Premessa

Premesse, ragioni ed obiettivi della Rassegna

di Mario Rosario Morelli

L’anomalia della Corte di cassazione italiana, rispetto alle altre Corti supreme europee, di civil e common law, impietosamente riflessa nella non adeguatezza dei tempi di decisione e nella formazione di un pesante arretrato nel settore civile (ove è più significativamente coinvolta la tutela dello ius constitutionis), non è certamente addebitabile, par lecito ribadirlo, ai suoi giudici – i quali hanno, anzi, il più alto indice di produttività tra i magistrati di tutte le Corti europee - e costituisce, bensì, l’inevitabile conseguenza del gigantismo del contenzioso cui Essa è chiamata a far fronte. E ciò in ragione, per un verso, in pratica, di un invalso disinvolto ricorso al “vizio di motivazione” (la cui denunciabilità è stata addirittura generalizzata dall’art. 360 c.p.c., nel testo novellato ex d.lgs. n. 40/2006), nel più dei casi utilizzato come surrettizia chiave di accesso ad un riesame del merito delle controversie e, per altro verso, sul piano concettuale, di una enfatizzazione della garanzia dello ius litigatoris, estratta (con ampliativa esegesi) dall’art. 111 Costituzione, con il risultato di disegnare un modello generale di processo (usufruibile anche per liti bagatellari) che – anche in ragione della reiterabilità senza limiti del ricorso per cassazione (con altrettanti possibili ritorni alla fase del merito nel singolo giudizio) – non contempla un termine predefinibile di risposta alla domanda di giustizia: appresta, cioè, un modello di processo (teoricamente) a “fine certa mai”, che, in non pochi casi, attraversa, anche in concreto, più generazioni prima di trovare il suo epilogo.

In un tale quadro ordinamentale è stata da tempo segnalata la necessità di previsione di adeguati “filtri” per l’accesso in Cassazione, indispensabile per consentire a questa Corte di assolvere, in tempi ragionevoli, alla funzione nomofilattica, che le è assegnata in funzione attuativa del precetto dell’art. 3 Costituzione.

Dopo la conclusa esperienza del “quesito di diritto” (pur innegabilmente funzionale alle esigenze della nomofilachia), il legislatore del 2009, con l’art. 360 bis c.p.c. (introdotto dall’art. 47 del d.lgs. n. 69), ha sperimentato un meccanismo di filtro incentrato sulla denegata ammissibilità del ricorso” (1) quando il provvedimento impugnato ha deciso questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte….(2) quando è manifestamente infondata la censura relativa ai principi regolatori del giusto processo”.

Si tratta di un filtro ben debole, in quanto non incide riduttivamente sull’afflusso dei ricorsi ma costringe la stessa Corte ad una gravosa (ed anche sul piano del rito non agevole) attività di respingimento.

Ma è pur sempre un filtro le cui (ancorchè non decisive) potenzialità deflattive esigono, comunque, di essere valorizzate nel modo migliore e più efficace.

In questa prospettiva, nella introduzione alla Rassegna del 2009, questa Direzione sottolineava come il citato art. 360 bis potesse leggersi in chiave attuativa del disposto dell’art. 111 Cost. che “non contempla il ricorso per cassazione come proiezione indefettibile dello ius litigatoris ma, nel bilanciamento di tal diritto con le esigenze di tutela dello ius constitutionis, ammette a tal rimedio la sola parte che lamenti operata in suo danno, nelle pregresse fasi di merito, una violazione di norma sostanziale o di regole del giusto processo”.

Con ciò quindi spiegandosi quella “dissonanza”, evidenziata in dottrina, delle ipotesi di inammissibilità sub art. 360 bis., rispetto agli altri codificati casi di inammissibilità, nel senso cioè che essa trova, appunto, ragione nel fatto che l’inammissibilità ex filtro attiene non al quomodo dell’accesso ma all’an stesso dell’accessibilità in cassazione, in un’ottica di perimetrazione della garanzia costituzionale del controllo di ultima istanza.

L’esperienza applicativa del “filtro”, nel 2010, ne ha portato comunque ad emersione i non pochi problemi interpretativi e conformativi: e di questi – attraverso un sistematico e ragionato censimento delle decisioni adottate dalla Sezione Sesta – si dà conto nel capitolo quarto di questa Rassegna.

Problema centrale, con riferimento alla ipotesi sub n. 1, è quello di individuazione dell’orientamento giurisprudenziale atto a fungere da parametro di “conformità” delle decisioni adottate dal giudice del merito: problema la cui soluzione ci pare possa essere correttamente ricercata con avvalimento del concetto di “diritto vivente” come elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

In concreto, per agevolare la reperibilità di siffatti orientamenti – quali di volta in volta individuati dalla Sezione sesta, per respingere ricorsi avverso sentenze ad essi conformi o, specularmente, per accogliere impugnazioni avverso decisioni che ad essi non si siano attenuti – si è deciso di evidenziare le massime delle correlative pronunzie, di quella sezione, con l’acronimo “certalex” inserito quale prima parola del titolo mobile; di modo che, digitando tale sintagma, da solo od unitamente ad altri indicatori della ricerca testuale, possa aversi il quadro, rispettivamente, complessivo o per settore, dei principi  per così dire, per tal via certificati, come espressivi del diritto vivente.  

Altro delicato aspetto problematico, in relazione alla ipotesi di inammissibilità sub n. 2, è risultato quello individuativo del criterio di selezione delle violazioni di norme procedurali rilevanti ai fini della ricorribilità in cassazione, per il profilo del vulnus ai canoni del giusto processo.

Al qual riguardo viene in rilievo (sub capitolo terzo, § 1) la sentenza n. 3830 del 2010 per il ricorso, in essa sostanzialmente operato, all’elemento discretivo della effettività della lesione (nella fattispecie, del contraddittorio) ai fini appunto della selezione delle garanzie processuali di rilievo costituzionale.

Le pronunzie della Sezione sesta, di respingimento ex art. 360 n. 2, saranno similarmente, a loro volta, identificabili con l’acronimo “giusto proc”, inserito nel titolo delle rispettive massime.

L’osservatorio di questa Rassegna ha inteso poi, soprattutto, privilegiare la ricognizione ed analisi di quella serie di pronunzie che, muovendo dalla presupposta natura precettiva del canone della ragionevole durata del processo, hanno operato una rilettura costituzionalmente (in questa chiave) orientata di numerose norme processuali.

Gli arresti così selezionati sono stati sistematicamente aggregati per attinenza, rispettivamente, alle problematiche della giurisdizione, per il profilo, tra l’altro, della formazione e rilevabilità del giudicato sulla stessa (capitolo primo); a varie questioni sulla competenza (capitolo secondo); alla misura, appunto, della incidenza di varie patologie del processo (specifiche delle impugnazioni o comuni alle tre fasi del giudizio) sulle garanzie del “giusto processo” (capitolo terzo); alla ricaduta infine di siffatte garanzie costituzionali nel quadro, ed a fini correttamente ricostruttivi, della dinamica di riti speciali, per questo aspetto venendo in rilievo le  soluzioni date dalla Corte (sulla guide line, sempre, del dettato costituzionale) a varie (spesso nuove) questioni riguardanti, in particolare, il processo tributario, i procedimenti fallimentari riformati, il rito del lavoro ed il nuovo processo minorile (capitolo quinto).

L’impatto di tali pronunzie sul sistema del processo non è sfuggito alla considerazione della dottrina, che, a volte, le ha condivise ed, altre volte, le ha, anche vivacemente, criticate: per contestazione, a monte, della stessa precettività del canone di ragionevole durata, ovvero per paventato sacrificio, a questo, di garanzie della difesa e del contraddittorio, in alcuni casi rivolgendo addirittura il dissenso alla tecnica stessa della operazione ermeneutica, considerata eccedente dall’intervento nomofilattico e violativa del principio di riserva di legge.

Anche di questi, comunque preziosi, spunti e rilievi ciritici della dottrina processualistica i magistrati compilatori della Rassegna (cui va l’elogio della Direzione per la puntualità ed il rigore di analisi dei loro contributi) si son dati carico di offrire una compiuta panoramica.

Dalla quale emerge il quadro complessivo delle (prospettate) criticità del nuovo trend giurisprudenziale (nella sua linea di fondo o in suoi singoli arresti), alla luce del quale è possibile alla Corte portare la sua riflessione, per rimodulare o confermare i propri indirizzi.

 La ricerca del punto di equilibrio tra garanzie e ragionevole durata del processo – che emerge in filigrana dalla ricognizione della richiamata giurisprudenza in dialettica comparazione con i rilievi critici dei suoi commentatori – è infine attraversata dal quesito (su cui v. sub § 1 cap. III) sulla efficacia temporale, retroattiva o meno, delle pronunzie modificative di pregresse esegesi di norme procedurali. Problema, quest’ultimo, che rimanda, a sua volta, al tema cruciale del discrimine tra il novum ius, che attiene al piano della legificazione, ed il novum della interpretazione, che attiene al piano della esegesi ma, in quanto destinato a portare ad emersione la dinamica di vivenza della norma (a certificare cioè come, allo stato, essa vive nel quadro del sistema in cui si inserisce), non può non avere, esso pure, una dimensione diacronica.

(1) Una produttività annua più che doppia rispetto ai giudici della Corte tedesca, addirittura decupla rispetto a quella del Regno Unito, seconda (di poco) solo rispetto alla Svezia, il cui dato è rappresentato, però, all’82%, da provvedimenti di irricevibilità, predisposti da assistenti del giudice (v. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, del Primo Presidente della Corte di cassazione, p. 74)

(2) Si tratta di una sopravvenienza annua di circa il 170% superiore a quella (seconda nell’ordine) della Corte francese, oltre il 1000% maggiore di quello della Germania ed oltre il 27000% superiore a quella del Regno Unito (Relazione cit., p. 72)

 

Ringraziamenti

Ringraziamenti

Anche quest’anno, è stato decisivo, per l’impostazione tematica e la realizzazione della Rassegna, l’impegno in questa profusa da Luigi Macioce: con il quale viene, purtroppo, ora a cessare, per sua assunzione di nuovo incarico, un felice rapporto di sostanziale condivisione dell’attività di direzione, che ha potuto così, sin qui, giovarsi del prezioso contributo della sua elevata professionalità. Del quale i colleghi tutti del Massimario, ed io personalmente in particolare, gli siamo profondamente grati.

Mario Rosario Morelli

 

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CAPITOLO I

QUESTIONE DI GIURISDIZIONE: PUNTI FERMI E QUESTIONI APERTE

(di Giuseppe Fuochi Tinarelli, Antonietta Scrima, Antonio Lamorgese )

Sommario

1 La deducibilità della questione in sede impugnatoria. L'eccezione di incostituzionalità. - 1.1 La questione di giurisdizione e l'ordine logico delle questioni. - 1.2 Le impugnazioni e il ricorso incidentale condizionato. - 1.3 Le questioni di legittimità costituzionale e la questione di violazione della CEDU. - DOTTRINA - 2 LA VIOLAZIONE DEL GIUDICATO AMMINISTRATIVO SULLA GIURISDIZIONE COME MOTIVO DI RICORSO "PER MOTIVI ATTINENTI ALLA GIURISDIZIONE". - 3 LA "TRANSLATIO IUDICII" E IL REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE CHIESTO D'UFFICIO. - 3.1 La "translatio iudicii". - 3.2 La "translatio iudicii" e il regolamento di giurisdizione chiesto d'ufficio alla luce della disciplina di cui all'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69. - DOTTRINA

1. La deducibilità della questione in sede impugnatoria. L'eccezione di incostituzionalità.

1.1. La questione di giurisdizione e l'ordine logico delle questioni.

La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 24883 del 9/10/2008, rv 604576, a cui hanno fatto immediatamente seguito le decisioni S.U., n. 26019 del 30/10/2008, rv 604949 e S.U., n. 29523 del 18/12/2008, rv 605914, ha ridisegnato la portata e la lettura dell'art. 37 cod. proc. civ., assumendo che la questione di giurisdizione è coperta dal giudicato interno e non è rilevabile in cassazione (né in appello) ove il giudice di primo grado si sia pronunciato solo sul merito e sia mancata la proposizione di un apposito gravame, tale da indurre la mancata contestazione della potestas iudicandi.

Per questa via, dunque, la Suprema Corte sembra aver ricondotto la questione di giurisdizione nell'alveo della più ampia problematica dell'ordine logico delle questioni che deve essere seguito dal giudice, nel rispetto dell'art. 276 cod. proc. civ., nell'esame della domanda giudiziale e ai conseguenti riflessi sulla formazione del giudicato implicito.

L'immediato corollario sta proprio nella qualificazione dell'eventuale difetto di giurisdizione, che appartiene, senza possibilità di distinzione, alle nullità processuali ordinarie (pur anche insanabile), di cui il giudice non ha più la piena disponibilità se non in primo grado e che possono essere fatte valere dalle parti solo con i mezzi di impugnazione, con la conseguenza che, ove gli stessi non siano stati tempestivamente attivati secondo le regole proprie di questi, ne resta preclusa ogni rilevazione (v. Cass. S.U., sentenza n. 14889 del 25/06/2009, rv 608601).

Residuano, invero, dei margini di apprezzabilità: la Corte, infatti, ha escluso che vi sia formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione nel caso in cui "l'unico tema dibattuto sia quello relativo all'ammissibilità della domanda" ovvero quando "dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni valutazione (ad es. per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum" (v. in particolare Cass. S.U. n. 29523 del 2008, in motivazione).

Se ciò significa, da un lato, che la questione di giurisdizione non è necessariamente la prima questione da esaminare da parte del giudice, dall'altro, tale soluzione finisce con il temperare la formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione con il primato della "ragione più liquida" [Caponi, 2009, 3100].

La dottrina, invero, si è espressa in termini critici rispetto alla valorizzazione estrema del principio dell'ordine logico delle questioni da esaminare operata dalla Suprema Corte [Delle Donne, 2009, 56; Petrella, 2009, 1092].

Si è infatti rilevato che, se è vero che svariate norme del codice di procedura civile (tra cui anche l'art. 279, secondo comma e l'art. 187, secondo e terzo comma cod. proc. civ.), disegnano, tra l'altro, una struttura gradata del processo, fissando, per la fase decisoria, un rigido ordine di pregiudizialità tra rito e merito in tutti i casi in cui le questioni di rito siano effettivamente rilevate, è anche vero che queste disposizioni nulla dicono in ordine al diverso profilo della dinamica del rilievo, che trova altrove la propria sedes materiae. Quest'ultima è appunto, per le questioni di giurisdizione, l'art. 37 cod. proc. civ., così come, ad esempio, per l'integrità del contraddittorio, l'art. 102 cod. proc. civ., o per la litispendenza/continenza, l'art. 39 cod. proc. civ.

Ne consegue che la possibilità di sollevare nelle fasi successive del giudizio resterebbe preclusa solo di fronte ad una pronuncia esplicita dovendosi ritenere che il processo vigente sia privo di una articolazione interna in fasi, che distingua il momento della trattazione dei requisiti processuali rispetto al merito poiché, al contrario, l'attività processuale diretta al controllo delle condizioni per la decisione del merito s'intreccia con l'attività che si rivolge all'esame del merito, mentre, per contro, se esistesse un dovere del giudice di verificare sempre l'esistenza della propria potestas iudicandi prima di decidere nel merito non dovrebbe mai esservi spazio per decisioni per saltum.

Su un piano più generale e di sistema, inoltre, si è sottolineato che questa impostazione, nell'assegnare un valore preminente alla decisione di merito, finisce per ridimensionare il valore riconosciuto al rispetto delle regole processuali e al bagaglio delle garanzie che spesso esse implicano e così giustifica un atteggiamento di disimpegno del giudice, atteso che, ove si sostenga che la pronuncia di merito implica la decisione implicita di tutte le questioni di rito, l'osservanza di queste degrada "a mera regola logico-formale, sacrificabile in favore di altre al fine di soddisfare esigenze diverse, tra cui la ragionevole durata del processo" [Izzo, 2010, 6].

1.2. Le impugnazioni e il ricorso incidentale condizionato.

Il regime delle impugnazioni ha subìto, per effetto del nuovo orientamento della Suprema Corte, una significativa correzione di rotta con riguardo alla rilevabilità della questione di giurisdizione.

Nella sostanza, ove il giudice di primo grado abbia statuito con una pronuncia di merito, accogliendo in tutto o in parte la domanda, la possibilità di sollevare nelle successive fasi del processo la questione di giurisdizione è subordinata alla proposizione di specifico gravame, senza la necessità di un esplicito esame della questione di giurisdizione.

La Corte, del resto, ha escluso che, con riguardo alla questione di giurisdizione, valga il diverso principio - ritenuto applicabile per le altre questioni pregiudiziali o preliminari rilevabili d'ufficio - per cui "qualora il giudice decida esplicitamente su una questione, risolvendone in modo implicito un'altra, rispetto alla quale la prima si ponga in rapporto di dipendenza, e la decisione venga impugnata sulla questione risolta espressamente, non è possibile sostenere che sulla questione risolta implicitamente si sia formato un giudicato implicito, in quanto l'impugnazione sulla questione dipendente preclude la formazione di tale giudicato, il quale suppone il passaggio in giudicato della decisione sulla questione dipendente espressamente decisa" (da ultimo in generale v. Cass., sentenza n. 13833 del 9/06/2010, rv 613274; con riguardo all'estraneità del principio rispetto alla questione di giurisdizione v. Cass. S.U., sentenza n. 5046 del 2009 e Cass., sentenza n. 10027 del 29/04/2009, rv 607840; in termini restrittivi anche con riguardo all'affermazione generale tuttavia v. Cass., sentenza n. 25573 del 4/12/2009, rv 610486).

Più complessa, invece, la valutazione nel caso in cui la decisione del giudice di primo grado sia stata di rigetto.

I temperamenti al nuovo orientamento introdotti dalla stessa Corte di cassazione rientrano, infatti, in due ordini di eccezioni: uno interno (la decisione di merito non sempre postula una valutazione anche sulla giurisdizione) e uno esterno (vi sono questioni il cui esame precede quello sulla giurisdizione).

Con riguardo a quest'ultimo profilo, invero, la conclusione raggiunta sembra generare minori perplessità, attesa solo la necessità di individuare quali siano le questioni idonee a realizzare questo effetto, fermo restando che l'ordine delle questioni previsto dal codice di rito, pur nello schema generale rito-merito, non è tassativo, restando assoggettato, comunque, ad una valutazione ancorata al caso concreto.

Nell'esame delle questioni, assume, indubbiamente, un carattere prioritario la valutazione sull'integrità del contraddittorio in quanto, ai sensi dell'art. 101 cod. proc. civ., è preclusa la possibilità per il giudice di statuire sopra ogni domanda (e, quindi, anche di valutare la propria giurisdizione), ove sia riscontrato un difetto nel contraddittorio.

Più delicata - e sicuramente meno agevole - la situazione ove la decisione declinatoria del giudice abbia avuto ad oggetto un'altra diversa questione. La citata decisione S.U. n. 26019 del 2008 individua, sia pure sotto una diversa ottica, diverse ipotesi - ad es. il difetto di legitimatio ad causam - in cui non si può realizzare alcun giudicato implicito trattandosi di "atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare".

Secondo un orientamento [Delle Donne, 2009, 10] i rapporti tra i diversi presupposti processuali - che si caratterizzano nel senso che la loro mancanza impone la chiusura del processo anche se tutti gli altri sussistono - non sono configurabili in termini di continenza ma di equivalenza, nel senso che ciascuno è idoneo a definire il giudizio. Ne consegue che, per ogni questione che sia obbiettivamente qualificabile come pregiudiziale, ne è sufficiente l'accertamento ai fini della decisione, restando assorbite tutte le altre.

Si realizzerebbe una modalità impropria di assorbimento, ponendosi la problematica - tanto più in una costruzione giuridica che assegni valore preminente alla pronuncia di merito - in termini omologhi a quelli che, mutatis mutandis, afferiscono alle tecniche decisorie del giudizio di legittimità costituzionale [su cui amplius Pelagatti, 2010, 1].

La valutazione sul punto, d'altra parte, si intreccia con l'altra rilevante eccezione al principio del giudicato implicito delineata dalla Suprema Corte, in rispondenza al primato della ragione più liquida.

Sulla specifica questione, invero, si è posto in evidenza [Delle Donne, 2009, 10] che l'unico modo per distinguere la decisione di merito che, per la sua evidenza, abbia escluso l'esame di ogni altra questione, giurisdizione compresa, da quella che, invece, implica la decisione sulla giurisdizione, è costituito dalla verifica del contenuto della sentenza, così da accertare se la questione sia stata oggetto di esame e decisione. Ciò comporterebbe, tuttavia, che la questione debba considerarsi decisa, in queste evenienze, solo nel caso in cui sia stata risolta esplicitamente.

Pure prescindendo da tale rilievo, peraltro, va sottolineato che appare difficile, in ogni caso, limitare l'onere della parte, che, nel caso in cui voglia far valere la questione di giurisdizione, sarà sempre tenuta a proporre impugnazione incidentale per ottenere il riesame della questione pregiudiziale, restando rimessa - in mancanza di parametri certi - alla valutazione del giudice del gravame la constatazione della sussistenza o meno, nel caso concreto, della "evidenza", tanto più che, secondo queste linee interpretative, la pronuncia in primo grado deve ritenersi avvenuta sostanzialmente al buio, senza attivazione di alcun contraddittorio.

L'esigenza del rispetto del contraddittorio, del resto, sia pure con riferimento ad un diverso ambito rispetto a quello in esame, ha portato il legislatore, proprio per il giudizio di cassazione, ad introdurre la nuova formulazione dell'art. 384, terzo comma, cod. proc. civ. rendendo positiva la contrarietà per le sentenze della cosiddetta "terza via" (affermata dalla Suprema Corte in diverse occasioni: v. ad esempio Cass., sentenza n. 10062 del 27/4/2010, rv 612587, nonché, anche per i temperamenti ivi affermati, Cass. S.U., sentenza n. 20932 del 30/09/2009, rv 610571).

Sotto un diverso profilo, va poi sottolineato che il vincolo conseguente alla formazione del giudicato implicito non riguarda solo le parti del processo, che - chiuso il giudizio di primo grado - non possono più, liberamente e in qualsiasi momento, eccepire e dedurre il difetto di giurisdizione, ma riguarda, logicamente, anche il giudice dell'impugnazione, al quale è preclusa la possibilità di rilevare la questione.

L'eventuale disamina operata d'ufficio dal giudice d'appello costituisce una violazione del giudicato implicito e, quindi, l'indebita declaratoria si traduce in motivo di nullità della sentenza (implicitamente v. Cass. S.U., sentenza n. 27531 del 20/11/2008, rv 605701). Ove il fenomeno si sia verificato rispetto alle decisioni del giudice amministrativo, peraltro, la questione ha implicazioni ulteriori in quanto la doglianza non attiene al superamento dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo ma ad error in procedendo, da cui l'inammissibilità dell'impugnazione (in questo senso v. Cass. S.U., ordinanza n. 27618 del 21/11/2008, rv 605572, nonché successivamente, in termini ancora più espliciti, Cass. S.U., ordinanza n. 14889 del 25/6/2009, rv 608601), con il rischio di escludere, rispetto a posizioni per le quali l'ordinamento prevede uno spazio di tutela, il concreto ed effettivo esercizio della tutela giurisdizionale e ciò non in ragione di una decadenza o preclusione in cui sia potuta incorrere la parte ma in forza di una decisione, erronea, del giudice dell'appello.

Il nuovo corso giurisprudenziale della Suprema Corte ha determinato conseguenze anche in tema di ricorso incidentale condizionato.

Secondo l'orientamento che faceva capo alla sentenza Cass. S.U., n. 11795 del 11/12/1990, rv 470114, il ricorso incidentale, con il quale la parte totalmente vittoriosa nel merito riproponga la questione di giurisdizione decisa in senso a lei sfavorevole, andava esaminato con priorità, indipendentemente da un eventuale condizionamento volontario.

Successivamente la Corte aveva progressivamente ampliato l'ambito delle questioni sollevate con il ricorso incidentale rispetto alle quali il condizionamento doveva ritenersi irrilevante ed era approdata, con Cass. S.U., sentenza n. 212 del 23/5/2001, rv 546898, cui aveva aderito la successiva prevalente giurisprudenza (fino, nella sostanza, alla sentenza Cass. S.U. n. 29349 del 16/12/2008, che si era riportata al principio già affermato dalla Corte nel 1990), all'affermazione secondo la quale qualora la parte, interamente vittoriosa nel merito, avesse proposto ricorso incidentale avverso una statuizione a lei sfavorevole, relativa ad una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, rilevabile d'ufficio, la Corte doveva esaminare e decidere con priorità tale ricorso, senza tenere conto della sua subordinazione all'accoglimento del ricorso principale, dal momento che l'interesse al ricorso sorge per il fatto stesso che la vittoria conseguita sul merito è resa incerta dalla proposizione del ricorso principale e non dalla sua eventuale fondatezza e che le regole processuali sull'ordine logico delle questioni da definire non subiscono deroghe su sollecitazione delle parti. Questa ventennale impostazione è rimasta travolta per effetto dell'orientamento inaugurato con la citata Cass. n. 24883 del 2008.

Con la sentenza Cass. S.U., n. 5456 del 2009, rv 606973, infatti, le sezioni unite si sono espresse a favore del condizionamento de iure del ricorso incidentale proposto dal vincitore nel merito relativamente a qualunque questione - non solo le questioni preliminari e pregiudiziali ma anche, e soprattutto, quella di giurisdizione - decisa in senso a lui sfavorevole nel grado inferiore. Tale conclusione discende dal rilievo che anche il difetto di giurisdizione non è rilevabile officiosamente dalla Corte se vi sia già stata, sul punto, una decisione, anche implicita, da parte del giudice di merito e ciò succede - secondo i canoni sopra delineati - ogni volta che il giudice abbia adottato una pronuncia di merito.

La sentenza, invero, si pone in linea con la direzione intrapresa dalla Cassazione di erosione del principio della rilevabilità d'ufficio della questione di giurisdizione, con conseguente degradazione della stessa al livello delle altre questioni pregiudiziali e della competenza.

La dottrina, peraltro, ha evidenziato una asimmetria del ragionamento della Corte poiché l'omologazione della questione di giurisdizione alle questioni pregiudiziali non è totale in quanto solo per la prima la rilevabilità d'ufficio è ostacolata anche da una decisione implicita, così passando "da un estremo all'altro" [Panzarola, 2010, 193].

Si è inoltre osservato che la stessa base su cui si fonda la ricostruzione operata dalla Corte - ossia il rispetto dell'ordine logico delle questioni - appare poco convincente atteso che, in realtà, non può ritenersi prioritario l'esame delle questioni di merito rispetto a quelle di rito, ivi compresa la giurisdizione, collocandosi la decisione, invece, sul rapporto, di pregiudizialità, tra ammissibilità dell'impugnazione ed esame del merito del ricorso.

Ciò comporterebbe, tuttavia, l'irrilevanza dell'argomento giuridico, trovando giustificazione la scelta nell'interesse all'impugnazione che diventa attuale solamente a seguito dell'accoglimento del ricorso principale, con ciò non solo trascurando il principio - riconosciuto, invece, quale temperamento proprio ai fini della rilevabilità della questione di giurisdizione - del primato della "ragione più liquida" [Panzarola, 2010, 195-199], ma, nella sostanza, rischiando di disconoscere un autonomo rilievo degli eventuali vizi relativi al rito che non si accompagnino a doglianze di merito, idonee a qualificare il concreto pregiudizio derivante dalla violazione [Izzo, 2010, 7].

1.3. Le questioni di legittimità costituzionale e la questione di violazione della CEDU.

Collegata alle problematiche sopra esaminate è la possibilità di sollevare eccezione di legittimità costituzionale sulle norme che regolano la giurisdizione ove la questione sia rimasta preclusa in forza della formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione.

La Corte si è specificamente occupata del profilo con la sentenza delle Sezioni Unite n. 3200 del 11/02/2010, rv 611508, in una fattispecie per alcuni versi simile a quella affrontata con l'ordinanza n. 14889 del 2009 prima citata. Il Consiglio di Stato, infatti, pur in mancanza di un motivo di gravame sul punto, aveva ugualmente esaminato la questione di giurisdizione perché sollecitato dalla questione di legittimità della norma attributiva della giurisdizione (nella specie, l'art. 58 del r.d. n. 148 del 1931 che aveva riservato al giudice amministrativo, indebitamente ad avviso del ricorrente, la giurisdizione sui rapporti di lavoro relativi ai dipendenti dei mezzi pubblici di trasporto).

La Corte ha ritenuto irrilevante l'esame della questione di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato e, conseguentemente, l'inammissibilità dell'eccezione di legittimità (e la preclusione del suo eventuale rilievo d'ufficio), atteso che quest'ultima non poteva considerarsi idonea ad impedire la formazione del giudicato, dovendosi escludere che la semplice proposizione di una eccezione fosse suscettibile di assumere valore sostitutivo dell'appello.

Tale conclusione, invero, costituisce un naturale corollario dei principi affermati in tema di giurisdizione dalla Corte ed è anche coerente rispetto all'ulteriore consolidato orientamento che pone un limite all'efficacia retroattiva della declaratoria di incostituzionalità nella formazione del giudicato (da ultimo v. Cass. S.U., sentenza n. 28545 del 2/12/2008, rv 605629).

Il profilo, peraltro, sembra meritare una riflessione alla luce delle recenti evoluzioni degli orientamenti della Corte Europea dei diritti dell'uomo e della Corte costituzionale.

La Corte Europea, infatti, nell'ambito di una vicenda penale (decisione 11/12/2007, Drassich c. Italia), nel valutare se la diversa qualificazione operata dalla Corte di cassazione dei fatti contestati avesse determinato, in relazione agli effetti (mancata decorrenza della prescrizione) e alla conoscenza della natura della contestazione, una lesione del diritto alla difesa e ad avere un equo processo da parte dell'interessato, ha ritenuto che "in linea di principio il mezzo appropriato di ristoro di tali violazioni è costituito dallo svolgimento di un nuovo processo o dalla riapertura del processo già svolto".

A seguito di questa decisione, la Corte di cassazione, con la sentenza (penale) n. 45807 del 12/11/2008, rv 241753, dopo aver ripercorso le indicazioni della Corte costituzionale enunciate con le sentenze n. 347 e n. 348 del 2007 - per cui è compito del giudice interpretare la norma interna in modo conforme alla Convenzione nei limiti in cui ciò sia permesso dai testi e, solo qualora il contrasto sia insuperabile, adire la Corte costituzionale per violazione della norma interposta - opera uno sforzo interpretativo innovativo, applicando in via analogica la fattispecie del ricorso straordinario contro le sentenze della Corte di cassazione previsto dall'art. 625 bis cod. proc. pen. per i casi di errore materiale o di fatto, con la conseguente revoca della precedente sentenza, pronunciata nel 2004, limitatamente ai fatti che avevano ricevuto diversa qualificazione.

La questione, del resto, è particolarmente attuale, tant'è che la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 129 del 2008 - relativa ad un precedente caso simile (decisione Dorigo del 9 settembre 1998, pronunciata dall'allora Comitato dei Ministri), dove la condanna, passata in giudicato, era stata considerata resa all'esito di un processo non equo perché celebrato, quanto all'acquisizione delle prove, in violazione dell'art. 6, comma terzo, della Convenzione Europea - pur disattendendo la questione di legittimità avente ad oggetto l'impossibilità giuridica di disporre la riapertura del procedimento penale, ha formulato un forte monito al legislatore perché adottasse i provvedimenti ritenuti più idonei [sulla questione v. Andronio-Gaeta, 2009, 22-26].

La violazione delle norme CEDU, dunque, ha determinato, in un caso - al di là dell'istituto in concreto applicato nella vicenda esposta - un sostanziale superamento del precedente esplicito giudicato e, nell'altro, ha indotto la Corte costituzionale a invocare, con urgenza, un intervento normativo, forse prefigurando, in mancanza, una futura declaratoria.

Tali rilievi, invero, astraendo dal caso concreto, sono suscettibili di incidere anche sugli ambiti propri della giurisdizione civile.

È il caso, ad esempio, in cui si deduca che la devoluzione della tutela di un diritto fondamentale ad una specifica giurisdizione comporti la violazione dell'art. 6 della Convenzione per le limitazioni alla prova della lesione della posizione soggettiva rispetto alle facoltà previste nell'ambito della giurisdizione ordinaria.

L'incidenza delle norme CEDU nell'ordinamento e i meccanismi delineati dalla Corte costituzionale (sentenze n. 347 e 348 del 2007 citate) per la rilevazione della conformità del diritto interno alle stesse, dunque, impongono, da un lato, una specifica considerazione sulla possibilità - quantomeno - di considerare opponibile la formazione di un giudicato implicito ostativo all'applicazione del diritto CEDU, mentre, dall'altro, potrebbero configurare, quale conseguenza, la possibilità di sollevare, senza l'ostacolo di un simile condizionamento, la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 117 Cost. e, per il suo tramite, alla norma interposta.

Tale linea di ragionamento, tuttavia, porta all'emersione di un'ulteriore questione di ordine generale - che necessita di specifico approfondimento - perché, ove tale soluzione sia ritenuta configurabile limitatamente alle sole violazioni delle norme della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, si finirebbe per prefigurare l'esistenza, nell'ordinamento, di un regime differenziato di rilevabilità/eccepibilità delle questioni di costituzionalità a seconda della fonte di riferimento.

. DOTTRINA

A.ANDRONIO – P. GAETA, La tutela dei diritti fondamentali nella Convenzione EDU e nell'ordinamento comunitario: ambiti di applicazione e prerogative del giudice nazionale, relazione tenuta all'incontro di studio "Il sistema integrato delle fonti e la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo", organizzato dal CSM a Roma il 23-25 settembre 2009;

CAPONI, La rilevabilità del difetto di giurisdizione tra doppio oggetto del giudizio e primato della ragione più liquida, in Il Foro Italiano, 2009, 3099-3100;

DELLE DONNE, L'art. 37 c.p.c. tra giudicato implicito ed «evoluzione in senso dispositivo della giurisdizione»: a margine di recenti applicazioni della ragionevole durata del processo, in www.judicium.it, 2009;

IZZO, Sui limiti del ricorso incidentale condizionato su questioni pregiudiziali di rito, in www.judicium.it, 2010;

PANZAROLA, Sul condizionamento de jure del ricorso incidentale per cassazione del vincitore nel merito, in Riv. Dir. Proc., 2010, 191-202;

PELAGATTI, "Giudicato implicito" e assorbimento di profili di illegittimità costituzionale. Nota a margine di Corte cost. n. 262 del 2009, in Amministrazione in cammino, www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2010;

PETRELLA, Osservazioni minime in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione e sul giusto processo, in Riv. Dir. Proc., 2009, 1088-1098.

2. LA VIOLAZIONE DEL GIUDICATO AMMINISTRATIVO SULLA GIURISDIZIONE COME MOTIVO DI RICORSO "PER MOTIVI ATTINENTI ALLA GIURISDIZIONE".

Il principio del giudicato sulla giurisdizione, anche implicito (Cass., sez. un., 9 ottobre 2008 n. 24883), pone un limite alla possibilità di far valere le questioni di giurisdizione nei gradi successivi al primo e, per quanto qui interessa, anche innanzi alle Sezioni Unite come giudice della giurisdizione.

Si pone il problema di correlare il suddetto principio con l'affermazione secondo la quale il sindacato della S.C. sulle decisioni dei giudici amministrativi è limitato, in generale, all'accertamento dell'eventuale sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione e non può avere ad oggetto nemmeno la censura relativa all'avvenuta formazione o violazione del giudicato (in passato solo) espresso sulla giurisdizione, trattandosi di doglianza implicante una questione di merito e cioè un vizio attinente all'esercizio del potere di quel giudice, rientrante nei limiti interni della giurisdizione stessa.

A quest'orientamento sono riconducibili le pronunce delle Sezioni Unite che dichiarano inammissibile il ricorso, sul presupposto che la dedotta violazione del giudicato sulla giurisdizione non potrebbe (già in astratto) dare luogo ad un vizio della sentenza ricorribile "per motivi attinenti alla giurisdizione" né potrebbe essere rilevata d'ufficio (vd., in epoca precedente a Cass. n. 24883 del 2008 cit.: Cass., sez. un., 26 luglio 2002 n. 11099; sez. un., 9 marzo 2005 n. 5077; sez. un., 20 novembre 2007 n. 24002 e, nel senso che il ricorso proposto per superamento dei limiti esterni della giurisdizione è inammissibile ex art. 111 Cost., quando nella sostanza configuri una violazione di legge commessa dal Consiglio di Stato nell'esercizio del potere giurisdizionale, per avere erroneamente interpretato il contenuto della sentenza del Tar e l'effetto devolutivo dei motivi di appello, sez. un., 5 maggio 2008 n. 10971).

Altre decisioni delle Sezioni Unite decidono nel merito la questione di giurisdizione proposta, pur partendo dal medesimo presupposto concettuale secondo cui la violazione del giudicato interno sulla giurisdizione non ridonda in una violazione delle regole sulla giurisdizione e, quindi, non giustifica di per sé il ricorso per cassazione «per motivi attinenti alla giurisdizione» (Cass., sez. un., 21 novembre 2008 n. 27618, giudica inammissibile il motivo di ricorso fondato sulla violazione del giudicato e decide sulla questione di giurisdizione nel merito, non ravvisando nel giudicato un ostacolo procedurale; sez. un., 6 marzo 2009 n. 5468, ritiene il giudicato non ostativo all'esame della questione di giurisdizione nel merito).

La statuizione di inammissibilità del ricorso si fonda, talvolta, proprio in ragione dell'impedimento alla possibilità di riesaminare la questione di giurisdizione per l'esistenza di un giudicato sulla stessa: ciò presuppone evidentemente che le Sezioni Unite lo rilevino dal contenuto delle decisioni emesse e delle difese delle parti nel processo amministrativo, esaminando le ragioni per le quali esso si è formato in quell'ordinamento processuale (ad esempio, Cass., sez. un., 18 novembre 2008 n. 27348, ha escluso che il capo della sentenza del Tar sulla giurisdizione fosse stato specificamente censurato in appello, sulla base della « semplice lettura dell'atto d'appello ... in quanto il comune si è limitato a formulare un motivo d'appello ... che investe il capo della sentenza del Tar che, esaminando i profili del quantum debeatur ha dettato i criteri di liquidazione del risarcimento... »). Il ricorso alla S.C. non è inammissibile per il fatto di dedurre un vizio che nemmeno astrattamente potrebbe essere considerato come « motivo attinente alla giurisdizione », cioè sintomatico di un eventuale sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione, ma in ragione della stessa forza intrinseca che è propria del giudicato: è questo che impedisce alle Sezioni Unite (come a qualunque altro giudice) di riesaminare una questione sulla quale il dibattito (effettivo o meno) si è già chiuso nei gradi precedenti.

In questa prospettiva « qualora il Tar, pronunciando sul merito della domanda, abbia implicitamente riconosciuto la propria giurisdizione e tale statuizione non sia stata contestata nei motivi di appello, non rileva che il Consiglio di Stato abbia affrontato la relativa questione - benché preclusa [per la mancata devoluzione in appello]- ed il ricorso per cassazione avverso la sentenza di quest'ultimo è inammissibile, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione » (Cass., sez. un., 25 giugno 2009 n. 14889). Quest'ultima affermazione riguarda situazioni in cui il giudice amministrativo d'appello, pur non potendolo fare (stante la preclusione del giudicato), abbia provveduto sulla giurisdizione in senso conforme alla decisione di primo grado, esercitando un potere giurisdizionale ormai consumato, senza però violare il giudicato nella sostanza (« essendo stata comunque disattesa l'eccezione di difetto di giurisdizione, la preclusione derivante dal giudicato ... è rilevabile in questa sede indipendentemente ... dalla motivazione del giudice di appello »: in tal senso Cass. n. 14889/2009 cit.; « [né] varrebbe in contrario replicare che ... il Consiglio di Stato aveva riaperto il dibattito sull'argomento perché i giudici a quo... si sono limitati ad esplicitare le ragioni per le quali sussisteva realmente quella potestas decidendi che, a quel punto, costituiva un dato ormai fermo perché coperto dal giudicato medio tempore intervenuto »: in tal senso Cass., sez. un., n. 17 aprile 2009 n. 9160).

Il problema assume una consistenza maggiore nei casi in cui il giudice d'appello abbia emesso una statuizione sulla giurisdizione in senso contrario al giudicato formatosi in primo grado. Ci si deve chiedere se tale violazione del giudicato sia rimediabile dalle Sezioni Unite adite con ricorso proposto « per motivi attinenti alla giurisdizione ».

Al quesito si dovrebbe dare risposta negativa ove si segua l'orientamento che esclude la possibilità di considerare come motivo di giurisdizione la dedotta violazione del giudicato sulla giurisdizione: infatti, una eventuale statuizione di inammissibilità del ricorso determinerebbe il consolidarsi della sentenza resa dal giudice d'appello in violazione del giudicato sulla giurisdizione, mentre l'eventuale decisione delle Sezioni Unite sul merito della questione di giurisdizione sarebbe possibile solo prescindendo dal giudicato, cioè potenzialmente violandolo.

Da altra prospettiva si afferma, invece, che « qualora il Tar abbia espressamente e positivamente statuito sulla propria giurisdizione, provvedendo poi sul ricorso, la mancata riproposizione, in sede di appello davanti al Consiglio di Stato, della questione di giurisdizione determina la formazione del giudicato interno ed osta quindi ad un riesame di essa. L'inosservanza di tale preclusione da parte del Consiglio di Stato, che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, è rilevabile d'ufficio in sede di ricorso alle Sezioni Unite della Suprema Corte, vertendosi in tema di violazione attinente ai limiti della potestas decidendi del giudice stesso » (Cass., sez. un., 19 gennaio 1987 n. 411; in senso conf., sez. un., 22 febbraio 2007 n. 4109, entrambe nel senso che la sentenza amministrativa d'appello che abbia violato il giudicato debba essere cassata); « il giudicato formale sulla giurisdizione può e deve essere oggetto di rilievo d'ufficio [da parte delle Sezioni Unite], perché costituisce un ostacolo al riesame dell'unico possibile oggetto di esso e si traduce, comunque, in un'affermazione della giurisdizione che si sostituisce alla pronuncia del Consiglio di Stato impugnata sul medesimo punto, con l'efficacia delle sentenze delle sezioni unite » (Cass. n. 411/1987 cit.).

