 660631-01, che ha affermato che la sottoscrizione di una sentenza emessa da un organo collegiale ad opera di un magistrato che non componeva il collegio giudicante, in luogo del magistrato (nella specie, il presidente) che ne faceva parte e che avrebbe dovuto sottoscriverla, integra l’ipotesi della mancanza della sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, disciplinata dagli artt. 132 e 161, comma 2, c.p.c. Il difetto di detta sottoscrizione, se rilevato, anche d’ufficio, nel giudizio di cassazione, comporta dunque la dichiarazione di nullità della sentenza ed il rinvio della causa, ai sensi degli artt. 354, comma 1, 360, comma 1, n. 4, e 383, comma 4, c.p.c., al medesimo giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione, il quale viene investito del potere-dovere di riesaminare il merito della causa stessa e non può limitarsi alla mera rinnovazione della sentenza. Sempre sul tema - in fattispecie in cui il ricorso per cassazione era stato proposto, dopo il decorso dei termini di decadenza per l’impugnativa, al fine di ottenere la declaratoria di nullità della sentenza di appello, derivata dalla nullità radicale della sentenza di primo grado, asseritamente priva della sottoscrizione del giudice - Sez. 6-L, n. 09910/2021, Ponterio, Rv. 661124-01, ha precisato che la cd. inesistenza giuridica o la nullità radicale di una sentenza può essere fatta valere o mediante un’autonoma azione di accertamento negativo ("actio nullitatis") esperibile in ogni tempo, oppure attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione dinanzi al giudice sovraordinato (secondo i casi, appello o ricorso per cassazione), i quali, tuttavia, come rimedi alternativi all’"actio nullitatis", devono essere esperiti secondo le regole loro proprie, e, quindi, tempestivamente, nel rispetto dei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c.

Quanto alla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c., si segnala anzitutto Sez. 3, n. 25359/2021, Iannello, Rv. 662405-01, secondo cui, quando la parte che ha interesse all’esame di un fatto - ancorché secondario, ma in astratto rilevante per la dimostrazione del fatto costitutivo della domanda - ne ha rilevato l’esistenza ed ha chiesto di vagliarlo, la censura con cui denunciare l’omesso esame della questione (nella specie già riproposta con l’appello) è da proporsi ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., trattandosi di "error in procedendo" determinato dalla violazione dell’art. 112 c.p.c., e con deduzioni specifiche e idonee ad individuare il fatto su cui il giudice di merito mancò di pronunciarsi.

Ancora, Sez. 3, n. 00459/2021, Scoditti, Rv. 660195-01, ha affermato che integra violazione dell’art. 112 c.p.c. l’omessa pronuncia sul fatto avente effetto impeditivo, modificativo o estintivo, allegato dal convenuto in funzione di eccezione ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c., mentre è suscettibile di determinare vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. la pretermissione da parte del giudice del fatto secondario, allegato in funzione di contestazione dell’esistenza storica del fatto principale dedotto dall’attore. Sez. 2, n. 01616/2021, Giusti, Rv. 660163-02, ha poi precisato che il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 02151/2021, Iannello, Rv. 660437-01, ha affermato che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale vizio, pertanto, non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione. Sez. 3, n. 09255/2021, Scoditti, Rv. 661072-01, ha poi evidenziato che si determina violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato nell’ipotesi in cui il giudice del merito sostituisca la "causa petendi" dedotta dall’attore con una differente, fondata su un fatto diverso da quello posto a fondamento della domanda.

Ancora, Sez. 3, n. 02830/2021, D’Arrigo, Rv. 660521-01, ha stabilito che nel caso in cui, pur in mancanza di espresso esame del motivo di impugnazione relativo alle spese di primo grado, l’appello sia stato interamente rigettato nel merito con condanna dell’appellante al pagamento integrale delle spese di lite anche del secondo grado, non ricorre l’ipotesi dell’omesso esame di un motivo di appello, né quella del difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (cd. "minuspetizione"), atteso che la condanna alle spese del secondo grado implica necessariamente il giudizio sulla correttezza di quella pronunciata dal primo giudice, sicché il motivo di gravame relativo a tale condanna deve intendersi implicitamente respinto e assorbito dalla generale pronuncia di integrale rigetto dell’impugnazione e piena conferma della sentenza di primo grado.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 05257/2021, Di Florio, Rv. 660604-01, ha precisato che qualora il giudice d’appello ometta di pronunciarsi sull’eccezione di tardività del gravame, la parte che intende evitare sul punto la formazione del giudicato ha l’onere di impugnare per cassazione la sentenza d’appello invocando il vizio di omessa pronuncia, mentre non può limitarsi a riproporre puramente e semplicemente in sede di legittimità la questione della tardività dell’appello. Ancora, Sez. 3, n. 41205/2021, Iannello, Rv. 663494-01 ha ribadito che la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare - a pena di inammissibilità - che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni.

In tema di valutazione delle prove, eccentrica – rispetto a quanto visto supra – appare Sez. 6-2, n. 27847/2021, Fortunato, Rv. 662803-01, secondo cui il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice di merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto che va censurato nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

Assai interessante è Sez. 2, n. 11438/2021, Carrato, Rv. 661094-01, che ha affermato che l’attribuzione al danneggiato del risarcimento per equivalente, invece della richiesta reintegrazione in forma specifica, non viola il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, perché il risarcimento per equivalente, che il giudice del merito può disporre anche d’ufficio, nell’esercizio del suo potere discrezionale, costituisce un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, con la conseguenza che la relativa richiesta è implicita nella domanda giudiziale di reintegrazione in forma specifica; per contro, non è consentito al giudice, senza violare l’art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta. Sempre in ambito risarcitorio da fatto illecito, Sez. 3, n. 12159/2021, Scarano, Rv. 661324-01, ha ribadito che costituisce violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., il prescindere dalla specifica quantificazione formulata dalla parte in ordine a ciascuna delle voci di danno oggetto della domanda, salvo che tali indicazioni non siano da ritenere - in base ad apprezzamento di fatto concernente l’interpretazione della domanda e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione - meramente indicative.

Infine, Sez. 5, n. 20363/2021, Di Marzio P., Rv. 661884-01 ha ribadito che l’omessa pronuncia, qualora abbia ad oggetto una domanda inammissibile, non costituisce vizio della sentenza e non rileva nemmeno come motivo di ricorso per cassazione, in quanto, alla proposizione di una tale domanda, non consegue l’obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito.

Sotto altro versante, è noto che la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, ha ridimensionato il vizio motivazionale denunciabile in sede di legittimità, riportandolo nell’alveo del c.d. "minimo costituzionale" (si veda, in particolare, Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629830-01). In continuità con il consolidato principio così affermato, si sono pronunciate la già citata Sez. 1, n. 10253/2021, Lamorgese, Rv. 661151-01, nonché Sez. 6-3, n. 18795/2021, Guizzi, Rv. 661913-01, che ha ribadito che il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno dei criteri da utilizzare per la liquidazione equitativa del danno, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Ne consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell’operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del "minimo costituzionale" richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost.) sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c.

Anche nel corso del 2021, non risulta massimata nessuna pronuncia concernente il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo oramai non più in vigore dal 11 settembre 2012 (fatta eccezione per la già citata Sez. 5, n. 06150/2021), e ciò sebbene risultino decisi 620 ricorsi iscritti nel 2012 (restando peraltro confermato il trend in diminuzione). Si rinvia pertanto al par. 1, quanto alle pronunce concernenti la nuova formulazione della norma.

h). Ulteriori questioni procedurali.

Riguardo al termine per la proposizione del ricorso ordinario, va anzitutto segnalata Sez. L, n. 03557/2021, Torrice, Rv. 660528-01, che ha ritenuto che ai fini della decorrenza del termine breve per proporre il ricorso per cassazione, è possibile procedere alla notificazione della sentenza presso il domicilio fisico eletto dal destinatario anche dopo l’introduzione, da parte dell’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012 (inserito dall’art. 52, comma 1, d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla l. n. 114 del 2014), della notificazione al cd. domicilio digitale, alla quale non può essere riconosciuto carattere esclusivo. Per contro, Sez. 3, n. 39970/2021, Porreca, Rv. 663188-01, ha ritenuto che, nonostante l’indicazione della parte destinataria di un domicilio "fisico" ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, sia possibile procedere alla notificazione della sentenza d’appello presso il domiciliatario mediante posta elettronica certificata, poiché il domicilio digitale, pur non indicato negli atti, può essere utilizzato per la notificazione in questione in quanto le due opzioni concorrono.

In ambito tributario, assai peculiare è il principio affermato da Sez. 6-5, n. 31779/2021, Cataldi, Rv. 663093-02, secondo cui la notifica della sentenza effettuata in via telematica con unico invio, unitamente ad altre sentenze rese tra le stesse parti in altrettanti procedimenti pendenti, è idonea a far decorrere il termine breve per proporre il ricorso per cassazione, spettando in ogni caso al notificante - in caso di specifica contestazione circa il mancato inserimento della sentenza impugnata tra quelle spedite - l’onere di provare che l’invio telematico conteneva anche la sentenza in questione.

Per quanto concerne la rinuncia al ricorso per cassazione, deve anzitutto segnalarsi Sez. 6-3, n. 00414/2021, Guizzi, Rv. 660413-01, che ha ribadito che la rinuncia ad uno o più motivi di ricorso, che rende superflua una decisione in ordine alla fondatezza o meno di tali censure, è efficace anche in mancanza della sottoscrizione della parte o del rilascio di uno specifico mandato al difensore, in quanto, implicando una valutazione tecnica in ordine alle più opportune modalità di esercizio della facoltà d’impugnazione e non comportando la disposizione del diritto in contesa, è rimessa alla discrezionalità del difensore stesso, e resta, quindi, sottratta alla disciplina di cui all’art. 390 c.p.c. per la rinuncia al ricorso.

Peculiare è la fattispecie di Sez. 2, 07041/2021, Abete, Rv. 660828-01, resa in tema di equa riparazione ex lege Pinto, essendosi affermato che la rinuncia al ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 390 c.p.c. è assimilabile alla rinuncia agli atti del giudizio ex art. 306 c.p.c., della quale adatta la regola al giudizio di legittimità, con conseguente estensione a siffatta ipotesi della presunzione relativa di non spettanza dell’indennizzo per rinuncia o inattività delle parti, ex art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, come introdotto dalla l. 208 del 2015, il cui superamento richiede la dimostrazione specifica del "patema d’animo" sofferto a causa e per effetto dell’irragionevole protrazione del giudizio presupposto, sino al deposito del provvedimento di estinzione ex art. 391 c.p.c.

Sul tema della produzione documentale, va qui segnalata Sez. 6-3, n. 24942/2021, Positano, Rv. 662218-01, che ha ribadito che nel giudizio di legittimità possono essere prodotti ex art. 372 c.p.c. i documenti (ancorché nuovi) volti a dimostrare la nullità della sentenza impugnata derivante da vizi propri dell’atto.

Quanto ai poteri della Corte di cassazione, sul piano generale va anzitutto segnalata Sez. L, n. 41465/2021, Bellè, Rv. 663411-01, che ha ribadito il principio per cui quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare. Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che detto consolidato principio sia valevole anche in relazione all’interpretazione della portata, ai fini e per gli effetti dell’art. 112 c.p.c., dell’originaria domanda giudiziale, consentendo alla S.C. l’esame diretto della correttezza delle valutazioni in proposito rese dai giudici di merito.

Ancora, Sez. 1, n. 04227/2021, Campese, Rv. 660498-02, ha confermato che nei ricorsi in materia elettorale la Corte di cassazione è giudice non solo di legittimità ma anche di merito, sicché la Corte può procedere all’esame diretto degli atti, indipendentemente dalla valutazione che ne ha fatto il giudice di appello, disponendo di poteri di diretta cognizione dei fatti di causa nell’ambito delle risultanze probatorie già acquisite nei precedenti gradi del giudizio. Sez. 6-1, n. 04272/2021, Terrusi, Rv. 660590-01, ha poi ribadito che, in base al principio "iura novit curia" la Corte può individuare d’ufficio i profili di diritto rilevanti per decidere le questioni sottoposte con i motivi di impugnazione, purché la decisione impugnata non sia coperta sul punto da giudicato interno.

Quanto alle conseguenze del mutamento di giurisprudenza, Sez. L, n. 00552/2021, Balestrieri, Rv. 660089-01, ha negato che detto mutamento - avuto riguardo all’obbligo di repechage (non essendosi più ritenuto necessaria l’allegazione dei posti disponibili da parte del lavoratore) - concreti overruling, in quanto il prospective overruling garantisce alla parte il diritto di azione e di difesa, neutralizzando i mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo, imponendo di ritenere produttivo di effetti l’atto di parte posto in essere con modalità e forme ossequiose dell’orientamento dominante al momento del compimento dell’atto stesso, ma poi ripudiato. Non è invocabile, quindi, per il caso di mutamenti giurisprudenziali che riguardino norme sostanziali, perché in detta ipotesi non è precluso alla parte il diritto di azione ed al giudice il potere di dirimere la controversia.

In tema di protezione internazionale, Sez. L, n. 29926/2021, Esposito, Rv. 662655-01, ha invece affermato che nelle controversie in materia di protezione internazionale, l’appello ex art. 702-quater c.p.c. avverso la decisione di primo grado deve essere proposto, alla stregua dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, come modificato dall’art. 27, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 142 del 2015, con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma. Tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce secondo la Corte un "overruling" processuale, in virtù del quale devono ritenersi comunque ammissibili gli appelli introdotti con citazione e depositati oltre il trentesimo giorno successivo alla comunicazione dell’ordinanza impugnata, in epoca antecedente all’affermarsi del nuovo orientamento.

Infine, Sez. 6-2, n. 32827/2021, Criscuolo, Rv. 662838-01, in relazione allo strumento processuale utilizzabile per contrastare l’autenticità di un testamento olografo – questione poi superata da Sez. U, n. 12307/2015 -, ha affermato che l’intervento regolatore delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, induce ad escludere che possa essere ravvisato un errore scusabile, ai fini dell’esercizio del diritto alla rimessione in termini, ai sensi dell’art. 153 c.p.c. o dell’abrogato art. 184-bis c.p.c., in capo alla parte che abbia confidato sull’orientamento che non sia poi prevalso, atteso che il detto intervento, non essendo preceduto da un orientamento univoco, non dà luogo ad una fattispecie di "overruling", postulando essa un rivolgimento ermeneutico avente carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso.

Avuto poi riguardo al regime di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (c.d. raddoppio del contributo unificato), nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, l. n. 228 del 2012, nel solco di Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-02, 03, 04, 05 e 06, può qui segnalarsi Sez. 6-1, n. 04731/2021, Campese, Rv. 660741-01, che ha ribadito che l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato dipende dalla coesistenza di due presupposti, l’uno di natura processuale, e cioè che il giudice abbia adottato una pronuncia di integrale rigetto o di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la cui verifica spetta al giudice ordinario, l’altro di natura sostanziale, ovvero che la parte che ha proposto l’impugnazione sia tenuta al versamento del contributo unificato iniziale, soggetto al sindacato del giudice tributario.

Interessante è Sez. 2, n. 05426/2021, Oricchio, Rv. 660699-01, che ha precisato che i presupposti per l’applicazione del versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale (c.d. doppio contributo) sussistono solo allorché si è in presenza di un giudizio di tipo impugnatorio, così escludendone la debenza nel giudizio di reclamo innanzi alla Corte di appello avverso il provvedimento disciplinare assunto nei confronti di un notaio da una Commissione regionale di disciplina.

Sez. 3, n. 20697/2021, Guizzi, Rv. 662193-01, ha poi ribadito che in tema di impugnazione, il meccanismo sanzionatorio del raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, è applicabile solo ove il procedimento per cassazione si concluda con integrale conferma della statuizione impugnata, ovvero con la "ordinaria" dichiarazione di inammissibilità del ricorso, non anche nell’ipotesi di declaratoria di inammissibilità sopravvenuta di quest’ultimo per cessazione della materia del contendere, poiché essa determina la caducazione di tutte le pronunce emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in cosa giudicata, rendendo irrilevante la successiva valutazione della virtuale fondatezza, o meno, del ricorso in quanto avente esclusivo rilievo in merito alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Infine, Sez. 5, n. 37166/2021, Fuochi Tinarelli, Rv. 663142-02, ha precisato che i presupposti per l’applicazione del versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale (c.d. doppio contributo), sussistono solo in presenza della natura giudiziale del provvedimento oggetto dell’impugnazione, restando escluse impugnazioni che, pur proposte con ricorso per cassazione, riguardino un atto amministrativo, così negandone la debenza in relazione all’impugnazione del provvedimento di diniego di condono.

4. Il giudizio di rinvio.

Numerose pronunce, infine, hanno riguardato il giudizio di rinvio. Di seguito le più significative.

Anzitutto, in linea con consolidato orientamento, Sez. 3, n. 01542/2021, Scrima, Rv. 660462-01, ha ribadito che il collegio che giudichi del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza pronunciata dal giudice di rinvio può essere composto anche da magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, senza che sussista alcun obbligo di astensione a loro carico ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., in quanto tale partecipazione non determina alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice, e ciò a prescindere dalla natura del vizio che ha determinato la pronuncia di annullamento, che può consistere indifferentemente in un "error in procedendo" o in un "error in iudicando", atteso che, anche in quest’ultima ipotesi, il sindacato è esclusivamente di legalità, riguardando l’interpretazione della norma ovvero la verifica del suo ambito di applicazione, al fine della sussunzione della fattispecie concreta, come delineata dal giudice di merito, in quella astratta.

Non così, invece, nell’inversa ipotesi. Infatti, Sez. 2, 02114/2021, Criscuolo, Rv. 660356-01, ha ribadito che la sentenza che dispone il rinvio ex art. 383, comma 1, c.p.c. contiene una duplice statuizione, di competenza funzionale, nella parte in cui individua l’ufficio giudiziario davanti al quale dovrà svolgersi il giudizio rescissorio (che potrà essere lo stesso che ha emesso la pronuncia cassata o un ufficio territorialmente diverso, ma sempre di pari grado), e sull’alterità del giudice rispetto ai magistrati persone fisiche che hanno pronunciato il provvedimento cassato; ne consegue che, se il giudizio viene riassunto davanti all’ufficio giudiziario individuato nella sentenza predetta, indipendentemente dalla sezione o dai magistrati che lo trattano, non sussiste un vizio di competenza funzionale, che non può riguardare le competenze interne tra sezioni o le persone fisiche dei magistrati; se, invece, il giudizio di rinvio si svolge davanti allo stesso magistrato persona fisica (in caso di giudizio monocratico) o davanti ad un giudice collegiale del quale anche uno solo dei componenti aveva partecipato alla pronuncia del provvedimento cassato, essendo violata la statuizione sull’alterità, sussiste una nullità attinente alla costituzione del giudice, ai sensi dell’art. 158 c.p.c., senza che necessiti la ricusazione (art. 52 c.p.c.), essendosi già pronunciata la sentenza cassatoria sull’alterità.

Ancora, Sez. 5, n. 05938/2021, Mucci, Rv. 660693-01, ha precisato che la sentenza che dispone il rinvio c.d. proprio o prosecutorio, a norma dell’art. 383, comma 1, c.p.c., esaurisce l’individuazione del giudice del rinvio con l’indicazione dell’ufficio giudiziario, unitariamente inteso, di pari grado rispetto a quello che ha pronunciato la sentenza cassata, senza che rilevi anche l’articolazione organizzativa interna in sezioni dell’ufficio giudiziario indicato.

Diversa è però la soluzione nel caso di rinvio c.d. improprio. Infatti, Sez. 5, n. 02248/2021, Lo Sardo, Rv. 660487-01, ha statuito che la norma dell’art. 51 n. 4 c.p.c., relativa all’obbligo di astensione del giudice che della causa "ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo", non è applicabile nell’ipotesi di cassazione per "error in procedendo" con rinvio cd. restitutorio (o improprio) al medesimo giudice che ha emesso la decisione cassata, atteso che tale giudizio di rinvio, diversamente da quanto accade nell’ipotesi di rinvio cd. proprio a seguito di annullamento per i motivi di cui ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c. non si configura come un grado diverso ed autonomo da quello concluso dalla sentenza cassata (sost. conf., Sez. L, n. 04570/2021, Cavallaro, Rv. 660539-01).

Riguardo ai poteri del giudice di rinvio, si segnala Sez. 3, n. 06832/2021, Scarano, Rv. 660909-01, che ha affermato che la declaratoria di inammissibilità di taluni motivi di ricorso per cassazione, pur accolto per altri, preclude la disamina delle ragioni poste a fondamento dei primi nel successivo giudizio di rinvio, che, pur dotato di autonomia, non integra un nuovo procedimento ma una fase ulteriore di quello originario. Ancora, Sez. L, n. 11115/2021, Blasutto, Rv. 661104-01, ha precisato che la domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione di una sentenza poi cassata va proposta, ex art. 389 c.p.c., allegando e provando il pagamento, al giudice del rinvio, che opera come giudice di primo grado, in quanto la domanda non poteva essere formulata in precedenza. Nel contesto di tale azione restitutoria, l’avvenuto pagamento può essere desunto anche dal comportamento processuale delle parti, alla stregua del principio di non contestazione che informa il sistema processuale civile e di quello di leale collaborazione tra le parti, manifestata con la previa presa di posizione sui fatti dedotti, funzionale all’operatività del principio di economia processuale (conf. Sez. L, n. 22359/2021, Arienzo, Rv. 662102-01).

Sulla funzione del giudizio di rinvio, Sez. 2, n. 15143/2021, Varrone, Rv. 661405-01, ha precisato che, ove esso consegua alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di merito (giudizio di rinvio proprio), lo stesso non costituisce - come desumibile dall’art. 393 c.p.c., a mente del quale alla mancata, tempestiva riassunzione del giudizio, non consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, bensì la sua inefficacia, salvi gli effetti della sentenza della Corte di cassazione ed eventualmente l’effetto della cosa giudicata acquisito dalle pronunce emanate nel corso del giudizio - la prosecuzione della pregressa fase di merito, né è destinato a confermare o riformare la sentenza di primo grado; esso integra, piuttosto, una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (nei limiti posti dalla pronuncia rescindente) ed è funzionale all’emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti.

Ove si tratti di cassazione della sentenza d’appello penale, Sez. 3, n. 28011/2021, Sestini, Rv. 662576-01, ha ribadito che se l’annullamento sia disposto limitatamente alle disposizioni civili, per soli vizi di motivazione, il giudice civile del rinvio conserva tutte le facoltà che gli competono quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento, anche se, nel rinnovare il giudizio d’appello, egli è tenuto, nonostante l’istituzionale indipendenza dei giudizi e delle relative discipline della responsabilità, a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza logica del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati.

Infine, sul piano della patologia, Sez. 3, n. 36629/2021, Scarano, Rv. 663185-01, ha precisato che, se la sentenza emessa dal giudice del rinvio è impugnata per cassazione e la parte ne deduca la nullità per violazione dell’art. 383 c.p.c., essa ha l’onere di allegare e provare che la pronuncia di rinvio sia stata decisa dalle stesse persone fisiche che pronunciarono la sentenza cassata con rinvio, atteso che il principio dell’alterità del giudice di rinvio è rispettato sia quando la causa venga rinviata dopo la cassazione ad altro ufficio giudiziario, sia quando il rinvio avvenga allo stesso ufficio in diversa composizione, ovvero ad altro giudice monocratico dello stesso ufficio, purché non sussista identità personale tra il giudice del rinvio e quello che pronunziò la sentenza cassata.

  • giurisdizione di grado superiore
  • protezione della famiglia
  • regolamento di esecuzione
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO XIV

IL RICORSO STRAORDINARIO PER CASSAZIONE E L’ENUNCIAZIONE DEL PRINCIPIO DI DIRITTO NELL’INTERESSE DELLA LEGGE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Inquadramento degli istituti. - 2 I motivi di ricorso straordinario per cassazione e i termini di proposizione. - 3 Le decisioni degli organi giurisdizionali speciali. - 4 I provvedimenti sulla libertà personale. - 5 Le «sentenze» impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione: esegesi della locuzione. - 6 I provvedimenti emessi nel corso del processo di cognizione. - 7 L’estinzione del processo di cognizione. - 8 I provvedimenti resi in procedimenti in camera di consiglio. - 9 I provvedimenti nel procedimento d’ingiunzione. - 10 I provvedimenti in materia di famiglia e minori. - 11 I provvedimenti del giudice dell’esecuzione. - 12 I provvedimenti nelle procedure fallimentari e concorsuali. - 13 L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge. - 14 La richiesta del Procuratore Generale. - 15 Il potere officioso della Corte.

1. Inquadramento degli istituti.

Con norma immediatamente precettiva, l’art. 111, comma 7, Cost. dispone che «contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge».

Si tratta dell’espressione più evidente del rango primario assegnato nel nostro ordinamento al controllo di legalità svolto - a tutela dei diritti individuali - dalla Suprema Corte sull’operato dei giudici di merito.

Come per il ricorso ordinario per cassazione, anche in questa ipotesi lo ius constitutionis si attua per il tramite dello ius litigatoris.

La compiuta realizzazione del solo ius constitutionis è invece a fondamento della previsione contenuta nell’art. 363 c.p.c. (nel testo come sostituito dall’art. 4 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), in forza della quale è consentito alla Cassazione di enunciare il principio di diritto, su richiesta del P.G. e in alcuni casi anche d’ufficio, senza però che tale pronuncia abbia effetto nei confronti delle parti del giudizio di merito: viene in tal guisa esaltata la funzione di nomofilachia, cioè a dire di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto nell’intero territorio nazionale, che connota istituzionalmente la Suprema Corte (art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12).

Come nelle rassegne degli anni precedenti, ambedue gli istituti vengono trattati congiuntamente, siccome avvinti da stretta connessione teleologica, con la disamina degli indirizzi ermeneutici formatisi nella giurisprudenza di legittimità.

2. I motivi di ricorso straordinario per cassazione e i termini di proposizione.

In virtù dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario per cassazione è ammesso contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale «per violazione di legge».

Risolvendo ogni dubbio ermeneutico, l’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, nel sostituire l’art. 360 c.p.c., ha precisato che il ricorso straordinario per cassazione si può proporre per gli stessi motivi previsti per il ricorso ordinario («Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge»).

Tra le possibili ragioni di critica denunciabili in sede di ricorso straordinario, la «violazione di legge» include anche l’inosservanza di norme a carattere processuale.

Con riguardo ad un’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter, comma 1, c.p.c., la violazione della specifica disposizione secondo cui siffatta inammissibilità deve essere dichiarata, sentite le parti, prima di procedere alla trattazione ex art. 350 c.p.c. integra vizio proprio dell’ordinanza, deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, c.p.c., senza necessità di valutare se dalla stessa sia derivato un concreto ed effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti (Sez. 1, n. 15786/2021, Vannucci, Rv. 661811-01); nel confermare il principio, Sez. 1, n. 03642/2021, Amatore, Rv. 660493-01, ha chiarito che tale error in procedendo non può desumersi unicamente dal fatto che il collegio abbia invitato le parti a concludere, in quanto la precisazione delle conclusioni è un adempimento preliminare necessario prima che il giudice riservi la causa in decisione e prescinde dal previo svolgimento della fase di trattazione.

La proposizione del ricorso straordinario per cassazione e lo svolgimento del relativo giudizio sono governati dalle regole ordinarie dettate dal codice di rito.

Quanto ai termini di presentazione, Sez. 2, n. 18004/2021, Giannaccari, Rv. 661545-01, relativa ad un’impugnazione dell’ordinanza di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, ha ribadito che il ricorso straordinario per cassazione deve essere proposto nel termine breve decorrente dalla notificazione del provvedimento e, in mancanza, in quello lungo di cui all’art. 327 c.p.c..

Trovano altresì applicazione i princìpi generali in tema di conversione dei mezzi di impugnazione: il ricorso erroneamente proposto come regolamento preventivo di giurisdizione (inammissibile, siccome formulato avverso una decisione del giudice di appello) può dunque essere convertito in ricorso straordinario per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, ove ne ricorrano i presupposti (Sez. U, n. 10243/2021, Lamorgese, Rv. 661086-01).

3. Le decisioni degli organi giurisdizionali speciali.

Il rimedio previsto dall’art. 111, comma 7, Cost. è esperibile anche contro provvedimenti pronunciati da organi giurisdizionali speciali.

Proprio il carattere giurisdizionale delle decisioni adottate dalla Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti (UIMB) ne giustifica l’impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione per violazione di legge o per difetto di giurisdizione, esclusi i motivi attinenti a questioni di fatto (Sez. 1, n. 11227/2021, Nazzicone, Rv. 661271-01).

Ad opposta conclusione e per differenti ragioni si perviene con riferimento alle decisioni emanate dagli organi dotati di autodichìa, quali gli organi di giustizia della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Nell’anno in rassegna, il principio è stato riaffermato in relazione alle controversie riguardanti gli assegni vitalizi agli ex parlamentari.

Nel rilevare che tali controversie riguardano norme di “diritto singolare”, poste a presidio della peculiare posizione di autonomia riconosciuta al Parlamento e ai suoi componenti dagli artt. 64, comma 1, 66 e 68 Cost., Sez. L, n. 00085/2021, Torrice, Rv. 660165-01, ha ritenuto che le liti sui presupposti di attribuzione e sulla misura degli assegni vitalizi siano devolute alla cognizione degli organi di autodichìa, “interni” all’organo costituzionale di appartenenza dei parlamentari ed estranei all’organizzazione della giurisdizione, pertanto non rientranti nel novero dei giudici speciali di cui all’art. 102 Cost. ancorché svolgenti un’attività obiettivamente giurisdizionale: da ciò la sottrazione al sindacato di legittimità previsto dall’art. 111, comma 7, Cost., e l’inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso le relative pronunce.

4. I provvedimenti sulla libertà personale.

Di rado, provvedimenti incidenti sulla libertà personale vengono resi in ambito civilistico.

Una fattispecie significativa (anche per la frequente verificazione) concerne i provvedimenti di convalida o di proroga del trattenimento dello straniero presso un centro di permanenza per i rimpatri (CPR), dei quali l’art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 espressamente sancisce la ricorribilità per cassazione.

In siffatta ipotesi, l’esperibilità del rimedio ex art. 111, comma 7, Cost. è giustificata non già della natura decisoria (ovvero di sentenza in senso sostanziale) delle statuizioni in tal guisa rese dal giudice di pace, bensì dell’immediata incidenza sulla libertà personale dei relativi decreti: lo ha puntualizzato Sez. 1, n. 24721/2021, Fidanzia, Rv. 662478-01, nel reputare sempre consentita la domanda di riesame del provvedimento di convalida o di proroga del trattenimento dello straniero, non ostando il precedente rigetto di analoga istanza o la mancata impugnazione del provvedimento di convalida o di proroga per essere le decisioni in questione inidonee alla formazione del giudicato.

Non si configura invece come provvedimento limitativo della libertà personale dello straniero il rigetto della domanda di protezione internazionale nelle sue diverse declinazioni: in tal senso Sez. L, n. 00084/2021, Pagetta, Rv. 660137-01, dichiarando inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto del tribunale di rigetto dell’impugnazione contro il provvedimento di diniego della richiesta di protezione internazionale, decreto peraltro ordinariamente ricorribile per cassazione a mente dell’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 35.

5. Le «sentenze» impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione: esegesi della locuzione.

Come sopra evidenziato, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario è ammesso contro le «sentenze» degli organi giurisdizionali.

La locuzione «sentenze» è stata sin da subito oggetto di una esegesi estensiva nella giurisprudenza di nomofilachia.

Con principio sancito per la prima volta da Sez. U, n. 02593/1953, Duni, Rv. 881234-01, e successivamente mai posto in discussione, si è affermato che il ricorso straordinario per cassazione è esperibile contro tutti i provvedimenti che, a prescindere dalla forma che assumono, decidono in modo definitivo il merito di una controversia, la cui eventuale ingiustizia resterebbe irreparabilmente e definitivamente priva di controllo.