Quest'ultimo orientamento sembra coerente, in effetti, con la già citata sentenza n. 24883 del 2008 che, com'è noto, ha reinterpretato l'art. 37 c.p.c., che disciplina il trattamento processuale delle questioni di giurisdizione, statuendo che il giudice anche di legittimità può rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione (e che le sentenze di appello sono impugnabili per motivi di giurisdizione) fino a quando sulla questione non si sia formato il giudicato. Le questioni di giurisdizione, quindi, non sono più denunciabili « in ogni stato e grado del processo » ma solo nei limiti in cui non si sia appunto formato un giudicato, non solo espresso (come già affermato da una risalente giurisprudenza) ma anche implicito.

La S.C., cui la Costituzione affida il ruolo di giudice supremo della giurisdizione, è garante del rispetto delle regole sostanziali di distribuzione della giurisdizione tra i vari giudici, nei limiti in cui non sussista un impedimento derivante dalla presenza di un giudicato sulla giurisdizione formatosi conformemente alle regole del processo. Ma essere giudice supremo della giurisdizione implica necessariamente essere giudice (anche) del rispetto delle norme processuali che presiedono alla formazione di decisioni idoneamente censurabili per « motivi attinenti alla giurisdizione », ai sensi degli artt. 360 n. 1 e 362 c.p.c., ed implica che questo delicato ruolo sia svolto dalla S.C. allo stesso modo e con i medesimi poteri decisori sia che vengano impugnate decisioni dei giudici ordinari sia che vengano impugnate decisioni dei giudici amministrativi.

Significativo è un precedente in cui la S.C. ha ritenuto non valida « l'obiezione fondata sul rilievo che la violazione del giudicato sulla giurisdizione ad opera del giudice amministrativo non potrebbe essere sindacata dalle Sezioni unite perché questione non attinente alla giurisdizione, risolvendosi in mero error in procedendo. Rilevare la preclusione da giudicato interno costituisce infatti applicazione di una regola processuale che impedisce l'esame della questione di giurisdizione, regola che è compito esclusivo del giudice investito della controversia rilevare ed applicare » (Cass., sez. un., 7 novembre 2008 n. 26789). Del resto, quella emessa in violazione del giudicato sulla giurisdizione è una sentenza che viola la legge processuale che disciplina la giurisdizione nel caso singolo, se è vero che « il giudicato va assimilato agli "elementi normativi", cosicché la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell'esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, essendo sindacabili sotto il profilo della violazione di legge gli eventuali errori interpretativi » (Cass., sez. un., 28 novembre 2007 n. 24664 ne ha tratto la conseguenza che la Corte può direttamente accertare l'esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena).

Qualora non si condivida questa conclusione, dovrebbe concludersi nel senso che gli innovativi principi elaborati in tema di rilevazione del giudicato sulla giurisdizione non possano trovare applicazione con riguardo ai giudizi amministrativi, ma solo a quelli ordinari, conseguenza questa non giustificabile anche alla luce della nota sentenza delle Sezioni Unite n. 24883 del 2008 (in generale, nel senso dell'applicabilità ad entrambi i giudizi, anche Cass., sez. un., 18 dicembre 2008 n. 29531; sez. un., 2 dicembre 2008 n. 28545).

Potrebbe ritenersi, quindi, che il Consiglio di Stato che pronunci sulla giurisdizione, ignorando la preclusione formatasi per effetto di un giudicato interno, violi per ciò stesso i limiti della propria potestas decidendi (Cass. n. 411 del 1987 cit.): in questa prospettiva il ricorso della parte avrà ad oggetto intrinsecamente un « motivo attinente alla giurisdizione » proponibile davanti alla S.C., la quale potrà accoglierlo ripristinando gli effetti giuridici del preesistente giudicato sulla giurisdizione (Cass. n. 411/1987 e n. 4109/2007 cit., nel senso che la sentenza amministrativa d'appello che abbia violato il giudicato debba essere cassata).

Analogamente, il giudice d'appello commetterebbe una violazione della legge processuale sulla giurisdizione qualora omettesse di decidere sulla questione di giurisdizione riproposta dalla parte, ritenendo erroneamente esistente un giudicato sulla giurisdizione e riconnettendo ad esso efficacia preclusiva (secondo Cass., sez. un., 31 ottobre 2008 n. 26302, invece, ciò non implicherebbe un indebito diniego della propria potestà giurisdizionale, ma soltanto la decisione, frutto di un eventuale error in judicando, di respingere la domanda sottoposta a quella potestà).

3. LA "TRANSLATIO IUDICII" E IL REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE CHIESTO D'UFFICIO.

3.1. La "translatio iudicii".

Con la sentenza 22 febbraio 2007, n. 4109, rv 595428, le S.U della S.C., modificando il precedente risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dalla prevalente dottrina - ad esclusione di alcuni autorevoli Autori - e ostativo alla "translatio iudicii" ed alla conservazione degli effetti degli atti compiuti innanzi al giudice sfornito di giurisdizione, hanno ritenuto che, "in base ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente dalla dottrina sul tema, sussistano le condizioni per potere affermare che è stato dato ingresso nell'ordinamento processuale al principio della "translatio iudicii" dal giudice ordinario al giudice speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione". In particolare i giudici di legittimità, nella sentenza in parola, premesso che in tema di giurisdizione non è espressamente stabilita una disciplina improntata a quella prevista per la competenza, ammissiva della riassunzione della causa dal giudice competente a quello incompetente, hanno rilevato che, tuttavia, neppure é espressamente previsto il divieto della "translatio iudicii" e, sulla scorta di un attento scrutinio della disciplina positiva, hanno affermato che "sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360, comma primo, n. 1), cod. proc. civ. ... sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile dinanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario, opera la "translatio iudicii", così consentendosi al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione indicata, di poter continuare davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia, comunque iniziata, realizzando in modo più sollecito ed efficiente il servizio giustizia, costituzionalmente rilevante. Il principio della "translatio iudicii" è estensibile anche alle pronunce declinatorie della giurisdizione emesse dai giudici di merito senza che si configuri una violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. in relazione all'attuale, impeditiva disciplina processuale, dal momento che, in virtù di una interpretazione adeguatrice del sistema processuale, ancorché la pronuncia del giudice di merito dichiarativo del difetto di giurisdizione, a differenza di quella delle Sezioni unite della Corte di cassazione, non imponga, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di conformarvisi, alle parti è dato, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione, il rimedio del ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 362, comma secondo, cod. proc. civ., sicché il meccanismo correttivo della situazione di stallo, consente, di pervenire alla decisione della questione di giurisdizione con effetti vincolanti nei confronti del giudice dichiarato fornito di giurisdizione, innanzi al quale è resa praticabile la "translatio iudicii".

Pochi giorni dopo, sia pure in base ad una diversa ricostruzione, la Corte Costituzionale, con la sentenza 12 marzo 2007, n. 77, ha rilevato che l'incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi deve ormai ritenersi incompatibile con i fondamentali valori costituzionali, avendo la Carta costituzionale, con gli art. 24 e 111, assegnato all'intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi e non potendo, pertanto, la pluralità di giudici risolversi in una minore effettività o addirittura nella vanificazione della tutela giurisdizionale. La Corte ha, pertanto, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria della giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione ed ha sollecitato il legislatore ad intervenire con urgenza a colmare la lacuna dell'ordinamento processuale, dettando una disciplina legislativa atta a dare attuazione al principio della conservazione degli effetti, sia sostanziali che processuali, prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato - a seguito di declinatoria di giurisdizione - davanti al giudice che ne è fornito. E' stato peraltro sostenuto in dottrina [Monteleone, 2010, 273] che la S.C. sia andata oltre "nella sua opera interpretativa del sistema accolto dal codice processuale", avendo con la successiva sentenza delle S.U. n. 28 febbraio 2007, n. 4636, rv 606604, "praticamente equiparato le questioni di giurisdizione a quelle di competenza, aprendo la strada all'applicazione nei rapporti tra giudice ordinario e speciale, ovvero tra giudici speciali, ad istituti tipici del regime processuale della competenza, come la litispendenza e la connessione".

Sta di fatto che, con la decisione n. 4109/07 appena richiamata e con le successive ordinanze delle S.U. 20 marzo 2008, n. 7446, rv 602271 e 27 maggio 2009, n. 12252, rv 608424, in linea con un "trend normativo favorevole all'omogeneizzazione della giurisdizione, allorché si tratti di fatti collegati in un unitario rapporto", e alla luce della costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo - che impone all'interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, nella soluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo, per la quale deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche, e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione di detto obiettivo costituzionale - i giudici di legittimità hanno ritenuto appunto che l'art. 111 Cost., in combinazione con l'art. 24, esprima, quale mezzo imprescindibile al fine, un principio di concentrazione delle tutele e che, peraltro, nel nostro ordinamento, esista già il principio della concentrazione processuale, di cui è espressione l'art. 40 cod. proc. civ., in tema di competenza. Tale orientamento ha suscitato in dottrina critiche e perplessità; si segnala in particolare la posizione di chi [Monteleone] ha osservato che il nostro ordinamento non permette in alcun modo di confondere, o equiparare, le questioni di giurisdizione, con quelle di competenza, trattandosi di istituti giuridici profondamente diversi; ha precisato che il codice prevede "motivi e mezzi diversi di impugnazione e/o di prevenzione per sollevare o dirimere questioni di competenza o di giurisdizione" e ha, conclusivamente, affermato che "ex positivo jure é insostenibile la tesi che trae spunto dal regime della competenza per dar fondamento alla translatio judicii in tema di giurisdizione. Ed ancor più lo è quella che vorrebbe trapiantare sic et simpliciter dall'uno all'altro campo la relativa disciplina giuridica".

3.2. La "translatio iudicii" e il regolamento di giurisdizione chiesto d'ufficio alla luce della disciplina di cui all'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Il legislatore, intervenendo - a seguito della ricordata sollecitazione dei giudici della Corte Costituzionale - con la legge 18 giugno 2009, n. 69, ha dettato, all'art. 59, una apposita disciplina in tema di decisione sulla giurisdizione che, tuttavia, non ha risolto tutti gli interrogativi sollevati dalla dottrina dopo le menzionate sentenze del 2007 ma, anzi, ne ha posto dei nuovi, alcuni dei quali sono stati recentemente esaminati dalla S.C..

Con ordinanza dell'8 febbraio 2010, n. 2716, rv 611378, le S.U. della Cassazione, nel dichiarare inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto avverso una sentenza del TAR dichiarativa del difetto di giurisdizione del G.A., hanno affrontato il problema di verificare se il principio consolidato - affermato a partire da Cass. sez. un., n. 2466 del 1996 - secondo cui la proponibilità del regolamento di giurisdizione è preclusa da ogni decisione emanata dal giudice presso il quale é radicato il processo, sia essa di merito o di rito, dovendo, in tal caso, la decisione sulla questione di giurisdizione essere rimessa al giudice di grado superiore - abbia ancora valenza, a seguito dell'entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69.

Al quesito le S.U. hanno dato soluzione positiva, affermando che il ricordato principio va ribadito anche dopo la predetta novella e tanto non solo in base alla lettera dell'art. 59 della legge già indicata, che disciplina la "translatio iudicii", ma anche sulla scorta di considerazioni di ordine sistematico.

Quanto alla norma richiamata, la S.C. ha rilevato che la stessa, al terzo comma, prevede che il giudice dinanzi al quale la causa sia stata riassunta, qualora le S.U. non si siano ancora pronunciate sulla questione di giurisdizione, possa sollevare d'ufficio tale questione e, nell'ultima parte del medesimo comma, dispone che "restano ferme le disposizioni sul regolamento di giurisdizione", risultando così evidente che il legislatore ha inteso conservare la natura non impugnatoria del rimedio del regolamento preventivo, la cui funzione è quella di prevenire decisioni impugnabili o conflitti reali o virtuali di giurisdizione.

Le considerazioni sistematiche, "in armonia con l'evoluzione dell'istituto della giurisdizione, della quale evoluzione la "translatio" è solo un aspetto", cui hanno fatto riferimento le S.U., partono dalla constatazione che il principio della conservazione degli effetti che la domanda avrebbe raggiunto, se fosse stata presentata al giudice correttamente individuato, deve trovare attuazione pratica consentendo alle parti di proseguire davanti ad un secondo giudice il processo iniziato dinanzi a quello erroneamente individuato dall'attore. Da tanto consegue - per i giudici di legittimità - la riduzione ad unità del processo dalla domanda alla decisione finale, con la connessa eliminazione di rilevanza impeditiva - così come si verifica in tema di competenza - all'errore iniziale nella individuazione del giudice provvisto di giurisdizione.

Nel contesto del fenomeno unitario che si é venuto così delineando, lo strumento processuale del regolamento di giurisdizione chiesto d'ufficio - strumento che ripropone quello previsto in tema di competenze cd. forti nella disciplina del processo civile - trova la sua "ragion d'essere nella divisione funzionale ed organizzativa delle giurisdizioni", che, non diversamente da quanto stabilito in tema di competenza, "non ammette la possibilità che il giudice di un ordine diverso, perché nega di avere nel caso giurisdizione, possa poi imporla al diverso giudice che egli indica".

Risulta, quindi, evidente - per le S.U. - che il rimedio del regolamento di giurisdizione officioso soddisfa un'esigenza di rispetto della compresenza, nell'ordinamento, di ordini giudiziali distinti.

Le S.U. hanno, inoltre, rilevato che la "translatio" - che presuppone una situazione processuale in cui il giudice adito nega di avere giurisdizione, il che implica che le parti non hanno ritenuto di evitare la decisione sulla questione di giurisdizione di tale giudice, proponendo il regolamento preventivo di giurisdizione - opera per linee orizzontali e offre, sia alle parti che al giudice indicato, la possibilità di definire la questione per tacito accordo, senza necessità di una seconda decisione sul punto; é, invece, la richiesta del regolamento d'ufficio che fa "rifluire" il fenomeno in questione nella logica verticale dell'accesso al giudice della giurisdizione.

Secondo i giudici di legittimità, coprendo la disciplina della "translatio" e quella del regolamento preventivo di giurisdizione "aree" diverse, tale reciproca estraneità rende ragione della possibilità di una loro giustapposizione e dell'esigenza di una disciplina adottata limitata, quale quella effettivamente prevista, che conferma quella stabilita per il regolamento preventivo.

Alle S.U. non é sfuggito, però, né che il principio della "translatio" é sorto nel sistema della competenza e che il regolamento chiesto d'ufficio dal giudice indicato é strumento processuale tratto dalla disciplina della competenza né, peraltro, che a fondamento del predetto principio é il progressivo avvicinamento dei ricordati istituti della competenza e della giurisdizione; anzi, proprio la consapevolezza di tale avvicinamento, porta i giudici di legittimità ad interrogarsi circa la possibilità di estendere a situazioni processuali che, in tema di rapporto tra le giurisdizioni, manifestino tratti di analogia con quelli disciplinati nell'ambito di competenza, i corrispondenti istituti che, nel predetto ambito, le regolano. In particolare, posto che, dopo la decisione sulla giurisdizione da parte del giudice di merito, su tale questione, sia pure ad iniziativa del giudice indicato, risulta possibile l'accesso diretto alla S.C., i giudici di legittimità si sono chiesti se abbia ancora senso l'orientamento che, a partire dal 1996, nega alle parti la possibilità di utilizzare il regolamento di giurisdizione non come mezzo di impugnazione ma con l'analogo effetto di superare la decisione negativa del giudice di merito adito "ex adverso".

La risposta negativa delle S.U. a tale questione si basa su tre considerazioni. Anzitutto i giudici di legittimità hanno affermato che la previsione, nel sistema della competenza davanti al G.O., dell'istituto del regolamento necessario di competenza contro le decisioni che affermano o negano la competenza, non offre validi supporti, considerato che il regolamento di giurisdizione non potrebbe essere proposto in relazione a sentenze che negano la giurisdizione in quanto le stesse definiscono il giudizio la cui sopravvivenza, invece, é presupposta dal regolamento di giurisdizione.

La S.C. ha, inoltre, posto in evidenza che il regolamento necessario di competenza ha le caratteristiche del mezzo di impugnazione che, non sperimentato, fa diventare immutabile la decisione, laddove, invece, al regolamento preventivo di giurisdizione é stato riconosciuto carattere facoltativo dalla giurisprudenza di legittimità anche quando, secondo il più risalente orientamento, si riteneva proponibile il regolamento ex art. 41 cod. proc. civ. anche a decisione positiva sulla giurisdizione già intervenuta. Infine - hanno aggiunto le S.U. - l'orientamento consolidato tende pure a contrastare un abuso del mezzo processuale in parola, sicché ammettere le parti al regolamento - in astratto praticabile solo contro la decisione non definitiva che dichiara la giurisdizione del giudice adito - comporterebbe alla parte convenuta, soccombente sul punto, di utilizzare, senza essersene avvalsa "a tempo debito", uno strumento idoneo ad intralciare l'ulteriore corso del giudizio di primo grado e la possibilità della parte attrice di ottenere tutela esecutiva.

La ribadita adesione delle S.U. al consolidato orientamento restrittivo in tema di regolamento preventivo di giurisdizione non ha trovato consensi in dottrina. In particolare [Consolo, 2010, 760 ss.] è stato affermato che il primo argomento é superabile agevolmente, considerato che attualmente - e tanto in base a quanto affermato dalla sentenza della S.C., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109, rv 595428, seguita dalla decisione della Corte Costituzionale n. 12 marzo 1997 n. 77 - il procedimento "sopravvive" alla declinatoria di giurisdizione, ben potendo proseguire innanzi al diverso giudice ritenuto dal primo fornito di giurisdizione, attraverso una "translatio iudicii" che conserva l'identità del rapporto processuale. Il secondo argomento, che si basa sulla circostanza che solo il mancato esperimento del regolamento necessario di competenza ex art. 42 cod. proc. civ. determina il consolidarsi della statuizione sulla competenza mentre, in caso di pronuncia sulla giurisdizione, tale risultato si ottiene con il decorso dei termini per proporre avverso la stessa l'impugnazione ordinaria, non depone univocamente in favore dell'interpretazione restrittiva dell'art. 41 cod. proc. civ. già ricordata. Anche l'ultimo argomento speso dalle S.U. viene contestato dalla richiamata dottrina che, riportandosi al dato letterale dell'art. 367 cod. proc. civ., rileva che la sospensione del processo di primo grado (e, quindi, il paventato "intralcio" all'ulteriore corso del giudizio e alla possibilità dell'attore di avvalersi della tutela esecutiva) non consegue automaticamente alla proposizione del regolamento.

Evidenzia, inoltre, l'Autore citato che la posizione assunta dalle S.U. si pone in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. e all'art. 6 CEDU; ed invero, negandosi alle parti la possibilità di ricorrere al regolamento preventivo, una volta che il giudice si sia pronunciato sulla questione di giurisdizione, si preclude loro la possibilità di ottenere una decisione definitiva in termini certamente più ridotti rispetto a quelli conseguenti all'impugnazione in via ordinaria della sentenza in punto di giurisdizione.

E' stato pure sottolineato da parte della richiamata dottrina [Consolo, 2010, 761] che la ribadita adesione al ricordato orientamento restrittivo comporta conseguenze ancor più pesanti sul diritto delle parti ad ottenere effettiva e celere tutela, alla luce della previsione di cui al secondo comma dell'art. 59 della legge n. 69 circa l'individuazione del "dies a quo" per la riassunzione del processo a seguito della declinatoria di giurisdizione, trattandosi di previsione che può dare adito, se non correttamente intesa, ad interpretazioni foriere di seri problemi sotto il profilo della ragionevole durata del processo.

Ai sensi dell'articolo indicato, infatti, il termine per la riassunzione decorre "dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1".

I primi commentatori [Consolo, 2010,761, Trisorio Liuzzi, 2010, 1219] ritengono, prevalentemente, che la norma in parola indichi, in realtà, il termine massimo per adire il giudice "ad quem", sicché la parte interessata - che non può che essere l'attore, considerato che nel testo legislativo si fa riferimento alla riproposizione della domanda [Vittoria, 2010, 114] - non ha la necessità di attendere il passaggio in giudicato della sentenza, potendo riassumere il giudizio subito dopo la pubblicazione della decisione, in pendenza dei termini di impugnativa, con conseguente acquiescenza alla sentenza ex art. 329, primo comma, cod. proc. civ. [Auletta, 2009, 112], e con la possibilità che sorgano problemi a seguito dell'interferenza di un eventuale giudizio impugnatorio proposto contro la sentenza declinatoria di giurisdizione.

Non manca tuttavia chi [Gendi, La circolarità dell'azione tra le diverse giurisdizioni dell'ordinamento nazionale, 2009] sostiene che il passaggio in giudicato della declinatoria di giurisdizione costituirebbe "condizione essenziale" per la "translatio".

Trattasi di questione di particolare rilevanza che sarà certamente sottoposta al vaglio della S.C., unitamente a tutte quelle altre che la formulazione non impeccabile della norma sembra sollevare. E' sufficiente rimarcare, a titolo esemplificativo, che non risulta disciplinata l'ipotesi in cui, dopo la sentenza declinatoria di giurisdizione, l'attore riproponga la domanda al giudice indicato e contemporaneamente "ex adverso" venga impugnata la medesima decisione; né è previsto alcunché in relazione ai provvedimenti cautelari eventualmente emanati dal giudice che si dichiara sfornito di giurisdizione; nulla é, inoltre, stabilito per il caso in cui il giudice che dichiari il proprio difetto di giurisdizione ometta di indicare, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. Questioni, queste, sulle quali già si é interrogata la dottrina, prospettando varie soluzioni [Vittoria, 2010, 115; Trisorio Liuzzi, 2010, 1221, Consolo, 2010, 763 e 767, Travi, 2009, 915]. A tanto deve aggiungersi che una pluralità di problematiche - che nella pratica dovrà affrontare e risolvere l'interprete - si porranno anche a seguito dell'applicazione del codice della giustizia amministrativa, entrato recentemente in vigore, il quale, all'art. 11 disciplina la "translatio iudicii".

Con l'ordinanza del 3 marzo 2010, n. 5022, rv 611648, le S.U. hanno precisato che, nella disciplina processuale anteriore all'entrata in vigore dell'art. 59 della l. 18 giugno 2009, n. 69, il giudice della controversia non può investire direttamente le S.U. della Corte di Cassazione della risoluzione di una questione di giurisdizione, ma è tenuto a statuire sulla stessa ai sensi dell'art. 37 cod. proc. civ. Peraltro, nemmeno dopo l'entrata in vigore della suddetta norma (oltretutto inapplicabile nella fattispecie esaminata dai giudici di legittimità), il primo giudice adito può sollevare d'ufficio la questione di giurisdizione e rimetterla alle indicate S.U., poiché la stessa norma impone, a tal fine, che già altro giudice abbia declinato la propria giurisdizione a favore di quello successivamente investito mediante "translatio iudicii", il quale è il solo a poter rimettere d'ufficio la questione alla decisione delle S.U. fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, sempre che, nelle more, le medesime Sezioni non abbiano già statuito al riguardo.

Il tema della preclusione in ordine alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione é stato di recente riesaminato dalle S.U. della S.C., alla luce dell'evoluzione della giurisprudenza di legittimità e degli interventi della Corte Costituzionale, di cui si é già dato conto, e della conseguente introduzione nell'ordinamento del principio della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel giudizio riattivato dinanzi al giudice che ne é, invece, provvisto, escludendosi così la necessità della riproposizione "ex novo" della domanda a seguito di declinatoria della giurisdizione da parte del giudice adito.

Secondo i giudici di legittimità (Cass., S.U., ordinanza del 18 giugno 2010, n. 14828, rv 613725 e, in senso conforme, Cass., S.U. ordinanza del 7 luglio 2010, rv 613827), nell'attuale quadro normativo, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 59 della legge n. 69 del 2009, si é realizzata sostanzialmente, pur nel rispetto della pluralità degli ordini giurisdizionali prevista dalla Costituzione, una sostanziale riduzione ad unità del processo dalla fase della domanda a quella della decisione, escludendosi ogni rilevanza impeditiva all'errore iniziale della parte nell'individuazione del giudice provvisto di giurisdizione. In tale nuova prospettiva, hanno affermato le S.U., la preclusione del regolamento preventivo di giurisdizione dopo che il giudice di merito abbia dichiarato il proprio difetto di giurisdizione non può essere limitata alla sola ipotesi di proposizione dell'indicato rimedio nell'ambito del giudizio promosso dinanzi al predetto giudice ma tale preclusione va applicata, ormai, anche nel caso in cui il regolamento venga proposto a seguito della riassunzione del giudizio dinanzi al giudice indicato dal primo come quello fornito di "potestas iudicandi", e tanto per effetto del giudicato implicito sulla giurisdizione, che si determina in mancanza dell'impugnazione della decisione di difetto di giurisdizione ed in conseguenza della realizzata riassunzione davanti al giudice individuato nella stessa pronuncia.

Con l'ordinanza del 9 settembre 2010, n. 19256, rv 614406, le S.U., hanno ribadito il principio affermato con la già richiamata decisione n. 5022 del 2010, secondo il quale, ai sensi dell'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 - applicabile "ratione temporis" alla fattispecie esaminata dalla Cassazione - e comunque anche nel vigore della disciplina processuale previgente, il giudice adito non può investire direttamente le S.U. della S.C. della risoluzione di una questione di giurisdizione, ma è tenuto a statuire sulla stessa ai sensi dell'art. 37 cod. proc. civ., in quanto il citato art. 59 impone che già altro giudice abbia declinato la propria giurisdizione a favore di quello successivamente investito mediante "translatio iudicii", in quanto solo quest'ultimo può rimettere d'ufficio la questione alla decisione delle predette S.U. fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, sempre che, nelle more, le medesime Sezioni non abbiano già statuito al riguardo. Ne consegue - secondo i giudici di legittimità - che qualora il difetto di giurisdizione sia stato dichiarato dal giudice ordinario in sede cautelare, il giudice amministrativo successivamente adito non può sollevare d'ufficio il regolamento di giurisdizione atteso che, avendo il provvedimento cautelare, emesso ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ., natura strumentale rispetto al giudizio di merito a cognizione piena, anche dopo la riforma processuale introdotta con la legge n. 80 del 2005, il procedimento davanti al giudice amministrativo è il primo giudizio di merito, ai fini del rilievo del difetto di giurisdizione. Pertanto, hanno affermato le S.U., tale giudice, ancorché successivamente adito, non può essere considerato quello dinanzi al quale, ai sensi del terzo comma dell'anzidetto art. 59, la "causa è riassunta", né in tal caso può parlarsi di "successivo processo" ai sensi del secondo comma dello stesso art. 59, ma detto giudice è da considerarsi il giudice della causa di merito, tenuto a statuire sulla questione di giurisdizione ex art. 37 cod. proc. civ..

Ulteriore questione esaminata recentemente dalle S.U. della S.C. é quella relativa all'applicabilità o meno dell'art. 59, terzo comma, della legge n. 69 del 2009, anche ai giudizi instaurati prima dell'entrata in vigore della normativa appena citata e, quindi, alla possibilità di richiedere d'ufficio il regolamento di giurisdizione pure in tali giudizi.

Le S.U. della S.C., con le ordinanze 16 novembre 2010, n. 23109 e 6 dicembre 2010, n. 24686, seguendo il medesimo iter argomentativo, hanno risolto la questione in senso affermativo e tanto sulla base di un duplice ordine di considerazioni. Hanno, infatti, evidenziato i giudici di legittimità che l'art. 58 della legge citata, recante le disposizioni transitorie, al primo comma limita l'applicazione, nei giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della legge in parola, alle sole disposizioni che modificano il codice di procedura civile e le relative disposizioni di attuazione e fa salva una diversa disciplina dell'applicazione delle disposizioni previste nei commi successivi, che - ad esclusione del quarto comma - sono disposizioni incidenti formalmente sul codice di rito.

Pertanto, in base all'interpretazione letterale della norma, deve ritenersi che per l'art. 59 citato, in difetto di esplicite previsioni contrarie, vale il principio per il quale le regole di natura processuale sono di immediata applicazione. Inoltre, hanno affermato le S.U., lo strumento processuale del regolamento preventivo di giurisdizione chiesto d'ufficio - strumento che ripropone quello previsto in tema di competenza cd. forte nell'ambito della disciplina del processo civile - trova la sua ragion d'essere nella divisione funzionale ed organizzativa delle giurisdizioni, che, non diversamente da quanto é previsto per la competenza e, anzi, a maggior ragione, non ammette la possibilità che il giudice di un ordine diverso, negando di avere nel caso giurisdizione, possa poi imporla al diverso giudice che egli indica (Cass. S.U. n. 2716 del 2010).

. DOTTRINA

AULETTA, in AA.VV., Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico la semplificazione e la competitività. Legge 18 giugno 2009, n. 69, 2009;

CONSOLO, Translatio iudicii e regolamento di giurisdizione, in Corriere giuridico, 2010, fasc. 6, 758;

GLENDI, La circolarità dell'azione tra le diverse giurisdizioni dell'ordinamento nazionale, in Corriere tributario, 2009, fasc. 33;

MONTELEONE, Difetto di giurisdizione e prosecuzione del processo: una confusa pagina di anomalie processuali, in Riv. di diritto processuale, 2010, fasc. 2, 271;

ORIANI, E' possibile la translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale: divergenze e consonanze tra Corte di cassazione e Corte costituzionale, in Foro it., 2007, fasc. 4, I, 1013;

RAGANELLI, L'evoluzione della giurisprudenza e il recente intervento del legislatore in tema di translati iudicii, in Dir. proc. amm., 2010, fasc. 2, 730;

TRAVI, Le novità della legge 18 giugno 2009 n. 69, in Urb. e app., 2009, 915;

TRISORIO LIUZZI, Commento all'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in NLCC; 2010, fasc. 4-5,1217;

VITTORIA, Lo statuto della questione di giurisdizione davanti al giudice ordinario e la disciplina della translatio iudicii nella l. n. 69 del 2009, in Giust. civ., 2010, fasc. 2, 105.

  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO II

LE QUESTIONI SULLA COMPETENZA ED IL CANONE DEL "GIUSTO PROCESSO"

(di Francesco Cirillo, Raffaele Cantone, Alberto Tilocca )

Sommario

1 L'ARBITRATO, IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA ED IL REGIME TRANSITORIO DEL D.LGS. N. 40 DEL 2006. - 2 COMPETENZA DEGLI UFFICI DELLA P.A., LEGITTIMAZIONE, BUONA FEDE E GIUSTO PROCESSO. - 3 IL FORO DELL' "EQUA RIPARAZIONE". - BIBLIOGRAFIA

1. L'ARBITRATO, IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA ED IL REGIME TRANSITORIO DEL D.LGS. N. 40 DEL 2006.

Significativo, in tema di competenza, con riferimento all'arbitrato rituale, ma anche oltre il tema affrontato, é il pronunciamento di Cass. S.U. 19047 del 6-9-2010 (massimata con rv 614353), perché - questa é l'affermazione di diritto che ne deriva - il principio della garanzia della ragionevole durata dei processi (art. 111, 2° comma, Cost.) non autorizza l'interprete a ignorare la voluntas legis, dal legislatore di volta in volta espressa nella sua discrezionalità: nella specie - per come enunciato dall'art. 27, 4° comma, del d.lgs. 2-2-2006, n. 40 - la norma del precedente art. 22, laddove riscrive l'art. 819-ter cod. proc. civ., e cioé, in particolare, che la sentenza del giudice ordinario che abbia dichiarato la competenza o meno dell'arbitro é impugnabile con regolamento di competenza, deve applicarsi non a tutti i processi in corso, ma "soltanto nei confronti di sentenze pronunciate" nelle controversie in cui sia sorta questione sulla deferibilità all'arbitro in ragione di "procedimenti arbitrali iniziati dopo il 2 marzo 2006", data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006; tenuto conto, va però aggiunto, che "non si pongono dubbi di legittimità costituzionale" dell'art. 27, co. 4°, tali da imporre all'operatore del diritto una diversa interpretazione, giacché "l'eventuale applicazione retroattiva [del nuovo art. 819-ter] non incontrerebbe alcun limite inderogabile".

A tale conclusione (rilevante perché il regolamento di competenza é certamente strumento approntato per abbreviare i tempi del processo) Cass. S.U. 19047/10 giunge allo scopo di risolvere il contrasto interpretativo delineatosi nelle Sezioni semplici della Suprema Corte in merito alla questione della applicazione della suddetta norma transitoria dell'art. 27, 4° co., d.lgs. n. 40 del 2006.

Punto di partenza del ragionamento delle Sezioni Unite, é l'affidamento nell'indirizzo interpretativo (si citano, tra le altre, Cass. ord. 20351 del 21-10-2005, rv 584555; Cass. ord. 11315 del 27-5-2005, rv 581050; Cass. 9760 del 10-5-2005, rv 582476) secondo cui l'arbitrato, tanto irrituale, quanto rituale, é "atto di autonomia privata e correlativamente il compromesso si configura quale deroga alla giurisdizione", di modo che la deferibilità all'arbitro é questione di merito, "in quanto inerente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria", e non di rito, e non sussiste pertanto questione di competenza, da tal premessa facendosi discendere l'inammissibilità del regolamento di competenza.

Questo orientamento, poiché ritenuto "costante e pacifico", e non sufficientemente intaccato dalle critiche mossegli [sulla questione v. BOVE, 07, 368; VERDE, 09, 224], è dunque assunto a fondamento dalle Sezioni Unite.

All'opposto, proseguono le Sezioni Unite, parte ricorrente contrappone la norma del nuovo art. 819ter cod. proc. civ., per come inserita dall'art. 22 del d.lgs. 2-2-2006, n. 40, che statuisce che la deferibilità all'arbitro integra questione di competenza, la cui soluzione, adottata dal giudice ordinario davanti al quale é sollevata, é appunto impugnabile con il regolamento di competenza (artt. 42 e 43 cod. proc. civ.).

La sistemazione interpretativa da assegnare a questa innovazione é ravvisata dalle Sezioni Unite innanzitutto nel negare al nuovo art. 819-ter cod. proc. civ. natura di norma interpretativa, e, pertanto, portata retroattiva.

Le Sezioni Unite non contestano, in premessa, che rientri nella discrezionalità del legislatore di emanare leggi interpretative di norme di legge allorquando sussistano determinati presupposti (Corte costituzionale, tra le tante , sent. nn. 170 del 2008; 374 del 2002; 525 del 2000; seguite da Cass. 677 del 16-1-2008, rv 600964; Cass. 4070 del 27-2-2004, rv 570672).

Sulla scorta allora della stessa giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. nn. 170 del 2008; 409 del 2005; 168 del 2004; 291 del 2003; 29 del 2002; 416 del 1999; 211 del 1997; 311 del 1995; 397 del 1994), che ha individuato i limiti della discrezionalità del legislatore di emanare norme retroattive - limiti costituiti dalla : "a) salvaguardia dei principi generali di ragionevolezza e di eguaglianza; b) tutela dell'affidamento legittimamente posto sulla sicurezza giuridica e cioè sulla certezza dell'ordinamento giuridico, specialmente in materia processuale; c) rispetto della funzione giudiziaria, con il conseguente divieto di intervenire sugli effetti del giudicato e sulle fattispecie sub iudice" -, le Sezioni Unite, nella ridetta sentenza 19047/10, negano, appunto, forza interpretativa alla norma del nuovo art. 819-ter cod. proc. civ., perché: "si è formato un costante e pacifico orientamento della Suprema Corte che si è tradotto in un vero e proprio diritto vivente" sul principio di diritto che la deferibilità all'arbitro (per come detto sopra) é questione di merito e non di competenza"; ed è ravvisata "l'esigenza di tutelare l'affidamento legittimamente posto sulla stabilità di tale orientamento giurisprudenziale".

E ciò perché, proseguono le Sezioni Unite, "la questione di diritto intertemporale è espressamente risolta" con apposita norma transitoria, che é appunto l'art. 27, 4° co., d.lgs. 2-2-2006, n. 40 (e tanto evita di doversi interrogare su una eventuale applicazione analogica, relativamente ai processi in corso, dunque anche "per il passato", del nuovo art. 819-ter cod. proc. civ., "perché non esiste alcuna lacuna normativa da colmare").

Viene, per tal profilo, perciò, in rilievo il contrasto in merito all'esegesi di detta norma transitoria, relativamente alla quale tre diversi orientamenti si erano contrapposti:

il primo ( rinvenibile in Cass. ord. 12814 del 20-5-2008; Cass. ord. 16995 del 2-8-2007; Cass. ord. 18761 del 6-9-2007) riconosceva preminenza alla lettera dell'art. 27, 4°, co., d.lgs. n. 40 del 2006, secondo cui il nuovo art. 819-ter cod. proc. civ. "si applica ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato é stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 40", e, dunque, non sono impugnabili con regolamento di competenza le sentenze in merito alla deferibilità all'arbitro pronunciate in processi in cui si sia discusso di domande di arbitrato proposte prima del 2 marzo 2006 (data di entrata in vigore del d.lgs. 2-2-2006, n. 40);

il secondo (Cass. ord. 13128 del 5-6-2007; Cass. ord. 587 del 14-1-2009) faceva leva sull'art. 5 cod. proc. civ., nel senso che il nuovo art. 819-ter cod. proc. civ. sarà applicabile soltanto ai processi instaurati davanti il giudice ordinario dopo il 2 marzo 2006;

il terzo (Cass. ord. 26990 del 20-12-2007) faceva dipendere l'applicabilità del nuovo art. 819-ter cod. proc. civ. dal fatto che successiva al 2 marzo 2006 debba invece essere la pubblicazione della sentenza del giudice ordinario che abbia pronunciato sulla deferibilità all'arbitro (in linea con il criterio temporale adottato dagli altri commi dello stesso art. 27 ai fini della disciplina transitoria delle norme procedurali del d.lgs. n. 40 del 2006).

Ebbene, la preferenza di Cass. S.U. 19047/10 è caduta sul primo orientamento: "il regolamento di competenza é ammissibile soltanto nei confronti di sentenze pronunciate con riferimento a procedimenti arbitrali iniziati dopo il 2 marzo 2006". Ciò, appunto, perché "la lettera della disposizione - dell'art. 27, 4° co., d.lgs. n. 40 del 2006 - é inequivoca e rappresenta un limite invalicabile in sede di interpretazione", e non viene intaccata dal principio costituzionale della garanzia della ragionevole durata dei processi, che avrebbe viceversa indirizzato verso l'ammissibilità dello strumento acceleratorio del regolamento di competenza, perchè non c'è, come nella specie non é stato ravvisato, dubbio alcuno di legittimità costituzionale di siffatta scrittura dell'art. 27, 4° co., cit., derivata invece da una specifica scelta discrezionale del legislatore ("voluntas legis"), ed a fronte, infine, della "limitata portata temporale" di una tale questione (disciplina transitoria di nuove norme in tema di arbitrato) "che non potrebbe giustificare una così grave forzatura del dettato normativo" [cfr. RICCI, 10, 976-9771[1]], salvo a ritenere, concludono le Sezioni Unite, che qualora la questione della deferibilità all'arbitro sia stata posta davanti al giudice prima ancora di attivare il procedimento arbitrale, in tale caso, valgono invece "i principi generali della perpetuatio iurisdictionis e tempus regit actum".

2. COMPETENZA DEGLI UFFICI DELLA P.A., LEGITTIMAZIONE, BUONA FEDE E GIUSTO PROCESSO.

La crescente attenzione della giurisprudenza nei confronti del tema del giusto processo è dimostrata anche dalla sentenza Cass. 5 febbraio 2009, n. 2740, avente ad oggetto il problema della rilevanza esterna - ai fini della proposizione dell'atto di impugnazione - di una riorganizzazione degli uffici tributari.

Nel caso esaminato da questa pronuncia si era verificato che il ricorso di un contribuente era stato accolto dalla commissione tributaria provinciale e che, in pendenza del termine per proporre appello, l'Ufficio distrettuale delle imposte dirette era stato sostituito da più uffici dell'Agenzia delle entrate. Uno di questi aveva proposto appello incidentale contro la sentenza, appello dichiarato inammissibile dalla commissione tributaria regionale; nel frattempo, però, un altro Ufficio dell'Agenzia delle entrate, divenuto quello territorialmente competente in rapporto al luogo di residenza del contribuente, aveva proposto un secondo appello contro la medesima sentenza di primo grado, dichiarato anch'esso inammissibile, sul rilievo che il principio della consumazione dell'impugnazione non consentiva la riproposizione di un appello già dichiarato inammissibile.

Questa seconda sentenza della commissione tributaria regionale veniva impugnata per cassazione, lamentando che l'altra pronuncia d'appello fosse da considerare inutiliter data, perché resa nei confronti di un ufficio privo di legittimazione.

La motivazione che la Corte adotta per rigettare il ricorso è di notevole interesse, in quanto si sofferma esplicitamente sul tema del giusto processo. Nella motivazione, infatti, si afferma che, ove si reputasse sussistente la legittimazione del solo ufficio divenuto territorialmente competente - considerando inefficace la sentenza d'appello emessa nei confronti dell'altro - si consentirebbe all'Agenzia delle entrate «di compiere un abuso di difesa o di processo». Nella specie - prosegue la sentenza in commento - l'Agenzia delle entrate, con proprio atto interno di organizzazione, ha modificato la competenza territoriale degli uffici in pendenza del termine per la proposizione dell'appello, in tal modo creando per le controparti processuali «una situazione difficile da conoscere e, conseguentemente, da gestire». D'altra parte, se si riconoscesse ad un atto di riorganizzazione dell'amministrazione tributaria il potere di far considerare inefficaci le sentenze adottate nei confronti di un ufficio incompetente, si darebbe vita ad un processo ingiusto.

Rileva ancora la sentenza n. 2740 in disamina che la modificazione organizzativa degli uffici tributari si sarebbe dovuta risolvere «sul piano amministrativo interno mediante l'assolvimento del dovere di collaborazione tra uffici dello stesso ente pubblico»; dal che deriva il principio di diritto, poi massimato, per cui il mutamento, con atto amministrativo di organizzazione, della ripartizione di competenza territoriale degli uffici di un'agenzia fiscale, adottato in pendenza di un termine d'impugnazione, è un atto interno privo di rilevanza giuridica esterna processuale, in ragione del principio della buona fede oggettiva del contribuente, regolativo del processo tributario.

I principi enunciati da questa pronuncia - poi confermati dalla successiva sentenza 18 settembre 2009, n. 20085 - si ispirano all'autorevole precedente costituito dalla nota sentenza S.U. 15 novembre 2007, n. 23726, in tema di frazionamento del credito [la sentenza è stata annotata in molte riviste. Tra le altre, v. PALMIERI-PARDOLESI, 08, I, 1514; RONCO, 08, 929; ALPINI, 10, 292; DE CRISTOFARO, 08, II, 335; DONADI, 09, II, 347; GOZZI, 08, 1437; FINESSI, 08, 458]. In quella pronuncia, nella quale le Sezioni Unite hanno espressamente preso le distanze da un proprio precedente (diverso) orientamento, già si diceva che il valore della correttezza e della buona fede nei rapporti negoziali deve considerarsi tutelato in modo ancor più pregnante alla luce del principio costituzionale del giusto processo; esso, infatti, impone «una lettura "adeguata" della normativa di riferimento (...), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della "ragionevolezza della durata" del procedimento e della "giustezza" del "processo", inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che "giusto" non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi».

E' interessante notare come entrambe queste pronunce si collochino nel solco dell'orientamento giurisprudenziale, ormai emergente, che tende all'applicazione diretta dei principi costituzionali; nella specie, il principio del giusto processo viene collegato al canone generale della buona fede oggettiva e della correttezza, riguardo al quale la citata sentenza delle Sezioni Unite ha affermato esplicitamente che esso è da considerare ormai "costituzionalizzato", «in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione».

In sostanza - come la sentenza n. 2740 osserva, richiamando quella delle Sezioni Unite ora menzionata - la violazione del principio costituzionale del giusto processo deriva dal fatto che lo strumento processuale utilizzato, in sé astrattamente legittimo, tale non è più in riferimento all'uso che concretamente ne viene fatto. Come, infatti, il creditore di una somma di denaro non può frazionare il credito in più richieste giudiziali di adempimento, benché ciò di per sé non sia vietato, allo stesso modo l'amministrazione finanziaria non può - in nome dell'esigenza, teoricamente esatta, per cui ad impugnare la sentenza sfavorevole deve essere l'ufficio competente - porre a carico del contribuente ignaro le conseguenze per lui sfavorevoli di una propria riorganizzazione interna.

Non può esserci, pertanto, un processo "giusto" ove si compia un uso degli strumenti legali non improntato alle regole della correttezza e non conforme all'obiettivo di procedere verso la decisione di merito; tanto più che il principio del giusto processo è strettamente collegato, nel testo costituzionale, a quello della ragionevole durata[2].

3. IL FORO DELL' "EQUA RIPARAZIONE".

L'equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata dei processi è un istituto introdotto da quasi un decennio - in particolare con la l. 24 marzo 2001 n. 89, divenuta nella prassi nota come "legge Pinto" - con l'obiettivo di garantire una tutela, sia pure di tipo meramente riparatorio, alle parti dei processi che si prolungano oltre quei tempi ritenuti fisiologici ("rectius" ragionevoli) dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo ed oggi anche dal comma 2 dell'art. 111 Cost..

La normativa - ampiamente utilizzata dalle parti processuali a dimostrazione di una chiara patologia del sistema processuale - ha ingenerato, a causa della sua scarsa chiarezza, non pochi problemi sul piano ermeneutico, con la conseguenza, doppiamente paradossale, di ulteriormente ingolfare la macchina giudiziaria e di rendere, in qualche occasione, anche defatigante l'attività processuale dei soggetti che ad essa ricorrono.

La Cassazione è da anni impegnata a districare i nodi interpretativi relativi a numerosi aspetti dell'impianto normativo, quali, a titolo di mero esempio, i presupposti per accedere all'indennizzo, i termini per l'esercizio dell'azione indennitaria, le modalità di determinazione degli indennizzi medesimi, etc..

In quello che è ormai un consistente filone giurisprudenziale, si pongono le due sentenze "gemelle" delle Sezioni Unite del marzo 2010 (Cass. SS. UU. 16 marzo 2010 n. 6306, rv 612155 e n. 6307, rv 612154), con cui si sono indicati i criteri per individuare la corte di appello territorialmente competente a conoscere delle domande di indennizzo relative a procedimenti instaurati innanzi al giudice speciale.

Le decisioni - che hanno radicalmente innovato rispetto al precedente indirizzo della Prima Sezione della Cassazione, certamente consolidato ma per molti aspetti poco convincente - potranno essere apprezzate nella loro novità ripercorrendo brevemente gli aspetti problematici della questione.

La legge n. 89 del 2001 contiene una disposizione che regola la competenza per territorio dei procedimenti aventi ad oggetto la richiesta di equa riparazione, in deroga alle norme del codice di rito.

Si tratta dell'art. 3 che testualmente sancisce "la domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata".

Il testo nasce come un compromesso parlamentare fra due opposte posizioni; all'originaria proposta di legge che prevedeva che la competenza dovesse essere della corte d'appello ove "è iniziato ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata" si era contrapposta, da parte di alcuni parlamentari, la richiesta di creare un organo giusdizionale ad hoc formato da giudici togati e professori universitari.

Nel Parlamento, infatti, si riteneva che i giudici chiamati a decidere sulla richiesta di equo indennizzo potessero essere influenzati qualora operassero nello stesso contesto di quelli che si erano occupati del procedimento presupposto.

La soluzione prescelta ha trovato il plauso di una parte della dottrina [v. RONCO, 02, 261; TARZIA, 01, 2431; MIRATE, 07, 2542], ma è stata da alcuni considerata irrazionale ed incomprensibile, perché nel giudizio ex lege 89/01 non sono parti in causa i magistrati che hanno trattato il processo nel cui ambito si è realizzato il danno, bensì lo Stato, come complessiva organizzazione giudiziaria, nei suoi aspetti sia normativi (complessità dei vari passaggi procedurali) che strutturali (inefficienze e manchevolezze della macchina giudiziaria) [BERTUZZI, 01, 1167; BELFIORE, 02, 347; SACCHETTINI, 07, 43].

Su di un punto, però, la maggioranza degli studiosi è sembrata concordare; la tecnica di scrittura della norma è il frutto di una stesura frettolosa, pensata solo con riferimento alla giurisdizione ordinaria (come dimostrano i riferimenti contenuti in essa al "distretto", ripartizione territoriale tipica dei giudici ordinari, e al "giudice di merito"), trascurando, invece, il fatto che la volontà del legislatore era palesemente quella di voler indennizzare il pregiudizio sofferto a causa dell'eccessiva durata di qualsiasi procedimento giudiziario, celebratosi dinanzi a qualunque giudice.

La Cassazione si è trovata ad affrontare per la prima volta gli aspetti problematici della disposizione nel febbraio del 2003 (Cass. Sez. I, 4 febbraio 2003, n. 1653, rv 560251), essendo chiamata a decidere su un regolamento di competenza in relazione ad un procedimento celebratosi dinanzi il TAR Molise, ma ancora pendente innanzi al Consiglio di Stato.

Il ricorso per richiedere l'equo indennizzo era stata proposto alla Corte di Appello di Bari, ritenuta competente ex art. 11 c.p.p. ma quest'ultima aveva declinato la competenza a favore della Corte di Perugia, in base alla considerazione che il processo presupposto pendeva a Roma dinanzi il Consiglio di Stato.

La Prima Sezione della Cassazione, nell'escludere la competenza di entrambe le Corti "contendenti", ha individuato la Corte di Appello di Roma, ritenendo inapplicabile il criterio previsto dall'art. 3 della l. n. 89/01.

La premessa del ragionamento della Suprema Corte è che avendo la norma della legge Pinto fatto riferimento al "distretto", essa possa essere applicata per i processi celebrati dai soli giudici ordinari, i cui uffici, ad eccezione della Cassazione, sono ripartiti in distretti.

L'assunto trova conforto anche nella ratio legis; l'esigenza di evitare anche un minimo sospetto sull'autonomia e serenità del giudice che dovrà decidere sull'istanza di equa riparazione presuppone l'esistenza di un collegamento funzionale con l'ufficio il cui ritardo ingiustificato si contesta ed è, invece, insussistente quando il procedimento presupposto si sia svolto dinanzi a giudici di altro ordine.

La disposizione della legge n. 89/01 non può, inoltre, essere applicata analogicamente perchè, derogando ai principi generali sulla competenza previsti dal c.p.c., va considerata eccezionale e quindi insuscettibile di estensione ex art. 14 preleggi al codice civile.

Venuta meno la possibilità di riferirsi alla norma speciale, bisogna riferirsi alla normativa generale, prevista dal codice di rito ordinario e, nel caso in questione, essendo parte del processo una pubblica amministrazione, quella contenuta negli artt. 20 e 25 c.p.c..

La parte richiedente l'indennizzo può scegliere fra un doppio foro alternativo e cioè quello del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione; il primo si individua in base al luogo in cui il procedimento presupposto pende o si è concluso, il secondo nel luogo di domicilio del debitore; l'obbligazione di pagamento dell'indennizzo, ai sensi dell'art. 1182, ultimo comma, c.c., riguardando, infatti, una somma di denaro non determinata, è esigibile, in ragione della presenza della Sezione di Tesoreria Provinciale competente - ex artt. 54 R.D. n. 2440 del 1923; 278 lett. d) e 287 R.D. n. 827 del 1924 -, al domicilio del debitore.

La stessa conclusione, corredata da analogo apparato argomentativo, è stato poi ribadita più volte, a distanza di breve tempo, per il caso di processi presupposti celebratisi dinanzi ad altri giudici speciali, in particolare il TAR (Cass. Sez. I, 16 maggio 2003, n. 7721, rv 563237), la Corte dei Conti (Cass. Sez. I, 10 luglio 2003, n. 10902, rv 564971), le Commissioni Tributarie (Cass. Sez. I, 22 settembre 2005 n. 18635, rv 585066).

Nel 2005 alla Suprema Corte viene sottoposto un ulteriore aspetto problematico sempre attinente alla competenza territoriale per i giudizi ex lege n. 89/01; in particolare l'individuazione della corte di appello competente nel caso in cui la irragionevole durata riguardasse un processo pendente in Cassazione.

Mutuando quanto già affermato con riferimento ai casi di giudizio presupposto svoltisi dinanzi a organi della giurisdizione speciale, la Prima Sezione della Corte ha escluso la possibilità di applicare la regola di competenza contenuta nell'art. 3 della legge n. 89/01, in quanto la Cassazione non è giudice organizzato su base distrettuale (Cass. Sez. I, 22 luglio 2005, n. 15482, rv 583045).

La competenza andrà individuata anche in questo caso secondo le norme del c.p.c. (artt. 20 e 25) ed il foro alternativo, quindi, sarà quello della corte di appello del luogo in cui è sorta o in quello dove deve eseguirsi l'obbligazione.

Dalla lettura della motivazione dell'ordinanza non si comprendeva con chiarezza se l'inapplicabilità dell'art. 3 della l. n. 89/01 dovesse considerarsi limitata al solo caso in cui si sia contestata l'irragionevole durata collegata alla fase del processo celebrato in Cassazione o in tutti i casi il giudizio sia approdato al vaglio di legittimità.

Proprio in funzione di illuminare questo aspetto rimasto in ombra, la medesima Sezione, in altra occasione di poco successiva (Cass. Sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20271, rv 584206), ha precisato che il giudizio, i cui tempi irragionevoli sono oggetto della richiesta di indennizzo, va considerato un unicum, senza che sia possibile una scissione di fasi, in relazione al petitum della parte istante.

Quando esso si conclude in Cassazione, a prescindere se la contestazione dell'irragionevole durata riguarda la fase di legittimità, è in questa sede - e, quindi, a Roma - che deve ritenersi realizzata la fattispecie legale costitutiva dell'indennizzo ex lege per cui la competenza per i giudizi dell'equo indennizzo andrà sempre individuata sulla scorta dell'art. 25 c.p.c..

Con questa decisione, il quadro giurisprudenziale poteva ritenersi consolidato ed indiscusso, anche perché l'interpretazione dell'art. 3 della legge Pinto, ritenuta vero e proprio diritto vivente, nel 2007 riceveva anche il positivo vaglio dalla Consulta che ne escludeva ogni profilo di incostituzionalità e di irragionevolezza (Corte Cost. 4-17 luglio 2007, n. 287).

La riferita soluzione giurisprudenziale dava luogo a quello che non è esagerato definire come un paradosso; l'art. 3 della legge n. 89/01, voluto dal legislatore quale regola ordinaria e generale per individuare la corte d'appello competente nei giudizi in materia di indennizzo, diventava un criterio sostanzialmente residuale, nel momento in cui si escludeva la sua applicabilità sia nei casi in cui il processo presupposto si fosse celebrato dinanzi ad un giudice speciale sia quando quello ordinario si fosse concluso in Cassazione.

Ma il punctum dolens dell'opzione ermeneutica era soprattutto un altro: facendo applicazione del diritto vivente giurisprudenziale sarebbe potuto capitare, in casi tutt'altro che infrequenti, che a giudicare della richiesta di equo indennizzo sarebbe stata, in contrasto con la voluntas legis, proprio la corte di appello dello stesso distretto in cui si era celebrato il processo presupposto nella fase di merito.

A titolo esemplificativo, si pensi al caso di una richiesta di equo indennizzo presentata da un residente nel Lazio rispetto ad un procedimento che, nei gradi di merito, si era svolto dinanzi a giudici del distretto di Roma e concluso in Cassazione; l'unico giudice competente, in base al c.p.c., sarebbe stato la Corte d'Appello di Roma.

Inoltre, l'applicazione della regola giurisprudenziale esponeva al rischio che la Corte d'Appello capitolina risultasse oberata di ricorsi ex lege Pinto; quest'ultima, infatti, sarebbe stata uno dei fori competenti nei casi, numericamente significativi, di processi presupposto sia celebratisi dinanzi la giurisdizione ordinaria e conclusi sperimentando tutti e tre i gradi del giudizio sia celebratisi dinanzi a giudici speciali anche in grado di appello, in quanto gli organi che fungono da giudici del gravame, sia nel caso della giurisdizione amministrativa che in quella contabile (Consiglio di Stato e Corte dei Conti), siedono entrambi a Roma.

Anche facendosi carico dei problemi concreti di cui si è fatto cenno, con due ordinanze interlocutorie la medesima Prima Sezione ha rimesso la questione ermeneutica alle Sezioni Unite (Cass. Sez. I, 16 febbraio 2009, n. 3730 e Cass. Sez. I, 16 marzo 2009, n. 6349).

Le due decisioni delle Sezioni Unite del 2010, caratterizzate da un impianto motivazionale identico, giungono alla conclusione di cui si è fatto già cenno poco sopra, ponendosi in premessa un obiettivo esplicito; intendono individuare nell'art. 3 della legge n. 89/01 "un'interpretazione, che, non incompatibile con il suo dato letterale, ne col[ga] le ragioni ed al tempo stesso assicur[i] una uniforme interpretazione della norma per tutta l'area del contenzioso originato dalla legge n. 89 del 2001".

Le Sezioni Unite, quindi, ritengono che possa essere percorsa una strada che dimostri l'autosufficienza della legge Pinto per individuare la regola sulla competenza per territorio, senza attingere ai criteri generali del codice di rito.

Esse sono, però, consapevoli che per raggiungere l'obiettivo bisogna aggirare un ostacolo di natura letterale e cioè il riferimento contenuto nell'art. 3 della legge n. 89/01 al "distretto".

Quella parola aveva impedito, infatti, l'applicazione della norma ai giudizi presupposti celebrati (rectius conclusi) dinanzi a giudici con una competenza non distrettuale ma estesa all'intero territorio nazionale (in primis, Corte di Cassazione ma anche Consiglio di Stato e Corte dei Conti) e a quelli svoltisi dinanzi alle circoscrizioni territoriali delle giurisdizioni speciali che non possono essere accomunati ai distretti.

Con le due decisioni in esame viene proposta una diversa lettura del dettato normativo; si sostiene, in primo luogo che bisogna tener conto non del luogo in cui il giudizio presupposto si è concluso ma della "sede del giudice di merito distribuito sul territorio ... davanti al quale il giudizio è iniziato"; in secondo luogo si contesta che sia indispensabile interpretare in maniera letterale il riferimento territoriale in discussione.

"Distretto" non va inteso, quindi, come distribuzione territoriale tipica della sola giurisdizione ordinaria, ma "il termine...[invece] appartiene al criterio di collegamento, che il legislatore importa dalla legislazione processuale penale e che la sua valenza di delimitare un certo ambito territoriale può funzionare in modo identico, quale che sia l'ufficio giudiziario davanti al quale il giudizio presupposto è iniziato e l'ordine giudiziario cui appartiene, perché dell'ufficio giudiziario viene in rilievo la sede e non l'ambito territoriale di competenza".

Superati in tal modo gli ostacoli letterali, non vi sono ragioni perché possa essere l'art. 3 della legge n. 89/01 a regolare la competenza per territorio in qualsivoglia caso di richiesta di indennizzo per l'irragionevole durata del processo.

Basterà verificare il luogo in cui è iniziato il procedimento presupposto ed - indipendentemente dalla natura del giudizio - accertare a quale distretto appartenga; successivamente basterà applicare l'art. 11 c.p.p. per stabilire a quale corte di appello avanzare la richiesta.

Esemplificando, se il giudizio presupposto è cominciato dinanzi al Tar di Milano, essendo questa città ricompresa nel distretto omonimo ed essendo il distretto competente ex art. 11 quello di Brescia, a questa Corte di Appello andrà proposta la richiesta di indennizzo [3].

La soluzione adottata dalle Sezioni Unite risponde a criteri di maggiore razionalità; in questo senso si sono pronunciati i primissimi (ed ad oggi sporadici) commenti dottrinali [PIOMBO, 10, 1131].

Essa evita i numerosi inconvenienti di cui poco sopra si è fatto cenno, che conseguivano dall'assetto ipotizzato dalla giurisprudenza della Prima Sezione e rende definitivamente chiaro per il cittadino che intende dolersi delle lungaggini processuali a quale corte d'appello rivolgersi.

Dopo i due arresti della Cassazione sarà il solo art. 3 della legge n. 89 del 2001 che consentirà di individuare la corte di appello competente e quest'ultima non sarà mai quella del luogo in cui - dinanzi al giudice di qualsiasi ordine - si è celebrato il giudizio presupposto, creando un giusto distacco ambientale fra il giudice che dovrà valutare l'irragionevole durata e quello del processo sottostante, in quanto commistioni ambientali potrebbero esistere anche fra giudici appartenenti ad ordini diversi.

Infine, l'opzione proposta è destinata a favorire "la diffusione del contenzioso sull'intero sistema delle corti di appello", evitando il rischio della concentrazione dei giudizi di equo indennizzo presso la Corte romana.

. BIBLIOGRAFIA

1.L'arbitrato, il regolamento di competenza ed il regime transitorio del d.lgs. n. 40 del 2006.

BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in Riv. Arb., 3/2007, 368;

RICCI, Nooo! (La tristissima sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Cassazione: da garanzia in cerca di attuazione a “killer” di garanzie), in Riv. Dir. Proc., Luglio-Agosto 2010, 976-977;

VERDE, Ancora sulla pendenza del procedimento arbitrale, in Riv. Arb., 2/2009, 224 e nota 7.

2. Competenza degli Uffici della P.A., legittimazione, buona fede e giusto processo.

PALMIERI-PARDOLESI, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile, in Foro ital. 2008, I, 1514;

RONCO, (Fr)azione: rilievi sulla divisibilità della domanda in processi distinti, in Giur. ital. 2008, 929;

ALPINI, Il “frazionamento giudiziale del credito unitario” nel “giusto processo” civile, in Rass. dir. civ. 2010, 292;

DE CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi di giudicato, in Riv. dir. civ. 2008, II, 335;

DONADI, Buona fede, solidarietà, esercizio parziale del credito, in Riv. dir. civ. 2009, II, 347;

GOZZI, Il frazionamento del credito in plurime iniziative giudiziali, tra principio dispositivo e abuso del processo, in Riv. dir. process. 2008, 1437;

FINESSI, La frazionabilità (in giudizio) del credito: il nuovo intervento delle sezioni unite, in La nuova giur. civ. comment. 2008, 458.

3. Il foro dell'"equa riparazione".

BELFIORE, Riflessioni sull' <equa riparazione> del danno da non ragionevole durata, in Giur. Merito, 2002, I, 347;

BERTUZZI, Violazione del principio di ragionevole durata del processo e diritto all'equa riparazione, in Giur. Merito, 2001, IV, 1167;

MIRATE, Equa riparazione per durata irragionevole del processo dinnanzi alle giurisdizioni speciali: la competenza territoriale non si determina ex art. 11 c.p.p., in Resp. Civ. e Prev., 2007, 2542;

PIOMBO, Osservazioni a Cass. Sez. Un. nn. 6306 e 6307 del 2010, in Foro It. 2010, 1131;

RONCO, L'azione di condanna all'equa riparazione e la disciplina del procedimento, in CHIARLONI, Misure acceleratorie e riparatorie contro l'irragionevole durata dei processi, Torino, 2002, 261;

SACCHETTINI, Il sistema previsto dalla legge Pinto è valido solo per le cause ordinarie, in Guida al diritto Il Sole24 Ore, 2007, 32, p. 43;

TARZIA, Sul procedimento di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, in Giur. It., 2001, 2431.

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  • procedimento giudiziario

CAPITOLO III

VIZI DEL PROCESSO E DIRITTO AL CONTRADDITTORIO. PUNTI DI EQUILIBRIO TRA GARANZIE E RAGIONEVOLE DURATA

(di Marco Rossetti, Loredana Nazzicone, Maria Acierno )

Sommario

1 PATOLOGIE COMUNI AI TRE GRADI DEL PROCEDIMENTO. - BIBLIOGRAFIA - 2 LE PATOLOGIE NELLE IMPUGNAZIONI. - 1 Introduzione. - 2 Vizio di contraddittorio per difetto del litisconsorzio: giudizio di irrilevanza. - 3 Vizio di contraddittorio per difetto di notifica: preferita la stabilità della decisione. - 4 Vizio di contraddittorio per difetto di notifica: è ammessa l'attività sanante. - 5 In tema di giudizio di appello. - 6 Mancato deposito della copia autentica notificata della sentenza di appello: ricorso improcedibile. - 7 Particolare rilevanza data al riscontro dell'interesse ad impugnare per cassazione. - 8 Rilievo d'ufficio del giudicato esterno. - BIBLIOGRAFIA - 3 LE PATOLOGIE TRASVERSALI AI DIVERSI GRADI DEL GIUDIZIO E QUELLE INERENTI I PROCEDIMENTI SPECIALI. - 1 Legittimazione ad agire, introduzione e formulazione della domanda. - 2 Fissazione del thema decidendum, deduzione ed assunzione delle prove. - 3 Interruzione e riassunzione del processo. - 4 Superamento dei formalismi nelle impugnazioni. - BIBLIOGRAFIA (relativa all'anno 2010)

1. PATOLOGIE COMUNI AI TRE GRADI DEL PROCEDIMENTO.

Le garanzie costituzionali del giusto processo, fondate sulla crucialità del diritto al contraddittorio, vivono negli orientamenti processuali più recenti della giurisprudenza di legittimità una fase di accentuazione della tensione dialettica, peraltro entro certi limiti fisiologica, con le esigenze di celerità e speditezza della tutela giurisdizionale solennemente richiamata dal principio, anch'esso di rango costituzionale, della ragionevole durata del processo. Il diretto richiamo al parametro del giusto processo contenuto nell'art. 360 bis, n. 2 cod. proc. civ., del resto, richiede una rigorosa valutazione delle norme e dei principi processuali alla luce della loro effettività, indicando un criterio di selezione delle garanzie processuali (Salmè, 2009, 441) che tende fisiologicamente a devalorizzare quelle di natura esclusivamente formale soprattutto se d'intralcio alla progressione del procedimento. C'è, dunque, un forte impegno nomofilattico della Corte verso un'applicazione dei principi processuali interpretati alla luce di un attento esame dell' esplicazione concreta del diritto di difesa in tutte le sue articolazioni procedimentali ed in rapporto all' interesse ad agire che, per il progressivo impatto sul sistema processuale preesistente e su alcune opzioni interpretative tradizionalmente stabili, ha sollevato significative voci critiche da parte della dottrina (Caponi, Dalfino, Proto Pisani, Scarselli, 2010, 1794 e Barone, Caponi, Costantino, Dalfino, Proto Pisani, Scarselli, 2010, 3035; Ricci, 2010, 975). Le ragioni di dissenso presentano gradazioni diverse.

Le più radicali (Ricci, 2010, 975 e Caponi ed altri, 2010, 1794) ritengono che la Corte in alcune recenti pronunce che verranno esaminate analiticamente ha sostituito la norma processuale scritta con una diversa, non desumibile né dalla sua intepretazione letterale, peraltro chiara, né dalla sua interpretazione sistematica, arrivando a individuare una lesione del principio di riserva di legge contenuto nell'art. 111, primo comma, Cost (Graziosi, 2010, 37) e a qualificare come meramente programmatico il canone della ragionevole durata del processo (Caponi ed altri cit., 2010, 1795).

Altri autori (Consolo, 2010, 355 e 978) sottolineano il rilievo dell'interesse ad agire nello scrutinio di indispensabilità delle garanzie processuali; altri, infine, (Costantino, 2010, 1026) pur attribuendo al principio della ragionevole durata del processo un valore precettivo, come del resto ampiamente riconosciuto dalla Corte Costituzionale, escludono che a tale principio debba essere conferito rilievo di criterio interpretativo prevalente su tutti gli altri come riscontrato negli sviluppi più recenti della giurisprudenza di legittimità.

Una delle pronunce che ha sollevato forti perplessità in dottrina, per le ragioni sopra elencate, è la sentenza delle S.U. n. 4309 del 2010, rv 611567 che ha mutato l'interpretazione fino ad allora sostanzialmente costante dell'art. 269 secondo comma cod. proc. civ., stabilendo che "In tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario di cui all'art. 102 cod. proc. civ., è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell'art. 269 cod. proc. civ., come modificato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353; conseguentemente, qualora sia stata chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo, in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, motivando la propria scelta sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo".

La norma ha un contenuto letterale chiaro. Stabilisce a carico del convenuto che voglia chiamare in causa un terzo di farne dichiarazione nella comparsa di risposta e provvedere nel termine di costituzione tempestiva a richiedere al giudice, a pena d'inammissibilità, lo spostamento della prima udienza al fine di consentire la corretta instaurazione del contraddittorio. Il giudice verificata la tempestività della richiesta "provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza". Non è previsto il preventivo sindacato giudiziale sull'esistenza delle ragioni di connessione idonee a giustificare il simultaneus processus" perché per il principio della parità delle armi, al convenuto deve essere consentito nella fase d'instaurazione del giudizio la medesima facoltà di estendere soggettivamente il contraddittorio che è consentita all'attore con l'atto introduttivo del giudizio (così Corte Cost. n. del 1997, investita della questione di legittimità della norma).

La pronuncia delle S.U. ha sovvertito questo consolidato orientamento ritenendo al contrario che anche in tale fase preprocessuale sia consentito al giudice di rifiutare l'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo richiesta dal convenuto, non tanto perché difettino le ragioni di connessione, senz'altro ravvisabili nelle domande di manleva o nelle azioni di regresso come quelle poste a base della richiesta tempestivamente formulata dalle parti convenute, ma in virtù della prevalenza delle ragioni di economia processuale.

La dottrina, in questo caso, in modo corale (tutti gli autori sopra richiamati, anche quelli caratterizzati da toni critici più moderati come Consolo, 2010, 978) non ha mancato di sottolineare che una lettura della norma che si contrappone sia al significato letterale sia all'interpretazione della Corte Costituzionale determina il duplice effetto di abrogare e sostituire la disposizione preesistente ovvero un'operazione decisamente non riconducibile alla nomofilachia. Inoltre la soluzione sembra eccentrica anche rispetto all'obiettivo che si prefigge dal momento che il simultaneus processus, anche nei più recenti orientamenti della Corte in tema di riunione di procedimenti in sede di legittimità, è uno strumento accelleratorio oltre che razionale, se adottato all'inizio del procedimento e logicamente destinato ad evitare il virtuale contrasto di giudicati.

La Corte, peraltro, giustifica la sua opzione, sottolineando la differenza ontologica tra litisconsorzio necessario che impone il simultaneus processus (sia pure con qualche limitazione, come verrà evidenziato nell'esame delle pronunce più recenti in tema d'integrazione doverosa del contraddittorio) e litisconsorzio facoltativo che lascia al giudice la valutazione discrezionale dell'opportunità della contestuale trattazione della causa, anche in presenza di domande connesse.

La pronuncia suggerisce, in conclusione, l'esigenza d'indagare in modo molto approfondito la valenza garantistica di norme che possono apparire meramente ordinatorie o organizzatorie, quali quelle destinate a regolare la gestione del processo secondo l'obiettivo costituzionale della sua ragionevole durata. Ciò anche nella nuova prospettiva interpretativa contenuta nell'art. 360 bis n. 2 cod. proc. civ.

E' proprio il binomio costituito dal crescente rilievo del canone della ragionevole durata del processo e dalle esigenze d'innovazione interpretativa poste dall'art. 360 bis n. 2 cod. proc.civ. a destare le maggiori preoccupazioni della dottrina che, partendo dalla pronuncia in esame, muove una critica più generale alla creatività giurisprudenziale della Corte ritenendo che le norme processuali non possono ridursi a pochi principi, attraverso una bipartizione che relega tutte le altre a disposizioni che il giudice non ha il dovere di osservare ma può sacrificare in nome del valore della ragionevole durata, dovendo invece ritenersi che tutte le norme processuali abbiano un identico valore precettivo ed imperativo cui il giudice non può sottrarsi per due ragioni.

La prima perché c'è un'immanente norma di etica processuale (Caponi, 2010, 311) che impone la preconoscenza del precetto che regola il processo e la sua immutabilità in corso di procedimento; la seconda perché "il giudice deve avere nel processo se non quei poteri che il legislatore gli ha concesso" (Caponi ed altri, 2010, 3035).

Tuttavia, una lettura meno riduttiva dei più recenti orientamenti della Corte conduce ad escludere che si stia innescando un processo di differenziazione delle norme processuali in norme ad osservanza rigida (quelle direttamente esplicative dei principi regolatori del giusto processo) e norme ad osservanza flessibile "conformabili" alle esigenze della ragionevole durata.

Come può evidenziarsi dagli orientamenti in tema di litisconsorzio necessario e di diritto al contraddittorio con riferimento al rilievo officioso delle questioni, la Corte ritiene che tutte le garanzie processuali abbiano pari dignità se effettivamente correlate all'esercizio del diritto costituzionale (art. 24) ad ottenere la tutela giurisdizionale di un proprio diritto mentre non è necessario gravare il processo (ed il diritto ad ottenere una sentenza sul merito) di attività processuali che rispecchiano esclusivamente il rispetto di garanzie formali ma nulla aggiungono alla concreta articolazione delle difese delle parti.

In questa prospettiva si colloca il più recente orientamento in tema di litisconsorzio necessario espresso, con ampio risalto critico (Ricci, 2010, 975) nella sentenza n. 3830 del 2010 rv 611765 ma che non può ritenersi una novità o un revirement risultando coerentemente anticipato in alcune pronunce del 2008 e del 2009 (Cass. n. 26373 del 2008, rv 604036 e 18410 del 2009 rv 609119).

In questi precedenti, attraverso il paradigma della ragionevole durata del processo inteso come canone che impone al giudice di evitare ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso quali quelli che si traducono in un inutile dispendio di energie processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e dalla concreta articolazione del diritto di difesa, la Corte non ha disposto l'integrazione del contraddittorio, in un caso nei confronti di una parte totalmente vittoriosa in appello, attesa la palese inammissibilità del ricorso per cassazione (Cass. n. 26373 del 2008), nell'altro (Cass. n. 18410 del 2009) nei confronti di un ex conduttore con riferimento ad un contratto incontestamente risolto con prosecuzione della conflittualità per domande accessorie cui il litisconsorte era estraneo.

Come osservato da una parte della dottrina (Consolo, 2010, 979) difetta radicalmente l'interesse della parte a partecipare ad un giudizio rispetto al quale è del tutto priva d'interesse, anche se formalmente non ancora estranea.

Il rilievo dell'economia processuale, contrariamente a quanto evidenziato per la pronuncia relativa alla nuova interpretazione dell'art. 269, secondo comma cod. proc. civ., coincide con l'effettività della tutela e garantisce l'interesse della parte sostanzialmente estranea al giudizio a non sostenere spese processuali anche in via temporanea inutilmente lesive della sua piena ragione.

All'interno di questa prospettiva attenta al profilo dell'effettività del risultato verso cui tende il giudizio si colloca la sentenza n. 3830 del 2010 rv 611765, che è così massimata "Nel processo di cassazione, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, ma va disposta la riunione quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell'esistenza e del contenuto dell'atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da: (1) identità oggettiva quanto a "causa petendi" dei ricorsi; (2) simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; (3) simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; (4) identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. In tal caso, la ricomposizione dell'unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall'art. 111, secondo comma, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l'osservanza di formalità superflue, perché non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio".

Questa pronuncia è stata aspramente criticata (Ricci, 2010, 975) per due ragioni. La prima perché sacrifica una norma cardine per le garanzie difensive della parte pretermessa, consacrata negli art. 354 e 383 cod. proc. civ. e non una norma a contenuto meramente ordinatorio, rispetto alla quale il giudice non ha alcun potere "dispositivo" ma è tenuto ad osservarla senza deroghe. La seconda perché la Corte nello sviluppo della motivazione non si sarebbe chiesta quale sarebbe stata la soluzione nel caso in cui le due decisioni non fossero state identiche ovvero una sola fosse stata impugnata ma ha fatto conseguire l'ininfluenza del vizio di costituzione del contraddittorio da un fatto meramente casuale quale quello del parallelo andamento dei due giudizi identici.

Un temperamento di questa prospettiva critica (Consolo, 2010,798) pone invece in evidenza che la soluzione della Corte ancorché temporalmente anteriore all'entrata in vigore dell'art. 360 bis n. 2 cod. proc. civ., ne costituisce un sorta di prova tecnica di applicazione perché introduce nel criterio di selezione delle garanzie processuali del contraddittorio l'elemento discretivo dell'effettività della lesione. Ove la lesione manchi, come nei precedenti indagati del 2008 e del 2009 o, ove sia rimediabile con una norma di organizzazione come quella che consente la riunione, non c'è ragione di far retrocedere il processo.

La soluzione si fonda sul rapporto tra la lesione della garanzia processuale e la concreta articolazione del diritto di difesa delle parti. Se dalla mancata retrocessione del giudizio non deriva alcuna carenza difensiva in quanto la pienezza del contraddittorio è garantita mediante la riunione dei procedimenti identici in modo da avere tutti i litisconsorti in un unico procedimento, tale retrocessione si rivela, essa sì, una lesione del diritto ad un giusto processo sotto il profilo del raggiungimento, senza abusi, di una decisione rapida che risolva il merito della controversia senza violare i poteri difensivi e la parità delle armi delle parti.

Del tutto coerente con queste premesse è l'orientamento della Corte in ordine alle questioni rilevabili d'ufficio e all'obbligo di sottoporle al preventivo vaglio del contraddittorio delle parti, attualmente sancito nell'art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. La sanzione di nullità per le sentenze cosiddette "a sorpresa", perché fondate su una questione di diritto o di fatto non emersa nel corso della trattazione, in violazione dell'art. 183, quarto comma, cod. proc. civ., costituisce, in linea generale, un punto fermo negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità ma negli sviluppi giurisprudenziali più recenti è emersa anche in questo ambito una chiave interpretativa dell'ambito applicativo del principio, che ne sottolinea la coerenza con il principio per cui la retrocessione o il rallentamento del processo possono essere giustificati solo dalla effettiva lesione del diritto al contraddittorio.

In particolare questo orientamento è stato ampiamente argomentato nella sentenza delle S.U. n. 20935 del 2009 rv 610517 con la quale la Corte ha stabilito che "nel caso in cui il giudice esamini d'ufficio una questione di puro diritto, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire su di essa l'apertura della discussione (c.d. terza via), non sussiste la nullità della sentenza, in quanto (indiscussa la violazione deontologica da parte del giudicante) da tale omissione non deriva la consumazione di altro vizio processuale diverso dall' "error iuris in iudicando" ovvero dall' "error in iudicando de iure procedendi", la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato: qualora invece si tratti di questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, la parte soccombente può dolersi della decisione, sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini, con la conseguenza che, ove si tratti di sentenza di primo grado appellabile, potrà proporsi specifico motivo di appello solo al fine di rimuovere alcune preclusioni (specie in materia di controeccezione o di prove non indispensabili), senza necessità di giungere alla più radicale soluzione della rimessione in primo grado, salva la prova, in casi ben specifici e determinati, che sia stato realmente ed irrimediabilmente vulnerato lo stesso valore del contraddittorio".

Questo orientamento ha trovato una coerente puntualizzazione nelle successive pronunce n. 6051 del 2010 rv612079, 9702 del 2010 rv 613428 e 10062 del 2010 rv 612587 nelle quali il discrimine, ai fini della retrocessione nel precedente grado del giudizio, in caso di consumazione della nullità derivante dalla mancata attivazione del contraddittorio per omessa trattazione preventiva di questione rilevabile d'ufficio, è determinato dall'esistenza di un'effettiva lesione del diritto di difesa, riscontrabile solo quando la parte che se ne dolga prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere in sua difesa qualora il contraddittorio sulla predetta eccezione fosse stato tempestivamente attivato, in quanto, alla stregua del canone costituzionale di ragionevole durata del processo, detta indicazione non costituisce un adempimento fine a sé stesso, la cui omissione è censurabile in sede d'impugnazione a prescindere dalle sue conseguenze pratiche, ma assume rilievo solo in quanto finalizzata all'esercizio effettivo dei poteri di difesa (6051 del 2010).

Come può rilevarsi, il criterio differenziale costituito da questione di diritto e questione di fatto è superato dal rilievo della centralità della questione rilevata d'ufficio ai fini della decisione e della introduzione di un campo d'indagine e di esercizio di facoltà difensive ancora attivabili ed incidenti sulla decisione. La questione deve comportare nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti che modifichino il quadro fattuale e determinino l'esigenza di nuove allegazioni e deduzioni istruttorie.

Per questa ragione se la decisione è fondata sul corretto computo dei termini feriali ancorché non sia stata esaminata nel precedente grado, non è necessaria la retrocessione del giudizio, mentre il rigetto di una domanda di provvigioni da mediazione fondata sulla mancata iscrizione all'albo dell'attore, mai sollevata in precedenza, determina la nullità della sentenza e la piena riespansione del diritto al contraddittorio.

Questa nuova prospettiva ricca di implicazioni ai fini del corretto inquadramento del nuovo art. 101 secondo comma cod. proc. civ., da alcuni definita una norma dai confini tendenzialmente illimitati (Buoncristiani, 2009, 399) pur essendo contrastata da una parte della dottrina, che ritiene doverosa la retrocessione per ogni decisione a sorpresa senza alcuna selezione della natura e delle conseguenze difensive della questione trattata ( Buoncristiani, 2009, 412), risulta invece ben accolta da altra parte della dottrina (Consolo, 2010, 355) che ne sottolinea la sostanziale aderenza con il principio del raggiungimento dello scopo dell'atto che governa il regime delle nullità.

Risulta centrale, nella valutazione della Corte, la "causalità del vizio" (Consolo, 2010,359) alla luce del quale "ogni qual volta non si individui nel mancato contraddittorio un contenuto ed uno scopo reale, tale circostanza opererà come un fatto sopravvenuto sanante la nullità dell'atto omesso per mancanza di uno scopo dell'atto". Analogamente se la parte si limiterà a dedurre la carenza nell'attivazione doverosa del contraddittorio senza indicarne le conseguenze e specificare quali siano le facoltà difensive compresse e da ripristinare, la garanzia della retrocessione del giudizio non potrà operare.

Sia pure nei confini dettati, anche per questa tipologia di lesione del contraddittorio, l'art. 101 novellato non ha fatto altro che cristallizzare in forma normativa la garanzia dell'effettivo ripristino della parità delle armi che la giurisprudenza di legittimità aveva ampiamente promosso e ormai metabolizzato, sottolineando la necessità della preconoscenza del quadro delle questioni trattate e tendenzialmente del quadro normativo applicabile (salva l'operatività entro questi limiti del principio iura novit curia).

Questa peculiare esigenza, avvertita da autorevole dottrina (Caponi, 2010, V, 311; Proto Pisani, 2010, 302) si colloca al centro di due recenti decisioni che hanno suscitato ampio dibattito e, limitatamente alla decisione relativa alla dimidiazione del termine di costituzione per l'opponente nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, forti accenti critici.

Da un lato si è sviluppato un orientamento fondato su un'ampia ed articolata riflessione relativa all'ambito di applicazione del diritto della parte incolpevole ad essere rimessa in termini, alla luce dei principi del giusto processo elaborati in sede EDU, dalla nostra Corte Costituzionale, dalle altre giurisdizioni (l'errore scusabile del processo amministrativo) e dal dibattito dottrinario che ha promosso l'introduzione del nuovo art. 153, secondo comma cod. proc. civ. (14627/2010 rv 613684 cui sono seguite 15809/2010 rv 613934 e 15811/2010 non massimata).

In tali pronunce è stata sottolineata la centralità del principio di legalità processuale sotto il peculiare profilo della garanzia della chiara predeterminazione della disposizione processuale applicabile sia quando provenga direttamente dalla legge sia quando, derivi dall'esercizio della nomofilachia della Corte e sia, conseguentemente frutto del cd. diritto vivente.

Dall'altro con S.U. n. 19246 del 2010 rv 614394, secondo la severa valutazione della pressoché unanime dottrina, si è violato il principio della legalità processuale, introducendo un nuovo e più restrittivo regime del termine perentorio di costituzione dell'opponente, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, peraltro operante in modo automatico ed indipendentemente dall'esercizio della facoltà correlata di dimezzare il termine di comparizione.

Con l'affermazione di questa nuova regola processuale si è verificato l'effetto dell'inammissibilità sopravvenuta (ed il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo opposto) di tutti i procedimenti di opposizione nei quali l'opponente aveva sfruttato il termine ordinario di costituzione, in mancanza di un dimezzamento del termine di comparizione, secondo l'orientamento precedentemente affermatosi in modo unanime. (S.U. n. 19246/2010 rv 614394). Le due pronunce possono essere specularmente messe a confronto perché in entrambe si pone il medesimo problema degli effetti sui processi in corso dell'overruling riguardante l'interpretazione e l'applicazione delle norme processuali.