È stata così riconosciuta la proponibilità del rimedio straordinario di legittimità non soltanto nei confronti delle sentenze non assoggettate agli ordinari mezzi d'impugnazione (quali, ad esempio, le sentenze sulle opposizioni agli atti esecutivi ex art. 618 c.p.c.), ma anche nei confronti di ogni altro provvedimento, pur adottato in forma diversa della sentenza, che abbia carattere decisorio, incidendo su diritti soggettivi, e definitivo, in quanto non altrimenti impugnabile.

L’interpretazione estensiva così operata in via pretoria ha ricevuto l’avallo del legislatore che, nel novellare il disposto dell’art. 360 c.p.c. con l’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ha espressamente fatto richiamo ai «provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge».

In definitiva, è oramai consolidato il criterio di delimitazione dell’ambito oggettivo di applicabilità dell’impugnazione ex art. 111, comma 7, Cost.: il ricorso straordinario per cassazione è ammesso contro tutti i provvedimenti, comprese le ordinanze ed i decreti, connotati dal duplice requisito della decisorietà (nel senso che incidano su diritti o status) e della definitività (nel senso che non possano essere rimessi in discussione in nessun modo e a nessuna condizione).

Deve tuttavia necessariamente trattarsi di provvedimenti decisori di giudici di merito: così Sez. 6-2, n. 16449/2021, Picaroni, Rv. 661963-01, ha escluso la proponibilità del ricorso straordinario di cui all’art. 111 Cost. avverso le sentenze o le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione nel giudizio di revocazione, atteso che l’art. 403 c.p.c. consente l’impugnazione della decisione sulla revocazione nei limiti in cui la stessa sia proponibile avverso la sentenza impugnata.

In appresso, l’analisi della giurisprudenza dell’anno in rassegna sarà condotta verificando la sussistenza dei requisiti della decisorietà e della definitività (e, quindi, in ultima analisi, la praticabilità del rimedio straordinario) con riferimento a diverse tipologie di provvedimenti, distinti per la sedes in cui essi sono pronunciati o per le materie dagli stessi disciplinate.

6. I provvedimenti emessi nel corso del processo di cognizione.

Nel corso del giudizio di cognizione ordinaria vengono di solito adottati provvedimenti volti a regolare lo svolgimento del processo, tipicamente ordinatori.

Tra questi Sez. 2, n. 21624/2021, Carrato, Rv. 661954-01, ha incluso il provvedimento di svincolo della cauzione lite pendente imposta, siccome atto a carattere non decisorio, ma meramente amministrativo ed ordinatorio, consistente in un puro e semplice ordine di pagamento con autorizzazione a riscuotere: da ciò la negazione della proponibilità del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., anche nell’eventualità del rigetto dell’istanza di svincolo o di omessa pronuncia su di essa.

7. L’estinzione del processo di cognizione.

Fermo è l’orientamento del giudice di legittimità che espunge dal perimetro di operatività dell’art. 111, comma 7, Cost. i provvedimenti di estinzione del giudizio di cognizione di primo grado.

Nell’anno in analisi, si segnala Sez. 6-1, n. 21413/2021, Scalia, Rv. 662341-01, relativa ad un giudizio di impugnazione del provvedimento questorile di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno dichiarato estinto per omessa notificazione del ricorso introduttivo ex art. 702 bis c.p.c. e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti.

La testé menzionata pronuncia ha ritenuto in ogni caso inammissibile il ricorso straordinario per cassazione rivolto avverso l’ordinanza del giudice di primo grado di estinzione del processo: ove adottato dal tribunale in composizione monocratica, il provvedimento è assimilabile alla sentenza del tribunale che, in composizione collegiale e ai sensi dell’art. 308, comma 2, c.p.c., respinge il reclamo contro l’ordinanza di estinzione del giudice istruttore, sicché ha natura sostanziale di sentenza e deve essere impugnato con l’appello; qualora sia emesso dal giudice istruttore nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il provvedimento conserva invece natura di ordinanza reclamabile innanzi al collegio.

Un limitato spazio di applicabilità del ricorso straordinario residua nel caso in cui il provvedimento di estinzione statuisca anche sulle spese di lite.

Come chiarito da Sez. 6-3, n. 32771/2021, Tatangelo, Rv. 663124-01, infatti, il provvedimento con cui il giudice, nel pronunciare l’estinzione del giudizio per rinuncia agli atti di una delle parti ai sensi dell’art. 306 c.p.c., liquida le spese in caso di mancato accordo delle parti stesse, attesa l’espressa previsione di inoppugnabilità ed il suo carattere decisorio, per la sua attitudine ad incidere su diritti, è ricorribile in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.; viceversa, il provvedimento con cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione, non solo liquida le spese, ma provvede su di esse, compensandole o ponendole a carico di una delle parti, esorbitando dalla fattispecie prevista dall’art. 306, comma 4, c.p.c., non è assoggettabile a detto ricorso ma è impugnabile o con un’apposita actio nullitatis o (se emesso in primo grado) con l’appello.

8. I provvedimenti resi in procedimenti in camera di consiglio.

Non di rado dubbi si pongono sulla ricorribilità immediata per cassazione di provvedimenti resi all’esito di procedimenti svolti in camera di consiglio, secondo la sequenza processuale disciplinata, in linea generale, dagli artt. 739 e seguenti del codice di rito e sovente adottata dal legislatore come modalità di tutela anche di situazioni giuridiche propriamente qualificabili come diritti soggettivi.

Nello sterminato panorama dei procedimenti cui si applica detto schema, nell’anno in rassegna spiccano decisioni regolanti vicende affatto peculiari.

In primis, merita menzione Sez. U, n. 10107/2021, Criscuolo, Rv. 661209-01, concernente una procedura introdotta da richiesta di esonero dell’esecutore testamentario dal suo ufficio: il provvedimento del presidente del tribunale è reclamabile davanti al presidente della corte d’appello, ma la decisione assunta da quest’ultimo non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, mancando dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale; né in senso contrario rileva la denuncia di un vizio di giurisdizione o competenza, posto che la pronuncia sull’osservanza delle norme che regolano il processo mutua la natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può aver autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo.

Si segnala poi Sez. 1, n. 17632/2021, Dolmetta, Rv. 661613-01, chiara nell’escludere l’impugnabilità con lo strumento ex art. 111, comma 7, Cost. del decreto emesso dalla corte di appello in sede di reclamo avverso il provvedimento con il quale il presidente del tribunale designa il notaio per la redazione dell’atto pubblico di frazionamento, ai sensi dell’art. 39, comma 6 ter, del d.lgs. 1° dicembre 1993, n. 385, siccome privo di contenuto decisorio, essendo inidoneo ad incidere sul diritto al frazionamento del finanziamento e della correlativa garanzia ipotecaria.

Più comune e diffusa è la fattispecie sottoposta al vaglio di Sez. 2, n. 14120/2021, Picaroni, Rv. 661292-01, riguardante la revoca di amministratore di comunione ordinaria su beni immobili.

In tale occasione, la S.C. ha preso le mosse dal principio, già enunciato in pregressi arresti, secondo cui in tema di amministrazione della cosa comune, il decreto emesso ai sensi dell’art. 1105, comma 4, c.c. ha natura di provvedimento di volontaria giurisdizione che, essendo suscettibile in ogni tempo di revoca e di modifica (ai sensi degli artt. 739, 742 e 742 bis c.p.c.) non è impugnabile ex art. 111, comma 7, Cost., salvo che il provvedimento, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi. Per conseguenza, ha negato la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il provvedimento di revoca giudiziaria dell’amministratore della comunione ordinaria, non essendo configurabile un diritto dell’amministratore stesso alla prosecuzione dell’incarico e potendo eventuali pretese dello stesso, analogamente a quanto avviene in ambito condominiale, in ipotesi di dedotta insussistenza della giusta causa di revoca, trovare tutela in forma risarcitoria o per equivalente nella sede propria del giudizio di cognizione.

9. I provvedimenti nel procedimento d’ingiunzione.

Tra i procedimenti speciali disciplinati dal codice di rito, nel periodo in scrutinio la Suprema Corte si è espressa in senso contrario alla ricorribilità per cassazione del decreto di esecutorietà del decreto ingiuntivo.

In specie, ad avviso di Sez. 2, n. 36196/2021, Casadonte, Rv. 662976-01, la sussistenza delle condizioni che, a mente dell’art. 647 c.p.c., legittimano la dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo è sindacabile esclusivamente nel giudizio di opposizione, promosso ai sensi dell’art. 645 o dell’art. 650 c.p.c., ovvero nel giudizio di opposizione all’esecuzione intrapresa in base al decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, non essendo previsto alcun mezzo d’impugnazione avverso il relativo decreto, e non essendo proponibile il ricorso straordinario per cassazione.

10. I provvedimenti in materia di famiglia e minori.

Elemento connotante i provvedimenti di compressione della responsabilità genitoriale è, ad avviso della basilare Sez. U., n. 32529/2018, Sambito, Rv. 651936-01, l’attitudine al giudicato, sia pure rebus sic stantibus, perché dirimenti conflitti tra posizioni soggettive diverse ed incidenti su diritti personalissimi di rango costituzionale, con conseguente esperibilità del ricorso straordinario per cassazione, ma soltanto avverso i provvedimenti assunti a definizione dei relativi procedimenti.

Nel dare continuità al principio, Sez. 1, n. 24638/2021, Caradonna, Rv. 662541-01, ha negato l’ammissibilità del mezzo straordinario ex art. 111, comma 7, Cost., contro i provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale adottati in via provvisoria nel corso dei giudizi ex art. 337 bis c.c., sprovvisti del requisito della definitività, in quanto non emessi a conclusione del procedimento, e perciò suscettibili di essere revocati, modificati e riformati, anche in assenza di sopravvenienze, dal giudice che li ha emessi.

Muovendo dalla medesima premessa, Sez. 1, n. 21553/2021, Dolmetta, Rv. 661923-01, ha riconosciuto natura stabile e carattere decisorio ai provvedimenti de potestate adottati ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. dalla corte d’appello in sede di reclamo al fine di risolvere l’intervenuto contrasto genitoriale circa la scelta della scuola presso cui iscrivere il figlio, e ritenuto pertanto l’impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione degli stessi provvedimenti, quantunque destinati ad avere un’efficacia circoscritta nel tempo.

Provvisori e non definitivi, siccome revocabili e modificabili sulla base del riesame delle originarie risultanze processuali o di nuovi elementi sopravvenuti, sono stati considerati i provvedimenti che regolano il diritto di visita del minore (Sez. 1, n. 33612/2021, Nazzicone, Rv. 663106-01) e quelli disciplinanti il regime della frequentazione tra genitori e figli (Sez. 1, n. 33609/2021, Lamorgese, Rv. 663267 - 01): in ambedue le situazioni è stata, per conseguenza, esclusa la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione.

11. I provvedimenti del giudice dell’esecuzione.

Il ricorso straordinario per cassazione è rimedio di gravame avverso le sentenze sulle opposizioni agli atti esecutivi, in ragione della espressa non impugnabilità sancita dall’art. 618 del codice di rito.

Le sentenze che definiscono le opposizioni all’esecuzione sono invece assoggettate all’ordinario mezzo di impugnazione dell’appello, per cui inammissibile il ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 3, n. 00090/2021, Tatangelo, non massimata; Sez. 3, n. 09867/2021, Tatangelo, non massimata).

Ai fini della concreta individuazione dello strumento di reazione in concreto praticabile, è ferma nella giurisprudenza di nomofilachia l’affermazione del principio dell’apparenza, in forza del quale assume esclusivo e dirimente rilievo la qualificazione data dal giudice a quo all’azione promossa, indipendentemente dalla correttezza o meno dell’inquadramento effettuato (Sez. 6-3, n. 32833/2021, Valle, Rv. 663336 - 01), sempreché, tuttavia, la qualificazione della domanda sia chiara ed inequivocabile (Sez. 3, n. 29194/2021, Rubino, non massimata).

Da ciò discende altresì l’esperibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un’unica sentenza in ragione dei plurimi contenuti della stessa: appello per la parte riferibile ad opposizione all’esecuzione, ricorso per cassazione per la parte riferibile a opposizione agli atti (Sez. 3, n. 20854/2021, Porreca, non massimata).

Con riferimento ai provvedimenti emessi nell’àmbito della procedura esecutiva, Sez. 3, n. 13176/2021, Valle, Rv. 661384-01, ha escluso la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione nei confronti dell’ordinanza con cui, in una espropriazione presso terzi, il giudice dell’esecuzione, disposta l’estinzione del processo a seguito della dichiarazione negativa del terzo in assenza di contestazioni, provvede alla liquidazione delle spese processuali senza porle a carico del debitore esecutato, trattandosi di provvedimento privo di contenuto decisorio.

L’assenza di carattere decisorio e definitivo è ragione della inammissibilità del ricorso straordinario in parola avverso: l’ordinanza del giudice dell’esecuzione di rigetto dell’istanza di sospensione ex art. 624 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 27072/2021, Tatangelo, non massimata); l’ordinanza pronunciata in sede di reclamo proposto ex art. 669 terdecies c.p.c. contro il provvedimento che decide sulla istanza di sospensione dell’esecuzione (Sez. 6-3, n. 27006/2021, Tatangelo, non massimata); l’ordinanza collegiale resa sul reclamo spiegato, nelle forme di cui all’art. 669 terdecies c.p.c., avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione ex art. 591 ter c.p.c. (Sez. 3, n. 35093/2021, De Stefano, non massimata); l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che risolve ai sensi dell’art. 512 c.p.c. una controversia sorta in sede di distribuzione del ricavato (Sez. 6-3, n. 37614/2021, Tatangelo, non massimata).

Caratteristica peculiare delle opposizioni proposte dopo l’inizio della procedura esecutiva è l’articolazione del giudizio in una cadenza bifasica, con una preliminare e necessaria fase sommaria svolta innanzi al giudice dell’esecuzione ed una successiva, sebbene meramente eventuale, fase di merito a cognizione piena.

Nello statuto di disciplina della bifasicità delle opposizioni, oggetto di una progressiva elaborazione e definizione in via pretoria (basti, sul punto, il richiamo alla fondamentale Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-01), risulta pacifica la negazione del contenuto (anche implicitamente) decisorio e del carattere della definitività all’ordinanza del giudice dell’esecuzione conclusiva della prima fase, atto meramente ordinatorio e di direzione del processo esecutivo, come tale non impugnabile con ricorso straordinario per cassazione (Sez. 6-3, n. 37255/2021, Valle, non massimata), nemmeno per contestare la sola statuizione sulle spese della fase sommaria, riesaminabile esclusivamente nel giudizio di merito (Sez. 6-3, n. 37252/2021, Tatangelo, non massimata).

12. I provvedimenti nelle procedure fallimentari e concorsuali.

Questioni sull’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione si pongono frequentemente nell’ambito delle varie tipologie di procedure di liquidazione concorsuale, caratterizzate da incidenti di cognizione, assai differenti tra loro, decisi con provvedimenti in forma diversa dalla sentenza.

Ben saldo appare (e la giurisprudenza dell’anno ne costituisce ulteriore conferma) il criterio di tracciatura del perimetro applicativo del rimedio ex art. 111 Cost.: secondo un principio generale oramai consolidato, esso è esperibile avverso i provvedimenti, in qualsivoglia forma resi, per i quali non sia previsto uno specifico mezzo di impugnazione e che siano connotati dal duplice requisito della decisorietà (cioè a dire della incidenza su diritti soggettivi o su status) e della definitività (ovvero della idoneità a fornire la disciplina concreta, non più suscettibile di essere messa in discussione, della situazione controversa).

Il descritto discrimen giustifica la non praticabilità del ricorso straordinario avverso i provvedimenti aventi natura meramente ordinatoria, tra i quali il decreto reiettivo dell’istanza di fallimento nonché il decreto che conferma il rigetto di detta istanza, siccome inidonei al giudicato e privi di natura decisoria su diritti soggettivi (Sez. 1, n. 15806/2021, Pazzi, Rv. 661411-01).

Per la medesima ragione è stato negato l’impiego del ricorso diretto per cassazione contro il decreto con cui il tribunale dichiara l’inammissibilità della proposta di concordato preventivo ex art. 162, comma 2, l. fall. (eventualmente, anche a seguito della mancata sua approvazione, ai sensi dell’art. 179, comma 1, l. fall.) ovvero revoca l’ammissione alla procedura di concordato ai sensi dell’art. 173 l. fall. senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore (Sez. 1, n. 22442/2021, Solaini, Rv. 661994-01) oppure contro il decreto reso in sede di reclamo avverso il decreto di rigetto della richiesta di restituzione dei beni mobili con la procedura semplificata prevista dall’art. 87 bis l. fall., siccome provvedimento inidoneo a precludere la tutela del richiedente nella diversa sede della verifica del passivo (Sez. 1,n. 10833/2021, Amatore, Rv. 661063-01).

Il requisito della decisorietà è stato invece ravvisato nel decreto di omologa del concordato preventivo in assenza di opposizioni, qualificato come «non soggetto a gravame» dall'art. 180, comma 3, l. fall., con la precisazione che la legittimazione ad impugnare ex art. 111, comma 7, Cost. spetta soltanto ai soggetti che abbiano formalmente assunto la veste di parte nel previo giudizio di merito, salvo il caso che il ricorrente lamenti un vizio che abbia impedito la sua partecipazione a detto giudizio oppure altro vizio processuale afflittivo di tale decreto (Sez. 1, n. 32248/2021, Fichera, Rv. 662948-01).

Ancora in tema di concordato preventivo, è stato altresì reputato ammissibile il ricorso straordinario spiegato avverso il decreto con il quale il tribunale in sede di omologazione del concordato preventivo provvede alla nomina di un liquidatore giudiziale diverso da quello indicato nella proposta approvata, restando il potere di nomina del tribunale vincolato alla designazione fatta dal debitore, a condizione che essa sia rispettosa dei requisiti previsti dall’art. 28 l. fall. (Sez. 1, n. 21815/2021, Dolmetta, Rv. 661824-01).

Similmente, in tema di concordato fallimentare, il decreto di omologa in assenza di opposizioni (anch’esso definito «non soggetto a gravame» dall'art. 129, comma 3, l. fall.) è immediatamente ricorribile per cassazione, ma soltanto da quei soggetti potenzialmente interessati al decreto di omologa che, pur pienamente identificabili dall'esame degli atti della procedura fallimentare, non abbiano ricevuto la comunicazione del decreto del giudice delegato riportante la proposta di concordato (così Sez. 1, n. 19461/2021, Fidanzia, Rv. 662544-01, negando la legittimazione ad impugnare ex art. 111, comma 7, Cost. al creditore che abbia ricevuto la comunicazione individuale del deposito del decreto ex art. 129, comma 2, l. fall. e che sia stato conseguentemente posto nelle condizioni di poter proporre opposizione, non esercitando detta facoltà).

13. L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge.

Finalizzato a consentire l’esercizio della funzione di nomofilachia istituzionalmente riservata alla Corte di cassazione (ovvero assicurare «quale organo supremo di giustizia, l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge», come recita l'art. 65 r.d. n. 12 del 1941), il ricorso nell’interesse della legge, come concepito nell’originario dettato dell’art. 363 c.p.c., ha trovato raro utilizzo nei primi sessant’anni di vigenza del codice di rito.

Nell’intento di dare nuova linfa all’istituto, il d.lgs n. 40 del 2006, oltre a mutare la rubrica dell’art. 363 c.p.c. (significativamente ora intestata «principio di diritto nell’interesse della legge»), ha apportato innovazioni tutte orientate ad estendere la possibilità della Suprema Corte di pronunciarsi “nell’interesse della legge”, cioè a dire affermare, a fronte di un provvedimento di merito erroneo, il principio di diritto astrattamente applicabile alla fattispecie, ma senza cassazione del provvedimento stesso o produzione di effetti o conseguenze per le parti.

In tal senso, in primis, alla iniziativa del Procuratore generale presso la Corte (necessaria nel previgente regime) si è affiancato un potere officioso del giudice di legittimità, esercitabile in caso di inammissibilità del ricorso allorquando la questione (che avrebbe dovuto essere) decisa si profili di particolare importanza.

In secondo luogo, il ricorso del Procuratore generale è ora esperibile non solo in caso di provvedimenti passati in cosa giudicata (per omessa proposizione di ricorso nei termini di legge ad opera delle parti o per rinuncia allo stesso) ma anche «quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile», cioè a dire in ipotesi di provvedimenti privi del carattere della decisorietà e definitività, come, ad esempio, quelli di natura camerale e cautelare, al fine di permettere il sindacato di legittimità anche in relazione a statuizioni altrimenti destinate, in ragione della loro natura, a sfuggire al controllo nomofilattico.

14. La richiesta del Procuratore Generale.

La richiesta di enunciazione del principio di diritto formulata dal Procuratore generale presso la Suprema Corte - ben distinta, anche sotto l’aspetto terminologico adoperato dal legislatore, dal ricorso che lo stesso P.G. può, in qualità di parte, proporre per la cassazione di un provvedimento - ha la (unica) finalità di far correggere una errata affermazione in iure contenuta in una pronuncia di merito, senza alcuna conseguenza o effetto sulla pronuncia stessa o sulle situazioni giuridiche delle parti interessate dalla lite.

La sollecitazione del P.G., come acutamente precisato da Sez. U, n. 23469/2016, De Stefano, Rv. 641536-01, non configura un mezzo di impugnazione, ma l’atto di impulso di un procedimento autonomo, teso a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge, da svolgersi in assenza del contraddittorio con le parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento perché carenti di un interesse attuale e concreto alla decisione, non risultando inciso il provvedimento presupposto.

I requisiti cui è condizionata l’enunciazione del principio di diritto su iniziativa del P.G. sono stati così individuati (Sez. U, n. 01946/2017, Giusti, Rv. 642009-01): nell’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento non impugnato o non impugnabile; nella reputata illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di collegamento con una concreta e determinata fattispecie, onde evitare richieste a carattere preventivo o esplorativo; nell’interesse della legge, generale e trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per la ritenuta importanza di una sua formulazione espressa.

Correlato e strumentale ad una funzione di nomofilachia nel senso più proprio ed “alto” del termine, differente dalla funzione giurisdizionale, il potere attribuito al P.G. risponde, funditus, allo scopo di permettere alla Corte di cassazione lo svolgimento del ruolo di matrice del diritto vivente anche in materie di regola sottratte al sindacato di legittimità oppure in contesti in cui si palesi la necessità di interventi nomofilattici tempestivi e solleciti, con la formazione di un precedente di legittimità su tematiche oggetto di contrasti ermeneutici nella giurisprudenza di merito, di contenziosi seriali o comunque di rilevante impatto sociale.

15. Il potere officioso della Corte.

A mente dell’art. 363, comma 3, c.p.c., ove il ricorso presentato dalle parti sia dichiarato inammissibile, la Corte, qualora ritenga la questione prospettata con lo stesso di particolare importanza, può di ufficio formulare il principio di diritto regolante la vicenda, anche in tal caso senza alcuna conseguenza o effetto sulla pronuncia stessa o sulle situazioni giuridiche delle parti coinvolte nella lite.

Siffatto discrezionale potere, conferito tanto alle sezioni unite quanto alle sezioni semplici, esercitabile in tutte le ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione, da qualsiasi ragione cagionata, postula unicamente la valutazione (apprezzabile sotto ogni possibile profilo, di merito o processuale) sulla “particolare importanza” della quaestio iuris involta e rappresenta manifestazione più autentica della funzione di nomofilachia, in grado di indirizzare efficacemente, con l’autorità del precedente di legittimità, le decisioni dei giudici di merito.

Sussiste contrasto sulla possibilità di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge all’esito dell’adunanza camerale non partecipata prevista dall’art. 380 bis.1. c.p.c.: a fronte di un precedente in senso negativo, argomentato dalla funzionale destinazione del rito camerale, acceleratorio e semplificatorio, alla decisione di questioni di diritto prive di peculiare rilevanza o complessità (Sez. 3, n. 05665/2018, Porreca, Rv. 648294-01), Sez. 1, n. 10396/2021, Falabella, Rv. 661133-01, non ha ravvisato ragioni di incompatibilità tra il potere officioso devoluto alla Suprema Corte dall’art. 363, comma 3, c.p.c. ed il procedimento camerale de quo (nella specie, statuendo nell’interesse della legge in occasione di ordinanza di estinzione del giudizio per intervenuta rinuncia al ricorso).

Della facoltà in parola il giudice della nomofilachia si è largamente avvalso anche nell’anno in rassegna.

Limitando l’illustrazione alle fattispecie più significative (e, al contempo, al fine di documentare l’estesa latitudine della pratica), principi di diritto nell’interesse della legge sono stati ex officio enunciati, tra le altre, sulle questioni: in tema di processo civile, dei rispettivi àmbiti di operatività della sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c. e della sospensione facoltativa ex art. 337 c.p.c. in caso di rapporto di pregiudizialità tecnica tra due giudizi (Sez. U, n. 21763/2021, Carrato, Rv. 662227-03); della praticabilità del procedimento per ingiunzione ex artt. 633 e 636 c.p.c. per la liquidazione dei compensi professionali agli avvocati, anche a seguito dell’abrogazione del sistema delle tariffe professionali disposta dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 (Sez. U, n. 19427/2021, Doronzo, Rv. 661850-01); del modo di definizione del giudizio di opposizione all’esecuzione in caso di sopravvenuta caducazione lite pendente del titolo esecutivo giudiziale azionato e del giudice competente a decidere (e della sede dove proporre) la domanda di risarcimento danni ex art. 96, comma 2, c.p.c. per aver intrapreso o compiuto, senza la normale prudenza, un’esecuzione forzata in forza di un titolo esecutivo giudiziale non definitivo successivamente caducato (Sez. U, n. 25478/2021, Cirillo F.M., Rv. 662368-01 e Rv. 662368-02); della natura giuridica e della disciplina applicabile alle garanzie concesse dallo Stato - o poste comunque a carico del pubblico erario da specifiche disposizioni di legge - in relazione a debiti di particolari categorie di soggetti, in special modo alle garanzie concesse dallo Stato alle imprese editrici di quotidiani o periodici organi di partiti politici rappresentati in Parlamento (Sez. 3, n. 22157/2021, Moscarini, Rv. 662200-01); dei presupposti per la surrogazione dell’acquirente della cosa locata all’originario locatore nel rapporto di garanzia costituito tra quest’ultimo e il suo fideiussore (Sez. 3, n. 02711/2021, Gorgoni, Rv. 660397-01); in tema di protezione internazionale, del rispetto dei termini per il ricorso avverso una decisione di trasferimento adottata nei confronti del richiedente asilo all’esito di una richiesta di ripresa in carico (Sez. 1, n. 19518/2021, Campese, Rv. 661921-01); circa il personale degli enti locali, dell’orario di lavoro dei docenti delle istituzioni scolastiche gestite dagli enti locali e dei docenti dei centri di formazione professionale (Sez. L, n. 02273/2021, Marotta, Rv. 660334-01); dei limiti preclusivi alla proposizione nel giudizio di primo grado della domanda di conversione del brevetto nullo ai sensi dell’art. 76, comma 3, del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Sez. 1, n. 10396/2021, Falabella, Rv. 661133-02); dei limiti di eleggibilità delle cariche rappresentative dei consigli dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (Sez. 1, n. 38333/2021, Nazzicone, Rv. 663293 - 01).

  • giurisdizione di grado superiore
  • errore giudiziario
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO XV

GLI ALTRI MEZZI DI IMPUGNAZIONE

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Premessa. - 2 Revocazione. - 2.1 Errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. - 2.2 Contrasto tra sentenze. - 3 Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione. - 4 Altre questioni processuali. - 5 L’opposizione di terzo.

1. Premessa.

Nel corso del 2021, nella produzione giurisprudenziale in materia di revocazione e opposizione di terzo, si segnalano diverse pronunce che hanno ulteriormente specificato l’ambito applicativo dei predetti istituti, chiarendone portata e limiti di ammissibilità.

2. Revocazione.

La revocazione, quale mezzo di impugnazione a carattere eccezionale e a critica vincolata, può essere ordinaria, quando riguardi vizi che possono essere rilevati sulla base della sola sentenza (ipotesi di cui ai n. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.), ovvero straordinaria, quando gli elementi di turbativa del giudizio possano essere conosciuti anche molto tempo dopo la sentenza, sì da dover essere sottratti a limitazioni temporali (casi di cui ai n. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c.), e può aggiungersi o sovrapporsi agli ordinari strumenti di gravame allorché emergano circostanze che possono avere inciso, deviandolo, sull’esito del giudizio, il quale, senza di esse, sarebbe stato differente.

Come chiarito da Sez. 3, n. 09201/2021, Cirillo F.M., Rv. 661077-01, la revocazione della sentenza d’appello impugnata con ricorso per cassazione determina la cessazione della materia del contendere, che dà luogo all’inammissibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse, in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche l’interesse ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione (o l’impugnazione), ma anche al momento della decisione, perché è in relazione quest’ultimo - e alla domanda originariamente formulata - che l’interesse va valutato, a nulla rilevando che la sentenza di revocazione possa essere a sua volta impugnata per cassazione, giacché la suddetta revocazione costituisce una mera possibilità mentre la carenza di interesse del ricorrente a coltivare il ricorso è attuale, per essere venuta meno la pronuncia che ne costituiva l’oggetto.

Peraltro, l’impugnazione con la revocazione straordinaria (o l’opposizione di terzo (art. 656 c.p.c.), non impedisce il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo non opposto, così come non ne è impedita l’efficacia di giudicato in seguito alla opposizione tardivamente proposta, trattandosi di rimedi straordinari per loro natura proponibili avverso sentenze passate in giudicato, l’assoggettamento ai quali del decreto ingiuntivo in tanto ha ragione di esistere in quanto l’esaurimento della esperibilità di quelli ordinari ha già dato luogo al giudicato, che non è inciso, in definitiva, dalla mera opposizione tardiva (in tal senso, Sez. 2, n. 08299/2021, Besso Marcheis, Rv. 660804-01).

I motivi di revocazione sono tipizzati nell’elenco di cui all’art. 395 c.p.c. e si riferiscono al dolo di una delle parti (n. 1), alla falsità di prove acclarata e conosciuta successivamente (n. 2), all’acquisizione di documenti non prodotti per causa di forza maggiore o per fatto della controparte (n. 3), all’errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa in relazione ad un fatto non controverso (n. 4), alla contrarietà della sentenza ad altra precedente avente tra le parti l’autorità di cosa giudicata (5) e al dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato (n. 6).

2.1. Errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa.

L’art. 395, n. 4), si riferisce ai casi in cui la sentenza sia l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa, perché fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità sia incontrastabilmente esclusa, oppure sulla supposizione di inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita, se detto fatto non abbia costituito un punto controverso oggetto della pronuncia.

L’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione della sentenza, compresa quella della Corte di cassazione, presuppone, ad avviso di Sez. 6-2, n. 16439/2021, Tedesco, Rv. 661483-01, l’esistenza di un contrasto fra due rappresentazioni dello stesso oggetto, risultanti una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali, e deve: a) consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto, anche implicitamente, il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, sempre che il fatto stesso non abbia costituito oggetto di un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, b) risultare con immediatezza ed obiettività senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive; c) essere essenziale e decisivo, nel senso che, in sua assenza, la decisione sarebbe stata diversa, sicché il vizio revocatorio deve essere escluso in un giudizio per cassazione nel quale sia stato omesso il rilievo che il controricorso era stato notificato alla parte personalmente, anziché al procuratore nel domicilio eletto.

Come sostenuto da Sez. 5, n. 01562/2021, Guida, Rv. 660223-01, costituisce errore di fatto e, quindi, motivo di revocazione a norma dell’art. 395, n. 4, c.p.c., e non di ricorso per cassazione, ad esempio, l’affermazione contenuta nella sentenza circa l’inesistenza, nei fascicoli processuali (d’ufficio o di parte), di documenti che, invece, risultino esservi incontestabilmente inseriti (nella specie fatture per costi ritenuti indeducibili per difetto di inerenza, non prodotti in giudizio secondo la C.T.R.), in quanto concretantesi non in un errore di giudizio, ma in una mera svista di carattere materiale.