La sentenza n. 14627 del 2010 così massimata "Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell'art. 184-bis cod. proc. civ., "ratione temporis" applicabile, anche in assenza di un'istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d'inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione dovuto alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso" pur ampiamente apprezzato dalla dottrina, può creare qualche perplessità riguardante l'ampiezza delle sue potenziali implicazioni, sia con riguardo all'overruling di natura sostanziale, sia con riguardo alla corretta individuazione di un "orientamento consolidato" sia, infine, con riferimento all'eventuale applicabilità ad orientamenti relativi ai Tribunali e alle Corti d'appello. La pronuncia sembra dare risposte chiare agli interrogativi che si sono posti all'indomani della sua pubblicazione.

Il problema della predeterminazione delle regole riguarda il processo ed, in particolare le disposizioni che ne disciplinano le scansioni temporali con decadenze e termini perentori.

L'orientamento come nel caso di specie, deve essere consolidato e costante al momento dell'esercizio del diritto di azione o di altra facoltà processuale, per effetto del mutamento, divenuta tardiva. L'inammissibilità sopravvenuta deve essere, inoltre, casualmente ricollegabile in via esclusiva solo all'osservanza dell'orientamento consolidato ed avere contenuto restrittivo od impeditivo dell'esercizio di un'iniziativa processuale.

Essa, infine, non può essere frutto di una scelta tra diverse opzioni ugualmente desumibili da orientamenti non conformi in sede di legittimità. Entro questi limiti, il diritto ad essere rimessi in termini, sia ai sensi dell'abrogato art. 184 bis cod. proc. civ. la cui applicazione deve essere estesa, in virtù di un'interpretazione costituzionalmente orientata, anche alle nullità extraformali, sia a maggior ragione ai sensi del novellato art. 153 cod. proc. civ., deve essere sempre garantito, trattandosi di un diritto processuale che così circoscritto non mina la certezza delle regole del processo ma anzi la rafforza.

Nella pronuncia delle S.U. n. 19246 del 2010, i rilievi critici della dottrina, sostanzialmente riprodotti fedelmente nei primi provvedimenti dei giudici di merito che hanno affrontato le conseguenze dell'overruling della Corte, sono stati rivolti, in particolar modo, all'asserita scarsa considerazione degli effetti del mutamento d'orientamento sui giudizi pendenti. Al di là della condivisione del nuovo orientamento, sostanzialmente negata dalla dottrina (Caponi etc., 2010, 3035) e dalla giurisprudenza di merito, che in alcuni distretti ha continuato ad applicare il precedente "diritto vivente", la maggiore attenzione degli interpreti è stata rivolta verso la ricerca di una soluzione che non determinasse un sovvertimento del diritto della parte che abbia posto in essere un'iniziativa processuale conforme al diritto "vivente" al momento del suo esercizio, ad una pronuncia di merito (art. 24 Cost.) e che minasse il complesso delle garanzie del giusto processo così come costituzionalizzate nell'art. 111 Cost.

La incontestata consapevolezza della valenza normativa del diritto vivente ha, conseguentemente, orientato la quasi totalità degli interpreti a ritenere che gli effetti dell'overruling si debbano produrre solo in ordine "ai giudizi di opposizione il cui atto introduttivo sia stato notificato dopo la data di pubblicazione della sentenza" (Morelli, Sole 24 Ore del 23/10/2010), ma ha dato anche vita ad iniziative legislative volte ad eliminare la nuova norma di creazione giurisprudenziale (d.d.l. 2380/S/XVI e il d.d.l. n. 2386/X/XVI). Queste ultime due pronunce, dunque, pongono in luce un nuovo ed incalzante versante d'indagine ed approfondimento emergente dalla sempre maggiore incisività degli interventi nomofilattici della Corte in ordine alle regole processuali che un'autorevole dottrina con riferimento alle sentenze processuali delle S.U. non ha esitato a definire "additive" (Carpi, 2010, 587).

La decisa opzione verso lo jus costitutionis e la spinta adeguatrice posta dal costituzionalizzato canone della ragionevole durata del processo determinano una decisa inclinazione degli orientamenti processuali verso una valutazione rivolta in modo prevalente, se non esclusivo, verso l'effettività delle garanzie costituzionali del giusto processo e un arretramento complessivo delle opzioni meramente formalistiche, ma nello stesso tempo possono, per la frequenza e l'ampio raggio d'azione verso il quale si sono diretti, concorrere a determinare una condizione d'incertezza applicativa delle norme processuali, in quanto molto esposte a sollecitazioni ed opzioni interpretative fortemente innovative. A tali paventati rischi peraltro può porsi rimedio mediante il tradizionale sistema garantista della successione nel tempo delle leggi processuali, vivificato dal principio costituzionale di legalità delle norme processuali e dalle univoche indicazioni interpretative dei principi del giusto processo (art. 6 CEDU) provenienti dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, ancora più stringenti nel nostro ordinamento dall'approvazione del Trattato di Lisbona.

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2. LE PATOLOGIE NELLE IMPUGNAZIONI.

1. Introduzione.

La tutela del diritto di difesa sancito dall'art. 24 cost. implica, come si è rilevato ancor prima dell'introduzione del nuovo art. 111 cost. (Corte Cost. 22 ottobre 1999, n. 388), l'esigenza di una protezione "effettiva" di esso: dunque, anche la durata ragionevole del processo. Una giustizia lenta "provoca danni economici (immobilizzando beni e capitali), favorisce la speculazione e l'insolvenza, accentua la discriminazione tra chi ha la possibilità di attendere e chi nell'attesa ha tutto da perdere. Un processo che si trascina per lungo tempo diventa anche un comodo strumento di minaccia e di pressione, un'arma formidabile nelle mani del più forte per dettare all'avversario le condizioni di resa" (TROCKER, 1974, 276).

Di ciò si è fatta carico la corte di legittimità, alla stregua del canone costituzionale e comunitario, e, certamente, alla luce del diffuso sentire, che pongono il raggiungimento di tale obiettivo come affatto primario anche in una prospettiva economica e sociale (per il duplice richiamo, si veda Cass., sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, rv 600499). La tutela prevista dall'art. 24 cost. è effettiva solo se tempestiva.

Questo canone presenta duplice valenza: come fondamento di un diritto della persona nei confronti dello Stato, dalla cui lesione deriva una pretesa risarcitoria; come criterio di qualificazione giuridica, in termini di legittimità o no delle norme regolatrici del processo (BOVE, 2010, 11), e, dunque, come guida all'interpretazione.

La durata ragionevole del processo è un valore eminentemente pubblicistico e non disponibile dalle parti: l'economia processuale, oltre a giovare alle parti in lite, è la sola a poter assicurare il funzionamento del sistema giustizia nel suo complesso. Di ciò la gran parte della dottrina è consapevole, riconoscendo che il principio "fonda sia l'aspirazione a che il singolo processo pendente di chiuda celermente sia l'esigenza, più generale, che il sistema della giustizia statale abbia nel complesso un carico di lavoro tollerabile" (BOVE, 2010, 50, nt. 48); sebbene non manchi chi palesa una visione più privatistica del processo (SCARSELLI, 2003, 126, secondo cui "i tempi del processo devono essere rimessi alla libera determinazione delle parti e non all'autorità del giudice, poiché la ragionevole durata del processo è regola che va garantita senz'altro se almeno uno dei litiganti la chiede ma non anche imposta quando nessuno la vuole"), non compatibile con gli art. 111 cost. e 6 Cedu.

Certo, come si è rilevato, "da quando la giustizia è 'pronunciata' (Dike), è intesa come prodotto della conoscenza, è ineliminabile la contraddizione tra il connotato dell'immediatezza, che continua a definirla sin da quando era considerata come realizzazione naturalmente necessaria della legge divina (Themis), e l'esigenza di completezza dell'accertamento, che ora deve sorreggerla. Il differimento della decisione contraddice la giustizia quanto il rischio della sua superficialità. Il rapporto tra giustizia e tempo è quindi problematico sin da quando l'uomo ha coscienza di sé, perché esibisce un potenziale conflitto di valori, un'aporia appunto, che può essere risolta solo in termini di ragionevole contemperamento tra le due opposte e irrinunciabili esigenze.

La giustizia si realizza con il massimo di conoscenza nel tempo più breve" (NAPPI, 2003, 1).

Dal disposto dell'art. 111, 2° comma, cost. deriva, pertanto, che il giudice deve scegliere, tra le varie interpretazioni possibili della legge processuale, quella che più si adegua all'attuazione del principio di ragionevole durata: il quale, "con lo statuire che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo, detta una regola per un'interpretazione delle singole norme di rito finalizzata alla celerità del giudizio" (Cass., sez. lav., 7 gennaio 2009, n. 55, rv 606310, sull'art. 384 cod. proc. civ.; nello stesso senso, fra le altre, Cass., sez. un., 6 marzo 2009, n. 5456, rv 606973; sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, rv 604554, in tema di rito del lavoro e mancata tempestiva notifica del ricorso e pedissequo decreto in appello; sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645, rv 600499, sull'art. 96 cod. proc. civ.; sez. un., 28 febbraio 2007 n. 4636, rv 606604, in tema di riparto di giurisdizione), perché "il principio costituzionale del giusto processo ... nella materia civile, ha natura precettiva sostanziale e processuale ad un tempo" (Cass., sez. III, ord. 5 agosto 2010, n. 18156, non massimata, che ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite circa l'interpretazione dell'art. 165 cod. proc. civ., sull'onere dell'attore di costituirsi nel termine di dieci giorni dalla prima o dall'ultima delle notificazioni).

Mentre alcuni Autori hanno preferito una lettura riduttiva dell'art. 111 cost., quale norma programmatica (SCARSELLI, 2003, 126; CHIARLONI, 2000, 1032; TOMMASEO, 1999, 182), la dottrina maggioritaria condivide l'idea che il principio costituisca un preciso parametro interpretativo. Si afferma, così, che l'interpretazione adeguatrice non deve sempre arrestarsi dinanzi ad un contrastante tenore letterale, ammettendosi "la c.d. interpretazione correttiva della lettera della legge. Oltre ai casi pacifici di lapsus calami del legislatore e di manifesto difetto di coordinamento, entra in considerazione l'ipotesi di obsolescenza del testo legislativo, che si verifica quando regole legislative vigenti da molti anni si rivelano superate in forza di sviluppi scientifici, tecnici, sociali, ecc., ma non vengono adeguate dal legislatore. In questi casi interviene occasionalmente il giudice per apportare, sulla base di canoni di valutazione condivisi dalla comunità sociale di riferimento, quella correzione legislativa che è avvertita come indilazionabile. Entro questi limiti, la correzione del testo legislativo è a fortiori accessibile all'interpretazione adeguatrice" (CAPONI I, 2009, 3105), perché per il giudice il principio della ragionevole durata del processo è criterio-guida e parametro di riferimento (COMOGLIO, 2007, 602), dovendo egli, fra le varie interpretazioni, scegliere "quella conforme alle prescrizioni stesse, anche a prezzo di dover rovesciare il diritto 'vivente' che si sia formato in materia", mentre allorché "vi sia irriducibile incompatibilità tra la norma legislativa vigente … e le regole del 'giusto processo', non sembra assurdo pensare ad una abrogazione diretta delle norme confliggenti e dunque all'obbligo dei giudici di dare applicazione immediata alle disposizioni chiare e precise del 111, senza al riguardo doversi far questione di legittimità costituzionale" (così come si convenne di riconoscere la ricorribilità immediata in Cassazione, prima della riforma dell'art. 111 cost., contro provvedimenti definitivi equiparabili alle sentenze: PATRONO, 2003, 371 ss.; cfr., altresì, VIDIRI, 2008, 584; id., 2006, 345; VIGNERA, 2003, spec. 1237 ss.; TARZIA, 2001, 21; OLIVIERI, 2000, 251).

Né potrebbe, in contrario, utilizzarsi sempre "l'argomento, apparentemente semplice e comodo, del potere della Corte di cassazione di rimettere alla Corte costituzionale le relative questioni di legittimità costituzionale. In realtà questo argomento non è comodo per niente, perché implica di infliggere alle parti un'ulteriore lunga attesa per avere giustizia, magari dopo anni, in presenza di un dettato costituzionale che impone una ragionevole durata del processo" (CAPONI, 2009, 3105); ed è inammissibile il giudizio di illegittimità costituzionale, qualora la norma sia suscettibile di un'interpretazione adeguatrice, la cui possibilità non è stata sperimentata dal giudice.

Ma le Sezioni Unite si sono occupate anche dei rapporti fra i vari principî dell'art. 111 cost., affermando più volte che "la ragionevole durata del processo giusto esprime anche l'esigenza di un armonioso equilibrio nel contemperare l'istanza di una giustizia amministrata senza ritardi con l'istanza di una giustizia non frettolosa e sommaria" (Cass., sez. III, ord. 5 agosto 2010, n. 18156, non massimata): dunque "solo, in via di eccezione e sussistendo detti presupposti, il principio della ragionevole durata del processo prevale sul principio del giusto processo", perché anche il recente art. 153, 2° comma, cod. proc. civ. "non lascia adito a dubbi sul fatto che la valutazione della sussistenza dei requisiti di ragionevole durata del processo presupponga che il processo sia un processo giusto" (Cass., sez. un., 11 giugno 2010, n. 14124, rv 613660, su cui infra; nello stesso senso, Cass., sez. II, 8 febbraio 2010, n. 2723, rv 611735; sez. un., 6 marzo 2009, n. 5456, rv 606973; sez. un., 30 ottobre 2008, n. 26019, rv 604949; al riguardo, v. Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317, in sede di valutazione della contumacia in sede penale). Nello stesso senso è la dottrina, la quale reputa senz'altro che il principio di ragionevole durata debba cedere a fronte di rilevante compromissione degli altri diritti insiti nella garanzia del giusto processo (BOVE, 2010, 13; POLI, 2010, 53; CARRATTA, 2010, 632; SCARSELLI, 2003, 126; VIGNERA, 2003, 1237).

Ma resta che "se è indubbio che il canone della ragionevole durata del processo è recessivo, oltre che a fronte del principio del contraddittorio, anche a fronte del diritto di azione e di difesa, è altrettanto indubbio che nessuno può abusare di tali diritti, come dire che nessuno può abusare del processo" (BOVE, 2010, 16 s.): pertanto, sarebbe "del pari erroneo ritenere che ogni restrizione dei poteri dei soggetti del processo, fondata sulla esigenza di un processo 'efficiente', si traduca in una lesione del principio della giusta decisione" (POLI, 2010, 53) e della ragionevole durata "si deve tenere conto anche quando si proceda all'interpretazione delle norme preposte alla garanzia del contraddittorio, della terzietà e imparzialità del giudice. Questo significa, almeno a me così sembra, che i valori del contraddittorio e della imparzialità debbano essere tutelati in maniera da assicurare il contenimento in tempi ragionevoli del processo. Detto altrimenti, fra più interpretazioni possibili in tema di contraddittorio, di parità delle parti, di imparzialità del giudice, deve essere preferita quella idonea a garantire una durata ragionevole del processo" (OLIVIERI, 2000, 251, laddove nel rapporto con le garanzie degli art. 24 e 25 cost. la ragionevole durata deve cedere, perché "se contraddittorio, parità e terzietà del giudice (e tutte le altre norme processuali) devono tenere conto delle esigenze di accelerazione dei processi, non vi è alcuna ragionevole durata in grado di ridurre o alterare il diritto d'azione o quello di difesa").

La dottrina, a questo punto, si è chiesta quanto sia "cambiato il nostro diritto processuale civile vivente alla luce del canone della ragionevole durata del processo", ravvisando un "progetto di riforma silenziosa del diritto processuale civile articolato in vari punti e coerente nel suo disegno complessivo", "una vera, piccola rivoluzione", "un progetto organico di definizione del diritto processuale civile vivente alla luce del principio della ragionevole durata del processo" (BOVE, 2010, 12 s.; e già DE SANTIS F., 2009, 875). Si è osservato dunque che negli "ultimi tempi la Corte di cassazione impiega in modo coraggioso il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, 2° comma, Cost.) come matrice di nuove regole processuali che innovano orientamenti giurisprudenziali consolidati, se del caso superando interpretazioni basate sulla lettera della legge" (CAPONI, 2009, 3104).

L'interpretazione più meditata delle norme processuali non ha, peraltro, condotto sempre a scelte limitative delle possibilità offerte alle parti, ma anche al riconoscimento di maggiori spazi di difesa, sembrando: "una Corte attenta sì all'aspirazione ad addivenire ad un giusto e rapido processo civile, ma con calibrata applicazione dei valori ad esso facenti capo: nella consapevolezza che una lettura dei disposti normativi, alla luce dell'art. 111 Cost., talvolta, può condurre a soluzioni 'sfavorevoli' … talaltra a soluzioni 'favorevoli'…, ma comunque necessariamente eque per la posizione delle parti" (così PILLONI, 2009, 199).

Occorre, invero, in procinto di esporre una breve rassegna sugli orientamenti espressi dalla Corte in tema di impugnazioni, rilevare come il principio della ragionevole durata del processo abbia agito in una duplice direzione, inducendo talora ad evitare superflue attività processuali (quando la rigida applicazione delle norme di rito conduca non alla tutela dei valori del giusto processo, ma anzi, senza alcun beneficio, alla compromissione di essi o comunque di interessi meritevoli di tutela, anche evitando inutile aggravio di spese), talaltra a rendere stabile una precedente pronuncia di merito (salvo che sia stato, al contrario, considerato insopprimibile il diritto di difesa), anche sotto il profilo della disconosciuta sussistenza dell'interesse ad impugnare, offrendo la Corte indicazioni rilevanti, altresì, per l'interpretazione dell'art. 360-bis, n. 2, cod. proc. civ.

Esemplari, in tale prospettiva, sono i principî enunciati con riguardo ai diversi vizi rilevati nel procedimento di impugnazione, ove la questione è stata variamente risolta: ora reputando il vizio irrilevante, ora favorendo la stabilità della decisione ed ora, invece, ammettendo la parte ad un'attività sanante.

2. Vizio di contraddittorio per difetto del litisconsorzio: giudizio di irrilevanza.

Sia ove il vizio riguardi direttamente il giudizio di legittimità, sia ove relativo al giudizio di merito, a volte è stato ritenuto irrilevante.

Ad esempio:

- ove il ricorso per cassazione sia in sé inammissibile – per inidoneità del quesito di diritto, oppure per mancanza dell'esposizione sommaria dei fatti, della specificità dei motivi, del rispetto del principio dell'autosufficienza, ecc., ma anche perché proposto avverso provvedimento non soggetto a ricorso per cassazione – se pure ne fosse stata omessa la notificazione a taluni litisconsorti necessari, l'ordine di integrazione non va disposto dalla Corte, trattandosi ormai di un'attività processuale del tutto ininfluente sull'esito del giudizio (Cass., sez. un., ord. 22 marzo 2010, n. 6826, rv 612077, con riguardo alla notifica del ricorso anche del P.G. presso la Cassazione, parte necessaria nel giudizio di responsabilità disciplinare degli avvocati; sez. III, 23 dicembre 2009, n. 27129, rv 610605, ricorso per cassazione proposto contro l'ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo; sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, rv 605610, in Giur. it., 2009, 668, n. DIDONE e Riv. dir. proc., 2009, 1684, n. favorevole di COMOGLIO, la quale, avendo valutato inammissibile il ricorso, ha ritenuto superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del ricorso per cassazione alla parte totalmente vittoriosa in appello; sez. III, 18 dicembre 2009, n. 26773, rv 611007, secondo cui, ove il ricorso principale sia inammissibile, è superflua la rimessione in termini del resistente per il completamento della notificazione del controricorso);

- ove il ricorso per cassazione sia manifestamente infondato, è superflua la fissazione di un termine per l'integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti, nella specie totalmente vittoriosi nei gradi di merito, sebbene l'originaria notificazione del ricorso avesse avuto esito negativo (Cass., sez. II, 8 febbraio 2010, n. 2723, rv 611735);

- non occorre rinviare per la notificazione alla parte rimasta contumace in primo ed in secondo grado, laddove nessuna delle parti costituite nel giudizio di legittimità abbia formulato domande nei confronti del contumace (Cass., sez. III, 6 agosto 2010, n. 18375, rv 614389; lo stesso nei confronti del proprietario del veicolo rimasto contumace, nell'azione diretta proposta dal danneggiato verso l'assicuratore, e ciò nonostante il dettato dell'art. 23 della legge n. 990 del 1969, perché l'integrazione del contraddittorio comporterebbe un pregiudizio per le parti costituite senza concreto vantaggio per la parte esclusa: Cass., sez. III, 23 febbraio 2010, n. 4342, rv 611903);

- ove il ricorso per cassazione sia infondato, quanto al difetto di litisconsorzio nei precedenti gradi di merito: sebbene sussista violazione dell'art. 102 cod. proc. civ. (nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi per mancata presenza dell'aggiudicatario), tuttavia, in presenza di ragioni definitive ed incontestabili di infondatezza del ricorso per cassazione in ordine a tutte le censure mosse, nessuna delle quali era neppure astrattamente suscettibile di dar luogo ad un esito diverso se al processo avessero partecipato anche gli aggiudicatari, il ricorso va respinto (Cass., sez. III, 30 gennaio 2009, n. 2461, rv 606590, ricorso proposto ai sensi dell' art. 111, 7° comma, cost.);

- ove, in appello e nel giudizio di cassazione, sia stata omessa, come d'ufficio rilevato dalla C.S., la citazione di uno degli affittuari d'azienda, litisconsorte necessario quanto alla domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, tuttavia il fatto resta irrilevante, allorché tale domanda non costituiva più in concreto oggetto del giudizio di cassazione, mentre la domanda di adempimento per canoni non corrisposti, per migliorie e risarcimento danni, unico oggetto del ricorso per cassazione, non comportava l'inscindibilità delle cause (Cass., sez. III, 19 agosto 2009, n. 18410, rv 609119);

- è superfluo ordinare l'integrazione del contraddittorio verso il cedente, nel caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, ove il cessionario si sia costituito nel giudizio di appello ed abbia proposto il ricorso di legittimità e verso il cedente non sia stata proposta nessuna domanda: dall'insieme delle condotte delle parti, la C.S. ne ha desunto la volontà di volere la estromissione dal giudizio del cedente e la mancanza di qualsiasi interesse in lite alla sua partecipazione al giudizio (Cass., sez. III, 7 aprile 2009, n. 8395, rv 607930);

- ove più parti, fra loro litisconsorti necessarie, abbiano partecipato a distinti giudizi, del tutto analoghi (come quelli vertenti sulla rettifica del reddito di una società di persone e sulla conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, caratterizzati da identica causa petendi, unitario avviso di accertamento, identità di difese, simultanea trattazione dei processi, identità sostanziale delle decisioni adottate dai giudici), non occorre far regredire ciascuno di essi in primo grado per integrare il contraddittorio con le altre, ma è sufficiente provvedere alla riunione dei giudizi (Cass., sez. V, 18 febbraio 2010, n. 3830, rv 611765, con nota critica di E.F.R., 2010, 975; v. anche infra ed amplius nell'ambito della trattazione del processo tributario).

3. Vizio di contraddittorio per difetto di notifica: preferita la stabilità della decisione.

In taluni casi, la Cassazione ha escluso ciò che la dottrina ha definito la c.d. seconda chance (o del perdono della prima mancanza), in funzione della quale non è stata ammessa la sanatoria:

- il vizio della notifica dell'atto di riassunzione del processo interrotto nel giudizio di appello, effettuata al domicilio eletto anziché a quello effettivo del de cuius, è di inesistenza giuridica ed esso non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ., prevista solo per la nullità (Cass., sez. II, 5 ottobre 2009, n. 21244, rv 609758);

- ove l'atto di impugnazione della sentenza, quando la parte vittoriosa sia deceduta, sia rivolto al de cuius, non si dà rinnovazione ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ. (Cass., sez. III, 1° giugno 2010, n. 13429, rv 613147; sez. III, 22 aprile 2010, n. 9551, rv 612662; sez. un., 16 dicembre 2009, n. 26279, rv 610581). Tuttavia, altra sentenza ammette la validità della notifica, se si accerti che l'evento era incolpevolmente ignorato dall'impugnante (Cass., sez. I, 10 marzo 2010, n. 5841, rv 612209);

- nel caso in cui il difensore deceda dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni, ma prima dell'udienza di discussione, il termine breve per l'impugnazione decorre dalla notifica personale della sentenza alla parte rimasta priva di difensore, senza che rilevi la mancata conoscenza incolpevole dell'evento interruttivo verificatosi ai danni della parte stessa (Cass., sez. un., 8 febbraio 2010, n. 2714, la quale ha richiamato la "vastissima giurisprudenza di legittimità sviluppatasi in materia viene in evidenza un tessuto sistematico teso a rafforzare la preminenza del giudicato rispetto alla lesione del principio del contraddittorio"). La dottrina (BOVE, 2010, 44) ha osservato come l'esigenza di stabilizzare la decisione impugnata conduca qui ad una "soluzione al limite dell'accettabile", ove il punto di equilibrio si potrebbe trovare soltanto ai sensi del nuovo art. 153 cod. proc. civ.;

- a volte la Corte, pur ammettendo la riproposizione dell'impugnazione, chiede il rispetto del termine breve: ove il ricorso per cassazione sia inammissibile o improcedibile, il ricorrente può notificare un nuovo ricorso, ma ciò nel rispetto del termine breve, decorrente dalla notificazione del primo ricorso, sia per evitare una disparità di trattamento con la parte cui l'impugnazione è notificata, che deve impugnare in via incidentale nel termine di cui agli articoli 333, 343 e 371 cod. proc. civ., sia ai fini del giusto processo di durata ragionevole (Cass., sez. II, 23 luglio 2007, n. 16207, rv 599892);

- anche in caso di mancata costituzione in termini dell'appellante, si privilegia la stabilità della decisione: resta inapplicabile in appello il rimedio della riassunzione del processo di cui all'art. 307, 1º comma, cod. proc. civ., richiamato dall'art. 171, 1º comma, cod. proc. civ., così che la mancata costituzione in termini dell'appellante determina l'improcedibilità dell'appello, anche quando l'appellato non si sia costituito nei termini (Cass., sez. III, 21 gennaio 2010, n. 995, rv 611156; sez. III, 18 luglio 2008, n. 19947, secondo cui "è proprio la diversità dei due regimi di costituzione a essere conforme all'art. 111 cost., in relazione alla ragionevole durata del processo, atteso che per il giudizio di secondo grado il legislatore ha scelto di sanzionare la tardiva costituzione dell'appellante con l'improcedibilità del gravame", decisione sulla quale CAPORUSSO, 2010, 616, esprime "il dubbio che l'accelerazione dell'attività processuale possa passare attraverso una sanzione comminata all'appellante, a motivo della sua tardiva costituzione"; e già Cass., sez. I, 14 dicembre 2007, n. 26257, rv 601069; sez. III, 19 maggio 2006, n. 17760, rv 591228; sez. III, 24 gennaio 2006, n. 1322, rv 587842, con nota adesiva di VULLO, 2007, 473);

- nei procedimenti camerali, l'appello è improcedibile, ove la notificazione del ricorso con pedissequo decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta nel termine prescritto, non essendo consentito al giudice, per il principio della ragionevole durata del processo, di assegnare all'appellante un nuovo termine per provvedervi, a norma dell'art. 291 cod. proc. civ. (Cass., sez. I, 17 maggio 2010, n. 11992, rv 612997).

4. Vizio di contraddittorio per difetto di notifica: è ammessa l'attività sanante.

In molti altri casi, al contrario, la Corte ha privilegiato la sanatoria:

- in caso impugnazione in causa inscindibile, ove l'impugnazione risulti proposta nei confronti di tutti i legittimati passivi, correttamente individuati, ma, in relazione a taluno, la notifica sia inefficace (omessa o inesistente) o non ne venga dimostrato il perfezionamento (ad es., nella notifica a mezzo posta, non sia prodotto l'avviso di ricevimento), l'impugnazione non può essere dichiarata inammissibile, ma va ordinata l'integrazione del contraddittorio, dovendosi applicare – come nell'ipotesi pacifica in cui l'impugnante non abbia individuato tutti i destinatari – l'art. 331 cod. proc. civ., in ossequio al principio del giusto processo in ordine alla regolare costituzione del contraddittorio, di regola prevalente su quello della ragionevole durata: Cass., sez. un., 11 giugno 2010, n. 14124, rv 613660 (e sez. un., ord. 11 giugno 2010, n. 14125, non massimata), la quale ha risolto il contrasto fra sentenze che si erano espresse in tal senso (Cass., sez. III, 23 marzo 2005, n. 6220, rv 582075, la quale ha disposto l'integrazione del contraddittorio nonostante la mancata prova della notifica nei confronti di uno degli intimati in cause inscindibili), laddove altre, ora disattese dalle S.U., erano per l'inammissibilità (Cass., sez. III, 10 novembre 2008, n. 26889 rv 605386 – criticata da BOVE, 2010, 45, perché l'art. 331 cod. proc. civ. non è richiamo pertinente – secondo la quale non ricorrevano i presupposti dell'art. 291 cod. proc. civ., né sarebbe applicabile in via analogica l'art. 331 cod. proc. civ., alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, sebbene il difensore del ricorrente potesse domandare di essere rimesso in termini, evenienza nel caso di specie non verificatasi; seguita da Cass., sez. III, 15 maggio 2009, n. 11053, rv 608099, ed ancora da sez. I, 15 luglio 2010, n. 16604, non massimata, e sez. I, 21 luglio 2010, n. 17106, rv 614063).

- In tema di produzione dell'avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta o della raccomandata ex art. 140 cod. proc. civ., richiesto dalla legge al fine della prova, se l'avviso non è allegato al ricorso può essere prodotto fino all'udienza di discussione di cui all'art. 379 (prima che abbia inizio la relazione) o fino all'adunanza in camera di consiglio di cui all'art. 380-bis, anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell'art. 372, secondo comma: però, in caso di mancata produzione ed in assenza di attività difensiva da parte dell'intimato, il ricorso è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito e non ricorrendo i presupposti per la rinnovazione della notificazione ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ.; ma il difensore del ricorrente può chiedere la rimessione in termini, ai sensi dell'art. 184-bis cod. proc. civ., per depositare dell'avviso che affermi di non aver ricevuto, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all'amministrazione postale un duplicato dello stesso (Cass., sez. un., 14 gennaio 2008, n. 627, rv 600790, con note sostanzialmente adesive di SASSANI, 2008, 1724 e CAPONI, 2008, 1729). Conformi ad essa le sentenze successive: Cass., sez. I, 15 luglio 2010, n. 16604; sez. V 15 giugno 1010, n. 14421, rv 613599; sez. V, 21 aprile 2010, n. 9487, rv 612522; sez. III, 23 gennaio 2009, n. 1694, rv 606333; sez. I, 10 aprile 2008, n. 9342, rv 602468). In generale, in favore della possibilità di rimessione in termini in ogni grado, v. Cass., sez. II, ord. interlocutorie 2 luglio 2010, n. 15809, rv 613934 e 17 giugno 2010, n. 14627, rv 613685, che hanno reputato l'istituto di più generale applicazione;

- è nulla, dunque rinnovabile, e non inesistente la notifica del ricorso per cassazione effettuata nel domicilio eletto per il primo grado alla parte che sia rimasta contumace in appello e deve esserne disposta la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ. (Cass., sez. un., ord. interlocutoria 29 aprile 2008, n. 10817, rv 603086, cui aderisce FRASSINETTI, 2009, 511);

- la notificazione dell'impugnazione al procuratore cancellato dall'albo professionale, già domiciliatario nel precedente grado di giudizio, in quanto eseguita nei confronti di persona avente un collegamento con il soggetto destinatario dell'atto è affetta non da inesistenza, ma da nullità, sanabile ex tunc disposta ai sensi dell'articolo 291 cod. proc. civ. o eseguita spontaneamente dalla parte, o con la costituzione del destinatario (Cass., sez. III, 22 aprile 2009, n. 9528, rv 608257);

- qualora la notificazione dell'impugnazione non dia esito positivo, per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l'onere, proprio alla luce del principio della ragionevole durata del processo, di richiedere all'ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento (Cass., sez. un., 24 luglio 2009, n. 17352, rv 609264, sulla scia di Cass., sez. V, 12 marzo 2008, n. 6547, rv 602726 e sez. I, ord. 15 aprile 2008, n. 9907, non massimata, cui si sono allineate poi Cass., sez. V, ord. 15 gennaio 2010, n. 586, rv 611211; sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6846, rv 612112; sez. III, 15 aprile 1010, n. 9046, rv 612256; Cass. 13 ottobre 2010, n. 21154);

- è parimenti ammissibile la spontanea successiva notifica alle altre parti litisconsorti necessarie, senza che rilevi la sua tardività: perché l'integrazione del contraddittorio effettuata volontariamente dal ricorrente deve ritenersi pienamente legittima (Cass., sez. I, 12 giugno 2009, n. 13753, rv 608583, e sez. II, 19 ottobre 2010, n. 21431, rv 614398);

- ove la notifica dell'impugnazione presso il procuratore costituito non si sia perfezionata per l'avvenuto trasferimento di questi, il notificante può chiedere al giudice ad quem la fissazione di un termine perentorio per completare la notifica (Cass., sez. un., 19 febbraio 2009, n. 3960, non massimata, su cui cfr. FABBRIZZI, 2009, 3062, per il quale la Corte "fa uso del principio di scissione degli effetti della notifica in maniera innovativa, ovvero al fine di individuare gli oneri gravanti sul notificante all'adempimento dei quali è condizionata la concessione del termine per il completamento della notificazione e che, nella specie, si sostanziano nel controllo del domicilio del procuratore per come risultante dall'albo. L'intuizione non è di poco momento e da essa possono trarsi spunti che valgano per ogni ipotesi di rimessione nei termini per il compimento della notificazione", e secondo cui "più che a una rimessione nei termini, che ne determina la riapertura con l'assegnazione di un termine sussidiario, Cass. 3960/09 pare concedere, ove ne ricorrano i presupposti, un loro prolungamento"). V., con riguardo anche alla "morte del procuratore o, comunque, per altro fatto non imputabile al richiedente attestato dall'ufficiale giudiziario", Cass., sez. un., 18 febbraio 2009, n. 3818, rv 607092. Inoltre, molte altre hanno applicato detto principio (Cass., sez. I, ord. 28 aprile 2010, n. 10212, che, in difetto di rimessione in termini, ha dichiarato il ricorso inammissibile; sez. un., 16 giugno 2010, n. 14494, rv 613602; sez. I, ord. 29 ottobre 2010, n. 22245, che ha concesso il termine di cui all'art. 184-bis cod. proc. civ., trattandosi di procedimento retto da tale norma). In tal modo, si va superando – già prima del nuovo art. 153, 2° comma, cod. proc. civ. – la tesi che escludeva l'applicazione dell'art. 184-bis cod. proc. civ. all'introduzione del giudizio di impugnazione.

5. In tema di giudizio di appello.

Esso, rispetto al modello del gravame, va avvicinandosi sempre più a quello dell'impugnazione in senso stretto:

- così, si afferma che, ai sensi dell'art. 342 cod. proc. civ., i motivi debbono essere tutti specificati nell'atto di appello, con cui si consuma il diritto di impugnazione (Cass., sez. II, 13 aprile 2010, n. 8771, rv 612328; sez. lav., 12 maggio 2008, n. 11673, rv 603145; sez. III, 18 aprile 2007, n. 9244, rv 597867; sez. III, 24 aprile 2006, n. 6630, rv 588312; sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, rv 586371). Il modello in tal modo configurato è, secondo la dottrina, più in linea con i principî del giusto processo, perché sono meglio soddisfatte le esigenze di "ordinato, sollecito, economico, 'certo' – in breve 'razionale ed efficiente' – svolgimento del giudizio di appello", con "razionalità ed ottimizzazione dell'impiego dell'attività decisoria – e quindi con evidenti ed innegabili benefici anche in termini di durata ragionevole del giudizio di appello – e, dato non certo trascurabile, con il pieno rispetto dei principi dispositivo, del contraddittorio, della parità delle armi, nonché della terzietà ed imparzialità del giudice" (POLI, 2010, 59 e 65).

6. Mancato deposito della copia autentica notificata della sentenza di appello: ricorso improcedibile.

Risolvendo un precedente contrasto, l'ordinanza sez. un., 16 aprile 2009, n. 9005, rv 607363 – reiteratamente seguita sino ad oggi (Cass., sez. III, 28 settembre 2009, n. 20795; sez. III, 1° dicembre 2009, n. 25296, rv 610282; sez. III, 26 aprile 2010, n. 9928, rv 612496; sez. III, 11 maggio 2010, n. 11376, rv 613051; sez. I, ord. 6 agosto 2010, n. 18416, rv 614218; sez. III, 10 settembre 2010, n. 19271, rv 614288) – ha affermato che è improcedibile il ricorso per cassazione ove non venga depositata copia autentica notificata della sentenza impugnata, adempimento da eseguire contestualmente al deposito del ricorso ovvero, al più tardi, nei venti giorni successivi all'ultima notifica. Nessuna deroga in via interpretativa può darsi dell'art. 369 cod. proc. civ. Si coglie, in tale mutamento di prospettiva, la maggiore attenzione accordata al principio della ragionevole durata del processo. La sentenza rileva pure la specialità del giudizio di cassazione, svelando così la filosofia di fondo: "la specialissima caratteristica del giudizio di cassazione", che mira alla "nomofilachia (come esplicitamente rimarcato dalle recenti riforme legislative)", onde "il caso concreto sottoposto al giudizio di legittimità non è altro che un'occasione perché la Corte enunci il principio di diritto ed eserciti così il suo potere regolatore".

In dottrina, vi è chi plaudiva all'indirizzo più liberale, come SASSANI, 2008, 1724; CAPONI, 2008, 1729; AULETTA, DELLA PIETRA, 2008, 797; ed ha rimarcato tale orientamento pur dopo le S.U. del 2009, come AULETTA, DELLA PIETRA, 2010, 180. Si osserva che l'art. 153, 2° comma, cod. proc. civ., come introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, potrebbe condurre ad evitare la sanzione di improcedibilità, nel caso in cui il mancato rispetto degli adempimenti derivi da causa non imputabile (VANZ, 2010, 385).

7. Particolare rilevanza data al riscontro dell'interesse ad impugnare per cassazione.

Una serie di pronunce possono essere accomunate dalla rilevanza assegnata, secondo il latente principio della ragionevole durata del processo, al requisito dell'interesse della parte ad impugnare:

- ove il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità dell'appello, abbia proceduto comunque all'esame del merito della domanda azionata – la così detta motivazione ad abundantiam – la parte soccombente non ha l'onere né l'interesse ad impugnare in sede di legittimità la motivazione sul merito (Cass., sez. III, 5 luglio 2007, n. 15234, rv 598305; sez. lav., 15 giugno 2007, n. 13997, rv 597672; sez. un., 20 febbraio 2007, n. 3840, rv 595555; sez. I, 16 agosto 2006, n. 18170, rv 592484). Ciò perché il giudice d'appello non ha il potere di statuire sul merito della causa, qualora abbia accertato la mancanza delle condizioni per deciderla nel merito; il giudice "consuma" la potestas decidendi. In senso opposto, le precedenti sentenze che avevano ritenuto la motivazione sul merito "un'ulteriore autonoma statuizione" (Cass., sez. III, 26 maggio 2004, n. 10134, rv 573158 e sez. II, 25 ottobre 1988, n. 5778, rv 460303). Tale più remoto orientamento – funzionale alle evenienze della non cassazione della sentenza con correzione della motivazione e della cassazione senza rinvio sostitutiva nel merito, di cui all'art. 384, secondo e quarto comma, cod. proc. civ. – potrebbe, forse, oggi essere riletto alla luce del principio della durata ragionevole del processo: infatti, vi è in dottrina chi ha ritenuto come, una volta esaminato il merito dal giudice di appello, la statuizione di merito, in quanto dotata di autonomia, "possegga efficacia, sia pure condizionata alla caducazione nella successiva fase di impugnazione del capo impediente", onde "le statuizioni di merito sarebbero temporaneamente prive di efficacia di accertamento, ma suscettibili di acquistarla non appena la Corte di Cassazione dichiari cassata la parte di sentenza che statuisce sulla inammissibilità del gravame stesso" (PETRELLA, 2008, 1472 s.). La statuizione di merito, allo stato superflua poiché assorbita, rileva in caso di riapertura dell'oggetto di giudizio di merito. Dall'altro lato, dovrebbe pur essere superato l'ostacolo, secondo cui una simile sentenza – allorché si tratti non di rapporto fra varie questioni tutte inerenti al merito, ma del rapporto, dall'ordinamento più rigidamente scandito, fra rito e merito – risulta viziata ai sensi dell'art. 360, n. 4, cod. proc. civ. (CONSOLO, 2008, 375; v. pure RONCO, 2008, 1211);

- sull'impugnazione incidentale tardiva, circa l'ambito di applicazione dell'art. 334, 2° comma, cod. proc. civ., la Corte ha affermato che la dichiarazione di improcedibilità del ricorso principale determina, così come quella di inammissibilità, l'inefficacia del ricorso incidentale tardivo, non in virtù di un'applicazione analogica della norma, ma per un'interpretazione logico-sistematica (Cass., sez. un., 14 aprile 2008, n. 9741, rv 602749, con nota critica di ODORISIO, 2009, 238, il quale reputa che il legislatore non a caso aveva ritenuto di distinguere l'inammissibilità originaria dalla improcedibilità). La tendenza ad ampliare l'ambito operativo del disposto dell'art. 334, comma 2, cod. proc. civ. – che vede sotteso il principio di ragionevole durata del processo – è stata, però, limitata dalla Corte laddove ha ritenuto nuovamente efficace l'impugnazione incidentale tardiva, se la principale venga dichiarata inammissibile attraverso l'esame della legitimatio ad causam o dell'interesse all'impugnazione, allorché la questione sia suscettibile di provocare effetti ed avere ricadute sull'appellante incidentale tardivo: ciò proprio richiamando l'art. 111 Cost. quale "parametro volto a privilegiare fra le varie opzioni ermeneutiche delle norme di rito quelle che più si conciliano con i principi del processo giusto e dalla ragionevole durata" (Cass., sez. lav., 11 giugno 2010, n. 14084, rv 613847);

- in tema di ricorso incidentale condizionato, con la sentenza Cass., sez. un., 6 marzo 2009, n. 5456, rv 606973 (conformi Cass., sez. un., 4 novembre 2009, n. 23318, rv 609820; sez. I, 22 marzo 2010, n. 6862, non massimata; ed in tal senso già sez. un., 31 ottobre 2007, n. 23019, rv 600072), la Corte ha espresso due enunciati innovativi: l'impugnazione incidentale della parte vittoriosa nel merito rispetto alla pronuncia impugnata è necessariamente condizionata alla fondatezza del ricorso principale; tale principio non subisce deroghe laddove la questione devoluta alla corte sia quella di giurisdizione. Il cambio di indirizzo è stato consapevolmente attuato alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, secondo cui fine primario di questo è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito. La dottrina ha accolto l'indirizzo ora in modo favorevole (RUSCIANO, 2009, 3047, per il quale le condivisibili ragioni che vengono poste a fondamento del nuovo indirizzo giurisprudenziale muovono dalla nozione di soccombenza, interesse e legittimazione ad impugnare; GAMBINERI, 2009, 3047, secondo cui la sentenza "merita di essere approvata in quanto risponde al dato per cui nell'ambito di un giudizio che verte su un diritto soggettivo, l'esistenza dell'interesse ad impugnare si valuta sul risultato di merito e non anche sulla singola questione. Chi è risultato praticamente vittorioso nel precedente grado di giudizio, ma teoricamente soccombente sulla singola questione, a prescindere dal se si tratti di questione di rito o di merito, non ha l'interesse a proporre l'impugnazione fintantoché l'impugnazione della controparte non risulti fondata"; BOVE, 2010, 84, il quale reputa che il principio sarebbe da applicare anche al giudizio di appello, che non presenta differenze strutturali con il giudizio di cassazione quanto al suo oggetto), ora in senso critico (BACCAGLINI, 2009, 1073; IZZO, 2009, 2731, secondo cui "il supremo Collegio quadra il cerchio tracciato con le sentenze nn. 24883, 26019 e 29523 del 2008, che hanno reinterpretato il disposto dell'art. 37 c.p.c. nel dichiarato intento di bilanciare la garanzia costituzionale della precostituzione del giudice naturale con quella della ragionevole durata del processo" e che ravvisa l'attribuzione del valore preminente alla decisione di merito, rilevando come "a questo preoccupante risultato vengono piegati — contrariamente alle finalità per le quali sono stati formulati — tanto il dichiarato ossequio al principio dell'ordine logico d'esame delle questioni, quanto la condivisione di fondo della teoria del doppio oggetto del giudizio");

- il problema della proponibilità di un'impugnazione incidentale tardiva con contenuto adesivo alla impugnazione principale è stato risolto positivamente, dunque considerando prevalente il diritto al contraddittorio sulla ipotetica maggior durata del processo per l'ammissibilità della impugnazione incidentale (Cass., sez. un., 27 novembre 2007, n. 24627, sulla base del principio dell'interesse all'impugnazione; nello stesso senso, Cass., sez. un., 9 agosto 2010, n. 18480, rv 614384-614385, in motivazione; sez. I, 17 marzo 2009, n. 6444, rv 607585).