2.2. Contrasto tra sentenze.

L’art. 395, n. 5, c.p.c., stabilisce che costituisce motivo di revocazione il fatto che la sentenza impugnata con tale mezzo sia contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purché non vi sia stata pronuncia sulla relativa eccezione.

Va innanzitutto detto che, in assenza di ragioni idonee a consentire l’impugnazione per revocazione, la domanda con la quale l’attore, premettendo l’esistenza di una sentenza passata in giudicato sulla medesima azione, ne denunci l’erroneità e l’ingiustizia, chiedendo una nuova e diversa pronuncia, si traduce, secondo Sez. 5, n. 28386/2021, Manzon, Rv. 662929-01, in un’istanza di accertamento negativo della validità di quella sentenza non prevista dall’ordinamento, e pertanto tale domanda, prima che infondata nel merito in conseguenza dell’eccezione di giudicato esterno sollevata dal convenuto, deve dichiararsi affetta da improponibilità rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo.

Il contrasto di giudicati previsto dall’art. 395, n. 5), c.p.c., sussiste, invero, qualora tra le due controversie vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che tra le due vicende processuali sussista un’ontologica e strutturale concordanza degli estremi identificativi dei due giudizi, nel senso che la precedente sentenza deve avere ad oggetto il medesimo fatto o un fatto ad essa antitetico, non anche un fatto costituente un possibile antecedente logico, sempre che la relativa eccezione di giudicato non sia stata proposta innanzi al giudice del secondo giudizio, giacché, in caso contrario, non si verte in tema di contrasto di giudicati, ma ricorre un vizio di motivazione denunciabile ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. 2, n. 38230/2021, Abete, Rv. 663025-01).

In caso di rapporti giuridici di durata e di obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscano il contenuto, inoltre, il giudicato formatosi sull’accertamento relativo a una fattispecie attuale, secondo Sez. 6-L, n. 37269/2021, Calafiore, Rv. 663150 - 01, preclude il riesame, in un diverso processo, delle medesime questioni, spiegando la propria efficacia anche per il periodo successivo alla sua formazione, con l’unico limite di una sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento, sicché è stata ritenuta corretta la sentenza di merito che, nell’accogliere un ricorso per revocazione ex art. 395, n. 5, c.p.c., aveva ritenuto che l’obbligo, in capo a una ASL, di rimborsare il contributo ENPAB per l’utilizzazione delle prestazioni di un biologo convenzionato, per il periodo 2008-2010, fosse coperto dal giudicato formatosi sul corrispondente accertamento, contenuto in una sentenza irrevocabile relativa a un precedente periodo temporale.

3. Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione.

L’art. 391 bis c.p.c. ammette la correzione o la revocazione della sentenza o dell’ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione che sia affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’art. 287 c.p.c. ovvero da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4, consentendo alla parte di proporre a tal fine ricorso ai sensi degli artt. 365 e ss., nel termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione o di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento, o alla stessa Corte di provvedervi d’ufficio in ogni tempo.

Tale rimedio, secondo quanto chiarito da Sez. 6-2, n. 08939/2021, Grasso Giuseppe,Rv. 660943-01, è inammissibile quando sia esperito verso la proposta del relatore ex art. 380-bis c.p.c., o in caso di asserito omesso esame della memoria ex art. 378 c.p.c., nell’un caso in ragione della natura meramente interna della proposta, siccome diretta, a seguito della riforma operata dall’art. 47, comma 1, lett. c, della l. n. 69 del 2009, esclusivamente al presidente per la fissazione dell’adunanza camerale nel caso della cd. evidenza decisoria, la cui comunicazione alle parti costituisce una mera prassi curiale di cortesia, nell’altro, in quanto, costituendo la memoria ex art. 378 c.p.c., di regola, un mero strumento di approfondimento di questioni di diritto poste con ricorso e controricorso, senza che sia possibile introdurre, con essa, nuove e tardive allegazioni, la sua espressa disamina risulta necessaria solo ove veicoli mutamenti normativi o sentenze della Corte Costituzionale dei quali il giudice di legittimità deve necessariamente tenere conto.

Ed è parimenti inammissibile, secondo Sez. U, n. 04367/2021, Rubino, Rv. 660444-01, il ricorso per revocazione proposto avverso l’ordinanza con cui la Corte di cassazione, dopo avere esattamente identificato nella loro materialità alcuni atti come decreti adottati dal Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, ne abbia poi riconosciuto, in via interpretativa, il valore normativo (e non già meramente amministrativo) qualificandoli come attuativi della potestà spettante all’intero Consiglio di Presidenza di disciplinare con proprie delibere, in base al regolamento dell’assemblea, i compiti di vigilanza dei presidenti dei gruppi consiliari sull’utilizzo dei contributi, trattandosi, in tesi, non già di errore percettivo sull’identificazione degli atti, ma di attività di interpretazione e valutazione degli stessi, tra l’altro conforme quella già in precedenza compiuta in relazione ai medesimi decreti.

Da un punto di vista procedurale, poi, si osserva come il termine semestrale dalla pubblicazione del provvedimento, previsto per la proposizione del ricorso per revocazione dei provvedimenti della Corte di cassazione dall’art. 391 bis, comma 1, c.p.c., così ridotto, in sede di conversione del d.l. n. 168 del 2016, dalla l. n. 197 del 2016 ed applicabile ai provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore della stessa (30 ottobre 2016), trovi operatività anche nell’ipotesi di mancata comunicazione al ricorrente della data fissata per la trattazione del ricorso per cassazione definito con il provvedimento impugnato, atteso che tale circostanza non rientra tra quelle che, ai sensi dell’art. 327, secondo comma, c.p.c., giustificano una diversa decorrenza del termine e che il ricorrente, essendo in quanto tale a conoscenza della pendenza del procedimento, si trova in condizione di poter informarsi del suo esito in tempo utile per proporre tempestivamente il ricorso per revocazione (Sez. 6-3, n. 19622/2021, Iannello, Rv. 661916-01).

La domanda di revocazione per errore di fatto contro le sentenze della Corte di cassazione, come chiarito da Sez. 3, n. 25349/2021, Scrima, Rv. 662403-01, deve essere notificata, in mancanza di diversa indicazione contenuta nell’atto di notificazione della sentenza, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio ai sensi dell’art. 330 c.p.c., il quale è applicabile anche all’istituto in esame in quanto rientrante tra i mezzi di impugnazione, ed è soggetta, secondo Sez. 6-2, n. 26161/2021, Varrone, Rv. 662332-01, al disposto di cui all’art. 366 c.p.c., secondo cui la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intellegibile del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c.; ne consegue che il mancato rispetto di tali requisiti espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, non consentendo la valorizzazione dello scopo del processo, volto, da un lato, ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nell’ambito dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU e, dall’altro, ad evitare di gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.

Qualora il giudizio di revocazione riguardi decisioni delle Sezioni unite e questo debba essere dichiarato inammissibile, la previsione del rito camerale non partecipato come modello processuale dell’ammissibilità della revocazione, pur essendo disegnato sul calco delle regole per la sezione previste dall’art. 376, primo comma, c.p.c. nella sua interazione con le sezioni semplici e pur non essendo prevista una relazione tra esse e le Sezioni unite, non osta, secondo Sez. 6-3, n. 15426/2021, Scrima, Rv. 661670-01, (conforme Sez. U, n. 08984/2018, Cirillo, Rv. 648127-01), a che, su sentenze ed ordinanze delle Sezioni Unite, soggette a giudizio di revocazione, possano validamente essere, per evidenti ragioni di coerenza logica e sistematica, chiamate a decidere le stesse Sezioni Unite, con il rito camerale ex art. 380 bis novellato ed art. 391 bis c.p.c..

Posto che l’art. 403 c.p.c. consente l’impugnazione della decisione sulla revocazione nei limiti in cui la stessa sia proponibile avverso la sentenza impugnata, Sez. 6-2, n. 16449/2021, Picaroni, Rv. 661963-01, ha escluso che avverso le sentenze o le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione nel giudizio di revocazione sia proponibile il ricorso straordinario di cui all’art. 111 Cost., essendo lo stesso esperibile solo nei confronti dei provvedimenti decisori di merito per i quali non sia apprestato altro mezzo di impugnazione.

4. Altre questioni processuali.

L’art. 337, secondo comma, c.p.c., stabilisce che “quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza è impugnata”.

Come chiarito da Sez. 5, n. 34966/2021, Condello, Rv. 663052-01, tale disposizione, in caso di giudizio pregiudicante deciso con una sentenza impugnata, deve essere interpretata nel senso che essa impone al giudice l’alternativa di tenere conto della sentenza invocata - che è quella sulla quale può essere fondata un’azione o un’eccezione - senza alcun impedimento derivante dalla sua impugnazione o dalla sua impugnabilità, o di sospendere il processo nell’esercizio del suo potere discrezionale, mentre il suo ambito applicativo va estesa alle impugnazioni diverse dalla revocazione straordinaria e dalla opposizione di terzo, e la stessa disposizione.

Quanto alla domanda di equa riparazione, Sez. 2, n. 33459/2021, Bertuzzi, Rv. 662754-01, dopo averla distinta dalla disciplina relativa al risarcimento del danno causato nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, prevista dagli artt. 2, comma 3, e 4, comma 2, l. n. 117 del 1998, essendo la prima diretta a tutelare l’interesse della parte alla durata ragionevole del processo ed essendo dunque riferita al suo ordinario e fisiologico svolgimento ed avendo la seconda la funzione di consentire alla parte, che si ritenga danneggiata dall’erroneità del provvedimento emesso, di esperire ogni rimedio possibile per eliminare l’errore e, quindi, il pregiudizio ricevuto, salvaguardando sia l’interesse particolare, sia quello pubblico al suo emendamento, sì da riferirsi alla necessaria esperibilità dei rimedi interni volti alla rimozione del provvedimento stesso, ha chiarito che mentre per la prima il momento iniziale del termine di decadenza di sei mesi per proporre la domanda di equo indennizzo, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001, coincide con il deposito della sentenza della Cassazione che, rigettando o dichiarando inammissibile il ricorso, determina il passaggio in giudicato della pronuncia di merito, il termine di decadenza previsto dall’art. 4, comma 2, della l. n. 117 del 1998, nel caso in cui sia stata proposta domanda di revocazione avverso la sentenza della Corte di cassazione, decorre dalla pubblicazione del provvedimento che ha deciso sulla revocazione, anche quando essa sia dichiarata inammissibile.

In caso poi di irragionevole durata del giudizio di appello della Corte dei conti, la domanda di equa riparazione, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001 (nel testo originario, applicabile "ratione temporis"), può essere proposta, secondo Sez. 6-2, n. 26854/2021, Abete, Rv. 662372-01, anche all’esito del giudizio di revocazione ordinaria, sempre che questo sia stato introdotto entro sei mesi dal deposito della sentenza che ha concluso il giudizio presupposto, essendo irrilevante, perché assolutamente straordinario, il termine di tre anni previsto per la revocazione dall’art. 68 del r.d. n. 1214 del 1934.

Se poi sia proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte dei conti pronunciata su impugnazione per revocazione, può sorgere questione di giurisdizione, secondo Sez. U, n. 31559/2021, Stalla, Rv. 662652-01, solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando esclusa la possibilità di mettere in discussione tale potere sulla precedente decisione di merito e, infatti, il ricorso è stato, nella specie, ritenuto inammissibile in quanto diretto a censurare il corretto esercizio in concreto del potere giurisdizionale di revocazione.

5. L’opposizione di terzo.

L’art. 404, c.p.c. prevede, al primo comma, che un terzo possa fare opposizione contro la sentenza, passata in giudicato o comunque esecutiva, pronunciata tra altre persone quando questa pregiudichi i suoi diritti e, al secondo comma, che gli aventi causa e i creditori di una delle parti possano fare opposizione alla sentenza, quando sia l’effetto di dolo o collusione a loro danno. Il relativo procedimento è disciplinato dagli artt. 405 e ss. c.p.c..

Il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c. presuppone che l’opponente azioni un diritto autonomo, la cui tutela sia però incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata, come chiarito da Sez. 1, n. 18601/2021, Iofrida, Rv. 661614-01, sicché, in un giudizio di disconoscimento di paternità, è inammissibile l’opposizione di terzo proposta da colui che sia indicato come vero padre, avverso la sentenza, passata in giudicato, di disconoscimento della paternità, quando l’opponente deduca che l’esito (positivo) dell’azione di disconoscimento di paternità si riverberi sull’azione di riconoscimento della paternità intentata nei suoi confronti, in quanto il pregiudizio fatto valere è di mero fatto.

Esso, inoltre, può riguardare anche la sentenza di primo grado esecutiva, purché, però, sia pendente il giudizio di impugnazione ordinaria, giacché, una volta che la sentenza d’appello passa in giudicato, viene meno l’interesse alla causa promossa ex art. 404 c.p.c., poiché la sentenza opponibile diviene quella resa dal giudice di secondo grado (Sez. 2,n. 27715/2021, Gorjan, Rv. 662546-01).

È attraverso tale rimedio che, secondo Sez. L, n. 34016/2021, Buffa, Rv. 662775-01, può trovare tutela, ad esempio, il creditore non integralmente soddisfatto al quale, nel procedimento di esdebitazione del fallito, non siano stati notificati domanda e decreto di fissazione dell’udienza innanzi al tribunale, benché litisconsorte necessario in applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2008, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo "in parte qua" l’art. 143 l. fall.. Si è detto, infatti, che il litisconsorte pretermesso non potrà ritenere inefficace la pronuncia così emessa ma dovrà invece necessariamente proporre opposizione di terzo nella procedura fallimentare, restandogli preclusa ogni tutela, anche cautelare, avverso l’efficacia esecutiva o gli effetti esecutivi o accertativi derivanti dalla decisione inter alios non opposta sino al passaggio in giudicato della sentenza che riconosca la situazione come da lui dedotta. In applicazione di tale principio, è stata dunque cassata la sentenza di merito che aveva viceversa ritenuto inopponibile all’INPS, creditore concorrente non integralmente soddisfatto, il provvedimento di esdebitazione.

Peraltro, quando siano violate le norme sul litisconsorzio necessario, senza che questo sia rilevato né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354, primo comma, c.p.c., come nel caso di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del conduttore nel giudizio di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. ad ordinanza di convalida di sfratto per morosità, è l’intero processo ad essere viziato, secondo quanto chiarito da Sez. 3, n. 04665/2021, Guizzi, Rv. 660603-01, ciò che impone l’annullamento, anche d’ufficio, in sede di giudizio di cassazione, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, terzo comma, c.p.c.

L’opposizione di terzo non è invece consentita, avverso la decisione afferente al disconoscimento di paternità, a colui che affermi di essere il padre biologico di un figlio nato in costanza di matrimonio. In proposito, Sez. 1, n. 27560/2021, Parise, Rv. 662636-01, ha, infatti, chiarito che costui non può agire per l’accertamento della propria paternità se prima non viene rimosso lo "status" di figlio matrimoniale con una statuizione che abbia efficacia "erga omnes", non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona, e - pur non essendo legittimato a proporre l’azione di disconoscimento di paternità, né potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l’ opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta - in qualità di "altro genitore", può comunque chiedere, ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c., la nomina di un curatore speciale, che eserciti la relativa azione, nell’interesse del presunto figlio infraquattordicenne.

  • servizio pubblico
  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione del lavoro
  • procedimento giudiziario
  • controversia di lavoro

CAPITOLO XVI

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Giovanni Maria Armone )

Sommario

1 La giurisdizione nelle controversie di lavoro e previdenziali. - 1.1 Giurisdizione e vicende del rapporto d’impiego pubblico privatizzato. - 1.2 I rapporti con la giurisdizione contabile. - 1.3 Rapporti di lavoro con elementi di internazionalità. Giurisdizione e legge applicabile. - 1.4 Altre ipotesi. - 2 La competenza. - 3 Il giudizio di primo grado. La fase introduttiva e le preclusioni. - 3.1 I poteri officiosi istruttori del giudice. - 3.2 La fase decisoria. - 3.3 Il giudicato. - 4 Le impugnazioni. - 5 Il procedimento ex art. 28 st.lav. - 6 Il cd. rito Fornero. - 7 Il processo previdenziale e assistenziale. - 8 L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c.

1. La giurisdizione nelle controversie di lavoro e previdenziali.

Nel corso del 2021, la S.C. ha proseguito la sua opera di delimitazione della giurisdizione in materia lavoristica e previdenziale, in più direzioni.

1.1. Giurisdizione e vicende del rapporto d’impiego pubblico privatizzato.

Di primario interesse, non solo per la fattispecie esaminata, ma anche per la ricapitolazione compiuta sul tema della giurisdizione nelle ipotesi di stabilizzazione del precariato per via legislativa, è Sez. U, n. 40953/2021, Marotta, Rv. 663713-01.

La sentenza era alle prese con la stabilizzazione prevista dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017.

Dopo aver sottolineato che la disposizione era costruita in termini del tutto analoghi a quelli delineati dal più antico art. 1, commi 519 ss., della l. n. 296 del 2006, le Sezioni Unite hanno ad essa applicato l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidatosi a proposito di quest’ultima norma (a partire da Sez. U, n. 16041/2010, Picone, Rv. 613782-01, che ha sancito la necessità di interpretare la parola “concorsuale” in senso restrittivo, passando da Sez. U, n. 19552/2010, Di Cerbo, Rv. 614163-01, e finendo con le più recenti Sez. U, n. 19167/207, Manna A., non massimata, e Sez. U, n. 29915/2017, D’Antonio, Rv. 646305-01).

Si tratta di stabilizzazioni che non prevedono alcuna procedura concorsuale, «bensì esclusivamente un percorso assunzionale che, per la bipartizione sopra ricordata, riguarda dipendenti già reclutati a tempo determinato mediante procedure concorsuali e nell’ambito del quale la P.A., sulla base di un’attualizzata programmazione del fabbisogno e nei limiti dei vincoli di spesa pubblica, una volta esercitata la facoltà di fare luogo al processo di stabilizzazione, deve soltanto verificare la sussistenza dei requisiti predeterminati dalla legge, senza, quindi, esercitare alcun pubblico potere. A termini della indicata disposizione, del resto, l’Amministrazione non ‘bandisce’ un concorso, ma si limita a dare ‘avviso’ della procedura di stabilizzazione e della possibilità degli interessati di presentare la domanda». (§10 della sentenza).

A distanza di molti anni dalla privatizzazione, il discrimine temporale fissato al 30 giugno 1998 per l’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione in materia di pubblico impiego continua a sollevare problemi e sollecitare precisazioni.

Di rilievo è quella fornita da Sez. U, n. 05421 del 26/02/2021, Esposito, Rv. 660465-01, secondo cui, in materia di rapporti di lavoro instaurati con lo Stato ed altre pubbliche amministrazioni, la giurisdizione deve essere determinata quoad tempus in base ai fatti costitutivi del diritto rivendicato tutte le volte in cui essi vengano in rilievo a prescindere dal loro collegamento con uno specifico atto di gestione del rapporto da parte dell’amministrazione, e, invece, in base alla data dell’atto emesso da questa quando il regime del rapporto preveda che la giuridica rilevanza dei fatti sia assoggettata ad un preventivo apprezzamento dell’amministrazione medesima ed alla conseguente declaratoria della sua volontà al riguardo. Infatti, l’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, nell’escludere dal trasferimento alla giurisdizione ordinaria tutte le controversie che, sebbene introdotte successivamente alla data del 30 giugno 1998, abbiano ad oggetto questioni attinenti al periodo di rapporto di lavoro pubblico anteriore a tale data, utilizza una locuzione generica, che pone l’accento sul dato storico, costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze, in relazione alla cui giuridica rilevanza sia sorta la controversia. Ne consegue che, con riferimento all’accertamento del diritto all’inquadramento del lavoratore, il momento da cui dipende la giurisdizione è quello dell’emanazione dell’atto impugnato che ne determina la lesione, senza che rilevi che si riferisca ad un periodo lavorativo antecedente al 30 giugno 1998, o che il provvedimento sia stato adottato revocando in autotutela altro atto amministrativo antecedente alla stessa data.

Peraltro, il perpetuarsi della giurisdizione amministrativa ex art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, riveste carattere eccezionale. Per questo, in caso di assegnazione della sede di lavoro presso una amministrazione pubblica (all’esito della procedura concorsuale per l’assunzione in servizio), intervenuta con contratto stipulato successivamente al 30 giugno 1998, deve riconoscersi la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia in cui, sul presupposto della definitività della graduatoria e senza in alcun modo censurare lo svolgimento del concorso ed il relativo atto finale, si faccia valere, in base all’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, il diritto - che sorge con l’assunzione al lavoro e, dunque, in un momento successivo all’esaurimento della procedura concorsuale - alla scelta della sede di lavoro più vicina al proprio domicilio (Sez. U, n. 16086/2021, Torrice, Rv. 661539-01).

Sempre lungo il confine atto di gestione/atto amministrativo si colloca poi Sez. U,n. 20041/2021, Garri, Rv. 661708-01, secondo cui spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sulla controversia avente ad oggetto la reintegrazione del dipendente comunale nell’incarico dirigenziale revocato dal Comune sulla base di un decreto del Ministero dell’interno adottato ai sensi dell’art. 143 T.U.E.L., in quanto non viene in rilievo un atto di gestione del rapporto di lavoro assunto nell’esercizio dei poteri propri del datore, bensì un atto doverosamente conformativo ad un provvedimento autoritativo già deliberato, rientrante nella competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma, ai sensi dell’art. 135 comma 1 lett. q) del c.p.a.

Rientrano invece nella giurisdizione ordinaria: - la cognizione sulla controversia relativa al mancato rinnovo del contratto di lavoro autonomo stipulato dall’INPS all’esito di selezione pubblica con i medici incaricati delle procedure di valutazione per la concessione dell’invalidità civile, atteso che il rapporto di lavoro instaurato è di natura parasubordinata, e pertanto privatistica, e che la procedura selettiva ha caratteristiche negoziali e non di pubblico concorso (Sez. U, n. 27889/2021, Tricomi I., Rv. 662450-01); - la cognizione sulla procedura per il conferimento degli incarichi di specialista ambulatoriale interno in convenzione con le aziende del servizio sanitario nazionale, trattandosi anche in questo caso di selezione priva di natura concorsuale, espressiva del potere negoziale della P.A. in veste di datore di lavoro (Sez. U, n. 10360/2021, Tricomi I., Rv. 661017-01).

Sulla stessa falsariga, adottando tuttavia il criterio discretivo diritto soggettivo/interesse legittimo, si pone Sez. U, n. 00618/2021, Torrice, Rv. 660217-01, che, nel caso di una domanda di un dirigente medico, dipendente ASL, di esonero dal servizio di guardia notturna, festiva e di reperibilità per motivi di salute, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario, facendo leva sul fatto che si trattava di accertare l’esistenza o meno di un diritto soggettivo e reputando irrilevante la circostanza che, ai fini del riconoscimento dell’esonero, fosse previsto un parere di idoneità, con prescrizioni, emesso dalla Commissione medica competente, parere considerato mero atto di verifica sanitaria.

Ugualmente devolute al giudice ordinario (Sez. U, n. 27888/2021, Tricomi I., Rv. 662467-01) sono le controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), già Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP).

Nella materia scolastica, poi, la giurisdizione sulle controversie concernenti le graduatorie a esaurimento si determina sulla base del petitum: allorché oggetto della domanda sia la richiesta di annullamento della disciplina di tali graduatorie, adottata con un atto regolamentare di normazione sub-primaria, che costituisce esercizio di potestà autoritativa nella individuazione dei criteri di inserimento, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo (Sez. U, n. 08774/2021, Doronzo, Rv. 660857-03: la fattispecie concreta riguardava il ricco contenzioso alimentato dai docenti, titolari di diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001-2002, che aspiravano all’inserimento nelle suddette graduatorie).

Infine, va rammentato che rientra nella giurisdizione amministrativa, in considerazione della permanenza della giurisdizione esclusiva con riferimento ai rapporti di lavoro dei magistrati togati, la controversia avente ad oggetto la domanda di un giudice di pace, volta ad ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato con il Ministero della Giustizia, per aver svolto le stesse funzioni giurisdizionali espletate dai magistrati togati (Sez. U, n. 21986/2021, Garri, Rv. 661873-01).

1.2. I rapporti con la giurisdizione contabile.

Nella materia lavoristico-previdenziale, è spesso disagevole tracciare una linea di confine tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione contabile.

Sul versante pensionistico, la formale assegnazione alla Corte dei conti delle controversie in materia ex art. 13 del r.d. n. 1214 del 1934 non sempre è sufficiente, vuoi perché l’oggetto della domanda giudiziale concerne talvolta diritti e riconoscimenti che, pur attenendo al rapporto lavorativo, si proiettano nella fase di quiescenza, vuoi per l’accavallarsi delle riforme in materia, soprattutto a séguito della privatizzazione del pubblico impiego.

Nel corso del 2021, tuttavia, non si sono registrate particolari novità e la S.C. è stata chiamata essenzialmente a consolidare propri precedenti orientamenti.

Così, sulla falsariga di Sez. U, n. 07830/2020, D’Antonio, Rv. 657527-01, è stato confermato che la domanda di accertamento delle condizioni sanitarie preordinate al riconoscimento del beneficio contributivo ex art. 80, comma 3, della l. n. 388 del 2000, introdotta dal pubblico dipendente con procedimento ex art. 445 bis c.p.c., in quanto strumentale all’adozione del provvedimento amministrativo di attribuzione di un beneficio, pari a due mesi di contribuzione figurativa per ogni anno di servizio, rilevante ai fini della quantificazione dell’anzianità contributiva utile per la determinazione dell’"an" e del "quantum" della prestazione pensionistica, appartiene alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti (Sez. U, n. 12903/2021, Marotta, Rv. 661140-01).

Quanto al novero degli enti rientranti nel raggio d’azione della previdenza pubblica, Sez. U, n. 00784/2021, Torrice, Rv. 660145-01, è ritornata sul trattamento pensionistico dei dipendenti in quiescenza delle Poste Italiane Spa (già Ente Poste Italiane) per riaffermare – sulla scia di Sez. U, n. 16168/2011, Di Cerbo, Rv. 618496-01 – la giurisdizione contabile sulle controversie che abbiano direttamente per oggetto il trattamento di pensione senza alcun riflesso sul rapporto di lavoro già risolto, (nella specie, l’accertamento del diritto a non vedersi applicate le riduzioni previste dall’art. 1, commi da 260 a 268, della l. n. 145 del 2018, e, subordinatamente, delle corrette riduzioni da applicare). Ciò in quanto la giurisdizione va determinata, ai sensi dell’art. 386 c.p.c., sulla base dell’oggetto della domanda secondo il criterio del petitum sostanziale e il d.l. n. 487 del 1993, convertito nella l. n. 71 del 1994, che ha trasformato l’amministrazione postale in ente pubblico economico, ha affidato alla cognizione del giudice ordinario solo le controversie concernenti il rapporto di lavoro di diritto privato con detto ente, senza modificare le preesistenti regole di riparto della giurisdizione per quanto riguarda le questioni relative al trattamento pensionistico.

Sul diverso versante della competenza della Corte dei conti in materia di danno erariale, si registra Sez. U, n. 27890/2021, Tricomi I., Rv. 662468-01, secondo cui la controversia insorta a seguito di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, emessa ex art. 3 del r.d. n. 639 del 1910 nei confronti di un dirigente della regione Sicilia per il rimborso dei compensi da quest’ultimo percepiti quale compenso per incarichi ritenuti aggiuntivi, ai sensi dell’art. 13, comma 4, della l.r. n. 10 del 2000, in attuazione del principio di onnicomprensività del trattamento economico della dirigenza di cui alla l.r. n. 19 del 2008, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che in tale caso l’ente locale non ha promosso azione di responsabilità per danno erariale, rimessa alla giurisdizione contabile, ma ha agito per l’adempimento di un’obbligazione gravante sul lavoratore che trova fondamento nel rapporto di lavoro, non rilevando il danno e la colpa del dipendente medesimo, ma la mera percezione di quanto andava devoluto al bilancio regionale.

1.3. Rapporti di lavoro con elementi di internazionalità. Giurisdizione e legge applicabile.

Quando il rapporto di lavoro presenta elementi di internazionalità, legati alla sede di lavoro o alla nazionalità di una delle parti, si pongono problemi sia di giurisdizione, sia di legge applicabile.

Una questione ricorrente è quella del personale civile italiano che svolga la sua attività alle dipendenze delle forze NATO: Sez. U, n. 29556/2021, Mancino, Rv. 662539-01, ha chiarito che la giurisdizione è del giudice italiano, trovando applicazione l’art. 9 della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, resa esecutiva in Italia con la l. n. 1355 del 1955, secondo cui le condizioni di impiego e di lavoro delle persone assunte per i bisogni locali di manodopera - in particolare per quanto riguarda il salario, gli accessori e le condizioni di protezione dei lavoratori - al fine del soddisfacimento di esigenze materiali (cd. personale a statuto locale), sono regolate conformemente alla legislazione in vigore nello Stato di soggiorno. Le Sezioni Unite hanno escluso che tale disciplina speciale sia stata derogata dall’art. 11, comma 2, lett. c), della Convenzione di New York sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni che, nelle disposizioni finali, ha fatto salvi gli accordi internazionali già vigenti tra gli Stati Parti su materie analoghe all’oggetto della Convenzione medesima.

Assai peculiare è la fattispecie affrontata e decisa da Sez. U, n. 20819/2021, Tricomi I., Rv. 661868-01, in cui un’organizzazione sindacale aveva proposto, ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, una domanda diretta ad accertare il carattere discriminatorio della clausola di un contratto di lavoro tendente ad inibire ogni azione sindacale del lavoratore e ogni rapporto del datore di lavoro con organizzazioni sindacali. La S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice italiano attraverso il seguente percorso argomentativo: la domanda ha natura extracontrattuale, in quanto la clausola, oltre a declinarsi nell’ambito dell’autonomia negoziale e del rapporto di lavoro, ricade anche sull’autonomia collettiva e sulle relazioni sindacali, incidendo sul diritto di libertà sindacale sia individuale che collettiva; ne consegue, ai fini dell’individuazione del giudice avente la competenza giurisdizionale sulla relativa controversia, che trova applicazione, non già l’art. 21 del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio, che presuppone la proposizione di un’azione relativa ad un contratto individuale di lavoro, ma l’art. 7 del Regolamento medesimo, ai sensi del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire.

Nell’ipotesi di rapporto di lavoro sorto all’estero, cui sia applicabile la legge italiana, Sez. L, n. 12344/2021, Blasutto, Rv. 661198-01, ha sancito che la domanda con la quale il lavoratore chiede dichiararsi l’illegittimità del licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro, introduce una controversia relativa ad obbligazioni contrattuali ai sensi dell’art. 57 della l. n. 218 del 1995. La legge applicabile a tale controversia, pertanto, dev’essere individuata secondo le disposizioni della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva con l. n. 975 del 1984, le quali consentono di escludere l’applicazione di una legge straniera che sia contraria all’ordine pubblico.

1.4. Altre ipotesi.

Un’ipotesi assai peculiare è quella decisa da Sez. U, n. 00615/2021, Torrice, Rv. 660216-01, in cui la controversia aveva per oggetto la pretesa risarcitoria di un imprenditore, il quale lamentava la lesione dell’affidamento riposto nella condotta della P.A. in materia di cassa integrazione guadagni, ordinaria e straordinaria. La S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario, riconducendo la pretesa alla responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c.; ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.

2. La competenza.

Non numerose, ma significative, nell’anno in rassegna le pronunce in tema di competenza nel processo del lavoro.

Così, in tema di azioni lavoristiche in materia di discriminazione di genere, si è affermato che, ove la controversia sia promossa direttamente in via ordinaria, ai fini dell’individuazione della competenza per territorio occorre far riferimento al criterio del luogo in cui è avvenuto il comportamento denunziato, ex art. 38 del d.lgs. n. 198 del 2006, da ritenersi esclusivo ed inderogabile non solo rispetto all’azione specificamente prevista dal citato d.lgs., ma anche rispetto a quella ordinaria, avuto riguardo all’importanza primaria che, nel nostro sistema di valori, rivestono le finalità perseguite dal legislatore attraverso la disciplina antidiscriminatoria e all’esigenza di comuni regole processuali atte a garantire una tutela effettiva per l’attuazione dei principi di parità di trattamento (Sez. 6-L, n. 17392/2021, Ponterio, Rv. 661689-01).