8. Rilievo d'ufficio del giudicato esterno.

I principî costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata impongono al giudice, anche in sede di legittimità, di rilevare d'ufficio l'esistenza di un eventuale giudicato esterno: ciò, anche prescindendo da eventuali allegazioni in tal senso delle parti, e facendo ricorso, se necessario, agli strumenti informatici ed alle banche dati elettroniche interne all'ufficio ove siano archiviati i ricorsi e le decisioni (Cass., sez. III, 7 ottobre 2010, n. 20802, rv 614482; sez. lav., 4 ottobre 2007, n. 20779, rv 599979; sez. lav., 19 giugno 2007, n. 14190, rv 597698; sez. V, 15 giugno 2007, n. 14014, rv 600871; sez. un., 16 giugno 2006, n. 13916, rv 589695, con nota favorevole di MANZON, 2006, 1701).

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3. LE PATOLOGIE TRASVERSALI AI DIVERSI GRADI DEL GIUDIZIO E QUELLE INERENTI I PROCEDIMENTI SPECIALI.

1. Legittimazione ad agire, introduzione e formulazione della domanda.

1.1. Del principio del giusto processo la S.C. nel 2010 ha fatto ripetutamente applicazione per risolvere problemi legati alla fase introduttiva del giudizio.

Innanzitutto tale principio è stato richiamato per risolvere un problema di legittimazione attiva. Così, in un caso in cui l'importatore aveva stipulato un contratto di deposito della merce acquistata da un terzo, senza che fosse stato provato in giudizio l'esistenza d'un mandato in tal senso conferito dal terzo acquirente all'importatore, la S.C. ha ritenuto sussistente - superando un proprio precedente e diverso orientamento - la legittimazione dell'acquirente ad agire in giudizio nei confronti del depositario, sebbene non avesse egli assunto la veste di depositante: e ciò proprio in virtù del principio del giusto processo, il quale impone al giudice di adottare un meccanismo di semplificazione e accelerazione di rapporti sostanziali e processuali (Cass. n. 15988 del 2010 rv 613984).

1.2. Il principio del giusto processo è stato altresì applicato dalla S.C. per risolvere vari problemi concernenti il cumulo e la frammentazione delle domande giudiziali. In tema di cumulo di domande, la Corte ha fatto ricorso al principio del giusto processo in un caso in cui era sorta controversia circa la proponibilità, nel giudizio di accertamento della paternità naturale, anche della domanda di rifusione delle spese di mantenimento della prole sino ad allora sostenute dalla parte attrice. Il convenuto, infatti, aveva sostenuto che quest'ultima domanda non fosse proponibile sino al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della paternità.

La Corte ha ritenuto infondata tale eccezione, ritenendo che fosse soltanto l'esecuzione della sentenza di condanna al mantenimento della prole ad essere subordinata alla definitività della sentenza di accertamento della paternità; è significativo tuttavia notare che, sebbene tale principio fosse stato già in precedenza affermato, nella decisione più recente la Corte ha soggiunto che tale conclusione "risulta in linea con il principio di economicità e di quello del giusto processo che ne impone, fra l'altro, una sua ragionevole durata" (Cass. n. 17914 del 2010 rv 614213).

1.3. Con riguardo, invece, all'ipotesi di frazionamento dell'unico credito in plurime azioni giudiziali, la Corte ha consolidato il suo più recente orientamento, secondo il quale tale scelta dell'attore, operata per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto non solo col principio di correttezza e buona fede, ma anche col principio costituzionale del giusto processo, "traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale" (Cass. 6862/10; sul tema dei rapporti tra frazionamento del credito e giusto processo si vedano anche Tallaro, 2010, 1989; Mora, 2010, 1461; Rizzi, 2010, 970). Dalla violazione del principio del giusto processo la S.C. ha fatto discendere, quale conseguenza, l'improponibilità di tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito (1706/10).

1.4. Il principio dell'inammissibilità della domanda che costituisca abuso del processo perché aggrava ingiustificatamente la posizione del debitore è stato poi ulteriormente esteso, fino ad essere applicato non solo con riferimento al caso in cui siano introdotti più giudizi per esercitare pro quota il medesimo diritto, ma sinanche al caso in cui più creditori, consorti di lite in un giudizio presupposto, decidano di frazionare le rispettive posizioni nel processo conseguente. Questa la fattispecie concreta che ha innescato l'orientamento di cui si discorre: dieci pubblici impiegati, agendo cumulativamente, convennero in giudizio la p.a. datrice di lavoro, chiedendone la condanna al pagamento di talune indennità non corrisposte.

A causa del protrarsi del relativo processo, tutti e dieci gli attori domandarono altresì in separata sede il risarcimento del danno da irragionevole durata del processo, ex lege n. 89 del 2001: tuttavia, mentre dinanzi al giudice del lavoro avevano agito cumulativamente, dinanzi al giudice del risarcimento decisero di proporre ciascuno un ricorso separato ed autonomo, ricorsi peraltro tutti di identico contenuto, fondati sui medesimi fatti e patrocinati dal medesimo avvocato.

La Corte ha stigmatizzato con molto rigore tale scelta processuale, definendola un "abuso del processo" ed osservando che l'inutile moltiplicazione dei giudizi produce un effetto inflattivo confliggente con l'obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost.

In particolare, laddove il fatto dannoso sia identico, unico sia il soggetto che ne deve rispondere, ed i plurimi danneggiati abbiano agito unitariamente nel processo presupposto, questi ultimi così facendo hanno dimostrato per ciò solo la carenza di interesse alla diversificazione delle rispettive posizioni: sicché, ove dopo avere ottenuto la condanna della p.a. al pagamento delle indennità non corrisposte, la convengano separatamente in molteplici giudizi introdotti dal medesimo difensore, al fine di ottenere il risarcimento del danno da irragionevole durata del processo, "una tale condotta (…) è priva di alcuna apprezzabile motivazione e incongrua rispetto alla rilevate modalità di gestione sostanzialmente unitaria delle comuni pretese, contrasta (…) con l'inderogabile dovere di solidarietà sociale che osta all'esercizio di un diritto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti che non sia inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell'agente, danno che nella fattispecie graverebbe sullo Stato debitore a causa dell'aumento degli oneri processuali: ma contrasta altresì e soprattutto con il principio costituzionalizzato del giusto processo inteso come processo di ragionevole durata (…) posto che la proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti incide negativamente sull'organizzazione giudiziaria a causa dell'inflazione delle attività che comporta con la conseguenza di un generale allungamento dei tempi-processuali".

Tuttavia, mentre nel caso di indebito frazionamento dell'unico credito in più domande la Corte ha ritenuto improponibili le varie domande, nel caso qui in esame ha adottato una soluzione diversa, giacché qui "non è l'accesso in sé allo strumento che è illegittimo, ma le modalità con cui è avvenuto". Ha, di conseguenza, valutato le spese dei vari giudizi riuniti come se unico fosse stato il procedimento fin dall'origine (Cass. 16034 del 2010 non massimata).

2. Fissazione del thema decidendum, deduzione ed assunzione delle prove.

Il principio del giusto processo ha permeato di sé numerose decisioni, pronunciate nel 2010, in materia di concreto svolgimento dell'istruzione: sia per quanto riguarda la fissazione del thema decidendum, sia per quanto concerne la deduzione e l'assunzione delle prove.

2.1. Sotto il primo profilo, il principio del giusto processo è stato utilizzato come argomento nuovo per ribadire la rilevabilità d'ufficio del giudicato esterno. Tale rilievo officioso infatti, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione. E tale garanzia di stabilità va ricollegata, secondo la S.C., proprio all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, "i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive" (Cass. 2853 del 2010 non massimata). Ed è significativo sottolineare che un principio pressoché analogo è stato affermato, altresì, anche per giustificare la rilevabilità d'ufficio della decadenza dall'azione giudiziale in materia di prestazioni previdenziali, prevista dall'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639 (14908 del 2010; 12748 del 2010 non massimate).

2.2. Anche con riferimento all'istruzione probatoria in senso stretto (deduzione ed assunzione dei mezzi di prova) la giurisprudenza di legittimità nell'anno 2010 ha fatto largo ricorso al principio del giusto processo per fondare le proprie scelte interpretative, e ciò con riferimento a due diversi problemi: la parità delle parti circa i mezzi di prova utilizzabili, ed il coordinamento del principio dispositivo con i poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice dalla legge.

2.3. Sotto il primo profilo (parità delle parti nell'accesso ai mezzi di prova), la S.C., chiamata a stabilire quali fonti di prova potesse invocare il contribuente nel processo tributario, ha ripetutamente affermato che in quest'ultimo, poiché all'Amministrazione finanziaria è consentito produrre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con valore probatorio indiziario, analogo potere dev'essere riconosciuto anche al contribuente e con il medesimo valore probatorio, perché solo così si dà concreta attuazione ai principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., e si garantisce la parità delle armi processuali e l'effettività del diritto di difesa (Cass. 11785 del 2010 rv 612990; nello stesso senso Cass. 15133 del 2010 nom massimata; Cass. 14962 del 2010 non massimata).

2.4. Anche il secondo dei profili sopra accennati (coordinamento tra principio dispositivo e poteri officiosi del giudice) ha fatto registrare nel 2010 significative decisioni, fondate sul richiamo ai princìpi del giusto processo.

In particolare la Corte ha dato continuità all'orientamento, già adottato in precedenza dalle Sezioni Unite, con il quale si sono stabiliti i presupposti ed i limiti entro i quali nel rito del lavoro è consentito al giudice disporre d'ufficio mezzi di prova, sinanche allorché le parti ne siano decadute. Tale potere, ha osservato la Corte, va esercitato in modo coerente col principio del giusto processo regolato dalla legge, fissato dall'art. 111 cost.: il che vuol dire che il giudice:

(a) non può ammettere d'ufficio mezzi di prova volti a dimostrare fatti mai allegati dalle parti;

(b) sia quando disponga d'ufficio mezzi di prova, sia quando rigetti la relativa istanza in tal senso rivoltagli dalle parti, deve sempre esplicitare le ragioni per le quali abbia esercitato (o rifiutato di esercitare) i propri poteri officiosi;

(c) in ogni caso, i poteri officiosi in materia di prova "non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale" (Cass. 17751/10 non massimata; 17496 del 2010; 17498/10 non massimate; in argomento si veda anche Vidiri, 2010, 147).

3. Interruzione e riassunzione del processo.

Una significativa applicazione del principio del giusto processo si è registrata, nell'anno 2010, anche in tema di interruzione del processo ed estinzione per intempestiva riassunzione.

Nella specie era accaduto che alcuni condebitori solidali avessero proposto un giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo col quale gli era stato intimato il pagamento di una somma di danaro. Nel corso del giudizio uno dei condebitori, avente la veste di società commerciale, veniva dichiarato fallito, ed il giudice aveva dichiarato conseguentemente interrotto il processo.

La riassunzione avveniva a cura dell'altro condebitore, ma essendo stata tardiva rispetto al semestre prescritto dalla legge, il giudice dichiarava on sentenza estinto il giudizio.

Pervenuta la vicenda all'esame della Corte di cassazione, questa ha cassato la sentenza di merito, osservando che l'opposizione introdotta dai due condebitori solidali aveva dato luogo ad un litisconsorzio facoltativo, e quindi a cause scindibili. Conseguentemente, una volta pronunciata dal giudice l'interruzione del processo, la relativa ordinanza aveva avuto effetto soltanto per l'opposizione proposta dal soggetto dichiarato fallito, mentre nessun effetto poteva avere rispetto alla domanda proposta dall'altro opponente, ai sensi dell'art. 103 c.p.c., interpretato in conformità ai principi del giusto processo. Solo questa interpretazione, infatti, ad avviso della corte poteva evitare contrasti con l'art. 111 cost., giacché altrimenti la ritenuta inscindibilità dell'interruzione e la continuazione della riunione dei processi avrebbe ritardato la definizione di quelli rispetto ai quali non si era verificato l'evento interruttivo (Cass. 13125 del 2010 rv 612138).

4. Superamento dei formalismi nelle impugnazioni.

Con riferimento al problema della consumazione dell'impugnazione, nel caso di notificazione di un atto d'appello mai iscritto a ruolo, e seguito dalla notifica di un secondo gravame questa volta iscritto a ruolo, la S.C. ha ribadito il principio secondo cui il principio di consumazione dell'impugnazione va letto alla luce di una interpretazione conforme ai principi costituzionalizzati del giusto processo, che sono diretti a rimuovere, anche nel campo delle impugnazioni, gli ostacoli alla compiuta realizzazione del diritto di difesa. Per far ciò, ha proseguito la Corte, occorre rifuggire da "formalismi rigoristici", e ritenere invece che, fino a quando non intervenga una declaratoria di improcedibilità, un secondo atto di appello possa essere proposto, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva e si sia svolto regolare contraddittorio tra le parti (Cass. 14428 del 2010 non massimata).

4.1. Non nuovo nella giurisprudenza della Corte è anche l'esame del problema della individuazione della "giusta parte" nelle fasi di appello, nel caso di morte o perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado. Anche tale risalente problema, tuttavia,ha ricevuto soluzione attraverso il richiamo al nuovo principio del giusto processo.

In particolare, in un giudizio avente ad oggetto la distribuzione del ricavato di una espropriazione forzata, nel quale una delle parti era deceduta dopo la pronuncia della sentenza, ma prima che fosse spirato il termine per impugnare, la S.C. ha ritenuto che "le esigenze di tutela della buona fede dell'impugnante non possano compromettere il diritto di difesa dell'altra parte, laddove il dovere di indirizzare l'atto di impugnazione nei confronti degli eredi del soggetto deceduto trova il suo fondamento nel basilare principio, già enunciato dall'art. 101 cod. proc. civ., e ora ribadito dal nuovo testo dell'art. 111 Cost." (16618 del 2010 non massimata).

Il principio del giusto processo, a sua volta, implica e contiene quello di "giusta parte", e tale "non può evidentemente essere considerata la persona non più in vita": pertanto l'eccezionale deroga introdotta dall'art. 300 cod. proc. civ., che consente la prosecuzione del giudizio nei confronti della parte deceduta, se il suo procuratore non dichiara o notifica l'evento, non può essere ritenuta operante indefinitamente, anche nell'eventuale grado successivo del giudizio, in cui si incardina un nuovo rapporto processuale ulteriore e distinto, ancorché collegato a quello ormai esaurito con la pronuncia della sentenza (Cass. 16618 del 2010).

4.2. L'affermarsi del principio del giusto processo nella giurisprudenza di legittimità ha dato luogo in qualche caso, nelle allegazioni dei ricorrenti, ad una tendenza dilatatrice di quel principio, consistente nell'allegare che la violazione di una qualsiasi regola processuale, in quanto fatto lesivo del "giusto processo", renda per ciò solo impugnabile la sentenza conclusiva di quel giudizio.

La Corte di cassazione tuttavia non è stata di questo avviso, ed ha ripetutamente precisato che non ogni violazione di regole processuali si traduce per ciò solo in una violazione del "giusto processo".

Così, in un caso in cui il ricorrente si doleva del fatto che il giudice di merito aveva erroneamente ritenuto validamente costituito il convenuto, là dove tale costituzione si sarebbe dovuta invece ritenere nulla, la S.C. ha ritenuto infondata tale doglianza, "trattandosi di censura relativa alla rituale o meno costituzione in giudizio del convenuto e come tale non assolutamente indispensabile per lo svolgimento di un giusto processo, potendo la causa svolgersi anche in contumacia dello stesso". Il ricorrente, secondo la corte, avrebbe perciò dovuto espressamente allegare e dimostrare quale influenza avrebbe prodotto sulla sentenza di merito l'irrituale costituzione del convenuto (Cass. n. 11459 del 2010 non massimata).

Sempre in applicazione del medesimo principio, si è ritenuto inammissibile il ricorso nel quale il ricorrente aveva posto a fondamento di ogni motivo (consistente giustappunto nella allegazione del mancato rispetto di norme processuali) la violazione del principio del giusto processo. In quel caso ha osservato la Corte che la censura fondata sulla violazione del giusto processo "esige un riferimento puntuale ai principi che si assumono violati", perché le regole processuali del codice italiano non esigono continuamente una lettura costituzionalmente orientata", e dunque non basta una violazione purchessia di esse, per ritenere sussistente una lesione del principio del giusto processo (Cass. 7178 del 2010 non massimata; in argomento si veda anche Giordano 2009, 78; sui rapporti tra la violazione di regole processuali e l'inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis c.p.c. per violazione delle regole del giusto processo si veda, da ultimo, Graziosi, 2010, 37).

4.3 Infine, il principio del giusto processo è stato utilizzato dalla S.C. per sanzionare con l'inammissibilità i ricorsi a contenuto generico o ambivalente. In particolare, in un caso in cui il ricorrente aveva prospettato diversi tipi di vizi della decisione impugnata, tra loro incompatibili, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando che non può essere compito del giudice identificare il reale vizio della sentenza che il ricorrente ha inteso denunciare in termini criptici, perché altrimenti si verificherebbe una violazione del giusto processo, che esige la terzietà e l'imparzialità del giudice: e imparziale non è - ha aggiunto la Corte - il giudice che integra il ricorso, inquadrando i motivi sviluppati nello stesso in una piuttosto che in un'altra delle ipotesi tassative di legge (Cass. n.13222 del 2010 rv 613318; Cass. n. 5207 del 2010 non massimata).

. BIBLIOGRAFIA (relativa all'anno 2010)

GIORDANO, in ASPRELLA e GIORDANO, La riforma del processo civile dal 2005 al 2009, in Giust. civ., 2009, supplemento al n. 6, 78;

GRAZIOSI, Riflessioni in ordine sparso sulla riforma del giudizio in cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2010, 37;

MORA, Maggior danno nelle obbligazioni pecuniarie ed onere della prova, in Resp. civ. e prev., 2010, 1461;

RIZZI, L'applicabilità dell'art. 281 sexies c.p.c. dinanzi alla corte d'appello anche alla luce della l. n. 69 del 2009, in Giur. merito 2010, 970;

TALLARO, Nuovi strumenti a garanzia del giusto processo. La disciplina delle spese di lite, in Giur. merito, 2010, 1989;

VIDIRI, I poteri istruttori del giudice del lavoro nel processo civile rinnovato, in Giust. civ. 2010, 147.

  • procedura civile

CAPITOLO IV

IL PARAMETRO DI AMMISSIBILITÀ NELLA PREVISIONE DELL'ART. 360 BIS C.P.C.:TRA RIFLESSIONI DELLA DOTTRINA E APPLICAZIONI GIURISPRUDENZIALI

(di Enzo Vincenti, Fulvio Baldi, Pina Carluccio )

Sommario

1 OGGETTO E FINALITÀ DELL'INDAGINE. - 2 LE RIFLESSIONI DELLA DOTTRINA IN CONTINUITÀ CON I PRIMI COMMENTI ALLA RIFORMA. - 2.1 In generale. - 2.2 Il n. 1 dell'art. 360 bis c.p.c. - 2.3 Il n. 2 dell'art. 360 bis c.p.c. - 2.4 La compatibilità costituzionale e l'interpretazione adeguatrice. - 3 LA PRONUNZIA DELLE SEZIONI UNITE DEL 2010. - 4 LE OSSERVAZIONI DEI PRIMI COMMENTATORI. - 4.1 Sull'applicabilità dell'art. 360 bis c.p.c. al regolamento di competenza. - 4.2 Sul rigetto del ricorso per manifesta infondatezza. - 5 LA GIURISPRUDENZA DELLA SESTA SEZIONE: TECNICHE DI DECISIONE E RAPPORTO CON L'ORDINANZA DELLE S.U. DEL 2010. - 5.1 Richiamo espresso della l. n. 69 del 2009. - 5.1.a In riferimento specifico a profili processuali. - 5.2 Implicito richiamo alla legge n. 69 del 2009. - 5.3 Applicazione dell'orientamento adottato dalla ordinanza n. 19051 del 2010, facendone esplicita menzione. - 5.3.a Applicazione dell'orientamento adottato dalla ordinanza n. 19051 del 2010, senza farne esplicita menzione. - 5.4 Struttura della decisione. - 5.4.a Tecnica espositiva, in generale. - 5.4.b Tecnica decisionale nelle pronunce di (manifesta) infondatezza/fondatezza (rigettoaccoglimento) del ricorso. - 5.4.c Dispositivi. - 5.4.d Definizioni del ricorso con decisioni in rito. - 5.4.e Decisioni nei ricorsi per regolamento di competenza.

1. OGGETTO E FINALITÀ DELL'INDAGINE.

Oltre un anno dopo l'entrata in vigore dell'ultima riforma che ha interessato il processo di cassazione, si è ritenuto necessario fare il punto sul cosiddetto "filtro". Con questa finalità: si sono esaminati i pochi contributi della dottrina, che hanno fatto seguito all'esplosione dei primi commenti[4], rilevando una linea di continuità rispetto alle problematiche affrontate; si è posta al centro la decisione delle S.U sulla portata dell'art. 360 bis c.p.c.; si è dato conto del gradimento da parte della dottrina; si sono analizzate tutte le decisioni della sesta sezione[5], per verificare come concretamente l'art. 360 bis c.p.c. sta vivendo nella prassi.

2. LE RIFLESSIONI DELLA DOTTRINA IN CONTINUITÀ CON I PRIMI COMMENTI ALLA RIFORMA.

2.1. In generale.

Sulla affermazione per cui la norma di cui all'art. 360-bis c.p.c. sia di "fattura" mediocre, se non proprio pessima e di non agevole interpretazione e coordinamento con altre norme convergono, nella sostanza, quasi tutte le opinioni dottrinali[6].

Essa viene a disciplinare due ipotesi di inammissibilità non perfettamente in linea con gli altri casi di inammissibilità previsti dal codice, che sono riconducibili alla esistenza di un vizio dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione[7]. L'art. 360-bis c.p.c., in sostanza, consente la "falcidia" di ricorsi che, se pur corretti, "non rispondono ai requisiti di sostanza previsti dalla norma"[8].

Emerge, pertanto, un "disordine sistematico"[9] nel qualificare come riconducibili alla inammissibilità ipotesi che sarebbe stato meglio inquadrare nella manifesta infondatezza del ricorso, giacché trattasi di vizi che attengono al merito[10].

Soprattutto è evidente tale discrasia nell'ipotesi di inammissibilità di cui al n. 2 dell'art. 360-bis (violazione dei principi regolatori del giusto processo), che anche prima della riforma avrebbe comportato una decisione di manifesta infondatezza in camera di consiglio[11].

Del resto, in tale ottica si rileva[12] anche che le previsioni di cui ai nn. 1 e 2 sono ispirate da logiche completamente diverse, la prima essendo espressione di nomofilachia, la seconda, più generica, volta ad intercettare presunte nuove invalidità processuali.

In una complessiva considerazione della norma si osserva[13], peraltro, che essa rappresenta un "filtro al giudizio di legittimità, alla necessità dell'esercizio della funzione nel caso concreto", consistente nel rendere concrete le disposizioni normative, "esprimendone l'interpretazione conforme a Costituzione, sì da assicurarne l'eguale applicazione"; una funzione, questa, che "rifiuta la rinnovazione ripetitiva del suo esercizio, ma deve essere in grado di raccogliere gli stimoli al suo aggiornamento".

2.2. Il n. 1 dell'art. 360 bis c.p.c.

Venendo all'esegesi del n. 1 dell'art. 360-bis c.p.c., si pone in luce che esso pone un limite alla ricorribilità della sentenza, nel senso che se questa è confermativa dell'orientamento della cassazione, non sarà più sottoponibile a censura sulla base di uno dei vizi[14] di cui all'art. 360 c.p.c., "se tale censura non sia anche tale da incidere sull'orientamento consolidato della Corte, mutandolo o confermandolo";[15] in tal caso il ricorso sarà inammissibile.

La sentenza di merito che si allinea all'orientamento della Corte sarà "meno attaccabile" e, tuttavia, si paventa che ciò possa comportare un pericolo per l'indipendenza dei magistrati, depotenziandone la creatività, con conseguenze pregiudizievoli sull'evoluzione della giurisprudenza[16].

Il n. 1 dell'art. 360-bis c.p.c. contempla due distinte "sotto-ipotesi di inammissibilità" del ricorso, accomunate da identico presupposto, "consistente nella circostanza che il provvedimento impugnato si sia uniformato alla giurisprudenza della Corte nella decisione delle questioni di diritto"[17].

Un tale presupposto comune pone un primo problema, legato al fatto che l'orientamento della Corte non è altrimenti aggettivato (costante, consolidato, etc.), così da doversi verificare quale sia, al riguardo, il precedente utile, in presenza di una quantità di precedenti non indifferenti. Si tratta di questione da poter risolvere soltanto attraverso una verifica sul campo, tramite i criteri che la stessa Cassazione indicherà di volta in volta, sebbene una particolare valenza è da attribuire ai precedenti costituiti dai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, in particolare applicazione degli artt. 374, comma secondo, 384, comma primo, cod. proc. civ. e soprattutto dell'art. 363 cod. proc. civ.[18]

Altro profilo problematico si rinviene nell'utilizzo dell'espressione "esame dei motivi" con riferimento alla valutazione della Corte, là dove l'interrogativo è se, in presenza di più motivi, l'esame in funzione del filtro riguardi il ricorso nella sua interezza ovvero i singoli motivi, con la conseguenza che, nel secondo caso, anche l'inammissibilità di un solo motivo comporterebbe l'inammissibilità del ricorso[19].

Posto che l'ipotesi della pronuncia di merito conforme all'orientamento della Cassazione esalta, per il suo chiaro tenore, la funzione di incentivare la nomofilachia[20], l'aspetto problematico è quello della verifica dell'orientamento che funge da parametro di "conformità", là dove si presentino più indirizzi interpretativi sulla stessa materia. In tale evenienza, non potendosi dirimere la questione sulla base della prevalenza dell'uno o dell'altro orientamento, si ritiene che il ricorso debba, in ogni caso, reputarsi ammissibile[21].

Non del tutto agevole è, poi, la comprensione del significato dell'espressione riguardante gli elementi sufficienti per "mutare" l'orientamento della Corte, posto che il ricorso necessariamente, in re ipsa, dovrà impostarsi in modo tale da fornire elementi nuovi per modificare la decisione di merito in linea all'indirizzo di legittimità[22]. Diverso è, invece, il profilo relativo alla serietà o meno degli argomenti (o elementi) offerti dal ricorso; profilo che, però, prescinde dalla questione di ammissibilità del ricorso, per ridondare nella fondatezza o meno del ricorso[23].

Ancora più ardua è ritenuta l'esegesi dell'altra ipotesi del n. 1, quella per cui i motivi di ricorso non siano diretti a "confermare" l'orientamento della Corte, giacché il ricorrente tende proprio a far mutare tale indirizzo[24]. In realtà, si potrebbe ipotizzare che il legislatore abbia inteso affermare che l'accertamento che i motivi debbano offrire elementi per "confermare" l'orientamento della Corte vada riferito al caso in cui la questione di diritto sia stata decisa in modo difforme dall'orientamento della Corte stessa e cioè il ricorso dovrà fornire elementi per riportare la decisione nell'alveo dell'orientamento della Corte e, dunque, "confermarlo"[25].

2.3. Il n. 2 dell'art. 360 bis c.p.c.

Anche la disposizione del n. 2 partecipa del "congegno di filtro" delineato dalla norma dell'art. 360bis c.p.c. nel suo complesso e la sua portata può sintetizzarsi, come evidenziato in dottrina[26], nella circostanza per cui, allorché una decisione sia conforme a diritto e sia immune da difetto di motivazione, non può essere cassata "per violazione di norma sul procedimento, se non quando questa violazione, per aver attinto norme che traducono principi di rilevanza costituzionale sulla tutela giurisdizionale, non ne metta in discussione le basi di fatto".

Quanto alla disciplina dettata dal n. 2 dell'art. 360-bis c.p.c., essa solleva incertezze ancora maggiori, potendo l'espressione dei "principi regolatori del giusto processo" esser riempita dei contenuti più vari[27].

Ci si chiede, infatti, quali siano tali principi: se essi attengano a quelli stabiliti dalla CEDU (art. 6) ovvero ai principi di cui al secondo comma dell'art. 111 Cost.[28]. Invero, non sembrerebbe esaurire la tutela né il solo riferimento alla terzietà ed imparzialità del giudice (garantiti dalle norme su astensione e ricusazione), né quello al contraddittorio, posto che la violazione di esso ha rilievo solo se ha determinato un pregiudizio alla parte; ed anche il riferimento alla durata del processo sembrerebbe troppo vaga[29].

Parrebbe, dunque, impossibile fare dei vizi relativi alla violazione delle norme sul giusto processo una categoria a se stante, dovendosi circoscrivere l'indagine utile alla verifica sul se tali vizi ricadano o meno nel disposto di cui al n. 4 dell'art. 360 c.p.c.[30]

Sicché, si presentano due alternative: riconoscere a qualsiasi violazione di norma processuale l'integrazione della violazione dei principi regolatori del giusto processo; oppure lasciare alla Corte il discrimine tra detta violazione e quelle prive di un tale carattere[31]. Con l'avvertenza, però, che, in questo secondo caso si potrebbe ipotizzare un contrasto con l'art. 111, comma settimo, Cost., per il quale il ricorso per cassazione è sempre ammesso per violazione di legge, senza ulteriori specificazioni e senza riferimenti alla gravità della violazione stessa[32].

Quanto poi al vizio di motivazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c., la dottrina, sul presupposto che il controllo sulla motivazione non può sollecitare alcun tipo di valutazione di ammissibilità del ricorso ai sensi del n. 1 dell'art. 360-bis c.p.c., è orientata a ricondurre detto vizio proprio nell'ambito del n. 2 della medesima disposizione, riconoscendo nell'obbligo di motivazione, costituzionalmente imposto, un principio regolatore del giusto processo[33].

2.4. La compatibilità costituzionale e l'interpretazione adeguatrice.

Sul versante della resistenza della riforma sul "filtro" rispetto al quadro costituzionale di riferimento, si è osservato[34] che la garanzia, costituzionalmente imposta, del rimedio del ricorso per cassazione, alla stregua di quanto previsto dall'art. 111, comma settimo, Cost., è indebolita proprio da interventi legislativi quali quelli che hanno portato all'art. 360-bis c.p.c.. Ciò, soprattutto, se si pone attenzione alla netta riaffermazione di quel principio da parte della recente sentenza n. 207 del 2009 della Corte costituzionale, la quale ha ribadito: 1) il ricorso per cassazione è "nucleo essenziale del giusto processo regolato per legge"; 2) esso è rimedio costituzionalmente imposto avverso le sentenze ed i provvedimenti limitativi della libertà personale; 3) il presidio costituzionale contrassegna il diritto al processo in cassazione.

Sicché, non potrebbe revocarsi in dubbio che la giurisprudenza costituzionale sia orientata nel senso che la garanzia dell'art. 111, comma settimo, Cost. concerne, in primo luogo, il diritto delle parti al controllo di legittimità sull'operato dei giudici di merito, scaturendo, poi, da questo esercizio la funzione nomofilattica[35].

E la garanzia soggettiva del diritto al ricorso per cassazione - si soggiunge[36] - resisterebbe anche ad una lettura combinata con i principi di eguaglianza e di ragionevole durata del processo, che, secondo altre impostazioni[37], potrebbero, invece, essere incrinati in assenza di adeguati "filtri". Infatti, la tendenziale uniforme applicazione della legge e la ragionevole durata si dovrebbero ritrarre rispetto alla necessità di un controllo sull'operato dei giudici di merito, quale prevalente esigenza che rappresenta il nucleo essenziale del giusto processo[38].

Nel senso del necessario innesto di una valutazione di manifesta infondatezza della censura nella fattispecie del n. 1 dell'art. 360 bis, ai fini della compatibilità costituzionale della disposizione, si è espresso un altro autore[39].

Secondo il disposto del n. 1 dell'art. 360 bis, nella sua formulazione testuale, il ricorso sarebbe inammissibile quando il ricorrente ponga una questione di diritto già decisa dalla corte secondo un precedente al quale ha prestato adesione la sentenza impugnata e quando il ricorrente, invocandone il revirement, non indichi elementi nuovi, ma riproponga quelli già valutati in precedenza dalla corte. Sarebbe, quindi, precluso alla corte di valutare diversamente le argomentazioni poste dal ricorrente a fondamento del suo motivo, ancorché già valutate dalla corte stessa in una sua precedente pronuncia (o anche in plurime precedenti pronunce). La corte si troverebbe ad essere vincolata al suo precedente, laddove l'art. 101, secondo comma, Cost. prevede che il giudice è soggetto (solo) alla legge; d'altra parte sarebbe frustrata la garanzia costituzionale prevista dal settimo comma dell'art. 111 Cost. che assicura in ogni caso il ricorso al sindacato di legittimità della corte di cassazione.

La lettura testale dell'art. 360 bis, n. 1, risulterebbe poi anche asistematica perché il canone dello stare decisis trova comunque un'attuazione "debole" (e perciò compatibile con l'art. 111, settimo comma, Cost.) nel giudizio di cassazione e segnatamente nell'art. 374 c.p.c. (che riserva alle sezioni unite il revirement sulla propria giurisprudenza) e nell'art. 420 bis (che assegna alla sentenza interpretativa della normativa collettiva di livello nazionale una qualche incidenza sugli altri giudizi di merito).

Occorre quindi accedere alla indicata interpretazione adeguatrice: se il ricorrente, nel porre una questione di diritto già decisa in precedenza dalla corte, non offre elementi nuovi che richiedano di mutare – o anche confermare – l'indirizzo giurisprudenziale contestato, il motivo è inammissibile se manifestamente infondato, ossia se la corte, anche semplicemente richiamando il proprio precedente, ritenga di ribadire tout court, il precedente orientamento.

Costruite, poi, entrambe le fattispecie dell'art. 360 bis come ipotesi di manifesta infondatezza, la "novità" della norma svapora giacché la previsione di un dispositivo di inammissibilità del ricorso sul presupposto della manifesta infondatezza della censura è assai poco diverso da un dispositivo di rigetto del ricorso.

Sempre in un'ottica di conformità a Costituzione della prima delle clausole di filtro contenute nell'art. 360-bis si colloca quella dottrina[40] che, avendo a specifico riferimento il parametro dell'art. 111 Cost. (sia sotto il profilo della esperibilità del ricorso per cassazione avverso le sentenze, sia sotto quello della necessaria motivazione delle sentenze stesse), intende la norma di rito nel senso che "debbono ricorrere ulteriori condizioni, quelle che si traggono a contrario dalla disposizione, perché la cassazione abbia il dovere di un nuovo esame da parte sua degli argomenti che l'hanno portata in precedenza a decidere una stessa controversia nel modo in cui lo ha fatto il giudice di merito". Sicché, la motivazione della pronuncia della Corte "starebbe nella riscontrata assenza di argomenti per tornare a prendere posizione sulla questione posta dal ricorso" e, per altro verso, sarebbe pertinenza della cassazione valutare se quanto in precedenza deciso "non necessiti di essere cambiato o mostri di non essere adeguato alle particolarità del nuovo caso".

3. LA PRONUNZIA DELLE SEZIONI UNITE DEL 2010.

Sulla portata delle previsione di cui al n. 1 dell'art. 360 bis c.p.c. sono intervenute le S.U con Ordinanza n. 19051 del 6 settembre 2010, contenente statuizioni adottate ai sensi dell'art . 363 c.p.c. essendo stato il ricorso dichiarato estinto per rinunzia.

a) Innanzitutto[41], è stata affermata l'applicabilità dei nuovi requisiti di ammissibilità del ricorso per cassazione al regolamento di competenza.

Questi i passaggi argomentativi.

È stata abrogata la disciplina del "filtro a quesiti" di cui al d.lgs. n. 40 del 2006 e sostituita con una disciplina (art. 360 bis c.p.c.) che descrive le condizioni di rilevanza delle critiche consegnate ai motivi di ricorso.

La corte ha costantemente ritenuto, applicando la disciplina dei quesiti di diritto, che le disposizioni sul ricorso per cassazione si applicano anche al ricorso per regolamento di competenza e al relativo procedimento, in quanto compatibili e non derogate da disposizioni specificamente dettate per il regolamento.

La dottrina è generalmente della stessa opinione rispetto al nuovo filtro.

La dottrina è concorde nel ritenere che l'art. 360 bis c.p.c. interessa tutti i motivi riconducibili al concetto di violazione di norme di diritto; quindi anche quando viene in questione l'interpretazione di una norma avente la funzione di delimitare le condizioni di applicazione di un criterio di collegamento della competenza.

b) Il nucleo centrale della pronuncia perviene all'enunciazione del seguente principio di diritto: «Il ricorso scrutinato ai sensi dell'art. 360 bis, n. 1 cod. proc. civ. deve essere rigettato per manifesta infondatezza e non dichiarato inammissibile, se la sentenza impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla, posto che anche in mancanza, nel ricorso, di argomenti idonei a superare la ragione di diritto cui si è attenuto il giudice del merito, il ricorso potrebbe trovare accoglimento ove, al momento della decisione della Corte, con riguardo alla quale deve essere verificata la corrispondenza tra la decisione impugnata e la giurisprudenza di legittimità, la prima risultasse non più conforme alla seconda nel frattempo mutata.»[42]

Questo, in estrema sintesi, il percorso argomentativo seguito.

Le condizioni di rilevanza della inammissibilità, predicata dalla frase che regge il costrutto, sono solo apparentemente distinte ed hanno, invece, tratti fondamentali comuni.

Anche nell'ipotesi della previsione di cui al n. 1, il giudizio che sorregge la decisione della corte è di manifesta infondatezza dei motivi e, di conseguenza, del ricorso, come anche affermato dalla dottrina.

Dal dato formale della formula terminativa di inammissibilità richiesta dalla legge una parte della dottrina ha sottolineato l'incidenza rispetto al ricorso incidentale tardivo, che perderebbe efficacia (art. 334, secondo comma, c.p.c.), nel mentre altra parte, a partire dalla diversità ontologica delle categorie, ha ragionato in termini di ricerca delle condizioni di esercizio ammissibile del potere di ricorso per cassazione.

Queste condizioni, tradotte in requisiti di contenuto-forma del ricorso in riferimento al requisito di specificità dei motivi, si sostanziano nella necessità che il ricorrente si faccia carico di individuare: la ragione di diritto seguita dal giudice del merito; l'orientamento della giurisprudenza della corte; la relazione di conformità o difformità tra la prima e il secondo; nel primo caso gli argomenti per provocare un diverso orientamento.

La corte non condivide questa conclusione.

Il risultato di un giudizio che ha per oggetto la conformità-difformità tra interpretazione accolta dal giudice di merito e interpretazione di quel che risulta dalla giurisprudenza di legittimità non può essere qualificato di inammissibilità. Infatti, tale giudizio non può essere formulato diversamente se non avendo riguardo allo stato della giurisprudenza al momento della decisione del ricorso, non al momento della decisione del merito, né a quello in cui il ricorso è stato proposto.

Conseguentemente, non è rilevante se il ricorso contenesse o meno argomenti utili per il mutamento della giurisprudenza. Se il ricorso deve essere accolto perché al momento della decisione della corte la giurisprudenza è cambiata (indipendentemente se contenesse elementi idonei a determinare il mutamento) la mancanza di tale argomentazione non impedisce la decisione, ma giustifica un decisione di rigetto per manifesta infondatezza.

L'opzione interpretativa scelta trova diverse giustificazioni:

- non contrasta con le norme che regolano il procedimento decisionale;

- aver spostato le ipotesi del 360 bis c.p.c. nelle situazioni di manifesta fondatezza e infondatezza di cui all'art.375 n.5 c.p.c., non rende privo di applicazione il n. 1 dello stesso articolo;

- i requisiti a pena di inammissibilità, individuati dal legislatore e dalla giurisprudenza, riguardano fattori esterni al giudizio sul fondamento dei motivi di ricorso, e cioè, i requisiti di legittimazione della parte e del difensore, l'impugnabilità del provvedimento, il difetto di conformità del motivo a uno di quelli previsti dall'art. 360, l'essere il motivo diretto a punti non sottoposti o non riproposti al giudice del merito; il difetto di sufficienza ed intelligibilità del discorso critico.