In sede di opposizione all’esecuzione, la competenza del giudice del lavoro fissata dall’art. 618-bis c.p.c. resta ferma anche nell’ipotesi in cui l’armatore proponga opposizione all’esecuzione avverso il pignoramento di una propria nave, in conseguenza di controversia individuale di lavoro marittimo; quanto all’individuazione del giudice del lavoro territorialmente competente, essa deve essere effettuata in base ai criteri fissati dall’art. 603 c.n., in quanto, anche dopo la sentenza n. 29 del 1976 della Corte costituzionale, esso conserva vigore per quanto attiene ai criteri di determinazione della competenza territoriale, non essendo stato abrogato, né esplicitamente, né implicitamente, dalla legge 11 agosto 1973,n. 533, non trovando applicazione la disciplina di cui all’art. 643 c.n. (Sez. 6-L, n. 05725/2021, Leone, Rv. 661041-01).

Più classica la questione esaminata da Sez. 6-L, n. 03400/2021, De Felice, Rv. 660638-01, con cui si è ribadito che nelle controversie soggette al rito del lavoro in cui, ai sensi dell’art 413, comma 2, c.p.c., è competente per territorio, in via alternativa, anche il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto, in caso di contratto concluso per telefono, il forum contractus va individuato nel luogo in cui l’accettazione è giunta a conoscenza del proponente.

In caso di declaratoria di incompetenza, Sez. L, n. 05542/2021, Cavallaro, Rv. 660676-01, ha precisato che, a seguito della riassunzione della causa a norma dell’art. 50 c.p.c. davanti al giudice dichiarato competente, il processo continua davanti al nuovo giudice mantenendo una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e processuali di quello svoltosi davanti al giudice incompetente, poiché la riassunzione non comporta l’instaurazione di un nuovo processo, bensì costituisce la prosecuzione di quello originario (la S.C. ha così cassato con rinvio la decisione di merito che, nel rito del lavoro, aveva riconosciuto rilevanza preclusiva alla non contestazione, ex art. 416 c.p.c., valutando il contegno processuale tenuto dalla parte alla prima udienza dinanzi al giudice della riassunzione, in luogo di quello avuto nel giudizio a quo).

Fuori dalla materia della competenza in senso tecnico, un’importante pronuncia è rappresentata da Sez. U, n. 02145/2021, Doronzo, Rv. 660222-01, chiamata a dirimere un contrasto relativo alle controversie in tema di opposizione ad ordinanza-ingiunzione che abbiano ad oggetto violazioni concernenti le disposizioni in materia di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro, di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria, diverse da quelle consistenti nella omissione totale o parziale di contributi o da cui deriva un’omissione contributiva. Le Sezioni Unite hanno escluso che, nel regime introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, dette controversie, pur regolate dal rito del lavoro, rientrino tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c.; ne consegue che ad esse si applica la sospensione dei termini in periodo feriale.

A proposito invece del riparto di competenza tra giudice del lavoro e giudice del fallimento, Sez. L, n. 30512/2021, Cinque, Rv. 662657-01, ha sancito che, qualora difetti un interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all’interno dell’impresa e sia domandato un accertamento del diritto di credito risarcitorio, in via strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura, la cognizione spetta al giudice fallimentare (fattispecie riguardante un dirigente, assunto con contratto a tempo determinato e poi licenziato, che aveva agito davanti al giudice del lavoro, rivendicando la sola tutela risarcitoria nei confronti dell’impresa, fallita in corso di causa).

Quando invece la domanda miri all’accertamento del licenziamento nell’ambito di una procedura di amministrazione controllata, la competenza del tribunale viene meno, non avendo la relativa domanda finalità recuperatoria (Sez. L, n. 41568/2021, Cinque, Rv. 663414 - 01).

3. Il giudizio di primo grado. La fase introduttiva e le preclusioni.

Sulla scorta di Corte cost. n. 212 del 2020, va anzitutto segnalata Sez. L, n. 03818/2021, Buffa, Rv. 660443-01: ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento ex art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010, sono da considerare idonei il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, nonché il deposito - ai sensi degli artt. 669 bis, 669 ter e 700 c.p.c. - del ricorso cautelare anteriore alla causa.

Sempre a proposito della decadenza ex art. 6 della l. n. 604 del 1966, Sez. L, n. 37593/2021, Marotta, Rv. 663009-01, ha ricordato che essa si applica anche ai licenziamenti del pubblico impiego, in virtù del rinvio operato dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 alle disposizioni sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa.

Altre pronunce si sono poi espresse su questioni basilari della fase introduttiva: Sez. L,n. 02673/2021, Pagetta, Rv. 660342-01, ha ricordato che la nullità del ricorso per violazione dei termini a comparire è sanata dalla costituzione del convenuto; tuttavia, ove quest’ultimo eccepisca, costituendosi, tale vizio, il giudice è tenuto a fissare nuova udienza nel rispetto dei suddetti termini, dovendosi presumere che tale violazione abbia impedito al convenuto, che pure si sia difeso nel merito, una più adeguata difesa; Sez. L, n. 22930/2021, Spena, Rv. 662093-01, ha invece chiarito che, in caso di proposizione di distinte azioni di impugnazione, per ragioni diverse, del medesimo atto di licenziamento, non sussiste litispendenza tra i due giudizi, pur aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale, salvo valutare se alla base della nuova iniziativa giudiziaria vi sia un interesse oggettivo del lavoratore al frazionamento della tutela avverso l’unico atto di recesso.

Sul tema, sempre dibattuto, degli oneri di allegazione e contestazione, meritano di essere segnalate le seguenti decisioni.

Sez. L, n. 22254/2021, D’Antonio, Rv. 662118-01, ha chiarito che l’onere di allegazione concerne unicamente i fatti, non le prove (documentali e non), delle quali basta la specifica indicazione prevista, nel rito speciale, dagli artt. 414 e 416 c.p.c., senza che le parti siano gravate dall’onere ulteriore di spiegarne la rilevanza e idoneità dimostrativa, che invece vanno valutate d’ufficio dal giudice; pertanto, la specificazione dei fatti oggetto di richiesta di prova testimoniale è soddisfatta quando, sebbene non definiti in tutti i loro minuti dettagli, essi vengono esposti nei loro elementi essenziali per consentire al giudice di controllarne l’influenza e la pertinenza e all’altra parte di chiedere prova contraria, giacché la verifica della specificità e della rilevanza dei capitoli di prova va condotta non soltanto alla stregua della loro letterale formulazione, ma anche in relazione agli altri atti di causa e a tutte le deduzioni delle parti, nonché tenendo conto della facoltà del giudice di domandare ex art. 253, comma 1, c.p.c. chiarimenti e precisazioni ai testi.

Sez. 6-3, n. 18718/2021, Cirillo F.M., Rv. 661912-01, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 415 c.p.c., nella parte in cui non prevede che l’obbligo di notifica al convenuto del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza contenga l’avvertimento di cui all’art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c.: tale mancata previsione non comporta alcuna lesione del diritto di difesa od al giusto processo e ciò, tanto più, in ragione del fatto che la regolazione degli istituti processuali, salvo il limite della palese irrazionalità o dell’arbitrio, rientra nell’ampia discrezionalità del legislatore.

Per converso, l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte e dedotti nel processo, non anche per quelli ad essa ignoti o allegati in sede extraprocessuale, atteso che il principio di non contestazione trova fondamento nel fenomeno di circolarità degli oneri di allegazione, confutazione e prova, di cui agli artt. 414, nn. 4 e 5, e 416 c.p.c., che è tipico delle vicende processuali (Sez. L, n. 02174/2021, Cavallaro, Rv. 660331-01).

Sempre sugli oneri del convenuto, Sez. L, n. 10375/2021, Cavallaro, Rv. 661101-01, ha rammentato che nel giudizio proposto contro l’I.N.A.I.L. per il riconoscimento delle prestazioni conseguenti ad infortunio sul lavoro, la negazione della causa o dell’occasione di lavoro da parte del convenuto senza deduzione di fatti o titoli diversi da quelli posti dall’attore a fondamento della domanda, integra una mera difesa non soggetta alle preclusioni previste dagli artt. 416 e 437 c.p.c., rispettivamente per il primo grado e per l’appello, e non un’eccezione in senso sostanziale idonea ad invertire l’onere della prova, gravante sull’infortunato, dei fatti costitutivi della domanda, sicché in presenza della sopraindicata negazione, che vale come non ammissione dei fatti costitutivi della domanda, permane il potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza di questi ultimi.

Le rigide scansioni del processo del lavoro determinano effetti rilevanti anche in altre direzioni, ad es. sul controverso tema del rilievo officioso delle nullità sostanziali. Esso è infatti ammissibile esclusivamente se basato su fatti ritualmente introdotti, o comunque acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendosi fondare su fatti di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) possa ipotizzare solo in astratto la verificazione e la cui introduzione presupponga l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito (Sez. L, n. 36353/2021, Bellè, Rv. 662922-01, fattispecie in cui la S.C. ha escluso che, in tema di pubblico impiego privatizzato, potesse essere rilevata d’ufficio la nullità del licenziamento disciplinare, intimato da organo incompetente ex art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, tardivamente eccepita, non risultando acquisite le circostanze di fatto relative all’organizzazione interna dell’ente ed alle modalità con cui era stato adempiuto l’obbligo di previa individuazione dell’UPD).

In coerenza con questo indirizzo, la locuzione "questione rilevata d’ufficio", di cui all’art. 101, comma 2, c.p.c., deve intendersi riferita alle questioni - siano esse di fatto o miste di fatto e diritto - che implichino la valorizzazione di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere in giudizio, non potendo la parte attrice, che abbia errato nella definizione del thema decidendum o del thema probandum relativi al fatto costitutivo del diritto, confidare nel proprio errore per essere rimessa in termini, al fine di chiedere prove o integrare le argomentazioni difensive, atteso che, diversamente e con specifico riferimento al processo del lavoro, la previsione di cui all’art. 101, comma 2, c.p.c. si troverebbe in aperta contraddizione con il sistema delle preclusioni assertive e probatorie fissato negli artt. 414 e 416 c.p.c. (Sez. L, n. 35974/2021, Cavallaro, Rv. 662917-01, in materia previdenziale).

Sez. L, n. 22371/2021, Piccone, Rv. 662113-01, ha peraltro ribadito che il regime delle preclusioni non riguarda le eccezioni in senso lato, che restano rilevabili d’ufficio, anche in appello (v. infra).

Un’ipotesi particolare è quella regolata dall’art. 80, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui la denuncia dei vizi del procedimento certificativo degli artt. 75 ss. del citato d.lgs. va fatta all’autorità giudiziaria di cui all’art. 413 c.p.c.: Sez. L, n. 30745/2021, Piccone, Rv. 662591-01, ha affermato che detta denuncia è ammissibile per denunciare l’omessa qualificazione del contratto oppure la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua attuazione.

3.1. I poteri officiosi istruttori del giudice.

Il tema dei confini dell’art. 421 c.p.c. è sempre all’ordine del giorno, ma nell’anno in rassegna la Cassazione si è limitata ad alcune puntualizzazioni.

Sez. L , n. 09823/2021, Amendola F., Rv. 661008-01, ha affermato la correttezza dell’operato del giudice, il quale, nell’ambito di una controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se venisse rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall’art. 421 c.p.c., e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un orario a tempo pieno.

Anche l’acquisizione, da parte del c.t.u., di documenti non prodotti dalle parti è riconducibile ai poteri istruttori officiosi: ne consegue (Sez. L, n. 24024/2021, Buffa, Rv. 662154-01) che, da un lato, essa è ammissibile solo previa autorizzazione del giudice, e dall’altro che quest’ultimo è tenuto ad di assegnare un termine per la formulazione della prova contraria alla parte che ne faccia richiesta.

3.2. La fase decisoria.

A proposito della decisione della causa, un’importante precisazione è giunta da Sez. L, n. 06086/2021, Bellè, Rv. 660684-01: il principio di immutabilità del giudice trova applicazione con riferimento all’inizio della discussione, sicché, anche nel rito del lavoro, la diversità di composizione tra il collegio che ha assistito alla stessa e quello che ha deciso determina la nullità assoluta e insanabile della pronuncia.

Sulla lettura del dispositivo in udienza, la Cassazione ha invece confermato che al verbale di udienza redatto dal cancelliere va attribuita fede privilegiata, fino a querela di falso, anche con riferimento alla parte contenente l’indicazione dell’avvenuta lettura del dispositivo in udienza; ne consegue che, in caso di contrasto tra il verbale della discussione e il dispositivo letto in udienza della sentenza d’appello circa la composizione del collegio giudicante, tutta la sentenza deve ritenersi affetta da nullità insanabile per la non coincidenza tra il collegio della fase di discussione della causa e quello deliberante, né tale contrasto e la conseguente nullità possono essere eliminati mediante il procedimento di correzione degli errori materiali (Sez. L, n. 35057/2021, De Marinis, Rv. 662761-01) e che, ove sia mancata la proposizione della querela di falso, è irrilevante la mera deduzione in sede di legittimità che la lettura del dispositivo in udienza in realtà non sia avvenuta (Sez. L, n. 36727/2021, Ponterio, Rv. 662923-01).

3.3. Il giudicato.

Nei rapporti di durata come quelli di lavoro il tema dei limiti oggettivi del giudicato dà luogo a questioni di non facile soluzione.

Ne costituiscono un significativo esempio due pronunce rese dalla S.C. nell’anno in rassegna.

Sez. L, n. 27787/2021, Pagetta, Rv. 662583-01, si è confrontata con l’ipotesi, non infrequente, di licenziamento reiterato; nel caso esaminato dalla Cassazione, il secondo licenziamento era stato intimato nelle more del giudizio, prima che intervenisse l’ordine di reintegrazione conseguente all’accertata illegittimità del primo recesso.

La S.C. ha ribadito che l’ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato costituisce una condanna (generica) del datore all’adempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro (e quindi ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, rappresentata, senza identificarsi con essa, dalla riattivazione del normale presupposto dell’esecuzione del rapporto) ed altresì contiene l’accertamento dell’inidoneità del licenziamento ad estinguere il rapporto al momento in cui è intimato; accertamento questo che però non si estende anche ad intervalli di tempo successivi, sicché l’ordine di reintegrazione e la condanna al pagamento delle retribuzioni per il periodo successivo al recesso datoriale restano condizionati alla permanenza del rapporto dopo il licenziamento e alla possibile incidenza di ulteriori (e successivi) fatti o atti idonei a determinare la risoluzione del rapporto stesso. Da ciò discende che - ove sia intervenuto, nelle more del giudizio e prima dell’ordine di reintegrazione, un secondo licenziamento intimato per ragioni diverse e per fatti successivi, non impugnato - il lavoratore non può far valere il giudicato formatosi in ordine all’illegittimità del primo licenziamento, assumendo che l’ordine di reintegrazione (emesso cronologicamente dopo il secondo licenziamento) contenga anche l’accertamento dell’attualità del rapporto.

Più particolare la vicenda all’origine di Sez. L,  n. 35997/2021, Bellè, Rv. 663001 - 02. Il procedimento disciplinare iniziato nei confronti di un pubblico impiegato era stato sospeso per il contemporaneo avviarsi del procedimento penale sugli stessi fatti. La Cassazione ha affermato che il dovere della P.A. di riattivazione del procedimento disciplinare all’esito del processo penale decorre solo a partire dal momento in cui sia certa la definitività della pronunzia penale, anche ai fini civili, vieppiù quando la parte civile coincide con l’amministrazione titolare del potere disciplinare; infatti, in tale evenienza, in cui il giudicato opera proprio nei riguardi del datore di lavoro, parte interessata agli effetti disciplinari di esso, l’esito dell’impugnazione della parte civile può influire anche sull’accertamento dell’entità del danno in ipotesi arrecato, con conseguente ricaduta sulla scelta della sanzione.

4. Le impugnazioni.

Un tema sempre delicato è quello della decorrenza del termine per impugnare la sentenza di primo grado nel rito del lavoro.

Utile si presenta dunque la precisazione di Sez. 6-L, n. 03394/2021, De Felice, Rv. 660637-01, con cui è stato ribadito che l’art. 429, comma 1, c.p.c., come modificato dall’art. 53, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008 - applicabile ratione temporis - prevede che il giudice all’udienza di discussione decida la causa e proceda alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, sicché, in analogia con lo schema dell’art. 281 sexies c.p.c., il termine "lungo" per proporre l’impugnazione, ex art. 327 c.p.c., decorre dalla data della pronuncia, che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., con esonero, quindi, della cancelleria dalla comunicazione della sentenza; viceversa, nella residuale ipotesi di particolare complessità della controversia, in cui il giudice fissi un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza, ai sensi dell’art. 430 c.p.c., il termine decorrerà dalla comunicazione alle parti dell’avvenuto deposito da parte del cancelliere.

Nell’anno in rassegna, si è avuto poi più di un intervento sul rapporto tra costituzione in giudizio della P.A. a mezzo di propri funzionari delegati e notifica della sentenza ai fini dell’impugnazione.

E qualche contrasto è emerso.

Secondo una prima pronuncia (Sez. L, n. 12345/2021, Marotta, Rv. 661216-01) nell’ipotesi di difesa diretta della P.A. ex art. 417 bis c.p.c., qualora il funzionario costituito abbia omesso di eleggere domicilio ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, devono ritenersi valide le notifiche effettuate presso la cancelleria del giudice adito, anche ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c., né rileva che il funzionario medesimo abbia effettuato l’indicazione del proprio indirizzo di posta elettronica certificata al momento della costituzione in giudizio, non trovando applicazione ai funzionari la disciplina normativa che ha introdotto l’obbligo di tale indicazione per i difensori (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto inammissibile, per tardività, un appello depositato oltre il termine breve computato dalla notifica della sentenza in cancelleria).

Ad avviso di Sez. L, n. 14195/2021, Bellè, Rv. 661299-01, invece, il discrimine è costituito dalla data di entrata in vigore dell’art. 16, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 221 del 2012: ove la comunicazione o notificazione, alla pubblica amministrazione che si sia difesa mediante propri dipendenti, della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado, sia stata effettuata successivamente a quella data, essa deve essere eseguita per via telematica all’indirizzo di posta elettronica comunicato ai sensi del comma 12 dell’art. 16 citato, senza che, ove effettuate al funzionario delegato con altre modalità, possa operare la sanatoria per raggiungimento dello scopo, in quanto la necessità di interpretare restrittivamente le norme in materia di decadenza dall’impugnazione esclude la possibilità di individuare un momento di decorrenza del termine breve diverso da quello che scaturisce da una comunicazione effettuata nel rispetto delle forme telematiche specificamente individuate dalla legge (nella fattispecie, la S.C. ha cassato la sentenza della corte d’appello che, avendo calcolato la decorrenza del termine per l’impugnazione della sentenza di primo grado conclusiva del cd. rito Fornero dalla comunicazione del provvedimento al funzionario incaricato, presso la cancelleria, aveva dichiarato inammissibile perché tardivo il reclamo ex art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, proposto dall’Amministrazione soccombente).

La notificazione presso la cancelleria resta, pertanto, ammissibile non già nel caso di mancata elezione di domicilio ex art. 82 del r.d. n. 37 del 1934 (inapplicabile ai funzionari della P.A. cui sia demandata la difesa in giudizio), bensì nella sola ipotesi di impossibilità di procedere alla notifica telematica, imputabile alla P.A. medesima (Sez. L, n. 32166/2021, Bellè, Rv. 662673-02).

Più piana l’interpretazione  della disciplina dell’inattività delle parti contenuta nel codice di rito: Sez. L, n. 41733/2021, Pagetta, Rv. 663599 - 01, che essa trova applicazione anche nelle controversie individuali di lavoro regolate dalla legge 11 agosto 1973, n. 533, non essendo di ostacolo a ciò la specialità del rito da questa introdotto, né i principi cui essa si ispira. Ne consegue che ove l’inattività si verifichi nell’udienza di cui all’art. 437 c.p.c., ai sensi degli artt. 181 (richiamato nel giudizio di secondo grado dall’art. 359 c.p.c.) e 348 cod. proc. civ., deve escludersi l’immediata decisione della causa in quanto la mancata comparizione di entrambe le parti (ritualmente convocate) sia all’udienza di discussione, sia alla successiva udienza di rinvio, determina la cancellazione della causa dal ruolo, e all’assenza dell’appellante alla prima udienza, ed a quella successiva di rinvio, ritualmente comunicatagli, consegue la dichiarazione di improcedibilità dell’impugnazione.

Sempre attuale è anche la questione dell’ampliamento del tema decisionale in grado d’appello.

Di rilievo appare anzitutto Sez. L, n. 31558/2021, Lorito, Rv. 662764-02, con cui si è chiarito, in tema di domanda del lavoratore di risarcimento dei danni derivanti da attività di dequalificazione e mobbing da parte del datore di lavoro, che deve ritenersi domanda nuova - come tale preclusa in appello - quella volta ad accertare comportamenti posti in essere dal datore dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, atteso che tale domanda si basa su di una causa petendi identificabile in uno specifico accadimento lesivo, spazialmente e temporalmente determinato, inidonea a ricomprendere nuovi accadimenti verificatisi nelle more del giudizio, ancorché omogenei rispetto ai precedenti. Né può ritenersi applicabile la deroga prevista dall’art. 345, comma 1, c.p.c., per "i danni sofferti dopo la sentenza", poiché tale norma si riferisce alle conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa, ma non ad ulteriori danni ricollegabili a fatti nuovi e diversi.

Sez. L, n. 02271/2021, Cinque, Rv. 660333-01, ha poi statuito che la preclusione in appello di un’eccezione nuova sussiste nel solo caso in cui la stessa, essendo fondata su elementi e circostanze non prospettati nel giudizio di primo grado, abbia introdotto in sede di gravame un nuovo tema d’indagine, così alterando i termini sostanziali della controversia e determinando la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione.

Detto regime non riguarda tuttavia le eccezioni in senso lato.

La citata Sez. L, n. 22371/2021, Piccone, Rv. 662113-01, ha ribadito che le eccezioni in senso lato restano rilevabili d’ufficio, senza che tale rilievo sia subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati in atti; il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, e ciò tanto più nel processo del lavoro, nel quale il sistema delle preclusioni trova un contemperamento, ispirato alla esigenza della ricerca della "verità materiale", nei poteri officiosi del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, anche in appello, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione (principio affermato con riguardo al rilievo d’ufficio, in grado d’appello, della mancanza di prova del requisito dimensionale, ai fini della reintegrazione del lavoratore a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo).

Sul tema specifico della domanda di restituzione delle somme versate in esecuzione di una sentenza poi cassata, va segnalata Sez. L, n. 11115/2021, Blasutto, Rv. 661104-01: essa va proposta, ex art. 389 c.p.c., allegando e provando il pagamento, al giudice del rinvio, che opera come giudice di primo grado, in quanto la domanda non poteva essere formulata in precedenza; nel contesto di tale azione restitutoria, l’avvenuto pagamento può essere desunto anche dal comportamento processuale delle parti, alla stregua del principio di non contestazione che informa il sistema processuale civile e di quello di leale collaborazione tra le parti, manifestata con la previa presa di posizione sui fatti dedotti, funzionale all’operatività del principio di economia processuale (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva negato valenza probatoria alla busta paga non quietanzata, senza tenere in conto che la controparte non aveva negato il pagamento, ma solo contestato l’importo chiesto in restituzione, perché al lordo e non al netto delle ritenute fiscali).

5. Il procedimento ex art. 28 st.lav.

In tema di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro ai sensi dell’art. 28 st.lav., la condanna di cessazione si estende a tutti i comportamenti datoriali idonei a ledere le libertà sindacali, anche se tenuti dal datore di lavoro dopo la proposizione della domanda, qualora costituiscano prosecuzione dei medesimi comportamenti dichiarati illegittimi. Lo ha affermato Sez. L, n. 31419/2021, Balestrieri, Rv. 662712-01, confermando la sentenza di merito che, in sede di rinvio, aveva condannato la parte datoriale per non aver riconosciuto il diritto dei lavoratori alla fruizione di permessi nel monte ore, anche in relazione ai permessi non fruiti dalla data della domanda alla pronuncia della sentenza.

6. Il cd. rito Fornero.

Nel corso dell’anno in rassegna, il rito introdotto dalla l. n. 92 del 2012 ha originato meno questioni meritevoli di segnalazione rispetto al passato. Ciò verosimilmente dipende, da un lato, dall’assestarsi degli indirizzi giurisprudenziali, dall’altro, dalla minore applicazione di esso che la nuova legislazione richiede.

Un’importante puntualizzazione è tuttavia giunta in tema di pubblico impiego privatizzato.

È noto come, dopo un'iniziale incertezza, la S.C. abbia sancito che le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all'art. 18 st.lav. non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata l. n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 nel testo antecedente la riforma (Sez. L, n. 11868/2016, Di Paolantonio, Rv. 640001-01; Sez. L, n. 23424/2017, Boghetich, Rv. 645884-01).

Queste affermazioni non riguardano tuttavia il rito applicabile, che, data l’ampiezza del riferimento contenuto nell’art. 1, comma 47, della l. n. 92 del 2012, resta quello cd. Fornero ogni qualvolta il ricorrente deduca – a ragione o a torto – l’applicabilità dell’art. 18 st.lav. (Sez. 6-L, n. 05701/2021, Esposito, Rv. 660947-01).

7. Il processo previdenziale e assistenziale.

La regola, fissata dall’art. 443 c.p.c., che rende procedibili le domande in materia previdenziale solo se precedute dalla domanda in sede amministrativa, si estende alle prestazioni a carico del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS. Peraltro, in tal caso, la domanda amministrativa può in tal caso essere proposta solo dopo la verifica dell’esistenza e della misura del credito, in sede di ammissione al passivo fallimentare o della liquidazione coatta amministrativa, oppure in seguito all’infruttuoso esperimento dell’esecuzione forzata in base a titolo idoneo in ipotesi di datore di lavoro non assoggettabile a procedure concorsuali; la sua presentazione, segnando la nascita dell’obbligo dell’ente previdenziale, non può essere assimilata ad una condizione dell’azione, che potrebbe efficacemente sopravvenire nel corso del giudizio. (Sez. 6-L, n. 15384/2021, Patti, Rv. 661677-01).

Particolarmente complesse sono le norme sulla decadenza nella materia previdenziale e assistenziale.

Sez. L, n. 41279/2021, Buffa, Rv. 663358-01 , si è occupata della fattispecie delineata nell’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, chiarendo che il termine ivi previsto per l’esercizio dell’azione di regresso dell’INAIL è un termine di decadenza, che decorre, in caso di pronuncia di decreto di archiviazione penale, dalla data di emissione del decreto, quale che sia la ragione della archiviazione, ed anche per il caso di archiviazione per mancanza di querela.

Nello specifico settore del collocamento dei lavori agricoli, vanno invece segnalate: Sez. L, n. 40780/2021, Cavallaro, Rv. 663375-01, con cui è stato riaffermato il principio secondo cui, nelle controversie concernenti i provvedimenti definitivi di iscrizione, non iscrizione o cancellazione nell’elenco nominativo degli operai agricoli, il termine decadenziale di centoventi giorni per l’esercizio dell’azione giudiziaria decorre dalla notifica all’interessato del provvedimento conclusivo della fase amministrativa, ove adottato nei termini previsti dall’art. 11, d.lgs. n. 375/1993, ovvero dalla scadenza dei termini 4 previsti per la pronuncia della decisione, nel caso di loro inutile decorso, assumendo l’inerzia dell’autorità amministrativa valore di provvedimento tacito di rigetto, conosciuto ex lege dall’interessato (senza che ciò sia sospettabile di illegittimità costituzionale, avendo il giudice delle leggi – Corte cost. n. 192 del 2005 – già chiarito che la finalità della decadenza di cui all’art. 22, d.l. n. 7/1970, è da rinvenire nella esigenza di accertare nel più breve tempo possibile la sussistenza del diritto all’iscrizione ed alle conseguenti prestazioni, avuto riguardo alla circostanza che l’atto di iscrizione negli elenchi costituisce presupposto per l’accesso alle prestazioni previdenziali collegate al solo requisito assicurativo, quali la indennità di malattia o di maternità, e titolo per l’accredito, per ciascun anno, dei contributi corrispondenti al numero di giornate di iscrizione negli elenchi stessi); Sez. L, n. 41469/2021, Mancino, Rv. 663412 - 01, con cui si è ribadito l’orientamento altrettanto costante, per il quale la decadenza dall’impugnativa della cancellazione dai relativi elenchi prevista dall’art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, conv., con modif., dalla l. n. 83 del 1970, è stata abrogata dall’art. 24 del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008, per essere poi ripristinata a decorrere dal 6 luglio 2011 (data di entrata in vigore del D.L. n.98/2011): pertanto, essa non è stata operante limitatamente al periodo dal 21 dicembre 2008 al 5 luglio 2011.

8. L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis c.p.c.

Il procedimento di accertamento tecnico preventivo obbligatorio è stato introdotto dal d.l. n. 98 dl 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011, per snellire e ridurre il contenzioso in materia previdenzial-assistenziale.

È così comprensibile che le rare questioni che continuano a essere portate all'attenzione della S.C. riguardino soprattutto le condizioni di ammissibilità.

La Cassazione al riguardo (Sez. 6-L, n. 14629/2021, Ponterio, Rv. 661287-01), continua a ribadire la necessità che l’accertamento medico-legale, richiesto ex art. 445 bis c.p.c. in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad una concreta utilità per il ricorrente, il che rende inammissibile il ricorso al procedimento in parola quando siano manifestamente carenti, con valutazione prima facie, altri presupposti della predetta prestazione: manca pertanto l’interesse ad agire del soggetto carente del requisito anagrafico per fruire dell’assegno mensile di invalidità.

In parallelo, l’accertamento tecnico preventivo espletato ai fini del conseguimento di una determinata prestazione, non può essere utilizzato, in caso di rigetto della domanda per insussistenza del relativo requisito sanitario, quale presupposto per l’ottenimento di una prestazione diversa, dal momento che l’indicazione, nel ricorso, della specifica prestazione invocata è essenziale sul piano dell’interesse ad agire (Sez. 6-L, n. 36382/2021, Calafiore, Rv. 663088-01).

Fa eccezione a questa regola la condizione di handicap grave di cui all’art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992, che è tutelata dall’ordinamento in funzione del successivo riconoscimento di molteplici misure finalizzate a rimuovere le singole situazioni di discriminazione dalla stessa generate; l’interesse ad agire ex art. 445 bis c.p.c. sussiste dunque indipendentemente dall’indicazione nella domanda di un determinato beneficio da ottenere (Sez. L,n. 24953/2021, Calafiore, Rv. 662268-01).

Le altre questioni affrontate nell’anno in rassegna concernono la fase dell’omologa dell’accertamento sanitario.

Sez. L, n. 02163/2021, Calafiore, Rv. 660329-01, ha negato la proponibilità del ricorso, di cui al comma 6 dell’art. 445-bis c.p.c., presentato avverso il decreto di omologa dell’accertamento sanitario, che sia stato emesso dal giudice in assenza di contestazioni ai sensi del comma 5, non potendo essere equiparate al dissenso le semplici osservazioni alla relazione tecnica del c.t.u. formulate dal consulente di parte.

Nella fase amministrativa successiva all’omologa, Sez. L, n. 22089/2021, Mancino,Rv. 662027-01, ha puntualizzato che la decorrenza del termine di 120 giorni posto dal comma 5, seconda parte, per il pagamento della prestazione all’esito dell’omologa, postula l’esigibile collaborazione dell’assistito, mediante il sollecito inoltro all’ente previdenziale, nelle forme da quest’ultimo previste, delle informazioni aggiornate concernenti gli altri requisiti del diritto alla prestazione richiesta, sicché, prima del compimento degli adempimenti incombenti sull’assistito, va esclusa la responsabilità dell’Inps per l’eventuale ritardo nell’erogazione della prestazione.