L'ultima giustificazione individuata dalla corte è, si potrebbe dire, strategica, in quanto volta al miglior funzionamento del filtro, e si svolge attraverso i seguenti punti.

Il filtro del 2006, realizzato attraverso i quesiti di diritto, e quello del 2009, incardinato sul sistema di cui all'360 bis c.p.c., sono il risultato di una convinzione, diffusa anche nella dottrina, secondo la quale, in nome del principio di effettività della tutela giurisdizionale, c'è necessità di un bilanciamento tra diritto delle parti al ricorso per cassazione e la concreta possibilità di esercizio della funzione di legittimità, garanzia, a sua volta, del principio di eguaglianza. Il bilanciamento impone l'uso di tecniche di esame, di decisione e di motivazione proporzionate alla novità e difficoltà delle questioni.

Il requisito formale del quesito di diritto ha favorito irrigidimenti e ripulse, avendo concentrato le risorse della corte su aspetti attinenti al proprio giudizio interno. Se si ritenesse che il nuovo filtro prosegue sulla strada della inammissibilità si rischierebbe lo stesso risultato negativo.

Invece, con il nuovo "filitro", la corte può utilizzare i propri poteri decisori in modo da evolvere la propria interpretazione e, nello stesso tempo, rigettare in modo economico i motivi di ricorso che trovano ostacolo nei propri precedenti attualizzati alla decisione, da cui si ritiene, con la nuova valutazione, di non doversi discostare. Così la corte si concentra sulla propria giurisprudenza e non su un aspetto del giudizio dinanzi a sé.

4. LE OSSERVAZIONI DEI PRIMI COMMENTATORI.

4.1. Sull'applicabilità dell'art. 360 bis c.p.c. al regolamento di competenza.

Da un lato si è ritenuta tale applicazione inevitabile, sulla base della pregressa giurisprudenza relativa all'art. 366 bis c.p.c., dall'altro sono state avanzate critiche[43]. Secondo queste, il soggetto dell'art. 360 bis c.p.c. è "il ricorso"; il riferimento, anche per la collocazione della disposizione, è al ricorso ordinario; il regolamento di competenza è un mezzo di impugnazione diverso.

4.2. Sul rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

I primi commenti dottrinali alla pronuncia delle Sezioni Unite sulla portata dell'art. 360-bis cod. proc. civ. esprimono un sostanziale gradimento in ordine alla soluzione adottata ed alle argomentazioni che la sorreggono.

Si è posto in luce[44] che la decisione interviene in un contesto normativo il quale, sin dal suo apparire, ha determinato incertezze, come, del resto, gli stessi lavori preparatori lasciavano intendere, siccome caratterizzati da un procedere convulso e disordinato. Di qui, la ritenuta correttezza dell'impostazione dell'ordinanza, giacché rimedia alla "stonatura" rappresentata dalla qualificazione di "inammissibilità" attribuita dal legislatore ad una pronuncia che, invece, è di merito.

Si fa altresì notare che la declaratoria di inammissibilità, in luogo di quella di manifesta infondatezza, oltre a risultare "dissonante" rispetto alla disciplina recata dal successivo art. 380-bis c.p.c., avrebbe incidenze pratiche non irrilevanti, giacché farebbe perdere efficacia "agli eventuali ricorsi incidentali tardivi"[45].

In definitiva, la sentenza delle Sezioni Unite risolve delle antinomie che parevano insolubili e, in tal senso, è in grado di superare l'obiezione secondo la quale non si sarebbe trattato di attività interpretatrice delle norme, bensì "di una libera creazione del diritto". Difatti, la pronuncia in esame opererebbe una esegesi teleologica di un insieme di disposizioni in modo funzionale a due obiettivi:

1) la risoluzione spedita dei ricorsi che non pongano nuove questioni di diritto, ovvero non richiedano di modificare orientamenti precedenti;

2) lo svolgimento efficace della funzione nomofilattica propria della Cassazione, la cui cifra di certezza ridonda in prospettiva deflattiva del carico di lavoro[46].

Particolare apprezzamento[47] è stato espresso in ordine al significato che la decisione della Corte a Sezioni unite ha attribuito all'espressione "elementi per confermare o mutare l'orientamento", di cui al n. 1 dell'art. 360-bis c.p.c., riuscendo così a superare il suo apparire un nonsense. Invero, l'inammissibilità prevista dalla citata disposizione riguarda un ricorso che, essendo proposto contro un provvedimento che ha deciso la questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Cassazione, non si cura di sottoporre alla Corte argomenti che la convincano a riesaminare la questione stessa.

Il medesimo A. presta, poi, convinta adesione alla affermata qualificazione di "manifesta infondatezza", in luogo di quella di inammissibilità recata dalla norma, adducendo che l'argomento utilizzato dalle Sezioni unite per giungervi è di "cartesiana evidenza". Infatti, posto che l'orientamento che la Corte deve essere convinta a riesaminare è soltanto quello esistente al momento della sua decisione, l'esistenza nel ricorso di elementi idonei a convincere la Corte a riesaminare il proprio orientamento "non può essere elevato a requisito di validità del ricorso stesso", altrimenti si dovrebbe pervenire alla inaccettabile conclusione della inammissibilità di un ricorso che tali elementi non contenga e che tuttavia invochi un errore di giudizio che la Corte, nel momento in cui decide, ritiene effettivamente sussistente perché ha già mutato il proprio orientamento.

Donde, la convinzione che il filtro "è strumento che opera sul merito e non sul rito; e che esso non incide sull'an della decisione della Corte, ma sul quomodo della stessa".

Di qui, inoltre, il rilievo sulla erronea prospettiva assunta dalle prime notizie fornite in ordine alla decisione delle Sezioni unite, che ne avrebbero frainteso la portata, là dove si è evidenziato che essa metteva a repentaglio l'efficacia deflattiva della misura, giacché la soluzione dell'inammissibilità rendeva "molto più sbrigativo l'esame del ricorso". A tal riguardo si è obiettato che la declaratoria di inammissibilità o di manifesta infondatezza non inciderebbe sul tipo di impegno richiesto alla Corte.

Piena adesione si manifesta anche sull'argomentazione che investe la previsione di cui al n. 2 dell'art. 360 bis, intesa come ipotesi da accomunare al n. 1 della stessa disposizione, in ciò privilegiandosi una scelta ermeneutica che riesce a coordinarsi con la disciplina recata dai nn. 1, 2 e 4 dell'art. 360 cod. proc. civ., la quale, diversamente, avrebbe rischiato di essere investita di una tacita abrogazione. Scelta che, soprattutto, evita la limitazione del ricorso per cassazione alle sole ipotesi reputate integranti la nozione di "violazione del principi regolatori del giusto processo".

Limitazione che avrebbe obliterato l'esigenza fondamentale posta dal principio di legalità, secondo cui "l'esercizio di ogni potere autoritativo, e quindi anche quello giurisdizionale", deve essere sottoposto "al controllo di un giudice". Nella sostanza, l'impossibilità di far valere in cassazione gli illeciti processuali commessi dall'autore della violazione "avrebbe disinnescato l'onere di cui all'art. 161, comma 1, c.p.c., tutte le conseguenze facilmente e tragicamente immaginabili".

Si sostiene, quindi, che l'ordinanza delle Sezioni Unite "conferma che nessuna restrizione vi è a far valere in Cassazione l'invalidità – ogni invalidità – della sentenza ricorribile". Ove, però, si asserisca l'esistenza dell'invalidità nonostante che la pronuncia oggetto di impugnazione risulti conforme all'orientamento della Corte, il ricorso dovrà, allora, contenere elementi atti a convincere la Corte a riesaminare il proprio orientamento, altrimenti la censura di error in procedendo de iure sarà dichiarata infondata in base alla pregressa giurisprudenza di legittimità. Ciò rende evidente che la disposizione di cui al n. 2 dell'art. 360-bis "non trova applicazione laddove l'invalidità sia fatta discendere da un error in procedendo de facto".

Ancora in convinta adesione alla pronuncia delle Sezioni unite, si assume che l'art. 360-bis c.p.c. abbia molte somiglianze con l'art. 374, comma terzo, c.p.c. e con esso si coordini. Come nel rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite, così la sezione semplice di cui all'art. 376 c.p.c. può ritenere che vi siano ragioni per sottoporre a riesame l'orientamento della giurisprudenza delle Corte, oppure applicarlo e rigettare il ricorso per manifesta infondatezza. Del resto, questa sarebbe "l'unica strada" - si soggiunge - che consente alle corti di vertice di mantenere la loro duplice funzione, "che è di proporre e di applicare".

Infine, all'interrogativo che attiene all'effettiva utilità dell'art. 360-bis c.p.c., una volta dissolta l'inammissibilità in pronuncia di manifesta infondatezza, si risponde ponendo in evidenza l'importanza del "piano ordinamentale", essendo la valutazione prevista dalla citata disposizione affidata alla speciale sezione di cui all'art. 376 c.p.c., che rappresenta la "vera novità della riforma", tanto che l'art. 67-bis dell'ordinamento giudiziario stabilisce che tale speciale sezione è composta da magistrati appartenenti a tutte le sezioni della Corte.

5. LA GIURISPRUDENZA DELLA SESTA SEZIONE: TECNICHE DI DECISIONE E RAPPORTO CON L'ORDINANZA DELLE S.U. DEL 2010.

5.1. Richiamo espresso della l. n. 69 del 2009.

In pochi casi, il richiamo é generico (applicabilità delle disposizioni del c.p.c., artt. 360 e ss., come modificate dalla l. n. 69 del 2009).

In pochi casi (terza sottosezione n. 17469 - prima sottosezione n. 17922 - prima sottosezione 17571, ed altre "seriali", dello stesso relatore) espresso riferimento al 360 bis n. 1 c.p.c.; in un altro caso (terza sottosezione n. 17463), in riferimento alle controdeduzioni con memorie, per dire che l'omessa considerazione della giurisprudenza della Corte richiamata nella relazione da parte delle memorie avrebbe dovuto comportare (alla luce del n. 1 del 360 bis c.p.c.) non dedicare attenzione alle controdeduzioni; poi si controbatte alle controdeduzioni.

5.1.a. In riferimento specifico a profili processuali.

L'art. 375, n. 1, come novellato nel 2009, nel richiamare l'inammissibilità per mancanza dei motivi previsti dall'art. 360, richiama qualsiasi previsione di inammissibilità del ricorso per cassazione (nella specie il n. 3 dell'art. 366: terza sottosezione, n. 17463).

In alcuni casi, di regolamenti di competenza della terza sottosezione, si trova la specificazione che, essendo il ricorso soggetto alle disposizioni introdotte dalla legge n. 69 del 2009, si presta ad essere deciso con il procedimento di cui al 380 bis c.p.c., anziché ter, perché manifestamente fondato ai sensi del n. 5 del 375 (terza sottosezione, n. 17468 e n. 17467) oppure manifestamente inammissibile, ai sensi del n. 1 dello stesso art. 375 (terza sottosezione, n. 17466).

In un caso di regolamento di competenza, si trova la specificazione che, essendo il ricorso soggetto alle disposizioni introdotte dalla l. n. 69 del 2009, si presta ad essere deciso con il procedimento di cui al 380 bis c.p.c., perché improcedibile, «onde si rientra sostanzialmente in ipotesi assimilabile a quella di inammissibilità di cui al n. 1 dell'art. 375 c.p.c., alla quale – insieme a quella di cui al n. 5 di tale norma – allude l'art. 380 bis c.p.c» (terza sottosezione, n. 17465)[48].

5.2. Implicito richiamo alla legge n. 69 del 2009.

Generalmente non è richiamata la legge n. 69 del 2009.

In alcuni casi – precedenti alla ord. n. 19051 – la decisione, sebbene non si richiami l'art. 360 bis, è: di inammissibilità del motivo per contrasto con i consolidati precedenti della Corte (sottosezione lavoro n. 17916); per aver la sentenza impugnata deciso conformemente a un indirizzo consolidato della Corte di cassazione (prima sottosezione n. 17588, n. 17577, n.17922).

Talvolta (terza sottosezione n. 17693, terza sottosezione n. 17698) l'impianto motivazionale è palesemente costruito sullo schema dell'art. 360 bis (con riferimento ai precedenti utili), sia pure senza espresso richiamo.

5.3. Applicazione dell'orientamento adottato dalla ordinanza n. 19051 del 2010, facendone esplicita menzione.

In pochissimi casi è stato rigettato il ricorso facendo espresso richiamo all'interpretazione che la ordinanza n. 19051 ha dato della formula di cui all'art. 360 bis n. 1 c.p.c. (prima sottosezione nn. 24165, 24166, 24167, 24169 e 24170).

5.3.a. Applicazione dell'orientamento adottato dalla ordinanza n. 19051 del 2010, senza farne esplicita menzione.

Decisioni di accoglimento, essendosi discostata la Corte di merito dai principi consolidati e recentemente affermati o confermati dalla Cassazione (prima sottosezione, nn. 20469, 20470, 23893; seconda sottosezione n. 22154).

Decisioni di rigetto, essendosi la Corte di merito ispirata ai principi consolidati e, comunque, recentemente riaffermati dalla Cassazione (prima sottosezione, nn. 19499, 20116; sottosezione lavoro, nn. 21920, 22016, 22707, 22708; 23119; terza sottosezione n. 24175); sulla base della risoluzione di contrasto sopravvenuta alla sentenza impugnata, che aveva adottato uno degli orientamenti presenti nella giurisprudenza, poi seguito dalle sezioni unite (sottosezione lavoro n. 22706).

5.4. Struttura della decisione.

In generale, le ordinanze utilizzano il seguente schema: questione posta all'attenzione della Corte; confronto con la giurisprudenza di legittimità; conseguenze sull'esito del ricorso.

5.4.a. Tecnica espositiva, in generale.

Rispetto alla relazione redatta dal relatore per il procedimento in camera di consiglio, utilizzo di una tecnica mista: si dà atto della lettura da parte del collegio e poi si riportano (senza richiamarle espressamente) le considerazioni in fatto e in diritto; si riproduce integralmente la relazione virgolettata e poi si dà atto che il collegio la condivide, aggiungendo, talvolta, delle precisazioni, anche in riferimento alla memoria delle parti.

Generale stringatezza della motivazione in fatto e diritto (non mancano corpose eccezioni).

Talvolta (sottosezione lavoro n. 17916; sottosezione terza n. 24175), calibrandosi la motivazione sui precedenti, si esplicita che il ricorso non offre elementi per mutare orientamento.

Talvolta, al richiamo del principio consolidato si aggiungono le argomentazioni tratte dalle sentenze precedenti.

Talvolta, al richiamo del principio consolidato si aggiunge il richiamo dell'indirizzo precedente e oramai superato dalla giurisprudenza successiva della Corte.

Talvolta, all'affermazione di un indirizzo consolidato non seguono indicazioni di decisioni della Corte (per esempio, nel caso di ricorso incentrato su circostanze di fatto, seconda sottosezione, n. 21721).

Talvolta, la questione di diritto è dichiarata palesemente infondata senza alcun richiamo della giurisprudenza della Corte: prima sottosezione, n.11757 su una questione di diritto; sottosezione lavoro, n. 21367, essendo dedotto solo l'art. 360 n. 5 c.p.c.; trattandosi di soluzione rinvenibile nell'espressa disposizione normativa o in tema di condanna alle spese in seguito a soccombenza (prima sottosezione, n. 117580).

Talvolta, all'affermazione di un indirizzo consolidato seguono richiami anche di decisioni non massimate.

Talvolta, nonostante si affermi superfluo un profilo, si motiva anche in ordine allo stesso (per esempio, ritenuto un ricorso inammissibile per difetto dei requisiti contenuto/forma del ricorso, si motiva anche sulla manifesta infondatezza.

Talvolta si richiama stringatamente lo stesso principio di diritto sul quale è fondata la decisione impugnata (sottosezione lavoro n. 21090).

5.4.b. Tecnica decisionale nelle pronunce di (manifesta) infondatezza/fondatezza (rigettoaccoglimento) del ricorso.

Il termine "manifesta" è usato molto raramente.

Prevalentemente, è riportato il principio affermato in un indirizzo consolidato rilevante per la decisione e sono richiamate le decisioni più recenti (seconda sottosezione, nn. 17506 e 17927);

Eccezionalmente, è richiamato un solo precedente della Corte, neppure tanto recente, ma espressione di principio consolidato (prima sottosezione, n. 17918).

Talvolta, sono anche richiamati ed esposti principi collaterali, collegati a quello fondamentale per la decisione.

Eccezionalmente, la decisione è fondata su principio affermato per la prima volta dalla Corte in periodo recentissimo (prima sottosezione, n. 17925, tanto che sono state compensate le spese del giudizio di cassazione).

Eccezionalmente, la decisione è fondata su un precedente, non specifico, ma ritenuto applicabile anche alla specie decisa (prima sottosezione, n. 17926).

5.4.c. Dispositivi.

Rigetto/accoglimento.

Grande prevalenza delle decisioni di rigetto.

Inammissibilità per profili attinenti a requisiti forma/contenuto del ricorso e, in genere, a fattori esterni al giudizio sul contenuto del ricorso.

Inammissibilità per profili specifici nei regolamenti di competenza.

5.4.d. Definizioni del ricorso con decisioni in rito.

Inammissibilità, non essendo il ricorso stato notificato ad alcuno.

Inammissibilità, per tardività del ricorso.

Inammissibilità, per inidoneità del motivo, incentrato su una violazione di legge basata su una circostanza di fatto esclusa dal giudice di merito (prima sottosezione, n. 17919).

Inammissibilità, per non essere il provvedimento impugnabile con ricorso per cassazione (terza sottosezione, n. 17461).

Inammissibilità, per difetto di procura speciale ad litem, per un ricorrente, e mancata prova della legittimazione attiva, per l'altro (terza sottosezione, n. 17503).

Inammissibilità per difetto dei requisiti contenuto/forma del ricorso (art. 366 nn. 3 e 6, in collegamento con il mancato deposito ex art. 369 n. 4). In particolare, numerose sono le pronunce di inammissibilità per violazione del principio di autosufficienza del ricorso (prima sottosezione, nn. 18036 e 18044; sottosezione lavoro, nn. 21369, 21373, 21374) ma non mancano pronunce di rigetto tout court per lo stesso motivo (sottosezione lavoro, n. 21370, 21375 e 21377).

5.4.e. Decisioni nei ricorsi per regolamento di competenza.

Inammissibilità per profili interni alla disciplina dell'istituto, sulla base di giurisprudenza consolidata.

Inammissibilità per profili interni alla disciplina dell'istituto, prendendo argomentatamente posizione tra un vecchio e nuovo orientamento, a favore del nuovo (terza sottosezione, n. 17462).

Inammissibilità per vizi procedurali specifici dei regolamenti (terza sottosezione, nn. 17452, 17454, 17456, 17457; sottosezione lavoro, nn. da 23114 a 23116).

Decisione sulla base di principio consolidato ed enunciazione di principio di diritto in funzione nomofilattica (terza sottosezione n. 23914, fattispecie di impugnazione di sospensione del processo in cui venivano in rilievo cause pendenti dinanzi allo stesso ufficio e principio di diritto enunciato per l'ipotesi di giudizi pendenti davanti a giudici diversi).

Spesso sono affrontate e decise questioni nuove (terza sottosezione, n. 22918); attraverso l'estensione di un principio consolidato (terza sottosezione, n. 17467); derivando la soluzione dall'interpretazione, per la prima volta da parte della Corte, di una norma di legge (prima sottosezione, n. 17582, n. 17583).

Diretta declaratoria di competenza sulla base di principi consolidati (prima sottosezione, nn. 19987 e 20468; terza sottosezione: nn. 17455 e 17702; nn.da 16355 a 16364; nn. da 22923 a 22925; n. 22928).

  • giurisdizione minorile
  • giurisdizione tributaria
  • giurisdizione del lavoro
  • fallimento

CAPITOLO V

RITI SPECIALI E GIUSTO PROCESSO

(di Francesco Buffa, Massimo Ferro, Francesca Ceroni, Pasquale Fimiani )

Sommario

1 IL PROCESSO TRIBUTARIO: QUESTIONI SULLA DURATA, SULLE GARANZIE DEL CONTRADDITTORIO E SULLA TERZIETÀ DEL GIUDICE. - 1.1 Introduzione. - 1.2 Corte di Giustizia, Cedu e giusto processo tributario. - 1.3 L'attuazione del principio della ragionevole durata del processo. - 1.4 La tutela del diritto di difesa e di effettività del contraddittorio. - 1.5 L'effettiva terzietà del giudice nella qualificazione dell'atto di accertamento come "provocatio ad opponendum" e del processo tributario come "impugnazione-merito". - BIBLIOGRAFIA - 2 I PROCEDIMENTI FALLIMENTARI RIFORMATI: PUNTI CONTROVERSI E CONDIVISIONI INTERPRETATIVE. - 2.1 I procedimenti concorsuali nel riformato r.d. 16 marzo 1942, n. 267. Il valore paradigmatico della nuova istruttoria prefallimentare. - 2.2 La natura della cognizione ed i riflessi sui poteri di iniziativa delle parti: il diritto al contraddittorio, i termini, le forme dei ricorsi e la rinunzia. - 2.3 La prova dei presupposti di fallibilità, nel bilanciamento tra principio dispositivo ed officiosità dell'istruzione probatoria. - 2.4 Gli esiti negativi del procedimento per la dichiarazione di fallimento: la questione dell'idoneità al giudicato del decreto di rigetto della domanda. - 2.5 L'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento. - BIBLIOGRAFIA - 3 IL GIUSTO PROCESSO DEL LAVORO: I POTERI OFFICIOSI ATTRIBUITI AL GIUDICE DEL LAVORO. - 3.1 La funzione dell'intervento del giudice in ambito istruttorio. - 3.2 Poteri istruttori della Corte nel procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi. - 3.3 Il rilievo officioso, in ogni stato e grado, delle nullità processuali. - 3.4 Rilievo della decadenza in materia previdenziale. - 3.5 Giurisdizione, competenza, legittimazione ed altre questioni, diverse da quella oggetto di interpretazione, nel procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi. - 3.6 Preclusioni al rilievo officioso di alcune nullità verificatesi nel giudizio di merito. - 3.7 Il riconoscimento d'ufficio del cumulo di interessi e rivalutazione delle somme oggetto di condanna del datore di lavoro. - 3.8 Il controllo del giudice sul frazionamento della domanda ingiustificato. - BIBLIOGRAFIA - 4 LE PRIME DECISIONI SUL NUOVO PROCESSO MINORILE. - 4.1 Il nuovo processo minorile nella riformata legge 4 maggio 1983 n. 184. - 4.2 Il riconoscimento del minore come parte sostanziale e processuale. - 4.3 La rappresentanza processuale del minore. - 4.4 La difesa tecnica ed il mito dell'avvocato del minore. - 4.5 La "giurisdizionalizzazione" del rito. - 4.6 La definizione sistematica dell'"audizione" del minore.

1. IL PROCESSO TRIBUTARIO: QUESTIONI SULLA DURATA, SULLE GARANZIE DEL CONTRADDITTORIO E SULLA TERZIETÀ DEL GIUDICE.

1.1. Introduzione.

La storia del processo tributario risente della sua origine come contenzioso amministrativo e " può essere vista come un lento, graduale avvicinamento (..) al modello del giusto processo" (TESAURO, 06, 13).

Tale percorso, avviatosi già prima della modifica dell'art. 111 Cost., ha certamente ricevuto un nuovo e più forte impulso a partire da tale momento. La giurisprudenza (costituzionale e di legittimità) e la dottrina sono concordi nell'affermare che la norma si applica anche al contenzioso tributario ed è generalmente condiviso il convincimento che la stessa «si pone come possibilità di ripensare il rito alla luce del principio di parità delle parti, del contraddittorio, dell'imparzialità e terzietà del giudice e della ragionevole durata del processo» (PODDIGHE , 10, 125).

In questo contesto, la giurisprudenza di legittimità ha svolto un ruolo di interpretazione adeguatrice, fondata non soltanto sui principi di cui all'art. 111 Cost., ma anche su quello della buona fede oggettiva del contribuente, riconosciuto dall'art. 10 dello Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), sovente utilizzato sia in combinazione con il principio della ragionevole durata, sia quale presidio contro l'abuso del diritto di difesa.

La risposta della Corte Costituzionale alle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza (di merito e di legittimità) quando l'interpretazione adeguatrice non è stata ritenuta praticabile, presenta, ad avviso della dottrina, luci ed ombre.

Si evidenziano, invero, le numerose sentenze con cui, evocando l'interesse fiscale, o la peculiarità del processo tributario, si è giustificata la legittimità costituzionale di norme dettate a tutela delle ragioni del Fisco. Si osserva, in particolare, che, pur avendo l'interesse fiscale un particolare rilievo nella Costituzione, « il processo dovrebbe rispondere a logiche autonome, non influenzate da ragioni extraprocessuali, ed assicurare in ogni caso le garanzie volute dalla Costituzione, quali che siano gli interessi sostanziali coinvolti. Invece le norme del processo tributario non sono valutate dalla Corte in base a logiche processuali ed in base ai princìpi costituzionali del processo, ma assumendo che l'interesse fiscale possa giustificare discipline processuali diverse da quelle comuni ad altri processi e tutele attenuate del contribuente » (TESAURO, 06, 22, il quale aggiunge che « tutte le sentenze di accoglimento in materia di processo tributario possono essere viste come sentenze con le quali la Corte, esplicitamente o implicitamente, non ha ritenuto che l'interesse fiscale giustificasse un tratto differenziale del diritto processuale tributario rispetto al diritto processuale comune »).

In questo contesto, la dottrina da un lato individua diversi profili della disciplina del giudizio tributario non in linea con i principi del giusto processo, proponendone la modifica o la declaratoria di incostituzionalità e, dall'altro, auspica il ripensamento di quegli orientamenti interpretativi della S.C. che sembrano presentare profili di dissonanza rispetto a tali principi.

Nella prima prospettiva, vengono evidenziate diverse antinomie rispetto ai canoni del giusto processo, principalmente con riferimento:

- all'assenza di un'ipotesi di rimessione in termini a seguito di impugnazione tardiva per forza maggiore o caso fortuito (PODDIGHE, 10, 137, ricordato il costante orientamento – espresso in materia tributaria, ex multis, da Sez. V, n. 5778 del 08/05/2000, rv 536239 – per il quale la rimessione in termini disciplinata dall'art. 184-bis cod. proc. civ. riguarda le sole decadenze in cui le parti siano incorse nell'attività processuale davanti all'istruttore, ne propone un ripensamento in considerazione delle modifiche introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha abrogato la norma trasferendo l'istituto nell'art. 153 avente una diversa collocazione sistematica all'interno della disciplina generale dei termini processuali);

- alla facoltà delle commissioni tributarie, prevista dall'art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, di richiedere, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, apposite relazioni ad organi tecnici dell'amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica, che non viene ritenuta «in linea con le norme del giusto processo. Se ne può proporre una interpretazione adeguatrice, sostenendo che queste relazioni vanno considerate alla stregua di consulenze tecniche di parte e che vanno dunque applicate, dove è possibile, le regole della consulenza di parte, contenute negli arti. 191 ss., cod. proc. civ.» (TESAURO, 10, 22);

- alle differenti conseguenze della tardiva costituzione in giudizio del ricorrente e del resistente previste dagli artt. 22 e 23 del d.lgs. n. 546 del 1992;

- al differente obbligo di difesa tecnica tra le parti (art. 12 del d.lgs. n. 546 del 1992);

- alla differente modalità di esecuzione delle sentenze del giudice tributario a seconda della parte vittoriosa (artt. 68 e 69 del d.lgs. n. 546 del 1992).

Se le critiche rivolte dalla dottrina a tali norme sono indirizzate al legislatore o, al più, alla Corte costituzionale in sede di verifica della relativa legittimità, sotto altro versante, si sottolinea la persistenza di orientamenti confliggenti con le regole del giusto processo, legati, in particolare, alla qualificazione dell'atto impugnato come "provocatio ad opponendum" ed alla definizione del processo tributario come processo di "impugnazione-merito" (si rinvia al paragrafo IV).

1.2. Corte di Giustizia, Cedu e giusto processo tributario.

Al tema del giusto processo tributario non è estranea l'incidenza delle pronunzie delle corti sovranazionali.

Da un lato, con la sentenza 3 settembre 2009, in causa C-2/08, Fallimento Olimpiclub Srl, la Corte di Giustizia ha affermato che « il diritto comunitario osta all'applicazione di una disposizione del diritto nazionale come l'art. 2909 c.c. in una causa vertente sull'Iva concernente un'annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta », in tal modo introducendo un significativo limite al principio dell'efficacia espansiva del giudicato in materia tributaria, riconosciuto da Sez. Un. n. 13916 del 16/06/2006 (rv 589696) in presenza di « elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d'imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all'applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente » (per l'applicazione della sentenza della Corte di Giustizia, cfr. ex multis, Sez. V, n. 12249 del 19/05/2010 e Sez. V, ord. n. 19493 del 13/09/2010).

D'altro canto, la "vis espansiva" dei principi sovranazionali trova nuova linfa dalla rimeditazione in atto del tradizionale orientamento per il quale l'art. 6, paragrafo 1, della Cedu è inapplicabile al processo tributario.

Tale orientamento aveva preso il via dalla sentenza Ferrazzini c/ Italia del 12 luglio 2001, con cui la Corte di Strasburgo, rilevato che la norma, per l'applicazione dei principi del giusto processo, fa riferimento alle controversie sui diritti e doveri di carattere civile ed alla fondatezza delle accuse penali, ha affermato, in termini generali che «la materia fiscale rientra ancora nell'ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività» (conforme, ex multis, la sentenza Jussila c/ Finlandia del 23 novembre 2006).

Peraltro, la stessa Corte ha riconosciuto la tutela della CEDU a diverse tipologie di controversie aventi inerenza con la materia tributaria, quali quelle in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie (sentenze Janosevic c/ Svezia e Vastberga Taxi Aktiebolag c/ Svezia, entrambe del 23/07/2002), di agevolazioni tributarie (sentenza Editions Périscope c/ Francia del 26/03/1992), di diritti di prelazione del fisco (sentenza Hentrich c/ Francia del 22/09/1994) e di rimborsi tributari (ex multis, sentenze Buffalo c./Italia del 3/10/2003 e Cabinet Diot c/ Francia del 22/10/2003).

Si comprende, allora come la S.C. abbia, da un lato, confermato l'impostazione generale contraria all'applicabilità al processo tributario della disciplina dell'equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Cedu (Sez. 1, n. 11350 del 17/06/2004, rv 573694; conforme Sez. 1, n. 21404 del 04/11/2005, rv 583907), ma, dall'altro, abbia preso atto delle precisazioni della Corte di Strasburgo, affermando che « l'equa riparazione può essere richiesta anche con riferimento a controversie del giudice tributario che siano riferibili alla "materia civile" (in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti conseguenziali come nel caso del giudizio di ottemperanza ad un giudicato tributario ex art. 70 del d.lgs. n. 546 del 1992 o in quello del giudizio vertente sull'individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza) o alla "materia penale", da intendersi come comprensiva anche delle controversie relative all'applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro gravità, assimilabili sul piano dell'afflittività ad una sanzione penale, prescindendo dalla soglia di imposta evasa e dalla sussistenza o meno della rilevanza anche penale dei fatti per i quali si controverte nel giudizio tributario » (Sez. 5, n. 19367 del 15/07/2008, rv 604373; conforme, in precedenza, Sez. 1, n. 13657 del 11/06/2007, rv 600020).

La dottrina più recente evidenzia l'ulteriore evoluzione della Corte di Strasburgo, sia per aver riconosciuto la tutela della CEDU anche alle verifiche fiscali (sentenza Ravon c/ Francia del 21/02/2008), sia per il passaggio in avanti avutosi con la sentenza Faccio c/ Italia del 31/03/2009, con cui « la Corte, in relazione all'ordinamento italiano, è stata chiamata ad esaminare l'asserita violazione degli artt. 8 e 10 della CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare, Libertà di espressione), per effetto della coattiva apposizione dei sigilli all'apparecchio televisivo di un utente-contribuente che non intendeva pagare il canone radiotelevisivo, ed aveva quindi chiesto la risoluzione del suo abbonamento al servizio pubblico, pur desiderando fruire dei canali televisivi privati. Si tratta di una sentenza non poco "atipica", nella quale la Corte Europea – a maggioranza- pur dichiarando la richiesta irricevibile, ed ancorandosi espressamente alla sentenza Ferrazzini, entra nel merito delle principali questioni, ritenendo la coattiva apposizione dei sigilli coerente con la funzione tributaria del canone radiotelevisivo, proporzionata rispetto ai fini perseguiti e compatibile con le limitazione dei diritti garantiti dalla CEDU. Quindi la Corte ha affrontato il merito, iniziando a ritenersi tout court competente anche sui profili sostanziali della materia tributaria » (DEL FEDERICO, 10, 206 cui si rinvia per ulteriori riferimenti).

Si auspica, pertanto, « che l'interpretazione dell'art. 6, per effetto di una futura evoluzione, sia estesa a comprendere le cause tributarie. In materia tributaria, il potere impositivo dell'Amministrazione finanziaria non è un potere discrezionale, ma espressione d'una funzione vincolata, di fronte al quale il cittadino è titolare del diritto di ottenere l'annullamento giudiziale dell'imposizione illegittima. D'altro canto, il tributo si risolve in una obbligazione patrimoniale, che, pur se regolata dal diritto pubblico, incide sui beni del contribuente. Su queste basi, ed alla luce dei precedenti, si può ipotizzare ed auspicare una evoluzione della Corte di Strasburgo verso l'inclusione delle controversie tributarie nella sfera di tutela dell'art. 6 della Convenzione » (TESAURO, 06, 23).

1.3. L'attuazione del principio della ragionevole durata del processo.

La S.C. ha utilizzato in diverse fattispecie il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, partendo dall'affermazione (Sez. V, n. 1540 del 24/01/2007, rv 594551) che lo stesso «trova applicazione anche nel contenzioso tributario, senza che assuma alcun rilievo, in contrario, l'inapplicabilità della disciplina in materia di equa riparazione e si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi ».

In una prima prospettiva, il principio è stato utilizzato quale canone operativo in caso di presentazione della querela di falso.

E così, Sez. V, n. 18139 del 07/08/2009 (rv 609558), ha affermato che, in tale evenienza, « il giudice tributario, pur tenuto a sospendere il giudizio, a norma dell'art. 39 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non può peraltro avere una funzione meramente passiva, con pregiudizio della speditezza del giudizio garantita dalle regole del giusto processo, ma deve verificare l'idoneità della querela ad arrestare il corso del giudizio pendente innanzi a lui, accertando - con valutazione che resta insindacabile in sede di legittimità - la pertinenza di tale iniziativa processuale in relazione al documento impugnato e la sua rilevanza ai fini della decisione, restando comunque al medesimo precluso ogni giudizio, sia pure prognostico, nel merito della querela ».

In una seconda prospettiva, il principio della ragionevole durata è stato ritenuto prevalente, nel giudizio di cassazione, rispetto a quello dell'integrità del contraddittorio nell'ipotesi di litisconsorzio necessario conseguente alla rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone ed alla connessa automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili (principio affermato da Sez. Un. n. 14815 del 04/06/2008, rv 603330, secondo cui è l'unitarietà dell'accertamento che caratterizza la fattispecie a rendere configurabile un caso di litisconsorzio necessario originario, con la conseguenza che il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 14 d.lgs. 546/92 e che il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio).

E così, con la sentenza n. 3565 del 16/2/2010 (rv 611763), la Sezione Tributaria ha affermato che: « nella causa relativa all'accertamento del reddito da partecipazione societaria, quando la difesa del socio non si fondi su eccezioni personali diverse da quelle accampate dalla società, il giudicato formatosi nel processo relativo ai redditi di questa copre necessariamente non solo il vizio di nullità (per mancata integrazione del contraddittorio) verificatosi in quel processo, ma anche l'identico vizio specularmente riscontrabile nel processo relativo al socio, e manifesta la sua efficacia in quest'ultimo, nei limiti del "dictum" sull'unico accertamento ».

La conseguenza è che « nel giudizio di legittimità, non va disposto l'annullamento dell'intera procedura con il ripristino "ab imis" del giudizio, in quanto si riprodurrebbe, per altra via, quel vulnus all'unicità dell'accertamento tributario derivato dal mancato ricorso al "simultaneus processus" e risulterebbe gravemente violato anche il principio di economia processuale, poiché il ripristino del giudizio non potrebbe portare ad una soluzione giuridica diversa, stante l'obbligo di rispettare il giudicato. Al contrario, essendo quest'ultimo rilevabile d'ufficio anche in tale sede, i principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata di esso, cui è ispirato anche l'articolo 384, primo comma, ultima parte, cod. proc. civ., e la conseguente necessità di orientare l'interpretazione in senso non formalistico, ma di effettiva e concreta garanzia dei diritti della difesa, consentono il rigetto del ricorso per cassazione reso inammissibile dal giudicato ».

In linea con tale decisione è Sez. V, n. 3830 del 18/2/2010 (rv 611765), secondo cui « nel processo di cassazione, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, ma va disposta la riunione quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell'esistenza e del contenuto dell'atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da:

1. identità oggettiva quanto a "causa petendi" dei ricorsi;

2. simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese;

3. simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito;

4. identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici».

Ricorrendo tali condizioni, « la ricomposizione dell'unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall'art. 111, secondo comma, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l'osservanza di formalità superflue, perchè non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio ».

Tali principi costituiscono diritto vivente, essendo stati più volte ribaditi (ex multis, cfr. Sez. V, sentenze n. 9760 del 23/04/2010, n. 16223 del 09/07/2010; n. 20212 del 24/09/2010; n. 21134 del 13/10/2010; n. 22122 del 29/10/2010).

Deve, poi, ritenersi attuazione del principio della ragionevole durata anche l'evoluzione giurisprudenziale in tema di ricorso cumulativo e collettivo nel processo tributario.

Con la sentenza n. 3692 del 16/02/2009 (rv 606681) le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto insorto nella giurisprudenza della Sezione Tributaria, hanno ritenuto « ammissibile - fermi restando gli eventuali obblighi tributari del ricorrente, in relazione al numero dei provvedimenti impugnati - il ricorso cumulativo avverso più sentenze emesse tra le stesse parti, sulla base della medesima ratio, in procedimenti formalmente distinti ma attinenti al medesimo rapporto giuridico d'imposta, pur se riferiti a diverse annualità, ove i medesimi dipendano per intero dalla soluzione di una identica questione di diritto comune a tutte le cause, in ipotesi suscettibile di dar vita ad un giudicato rilevabile d'ufficio in tutte le cause relative al medesimo rapporto d'imposta ».

Tale affermazione, più volte ribadita (ex multis, cfr. Sez. V, sentenze n. 15582 del 30/06/2010, rv 613820 e n. 11186 del 7/05/2010, rv 612947), va, peraltro, letta tenendo presente la successiva precisazione fatta da Sez. V, n. 10578 del 30/04/2010 (rv 612978) che ha ritenuto inammissibile «la proposizione di un ricorso collettivo (proposto da più parti) e cumulativo (proposto nei confronti di più atti impugnabili) da parte di una pluralità di contribuenti titolari di distinti rapporti giuridici d'imposta, ancorchè gli stessi muovano identiche contestazioni, in quanto in tale giudizio, a natura precipuamente impugnatoria, la necessità di uno specifico e concreto nesso tra l'atto impositivo che forma oggetto del ricorso e la contestazione del ricorrente, così come richiesto dall'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, impone, indefettibilmente, che tra le cause intercorrano questioni comuni non solo in diritto ma anche in fatto e che esse non siano soltanto uguali in astratto ma attengano altresì ad un identico fatto storico da cui siano determinate le impugnazioni dei contribuenti con la conseguente virtuale possibilità di un contrasto di giudicati in caso di decisione non unitaria ».

Il principio della ragionevole durata è stato poi attuato mediante una lettura combinata con il principio della buona fede oggettiva del contribuente, riconosciuto dall'art. 10 dello Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212).

In particolare, in tema di rimborso delle imposte sui redditi, disciplinato dall'art. 38, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, la tradizionale linea interpretativa, inaugurata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 11217 del 13/11/1997 (rv 509830), secondo cui la presentazione dell'istanza di rimborso ad organo incompetente osta alla formazione del provvedimento negativo, anche nella forma del silenzio-rifiuto, e determina l'improponibilità del ricorso al giudice tributario, per difetto di provvedimento impugnabile, confermata, anche di recente, da Sez. V, sentenza n. 4037 del 19/02/2010 (rv 611686), è stata superata da diverse decisioni della Sezione Tributaria (ex multis, sentenze n. 4773 del 27/02/2009, rv 606980; n. 15180 del 26/06/2009, rv 608706; n. 1645 del 27/01/2010, rv 611434; n. 2810 del 09/02/2010, rv 611436) secondo cui la presentazione di un'istanza di rimborso ad un organo diverso da quello territorialmente competente a provvedere costituisce atto idoneo non solo ad impedire la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a determinare la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile dinanzi al giudice tributario.

La Corte ha giustificato tale conclusione con l'affermazione che:

a) l'ufficio non competente (purché non estraneo all'Amministrazione finanziaria) «è tenuto a trasmettere l'istanza all'ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa Amministrazione (…)» ed «alla luce del principio della collaborazione e della buona fede nei rapporti tra contribuente e Fisco, sancito dall'art. 10 della legge n. 212 del 2000»,

b) e che siffatta soluzione « appare, infine, conforme al principio più volte affermato da questa Corte e secondo cui le leggi devono essere interpretate alla luce delle esigenze di celerità processuale e di sollecita definizione dei diritti delle parti di cui all'art. 111 Cost.; appare infatti inutilmente defatigatorio imporre ad un contribuente, il cui diritto non è venuto meno, di presentare una seconda istanza ed instaurare un secondo giudizio, senza che ciò risponda ad alcuna esigenza sostanziale, dal momento che l'amministrazione ha, resistendo nel primo giudizio, manifestato la inequivocabile decisione di non procedere al rimborso ».

1.4. La tutela del diritto di difesa e di effettività del contraddittorio.

La tutela del diritto di difesa e la c.d. parità delle armi nel processo sono temi da tempo praticati dalla S.C. anche nella materia tributaria.