Un dettaglio, dotato tuttavia di rilevante importanza pratica, è infine quello chiarito da Sez. 6-L, n. 13854/2021, Leone, Rv. 661315-01, che ha giudicato corretto l’operato del giudice dell’omologa ex art. 445 bis c.p.c., che aveva fatto automaticamente seguire alla correzione della data di decorrenza dell’assegno di invalidità in senso sfavorevole all’assistito quella sul decisum in tema di spese, le quali, poste a carico dell’Istituto previdenziale nel decreto di omologa, erano poi state, in sede di procedura di correzione, compensate. Ciò è coerente, secondo la S.C., con i principi di celerità e ragionevole durata che informano il giusto processo.

  • procedimento giudiziario
  • esecuzione della sentenza
  • espropriazione

CAPITOLO XVII

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Titolo esecutivo. - 2 Spedizione in forma esecutiva e notifica del titolo. - 3 Precetto. - 4 Espropriazione mobiliare. - 5 Espropriazione presso terzi. - 6 Espropriazione immobiliare. - 7 Espropriazione di beni indivisi: giudizio di divisione. - 8 Espropriazione di beni in comunione legale. - 9 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 10 Opposizione all’esecuzione. - 11 Opposizione agli atti esecutivi. - 12 Opposizione di terzo all’esecuzione.

1. Titolo esecutivo.

Compete al giudice dell’esecuzione verificare se l’intrapresa esecuzione forzata sia fondata su un provvedimento giudiziale o su un atto stragiudiziale sussumibile nel catalogo, tassativo e tipico, dei titoli esecutivi delineato dall’art. 474 c.p.c. e da altre specifiche disposizioni di legge (c.d. extravagantes).

Circa i titoli di formazione stragiudiziale, l’indagine del giudice sull’idoneità esecutiva concerne (non soltanto la forma ma altresì) il contenuto del documento: occorre in particolar modo controllare se il credito per tabulas rappresentato presenti gli indefettibili connotati della certezza, liquidità ed esigibilità.

In questo ordine di idee si inquadra Sez. 3, n. 41791/2021, Tatangelo, Rv. 663693-01: ai sensi dell’art. 474 c.p.c., l’attribuzione dell’efficacia esecutiva ad un atto notarile (tanto in forma di atto pubblico quanto di mera scrittura privata con sottoscrizioni autenticate) postula che esso documenti l’esistenza attuale di una obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, sicchè qualora tale atto documenti un credito soltanto futuro ed eventuale è necessario, per l’idoneità in executivis, che anche i fatti successivi generatori dell’effettivo sorgere del credito siano provati con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Così argomentando, la S.C. ha negato natura di titolo esecutivo all’apertura di credito bancario, rogata per atto pubblico, dacché al momento della stipulazione del contratto la banca si limita a mettere a disposizione del cliente una somma, ma non è ancora creditrice, finquando la somma stessa non sia utilizzata, facendo salva l’ipotesi in cui il contratto dia espressamente atto della già avvenuta utilizzazione, in tutto o in parte, della somma messa a disposizione.

Quanto ai titoli di matrice giudiziale, la oramai pacifica lettura dell’art. 282 c.p.c. elaborata in via pretoria riconosce la provvisoria anticipazione dell’attitudine esecutiva alle solte sentenze aventi contenuto condannatorio; residuano invece incertezze qualora la statuizione di condanna corredi o comunque si accompagni nel medesimo provvedimento ad una statuizione dichiarativa o costitutiva.

Una compiuta ed organica ricostruzione sulla tematica offre Sez. 3, n. 12872/2021,Rossetti, Rv. 661380-01.

L’arresto muove dalla classificazione dei quattro tipi di rapporti prospettabili tra la pronuncia condannatoria e la statuizione dichiarativa o costitutiva: sinallagmaticità («quando il capo condannatorio costituisca un elemento costitutivo delle altre statuizioni, sicché mancando l’esecuzione di quello, non sarebbero applicabili questi»), corrispettività («quando il capo condannatorio, se messo provvisoriamente in esecuzione separatamente dalle altre statuizioni contenute nella sentenza, costringerebbe una delle parti a patire gli effetti sfavorevoli della decisione, senza goderne i benefici pur da essa scaturenti»), dipendenza («quando il capo condannatorio è la conseguenza necessaria del capo dichiarativo o costitutivo»), accessorietà («quando il capo condannatoria non incide in alcun modo sul presupposto sul contenuto del capo dichiarativo o costitutivo»).

Ascritta immediata valenza esecutiva al capo condannatorio unicamente nelle ultime due fattispecie descritte, la S.C. ha ravvisato nella sentenza di accoglimento della domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive della quota di legittima due statuizioni: l’una, sempre uguale, consistente nell’accertamento della lesione della quota di legittima e nella risoluzione, con effetto costitutivo limitato alle parti, delle disposizioni negoziali lesive; l’altra, avente contenuto di condanna, che si pone con la statuizione costitutiva in rapporto variabile, a seconda che la reintegra richieda la previa divisione di beni ereditari e la conseguente condanna di uno dei condividenti al pagamento del conguaglio, oppure unicamente il versamento da parte del donatario del controvalore della quota, ai sensi dell’art. 560 c.c., senza alcuna divisione. Ha concluso che soltanto nel secondo caso, integrandosi un rapporto di dipendenza, il capo condannatorio contenuto nella sentenza di accoglimento della domanda di riduzione è munito di immediata vis coercitiva, indipendentemente dal passaggio in giudicato del capo costitutivo, mentre, nel primo caso, venendo in considerazione un rapporto di corrispettività tra i due capi della sentenza, l’esecuzione di quello di condanna presuppone il passaggio in giudicato della statuizione costitutiva.

Sorretta da identiche premesse sistematiche, Sez. 3, n. 27416/2021, Rubino, Rv. 662417-01, ha ritenuto provvisoriamente esecutiva la condanna alla restituzione in favore dell’originario venditore di un immobile compravenduto pronunciata contestualmente alla declaratoria di nullità del contratto traslativo, individuando un rapporto di dipendenza della prima statuizione rispetto alla seconda.

Ancora con riguardo ai titoli giudiziali, l’individuazione del provvedimento idoneo alla coattiva realizzazione del dictum deve essere compiuta in consonanza con i principi che governano il sistema delle impugnazioni: in primo luogo, con l’effetto sostitutivo proprio di alcuni rimedi impugnatori.

É questa la ragione per cui, a seguito della modificazione della formulazione degli artt. 282 e 336 c.p.c. operata con la legge 26 novembre 1990, n. 353, è immediatamente esecutiva la sentenza di secondo grado che condanni alla restituzione di quanto pagato in virtù della sentenza di prime cure contestualmente riformata (Sez. 3, n. 09702/2021, Tatangelo, non massimata).

2. Spedizione in forma esecutiva e notifica del titolo.

Nella sequenza disegnata dal codice di rito, atti prodromici ad ogni tipologia di procedura esecutiva sono costituiti dalla spedizione in forma esecutiva del titolo, dalla sua notificazione, dalla notificazione dell’atto di precetto.

Per l’effetto, il processo esecutivo, che sia iniziato senza essere preceduto dalla notificazione o da una valida notificazione del titolo esecutivo e/o dell’atto di precetto, è viziato da invalidità formale, da far valere con l’opposizione agli atti esecutivi (Sez. 6-3,n. 01096/2021, D’Arrigo, Rv. 660276-01).

L’esperimento dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso l’atto di precetto per denunciare l’omessa previa o contestuale notificazione del titolo spedito in forma esecutiva ad opera del creditore intimante non è tuttavia condizionato alla deduzione (e, a fortiori, all’asseverazione) di uno specifico pregiudizio al diritto di difesa del debitore opponente, cioè a dire di un pregiudizio diverso ed ulteriore rispetto a quello insito nella mancata osservanza delle predette formalità.

Come ha osservato Sez. 6-3, n. 32838/2021, Tatangelo, Rv. 662963-01, con l’indicare espressamente gli adempimenti necessari allo svolgimento dell’azione e con il prevedere il rimedio utilizzabile per dedurre l’eventuale violazione, è la stessa legge a stabilire, in via preventiva e non sindacabile dal giudice la sussistenza di un pregiudizio per il debitore derivante dalla suddetta inosservanza ed il suo rilievo ai fini della dichiarazione di inefficacia dei relativi atti in tal guisa viziati.

3. Precetto.

Tra i requisiti di contenuto-forma dell’atto di precetto stabiliti non a pena di nullità, l’art. 480, comma 3, c.p.c., menziona «la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione».

In virtù del coordinamento con il disposto dell’art. 27 c.p.c., la prescrizione rileva ad un duplice fine: quale meccanismo di individuazione del giudice cui proporre l’opposizione esecutiva preventiva e quale luogo di notificazione dell’atto di citazione introduttivo di detta opposizione.

In linea di continuità con precedenti arresti, Sez. 6-3, n. 08024/2021, Porreca, Rv. 660988-01, ha chiarito che la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio del creditore intimante non può essere del tutto arbitraria, ma dev’essere operata in un Comune rientrante (al momento dell’intimazione) nella circoscrizione di un ufficio giudiziario che abbia competenza per il processo esecutivo; ad una dichiarazione anomala (siccome recante l’indicazione di un luogo in cui manchino beni potenzialmente staggibili) non consegue l’inefficacia dell’intero precetto, ma, su contestazione del debitore intimato, della sola dichiarazione quale criterio di determinazione della competenza del giudice dell’opposizione preventiva, restando tale dichiarazione invece valida ed efficace ai fini dell’individuazione del luogo di notificazione dell’opposizione.

Ne deriva che mentre in caso di omessa dichiarazione di elezione di domicilio da parte del creditore intimante nel precetto, la competenza per l’opposizione spetta sempre e inderogabilmente al giudice del luogo di notifica del precetto (e l’opposizione si notifica nella relativa cancelleria), ove la dichiarazione di elezione di domicilio sia stata effettuata dal creditore nel precetto, essa di regola produrrà tutti i suoi effetti (sia ai fini della determinazione della competenza per l’opposizione preventiva, sia ai fini dell’individuazione del luogo di notificazione della stessa), fatta salva l’ipotesi in cui il debitore intimato effettui una specifica contestazione sul punto (proponendo l’opposizione innanzi a giudice diverso da quello del luogo di domicilio eletto), nel qual caso gli effetti della stessa non si produrranno (a meno che il creditore non ne dimostri la regolarità), con (esclusivo) riguardo alla competenza del giudice dell’opposizione.

4. Espropriazione mobiliare.

Nella rara produzione di nomofilachia sul tema, significativo interesse desta Sez. 3,n. 41386/2021, Saija, Rv. 663447-01, dedicata alla idoneità di un tentativo di pignoramento mobiliare infruttuoso a spiegare effetti interruttivi della prescrizione del credito.

La pronuncia descrive, con analiticità, le scansioni caratterizzanti il perfezionamento della fattispecie del pignoramento “diretto” di beni mobili presso il debitore: non costituita dalla notifica tout court di un atto al debitore, essa si realizza attraverso una serie di attività prodromiche (richiesta all’ufficiale giudiziario, anche proveniente dal creditore personalmente, di eseguire il pignoramento con contestuale consegna del titolo e del precetto notificati; accesso dell’ufficiale giudiziario presso l’abitazione del debitore, ricerca dei beni mobili da assoggettare al vincolo, individuazione dei beni e loro descrizione) finalizzate all’apposizione del vincolo sui beni e alla conseguente ingiunzione che l’ufficiale giudiziario deve ex art. 492 c.p.c. rivolgere al debitore esecutato (ovvero, se questi non sia presente alle operazioni, alle persone di cui all’art. 139 c.p.c.), redigendo infine apposito processo verbale ai sensi dell’art. 513 c.p.c..

Attribuita in linea generale valenza interruttiva della prescrizione ad ogni atto che, pur non rivestendo le forme della costituzione in mora, manifesti in modo inequivoco la volontà di realizzare il credito, con dichiarazione - anche orale, purché raccolta in una verbalizzazione ufficiale - indirizzata al debitore, la S.C. ha ritenuto che la richiesta di procedere a pignoramento mobiliare avanzata dal creditore all’Ufficiale Giudiziario sia apprezzabile come manifestazione univoca ed eloquente di volontà di recuperare il credito, idonea ad interrompere la prescrizione se portata a conoscenza o giunta nella sfera di conoscibilità del debitore, irrilevante essendo invece il mancato rinvenimento di beni pignorabili e la mancanza dell’ingiunzione ex art. 492 c.p.c..

La articolata argomentazione è compendiata nel seguente principio di diritto: ai fini dell’interruzione della prescrizione ai sensi degli artt. 2943, comma 4, e 2945, comma l, c.c., il tentativo di pignoramento mobiliare infruttuoso, documentato da verbale di “pignoramento negativo”, costituisce idoneo atto di esercizio del credito, a condizione che l’attività all’uopo effettuata dall’ufficiale giudiziario (accesso, ostensione del titolo esecutivo e del precetto, ricerca dei beni) sia conosciuta o conoscibile dal debitore e, dunque, che la stessa si svolga almeno in presenza dei soggetti di cui all’art. 139 c.p.c. ed in luogo appartenente alla sfera giuridica del debitore stesso, nei termini di cui all’art. 513 c.p.c..

5. Espropriazione presso terzi.

Sull’individuazione del giudice competente ratione loci per l’espropriazione forzata di crediti non assume rilevanza la natura o la ragione causale della pretesa azionata in via esecutiva: così con riferimento ad un’espropriazione promossa contro l’ex coniuge per il mancato pagamento di assegno divorziale, Sez. 6-1, n. 03881/2021, Parise, Rv. 660584-01, ha stabilito che la competenza del giudice dell’esecuzione si determina in base all’ordinaria regola dell’art. 26 bis, comma 2, c.p.c., nel luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede.

La competenza territoriale in tema di esecuzione forzata è inderogabile e rilevabile ex officio.

Il limite temporale preclusivo per il rilievo officioso della questione di competenza è fissato dall’art. 38 c.p.c., con disposizione chiaramente pensata per processo ordinario di cognizione, nella prima udienza di comparizione delle parti.

Nel riferire detta nozione alle differenti scansioni delle procedure esecutive, Sez. 6-3,n. 09904/2021, Tatangelo, Rv. 661144-01, ha puntualizzato che nell’espropriazione presso terzi il rilievo d’ufficio dell’incompetenza territoriale può sempre avvenire nel corso della prima fase del processo esecutivo - cioè quella destinata alla verifica della dichiarazione di quantità - anche se essa si svolga attraverso una pluralità di distinte udienze per la necessità di effettuare dei rinvii al fine di esaurire le relative attività, e quindi fino al momento della sua chiusura con l’emissione dei consequenziali provvedimenti (assegnazione degli importi pignorati, in caso di dichiarazione di quantità in senso positivo; instaurazione del subprocedimento di accertamento dell’obbligo del terzo, in caso di dichiarazione di quantità in senso negativo o contestata; eventuale passaggio alla fase distributiva, in caso di pluralità di creditori).

Le decisioni del giudice dell’esecuzione in ordine alla propria competenza (tanto in caso di provvedimento declinatorio quanto in caso di provvedimento affermativo) sono impugnabili esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c., strumento residuale di verifica della regolarità degli atti dell’esecuzione forzata, mentre non è ammissibile il regolamento di competenza ad istanza di parte di cui all’art. 42 c.p.c.: il controllo della competenza sull’esecuzione, ai sensi dell’art. 26 bis c.p.c., si estrinseca in prima battuta non già direttamente sul provvedimento del giudice dell’esecuzione bensì attraverso l’impugnazione, con il regolamento di competenza necessario, della pronuncia del giudice di accoglimento o di rigetto della opposizione agli atti esecutivi. Sono questi gli argomenti che hanno condotto Sez. 6-3, n. 38368/2021, Tatangelo, Rv. 662966-01, a dichiarare l’inammissibilità del regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c. sollevato d’ufficio da un giudice dell’esecuzione per dirimere il conflitto sull’individuazione del giudice competente per l’esecuzione forzata, non venendo in discussione la potestas iudicandi ma solo l’osservanza delle norme che attengono al regolare svolgimento del processo esecutivo (e, dunque, al quomodo dell’esecuzione forzata).

Momento perfezionativo del pignoramento presso terzi, avente natura di fattispecie a formazione progressiva, è la verifica della sussistenza (e dell’entità) del credito staggito, la quale si realizza, con efficacia endoprocedimentale, attraverso tre possibili (tra di loro alternative) sequenze: mediante la positiva dichiarazione di quantità resa dal terzo pignorato nella veste di ausiliario dell’ufficio esecutivo; per effetto della fictio iuris di non contestazione integrata dalla duplice e qualificata mancata cooperazione del terzo (omesso invio della dichiarazione di quantità seguita dall’omessa comparizione alla successiva udienza ad hoc fissata per rendere siffatta dichiarazione); all’esito del subprocedimento incidentale, a carattere contenzioso, di accertamento dell’obbligo del terzo.

Sul parametro temporale di riferimento per la verifica dell’esistenza del credito indicato nell’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c., Sez. L, n. 24686/2021, Cinque, Rv. 662264-01, dando continuità a pregressi orientamenti, ha affermato che il credito aggredito in executivis deve essere esistente non già all’epoca di notificazione dell’atto bensì al momento della dichiarazione positiva resa dal terzo ovvero, per il caso di dichiarazione negativa e di instaurazione del giudizio di accertamento del suo obbligo, al momento di pronuncia della relativa sentenza: in tal senso depongono sia una lettura del dato positivo informata alla effettiva salvaguardia del diritto di azione costituzionalmente garantito (con la derivante necessità di avere riguardo anche a vicende successive alla data di notifica del pignoramento: le c.d. sopravvenienze attive) sia il dato testuale dell’art. 547 c.p.c., che impone al terzo di specificare di quali cose o somme è debitore all’epoca in cui la dichiarazione di quantità è prestata.

Del modo di operare della ficta confessio del terzo pignorato si è occupata Sez. 3,n. 28047/2021, Rossetti, Rv. 662578-01.

Ai fini del perfezionamento del vincolo, la S.C. ha disegnato due possibili sviluppi del procedimento: se il creditore attesta falsamente, ma per errore scusabile, di non avere ricevuto alcuna dichiarazione da parte del terzo pignorato e quest’ultimo non compare all’udienza ad hoc fissata dal giudice dell’esecuzione, il credito pignorato deve ritenersi non contestato ai sensi dell’art. 548, comma 1, c.p.c.; al contrario, se la falsa attestazione circa la mancata dichiarazione del terzo dipende da colpa o dolo del creditore, il credito pignorato non può ritenersi non contestato e l’assenza all’udienza del terzo - che può legittimamente fare affidamento sul fatto che il creditore, astretto all’obbligo di correttezza dall’art. 88 c.p.c., dichiari al giudice di avere ricevuto la dichiarazione negativa - non produce gli effetti della ficta confessio di cui all’art. 548 c.p.c..

Centrale, nell’espropriazione presso terzi, è la posizione del terzo pignorato.

Quanto alla partecipazione di quest’ultimo alle parentesi oppositive da altri promosse, va segnalato un significativo revirement nell’anno in rassegna.

Superando precedenti indirizzi ermeneutici che assumevano come elemento discretivo l’interesse del terzo alla decisione dell’opposizione (ritenuto sussistente in relazione a contestazioni sulla legittimità o sulla validità del pignoramento), Sez. 3, n. 13533/2021, Rossetti, Rv. 661412-01, ha statuito che nei giudizi di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi si configura sempre e comunque litisconsorzio necessario tra creditore, debitore diretto e terzo pignorato.

A suffragio della conclusione (in termini identici ribadita da Sez. 3, n. 39973/2021, Porreca, Rv. 663189-01), oltre a ragioni di coerenza sistematica e ad un’esegesi del dato positivo improntata alla chiarezza ed alla semplicità, la basilare notazione per cui l’esito della controversia oppositiva non è mai indifferente per il terzo pignorato, da ciò dipendendo il perdurare degli obblighi gravanti sullo stesso terzo e la legittimità del suo comportamento (di adempimento dell’obbligazione nelle mani del suo creditore diretto o del creditore procedente).

Da rimarcare alcuni interventi sull’istituto dell’accertamento dell’obbligo del terzo, interessato negli ultimi tempi da una travagliata evoluzione legislativa che ha trasformato la struttura (e, per conseguenza, lo statuto di disciplina) delle relative controversie, degradate da processo a cognizione piena ed esauriente condotto secondo le regole del libro secondo del codice di rito e concluso con decisione idonea al giudicato a mero incidente endoesecutivo, subprocedimento a cognitio sommaria definito con ordinanza priva di effetti panprocessuali che non dà luogo alla formazione di un giudicato sull’an o sul quantum del debito del terzo nei confronti dell’esecutato.

Proprio siffatta limitata efficacia («ai [soli] fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione») comporta, ad avviso di Sez. 3, n. 00272/2021, Tatangelo, Rv. 660181-01, l’improseguibilità dell’accertamento dell’obbligo del terzo (nella conformazione novellata) in caso di fallimento del debitore esecutato sopravvenuto nel corso della procedura espropriativa.

Seppur riferita all’originario impianto dell’accertamento dell’obbligo, degna di nota, siccome idonea a segnare un’utile traccia da seguire pure nel mutato assetto normativo, risulta Sez. 3, n. 12439/2021, De Stefano, Rv. 661328-01, chiara nell’individuare il riparto tra le parti del carico probatorio, gravando il creditore attore dell’onere di dimostrare l’esistenza e l’entità del credito aggredito in executivis: più precisamente, in caso di pignoramento di credito nascente da rapporto di conto corrente bancario, l’entità del saldo complessivo del credito del debitore esecutato verso il terzo pignorato.

Atto conclusivo della procedura di espropriazione presso terzi è l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., determinante il trasferimento (rectius, la cessione coattiva) del credito staggito dal debitore esecutato al creditore procedente, ovvero la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato attivo, mutando, con la sostituzione dell’assegnatario all’originario creditore, il soggetto nei cui confronti il debitore è tenuto all’adempimento.

Se la definizione della procedura coincide con l’emissione di detta ordinanza, dal punto di vista sostanziale, invece, ai sensi dell’art. 2928 c.c., il diritto dell’assegnatario verso il debitore si estingue soltanto con la effettiva riscossione del credito assegnato, operando il descritto trasferimento con efficacia pro solvendo.

Da ciò consegue, secondo Sez. 3, n. 28943/2021, Tatangelo, non massimata, che la dichiarazione di fallimento del debitore esecutato emessa successivamente all’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c. non comporta la caducazione dell’ordinanza di assegnazione; inoltre, il pagamento eseguito dal terzo debitor debitoris in favore del creditore assegnatario successivo al fallimento del debitore esecutato è privo di effetti, ai sensi dell’art. 44 l. fall., ma solo nel rapporto obbligatorio tra il fallito e quel creditore, il quale, pertanto, è l’unico soggetto obbligato alla restituzione al curatore di quanto ricevuto.

Unico rimedio esperibile avverso l’ordinanza di assegnazione in parola è rappresentato dall’opposizione agli atti esecutivi, quale strumento residuale per contestare la regolarità degli atti dell’esecuzione forzata e la legittimità del suo esito: contestazioni afferenti ai vizi (di rito o di merito) dell’assegnazione ex art. 553 c.p.c. non possono pertanto essere sollevate in sede di opposizione al precetto intimato in virtù di siffatto provvedimento o all’esecuzione su di esso promossa (Sez. 3, n. 13676/2021, Tatangelo, non massimata).

Il termine (perentorio e a pena di decadenza) per proporre l’opposizione agli atti esecutivi decorre, ove l’ordinanza di assegnazione sia pronunciata fuori udienza, dal momento in cui l’interessato (ovvero il soggetto legittimato all’opposizione) abbia conoscenza, legale o anche soltanto di fatto, del provvedimento (Sez. 3, n. 00089/2021, Tatangelo, Rv. 660050-01); con l’opposizione in discorso può essere dedotto ogni tipo di vizio (di rito o di merito) attinente all’ordinanza oppure agli atti procedimentali ad essa prodromici, quale, ad esempio, la nullità della notificazione dell’atto di pignoramento introduttivo (senza che in tal caso si determini sanatoria del vizio: Sez. 3, n. 09903/2021, Tatangelo, Rv. 661250-01).

Nella peculiare ipotesi dell’ordinanza di assegnazione emessa sul presupposto della non contestazione del credito ad opera del terzo pignorato, l’opposizione avanzata da quest’ultimo ai sensi dell’art. 548, comma 3, c.p.c., fondata sull’assunto della mancata tempestiva conoscenza del procedimento esecutivo «per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore» va introdotta, nel vigente ordito positivo, con ricorso diretto al giudice dell'esecuzione, in forza dell'art. 617, comma 2, c.p.c. (Sez. 3, n. 30090/2021, Tatangelo, non massimata).

6. Espropriazione immobiliare.

A mente dell’art. 2912 c.c. «il pignoramento comprende gli accessori, le pertinenze e i frutti della cosa pignorata».

Tra le res cui si estende il vincolo del pignoramento non rientrano i titoli dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (c.d. AGEA) relativi ai contributi comunitari diretti agli agricoltori, denominati usualmente “aiuti PAC”.

Come ha precisato Sez. 3, n. 26115/2021, Tatangelo, Rv. 662496-01, siffatti titoli sono beni suscettibili di autonomo trasferimento (insieme alla proprietà dei terreni, ma anche indipendentemente da questa), espropriabili in via autonoma rispetto ai terreni cui afferiscono nelle forme del pignoramento mobiliare presso il debitore (e non del pignoramento di crediti presso terzi), in ogni caso con la necessaria iscrizione del vincolo nel Registro AGEA ai fini dell’opponibilità ai terzi: essi, dunque, non possono essere qualificati né come pertinenze immobiliari ai sensi dell’art. 817 c.c., né come frutti della terra né, tantomeno, come accessori degli immobili pignorati. Resta tuttavia ferma la possibilità di una espropriazione di detti titoli unitamente a quella dei terreni in funzione dei quali sono riconosciuti, in applicazione estensiva dell’art. 556 c.p.c., previa redazione da parte dell’ufficiale giudiziario di due distinti atti di pignoramento da depositare unitamente in cancelleria, ai sensi dell’art. 556, comma 2, c.p.c. e, rispettivamente, da trascrivere nei registri immobiliari e da iscrivere nel citato registro AGEA dei PAC.

Dall’automatico effetto espansivo del pignoramento sancito dall’art. 2912 c.c. discende che i beni trasferiti a conclusione di un’espropriazione immobiliare sono quelli indicati nel decreto di trasferimento, cui vanno aggiunti quei beni che, pur in esso non espressamente menzionati, sono uniti fisicamente alla cosa principale, sì da costituirne parte integrante, come le accessioni propriamente dette, donde il trasferimento di un terreno all’esito di procedura esecutiva comporta, in difetto di espressa previsione contraria, il trasferimento del fabbricato insistente su di esso (Sez. 2, n. 17811/2021, Carrato, Rv. 661619-02).

Momento centrale dell’espropriazione immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, imprescindibile passaggio per realizzare la soddisfazione dei creditori.

L’intera sequenza delle operazioni di liquidazione forzata dell’immobile pignorato è retta da un provvedimento del giudice dell’esecuzione - l’ordinanza che dispone la vendita - che costituisce la lex specialis del relativo segmento procedimentale e regola, anche mediante una eterointegrazione del dato positivo (cioè con statuizioni ulteriori o, in ipotesi, diverse rispetto alle previsioni minime normative), modalità, tempi e condizioni della vendita.

Sulla base di queste premesse, si è affermato che il termine (perentorio e non prorogabile) per il versamento del saldo del prezzo da parte dell’aggiudicatario del bene staggito è quello stabilito dal giudice dell’esecuzione con l’ordinanza di vendita, trovando applicazione il diverso termine fissato con il provvedimento di aggiudicazione (art. 574, comma 1, c.p.c.) soltanto in assenza di statuizioni nell’ordinanza di vendita: ne deriva che la mancata comparizione dell’offerente aggiudicatario all’udienza celebrata per l’esame delle offerte non impone alcuna comunicazione allo stesso del relativo esito, né giustifica una dilazione del termine per il pagamento già fissato con l’ordinanza di vendita (Sez. 3, n. 18841/2021, Porreca, Rv. 661980-01).

Ancora in tema di vendita forzata immobiliare, notevole rilevanza pratico - operativa riveste il dictum di Sez. 3, n. 21549/2021, De Stefano, Rv. 662025-01, secondo cui l’inottemperanza del ceto creditorio al termine - ab origine ordinatorio, ma non suscettibile di proroga una volta invano elasso - fissato dal giudice dell’esecuzione per il versamento di un fondo spese al professionista delegato per le operazioni di vendita impedisce al processo esecutivo il conseguimento del suo scopo e ne legittima la chiusura anticipata, qualora il creditore non abbia tempestivamente e preventivamente instato, allegando e provando i relativi presupposti, per la rimessione in termini.

Quanto all’esito della fase liquidativa, Sez. 3, n. 29018/2021, Valle, Rv. 662640-03, ha inteso dare continuità al principio in forza del quale non integra un prezzo ingiusto di aggiudicazione, idoneo a fondare la sospensione prevista dall’art. 586 c.p.c., quello che sia anche sensibilmente inferiore al valore posto originariamente a base della vendita, ove questa abbia avuto luogo in corretta applicazione delle norme di rito, né si deducano gli specifici elementi perturbatori della correttezza della relativa procedura elaborati dalla giurisprudenza, tra cui non si possono annoverare l’andamento o le crisi, sia pure di particolare gravità, del mercato immobiliare.

Ratio ispiratrice della legislazione in materia di espropriazioni coattive e delle tendenze evolutive della relativa giurisprudenza di nomofilachia negli ultimi lustri (valga, ex plurimis, il richiamo a Sez. U., n. 21110/2012, Rordorf, Rv. 624256-01) è il rafforzamento della tutela della posizione dell’aggiudicatario, condotto, in specie, attraverso una lettura ermeneutica estensiva del disposto dell’art. 2929 c.c. e finalizzato, in ultima analisi, ad una maggiore affidabilità ed appetibilità delle vendite forzate, onde conseguire un più ottimale risultato dall’esecuzione.

Nell’anno in esame, costituiscono espressione di detta linea interpretativa:

- Sez. 3, n. 29018/2021, Valle, Rv. 662640-02, secondo cui l’acquisto compiuto dall’aggiudicatario rimane fermo anche in presenza di nullità del procedimento esecutivo precedenti la vendita, ma fatte valere successivamente dal debitore esecutato o dal terzo asseritamente pregiudicato dall’esecuzione, salvo il caso di collusione fra aggiudicatario e creditore, che presuppone non la semplice mancanza di diligenza dell’acquirente nell’eseguire i controlli precedenti l’acquisto, ma la consapevolezza della nullità e l’esistenza di un accordo in danno all’esecutato intervenuto fra acquirente e creditore;

- Sez. 3, n. 39243/2021, Porreca, Rv. 663333-01, in forza della quale la mancata comunicazione al debitore esecutato del provvedimento di fissazione dell’udienza ex art. 569 c.p.c. per la comparizione delle parti e l’autorizzazione alla vendita non è opponibile all’aggiudicatario del bene, siccome vizio afferente ad una fase procedimentale anteriore alla vendita ed alla quale l’aggiudicatario non prende parte.

Atto conclusivo del subprocedimento di vendita è il decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., munito altresì di una duplice valenza sostanziale, siccome produttivo dell’effetto traslativo del diritto staggito in favore dell’acquirente e dell’effetto (usualmente chiamato purgativo) di estinguere pesi e gravami insistenti sull’immobile (pignoramenti, ipoteche, privilegi, sequestri conservativi).

In quanto atto del procedimento esecutivo, non decisorio né definitivo, unico strumento di reazione avverso il decreto di trasferimento è l’opposizione agli atti esecutivi da proporre nel termine ex art. 617 c.p.c., ancorché detto decreto abbia avuto ad oggetto un bene in tutto o in parte diverso da quello pignorato oppure risulti controversa l’estensione dell’immobile trasferito (per difformità tra la consistenza descritta nel decreto e quella reale), con la conseguente inammissibilità di eventuali azioni di rivendita separatamente spiegate dal debitore esecutato (Sez. 2, n. 17811/2021, Carrato, Rv. 661619-01).

Circa la fase distributiva (e segnatamente circa la collocazione privilegiata o chirografaria dei crediti), Sez. 3, n. 05508/2021, Porreca, Rv. 660605-01, ha specificato che il cessionario del credito ipotecario, divenuto tale dopo la vendita del bene ipotecato e l’emissione del decreto di trasferimento, partecipa alla distribuzione della somma ricavata con la prelazione spettante all’originario creditore ipotecario, sempreché la cessione sia stata idoneamente e tempestivamente manifestata al giudice dell’esecuzione, ai creditori concorrenti e all’esecutato, senza necessità di annotazione della vicenda traslativa ai sensi dell’art. 2843 c.c., formalità che, ai fini della distribuzione, non assume funzione costitutiva, bensì latamente dichiarativa, di mera pubblicità notizia, perché diretta non a costituire una garanzia, già in essere, bensì, più limitatamente, a identificare il soggetto che ne è titolare, permettendo quest’individuazione ai terzi e consentendo la risoluzione degli eventuali conflitti tra plurimi cessionari.

7. Espropriazione di beni indivisi: giudizio di divisione.

Sviluppo normale dell’espropriazione della quota di un diritto reale in comunione tra il debitore esecutato ed altri soggetti, il giudizio di divisione ha natura di parentesi cognitiva, cioè a dire di processo di cognizione ordinario, svolto nelle forme del libro secondo del codice di rito, oggettivamente e soggettivamente autonomo rispetto alla procedura esecutiva ma ad essa funzionalmente correlato, siccome strumentale alla liquidazione del compendio pignorato.

Sebbene devoluta alla competenza funzionale del giudice dell’esecuzione, la cosiddetta divisione endoesecutiva non può essere considerata una fase, o un subprocedimento della espropriazione in cui si innesta, sicché nell’ambito del giudizio divisionale non possono essere introdotte - e ove introdotte non possono essere esaminate e decise - eventuali opposizioni esecutive (Sez. 3, n. 22210/2021, Rubino, Rv. 662203-01).

Tale la natura della lite, si è escluso che la morte del professionista incaricato della vendita dei beni oggetto del giudizio di divisione importi, al pari del decesso di ogni altro ausiliario del giudice, l’interruzione della controversia (nonché del processo esecutivo) e la necessità di una riassunzione dell’esecuzione nelle more del giudizio sospesa, determinando invece una mera stasi delle operazioni di vendita, superabile con attività di impulso da parte dell’ufficio giudiziario o con una sollecitazione di parte (Sez. 3, n. 15080/2021, Valle, Rv. 661577-01).

In virtù dell’art. 601 c.p.c., «se si deve procedere a divisione, l’esecuzione è sospesa».

Si tratta, ad avviso di Sez. 3, n. 12685/2021, Rossetti, Rv. 661329-01, di un’ipotesi di sospensione per pregiudizialità necessaria, species del genus previsto dall’art. 295 c.p.c.; pertanto, mancando una norma espressa sulle modalità di riassunzione del processo sospeso in pendenza di divisione, trova applicazione il disposto dell’art. 297 c.p.c.: la procedura esecutiva va riassunta entro tre mesi (oppure sei mesi, secondo la disciplina ratione temporis applicabile) dalla pronuncia dell’ordinanza ex art. 789, comma 3, c.p.c., in assenza di contestazioni, oppure dal passaggio in giudicato della sentenza che risolve le eventuali contestazioni.

8. Espropriazione di beni in comunione legale.

L’espropriazione di beni in comunione legale intrapresa dal creditore particolare di un coniuge (ovvero di un comunista) segue peculiari scansioni procedimentali, puntualmente definite, in difetto di una specifica regolamentazione positiva, dalla opera ermeneutica del giudice della nomofilachia, la cui più compiuta espressione si rinviene in Sez. 3,n. 06575/2013, De Stefano, Rv. 625462-01, mossa da dichiarato anelito sistematico.

Nel solco di tale precedente si colloca la giurisprudenza dell’anno.

Riaffermata la natura di comunione senza quote della comunione legale, si è infatti nuovamente ribadito che nell’espropriazione per crediti personali di uno dei coniugi, il pignoramento va eseguito sul bene nella sua interezza, e non già nella (giuridicamente inesistente) quota pari alla metà dello stesso (così con riferimento ad un pignoramento di veicoli Sez. 3, n. 12879/2021, Rossetti, non massimata), con conseguente impraticabilità delle forme stabilite per l’espropriazione di beni indivisi (nonché dell’incidentale giudizio di divisione) e scioglimento della comunione legale all’atto della vendita forzata (o dell’assegnazione) della res staggita e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata o del valore di assegnazione (Sez. 3, n. 20845/2021, Valle, non massimata).

Esperita azione esecutiva su beni comuni ad opera di un creditore personale di un comunista, il beneficio di escussione dei beni nella titolarità esclusiva del coniuge debitore e la sussidiarietà del cespite in comunione legale ex art. 189 c.c. devono essere fatti valere dal coniuge non debitore unicamente con lo strumento dell’opposizione all’esecuzione e non con una semplice eccezione formulata in sede di divisione endoesecutiva (Sez. 3,n. 22210/2021, Rubino, Rv. 662203-02).

9. Opposizioni esecutive: profili comuni.

Frutto di una progressiva elaborazione in via pretoria (culminata nella basilare Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-01), è oramai ius receptum l’articolazione delle opposizioni esecutive (ovvero le opposizioni proposte dopo l’inizio della procedura esecutiva) in giudizi unitari a cadenza bifasica, scanditi cioè da una preliminare e necessaria fase sommaria innanzi al giudice dell’esecuzione seguita da una meramente eventuale, fase di merito a cognizione piena.

Alla dettagliata scrittura dello statuto di disciplina di detta bifasicità concorrono alcune pronunce dell’anno in disamina.

Anzitutto, concernenti l’ordinanza resa dal giudice dell’esecuzione a conclusione della fase sommaria: essa ha natura di atto ordinatorio di direzione del processo esecutivo e non ha contenuto (neanche implicitamente) decisorio né carattere di definitività, sicché avverso tale provvedimento non è esperibile ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 6-3, n. 37255/2021, Valle, non massimata), nemmeno per contestare la sola statuizione sulle spese della fase sommaria, riesaminabile esclusivamente nel giudizio di merito dell’opposizione (Sez. 6-3, n. 37252/2021, Tatangelo, non massimata).

Non potendosi in nessun caso reputare definitivo, il provvedimento con cui viene decisa la fase sommaria non preclude mai l’accesso delle parti alla tutela a cognizione piena, ad un tempo sedes deputata ad una nuova valutazione delle decisioni (anche limitatamente al regolamento delle spese) in tal guisa adottate.

Ne discende che, in tema di procedimento per l’esecuzione di obblighi di fare, l’ordinanza resa ai sensi dell’art. 612 c.p.c. che illegittimamente abbia risolto una contesa tra le parti, così esorbitando dal profilo funzionale proprio dell’istituto, non è mai considerabile come una sentenza in senso sostanziale, in quanto tale appellabile, ma deve reputarsi decisione sommaria, conclusiva della fase sommaria di una opposizione all’esecuzione, rispetto alla quale la parte interessata può tutelarsi introducendo il giudizio di merito ai sensi dell’art. 616 c.p.c. (Sez. 3, n. 29025/2021, Valle, Rv. 662641-01).

L’interesse alla instaurazione della causa di merito dell’opposizione sussiste anche in capo al creditore opposto, pur se vittorioso nella fase di sospensiva (quando cioè essa sia definita con il rigetto dell’istanza cautelare dell’opponente), e tanto sia allo scopo di conseguire una pronuncia a cognizione piena sull’ammissibilità ed eventualmente sul merito dell’opposizione (previa sua qualificazione in termini di opposizione all’esecuzione oppure agli atti esecutivi), sia per ottenere la revisione della regolamentazione delle spese della fase sommaria, operata ovvero omessa dal giudice dell’esecuzione (Sez. 3, n. 03019/2021, Tatangelo, Rv. 660609-01; conf. Sez. 6-3, n. 26233/2021, Valle, Rv. 662439-01).

La indefettibile sequenzialità tra i due momenti delle opposizioni esecutive postula la regolare instaurazione del contraddittorio sin dal primo segmento.

Premesso che il decreto con il quale il giudice dell’esecuzione fissa davanti a sé l’udienza per la fase sommaria non è soggetto a comunicazione, a cura della cancelleria, al ricorrente, all’inosservanza del termine perentorio assegnato per la notifica del ricorso introduttivo e dello stesso decreto all’opposto consegue la declaratoria di inammissibilità dell’opposizione: lo ha ripetuto Sez. 3, n. 41747/2021, Rossetti, Rv. 663497-01, precisando altresì che nell’attuale contesto ordinamentale, caratterizzato dall’agevole possibilità di accesso da remoto (ovvero in via telematica) ai registri di cancelleria, la verifica periodica dell’avvenuto deposito del provvedimento del giudice non costituisce un onere eccedente la normale diligenza per la parte ricorrente.

La configurazione delle opposizioni esecutive come giudizi unitari a struttura necessariamente bifasica spiega rilevanti incidenze anche sul regime delle produzioni documentali ad opera delle parti.

Dell’argomento si è amplius occupata Sez. 3, n. 26116/2021, Tatangelo, Rv. 662409-01. Specificamente relativa alle controversie di opposizione all’esecuzione e di opposizione di terzo all’esecuzione, la pronuncia ha attribuito all’art. 186 disp. att. c.p.c. (applicabile sia quando il giudizio di merito si svolga presso lo stesso ufficio giudiziario di appartenenza del giudice dell’esecuzione sia quando esso si svolga presso diverso ufficio) il significato di norma che esonera le parti da una nuova attività di produzione dei documenti già depositati al momento dell’opposizione ovvero nel corso della fase sommaria davanti al giudice dell’esecuzione, sicché essi devono ritenersi già acquisiti al processo ed essere inseriti nel fascicolo della causa di opposizione. Siffatti documenti, tuttavia, non mutano, in ragione della peculiare scansione dei giudizi oppositivi, la loro natura di produzioni documentali di parte, destinate a trovare allocazione nei fascicoli delle parti stesse di cui all’art. 166 c.p.c., e non già nel fascicolo di ufficio formato ai sensi dell’art. 168 c.p.c.. Da ciò derivano due conseguenze: per un verso, non è necessario che le parti procedano ad una nuova formale attività di produzione dei predetti documenti nel corso della fase a cognizione piena secondo le modalità e i termini perentori previsti dall’art.183 c.p.c., né sussistono preclusioni di alcun tipo in relazione alla loro esibizione e al loro inserimento nel fascicolo di parte; d’altro canto, l’applicazione della disciplina stabilita per i fascicoli di parte impone che, affinché il giudice possa tenerne conto ai fini della decisione, le parti depositino detti documenti al momento dell’assegnazione della causa in decisione o, al più tardi, all’atto del deposito della comparsa conclusionale (art. 169 c.p.c.), dovendosi altrimenti presumere, in caso di omesso o parziale deposito del fascicolo di parte, che la parte abbia rinunziato ad avvalersi dei documenti in esso non inclusi.

Elemento comune alle diverse tipologie di opposizioni successive all’inizio dell’esecuzione è la dimidiazione dei termini a comparire per la causa di merito: dalla previsione (contenuta negli artt. 616, comma 2, 618, comma 2, e 619, comma 3, c.p.c.) non discende alcuna riduzione del termine per la costituzione in giudizio della parte che introduce la fase di merito, termine che, pertanto, è quello ordinario di dieci giorni dalla prima notificazione dell’atto di citazione (Sez. 3, n. 21512/2021, Tatangelo, Rv. 662024-01).

Circa il regime di impugnazione delle sentenze conclusive dei giudizi di opposizione, è stata ribadita l’esperibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un’unica sentenza in ragione dei plurimi contenuti della stessa: appello per la parte riferibile ad opposizione all’esecuzione, ricorso per cassazione per la parte riferibile a opposizione agli atti (Sez. 3, n. 20854/2021, Porreca, non massimata).

Ai fini della concreta individuazione dello strumento impugnatorio in concreto praticabile, è pacifica l’affermazione del principio dell’apparenza, in forza del quale assume esclusivo e dirimente rilievo la qualificazione data dal giudice a quo all’azione promossa, a prescindere dalla correttezza o meno dell’inquadramento effettuato (Sez. 6-3, n. 32833/2021, Valle, Rv. 663336-01), sempreché, tuttavia, la qualificazione della domanda sia chiara ed inequivocabile (Sez. 3, n. 29194/2021, Rubino, non massimata).

Nell’ipotesi in cui la sentenza che definisca una opposizione esecutiva sia cassata con rinvio dalla Suprema Corte, la riassunzione della causa innanzi il giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 392 c.p.c., deve avvenire (sia che si tratti di opposizione all’esecuzione, sia che si tratti di opposizione agli atti esecutivi o di opposizione di terzo all’esecuzione) con atto avente la medesima forma (citazione di regola, ricorso in caso di applicabilità di un rito speciale) dell’atto introduttivo del giudizio di merito (e non già dell’atto introduttivo della fase sommaria); ove la riassunzione sia erroneamente compiuta con ricorso anziché con atto di citazione, essa va considerata tempestiva solo nel caso in cui la notificazione del ricorso sia effettuata entro il termine perentorio previsto dall’art. 392, comma 1, c.p.c. (Sez. 3, n. 38323/2021, Tatangelo, Rv. 663432-01).

10. Opposizione all’esecuzione.

Ferma la competenza funzionale del giudice dell’esecuzione sulla fase sommaria, la competenza sulla causa di merito sull’opposizione all’esecuzione si ripartisce, in senso verticale, per materia e per valore.

La devoluzione ratione materiae opera, a mente dell’art. 618 bis c.p.c., per le opposizioni in tema di lavoro, assistenza e previdenza.

Tanto anche ove la lite tragga scaturigine da una controversia individuale di lavoro marittimo: con riguardo ad una opposizione all’esecuzione proposta da un armatore avverso il pignoramento di una nave, Sez. L, n. 05725/2021, Leone, Rv. 661041-01, ha sancito la competenza del giudice del lavoro a conoscere del processo, puntualizzando che, in tale peculiare evenienza, il radicamento territoriale della lite dev’essere informato ai canoni stabiliti dall’art. 603 cod. nav., norma a tali limitati fini rimasta vigente, pur dopo la sentenza n. 29 del 1976 della Corte Costituzionale dichiarativa della illegittimità costituzionale della giurisdizione in origine attribuita al comandante di porto.

Circa il riparto per valore tra giudice di pace e tribunale, Sez. 6-3, n. 37581/2021, Iannello, Rv. 663133-01, relativa ad un’opposizione avverso una espropriazione presso terzi, ha chiarito il valore della controversia si determina in base al «credito per cui si procede» a norma dell'art. 17 c.p.c., cioè a dire con riferimento all'importo esecutivamente azionato, corrispondente alla somma precettata nella sua interezza, senza che assuma rilievo il maggiore importo - pari a quello del «credito precettato aumentato della metà» - al quale si estende il vincolo imposto al terzo pignorato ai sensi dell'art. 546, comma 1, c.p.c..

La legittimazione a proporre l’opposizione all’esecuzione (la quale si sostanzia in una domanda di accertamento negativo del diritto di procedere ad esecuzione forzata) spetta esclusivamente al debitore esecutato: essa, pertanto, non può riconoscersi al fideiussore del debitore esecutato, mero coobbligato sul piano personale, abilitato tuttavia a formulare domande volte ad ottenere l’accertamento dell’insussistenza del debito principale garantito in un ordinario giudizio di cognizione, ed anche nell’ambito di una opposizione esecutiva da altri intentata (Sez. 3, n. 41800/2021, Tatangelo, Rv. 663696-01).

La limitata estensione del thema decidendum dell’opposizione proposta avverso l’esecuzione minacciata (o intrapresa) in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale è nota: il debitore opponente può invocare soltanto i fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto a procedere verificatisi posteriormente alla formazione del titolo esecutivo, e non quelli accaduti anteriormente, denunciabili esclusivamente nel giudizio di cognizione preordinato alla formazione del titolo stesso (Sez. 6-3, n. 03027/2021, Tatangelo, non massimata).

L’argomentazione sorregge il dictum di Sez. 3, n. 41263/2021, Rossetti, Rv. 663445-01, relativa ad una esecuzione promossa dai soci di una società estinta prima della formazione del titolo esecutivo: nel caso in cui sia pronunciata una sentenza esecutiva nei confronti di un soggetto non più esistente al momento della pronuncia, il debitore il quale intenda sostenere che l’obbligazione dedotta in giudizio si sia estinta per remissione del debito prima della pronuncia di condanna ha l’onere di impugnare quest’ultima con le forme ordinarie; la suddetta deduzione è invece inammissibile in sede di opposizione all’esecuzione iniziata dal successore del creditore estinto.

Una specificazione dei limiti di operatività del principio in esame si rinviene in Sez. 3,n. 28044/2021, Rubino, Rv. 662577-01: premesso che la mancata opposizione a decreto ingiuntivo preclude la deducibilità, con l’opposizione all’esecuzione, di fatti estintivi anteriori alla formazione del giudicato sulla sussistenza del credito, la S.C. ha tuttavia ritenuto che il condebitore, coobbligato in virtù del decreto ingiuntivo da lui non opposto (quindi res iudicata nei suoi confronti), possa far valere con l’opposizione ex art. 615 c.p.c. l’integrale estinzione del credito per effetto del pagamento effettuato da altro soggetto, anche se avvenuto prima che il provvedimento monitorio acquisisse carattere di definitività, perché il principio del giudicato ha la funzione di accertare definitivamente l’esistenza e l’ammontare del credito nei confronti di uno o più debitori, ma non quella di consentire al creditore di pretendere molteplici pagamenti da tutti i coobbligati una volta che il credito sia già stato soddisfatto.

Risolvendo una questione oggetto contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte, Sez. U, n. 25478/2021, Cirillo F.M., Rv. 662368-01, si è pronunciata sulla corretta formula conclusiva del giudizio di opposizione all’esecuzione in caso di caducazione, sopravvenuta lite pendente, del titolo esecutivo di formazione giudiziale in forza del quale l’azione esecutiva (contestata per altre ragioni) era stata minacciata o intrapresa: le Sezioni Unite si sono schierate per la tesi favorevole alla conclusione della lite ex art. 615 c.p.c. con pronuncia declaratoria di cessazione della materia del contendere (e non già di accoglimento dell’opposizione), con conseguente necessità di regolare le spese processuali secondo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare unicamente in relazione agli originari motivi di opposizione.

Ai fini della liquidazione delle spese nei giudizi di opposizione all’esecuzione, Sez. 6-3, n. 38370/2021, Tatangelo, Rv. 663342-01, ancorando il valore della causa al “peso” economico delle controversie, ha distintamente individuato i criteri di determinazione di tale valore nel seguente modo: - per la fase precedente l’inizio dell’esecuzione, in base al valore del credito per cui si procede; - per la fase successiva, in base agli effetti economici dell’accoglimento o del rigetto dell’opposizione; - nel caso di opposizione all’intervento di un creditore, in base al solo credito vantato dall’interveniente; - nel caso in cui non sia possibile determinare gli effetti economici dell’accoglimento o del rigetto dell’opposizione, in base al valore del bene esecutato; - nel caso, infine, in cui l’opposizione concerna un atto esecutivo che non riguardi direttamente il bene pignorato, ovvero il valore di quest’ultimo non sia determinabile, la causa va ritenuta di valore indeterminabile.

Proposta opposizione ex art. 615 c.p.c., il procedimento esecutivo può essere sospeso dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 624 c.p.c., concorrendo gravi motivi: in tal caso, il termine per la riassunzione del procedimento decorre, a mente dell’art. 627 c.p.c., al più tardi dal passaggio in giudicato della sentenza di rigetto dell’opposizione (senza che assuma rilievo al riguardo la comunicazione del provvedimento a cura della cancelleria alle parti costituite), anche nel caso in cui tale giudicato si determini in virtù di una decisione nel merito emessa dalla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c. (Sez. 3, n. 29188/2021, Tatangelo, Rv. 662642-01).

11. Opposizione agli atti esecutivi.

Caratteristica tipizzante l’opposizione agli atti, espressione della sua funzione di meccanismo di stabilizzazione degli effetti dell’esecuzione, è il rigoroso limite temporale previsto, a pena di decadenza, per l’esperibilità del rimedio, decorrente dalla conoscenza, legale o di fatto, dell’atto che si assume viziato (Sez. 6-3, n. 25561/2021, Porreca, non massimata).

Del momento in cui ha avuto conoscenza, legale o di fatto, dell’atto in thesi viziato, l’opponente è tenuto ad offrire allegazione e prova, ai fini della verifica, da compiersi anche in via officiosa, della tempestività dell’opposizione.

La questione della tardività dell’opposizione ex art. 617 c.p.c., ove non decisa dal giudice del merito e dunque non coperta da giudicato interno, può e deve essere delibata in sede di legittimità, ancorché non dedotta come motivo di ricorso, trattandosi di questione relativa ad un termine di decadenza processuale la cui inosservanza è rilevabile d’ufficio e che comporta la cassazione senza rinvio della sentenza ex art. 382, comma 3, c.p.c., in quanto l’azione non poteva essere proposta (Sez. U, n. 08501/2021, Scoditti, Rv. 660855-01).

12. Opposizione di terzo all’esecuzione.

L’opposizione di terzo all’esecuzione configura un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’esecuzione in rapporto al suo oggetto: allo scopo di sottrarre all’espropriazione il bene pignorato, il terzo che promuove la lite ex art. 619 c.p.c. deduce la titolarità di una situazione giuridica soggettiva sulla res staggita asseritamente prevalente rispetto al diritto del creditore procedente di soddisfarsi.

In virtù delle regole generali, incombe sul terzo opponente l’onere di provare il fatto giuridico da cui discende il suo preteso diritto sui beni aggrediti in executivis.

Il concreto operare di tale onus in fattispecie di espropriazione mobiliare è stato definito da Sez. 3, n. 40751/2021, Rossetti, Rv. 663441-01.

Distinguendo tra le possibilità modalità di asservimento ad esproprio, la S.C. ha affermato che in ipotesi di pignoramento di beni non rinvenuti nella casa del debitore, il terzo opponente è tenuto a dimostrare unicamente di essere proprietario delle cose; in caso di pignoramento di beni rinvenuti nella casa del debitore, derivando da siffatto collegamento spaziale una presunzione di appartenenza delle cose mobili all’esecutato, il terzo opponente ha l’onere di provare sia la titolarità del diritto vantato, sia l’affidamento dei beni al debitore in epoca anteriore al pignoramento.

  • comunicazione
  • liquidazione delle spese
  • avvocato
  • sfratto

CAPITOLO XVIII

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il procedimento d’ingiunzione: la competenza. - 2 La liquidazione dei compensi degli avvocati. - 3 Notificazione del d.i. - 4 Il giudizio di opposizione a d.i. - 5 I poteri processuali dell’opponente. - 6 Il giudizio di opposizione in ambito condominiale. - 7 L’opposizione tardiva a d.i. - 8 L’esecutorietà del d.i. - 9 Il procedimento per convalida di sfratto. - 10 La tutela cautelare. - 11 Il procedimento possessorio: il divieto di proporre giudizio petitorio. - 12 Il procedimento sommario di cognizione. - 12.1 L’ambito applicativo. - 12.2 L’istruttoria. - 13 I procedimenti in camera di consiglio.

1. Il procedimento d’ingiunzione: la competenza.

La sentenza con cui il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo dichiara la propria incompetenza per essere stato proposto il ricorso monitorio a giudice incompetente, cui segue automaticamente la caducazione del decreto medesimo, è impugnabile unicamente con il regolamento necessario di competenza, di cui all’art. 42 c.p.c. Per Sez. 3, n. 20839/2021, Guizzi, Rv. 661982-01, il rilievo dell’inammissibilità del diverso mezzo dell’appello e del correlativo passaggio in giudicato della sentenza di prime cure, indebitamente omesso da parte del giudice di secondo grado, deve essere effettuato d’ufficio in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, quando la relativa questione non sia stata oggetto di discussione e decisione da parte della corte territoriale, sicché nessun giudicato interno si sia formato sul punto.

Va, in proposito, ricordato che è stato ritenuto, da Sez. 6–3, n. 13426/2020, Rubino, Rv. 658502-01 (conf. N. 22297 del 2016, Rv. 641679-01), inammissibile il regolamento di competenza con il quale si deduca che il giudice, nel dichiarare la propria incompetenza, abbia omesso di revocare il decreto ingiuntivo opposto, sia perché la pronuncia di incompetenza contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, con conseguente carenza di interesse alla formulazione di una tale doglianza, sia in quanto quest’ultima non ricade tra quelle previste dall’art. 42 c.p.c., non integrando una questione di competenza.

Quest’ultima decisione sembra porsi in parziale dissonanza con la recente Sez. 6 – 2,n. 15579/2019, Orilia, Rv. 654344 – 01, secondo cui, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, il provvedimento recante la dichiarazione di incompetenza del giudice che ha emanato il decreto monitorio non è una decisione soltanto sulla competenza, ma presenta un duplice contenuto, di accoglimento in rito dell’opposizione e di caducazione, per nullità, del decreto. Viceversa, la stessa si pone in linea con Sez. 6 – 3, n. 16089/2018, Graziosi, Rv. 649430 – 01, a tenore della quale la sentenza di primo grado che abbia dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo opposto in quanto emesso da giudice territorialmente incompetente avrebbe natura di decisione esclusivamente sulla competenza, essendo la dichiarazione di nullità un mero effetto di diritto di tale declaratoria.

Sez. 6-3, n. 04779/2021, Guizzi, Rv. 660752-02, ha avuto l’occasione per chiarire che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’eccezione di incompetenza per territorio deve essere sollevata, ai sensi dell’art. 38 c.p.c., nell’atto di opposizione, che deve intendersi come prima difesa utile, poiché tiene luogo della comparsa di risposta nella procedura ordinaria.

2. La liquidazione dei compensi degli avvocati.

In tema di liquidazione dei compensi degli avvocati, l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali disposta dal d.l. n. 1 del 2012, conv. dalla l. n. 27 del 2012, non ha determinato l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c., sicché l’avvocato che intenda agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può continuare ad avvalersi - anche nel vigore della nuova disciplina - del procedimento per ingiunzione di cui agli artt. 633 e 636 c.p.c., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, sottoscritta e corredata del parere della competente associazione professionale, rilasciato sulla base dei parametri per i compensi professionali di cui alla l. n. 247 del 2012 e relativi decreti ministeriali attuativi. Tale principio è stato affermato da Sez. U, n. 19427/2021, Doronzo, Rv. 661850-01, nell’interesse della legge ex art. 363, comma 1, c.p.c.

3. Notificazione del d.i.

La notifica dell’opposizione a decreto ingiuntivo al procuratore che, esercente fuori della circoscrizione cui è assegnato, abbia eletto domicilio, ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, presso un altro procuratore, assegnato alla circoscrizione del tribunale adìto, è valida se effettuata nel luogo indicato come domicilio eletto in forza degli artt. 330 e 141 c.p.c., senza che al notificante sia fatto onere di riscontrare previamente la correttezza di quell’indirizzo presso il locale albo professionale, atteso che grava invece sul difensore che ha eletto domicilio l’obbligo di comunicarne alla controparte gli eventuali mutamenti; pertanto, secondo Sez. 3, n. 04663/2021, Guizzi, Rv. 660706-01, ove la notifica non vada a buon fine in ragione del mutamento del domicilio eletto extra districtum, è ammissibile la riattivazione del procedimento notificatorio, la quale, avuto riguardo alla scissione dei momenti perfezionativi dell’atto per il notificante e per il destinatario, deve avvenire nell’ambito della medesima procedura originata dalla iniziale richiesta di notificazione e nel rispetto di un termine non superiore alla metà di quello, pari a quaranta giorni, ordinariamente fissato per lo specifico incombente dall’art. 641 c.p.c.

4. Il giudizio di opposizione a d.i.

Secondo l’opinione consolidata, l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’opposto, che assume la posizione sostanziale di attore, mentre l’opponente, il quale assume la posizione sostanziale di convenuto, ha l’onere di contestare il diritto azionato con il ricorso, facendo valere l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda o l’esistenza di fatti estintivi o modificativi di tale diritto.

In particolare, l’opposizione al decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione teso all’accertamento dell’esistenza del diritto di credito azionato dal creditore con il ricorso, sicché la sentenza che decide il giudizio deve accogliere la domanda del creditore istante, rigettando conseguentemente l’opposizione, quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto fatto valere in sede monitoria, pur se non sussistenti al momento della proposizione del ricorso o della emissione del decreto, sussistono tuttavia in quello successivo della decisione (Sez. 1, n. 15224/2020, Scalia, Rv. 658261-01; conf.n. 06421 del 2003, Rv. 562391-01).

Poiché per effetto dell’opposizione - anche tardiva, ex art. 650 c.p.c. - non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore (opposto) mantiene la veste di attore ed il debitore (opponente) quella di convenuto, ai fini della chiamata in causa del terzo da parte dell’opposto - la cui autorizzazione è subordinata alla valutazione discrezionale, da parte del giudice istruttore, che l’esigenza di estensione del contraddittorio sia effettivamente derivata dalle difese dell’opponente, convenuto in senso sostanziale -, trova applicazione l’art. 269, comma 3, c.p.c, dovendosi pertanto ritenere corretta la relativa istanza avanzata nella prima udienza. In questi termini si è espressa Sez. 2, n. 25499/2021, Orilia, Rv. 662257-02.

Nonostante l’inquadramento che precede sembrava essersi cristallizzato, la Terza Sezione civile, con ordinanza n. 13556/2021, Scrima, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione della questione di massima di particolare importanza inerente la qualificazione dell’opposizione a decreto ingiuntivo, quale impugnazione o quale giudizio ordinario di cognizione, ai fini dell’applicabilità della disciplina del mutamento di rito di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011.

Avuto riguardo all’opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso l’ingiunzione ottenuta dall’avvocato nei confronti del proprio cliente ai fini del pagamento degli onorari e delle spese dovute, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28 l. n. 794 del 1942, 633 c.p.c. e 14 d.lgs. n. 150 del 2011, Sez. 2, n. 23683/2021, Criscuolo, non massimata, ha chiarito che la stessa, qualora venga proposta con atto di citazione (anziché con ricorso), in base agli artt. 702-bis c.p.c. e 14 d.lgs. n. 150 del 2011, è da reputare utilmente esperita nel caso in cui la citazione sia stata comunque notificata entro il termine di 40 giorni – di cui all’art. 641 c.p.c. – dal dì della notificazione dell’ingiunzione di pagamento. In tale evenienza, ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, gli effetti sostanziali e processuali correlati alla proposizione dell’opposizione si producono alla stregua del rito tempestivamente attivato, ancorchè erroneamente prescelto, per cui il giudice adìto deve disporre con ordinanza il mutamento del rito, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.lgs. citato.

5. I poteri processuali dell’opponente.

Sembra ormai incontestato che l’opponente possa proporre domanda riconvenzionale, a fondamento della quale può anche dedurre un titolo non strettamente dipendente da quello posto a fondamento della ingiunzione, quando non si determini in tal modo spostamento di competenza e sia pur sempre ravvisabile un collegamento obiettivo tra il titolo fatto valere con l’ingiunzione e la domanda riconvenzionale, tale da rendere opportuna la celebrazione del simultaneus processus (Sez. 2, n. 06091/2020, Varrone, Rv. 657127-02).

Parimenti, per Sez. 1, n. 09668/2021, Falabella, Rv. 661065-01, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è sempre ammessa la modifica della domanda da parte del creditore opposto, sia con riguardo al petitum che alla causa petendi, purché la domanda modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e non si determini né una violazione dei diritti di difesa della controparte né l’allungamento dei tempi del processo. Il principio è stato enunciato in relazione ad una fattispecie nella quale il pagamento era stato intimato in sede monitoria nei confronti di un soggetto nella sua qualità di garante del debitore, mentre nel corso del giudizio di opposizione la pretesa era stata poi fondata sul fatto che l’opponente risultava essere anche erede del debitore.