Emblematica è l'interpretazione costituzionalmente orientata del divieto di ammissione della prova testimoniale posto dall'art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, più volte ribadita nel senso che, fermo restando tale divieto « il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale - con il valore probatorio "proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione" (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 18 del 2000) - va riconosciuto non solo all'Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente - con il medesimo valore probatorio -, dandosi così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell'art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l'effettività del diritto di difesa » (ex multis, cfr. Sez. V, n. 11785 del 14/05/2010, rv 612990; n. 16032 del 29/07/2005, rv 583725; n. 5957 del 15/04/2003, rv 562149 e n. 4269 del 25/03/2002, rv 553267).

Va poi segnalato l'utilizzo del principio della buona fede oggettiva del contribuente, anche sul versante del diritto di difesa.

Significative, al riguardo, sono due decisioni che ne hanno fatto applicazione nel caso di mutamento, con atto amministrativo di organizzazione, della ripartizione di competenza territoriale degli uffici di un'Agenzia fiscale.

In particolare, la Sezione V, con le sentenze n. 2740 del 05/02/2009 (rv 606473) e n. 20085 del 18/09/2009 (rv 609854), ha ritenuto che tale mutamento « è un atto interno privo di rilevanza giuridica esterna processuale, in ragione del principio della buona fede oggettiva del contribuente, regolativo del processo tributario» ed ha affermato:

- nel primo caso, che « la sentenza emessa su ricorso dell'ufficio tributario sorto a seguito dell'atto di riorganizzazione, ma privo di competenza, non può considerarsi inefficace, e non consente quindi all'ufficio competente di reiterare l'impugnazione» e,

- nel secondo che, quando tale mutamento « sia intervenuto in pendenza del termine per l'impugnazione di una sentenza, la notificazione dell'atto di appello eseguita nei confronti dell'ufficio tributario, parte nel giudizio di primo grado, divenuto incompetente, non è inefficace, e non consente all'ufficio divenuto competente, che non abbia partecipato a quel giudizio, di proporre impugnazione una volta scaduto il termine breve previsto dall'art. 325 cod. proc. civ. » poiché altrimenti, « (...) in contrasto con il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, si darebbe vita ad un processo ingiusto, che, in quanto conseguente ad un atto unilaterale di una delle parti, sarebbe frutto di un abuso del diritto di difesa per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione, dell'attribuzione al suo titolare della "potestas agendi" » (affermazioni identiche in entrambe le sentenze).

Il principio di buona fede di cui all'art. 10 dello Statuto viene, poi, collocato dalla dottrina (MARONGIU, 07, 150) alla base di rilevanti decisioni in tema di contraddittorio e, precisamente, in tema di onere della prova ex art. 2697 cod. civ. e di potere del giudice tributario di trarre argomenti di prova dal comportamento delle parti ex art. 116 cod. proc. civ.

Nel primo senso viene segnalato l'orientamento, inaugurato da Sez. V, n. 7439 del 14/05/2003 (rv 563046) che, superando il precedente di segno contrario (affermato costantemente fino a Sez. V, n. 307 del 11/01/2002, rv 551495), ha ritenuto, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, che «l'onere di provare l'iscrizione a ruolo nel termine decadenziale stabilito dall'art. 17 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, grava sull'amministrazione finanziaria, atteso che nel processo tributario, la cui struttura è quella di un processo di impugnazione, l'amministrazione ha la veste di attore sostanziale, al quale, quindi, spetta l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fatta valere con la notificazione della cartella di pagamento, rispetto alla quale il ruolo svolge la funzione di atto presupposto ».

Per il secondo profilo viene segnalato l'orientamento - inaugurato da Sez. V, n. 21209 del 05/11/2004 (rv 579057) e confermato, da ultimo, da Sez. V, n. 22775 del 28/10/2009 (rv 610696) secondo cui « l'obbligo dell'amministrazione di prendere posizione sui fatti dedotti dal contribuente è ancora più forte di quello che grava sul convenuto nel rito ordinario, in quanto le disposizioni degli artt. 18 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212, per le quali il responsabile del procedimento deve acquisire d'ufficio quei documenti che, già in possesso dell'amministrazione, contengano la prova di fatti, stati o qualità rilevanti per la definizione della pratica, costituiscono l'espressione di un più generale principio valevole anche in campo processuale ».

Parimenti nel segno di un rapporto tra Fisco e contribuente improntato a buona fede e parità delle armi, si collocano le sentenze (n.n. da 26635 a 26638 del 18/12/2009), con cui le Sezioni Unite sono intervenute in tema di procedura di accertamento tributario standardizzato (cioè mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore) valorizzando il principio del contraddittorio con il contribuente, fin dalla fase dell'accertamento, con l'affermazione dei seguenti principi:

1. la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è "ex lege" determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli "standards" in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente;

2. in tale sede, quest'ultimo ha l'onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli "standards" o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello "standard" prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente;

3. l'esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli "standards" al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte;

4. in tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l'Ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli "standards", dando conto dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all'invito.

1.5. L'effettiva terzietà del giudice nella qualificazione dell'atto di accertamento come "provocatio ad opponendum" e del processo tributario come "impugnazione-merito".

Si è accennato in sede introduttiva all'atteggiamento critico della dottrina nei confronti degli orientamenti della Corte legati alla qualificazione dell'atto impugnato come "provocatio ad opponendum" ed alla definizione del processo tributario come processo di "impugnazione-merito".

Sotto il primo profilo, partendo dal rilievo che la giurisprudenza ha sdoppiato l'atto d'imposizione, attribuendogli due funzioni, una sostanziale, in quanto pone in essere i presupposti per l'applicazione dell'imposta, l'altro processuale, in quanto è diretto ad affermare, ai fini della sua definitività, la pretesa tributaria, come nel medesimo determinata, affinché il contribuente possa consapevolmente scegliere tra l'accettarla, anche tacitamente, od impugnarla, se ritenuta illegittima (…), si osserva (TESAURO, 06, 40) che in tal modo, però, si negano al contribuente alcune garanzie processuali che sono connaturali ad un processo di impugnazione di atti autoritativi, in quanto è «la teoria della "provocatio ad opponendum" la premessa in base alla quale la giurisprudenza afferma che l'atto d'imposizione esiste di per sé, indipendentemente dalla notificazione; e di dire che la notificazione non riguarda l'avviso di accertamento in quanto atto impositivo, ma nella sua funzione processuale di "provocatio ad opponendum".

Di qui la possibilità di sanatoria della notificazione di un atto schiettamente amministrativo in base alle norme processuali. Ciò consente, in secondo luogo, di minimizzare il contenuto dell'obbligo di motivazione, che viene soddisfatto, secondo la costante giurisprudenza, ogni volta che l'Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'"an" ed il "quantum debeatur"». In effetti, anche di recente, si è fatto riferimento al « consolidato principio secondo cui il carattere di "provocatio ad opponendum" dell'avviso notificato consente di ritenere soddisfatto l'obbligo di motivazione, ogni qualvolta risultino enunciati il "petitum" dell'Ufficio impositore ed indicate le relative ragioni in termini sufficienti a definire la materia del contendere » (Sez. V, ord. n. 22373 del 3/11/2010).

Quanto alla definizione del processo tributario come processo di "impugnazione-merito", diretto, cioè, non alla mera eliminazione dell'atto impugnato, ma alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell'accertamento dell'amministrazione finanziaria (in tal senso, cfr., ex multis, Sez. V, Sentenze n. 25376 del 17/10/2008, rv 605432 e n. 13868 del 09/06/2010, rv 613585) l'A. (pagine 44-47) ne critica l'utilizzo per accreditare il potere del giudice di svolgere attività istruttorie sostitutive dell'istruttoria amministrativa e di emettere decisioni sostitutive del provvedimento impugnato, non essendo « accettabile (..) il concetto, che si incontra sovente in giurisprudenza, secondo cui il giudice, avvalendosi dei suoi poteri istruttori, potrebbe svolgere una indagine che prescinde dai fatti sui quali si fonda l'atto impositivo, e, in base ai risultati così acquisiti, non si limiterebbe ad annullare in parte l'atto impositivo (riducendo la base imponibile), ma sia sostitutivo dell'atto impugnato. Ciò significa connotare in senso inquisitorio i poteri del giudice tributario. Ma sia il riconoscimento al giudice tributario di poteri istruttori di tipo inquisitorio, sia il riconoscimento di poteri decisori sostitutivi dell'atto impugnato, confliggono con le regole costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice ».

. BIBLIOGRAFIA

DEL FEDERICO, I principi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo in materia tributaria, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 2010, p. I, 206 –227;

MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2007;

PODDIGHE A., Giusto processo e processo tributario, Milano, 2010;

TESAURO F., Giusto processo e processo tributario, in Rassegna tributaria" 2006, p. I, 11-58;

TESAURO F., Manuale del processo tributario, Milano 2010.

2. I PROCEDIMENTI FALLIMENTARI RIFORMATI: PUNTI CONTROVERSI E CONDIVISIONI INTERPRETATIVE.

2.1. I procedimenti concorsuali nel riformato r.d. 16 marzo 1942, n. 267. Il valore paradigmatico della nuova istruttoria prefallimentare.

Con il d.lgs. 169/07, il procedimento per la dichiarazione di fallimento ha raggiunto una compiuta regolazione processuale, cessando di richiamarsi ad una mera attività, guidata dal giudice e tuttavia continuando ad ospitare una rilevante traccia di interventi suppletivi del tribunale rispetto all'inerzia delle parti ovvero ai limiti della loro capacità di raccolta di elementi di giudizio. Tale maturazione sistematica, giustificativa di un inquadramento dogmatico tra i procedimenti civili del diritto dell'economia, consegue innanzitutto da scelte riferibili all'intero impianto del giudizio: una evidenza consapevole è invero offerta dal convergere sia di elementi positivi, quali il diritto assoluto al contraddittorio, sin dalla fase della convocazione camerale [in sintonia con la dottrina - su cui v. DE SANTIS (b) 10, 67 - non sono ora più ammesse eccezioni, nemmeno se circoscritte all'irreperibilità ed alla negligenza del debitore, divenendo obbligatoria la notificazione, per Cass. 29 ottobre 2010, n. 22151], la natura di cognizione piena assunta dal giudizio, almeno per la declaratoria di fallimento [Cass. 29 ottobre 2009, n. 22926, rv 610480; Cass. 22 gennaio 2010, n. 1098], sia di strategiche sottrazioni di istituti connotativi della disciplina anteriore al primo decreto di riforma, il d.lgs. n. 5 del 2006, con il quale è venuta meno l'iniziativa d'ufficio (così il novellato art.6 legge fall.). Tali aspetti, affrontati dalla giurisprudenza della S.C., vanno a loro volta raccordati alla vocazione centrale propria dell'art. 15 legge fall., destinato ad assumere il ruolo di procedimento generale per tutte le istruttorie sull'insolvenza idonee, nella stessa fase o per effetto dell'insuccesso dell'avvio di altre procedure concorsuali, a trasformarsi nella principale procedura liquidatoria, il fallimento.

Un disegno che riallinei i punti sparsi della pluralità dei procedimenti concorsuali al difetto programmatico di portata generale insito nel diverso procedimento di cui all'art.26 legge fall. (testualmente idoneo a regolare solo vicende impugnatorie, pur con un elevato grado di formalizzazione, che la dottrina non ha mancato di segnalare come foriero di inevitabili incertezze per ogni situazione di replica) [MANTOVANI 08, 96; FERRI 10, 136] permette dunque di connettere, in una mappa organizzativa fitta di rimandi, l'applicazione diretta dell'art. 15 legge fall. a plurime vicende. Tra quelle su cui la giurisprudenza di legittimità si è soffermata, vi è innanzitutto la conversione del concordato preventivo, già ammesso, in procedura di fallimento ai sensi dell'art. 173 legge fall. (rectius, del suo procedimento), ove l'accertamento (ex novo ed all'attualità della decisione) dei presupposti soggettivi (di cui all'art. 1 legge fall.) ed oggettivi (di cui all'art. 5 legge fall.) avviene secondo uno svolgimento «nelle forme di cui all'art. 15» e se sussistono istanze degli stessi legittimati di cui all'art. 6 legge fall., pur dopo l'avvio della revoca d'ufficio; in quest'ambito, Cass. 12 agosto 2009, n. 18236, rv 609638 ha conferito valore abrogativo programmatico ad ogni ipotesi di automatismo od officiosità - testualmente residue - della venuta meno del fallimento d'ufficio, individuando l'operatività del principio sin dal regime intermedio [conf. Cass. 2 aprile 2010, n. 8186] e dunque anche prima del d.lgs. n. 169 del 2007, che pure ha proceduto all'espunzione diretta dell'istituto (nella specie, in caso di omesso deposito delle somme di cui all'art. 163, non ha luogo la dichiarazione di fallimento, facendo difetto l'iniziativa del p.m. o di un creditore).

Anche alla dichiarazione di fallimento all'esito della non ammissione alla procedura di concordato ed in alternativa, ancorché non automatica, quale sviluppo del procedimento ex art. 162 co. 2 l.f., ove l'accertamento dei «presupposti di cui agli articoli 1 e 5» implicitamente fa considerare come non sufficienti di per sé le conclusioni negative assunte con il decreto di rigetto ed invece necessaria una fase contestativa rituale nei confronti del debitore, si perviene con un meccanismo replicato con riguardo alla mancata approvazione del concordato da parte della maggioranza dei creditori, derivandone, in ipotesi di identità dell'insolvenza con l'originaria "crisi" di cui all'art. 160 legge fall. enunciata, la conferma del principio di consecutività delle procedure (così, con riguardo al nuovo regime post riforma, Cass. 6 agosto 2010, n. 18437, rv 614339). É significativo, sul punto, come l'esplicita continuità con l'indirizzo precedente conduca a retrodatare gli effetti della successiva dichiarazione di fallimento, riportandoli alla data della domanda di concordato, in una considerazione unitaria della gestione concorsuale della medesima insolvenza.

2.2. La natura della cognizione ed i riflessi sui poteri di iniziativa delle parti: il diritto al contraddittorio, i termini, le forme dei ricorsi e la rinunzia.

Sulla natura del procedimento per la dichiarazione di fallimento sembra ora essersi registrata, in dottrina [cfr. anche TRISORIO LUZZI 10, 821; DE SANTIS (a) 10, 1269] come nella giurisprudenza di legittimità (citata), una significativa convergenza, riassunta – come detto - nella affermazione della sua cognizione piena: si tratta di una classificazione decisiva, che però viene invocata per lo più solo con riguardo ad alcuni istituti caratterizzanti, tra cui – si è visto - il contraddittorio. E peraltro, in adesione alle suggestioni del Giudice delle leggi (cfr. Corte cost. 29 maggio 2009, n. 170), la S.C. riepiloga e ripete che la scelta del rito camerale per la composizione di conflitti di interesse mediante provvedimenti decisori «non è suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in quanto l'esercizio di quest'ultimo può essere modulato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari procedimenti …purchè ne siano assicurati lo scopo e la funzione» (Cass. 22 gennaio 2010, n.1098). Sul punto, l'affermata assolutezza del diritto al contraddittorio si declina in termini più elastici ove si tratti di misurare la reazione ordinamentale alle violazioni delle norme instauratrici del contatto fra parti e fra queste e giudice: così Cass. 16 luglio 2010, n. 16757, rv 614137 ha stabilito che « il mancato rispetto del termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell'udienza e la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal presidente del tribunale, previste dall'art. 15, quinto comma, legge fall., costituiscono cause di nullità astrattamente integranti la violazione del diritto di difesa, ma non determinano - ai sensi dell'art. 156 cod. proc. civ., per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell'atto - la nullità del decreto di convocazione se il debitore abbia attivamente partecipato all'udienza, rendendo dichiarazioni in merito alle istanze di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile ». Tale indirizzo, si salda anche alla nozione di equipollenza delle forme, ammessa per la notifica del ricorso – decreto, e rientrante tra i poteri di abbreviazione e semplificazione rimessi al presidente del tribunale [Cass. 29 ottobre 2010, n. 22151]. Così, dal processo di cognizione ordinario, appare in breve tempo mutuata, con fermezza, la regola per cui la mancata specifica deduzione della nullità per inosservanza del termine dilatorio di comparizione condiziona la pronuncia di nullità della sentenza di fallimento (Cass. 22 gennaio 2010, n. 1098, rv 611326) e la violazione « resta sanata nel caso in cui il debitore non l'abbia specificamente dedotta nella memoria di costituzione, difendendosi nel merito ». Il descritto percorso sembra delineare il giusto procedimento per la dichiarazione di fallimento, componendo il valore del raggiungimento dello scopo dell'atto (di cui all'art. 156 cod. proc. civ.) con l'ossequio alle forme individuate dal legislatore nel procedimento camerale, un'evoluzione tipologica, nell'art. 15 legge fall., rispetto al più deformalizzato modello del codice di rito (art. 739 e s. cod. proc. civ.).

Quanto alla domanda ed alla necessità o meno della difesa tecnica, la questione, così posta, è stata affrontata dalla S.C. finora solo con riguardo al ricorso con cui il debitore chiede la dichiarazione del proprio fallimento: per Cass. 16 settembre 2009, n. 19983, rv 610562 nemmeno si potrebbe parlare, dal punto di vista del soggetto richiedente e della sua organizzazione societaria, di atto negoziale o di straordinaria amministrazione, bensì di dichiarazione di scienza, doverosa per l'amministratore perchè anche penalmente sanzionata, ma non tale da configurare, nella sua forma processuale, una domanda giudiziale, nè vincolante l'accertamento del tribunale. Dunque non sarebbe necessario il patrocinio del difensore: conf. FABIANI (a) 06, 115, sul rilievo che non si tratta di procedimento camerale a parti contrapposte; NONNO 10, 481 che però configura la possibile assunzione ex post del carattere contenzioso del procedimento quando si controverta in contraddittorio sui suoi presupposti sostanziali, derivandone la necessità, per il giudice, di invitare le parti a munirsi di difensore. Se invece l'istanza di fallimento proviene da un creditore, la dottrina prevalente ne esige l'assistenza tecnica, come diretta conseguenza della previsione altrimenti specifica, in senso eccettuativo, contenuta nel solo art. 93 legge fall. quanto all'insinuazione al passivo e tenuto conto dei poteri processuali di impulso svolti nel procedimento [MONTANARO 10, 164].

La S.C. ha però affrontato ex professo la sorte della rinunzia o desistenza al ricorso: non solo disciplinandone gli effetti, nel senso di un'ineludibile conseguente pronuncia di improcedibilità della domanda (Cass. 14 ottobre 2009, n. 21834, rv 610690; contra in dottr. AULETTA10, 129, sul presupposto che gli atti di impulso degli istanti si risolvano in meri atti costitutivi del dovere del giudice di pronunciare nel merito), ma anche con previsione dei suoi requisiti formali, non necessitanti di alcuna veste solenne. Per Cass. 11 agosto 2010, n. 18620 infatti « la rinuncia all'istanza di fallimento non richiede alcuna forma di accettazione del debitore, atteso che il ricorso del creditore persegue un interesse autonomo rivolto esclusivamente alla tutela privatistica del proprio diritto di credito così come risulta confermato anche dalla esclusione della dichiarazione d'ufficio del fallimento ai sensi dell'art. 6 nella nuova formulazione introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006 … nella fattispecie, nel provvedimento impugnato era stata affermata la validità di una rinuncia tacita ». In tale pronuncia, sembra peraltro perseguirsi una presa di distanza dal codice di rito e dai suoi istituti, riconfigurandosi l'istruttoria predetta come arbitrabile dalla parte che vi abbia dato vita, sino al punto di arrestarne il corso mediante il solo, unilaterale, ritiro della propria iniziativa. Invero, in dottrina, viene sottolineato che la desistenza non si distinguerebbe dalla rinuncia agli atti del giudizio di cui all'art. 306 cod. proc. civ.: se non accettata nelle relative forme dalle altre parti costituite, non vi dovrebbe perciò essere impedimento al prosieguo del procedimento, con pronuncia negativa obbligata nel merito (difettando la legittimazione persistente di un istante) ma regolazione provvedimentale sulle spese [CELENTANO 10, 291], come già riscontrato, almeno in una parte, dalla giurisprudenza di merito [cfr. per una ricognizione VELLA10, 674].

2.3. La prova dei presupposti di fallibilità, nel bilanciamento tra principio dispositivo ed officiosità dell'istruzione probatoria.

La specificazione dei fatti determinativi dell'assoggettabilità all'esecuzione concorsuale ha rinvenuto una immediata fissazione di principi con chiaro riguardo ai rispettivi doveri delle parti tipiche del procedimento per la dichiarazione di fallimento, residuando, invece, alcuni margini di evoluzione – che non sia meramente ritagliata su fattispecie finora non affrontate – in punto di enunciazione dei residui poteri officiosi. Così, « l'onere, posto a carico del creditore, di provare la sussistenza del proprio credito e la qualità di imprenditore in capo al debitore », affermazione acquisita (Cass. 28 maggio 2010, n. 13086, rv 613384; conf. DE SANTIS (a)10, 1267), « non esclude, ai sensi dell'art. 15 … la sussistenza di spazi residuati di verifica officiosa da parte del tribunale, che può assumere informazioni urgenti, utili al completamento del bagaglio istruttorio e non esclusivamente strumentali all'adozione di un'eventuale misura cautelare, in quanto il procedimento, pur essendo espressione di giurisdizione oggettiva perché incide su diritti soggettivi, consacrando il potere dispositivo delle parti, nel contempo tutela interessi di carattere generale ed ha attenuato, ma senza eliminarlo, il suo carattere inquisitorio ».

Quanto al debitore si è affermato che « l'onere della prova dell'inammissibilità del fallimento incombe dunque su [colui] contro il quale sia stata presentata la relativa istanza, anche se l'onere della prova della sua qualità di imprenditore commerciale incombe sul creditore istante. E benché non abbiano certamente valore di prova legale, i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi sono la base documentale imprescindibile della dimostrazione che il debitore ha l'onere di fornire per sottrarsi alla dichiarazione del fallimento. Sicché la mancata produzione dei bilanci non può che risolversi in danno del debitore, a meno che la prova dell'inammissibilità del fallimento non possa desumersi da documenti altrettanto significativi. Infatti le norme che distribuiscono tra le parti l'onere della prova individuano la parte cui la decisione risulterà sfavorevole anche se risultasse solo incerto alcuno dei fatti rilevanti, posto che il procedimento giurisdizionale non può concludersi con un non liquet e quindi una decisione deve essere comunque assunta, pur quando manchino tutte le informazioni necessarie ad accertare i fatti costitutivi o modificativi o impeditivi o estintivi dei diritti controversi» (Cass. 15 maggio 2009, n. 11309).

Tale pronuncia, peraltro, sollecita a riflettere sulla strutturale bivalenza del procedimento: ora promuovibile solo ad iniziativa di parte, pubblica o privata, ma nondimeno influenzabile, ove il procedimento sia divenuto pendente, da un'addizione istruttoria che provenga direttamente dall'ufficio. Il punto di intersezione sarà trovato con riguardo ai limiti dell'iniziativa del tribunale, se perimetrati dalle allegazioni delle parti ovvero più estesi, sino a lambire i presupposti stessi della fallibilità. Nel primo senso, la dottrina, sin dagli albori della riforma (di cui al d.lgs. n. 5 del 2006) ha dubitato della sopravvivenza del principio inquisitorio quale giustificazione del potere del tribunale di disporre mezzi istruttori senza la necessità di attendere le richieste delle parti [FABIANI (a) 06, 161; contra BONGIORNO 09, 329]. Tale osservazione, di apparente segno solo centrato sulla sequenza procedimentale, involge in realtà la latitudine dei poteri di intervento del giudice sulla formazione delle prove, questione assai rilevante ove siano evidenti i "limiti di vicinanza" dell'istante ai fatti connotativi della dimensione dell'imprenditore fallendo, ex art. 1, comma 2, legge fall., posto che tali datti sono enucleabili in genere da rappresentazioni – ora tipizzate nei bilanci e nella situazione patrimoniale evocati all'art. 15 legge fall. – accessibili in modo diretto solo al debitore. La citata pronuncia agevola una risposta ove puntualizza che « quando l'applicazione delle regole legali di valutazione della prova e delle regole di esperienza non è sufficiente per accertare i fatti, allora vengono in rilievo le norme che stabiliscono quale delle parti avrebbe dovuto provare ciascuno dei fatti rilevanti e, non avendovi provveduto, deve subire le sfavorevoli conseguenze di tale omissione (….). Queste norme valgono perciò sia come regole di decisione sia come regole di giustificazione, ma nel giudizio di legittimità possono essere fatte valere solo quali criteri della giustificazione del giudizio di fatto, perché la Corte di cassazione non è legittimata a verificare l'effettiva conformità della decisione sul fatto alle prove acquisite ». La dottrina, non a caso, ha chiosato tale precedente sostenendo che, così inteso, l'art. 1, comma 2, legge fall. – nel prevedere espressamente che il debitore è onerato della prova negativa di non possedere i requisiti dimensionali – ha « nella sostanza, sussunto un criterio giurisprudenziale (quello di prossimità della prova) nell'ambito di una presunzione legale » [DE SANTIS (a) 10, 1267].

Posizioni diverse si assumono in dottrina da chi nega che il procedimento per la dichiarazione di fallimento sia assimilabile ad un giudizio a cognizione piena, e da tale opzione fa discendere la tesi per cui « il tribunale non potrà dichiarare senz'altro il fallimento senza prima esercitare i suoi poteri istruttori officiosi, compiendo quelle indagini che in concreto sono possibili e compatibili » senza perciò « limitarsi ad assecondare i voleri delle parti » [BONGIORNO 09, 329]. La questione concerne l'oggetto delle informazioni raccoglibili dal tribunale, cioè se si tratti – come per la prima tesi - di circostanze di fatto, rappresentative degli elementi introdotti nel thema probandum dalle parti e pertinenti al thema decidendum: alla stregua di tale premessa, volendosi giustificare in via sistematica la novella di cui al d.lgs. n. 169 del 2007 come esempio ulteriore di approfondimento della stessa terzietà del giudice, il tribunale – per la tesi opposta - non potrebbe assumere informazioni sui fatti impeditivi della fallibilità se ancora non appartenenti al processo, perché non sviluppati in idonea e formale eccezione dal debitore ovvero da questi allegati in modo meramente assertivo [FERRO 08, 54]. È l'auspicio del cd. uso accorto dei poteri d'ufficio [SALVATO 10, 1033] ovvero «prudente e consapevole … idoneo ad evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, la possibilità che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati» (Corte cost. n. 198 del 2009). I poteri inquisitori del giudice, dunque, in un processo divenuto a pieno titolo «di parti» soggiacciono al limite della «sussidiarietà rispetto alle deduzioni» da esse provenienti [MONTANARI 07, 568], così sostanziandosi quell'ampio rinvio che ha permesso al Giudice delle leggi (Corte cost. 1 luglio 2009, n. 198) di non accogliere la questione di illegittimità costituzionale, sul punto dell'onere della prova, dedotta sub art. 1 legge fall. e più volte menzionata nei precedenti di legittimità, sia pur in senso ora accentuativo dei poteri inquisitori (in sede di reclamo Cass. 5 novembre 2010, n. 22546, e su cui infra) ora enunciativo della loro ricorrenza siccome giustapposti a quelli delle parti (Cass. 30 luglio 2010, n. 17927). Quest'ultima pronuncia, in particolare, ha posto però sul medesimo piano le citate regole di giudizio e probatorie confermando la sentenza di secondo grado e ripetendo che la Corte cost. ha escluso che la vigente disciplina « attribuisca in via esclusiva al fallendo la prova della sua non assoggettabilità al fallimento, vietando al giudice la possibilità di acquisire aliunde, o tramite l'apporto probatorio delle altre parti del procedimento, gli elementi necessari per verificare la sussistenza dei requisiti richiesti» e i medesimi principi - enunciati in relazione ai requisiti di fallibilità - « sono applicabili, indubbiamente in ordine alla prova dello stato di insolvenza » per cui « appare conforme ad essi la decisione impugnata, avendo affermato la Corte di merito che, "Se tali sono le risultanze processuali, era onere della [debitrice] dimostrare che l'ammontare dei debiti sociali non pagati fosse inferiore ad Euro 30.000, 00 (arg. L. Fall., ex art. 15) e che gli elementi, posti a fondamento della decisione del Tribunale, fossero smentibili per tabulas ma … dai bilanci sociali e dalla documentazione prodotta, nella istruttoria prefallimentare, da essa società, nessun titolo esimente é emerso e lo stesso può dirsi per la fase di appello". Nessuna inversione dell'onere della prova é desumibile dal provvedimento impugnato, dal quale si evince che, accertato lo stato di insolvenza alla luce degli elementi evidenziati nella stessa motivazione…gli elementi desumibili dai bilanci sociali e dalla documentazione prodotta, nella istruttoria prefallimentare, dalla società debitrice non consentivano una diversa decisione ».

2.4. Gli esiti negativi del procedimento per la dichiarazione di fallimento: la questione dell'idoneità al giudicato del decreto di rigetto della domanda.

Allo stato, le pronunce della S.C. hanno espresso consapevole continuità con l'indirizzo, prevalso negli ultimi anni anteriori alle riforme del 2005-2007, per cui la reiezione nel merito dell'istanza o richiesta di fallimento non dà luogo ad alcun effetto preclusivo, trattandosi di un accertamento cui è estranea la premessa applicativa dell'art. 2909 cod. civ.

Così tale provvedimento « è privo di attitudine al giudicato e non è configurabile una preclusione da cosa giudicata, bensì una mera preclusione di fatto, in ordine al credito fatto valere, alla qualità di soggetto fallibile in capo al debitore ed allo stato di insolvenza dello stesso, di modo che è possibile, dopo il rigetto, dichiarare il fallimento sulla base della medesima situazione, su istanza di un diverso creditore ovvero sulla base di elementi sopravvenuti, preesistenti ma non dedotti e anche di prospettazione identica a quella respinta, su istanza dello stesso creditore » (Cass. 14 ottobre 2009, n. 21834, rv610689). Il principio, prima della riforma, era stato espresso da Cass. S.U. 7 dicembre 2006, n. 26181, che aveva così superato le aperture di Cass. 26 giugno 2000, n. 8660, rv 538030, per la quale « quando nel provvedimento negativo (di rigetto) la questione risolta non attenga ai presupposti di fatto, dei quali sarà sempre possibile un diverso apprezzamento nella mutevolezza degli stessi, ma riguardi invece profili di diritto, al provvedimento suddetto deve riconoscersi anche il carattere della definitività e la conseguente idoneità a conseguire l'efficacia di giudicato » e di Cass. 18 gennaio 2000, n. 474, rv 532916 per cui « il principio secondo il quale il provvedimento reso dalla Corte di appello a norma dell'art. 22 legge fall. sul reclamo del creditore avverso il decreto di rigetto dell'istanza di fallimento del tribunale non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. (trattandosi di provvedimento camerale privo dei caratteri della definitività e della decisorietà su diritti) non è legittimamente applicabile nel caso in cui il provvedimento stesso abbia negato, in linea di diritto, la proponibilità stessa dell' "azione" del creditore in ragione della qualità del soggetto debitore (nella specie, negando - erroneamente - ad una società cooperativa la qualità di imprenditore assoggettabile alla procedura concorsuale della liquidazione coatta ex art. 2540 cod.civ. per il solo fatto di aver perseguito finalità esclusivamente mutualistiche, senza svolgere attività commerciale in senso proprio). Tale pronuncia, difatti, risolve, in realtà, una controversia in materia di diritti, acquista carattere di definitività (perché fondata non già su profili fattuali suscettibili di mutevoli apprezzamenti in relazione allo stato degli atti, ma su rilievi esclusivamente di diritto), è del tutto idonea a conseguire efficacia di giudicato nei confronti di qualsiasi altro creditore non istante, ma legittimato ex art. 195 legge fall., ed è, pertanto, suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. ». A tali due più remoti precedenti sembra ancorarsi quella parte di dottrina che, dopo la riforma ed in esplicito raccordo con la natura di cognizione piena dell'istruttoria, divenuta processo di parti e su interessi contrapposti, ora suggerisce la rimeditazione del principio e dunque dissente dalla sua, pur prevista, "riattualizzazione": FABIANI (b) 06, 625; nei confronti dell'istante per MARELLI 06, 412; con vincolo verso le parti del procedimento, p.m. compreso e quanto agli accertamenti di fatto sottesi per DE SANTIS (b) 10, 110-112; contra BONGIORNO 09, 332; con riguardo solo alle statuizioni sulle spese ovvero le condanne ai danni (e le relative omissioni) per CELENTANO 10, 293, 298.

2.5. L'effetto devolutivo del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento.

Con tre pronunce, di rilevante valore, la S.C. ha poi affrontato la diversa questione qualificatoria del nuovo, unico, grado di merito, dell'impugnazione della sentenza di fallimento. Nell'ambito del novellato art. 18 legge fall., in cui il legislatore del cd. decreto correttivo n. 169 del 2007 ha sostituito, con vigenza dal 1 gennaio 2008, all'appello il gravame del reclamo, Cass. 7 ottobre 2010, n. 20836 (rv 614314) ha affermato che tale mezzo « deve essere coordinato con la precedente fase, di natura contenziosa ed a trattazione camerale, volta ad assicurare l'attuazione di esigenze di snellezza e celerità » per cui esso « si articola in una fase di costituzione delle parti che si conclude in un'unica udienza a trattazione orale, ove ciascuna, pur in una sequenza semplificata, è ammessa ad illustrare le proprie difese ed anche a replicare a quelle avverse, senza che però tale dialettica contempli la facoltà delle parti di depositare ulteriori memorie » ovvero « consenta l'applicazione delle disposizioni di cui agli artt.189 e 190 cod. proc. civ., essendo semmai consentito al giudice, d'ufficio, acquisire eventuali informazioni per completare il quadro istruttorio ed anche graduare la tempistica del procedimento, secondo un temperato principio inquisitorio sopravvissuto alla citata riforma e la intrinseca flessibilità del modello camerale ».

Oltre a ribadire, dunque, la compresenza di un'istruzione probatoria attivabile ex officio, rispetto ad una più generale impostazione dispositiva del processo, di quest'ultima la S.C. pare cogliere un tratto riflesso nella struttura organizzativa del reclamo: se la sua scansione riproduce, oggi, una più elevata formalizzazione degli atti delle parti e delle loro iniziative, per quanto in un procedimento camerale, la tendenziale concentrazione in unica udienza sembra soddisfare, a prima vista, il rispetto di un requisito più rigido, su cui regolare il contraddittorio e le opportunità, per le parti, di incentivare l'istruzione sui presupposti della fallibilità. Ed invero, già si era precisato che il termine per la costituzione della parte (il reclamato) è perentorio, pur in difetto di un'esplicita enunciazione normativa, benché tale parte, decaduta dal proporre eccezioni in senso stretto, conservi il diritto di opporsi, nel costituirsi, con una più generale difesa di contrasto al reclamo (Cass. 5 giugno 2009, n. 12986).

Nella stessa linea si situa Cass. 28 ottobre 2010, n. 22110 che significativamente nega al giudice dell'impugnazione di potersi pronunciare su vizi della sentenza non prospettati con il gravame: non sarebbe perciò mutata l'impostazione già impressa dalla riforma, volta a cristallizzare il thema decidendum sulle sole questioni devolute al giudice di secondo grado, oltre che su quelle, che ne siano antecedente logico, rilevabili d'ufficio e su cui non sia intervenuta una pronuncia. Di qui la preclusione alla possibilità, con il reclamo, di riproporre questioni affrontate e risolte dal primo giudice, dovendo il mezzo articolarsi su specifiche critiche, con l'enunciazione puntuale delle invocate ragioni di riforma della sentenza.

Al punto che, dello stesso effetto devolutivo, tradizionalmente pieno con riguardo al reclamo (camerale) ed invece parziale se riferito all'appello, si predica un limite: l'indisponibilità degli interessi in gioco sostiene la maggiore coerenza, per il rito camerale, rivestita dal reclamo, rispetto all'appello. E tuttavia il reclamo nel procedimento camerale fallimentare non sarebbe programmaticamente « incompatibile con i limiti dell'effetto devolutivo normalmente inerenti al meccanismo dell'impugnazione, quando questa attenga ad un provvedimento decisorio emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio ». Tale richiamo permette alla S.C. di formalizzare un indirizzo esplicitamente posto a presidio della « esigenza di assicurare anche in quest'ambito la ragionevole durata del processo, alla cui definizione ultima deve potersi pervenire attraverso gradi successivi di affinamento del giudizio piuttosto che facendo riprendere in ciascun grado il giudizio da capo ».

Un ulteriore arresto sembra però aver affrontato il raccordo con l'effetto devolutivo del reclamo, sancendone di converso, in una fattispecie di peculiare ricorrenza giudiziaria, l'assenza di limiti: per Cass. 5 novembre 2010, n. 22546, infatti, non sussiste alcuna preclusione, in capo al debitore non costituito avanti al tribunale nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, a proporre iniziative probatorie con cui si contestino, dunque per la prima volta in secondo grado, i presupposti soggettivi del proprio fallimento. Anche se tale thema decidendum viene introdotto solo nella sede del reclamo, la corte d'appello non potrebbe negare a tale debitore (né costituito né comparso avanti al giudice di primo grado) il diritto ad assolvere all'onere di dimostrare i fatti impeditivi del fallimento. Il giudice di legittimità, qui, supera l'indirizzo contrario all'introduzione dei nova ovvero a dibattere in secondo grado questioni non sollevate nel primo [posizione invece sostenuta in dottrina: DE SANTIS 10, 1269] e ricostruisce la nuova disciplina dell'impugnazione dando prevalente rilievo alla citata variazione del modello che ha accompagnato il d.lgs. n. 169 del 2007 (da appello a reclamo) e dunque perviene ad una concezione pienamente devolutiva di esso.

Il richiamo esplicito alla previsione nell'art. 18 legge fall. dei poteri officiosi ancora connotativi dell'istruzione probatoria (nel solco di una salvezza posta dalla stessa Corte cost. n. 198/2009) imporrebbe così di guardare a tale norma speciale, più che al codice di rito (dai cui artt. 342 e 345 c.p.c. il decreto correttivo avrebbe allontanato l'impugnazione).

La riflessione dottrinale, sul punto, ha sviluppato peraltro la citata critica argomentando il dissenso dalla tesi nel frattempo seguita dalla S.C.: si è dato rilievo all'inscindibilità dei limiti del reclamo dalle regole di ripartizione dell'onere della prova avanti al tribunale, così assecondando la costruzione progressiva del citato thema decidendum, nella piena consapevolezza che la questione si inserisce, graduando i diritti difensivi del debitore, all'interno dei principi regolatori del giusto processo [DE SANTIS 10, 1269]. Non è poi mancato chi, pur negando la sussistenza di un divieto dei nova, conviene che un limite nel reclamo consisterebbe nella preclusione a potere dedurre « fatti costitutivi nuovi, mai configurati in precedenza» [PAJARDI – PALUCHOWSKI 08, 170]. Ed anche tra coloro che negano l'instaurazione di preclusioni o decadenze in relazione ai nova e per le difese svolte o non svolte in primo grado, si ammette il carattere limitato dell'effetto devolutivo ora assegnato al reclamo dal riformato art. 18 legge fall., quanto all'atto introduttivo e a differenza del reclamo di cui all'art.22 legge fall, salvo poi dover ricorrere ai principi generali – sul piano del trattamento deteriore che una tesi restrittiva implicherebbe per il debitore, rispetto ai terzi interessati, assenti nel giudizio avanti al tribunale e a loro volta reclamanti – per giustificare la cennata apertura [FORGILLO 10, 254].

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3. IL GIUSTO PROCESSO DEL LAVORO: I POTERI OFFICIOSI ATTRIBUITI AL GIUDICE DEL LAVORO.

3.1. La funzione dell'intervento del giudice in ambito istruttorio.

Nella disciplina delle controversie di lavoro, caratterizzate dalla previsione di ampi poteri officiosi attribuiti al giudice del lavoro, il principio costituzionale del "giusto processo" implica la precisazione della portata di quei poteri e del rapporto degli stessi con la posizione e le prerogative delle parti del processo.

L'ordinamento, invero, assegna al giudice del lavoro poteri istruttori officiosi, sia in funzione del perseguimento della verità, sia in funzione riequilibratrice delle posizioni delle parti, i cui poteri nell'ambito del rapporto di lavoro sono - sul piano non solo economico, ma anche e soprattutto giuridico - del tutto asimmetrici: per entrambi i profili è evidente il collegamento sia con il principio costituzionale del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., sia con il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, comma 2, Cost. Sotto il primo profilo, se in linea generale si è osservato che la correttezza giuridica della decisione dipende dal fondarsi su un accertamento veritiero dei fatti di causa (sicché «il processo è giusto se, oltre ad assicurare l'attuazione delle garanzie, è sistematicamente orientato a far sì che si stabilisca la verità dei fatti rilevanti per la decisione … ed è ingiusto nella misura in cui è strutturato in modo da ostacolare o limitare la scoperta della verità, dato che in questo caso ciò che si ostacola o si limita è la giustizia della decisione con cui il processo si conclude»: TARUFFO, 09, 119), con particolare riferimento al rito del lavoro l'obiettivo del perseguimento di un accertamento veritiero dei fatti di causa si ritrova proprio nella valorizzazione del potere istruttorio d'ufficio del giudice del lavoro. Sotto il secondo profilo, proprio perché il potere officioso del giudice ha, anche, una funzione sociale riequilibratrice sul piano processuale della posizione delle parti, ne deriva - quanto meno - che le insufficienze e le debolezze della parte (che abbia indicato i fatti materiali, ma non formalizzato ritualmente le relative richieste istruttorie) non possano influire sull'esercizio di quei poteri officiosi (PROTO PISANI, 87, 714).

Questo ruolo peculiare che il legislatore ha disegnato per il giudice nel processo del lavoro è stato riconosciuto, anche in sede di legittimità, dalla giurisprudenza, che ha affermato che, nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere - dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo - in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 cod. proc. civ., ed al disposto di cui all'art. 111, primo comma, Cost. sul "giusto processo regolato dalla legge" - di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Sulla scia delle Sezioni Unite che hanno formulato l'anzidetto principio (Sez. U, n. 11353 del 17/06/2004, rv 574225), più di recente, la giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte (n. 22305 del 24/10/2007, rv 599575) ha affermato che «è carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il poteredovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti». Ed anche Cass. Sez. L, n. 29006 del 10/12/2008 (rv 605740) ha ribadito che «il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione opera indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti».