6. Il giudizio di opposizione in ambito condominiale.

Molto atteso era l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite in ambito condominiale. Ebbene, Sez. U, n. 09839/2021, Lombardo, Rv. 661084-02, hanno statuito che, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via d’azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c., nel termine perentorio ivi previsto, e non in via di eccezione; ne consegue l’inammissibilità, rilevabile d’ufficio, dell’eccezione con la quale l’opponente deduca solo l’annullabilità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione senza chiedere una pronuncia di annullamento.

7. L’opposizione tardiva a d.i.

In termini generali, è ammissibile l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo di cui all’art. 650 c.p.c., allorquando - per causa riconducibile ad un evento oggettivo e non prevedibile, successivo all’emissione del decreto monitorio, integrante un caso fortuito (nella specie, l’invio, per un mero disguido della cancelleria, del fascicolo monitorio ad un altro ufficio prima della scadenza del termine previsto dall’art. 641, comma 1, c.p.c., con la sua successiva restituzione oltre detto termine), secondo la portata assunta dalla citata norma a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 1976 - l’ingiunto non abbia potuto avere conoscenza, senza sua colpa, entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo dei documenti contenuti nel fascicolo monitorio (posti a fondamento del ricorso ex art. 633 c.p.c. e da restare depositati in cancelleria, unitamente all’originale del ricorso e dell’emesso decreto), così rimanendo impedita l’esercitabilità del suo pieno ed effettivo diritto di difesa, costituzionalmente garantito, ai fini della proposizione dell’opposizione al decreto ingiuntivo (Sez. 2, n. 04448/2020, Carrato, Rv. 657112-01).

In questo contesto rilevante si rivela Sez. 3, n. 17968/2021, Positano, Rv. 661836-01, la quale ha avuto modo di chiarire che, nell’ipotesi di notifica del decreto ingiuntivo a mezzo PEC, a norma dell’art. 3 bis della l. n. 53 del 1994, la circostanza che la e-mail PEC di notifica sia finita nella cartella della posta indesiderata ("spam") della casella PEC del destinatario e sia stata eliminata dall’addetto alla ricezione, senza apertura e lettura della busta, per il timore di danni al sistema informatico aziendale, non può essere invocata dall’intimato come ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore ai fini della dimostrazione della mancata tempestiva conoscenza del decreto che legittima alla proposizione dell’opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.; ciò in quanto l’art. 20 del d.m. n. 44 del 2011 (regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi di cui al d.lgs. n. 82 del 2005), nel disciplinare i requisiti della casella PEC del soggetto abilitato esterno, impone una serie di obblighi - tra cui quello di dotare il terminale informatico di "software" idoneo a verificare l’assenza di virus informatici nei messaggi in arrivo e in partenza, nonché di "software antispam" idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi indesiderati - finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di posta elettronica certificata, il cui esatto adempimento consente di isolare i messaggi sospetti ovvero di eseguire la scansione manuale dei relativi files, sicché deve escludersi l’impossibilità di adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio PEC nel cestino, una volta che esso sia stato classificato dal computer come "spam".

A sua volta, Sez. 2, n. 08299/2021, Besso Marcheis, Rv. 660804-01, ha confermato (Sez. 1, n. 19429/2005, De Chiara C., Rv. 585704 – 01) che l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto non viene meno di per sé a seguito dell’opposizione tardivamente proposta, così come il passaggio in giudicato dello stesso non è impedito - o revocato - dalla sua impugnazione con la revocazione straordinaria o l’opposizione di terzo (art. 656 c.p.c.), rimedi straordinari per loro natura proponibili avverso sentenze passate in giudicato, l’assoggettamento ai quali del decreto ingiuntivo in tanto ha ragione di esistere in quanto l’esaurimento della esperibilità di quelli ordinari ha già dato luogo al giudicato, che non è inciso, in definitiva, dalla mera opposizione tardiva, nonché, a fortiori, dalla sola proponibilità di essa.

8. L’esecutorietà del d.i.

Confermando una impostazione che già in passato era stata avallata (Sez. 3, n. 19595/2013, De Stefano, Rv. 627518 – 01), Sez. 1, n. 23500/2021, Caradonna, Rv. 662188-01, ha affermato che, qualora sia integralmente respinta l’opposizione avverso un decreto ingiuntivo non esecutivo, con sentenza che non pronunci sulla sua esecutività, il titolo fondante l’esecuzione non è quest’ultima, bensì, quanto a sorte capitale, accessori e spese da quello recati, il decreto stesso, la cui esecutorietà è collegata, appunto, alla sentenza, in forza della quale viene sancita indirettamente, con attitudine al giudicato successivo, la piena sussistenza del diritto azionato, nell’esatta misura e negli specifici modi in cui esso è stato posto in azione nel titolo, costituendo, invece, la sentenza titolo esecutivo solo per le eventuali, ulteriori voci di condanna in essa contenute.

Sez. 2, n. 36196/2021, Casadonte, Rv. 662976-01, ha avuto l’occasione per chiarire che la sussistenza delle condizioni che legittimano la dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 647 c.p.c., è sindacabile esclusivamente nel giudizio di opposizione, promosso ai sensi dell’art. 645 o dell’art. 650 c.p.c., ovvero nel giudizio di opposizione all’esecuzione intrapresa in base al decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, non essendo previsto alcun mezzo d’impugnazione avverso il relativo decreto, e non essendo proponibile il ricorso per cassazione.

Sul tema merita di essere segnalata Sez. 5, n. 03455/2021, Lo Sardo, Rv. 660488-01, secondo cui la soggezione del decreto ingiuntivo ad imposta proporzionale di registro è connessa e commisurata alla relativa esecutività, non rilevando che quest’ultima consegua alla concessione provvisoria del giudice in fase sommaria o contenziosa – artt. 642 e 648 c.p.c. – ovvero derivi dalla mancata opposizione dell’intimato o dall’inattività dell’opponente – art. 647 c.p.c. - , sicchè, nel caso in cui l’esecutività – concessa iussu iudicis o derivata ope legis – non corrisponda all’intero ammontare del credito, ma sia soggettivamente o oggettivamente limitata, l’imposta di registro deve essere liquidata e riscossa entro tali limiti, salva l’eventualità di un conguaglio o di un rimborso in relazione all’esito variabile della sentenza resa all’esito del giudizio di opposizione; ne deriva che, a prescindere dal vincolo di solidarietà passiva, l’acquisizione dell’esecutività – per mancata opposizione - nei confronti di un solo condebitore solidale nei ridotti limiti dell’importo per cui questi sia tenuto nei confronti del creditore comporta la tassazione del decreto ingiuntivo per l’ammontare corrispondente, anche se inferiore a quello della somma ingiunta per intero.

9. Il procedimento per convalida di sfratto.

Con la sentenza n. 205 del 28 ottobre 2021, la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità, per insufficiente e perplessa motivazione dell’ordinanza di rimessione, delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 660, comma 6, e 663 c.p.c. nonché dell’art. 55, comma 5, della legge n. 392 del 1978, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., poiché il petitum dedotto risultava sostanzialmente contraddittorio, avendo il giudice rimettente chiesto, da una parte, di eliminare del tutto, nell’art. 660, comma 6, c.p.c., la possibilità che, ai fini dell’opposizione e del compimento delle attività previste negli articoli da 663 a 666 c.p.c., sia sufficiente la comparizione personale dell’intimato e, dall’altra, che la comparizione personale dell’intimato, che ne abbia pregiudicato la difesa, escluda di per sé la convalida dello sfratto.

Sul punto, il Giudice delle leggi ha osservato che la parte intimata, comparsa in giudizio, può, senza il patrocinio prescritto in generale dall’art. 82 c.p.c., compiere personalmente, nel procedimento di convalida, tipici atti defensionali, che normalmente appartengono all’attività della difesa tecnica mediante un procuratore legalmente esercente. In particolare, l’intimato, comparso in udienza, può personalmente sia proporre l’opposizione alla richiesta di convalida dello sfratto ex art. 663 c.p.c., sia sollevare eccezioni, quali esse siano ex art. 665 c.p.c., le quali, se fondate su prova scritta, precludono al giudice di pronunciare, su istanza del locatore, ordinanza non impugnabile di rilascio dell’immobile locato, immediatamente esecutiva.

Nel procedimento per convalida di sfratto, l’opposizione dell’intimato ai sensi dell’art. 665 c.p.c. determina la conclusione del procedimento a carattere sommario e l’instaurazione di un nuovo e autonomo procedimento con rito ordinario, nel quale le parti possono esercitare tutte le facoltà connesse alle rispettive posizioni, ivi compresa, per il locatore, la possibilità di porre a fondamento della domanda una causa petendi diversa da quella originariamente formulata e, per il conduttore, la possibilità di dedurre nuove eccezioni e di spiegare domanda riconvenzionale. Sez. 3, n. 17955/2021, Sestini, Rv. 661747-01, ha enunciato il menzionato principio in una fattispecie in cui, all’esito del giudizio a cognizione piena, conseguito al procedimento sommario di convalida di sfratto, la risoluzione del contratto di locazione è stata pronunciata per causa diversa da quella posta a base dell’intimazione.

10. La tutela cautelare.

Nel regime successivo alla novella introdotta con la l. n. 80 del 2005, l’ordinanza di rigetto del reclamo cautelare proposto in corso di causa non deve contenere un’autonoma liquidazione delle spese della fase cautelare endoprocessuale, essendo tale liquidazione rimessa al giudice di merito contestualmente alla valutazione dell’esito complessivo della lite. Sulla base di questa premessa, Sez. 3, n. 12898/2021, Rubino, Rv. 661381-01, ha affermato che, qualora tale liquidazione sia comunque stata effettuata, deve essere riconsiderata insieme la decisione del merito della causa e, ove non lo sia, e sia dedotto uno specifico motivo di appello sul punto, il giudice di appello è tenuto ad una riconsiderazione complessiva delle spese di lite, comprensive delle spese del procedimento endoprocessuale, sulla base dell’esito del giudizio.

Quanto al regime impugnatorio, è opportuno ricordare che Sez. 2, n. 28607/2020, Carrato, Rv. 659840 - 01, ha sostenuto che, in tema di procedimento cautelare o equiparato (nella specie, possessorio), avverso il provvedimento di condanna alle spese non è proponibile il ricorso per cassazione, ma trova applicazione l’art. 669 septies, comma 3, c.p.c., nella formulazione ratione temporis vigente (prima della modifica introdotta con l’art. 50, comma 1, della legge n. 69 del 2009), sicchè la condanna alle spese, anche se emessa all’esito del reclamo, è opponibile ai sensi degli artt. 645 e seguenti c.p.c., avendo tale norma una valenza generale, volta, com’è, a ricondurre al sistema oppositorio menzionato ogni statuizione sulle spese adottata in sede di procedimento cautelare.

11. Il procedimento possessorio: il divieto di proporre giudizio petitorio.

Sez. 2, n. 20324/2021, Fortunato, Rv. 662017-01, ha precisato che le condizioni che, ai sensi dell’art. 705 c. p.c., consentono al convenuto in giudizio possessorio di instaurare giudizio petitorio (costituite dalla definizione del giudizio con sentenza non più soggetta ad impugnazione e o all’esecuzione della relativa decisione), possono trovare l’equipollente solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una sostanziale cessazione del giudizio possessorio per aver il convenuto spontaneamente reintegrato la controparte nell’esercizio del possesso.

La pronuncia si pone nella scia di Sez. 2, n. 08367/2001, Del Core, Rv. 547585-01, la quale ne ha tratto la conseguenza che deve escludersi l’instaurabilità del giudizio petitorio quando la reintegrazione sia avvenuta non spontaneamente, ma in esecuzione di un ordine provvisorio emesso dal giudice in pendenza del procedimento.

12. Il procedimento sommario di cognizione.

Sul piano normativo, va segnalato che, nell’ottica dell’accelerazione e della semplificazione del giudizio di primo grado, è stata conferita delega perché il legislatore delegato provveda a rinominare e adeguatamente modificare l’attuale «procedimento sommario di cognizione», introdotto negli articoli 702-bis, 702-ter e 702-quater c.p.c. dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, trasformandolo in un processo semplificato applicabile, come rito obbligatorio, alle controversie meno complesse. L’obiettivo della delega è di fare in modo che, ad esclusione delle controversie sottoposte a riti speciali, tutte le altre controversie civili siano sottoponibili in primo grado - a seconda della loro complessità - o al rito ordinario già esistente o a quello semplificato di nuovo conio. Ed in tale prospettiva si giustifica anche la previsione della sua collocazione nell’ambito del libro secondo del codice di procedura civile. In particolare, la delega prevede di rendere applicabile come rito obbligatorio il procedimento semplificato alle controversie di competenza del giudice di pace (salve le disposizioni specifiche attualmente previste dagli articoli 313, 316 e 317 del codice di rito) ed a quelle, di competenza del tribunale in composizione monocratica, che comunque riguardino fatti non controversi o presentino un’istruzione basata soltanto su prove documentali o di pronta soluzione o che, secondo la valutazione del giudice, richiedano un’attività istruttoria costituenda non complessa. Questa previsione ha l’obiettivo di evitare che anche per le controversie di competenza del giudice di pace, la cui natura non complessa ne ha giustificato nel 1991 l’attribuzione al giudice onorario, e comunque per quelle non complesse davanti al tribunale in composizione monocratica debba applicarsi - come accade oggi - il processo ordinario di cognizione, di per sé pensato per controversie che presentino una maggiore complessità. E, di conseguenza, che la trattazione delle controversie di competenza del giudice di pace e di quelle meno complesse di competenza del tribunale monocratico sia improntata alla rigidità propria del rito ordinario, come è previsto attualmente. Ciò con inevitabile risparmio dei tempi processuali, in particolare per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio. D’altro canto, l’inserimento fra i principi di delega della previsione secondo cui tutte le controversie di competenza del giudice di pace siano sottoposte alla disciplina del rito semplificato determinerà anche la riconduzione ad un rito unitario di queste controversie, per le quali oggi è prevista sia l’applicazione del rito di cui agli articoli 311-321 c.p.c., sia l’applicazione di altri riti speciali previsti dal decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150.

Con ordinanza interlocutoria n. 12233 del 10/05/2021 (Scoditti), la Terza Sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione di questione di massima di particolare importanza circa la valutazione della portata della norma di cui all’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, la quale, dopo aver disposto (al comma 1) che, per l’ipotesi di controversia promossa in forma diversa da quelle previste dal medesimo decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza, prevede che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento e che restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le medesime norme. In particolare, la questione interpretativa riguarda il se, ai fini della salvezza degli effetti di cui innanzi, sia necessario che il giudice, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti, disponga il mutamento del rito.

In proposito va ricordato che l’individuazione del mezzo d’impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata, a tutela dell’affidamento della parte e in ossequio al principio dell’apparenza, con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni assunte secondo il rito in concreto adottato, in relazione alla qualificazione dell’azione (giusta o sbagliata che sia) effettuata dal giudice. In tal guisa ragionando, Sez. 1, n. 17646/2021, Vannucci, Rv. 661595-01 (conf.: Sez. 3, n. 23390/2020, Moscarini,Rv. 659244-01), ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile l’appello, in un giudizio avente ad oggetto il mancato riconoscimento della protezione umanitaria da parte della Commissione territoriale, promosso - prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif. in l. n. n. 132 del 2018 - nelle forme dell’art. 702 bis c.c., invece che dell’art. 35 bis d.lgs. n. 25 del 2008, e deciso, senza mutamento del rito, ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., poiché, dovendosi tenere conto del rito in concreto applicato, l’unico mezzo di impugnazione esperibile era l’appello.

Va, inoltre, tenuto presente che la regola stabilita dall’art. 4, comma 5 del d.lgs. n. 150 del 2011, a tenore della quale gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, restando ferme le decadenze e le preclusioni già maturate in tale fase, trova applicazione in tutti i casi di passaggio dal rito ordinario ad un rito speciale. In quest’ottica, Sez. 1, n. 07696/2021, Terrusi, Rv. 660798-01, ha cassato la pronuncia di merito che aveva accolto l’eccezione di prescrizione formulata dai convenuti costituiti in giudizio tardivamente, ex art. 166 c.p.c., prima che fosse disposto il mutamento dal rito ordinario a quello sommario.

12.1. L’ambito applicativo.

Con riferimento all’ambito applicativo, la controversia avente ad oggetto la richiesta di liquidazione di compensi maturati per la difesa della parte civile nel processo penale non è soggetta alla disciplina del procedimento sommario di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 - applicabile alle sole controversie di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, riguardante i compensi per prestazioni giudiziali in materia civile -, ma a quella del processo ordinario ovvero, in alternativa, del procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. innanzi al tribunale in composizione monocratica, con conseguente appellabilità del provvedimento che definisce il relativo giudizio, essendo l’immediato ricorso per cassazione limitato alle decisioni rese ai sensi dell’art. 14 cit. Nell’enunciare tale principio, Sez. 6-2,n. 06817/2021, Criscuolo, Rv. 660853-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso immediato per cassazione avverso l’ordinanza con la quale il tribunale in composizione monocratica aveva rigettato la domanda proposta ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. e, perciò, soggetta all’appello ex art. 702-quater c.p.c..

12.2. L’istruttoria.

L’art. 702-bis, commi 1 e 4, c.p.c. non contempla alcuna sanzione processuale in relazione al mancato rispetto del requisito di specifica indicazione dei mezzi di prova e dei documenti di cui il ricorrente ed il resistente intendano, rispettivamente, avvalersi, né alla mancata allegazione di detti documenti, al ricorso o alla comparsa di risposta; ne consegue l’ammissibilità della produzione documentale successiva al deposito del primo atto difensivo e fino alla pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 702-ter c.p.c. Sulla base di queste argomentazioni, Sez. 6-2, n. 00046/2021, Oliva, Rv. 660176-01, ha cassato la decisione di merito, che aveva rigettato la domanda per avere il ricorrente depositato la documentazione a supporto della stessa non già in uno al ricorso, bensì mediante l’inoltro di apposite buste telematiche in un momento successivo all’iscrizione della causa a ruolo e, comunque, antecedente all’udienza di comparizione delle parti.

Per quanto fossero sorti dubbi, Sez. 3, n. 01709/2021, Di Florio, Rv. 660390-01, ha sostenuto che, in tema di protezione internazionale, trova applicazione, ove sia seguito il rito sommario di cognizione, sia in primo grado che in appello, il meccanismo disciplinato dagli artt. 181 e 309 c.p.c. per il processo ordinario, dovendosi escludere che la conseguente dichiarazione di estinzione possa configurare un pregiudizio per i diritti fondamentali del richiedente asilo, la cui condotta processuale è affidata alla responsabilità del difensore, o possa pregiudicare l’interesse della controparte pubblica che, qualora intenda evitare detta estinzione, ben può comparire dinanzi al giudice e chiedere che decida la controversia.

In relazione al grado di appello, nelle controversie in materia di protezione internazionale, il gravame ex art. 702-quater c.p.c. avverso la decisione di primo grado deve essere proposto, alla stregua dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011, come modificato dall’art. 27, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 142 del 2015, con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma. Tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un "overruling" processuale, in virtù del quale devono ritenersi comunque ammissibili gli appelli introdotti con citazione e depositati oltre il trentesimo giorno successivo alla comunicazione dell’ordinanza impugnata, in epoca antecedente all’affermarsi del nuovo orientamento. In tal guisa argomentando, Sez. L, n. 29926/2021, Esposito L., Rv. 662655-01, ha rigettato il ricorso contro la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile l’appello, proposto con citazione, anziché con ricorso, avverso un’ordinanza comunicata alle parti circa cinque mesi dopo il mutamento giurisprudenziale, sul presupposto che quest’ultimo dovesse essere conosciuto dalla difesa del richiedente, in considerazione della congruità del periodo di tempo trascorso.

13. I procedimenti in camera di consiglio.

Molto attesa era la pronuncia Sez. U, n. 21761/2021, Valitutti, Rv. 661859-01, con la quale è stato stabilito che le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide, in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l’attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52 del 1985, come introdotto dall’art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, restando invece irrilevante l’ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari.

Le Sezioni Unite hanno condiviso, pertanto, l’approccio di Sez. 1, n. 04306/1997, Felicetti, Rv. 504372-01, secondo cui sono pienamente valide le clausole dell’accordo di separazione che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento.

Sez. 1, n. 02749/2021, Pazzi, Rv. 660720-01, ha affermato, con riferimento ad un procedimento volto alla dichiarazione di incandidabilità degli amministratori responsabili delle condotte che avevano dato causa allo scioglimento di un consiglio comunale, di cui all’art. 143, comma 11, ult. periodo, del d.lgs. n. 267 del 2000, che lo stesso è soggetto alla sospensione feriale dei termini, non applicandosi la deroga prevista dagli artt. 3 della legge n. 742 del 1969 e 92 r.d. n. 12 del 1941, poiché queste disposizioni non contemplano, nella loro tassativa elencazione, tale procedimento né, in linea generale, i procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 ss. c.c.

  • giurisdizione arbitrale
  • competenza giurisdizionale
  • sentenza della Corte (UE)
  • pubblica amministrazione
  • esecuzione della sentenza
  • conflitto di giurisdizioni

CAPITOLO XIX

L’ARBITRATO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Convenzione d’arbitrato: interpretazione, potestas iudicandi e suoi limiti. - 3 Nullità della convenzione ed eccezione di difetto di potestas iudicandi. - 4 La natura dell’arbitrato nell’interpretazione della convenzione: fonte e natura dell’arbitrato libero e validità del lodo. - 5 Arbitrato societario e nomina degli arbitri. - 6 Composizione del collegio arbitrale: nomina dell’arbitro. - 7 Pubblica Amministrazione e arbitrato. - 8 Il lodo e l’impugnazione per nullità. - 9 L’interesse ad impugnare nella violazione del contraddittorio e la fase rescissoria. - 10 Il termine per impugnare. - 11 Questioni di giurisdizione e di competenza. - 12 Riconoscimento ed esecuzione del lodo arbitrale estero.

1. Premessa.

Nel corso del 2021, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla Suprema Corte numerose decisioni in ordine all’interpretazione del patto compromissorio ed alla relativa portata, alla validità della convenzione di arbitrato ed al c.d. «arbitrato societario».

Sono stati altresì diversi i principi sanciti e confermati in merito ai rapporti con l’appalto di opere pubbliche, con l’autorità giudiziaria ordinaria, con il G.A. nonché in tema di procedimento arbitrale, di impugnabilità del lodo per errori di diritto oltre che di riconoscimento di lodo arbitrale estero.

2. Convenzione d’arbitrato: interpretazione, potestas iudicandi e suoi limiti.

Ove sia dedotta la nullità del lodo per inesistenza della clausola compromissoria, il giudice di merito ha il potere di interpretare direttamente la previsione contrattuale oggetto di contestazione per verificare se contenga o meno la volontà di compromettere in arbitri poiché, rilevando ai fini dell’accertamento della potestas iudicandi di questi ultimi, l’interpretazione della clausola compromissoria non incontra i limiti stabiliti per l’interpretazione delle altre clausole, riservata agli arbitri e sindacabile dal giudice di merito solo per violazione delle norme di ermeneutica contrattuale o per difetto assoluto di motivazione (Sez. 1, n. 23495/2021, Marulli, Rv. 662186-01, in senso conforme la precedente Sez. 1, n. 07649/2007, De Chiara, Rv. 596475-01). Dall’assunto per il quale l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto della clausola arbitrale si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, Sez. 3, n. 39437/2021, Scrima, Rv. 663435-01, argomenta la censurabilità del detto accertamento in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell’ iter logico seguito per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto oppure nel caso di violazione di norme ermeneutiche (conf. Sez. 6-1, n. 04912/2021, Di Virgilio).

Con particolare riferimento alla tematica della competenza arbitrale, invece, Sez. 6-2, n. 25939/2021, Tedesco, Rv. 662293-01, chiarisce che la presenza di una clausola compromissoria non impedisce di richiedere e ottenere dal giudice ordinario un decreto ingiuntivo per il credito scaturente dal contratto, ferma restando la facoltà, per l’intimato, di eccepire la competenza arbitrale in sede di opposizione, con conseguente necessità, per il giudice di quest’ultima, di revocare il decreto ingiuntivo ed inviare le parti dinanzi all’arbitro unico o al collegio arbitrale. Già in passato la Suprema Corte aveva affrontato i rapporti tra clausola compromissoria, ancorché per arbitrato irrituale, e decreto ingiuntivo statuendo che l’improponibilità della domanda a causa della previsione d’una clausola compromissoria per arbitrato irrituale è rilevabile non già d’ufficio ma solo su eccezione della parte interessata e, dunque, non osta alla richiesta ed alla conseguente emissione di un decreto ingiuntivo; tuttavia, rimane nella facoltà dell’intimato eccepire l’improponibilità della domanda dinanzi al giudice dell’opposizione ed ottenerne la relativa declaratoria (Sez. 2, n. 05265/2011, Mazziotti Di Celso, Rv. 617191-01).

3. Nullità della convenzione ed eccezione di difetto di potestas iudicandi.

In caso di deferimento della controversia ad un collegio arbitrale, il difetto di potestas iudicandi del collegio decidente, per essere la convenzione di arbitrato nulla, deve essere eccepito nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri, sicché, in difetto, la dedotta invalidità degrada a nullità sanabile.

Sez. 2, n. 15613/2021, Giusti, Rv. 661358-01, in applicazione del principio, ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto precluso l’esame della questione sulla potestas iudicandi degli arbitri per invalidità della clausola arbitrale, in quanto avanzata per la prima volta in sede di impugnazione del lodo.

La Suprema Corte, in particolare, argomenta dall’insieme degli artt. 829, comma 1, n. 1) e 817, comma 2, secondo periodo, c.p.c., dai quale si ricava che l’impugnazione per nullità del lodo per l’ipotesi in cui «la convenzione d’arbitrato è invalida», è ammessa a condizione che la parte abbia eccepito nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri l’incompetenza di questi ultimi per invalidità del compromesso o della clausola compromissoria (salvo il caso – ritenuto insussistente nella specie – di controversia non arbitrabile). L’invalidità della convenzione d’arbitrato degrada dunque a nullità sanabile se non eccepita.

4. La natura dell’arbitrato nell’interpretazione della convenzione: fonte e natura dell’arbitrato libero e validità del lodo.

Da quanto evidenziato in precedenza, emergono l’importanza e la necessità dell’interpretazione della convenzione che rileva anche per determinare se si verta in tema di arbitrato rituale o irrituale.

A tale ultimo fine occorre interpretare la clausola compromissoria alla stregua dei normali canoni ermeneutici ricavabili dall’art. 1362 c.c. e, dunque, fare riferimento al dato letterale, alla comune intenzione delle parti ed al comportamento complessivo delle stesse, anche successivo alla conclusione del contratto (in questi termini, ex plurimis: Sez. 3, n. 28011/2019, Olivieri, Rv. 655642-01; Sez. 1, n. 21059/2019, Lamorgese, Rv. 655293-01; Sez. 2, n. 11313/2018, Oricchio, Rv. 648179-01; Sez. 1, n. 26135/2013, Di Virgilio, Rv. 628965-01).

L’arbitrato irrituale costituisce difatti uno strumento di risoluzione contrattuale delle contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, imperniato sull’affidamento a terzi del compito di ricercare una composizione amichevole, conciliante o transattiva. Poiché le parti si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà, prosegue Sez. 2, n. 14986/2021, Scarpa, Rv. 661513-01, il lodo irrituale ha natura negoziale ed è impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c.

Ne consegue che, ove – come nella fattispecie di cui all’ordinanza da ultimo citata – venga in discussione quale fosse l’oggetto della controversia deferita agli arbitri, il vizio denunciato si traduce in una questione d’interpretazione della volontà dei mandanti e si risolve, analogamente a quanto accade in ogni altra ipotesi di interpretazione della volontà negoziale, in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se condotto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e correttamente motivato (in merito si veda, in termini sostanzialmente conformi, Sez. 1, n. 06830/2014, Mercolino, Rv. 630133-01).

L’arbitrato libero o irrituale trova in particolare la sua fonte in un contratto di mandato con il quale due o più parti incaricano uno o più soggetti di definire una controversia per conto e nell’interesse dei mandanti, sicché la determinatezza o la determinabilità dei confini soggettivi ed oggettivi della controversia oggetto del compromesso arbitrale è la condizione indefettibile della validità del lodo.

Proprio in applicazione del principio, Sez. 1, n. 30000/2021, Parise, Rv. 662724-01, ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’appello che non aveva adeguatamente spiegato i motivi per i quali aveva ritenuto che una determinata controversia, decisa in seguito ad un arbitrato irrituale, rientrasse nell’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione di una clausola compromissoria contenuta in un patto parasociale.

5. Arbitrato societario e nomina degli arbitri.

La disciplina dettata dall’art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003 per l’arbitrato societario risulta indubbiamente più rigorosa rispetto al diritto comune, non limitandosi a prescrivere che la clausola compromissoria preveda il numero e le modalità di nomina degli arbitri di competenza delle parti, ma disponendo, a pena di nullità, che, nel caso in cui la designazione sia demandata ad un terzo, quest’ultimo debba essere un soggetto estraneo alla società.

Trattasi però, precisa Sez. 6-1, n. 24462/2021, Mercolino, Rv. 662600-01, di disciplina speciale che non è consentito estendere all’arbitrato disciplinato dal codice di rito, il quale prevede che nell’ipotesi in cui la clausola compromissoria si traduca nella violazione del principio secondo cui il meccanismo di designazione degli arbitri deve costituire espressione della volontà di tutti i contendenti, l’affidamento della nomina ad un terzo non estraneo alle parti non comporta la nullità del compromesso o della clausola compromissoria, restando la posizione di terzietà ed imparzialità degli arbitri garantita dall’operatività dell’istituto della ricusazione, come disciplinato dall’art. 815 c.p.c.

Proprio in applicazione dell’evidenziato principio, l’ordinanza da ultimo citata ha escluso la nullità della clausola compromissoria che quale prevedeva la nomina del terzo arbitro ad opera del Presidente dell’ABI, associazione cui aderiva anche la banca parte della controversia.

In merito alla nomina degli arbitri in arbitrato societario, già la S.C. aveva statuito che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell’art. 34 del d.lgs. n. 5 del 2003, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società è nulla, non potendosi accettare la tesi del «doppio binario», per cui essa si convertirebbe da clausola per arbitrato endosocietario in clausola per arbitrato di diritto comune, atteso che l’art. 34 commina la nullità per garantire il principio di ordine pubblico dell’imparzialità della decisione (ex plurimis, Sez. 1, n. 25610/2021, Falabella, Rv. 650591-01).

6. Composizione del collegio arbitrale: nomina dell’arbitro.

È legittima la ridesignazione dell’arbitro della parte anche dopo la nomina del terzo arbitro da parte della camera arbitrale in quanto l’art. 811 c.p.c. consente la sostituzione ogni qual volta l’arbitro venga a mancare per qualsiasi motivo ed a prescindere dal momento, al fine di assicurare la continuità del collegio arbitrale.

Così statuendo, Sez. 1, n. 02747/2021, Pazzi, Rv. 660561-01, ha confermato la sentenza impugnata che, in assenza di una specifica contestazione sul fatto che la sostituzione fosse inficiata dalla volontà della parte di modificare la propria precedente scelta in ragione dell’individuazione del terzo arbitro ad opera della camera arbitrale, aveva ritenuto che fosse stata rispettata la procedura di cui agli artt. 810 e ss. c.p.c.