In senso diverso, tuttavia, si è rilevato che l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio in grado d'appello presuppone l'insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, perché ad essa si assocerebbe la preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, sicché «i poteri istruttori officiosi del giudice del lavoro non potrebbero sopperire alle carenze probatorie delle parti» (Cass., Sez. Lav., n. 17102 del 22/07/2009, rv 609551 e, conforme, Cass. Sez. L, n. 11847 del 21/05/2009, rv 608407).

3.2. Poteri istruttori della Corte nel procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi.

Sul piano dell'attività istruttoria, nell'ambito del procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi, di cui all'art. 420 bis cod. proc. civ., la giurisprudenza ha riconosciuto, con la specialità del procedimento, che il giudice di legittimità si muove secondo una metodica particolare, volta in chiave nomofilattica ad assicurare l'uniforme applicazione delle clausole contrattuali e presuppone perciò un'idonea istruttoria al fine della soluzione della questione pregiudiziale con portata generale ed esaustiva, capace cioè di definire in termini chiari ed univoci ogni possibile questione in materia (cfr. Cass. Sez. U, n. 20075 del 23/9/2010; v., altresì, sulle finalità dello speciale procedimento, Cass., Sez. L, n. 1578 del 24/01/2008, rv 601491). L'ampiezza del potere valutativo della Corte, l'estensione della portata nomofilattica del suo intervento, oltre che l' analogia con il procedimento pregiudiziale previsto per i contratti collettivi del pubblico impiego (nel quale le facoltà di intervento e di presentazione di memorie delle oo.ss. sono previste espressamente, anche con riferimento al giudizio in cassazione sulla pregiudiziale, dall'art. 64, co. 5, del d.lgs. n. 165 del 2001) sembra implicare il potere della Corte di richiedere alle organizzazioni sindacali informazioni, scritte o orali, in ordine al contratto collettivo e alle procedure seguite per la sua stipula.

In tema, si è sottolineato in dottrina (tra gli altri, LIEBMAN, 05, 7) che l'opportunità di coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, in linea generale nel procedimento, deriva da una esigenza di non interferire pesantemente con pronuncia autoritativa sugli «equilibri connessi alla delicata fase di amministrazione degli assetti negoziali collettivi». Inoltre, la considerazione della ragionevole durata del processo (che spinge per una soluzione rapida, ma soprattutto "esatta" e definitiva alla questione pregiudiziale), unitamente alla necessità di sentire gli autori dell'atto contrattuale da interpretare, essenziale per una valutazione dello stesso da parte della Corte che sia veramente consapevole e, quindi, autorevole, potrebbero far ammettere le informative sindacali ai sensi dell'art. 425 cod. proc. civ. anche nel giudizio di cassazione, superandosi il mancato richiamo al comma 5 dell'art. 64 del d.lgs. 165 del 2001 ad opera dell'art. 146 att. cod. proc. civ. per il procedimento ex art. 420 bis, in ragione dell'esigenza di una indagine completa, quale presupposto essenziale dell'intervento nomofilattico.

La giurisprudenza di legittimità si è, peraltro, espressa in senso contrario, ritenendo (Cass. Sez. L, n. 2796 del 06/02/2008, rv 601514) che l'assunzione di nuove iniziative istruttorie porterebbe a «snaturare in radice il processo di cassazione», ed affermando (Cass. n. 1578/08, rv 601491) che «ove la necessaria istruttoria da parte del giudice di merito sia mancata, non essendo tale lacuna rimediabile in sede di legittimità, ne deriva l'accoglimento del ricorso per cassazione proposto ai sensi del comma terzo della norma, con cassazione dell'impugnata sentenza e rimessione degli atti al giudice di merito» (Nello stesso senso, in motivazione, Cass., Sez. L, n. 19560 del 21/09/2007, rv 600048).

3.3. Il rilievo officioso, in ogni stato e grado, delle nullità processuali.

L'intervento del giudice non si esaurisce sul piano probatorio, potendo riguardare, più a monte, la verifica della violazione di regole processuali, che abbiano determinato dei vizi, per il rilievo dei quali non occorra l'iniziativa della parte, trattandosi di rilievi operabili d'ufficio.

In tema, appare di grande rilievo Cass., Sez. U, n. 26019 del 30/10/2008 (rv 604949) la quale ha chiarito che «il potere di controllo delle nullità (non sanabili o non sanate), esercitabile in sede di legittimità, mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione, va ritenuto compatibile con il sistema delineato dall'art. 111 della Costituzione, allorché si tratti di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio - in quanto tale ammissibilità consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il giudicato, attraverso la successiva proposizione dell'actio nullitatis o del rimedio impugnatorio straordinario ex art. 404 cod. proc. civ. da parte del litisconsorte pretermesso - ovvero di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di "potestas iudicandi" - come il difetto di legitimatio ad causam o dei presupposti dell'azione, la decadenza sostanziale dall'azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza sociale (per il quale la legge prevede la declaratoria di improcedibilità in ogni stato e grado del procedimento) -; in tutte queste ipotesi, infatti, si prescinde da un vizio di individuazione del giudice, poiché si tratta non già di provvedimenti emanati da un giudice privo di competenza giurisdizionale, bensì di atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare, difettando i presupposti o le condizioni per il giudizio. Tale compatibilità con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo va, invece, esclusa in tutte quelle ipotesi in cui la nullità sia connessa al difetto di giurisdizione del giudice ordinario e sul punto si sia formato un giudicato implicito, per effetto della pronuncia sul merito in primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al giudice di appello; ciò tanto più nel processo del lavoro, in cui il sistema normativo che fondava l'originario riparto fra giudice ordinario ed amministrativo sul presupposto di una giurisdizione esclusiva sull'atto amministrativo, ne ha poi ricondotto il fondamento al rapporto giuridico dedotto, facendo venir meno la ratio giustificatrice di un intenso potere di controllo sulla giurisdizione, da esercitare "sine die"».

La pronuncia approfondisce, con specifico riferimento al processo del lavoro ed alle varie ipotesi di nullità processuali, una tematica notoriamente portata a consapevole quanto innovativa emersione, in relazione al giudicato implicito sulla giurisdizione, da Cass. Sez. U, n. 24883 del 09/10/2008 (rv 604576), secondo la quale «il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, precisando che, in particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l'affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l'unico tema dibattuto sia stato quello relativo all'ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito "per saltum", non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito». In linea con quel precedente più sopra richiamato, Cass. Sez. L, n. 217703 del 13/10/2009 (rv 612517) ha poi affermato, in tema di giudicato, che «l'impugnazione nel merito della pronuncia di primo grado impedisce la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione "ad causam" anche quando la specifica eccezione sia prospettata per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, atteso che la corretta individuazione delle parti attiene alla stessa finalità della funzione giurisdizionale ed, inoltre, dall'erronea dichiarazione di avvenuta formazione del giudicato può derivare un dispendio di attività processuale derivante dalla potenziale proposizione dell'opposizione di terzo ai sensi dell'art. 404 cod. proc. civ. Ne consegue l'ammissibilità del relativo motivo, trattandosi di questione rilevabile anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo».

L'incidenza del principio del giusto processo si riflette sul giudizio di cassazione e sul potere di controllo, anche officioso, delle nullità verificatesi nel giudizio di merito, e ciò ha indotto le Sezioni unite, nella richiamata pronunzia n. 26019 del 2008, ad individuare, in particolare, le nullità la cui rilevazione vale a realizzare le finalità dell'art. 111, co. 2, Cost.: si sono così sottolineate le ipotesi nelle quali la prospettiva del giusto processo non è apparsa affatto incompatibile con la rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado, in deroga ai principi generali della disponibilità della tutela giurisdizionale e dell'onere di impugnazione: la legitimatio ad causam, che riguarda l'individuazione della giusta parte in una determinata controversia, e che, con l'interesse ad agire e con il titolo dedotto in giudizio, l'oggetto medesimo dell'esercizio della giurisdizione; la decadenza sostanziale dall'azione, per il decorso di determinati termini previsti dalla legge (per esempio con decorrenza dalla definizione del procedimento amministrativo relativo alla domanda di prestazione previdenziale, ex art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970), che riguarda non un vizio dell'attività processuale, bensì la stessa ammissibilità della tutela giurisdizionale; la mancanza della domanda amministrativa di prestazione previdenziale, che attiene alla proponibilità dell'azione giudiziale; la violazione del divieto di nuove contestazioni e di nuove domande o eccezioni in grado d'appello, che riguarda la delimitazione della res litigiosa.

Nelle ipotesi così individuate, relative a nullità conseguenti alla violazione del contraddittorio, ovvero alla carenza di una potestas judicandi non connessa al riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudici speciali, si tratta di vizi che sono al di fuori del deducibile, e sono esclusi dall'onere della parte di rilievo o impugnativa, ed il giudice le può e deve rilevare d'ufficio in ogni stato e grado del processo ed anche in sede di legittimità - salvo l'effetto preclusivo derivante dalla esistenza di una specifica statuizione del giudice di merito e dalla mancata impugnazione al riguardo: in tali ipotesi, il rilievo obbligatorio della nullità, che inficia la decisione impugnata (nella sua interezza o in parte qua), si risolve nella pronuncia, caducatoria e meramente rescindente, di cassazione senza rinvio ai sensi dell'art. 382, secondo comma, cod. proc. civ., perché «la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito» (MORCAVALLO, 10, 6).

3.4. Rilievo della decadenza in materia previdenziale.

Tra le questioni rilevabili dal giudice ex officio, in ogni stato e grado del processo, assume rilievo, come detto, la decadenza in materia previdenziale, con particolare riferimento alla decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 - come interpretato dall'art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166: in proposito, la giurisprudenza delle sezioni unite ha precisato che la decadenza (Cass., Sez. U, n. 12720 del 29/5/2009, rv 608224) non può trovare applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sé considerata, ma solo una riliquidazione, ove la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria prescrizione decennale.

Il principio è stato ribadito di recente dalla sezione lavoro (sentenze n. 1580 del 26/01/2010, rv 611978 e n. 948 del 20/01/2010, rv 611958), sebbene la dottrina abbia aspramente criticato la soluzione, osservando (tra gli altri, GENTILE 09, 2989, e ID. 2008 1595) che la stessa «spalanca la porta dei tribunali ad una pletora di causette clonate, i cui effetti, tuttavia, sono un costo complessivamente alto per la finanza previdenziale, soprattutto a titolo di spese processuali, e la quasi asfissia di alcuni uffici giudiziari di primo grado del Sud, nonché riflessi localmente penalizzanti in appello e, alla fine dell'iter processuale, difficoltà persino per la Suprema corte», laddove era preferibile sul piano giuridico, per una serie di ragioni indicate nello scritto da ultimo richiamato, e non ultima quella della maggior coerenza con la funzione di certezza tipica dell'istituto della decadenza (anche a tutela dei bilanci pubblici degli enti previdenziali), l'affermazione dell'applicabilità di un unico termine decadenziale, tuttavia «destinato a colpire anche le componenti non riconosciute della prestazione, nell'ipotesi che fossero rivendicabili ab initio da parte del beneficiario, il quale, invece, si sia a lungo accontentato del trattamento erogato senza le stesse».

3.5. Giurisdizione, competenza, legittimazione ed altre questioni, diverse da quella oggetto di interpretazione, nel procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi.

Il procedimento di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi, di cui all'art. 420 bis cod. proc. civ. ed all'art. 64 del d.lgs. 31 marzo 2001, n. 165, pone problemi particolari con riferimento al rilievo officioso di questioni diverse da quella interpretativa che è oggetto del procedimento speciale.

Sul punto, si è prospettato il procedimento in esame come una parentesi ad oggetto rigorosamente limitato alla questione interpretativa, impregiudicata ogni altra questione, peraltro non discussa dalle parti e non decisa in primo grado. Al riguardo, secondo Cass., Sez. L, n. 19560 del 21/09/2007 (rv 600048), l'applicazione dell'art. 420-bis cod. proc. civ. in materia di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi, non è impedita dalla circostanza che la pregiudiziale sulla portata della disciplina collettiva si accompagni o meno ad altre questioni, pregiudiziali, preliminari o che si presentino come logicamente antecedenti alla decisione finale, essendo richiesto unicamente che la suddetta pregiudiziale riguardi l'efficacia, la validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi e che sia suscettibile di sfociare in una soluzione definitiva e potenzialmente generale della questione posta, rimuovendo una situazione di incertezza attraverso uno strumento processuale volto a provocare una pronuncia capace di vincolare tendenzialmente tutti i giudici investiti, anche in futuro, della medesima questione. La soluzione ha trovato consensi in dottrina (per tutti, LUISO, 99, 365), ove si è escluso che la Cassazione possa occuparsi di questioni diverse da quella interpretativa, che pertanto resteranno rilevabili nell'ulteriore corso del processo.

In senso contrario, si è ammessa in dottrina la decisione, nell'ambito del procedimento pregiudiziale, di questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado (es. difetto di jus postulandi, nullità insanabili, difetto di giurisdizione, incompetenza, difetto di legittimazione, ecc.), ciò che sembra coerente proprio con il principio della ragionevole durata del processo.

Mentre alcuni (IANNIRUBERTO, 07, 468) considerano la possibilità, quale esito del procedimento pregiudiziale, della «cassazione senza rinvio per questioni che implichino la esistenza di vizi tali da impedire la prosecuzione del giudizio per improponibilità della domanda originaria, di difetto di competenza o di giurisdizione», altri (FOGLIA, 06, 4) hanno osservato in proposito che «l'art. 420-bis nulla dice sulla ricomprensione tra i motivi del ricorso in cassazione dell' eventuale questione di competenza o di giurisdizione, come pure delle questioni di rito: l'accoglimento di queste questioni dovrebbe comportare l'assorbimento di altri motivi e, dunque, l'assorbimento dell'intervento risolutivo della Cassazione sull'interpretazione, validità o efficacia del c.c.n.l.. Lo stesso dovrebbe dirsi nel caso in cui la Cassazione ravvisi un difetto di legittimazione ad agire e annulli, quindi senza rinvio ex art. 382, comma 3 cod. proc. civ. Parimenti la Cassazione dovrebbe poter annullare la sentenza non definitiva, senza disporre il rinvio, ove rilevi il difetto di giurisdizione o l'incompetenza del giudice fatti valere nel ricorso».

3.6. Preclusioni al rilievo officioso di alcune nullità verificatesi nel giudizio di merito.

Se, come già evidenziato, il rilievo officioso in ogni stato e grado delle nullità processuali resta circoscritto alla sola violazione delle regole processuali fondamentali, connesse allo svolgimento di un processo giusto, il principio di ragionevole durata del processo (che deriva dall'art. 111, secondo comma, Cost. e dagli art. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ed è sempre espressione del principio del giusto processo) si riflette sul giudizio di cassazione e sul potere di controllo, anche officioso, delle nullità diverse verificatesi nel giudizio di merito, imponendo al giudice, ai sensi degli art. 175 e 127 cod. proc. civ., di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della controversia, essendo tali quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dal rispetto effettivo del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo, in condizioni di parità (art. 111, secondo comma, Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (cfr. Cass., Sez. 2, n. 2723 del 08/02/2010, rv 611735; Cass. Sez. 3, n. 27129 del 23/12/2009, rv 610605 (ord.); Cass., Sez. U, n. 26373 del 03/11/2008, rv 605610).

Il principio ha trovato applicazione ulteriore nella materia della previdenza, in un caso deciso da Cass. sez. Un., 9 agosto 2010, n. 18480 (non massimata), nel quale era stata proposta domanda di corresponsione del c.d. reddito di cittadinanza, di cui all'art. 2 della legge regionale Campania 19 febbraio 2004, n. 2; nella specie, il giudice di pace adito aveva dichiarato la propria incompetenza, rimettendo le parti al tribunale in funzione di giudice del lavoro, e su appello del privato, il tribunale ordinario aveva ritenuto la propria giurisdizione e deciso la causa nel merito, escludendo la natura assistenziale della prestazione, ai sensi dell'art. 442 cod. proc. civ.; impugnata la sentenza in Cassazione, la S.C., nell'affermare la giurisdizione del giudice ordinario e la natura assistenziale della prestazione, ha respinto il ricorso, escludendo il riflusso del processo nei gradi precedenti, e precisando che «La configurazione di una controversia soggetta alla disciplina di cui agli art. 442 ss. cod. proc. civ. non comporta, in ogni caso, alcuna nullità della sentenza impugnata in relazione alla mancata rimessione della causa al giudice competente, come esattamente individuato nella decisione di primo grado, e cioè allo stesso Tribunale di Benevento in funzione di giudice del lavoro; ed infatti questa Corte ha precisato che "quando, di fronte ad una declinatoria di competenza da parte del giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della sua giurisdizione equitativa, venga proposto appello con contestazione della fondatezza della pronuncia, il tribunale, ove la censura sia infondata, è investito dell'esame del merito quale giudice dell'appello in conseguenza del normale effetto devolutivo proprio di tale impugnazione, restando escluso sia che la pronuncia sul merito possa considerarsi come resa dal tribunale stesso in primo grado, sia che al rigetto dell'appello sul motivo afferente alla competenza debba seguire la rimessione delle partì avanti allo stesso tribunale quale giudice competente affinché la controversia venga decisa in primo grado" (cfr. Cass. n. 20636 del 2006). Né, d'altra parte, assume rilievo che la controversia sia stata decisa mediante l'adozione del rito ordinario in luogo di quello speciale, e senza il mutamento del rito ai sensi dell'art. 426 cod. proc. civ., poiché tale circostanza può determinare l'invalidità del procedimento solo nell'ipotesi - non ricorrente nella specie - in cui essa abbia causato un concreto pregiudizio alle parti riguardo al regime delle prove e all'esercizio del diritto di difesa (cfr. Cass. n. 1222 del 2006)».

3.7. Il riconoscimento d'ufficio del cumulo di interessi e rivalutazione delle somme oggetto di condanna del datore di lavoro.

Altro ambito di applicazione di poteri officiosi del giudice del lavoro riguarda il riconoscimento in favore del lavoratore del cumulo di interessi e rivalutazione delle somme oggetto di condanna del datore di lavoro: il riconoscimento in favore del lavoratore del diritto agli accessori sulle somme, che decorrono dalla data di maturazione del diritto e prescindono dalla prova del danno subito dal lavoratore, ha funzione riequilibratrice delle posizioni delle parti e sanzionatoria dell'inadempimento datoriale, e l'ordinamento (art. 429 co. 3 cod. proc. civ.) prevede l'applicazione officiosa della norma, a prescindere dall'iniziativa di parte.

Il principio del rilievo ex officio della rivalutabilità dei crediti di lavoro va peraltro coordinato con le regole che presiedono alla formazione del giudicato: si è infatti osservato (Cass., Sez. L., n. 7395 del 26/3/2010, rv 612797) che «la rivalutazione dei crediti di lavoro, costituendo una proprietà intrinseca ed indissolubile di tali crediti, come tale riconducibile alla "causa petendi" della domanda con cui il credito è fatto valere, deve essere operata d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, senza necessità di una specifica domanda del lavoratore, sempreché sulla questione non sia già intervenuta una pronuncia, ancorché solo implicita, non contestata dalla parte soccombente, atteso che in tale caso il potere officioso del giudice viene meno per effetto dell'acquiescenza e dalla formazione del giudicato sulla questione; ne consegue che la pronuncia con la quale il giudice, sia pure implicitamente, neghi la rivalutazione, presuppone un accertamento negativo circa la sussistenza del maggior danno, sicché, in difetto di impugnazione sul punto, si forma al riguardo il giudicato e l'esame della relativa questione resta precluso nelle successive fasi processuali» (nello stesso senso, Cass. Sez. L, n. 16484 del 15/7/2009, rv 609400, in materia di prestazioni previdenziali).

3.8. Il controllo del giudice sul frazionamento della domanda ingiustificato.

L'intervento del giudice è volto ad assicurare il giusto processo anche impedendo la realizzazione di abusi attraverso lo strumento processuale, come avviene nel caso di frazionamento della domanda ingiustificato. In relazione a ciò, ha trovato affermazione anche nell'ambito delle controversie del lavoro il principio, già affermato dalle Sezioni unite (Cass. Sez. U, n. 23726 del 15/11/2007, rv 599316), secondo il quale non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (nel medesimo senso, altresì, Cass. Sez. 3, n. 15476 del 11/06/2008, rv 603542).

Ha, infatti, affermato Cass. Sez. L., n. 28719 del 03/12/2008 (rv 605773) che, «in tema di trattamento di fine rapporto, qualora si sia formato il giudicato sull'inserimento, nella base di calcolo, delle indennità contrattuali erogate in maniera fissa e continuativa, resta preclusa una nuova domanda di riliquidazione della prestazione medesima ancorché fondata su profili differenti quali il riconoscimento dei compensi per lavoro straordinario, trattandosi di ragioni che, pur se non dedotte, erano deducibili nel precedente giudizio, dovendosi ritenere non consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell'obbligazione, traducendosi in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte per la corretta tutela del suo interesse sostanziale, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, sia con il principio costituzionale del giusto processo, nella cui prospettiva occorre considerare lo stesso concetto di "deducibile"». Considerazioni analoghe sono state fatte del resto dallo stesso legislatore, nell'ambito dei procedimenti relativi a controversie in materia di previdenza e assistenza sociale, per le domande che frazionano un credito relativo al medesimo rapporto, comprensivo delle somme eventualmente dovute per interessi, competenze e onorari e ogni altro accessorio, per le quali la legge oggi impone la declaratoria di improcedibilità in ogni stato e grado del procedimento (art. 20, commi 7 e 8, del d.l. n. 112 del 2008, convertito nella legge n. 133 del 2008).

Resta sempre valido, peraltro, vieppiù nella materia della previdenza ed assistenza sociale, l'insegnamento di PALMIERI e PARDOLESI, 08, 1515 (sul tema, altresì, LAGANA', 07, 642), che ritengono «verosimile» che «il frazionamento della domanda celi un abuso, foriero di un vantaggio indebito per la parte, per il suo patrocinatore o per un altro attore del processo».

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4. LE PRIME DECISIONI SUL NUOVO PROCESSO MINORILE.

4.1. Il nuovo processo minorile nella riformata legge 4 maggio 1983 n. 184.

L'esigenza di rivisitazione della disciplina dettata dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 era da tempo avvertita sia dalla giurisprudenza, che dalla dottrina, consapevole della profonda contraddizione di una giurisdizione, regolata dal rito camerale, destinata a incidere su situazioni soggettive che, al di là della loro precisa definizione sul piano tecnico, fanno parte di quel nucleo ristretto di "diritti inviolabili dell'uomo".

La novella n. 149 del 2001 segue, quindi, a un vivace dibattito sul ruolo dell'organo specializzato, spesso ad un tempo giudice e "difensore" dei diritti del minore, sui modi di una sua possibile "terzietà", sulla necessità della rappresentanza del minore, sulle distorsioni del rito camerale, che, lungi dall'essere ragione di semplificazione, riproducevano all'interno del processo minorile, l'intera gamma dei problemi costruttivi ed applicativi relativi ai procedimenti in camera di consiglio, cui si aggiungevano problemi specifici sorti nell'ambito della giustizia minorile amministrata dal tribunale specializzato ed innescati dalla rilevanza attribuita all'"interesse del minore"; mira a superare la tradizionale figura del "giudice amministratore", avversata dal pensiero giuridico più avveduto e contraddittoria con i principi del giusto processo, sebbene alcuni studiosi ribadissero la necessità di un "processo del giudice" e non delle parti.

I punti cruciali, irrisolti a livello teorico, e affidati nella prassi a soluzioni disomogenee, con manifesto sconcerto di avvocatura e dottrina, riguardavano essenzialmente, da un lato il riconoscimento del minore come parte sostanziale e processuale, in quanto titolare di diritti azionabili, dall'altra la formazione del convincimento del giudice nell'ottica delle caratteristiche inquisitorie del processo minorile, nonché l'esercizio dei diritti di difesa tecnica e della partecipazione diretta di tutti gli interessati al procedimento e, in particolare, dello stesso minore.

Il legislatore del 2001, tuttavia, disegna una imprecisa architettura processuale, restando all'interprete il compito di definirla nei suoi esatti contorni.

4.2. Il riconoscimento del minore come parte sostanziale e processuale.

La Corte di Cassazione ha posto le prime fondamentali pietre angolari solo nell'anno 2010, in quanto la legge 149 del 2001 è entrata in vigore solo nel 2007, quasi per caso, dopo una serie di rinvii in attesa di un regolamento d'attuazione. Con riguardo all'esegesi di "titolarità", in capo al minore, di diritti azionabili e alla "nozione di parte" la Corte supera le posizioni più sfumate di un recente passato (cfr. Cass. n. 22238 del 21 ottobre 2009; n. 15145 del 10 ottobre 2003, rv 567383; n. 14934 del 4 agosto 2004, rv 575205; n. 27239 del 14 novembre 2008) e chiarisce (Cass. n. 7281 del 26 marzo 2010): «(...) dottrina e giurisprudenza hanno tratto la regola che nei giudizi di adottabilità, come modificati dalla novella del 2001, il legislatore non ha più considerato il minore oggetto della potestà dei genitori e/o del potere - dovere officioso del giudice di individuarne e tutelarne gli interessi preminenti, ma quale soggetto di diritto, perciò titolare di un ruolo sostanziale nonché di uno spazio processuale autonomi. Che comportano la radicale modifica del suo ruolo tradizionale di semplice destinatario di una decisione presa nel suo interesse da altri, ed il riconoscimento di parte necessaria sia sostanziale, in quanto titolare del rapporto sostanziale oggetto del processo, sia processuale, in quanto svolge un ruolo nella dinamica del processo in funzione del suo risultato giuridico e ne subisce gli effetti diretti ed indiretti», chiosando «nel procedimento di adozione il minore è la parte principale ed in senso formale». Pronunzia che ribadisce il principio da poco affermato nella sentenza n. 3804 del 17 febbraio 2010: «Il minore è parte a tutti gli effetti del procedimento, fin dall'inizio, ma, secondo le regole generali, e in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo del rappresentante, e questi sarà il rappresentante legale, ovvero, in mancanza o in caso di conflitto di interessi, un curatore speciale» (rv 611873).

L'intervento del giudice di legittimità con riguardo alla controversa interpretazione dell'art. 10, comma 2, della novella, è tranciante: il dovere del presidente del tribunale di avvertire i genitori o in mancanza determinati parenti dell'apertura del procedimento, invitandoli nel contempo a nominare un difensore ed informandoli della nomina di un difensore d'ufficio per il caso che essi non vi provvedano, «sussiste a maggior ragione nei confronti del minore (rappresentato dal tutore o dal curatore) che del procedimento di adozione è la parte principale e quindi necessaria» (cfr. Cass. n. 12290 del 19 maggio 2010).

Tale assioma è la premessa per ulteriori ineludibili approdi, in quanto il minore è titolare di diritti soggettivi autonomi, ed è quindi "parte" in senso tecnico, ma non ha il libero esercizio dei correlati diritti, ovvero non ha capacità processuale, per cui è necessaria l'interposizione soggettiva di un rappresentante legale.

Muovendo da questa consapevolezza la Corte scioglie uno dei nodi più spinosi del "nuovo" processo minorile e chiarisce con la sentenza n. 3804 del 17 febbraio 2010, rv 611874: «In tema di adozione, ai sensi degli artt. 8, ultimo comma, e 10, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellati dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, il procedimento volto all'accertamento dello stato di adottabilità deve svolgersi fin dalla sua apertura con l'assistenza legale del minore, il quale è parte a tutti gli effetti del procedimento, e, in mancanza di una disposizione specifica, sta in giudizio a mezzo di un rappresentante, secondo le regole generali, e quindi a mezzo del rappresentante legale, ovvero, in caso di conflitto d'interessi, di un curatore speciale, soggetti cui compete la nomina del difensore tecnico».

In proposito, la dottrina si era negli anni compattata "sull'ovvia e indiscussa constatazione che il minore è parte necessaria nei giudizi di adottabilità, che riguardano l'ablazione del suo status familiare" (TOMMASEO, 09, 255).

4.3. La rappresentanza processuale del minore.

Richiamando qualche isolata precedente pronunzia (ved. Cass. n. 27239 del 14.11.2008, rv 605936; Cass. n. 1206 del 30.1.2002), la Corte trova conferma che la rappresentanza processuale del minore passa attraverso le figure del genitore, del tutore, ovvero, in caso di conflitto anche solo potenziale con questo, del curatore speciale, e pone fine ad una annosa querelle, circa l'eventualità ovvero la necessità della figura del curatore speciale nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di abbandono, accogliendo la proposta interpretativa di coloro che ritenevano la sua presenza, come indispensabile alla geometria del nuovo processo minorile (MOROZZO DELLA ROCCA, 07, 353). Sul punto la sentenza n. 12290 del 19 maggio 2010, rv 613253, puntualizza: «nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, la partecipazione del minore, necessaria fin dalla fase iniziale del giudizio, richiede la nomina di un curatore speciale soltanto qualora non sia stato nominato un tutore o questi non esista ancora al momento dell'apertura del procedimento, ovvero nel caso in cui sussista un conflitto d'intereressi, anche solo potenziale, tra il minore ed il suo rappresentante legale.

Tale conflitto è ravvisabile "in re ipsa" nel rapporto con i genitori, portatori di un interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il minore, mentre nel caso in cui a quest'ultimo sia stato nominato un tutore il conflitto dev'essere specificamente dedotto e provato in relazione a circostanze concrete, in mancanza delle quali il tutore non solo è contraddittore necessario, ma ha una legittimazione autonoma e non condizionata, che può liberamente esercitare in relazione alla valutazione degli interessi del minore».

Il giudice di legittimità, pertanto, mostra di condividere l'impostazione teorica della dottrina maggioritaria per la quale «la generale previsione di assistenza tecnica del minore, distinta da quella dei genitori, autorizza a pensare che il legislatore ha ravvisato sempre sussistente, tanto da presumerlo ex lege in tale tipo di procedimento, un conflitto d'interessi tra il minore e i suoi familiari» (BRIENZA, 2002, 1000).

Tuttavia, a fronte della variegata interpretazione offerta dai giudici di merito, favorita dall'ermetismo del legislatore, la S.C. con la sentenza n. 16553 del 14 luglio 2010 (rv 614079) precisa: «nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d'interessi tra minore e genitore è "in re ipsa", quello con il tutore è solo potenziale ed il relativo accertamento deve essere compiuto in astratto ed "ex ante" e non in concreto ed a posteriori, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti in causa; pertanto, deve escludersi che il tutore (nella specie un ente territoriale), pur se nominato nel corso del procedimento, versi sempre e comunque, anche soltanto potenzialmente, in conflitto d'interessi con il minore. (In applicazione del principio la Corte ha cassato la pronuncia della Corte d'appello, sezioni minori che aveva dichiarato la nullità del procedimento di primo grado per difetto di integrità del procedimento dovuta alla costituzione di un unico difensore nella duplice veste di legale del minore e del tutore)».

Con tale pronunzia la S.C. ha, inoltre, risolto il contrasto insorto tra i giudici di merito, per il quale alcuni, in contrapposizione ad altri, ritenevano che la designazione, quale tutore di un soggetto pubblico appartenente ad un ente territoriale, richiedesse sempre la nomina di un curatore speciale sul presupposto dell'esistenza di un conflitto virtuale fra l'interesse superiore del minore e gli interessi non necessariamente coincidenti dell'ente a cui il tutore appartiene, affermando (pag. 13) che: «non può condividersi l'affermazione del giudice a quo per cui il tutore, pur se nominato nel corso del procedimento, sarebbe, anche potenzialmente, sempre e comunque in conflitto d'interessi con il minore» (conforme Cass. n. 3804 del 2010).

Laddove, ai fini della deducibilità dell'asserito contrasto, ha altresì chiarito: «nel procedimento di adozione, mentre il conflitto d'interessi tra minore e genitore è "in re ipsa", per incompatibilità anche solo potenziale delle rispettive posizioni, il conflitto d'interessi tra minore e tutore deve essere dedotto dal P.M. ovvero da uno dei soggetti indicati dall'art. 10 della legge 28 marzo 2001, n. 149, ed accertato in concreto dal giudice, come idoneo a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal tutore in contrasto con l'interesse del minore; in tal caso, tuttavia, la denuncia, tendendo alla rimozione preventiva del conflitto, nonché alla immediata sostituzione del rappresentante legale con il curatore speciale dal momento in cui la situazione d'incompatibilità si è determinata, non può più essere prospettata nelle ulteriori fasi del giudizio al solo fine di conseguire la declaratoria di nullità degli atti processuali compiuti in seguito ad una situazione non denunciata» (cfr. Cass. n. 7281 del 2010, rv 612485; conforme Cass. n. 16870 del 19 luglio 2010, rv 614029).

La stessa pronunzia ha precisato ancora che: «alla ritardata costituzione del difensore del minore o alla mancata assistenza da parte di costui ad uno o più atti processuali, non consegue l'automatica declaratoria della nullità dell'intero processo e/o dell'atto e di tutti quelli successivi, potendo tale sanzione essere invocata dal P.M. o dalle altre parti solo previa allegazione e dimostrazione del reale pregiudizio che la tardiva costituzione o la mancata partecipazione all'atto ha comportato per la tutela effettiva del minore» (rv 612484), indicando una linea evolutiva chiara rispetto a Cass. n. 10228 del 2009 e n. 20625 del 2009, che individuavano una nullità assoluta nell'ipotesi di mancata nomina di un curatore speciale, rinvenendo nella ritardata nomina del difensore del minore una causa di inutilizzabilità dell'attività processuale svolta dopo l'entrata in vigore della novella.

Altro importante arresto, per la prima volta la Suprema Corte esprimendosi sulla relativa questione, è la sentenza n. 7941 del 31 marzo 2010, così massimata (rv 612487): «In tema di adozione, ai sensi dell'art. 10, comma terzo, della legge 4 maggio 1983, n. 184, avvenuta l'apertura del procedimento relativo all'accertamento dello stato di adottabilità, la competenza ad adottare, ove ne ricorrano le condizioni, il provvedimento di nomina, prima in via provvisoria e poi in via definitiva, del tutore al minore spetta al tribunale per i minorenni (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato il provvedimento del giudice tutelare, avente ad oggetto la nomina del tutore ad un minore, risultando già pendente, al momento della sua emanazione, il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità)».

4.4. La difesa tecnica ed il mito dell'avvocato del minore.

Quanto alla "vexata quaestio" circa la titolarità del potere di nomina dell'"avvocato del minore", a seguito dell'entrata in vigore della novella in data 1.7.2007, si sono formate diverse prassi e orientamenti, sintetizzabili in due filoni: l'uno prevedeva la nomina di un curatore specialeavvocato in tutte le procedure sulla potestà o di dichiarazione dello stato di adottabilità nelle quali si ravvisasse un conflitto d'interessi tra genitori e figlio; l'altro comportava che nei giudizi sulla potestà fosse disposta la nomina di un curatore speciale-avvocato e nelle procedure di adottabilità disposta la nomina di un avvocato del minore effettuata dal tutore (secondo l'orientamento di alcuni tribunale) o direttamente dal giudice (secondo altri tribunale).

La Corte ha accolto l'approdo largamente condiviso in dottrina, statuendo che al rappresentante legale spetterà nominare un avvocato per la difesa tecnica. Tale orientamento risulta costante. Infatti a Cass. n. 3804 del 17 febbraio 2010, rv 611874, che ha fatto da apripista cassando la pronunzia della corte territoriale, che aveva attribuito al giudice minorile il potere di nominare d'ufficio un difensore al minore, sono seguite Cass. n. 14216 del 14 giugno 2010 (così massimata rv 613872: «nel procedimento di adozione, compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica: infatti il genitore, il tutore ovvero il curatore speciale hanno anche la relativa rappresentanza processuale, non essendo il potere di agire e resistere in giudizio disponibile autonomamente rispetto alla titolarità del bene della vita per il quale la tutela giurisdizionale venga postulata; inoltre, i due ruoli restano distinti, pur quando cumulati nel medesimo soggetto che abbia il titolo, richiesto dall'art. 82, secondo comma, cod. proc. civ., per esercitare la difesa tecnica» rv 613872) e Cass. n. 16553 del 14 luglio 2010, rv 614978, che precisa altresì: «nel procedimento di adozione compete esclusivamente al rappresentante legale del minore la nomina di un avvocato per la difesa tecnica; tuttavia, qualora venga nominato, quale tutore, un avvocato, ai sensi dell'art. 86 cod. proc. civ., egli può stare in giudizio personalmente, senza patrocinio di altro difensore, in rappresentanza del minore» (conf. Cass. 3804 del 2010 che esprime lo stesso principio con riferimento al curatore speciale, ove sia comunque nominato).

4.5. La "giurisdizionalizzazione" del rito.

Riguardo ai profili più strettamente processuali, la S.C. nei primi arresti si fa carico delle perplessità espresse da chi, fin da tempi risalenti, denunciava «la grave responsabilità di tutti i cultori del diritto minorile (giudici, avvocati, docenti, psicologi, pedagoghi) se alle soglie del duemila la situazione processuale è in gran parte rimasta inalterata rispetto a quella del 1942, nonostante gli immensi progressi che sono stati effettuati nel diritto sostanziale dal 48 ad oggi» (PROTO PISANI, 1998), ed, in ossequio alla voluntas legis di operare una "giurisdizionalizzazione" del rito, chiarisce: «l'art. 10, comma secondo, della legge 4 maggio 1983, n. 184, come novellato dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, che stabilisce la facoltà per i genitori e, in mancanza, per i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore di "partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale", deve essere interpretato in coerenza con la finalità della novella di traghettare il processo di adozione da processo del giudice in un processo delle parti, nel senso che:

a) ai difensori delle parti va data preventiva comunicazione di qualsiasi accertamento disposto dal giudice; b) le parti possono intervenire alla sua assunzione personalmente e a mezzo dei propri consulenti tecnici e difensori; c) le parti devono essere poste in grado di conoscerne comunque le risultanze, nonchè di dedurre in ordine ad esso e di presentare le proprie difese. Ne consegue l'inutilizzabilità dell'atto di indagine acquisito senza rispettare le forme descritte, sempre che sia dimostrato dalla parte lo specifico pregiudizio al diritto di difesa e l'influenza determinante sulla decisione» (cfr. Cass. n. 7282 del 26 marzo 2010, rv 612678).

Dando sostanza all'impostazione, dapprima reclamata da larghissima parte della dottrina e della classe forense e poi accolta dal legislatore, di un nuovo processo minorile sin dall'inizio a cognizione piena e quindi di un modello partecipativo delle parti ad un procedimento legalmente predeterminato, la S.C. sottolinea: «il procedimento è unico e da subito contenzioso" (Cass. 3804/10), accogliendo, in particolare, l'istanza di chi reclamava la necessità di un controllo in iure, del processo di formazione del provvedimento finale del giudice (così PROTO PISANI, 2002, 25). Da tale principio deduce per esempio che al legale rappresentante del minore ed in tale qualità deve essere notificata la sentenza che dichiara l'adottabilità o il non luogo a provvedere ex art. 15 ss. della legge 184 del 1983, essendo egli legittimato all'eventuale impugnazione» (cfr. sent. n. 3804/2010, rv 611874; vedi anche Cass. n. 7959/210, rv 612611).

4.6. La definizione sistematica dell'"audizione" del minore.

Per conseguire la razionalizzazione del contraddittorio, assicurando a genitori, parenti determinati e minore l'effettività della difesa tecnica fin dall'inizio del procedimento, la Corte stabilisce: «In tema di adozione, l'art. 10, comma secondo, della legge 4 maggio 1983 n. 184, come novellato dalla legge 28 marzo 2001 n. 149, il quale dispone che i genitori e in mancanza, i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore possano partecipare a "tutti" gli accertamenti disposti dal tribunale, si riferisce non solo ai tradizionali mezzi d'istruzione probatoria disciplinati dalla sezione III del capo II, titolo I del libro II del codice di procedura civile, ma a qualunque atto d'indagine che il giudice ritiene di eseguire per iniziativa propria o delle parti al fine di verificare se sussista lo stato di abbandono, comprendendo esemplificativamente anche le indagini e le relazioni affidate ad istituti o altri operatori specializzati; esso non è tuttavia applicabile all'audizione del minore, la quale, non rappresentando una testimonianza o un altro atto istruttorio rivolto ad acquisire una risultanza favorevole all'una o all'altra soluzione, bensì un momento formale del procedimento deputato a raccogliere le opinioni ed i bisogni rappresentati dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto, deve svolgersi in modo tale da garantire l'esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l'interlocuzione con i genitori e/o con i difensori, nonché di sentire il minore da solo, o ancora quella di delegare l'audizione ad un organo più appropriato e professionalmente più attrezzato» (Cass. n. 7282 del 26 marzo 2010, rv 612679).

Con tale pronuncia la S.C. ribadisce il precedente fondamentale arresto delle Sezioni Unite sulla obbligatorietà dell'ascolto: «l'audizione dei minori, già prevista nell'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003» (Cass. Sez. U., n. 22238 del 21 ottobre 2009, rv 610007; conf. Cass. n. 9094/2007, rv 596676).

Tuttavia, tiene a precisare che la mancata audizione è sanzionata solo con riguardo al giudizio di primo grado, mentre il giudice di appello è tenuto soltanto, per il disposto dell'art. 17, primo comma, a sentire le parti ed il PM, nonché ad effettuare "ogni altro opportuno accertamento" (così Cass. n. 14216 del 14 giugno 2010, rv 613873; conf. Cass. 7959 del 2010).

L'audizione (pur quando sia facoltativa), quindi, non può essere qualificata un atto di indagine, rientrante nella categoria di quelli rivolti a convincere il giudice in ordine alla sussistenza o meno di determinati fatti storici, bensì è lo strumento diretto a raccogliere le opinioni nonché le valutazioni ed esigenze rappresentate dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto e, nel contempo, a consentire al giudice di percepire con immediatezza, attraverso la voce del minore e nella misura consentita dalla sua maturità psicofisica, le esigenze di tutela dei suoi primari interessi.

Nonostante l'evidente evoluzione in senso garantista del diritto minorile negli ultimi anni, c'è ancora molto da fare. I giudici di merito segnalano difficoltà applicative soprattutto in materia di difesa d'ufficio e di esercizio del diritto di difesa del minore (ved. FATIGA, 2010, 24) e la S.C., negli anni a venire, sarà chiamata a sciogliere questi nodi critici, favorendo l'uniformità dell'applicazione della legge sul territorio nazionale.