La materia della nomina dell’arbitro è già stata oggetto di pronunce di legittimità per le quali quella eseguita in violazione della regola, contenuta nell’art. 810, comma 2, c.p.c. che attribuisce tale competenza, funzionale ed inderogabile, al presidente del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato, determina la nullità del lodo, ai sensi dell’art. 829, comma 1, c.p.c., ove disposta da giudice territorialmente non competente, nei limiti in cui la questione venga dedotta nel giudizio arbitrale ma non l’invalidità della convenzione arbitrale. Questo, come è stato chiarito da Sez. 6-3, n. 14476/2019, Iannello, Rv. 654306-03, sia per la quale quella di cui innanzi è una disposizione destinata a regolare l’ipotesi residuale del mancato accordo delle parti in merito alla nomina, sia perché la previsione di un foro inderogabile opera, nel processo, in modo simile al meccanismo di sostituzione di diritto delle clausole contrattuali nulle, perché in contrasto con norme imperative, di cui all’art. 1419, comma 2, c. In tema di composizione del collegio arbitrale, già era stato statuito che qualora la clausola compromissoria contenesse un rinvio ad una legge, in funzione dell’individuazione delle relative regole, la fonte della deferibilità ad arbitri rimarrebbe comunque contrattuale e non legislativa. Ne è derivata, per Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese, Rv. 650399-02, l’irrilevanza, ai fini della disciplina processuale dei successivi arbitrati, delle modifiche normative sopravvenute che abbiano riguardato la predetta legge, la cui applicabilità permane proprio in quanto riconducibile non alla volontà del legislatore ma a quella negoziale delle parti. La S.C., con la medesima ordinanza da ultimo citata, ha altresì chiarito che in caso di nullità del lodo per violazione di norme inderogabili sulla composizione del collegio arbitrale, la Corte d’appello non può far seguire la fase rescissoria alla fase rescindente, in quanto la competenza, da parte del giudice dell’impugnazione, a conoscere del merito presuppone un lodo emesso da arbitri investiti effettivamente di potestas iudicandi (Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese, Rv. 650399-01; in senso conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 20128/2013, Mercolino, Rv. 627741-01). È stato infine già ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. avverso il decreto di nomina o di sostituzione di un arbitro, essendo provvedimento privo di carattere decisorio e insuscettibile di produrre effetti sostanziali o processuali di cosa giudicata. In questi termini Sez. 1, n. 18004/2018, Caiazzo, Rv. 649894-01, ed in senso conforme (anche) la precedente Sez. 1, n. 11665/2007, Rordorf, Rv. 597181-01, che aveva applicato il principio, in fattispecie in cui due tribunali avevano proceduto alla nomina di un arbitro, al ricorso proposto avverso il decreto di revoca della nomina e la successiva revoca della revoca, escludendone la decisività su diritti processuali delle parti.

7. Pubblica Amministrazione e arbitrato.

In materia di appalto per l’esecuzione di un’opera pubblica, la clausola compromissoria contenuta nel contratto può essere invocata dall’appaltante che abbia stipulato la convenzione, sebbene titolare di un mandato con rappresentanza conferitogli da un terzo, quando il medesimo abbia agito in nome proprio, perché quando il rappresentante stipula anche in nome del rappresentato assume la veste di parte soltanto formale del contratto.

Nei termini di cui innanzi statuisce Sez. 1, n. 08085/2021, Terrusi, Rv. 660977-01, in giudizio in cui l’appaltante, mandatario con rappresentanza di un istituto di credito, aveva stipulato il contratto contenente la clausola compromissoria senza che vi fosse stata la spendita del nome del mandante, con la conseguenza che il mandatario aveva assunto la veste di parte anche sostanziale del contratto. L’esposta impostazione risulta peraltro in linea con il più generale principio per cui nei contratti conclusi dal rappresentante, la prova che il rappresentante abbia espressamente speso il nome del rappresentato può essere fornita anche per presunzioni, diversamente dal caso in cui sia mancata una espressa spendita del nome, in cui gli effetti del negozio si consolidano direttamente in capo al rappresentante anche se l’altro contraente abbia avuto comunque conoscenza del mandato o dell’interesse del mandante nella conclusione dell’affare: in quest’ultimo caso, infatti, una eventuale contemplatio domini tacita non può essere desunta da elementi presuntivi (Sez. 2, n. 00433/2007, Fiore, Rv. 594846-01).

Al fine di valutare la compromettibilità in arbitrato di una controversia derivante dall’esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, occorre invece valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere a tale strumento di risoluzione delle controversie solo se abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell’art. 12 c.p.a., e non invece la consistenza di interesse legittimo. Proprio argomentando nei detti termini Sez. 1, n. 02738/2021, Lamorgese, Rv. 660385-01, ha ravvisato la consistenza dell’interesse legittimo nella posizione vantata dal privato che aveva inteso reagire, anche a fini risarcitori, avverso scelte discrezionali dell’Amministrazione che avevano reso inattuabile l’accordo di realizzazione di un complesso programma lottizzatorio.

La Suprema Corte ha altresì statuito con riferimento alla tematica dell’arbitrato in tema di giochi di abilità, pronostici e scommesse ed ha ribadito principi inerenti i rapporti tra arbitrato, concessione di pubblici servizi e contratti stipulati dal comune per la realizzazione di opere pubbliche.

In merito alla prima questione, Sez. 1, n. 08111/2021, Nazzicone, Rv. 660895-01, ha chiarito che in tema giochi di abilità, concorsi pronostici e scommesse, nelle controversie successive alla data del 1° gennaio 2001, d’inizio dell’operatività delle agenzie fiscali ex art. 1 d.m. 28 dicembre 2000, non sussiste la legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze ma quella delle predette agenzie fiscali (conformemente, ex plurimis, a Sez. U, n. 03116/2006, Altieri, Rv. 587608-01, e successive conformi), con la conseguente nullità dei lodi emessi nei confronti del primo a fronte di domande proposte dalle concessionarie dei servizi.

Circa gli altri citati rapporti, invece, è stato ribadito il principio per cui in tema di contratti stipulati dai comuni per la realizzazione di opere pubbliche nella regione Sicilia, si applica, in forza del richiamo contenuto nell’art. 9 della l.r. n. 21 del 1973 e nell’art. 32, comma 1, della l.r. n. 21 del 1985, il capitolato generale approvato con il d.P.R. n. 1063 del 1962, che nel testo applicabile ratione temporis prevede la derogabilità, con atto unilaterale di ciascun contraente, della competenza arbitrale prevista nei contratti di appalto (principio già confermato da Sez. 1, 20050/2010, Di Palma, Rv. 614256-01).

In detti termini si è espressa Sez. 1, n. 16411/2021, Lamorgese, Rv. 661587-01, che ha quindi cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva ritenuto non derogabile la competenza arbitrale fondata sulla clausola compromissoria, prevista in via generale per tutti i contratti di appalto stipulati da un comune siciliano.

In materia concessioni di pubblici servizi non è invece consentito il ricorso all’arbitrato per risolvere controversie riguardanti convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000, dovendo conseguentemente ritenersi nulle le relative clausole compromissorie, poiché l’art. 5 della l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis, prevedeva la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo restando esclusa la compromettibilità in arbitri, senza che assuma rilievo il sopravvenuto disposto dell’art. 6, comma 2, della l.n. 205 del 2000 – che ha introdotto anche per le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la facoltà di avvalersi di un arbitrato rituale di diritto –, poiché detta norma, in mancanza di un’espressa previsione di efficacia retroattiva, non può avere un effetto sanante dell’originaria invalidità delle clausole compromissorie stipulate durante la disciplina previgente (Sez. 1, n. 08094/2021, Terrusi, Rv. 660978-01, prec. conf. Sez. U, n. 27336/2021, Malpica, Rv. 605678-01).

8. Il lodo e l’impugnazione per nullità.

L’obbligo di esposizione sommaria dei motivi della decisione imposto agli arbitri dall’art. 823, n. 5, c.p.c., il cui mancato adempimento determina la possibilità di impugnare il lodo ai sensi dell’art. 829, comma 1, nn. 4 e 5, c.p.c., può ritenersi non soddisfatto solo quando la motivazione manchi del tutto o sia talmente carente da non consentire di comprendere l’iter logico che ha determinato la decisione arbitrale o contenga contraddizioni inconciliabili nel corpo della motivazione o del dispositivo tali da rendere incomprensibile la ratio della decisione (Sez. 2, n. 16077/2021, Giusti, Rv. 661441-01, conf. Sez. 1, n. 28218/2013, Piccininni, Rv. 629281-01, e Sez. U, n. 24785/2008, Fioretti, Rv. 604881-01).

La sanzione di nullità prevista dal citato art. 829, comma 1, n. 4, c.p.c. (oggi trasfusa nel n. 11 della medesima disposizione) per il lodo contenente disposizioni contraddittorie non corrisponde comunque a quella dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nel testo anteriore a quello vigente) ma va intesa nel senso che detta contraddittorietà deve emergere tra le diverse componenti del dispositivo, ovvero tra la motivazione ed il dispositivo. La contraddittorietà interna tra le diverse parti della motivazione, non espressamente prevista tra i vizi che comportano la nullità del lodo, può assumere rilevanza, quale vizio del lodo, soltanto in quanto determini l’impossibilità assoluta di ricostruire l’iter logico e giuridico sottostante alla decisione per totale assenza di una motivazione riconducibile al suo modello funzionale (Sez. 1, n. 02747/2021, Pazzi, Rv. 660561-02, conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 11895/2014, Rv. 631478-01). Tale principio, peraltro, non trova smentita nella disposizione di cui al n. 12 dell’art. 829 c.p.c. che, nel consentire detta impugnazione, si riferisce, invece, all’ipotesi del lodo che abbia omesso di pronunciare su uno o più quesiti sottoposti agli arbitri (Sez. 1, n. 00291/2021, Mercolino, Rv. 660406-01).

Parimenti, la nullità del lodo per omessa pronunzia su domande ed eccezioni delle parti, in conformità alla convenzione di arbitrato, ex art. 829, comma 1, n. 12, c.p.c., è invece configurabile solo nel caso di mancato esame, da parte degli arbitri, di questioni di merito e non anche di rito, nel qual caso l’impugnazione per nullità può essere proposta soltanto, in base ad altri numeri del medesimo art. 829 c.p.c., per far valere la mancanza delle condizioni per la decisione nel merito da parte degli arbitri (Sez. 2, n. 15613/2021, Giusti, Rv. 661358-02). Quando dallo stesso atto contenente il lodo risulti la sottoscrizione di tutti gli arbitri, adottata in un luogo ed in una data risultanti dal medesimo documento, non ricorre invece la necessità dell’apposizione della data a fianco delle singole sottoscrizioni, dovendosene presumere la contestualità (Sez. 6-1, n. 03139/2021, Scotti, Rv. 660580-01, conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 19324/2014, Lamorgese, Rv. 632215-01).

Nel giudizio, a critica vincolata, proponibile entro i limiti stabiliti dall’art. 829 c.p.c., di impugnazione per nullità del lodo arbitrale vige la regola della specificità della formulazione dei motivi, attesa la sua natura rescindente e la necessità di consentire al giudice, ed alla controparte, di verificare se le contestazioni proposte corrispondano esattamente a quelle formulabili alla stregua della suddetta norma. Così statuendo Sez. 1, n. 27321/2020, Iofrida, Rv. 659749-01, già si era inserita sostanzialmente nel solco di Sez. 1, n. 23675/2013, Salvago, Rv. 627973-01. Quest’ultima aveva proseguito chiarendo che, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza conclusiva di quel giudizio, il sindacato di legittimità, diretto a controllarne l’adeguata e corretta sua giustificazione in relazione ai motivi di impugnazione del lodo, va condotto soltanto attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione stessa. Pertanto, le censure proposte in cassazione non possono esaurirsi nel richiamo a principi di diritto, con invito a controllarne l’osservanza da parte degli arbitri e della corte territoriale, ma esigono un pertinente riferimento ai fatti ritenuti dagli arbitri, per rendere autosufficiente ed intellegibile la tesi per cui le conseguenze tratte da quei fatti violerebbero i principi medesimi, nonché l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito. Nell’impugnativa per nullità, ai sensi degli artt. 828 e ss. c.p.c., la Corte di appello non può altresì rilevare di ufficio motivi non dedotti con l’atto di impugnazione – salvo la nullità del compromesso e della clausola compromissoria – trattandosi di un gravame rigorosamente limitato e vincolato, nell’effetto devolutivo al giudice che ne è investito, sia in astratto, dalla tipicità dei vizi deducibili, sia in concreto, da quelli espressamente e specificamente dedotti (Sez. 1, n. 28191/2020, Fidanzia, Rv. 659751-01, sostanzialmente conforme a Sez. 1, n. 02307/2000, Felicetti, Rv. 534518-01).

Fermo restando quanto innanzi, sempre in tema di impugnazione del lodo per nullità, la prospettazione «a grappolo» di un insieme di pretesi vizi della pronuncia arbitrale non è ragione di inammissibilità del gravame per difetto di specificità dei motivi, quando, scandagliandone la formulazione, sia possibile scindere il contenuto cassatorio di ciascuna censura e – indipendentemente dalla rubricazione e, ancor più, dalla correttezza della indicazione numerica adottata – sia identificabile il parametro normativo di riferimento tra quelli enunciati dall’art. 829 c.p.c., operando una valutazione in tutto simile a quella che compie il giudice di legittimità nell’esaminare il ricorso per cassazione contenente, in un unico motivo, più profili di doglianza (Sez. 1, n. 14042/2021, Marulli, Rv. 661492-01). La delibazione dei motivi di nullità del lodo non dà comunque luogo al passaggio dalla fase rescindente a quella rescissoria, né può ritenersi elemento idoneo ad attribuire a tale delibazione natura decisoria – e, come tale, conclusiva della prima fase di giudizio – la circostanza che il giudice abbia poi proceduto all’istruttoria della causa, essendo la relativa ordinanza un provvedimento revocabile e modificabile a norma dell’art. 177 c.p.c. (Sez. 1, n. 01463/2021, Fidanzia, Rv. 660379-01).

Con riferimento infine all’arbitrato relativo a contratti pubblici, il comma 15 bis dell’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, introdotto dall’art. 5 del d.lgs. n. 53 del 2010, che consente l’impugnabilità del lodo anche per violazione di regole di diritto relative al merito della controversia, non trova applicazione riguardo ai collegi arbitrali già costituiti alla data di entrata in vigore del predetto d.lgs. n. 53 del 2010. In tali casi, inoltre, precisa Sez. 1, n. 07980/2021, Terrusi, Rv. 660893-01 (sulla scia di Sez. U, n. 09284/2016, Nappi, Rv. 639686-01), l’impugnazione del lodo a cagione di violazioni di regole di diritto inerenti il merito deve escludersi anche in forza delle norme del codice di rito, richiamate dal comma 2 dell’art. 241 suddetto, allorché le parti, con convenzione arbitrale anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina dell’arbitrato introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, abbiano dichiarato il lodo non impugnabile in applicazione dell’art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente.

9. L’interesse ad impugnare nella violazione del contraddittorio e la fase rescissoria.

La giurisprudenza di legittimità a più riprese ha chiarito il diverso modo di atteggiarsi del contraddittorio nel procedimento arbitrale rispetto al giudizio innanzi al giudice ordinario. Gli approdi in tema di contraddittorio arbitrale necessitano però di essere letti alla luce del diritto di difesa, del principio del giusto processo, anche in termini di sua ragionevole durata (art. 111 Cost.), oltre che del corollario costituito dall’interesse, attuale ed effettivo, ad impugnare.

La questione della violazione del contraddittorio deve difatti essere esaminata non sotto il profilo formale ma nell’ambito di una ricerca volta all’accertamento di una effettiva lesione della possibilità di dedurre e contraddire, onde verificare se l’atto abbia egualmente raggiunto lo scopo di instaurare un regolare contraddittorio e se, comunque, l’inosservanza non abbia causato pregiudizio alla part. Ne consegue dunque che la nullità del lodo e del procedimento devono essere dichiarate solo ove nell’impugnazione, alla denuncia del vizio idoneo a determinarle, segua l’indicazione dello specifico pregiudizio che esso abbia arrecato al diritto di difesa (Sez. 1, n. 18600/2020, Parise, Rv. 658811-01). Nel giudizio arbitrale, difatti, al pari di quanto avviene in quello ordinario, l’omessa osservanza del contraddittorio – il cui principio si riferisce non solo agli atti ma a tutte quelle attività del processo che devono svolgersi su un piano di paritaria difesa delle parti – non è difatti un vizio formale ma di attività; sicché la nullità che ne scaturisce ex art. 829, n. 9, c.p.c., e che determina, con l’invalidità dell’intero giudizio, quella derivata della pronuncia definitiva, origina da una concreta compressione del diritto di difesa della parte processuale, soggiacendo, inoltre, alla regola della sanatoria per raggiungimento dello scopo (Sez. 1, n. 02201/2007, Del Core, Rv. 594915-01).

Ne consegue che, ove una parte ometta di trasmettere la propria memoria all’altra, la circostanza che per tale omissione non sia stata pattiziamente prestabilita alcuna conseguenza non basta ad escludere la nullità del lodo, essendo necessario accertare se la mancata trasmissione dell’atto abbia concretamente cagionato una violazione del principio del contraddittorio.

Sez. 1, n. 24008/2021, Falabella, Rv. 662384-01, proprio in applicazione del principio, condividendo la statuizione impugnata ha escluso che la mancata trasmissione al contumace di una memoria, non contenente domande nuove o riconvenzionali, determinasse una violazione del diritto di difesa.

Il difetto di integrità del contraddittorio, dovuto alla pretermissione di un litisconsorte necessario, come chiarisce Sez. 1, n. 29433/2021, Di Marzio, Rv. 662860-01, determina però la nullità del lodo arbitrale che può essere fatta valere anche dalla parte che abbia dato causa a tale nullità, senza che possa trovare applicazione il disposto dell’art. 829, comma 2, c.p.c. a cagione della gravità del vizio che rende la pronuncia inutiliter data.

Nel procedimento arbitrale riguardante l’accertamento dell’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie, non sussiste però il litisconsorzio necessario della società, poiché la controversia attiene al contratto tra fiduciante e fiduciario, efficace inter partes in virtù dell’incontro delle rispettive volontà, nel quale le partecipazioni al capitale sociale costituiscono soltanto l’oggetto del negozio (Sez. 1, n. 11226/2021, Nazzicone, Rv. 661218-01).

Quanto al modo d’atteggiarsi della dei rapporti tra difetto di potestas decidendi e fase rescissoria, la S.C. ha già chiarito che in caso di inesistenza del lodo arbitrale, per mancanza del compromesso o della clausola compromissoria, ovvero perché la materia affidata alla decisione degli arbitri è estranea a quelle suscettibili di formare oggetto di compromesso, alla Corte d’appello è precluso il passaggio alla fase rescissoria, mancando in radice la potestas decidendi degli arbitri, mentre le eventuali difformità dai requisiti e dalle forme del giudizio arbitrale possono provocare la dichiarazione di nullità del lodo, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione è tenuto a pronunciare nel merito, senza possibilità di distinguere tra le varie ipotesi che abbiano dato luogo alla rilevata censura. Così statuendo Sez. 1, n. 19604/2020, Scotti, Rv. 659022-01, ha sostanzialmente confermato l’orientamento consolidato in materia (ex plurimis, sez., 1, n. 22083/2009, Cultrera, Rv. 610314-01), anche per il caso di nullità del lodo per violazione di norme inderogabili sulla composizione del collegio arbitrale, non potendo seguire a quella rescissoria la fase rescindente presupponendo la competenza in merito un lodo emesso da arbitri investiti effettivamente di potestas iudicandi (ex plurimis, Sez. 1, n. 21355/2018, Lamorgese, Rv. 650399-01, e Sez. 1, n. 20128/2013, Mercolino, Rv. 627741-01). Ove detto presupposto manchi, come nel caso di avvenuta declinatoria della competenza arbitrale, all’esito della dichiarazione di illegittimità costituzionale (nella specie dell’art. 16 della legge n. 741 del 1981 ad opera di Corte cost. n. 152 del 1996), il lodo deve difatti considerarsi privo di qualsiasi efficacia ed alla dichiarazione di nullità di siffatta pronuncia non può far seguito la fase rescissoria (Sez. 1, n. 16977/2006, Luccioli, Rv. 591432-01). Parimenti, la clausola compromissoria che stabilisca un modo di nomina degli arbitri di impossibile attuazione pratica, nulla ai sensi dell’art. 809, commi 2 e 3, c.p.c., non comporta l’inesistenza del lodo arbitrale con la conseguente sussistenza della detta potestas decidendi ed esclusione di ipotesi di usurpazione di potere (Sez. 1, n. 19994/2004, Salvago, Rv. 577559-01). In presenza di una volontà compromissoria validamente espressa, peraltro, salva diversa volontà contraria di tutte le parti, ex art. 830 c.p.c. la Corte d’appello, dichiarata la nullità del lodo, è tenuta a pronunciare sul merito (Sez. 1, n. 19025/2003, Proto, Rv. 568821-01).

10. Il termine per impugnare.

Su sollecitazione di Sez. 1, n. 20104/2020, Scotti, non massimata, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza con la quale ci si chiedeva, in tema di impugnazione per nullità del lodo, se il termine c.d. «lungo» di un anno, di cui all'art. 828, comma 2, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis (successivo alla riforma del 1994 ma le considerazioni non cambierebbero con riferimento a quello successivo alla novella del 2006) dovesse decorrere non dall’ultima sottoscrizione dell’atto bensì dalla comunicazione alle parti della sua intervenuta sottoscrizione.

Alla citata ordinanza interlocutoria la questione in oggetto era sembrata suscettibile di una pluralità di soluzioni, dall’incostituzionalità della norma, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. (non sussistendo un dies a quo facilmente conoscibile dalle parti), alla possibile lettura costituzionalmente orientata (intendendo il termine come decorrente dalla comunicazione del lodo alle parti) ovvero ad una tesi intermedia tra l’incompatibilità costituzionale e la perfetta aderenza ai dettami della Costituzione, decurtando dal termine annuale decorrente dall’ultima sottoscrizione arbitrale i dieci giorni concessi dalla legge – art. 825 c.p.c. ante riforme del 2006 e art, 824 post riforma del 2006 – agli arbitri per la comunicazione del lodo alle parti.

Sul punto interviene Sez. U, n. 08776/2021, Nazzicone, Rv. 660966-01, per la quale il disposto di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che il c.d. termine lungo per impugnare per nullità il lodo decorre dalla data dell’ultima sottoscrizione – e non dalla comunicazione del lodo alle parti o dal suo deposito –.

In tal senso orientano difatti, precisano le citate Sezioni Unite, non solo la lettera ma anche la ratio della norma citata, in coerenza con la logica e la struttura dell’intero sistema dell’arbitrato, atteso che il lodo, salvo quanto disposto dall’art. 825 c.p.c. ai fini dell’esecutività, produce gli effetti della sentenza pronunciata dall’Autorità giudiziaria proprio dalla data della sua ultima sottoscrizione. Tale specifica scelta del legislatore non contrasta altresì con alcun precetto costituzionale in quanto la tutela del soccombente è garantita dal lungo periodo per impugnare nonché dalla certa sua conoscenza della decisione arbitrale mediante la comunicazione alle parti del lodo entro appena dieci giorni, termine che lascia a disposizione ancora un lungo lasso per impugnare il lodo stesso, senza alcuna compromissione del diritto di difesa, ove diligentemente esercitato.

Con riferimento al tema della sottoscrizione, infine, Sez. 6-1, n. 03139/2021, Scotti, Rv. 660580-01, ribadisce che quando dallo stesso atto contenente il lodo risulti la sottoscrizione di tutti gli arbitri, adottata in un luogo ed in una data risultanti dal medesimo documento, non ricorre invece la necessità dell’apposizione della data a fianco delle singole sottoscrizioni, dovendosene presumere la contestualità (conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 19324/2014, Lamorgese, Rv. 632215-01).

11. Questioni di giurisdizione e di competenza.

L’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione (Sez. 6-2, n. 34569/2021, Giannaccari, Rv. 663066-01, conf., ex plurimis, a Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786).

Al fine però dell’accertamento della validità ed efficacia della clausola compromissoria che deroga la giurisdizione in favore di arbitri stranieri, occorre preliminarmente stabilire quali siano le norme che il giudice deve applicare, e quindi se tale esame debba essere condotto secondo la legge italiana ovvero secondo la legge di un altro Stato. Sez. U,n. 36374/2021, Cirillo F.M., Rv. 662927-01, ha conseguentemente dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in favore dell’arbitrato estero, in quanto il contratto era stato sottoposto per volontà delle parti alle leggi della Repubblica ceca, sicché la questione dell’assoggettabilità alla doppia firma della clausola derogatoria della giurisdizione, inserita in un contratto per adesione, non poteva essere valutata ex art. 1341 c.c.).

Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione (Sez. U, n. 08236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01).

Sulla scia del principio di cui innanzi, Sez. U, n. 12428/2021, Scoditti, Rv. 661305-02, ritiene che la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, in quanto concernente diritti soggettivi, può essere compromessa mediante arbitrato rituale, a condizione che sia identificabile un comportamento della pubblica amministrazione, diverso dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di atti formali di cui si compone il procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela dell’interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento riposto nell’emanazione del provvedimento non più adottato. Nella specie, la Suprema Corte ha ravvisato nella inerzia dell’amministrazione, consistita nell’omessa sottoscrizione del nuovo schema di convenzione urbanistica, approvato con delibera del Consiglio comunale, e nel perdurante mancato esercizio del potere di revoca, un comportamento idoneo a indurre il legittimo affidamento del privato sulla conclusione della convenzione.

La convenzione urbanistica, quale accordo sostitutivo ex art. 11 l. n. 241 del 1990, non è suscettibile – per tutto ciò che non è disposto dal regolamento contrattuale – di produrre obblighi per la pubblica amministrazione correlati a diritti soggettivi del privato attraverso l’integrazione legale dell’accordo, in ragione della incompatibilità del principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la norma attributiva del potere amministrativo. Ne consegue (sempre per Sez. U, n. 12428/2021, Scoditti, Rv. 661305-01) che la controversia derivante dalla mancata adozione di provvedimenti da parte della pubblica amministrazione che abbia determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica non può essere risolta mediante arbitrato rituale in quanto è afferente ad interessi legittimi.

In tema di lodo arbitrale rituale che abbia statuito su materia non devolubile in arbitrato si pone un caso di competenza e non di giurisdizione. Sez. 6-1, n. 26949/2021, Marulli, Rv. 662735-01, prosegue nel ribadire il principio di cui innanzi e che, di conseguenza, in applicazione dell’art. 819 ter, comma 2 c.p.c, come integrato dalla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 223 del 2013, il giudizio può proseguire davanti al giudice competente attraverso la translatio iudicii di cui all’art. 50 c.p.c.

Sempre in tema di competenza, affinché l’eccezione di incompetenza degli arbitri possa ritenersi tempestivamente sollevata, come richiesto dall’art. 817, comma 2, c.p.c., occorre l’illustrazione delle ragioni poste a fondamento della ridetta eccezione, tali da qualificare la questione fatta valere, distinguendola così da altre ragioni che possano risultare non fondate o inammissibili.

In applicazione del principio, Sez. 1, n. 03840/2021, Fidanzia, Rv. 660837-01, ha cassato con rinvio la decisione impugnata, che aveva respinto le contestazioni sulla tardività dell’eccezione di carenza di potestas iudicandi degli arbitri, per nullità del contratto cui accedeva la convenzione arbitrale, sollevata nella prima difesa utile dopo l’accettazione degli arbitri, senza la specificazione delle ragioni poste a suo sostegno.

La clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società non è opponibile allo Stato, divenuto socio a seguito della confisca delle partecipazioni societarie ai sensi dell’art. 416 bis, comma 7, c.p., poiché la deroga alla competenza dell’autorità giurisdizionale può operare solo a seguito di una scelta volontaria, mentre, in caso di confisca, l’ingresso in società dello Stato si verifica ex lege per effetto di un acquisto a titolo originario, che piega lo scopo sociale alla finalità di conservazione del patrimonio aziendale per il tempo necessario alla definitiva destinazione dei beni confiscati. Sicché, in sede di regolamento di competenza, Sez. 6-1, n. 06068/2021, Rv. 660782-01, ha escluso l’operatività della clausola compromissoria statutaria in riferimento all’azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c. dallo Stato, quale socio unico di una s.r.l. a cui erano state confiscate tutte le partecipazioni societarie.

12. Riconoscimento ed esecuzione del lodo arbitrale estero.

In tema di riconoscimento ed esecuzione del lodo arbitrale straniero, ai sensi dell’art. 5, comma 2, lettera b), della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (resa esecutiva con la l. n. 62 del 1968), il requisito della non contrarietà all’ordine pubblico italiano va riscontrato con esclusivo riguardo alla parte dispositiva della pronuncia arbitrale (ex plurimis: Sez. 1, n. 06947/2004, Ceccherini, Rv. 571993-01).

Nel ribadire tale principio, Sez. 1, n. 29429/2021, Parise, Rv. 662859-02, ha ritenuto infondata la censura con cui il ricorrente aveva denunciato la contrarietà all’ordine pubblico italiano del riconoscimento dell’esecutorietà di un lodo di condanna pronunciato nei confronti di un ente sottoposto a procedura concorsuale facendo dipendere detta contrarietà non dalla statuizione di condanna contenuta nel lodo ma dalla sua esecutorietà.

Sempre in merito alla tematica del riconoscimento del lodo straniero, la Suprema Corte aveva già chiarito che la produzione del compromesso, in originale o in copia autentica, contestualmente alla proposizione della domanda, prescritta dall’art. 4 della citata Convenzione di New York e dall’art. 839 c.p.c., configura non già una condizione dell’azione ma un presupposto processuale necessario per la valida instaurazione del giudizio che deve pertanto sussistere, quale requisito formale di procedibilità della domanda al momento dell’instaurazione del procedimento, e deve essere rilevato d’ufficio dal giudice. In applicazione del principio, infatti, Sez. 1, n. 16701/2020, Mercolino, Rv. 658611-01, ha cassato la sentenza impugnata che in mancanza della produzione del compromesso aveva ritenuto sufficiente il richiamo ai ricorsi proposti ex art. 839 c.p.c. ove si dava atto della produzione di copia conforme dei contratti di vendita stipulati tra le parti. Tale orientamento si è posto nel solco segnato da Sez. 1, n. 17291/2009, Tavassi, Rv. 609415-01 che, argomentando sempre dalla natura di presupposto processuale necessario riconosciuta alla produzione del compromesso (in originale o in copia autentica), aveva già chiarito che la produzione di cui innanzi non sarebbe stata integrabile mediante il deposito del documento nel giudizio di opposizione al decreto emesso dal presidente della Corte d’appello, non essendo soggetta alla disciplina dettata dall’art. 184 c.p.c. per la produzione di documenti. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte, in particolare, cassò la sentenza impugnata, che aveva rigettato l’opposizione al decreto, in quanto la Corte d’appello, rilevato che al ricorso era stata allegata una copia del compromesso recante una certificazione di conformità all’originale proveniente da persona non identificabile, aveva rimesso la causa in istruttoria, per consentire all’opposto la produzione dell’originale o di una copia conforme. Sempre in argomento, Sez. 1, n. 27322/2020, Iofrida, Rv. 659832-01, ha chiarito che in forza degli articoli 4 e 5 della Convenzione di New York del 1958 la parte richiedente la delibazione del lodo ha soltanto l’onere di produrre, in originale o in copia autentica, la decisione arbitrale straniera delibanda e la convenzione scritta contenente l’assunzione dell’obbligo di deferire agli arbitri la risoluzione della controversia, mentre incombe alla parte nei cui confronti il lodo viene invocato l’onere di provare, fra l’altro, l’eventuale invalidità della nomina degli arbitri o l’impossibilità di far valere le proprie difese e, in particolare, ove deduca l’inidoneità del mezzo di comunicazione usato, di dimostrare che questo, per sé o in ragione delle concrete modalità di impiego, non gli ha consentito di venire tempestivamente a conoscenza del procedimento arbitrale o dei momenti essenziali del suo sviluppo. Le relative indagini svolte dal giudice della delibazione, peraltro, costituiscono accertamenti di fatto non suscettibili di sindacato in sede di legittimità, se congruamente motivati.

In termini più generali, infine, sempre per la citata Sez. 1, n. 29429/2021, Parise, Rv. 662859-01, nell’ipotesi di impugnazione davanti all’autorità giudiziaria straniera del lodo estero di cui è chiesto il riconoscimento in Italia, in base al combinato disposto dei commi 3, n. 5 e 4 dell’art. 840 c.p.c, il giudice deve effettuare una valutazione di mera opportunità, non legata al riscontro di una pregiudizialità in senso tecnico, che, in quanto tale, non è sindacabile in sede di legittimità.