PARTE INTRODUTTIVA LA NOMOFILACHIA ED IL DIRITTO EUROPEO: LA CORTE DI CASSAZIONE PROTAGONISTA DEL DIALOGO SOVRANAZIONALE

  • diritti e libertà
  • giurisdizione civile
  • giurisdizione penale
  • Carta dei diritti dell'uomo
  • trattati europei
  • giurisdizione del lavoro
  • diritto costituzionale
  • giurisdizione
  • Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
  • trattato di Lisbona

I)

L’APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTIDELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI DA PARTE DELLA CORTECOSTITUZIONALE E DELLA CASSAZIONE CIVILE

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU. - 2.1 Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione. - 2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della corte costituzionale. - 2.2.1 Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo. - 2.2.2 L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost. - 3 La giurisprudenza della cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU. - 3.1 Diritto a un equo processo e accesso alla tutela giurisdizionale. - 3.1.1 Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione alla luce della sentenza della Corte EDU 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia. - 3.1.2 Diritto a un equo processo ed effettività della tutela giurisdizionale. - 3.2 Durata ragionevole del processo e diritto all’equa riparazione. - 3.2.1 Presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio in caso di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti. - 3.2.2 Metodo di liquidazione dell’indennizzo e criteri per determinare la durata del processo presupposto. - 3.2.3 Processo di equa riparazione e struttura bifasica. - 3.2.4 Successione ed eredità. - 3.2.5 Irragionevole durata del giudizio civile e del lavoro. - 3.2.6 Irragionevole durata delle procedure esecutive. - 3.2.7 Irragionevole durata delle procedure concorsuali. - 3.2.8 Irragionevole durata del processo penale. - 3.3 Il diritto di famiglia. - 3.4 Il cittadino straniero. - 3.4.1 Protezione umanitaria. - 3.5 Il diritto tributario. - 3.6 Responsabilità civile dei magistrati.

1. Premessa.

Questo contributo affronta il tema dell’inquadramento delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nell’ambito delle fonti interne, alla luce della giurisprudenza costituzionale, presentando una casistica delle decisioni assunte in materia dalla Corte di cassazione civile.

2. La giurisprudenza costituzionale sul diritto dell’Unione e sulle norme della CEDU.

La collocazione nel sistema delle fonti del diritto dell’Unione europea e delle norme della CEDU e dei suoi protocolli è stata definita con chiarezza dalla Corte costituzionale.

2.1. Il fondamento della diretta applicazione del diritto dell’Unione.

La diretta applicazione del diritto dell’Unione nel nostro ordinamento trova il suo fondamento nell’art. 11 Cost., la cui seconda parte stabilisce che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia, cedendo parte della sua sovranità, è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sovranazionale. Tale cessione ha riguardato anche il potere legislativo nelle materie oggetto dei Trattati, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

In ragione della peculiarità del diritto dell’Unione, il contrasto tra norme statali e disciplina UE non dà luogo all’invalidità o all’illegittimità delle norme interne, ma comporta, qualora non sia possibile un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione delle norme nazionali incompatibili, la loro disapplicazione o non applicazione al caso concreto. È questo l’orientamento costante della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 8 giugno 1984, n. 170, per cui le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente dalla stessa Corte costituzionale, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità della legge di esecuzione del Trattato (Corte cost. 13 luglio 2007, n. 28).

La Consulta ha così superato l’indirizzo originario in base al quale le norme comunitarie abrogavano le norme statali incompatibili preesistenti, mentre dovevano essere oggetto di rimessione alla Corte quelle sopravvenute per violazione dell’art. 11 Cost. (Corte cost. 30 ottobre 1975, n. 232). Secondo l’orientamento successivo (a partire da Corte cost. n. 170 del 1984), l’effetto connesso alla vigenza della norma comunitaria è quello “non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale”.

Tali principî sono stati riferiti dalla Corte costituzionale, nella pronuncia n. 170 del 1984, ai regolamenti comunitari, quali fonti immediatamente applicabili, e la giurisprudenza successiva ha riconosciuto la “diretta applicabilità” anche alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (Corte cost. 19 aprile 1985, n. 113 ai sensi dell’art. 177 del Trattato, ora art. 267 TFUE), alle norme comunitarie interpretate in pronunce rese dalla Corte di giustizia in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del Trattato (ora art. 258 TFUE) (Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389), alle direttive munite d’efficacia diretta, nei limiti indicati dalla Corte di giustizia (Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168 con riferimento alle disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, attributive di un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza 19 gennaio 1982, causa 8/81, Becker).

2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU tra le fonti del diritto italiano e i poteri del giudice nazionale comune. Il sindacato della corte costituzionale.

Il sistema convenzionale, derivante dalla CEDU, è caratterizzato dalla presenza di un trattato internazionale multilaterale che, sia pur peculiare, non ha dato luogo a un ordinamento giuridico sovranazionale, dai cui organi deliberativi possano derivare norme vincolanti per le autorità interne degli Stati membri.

Nella lettura fatta propria dalla Consulta a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349, le norme della CEDU non ricevono copertura costituzionale dall’art. 11 Cost. - che riguarda il diritto sovranazionale dell’Unione europea, le cui norme primarie dotate di efficacia diretta devono avere efficacia obbligatoria in tutti gli Stati membri senza la necessità di leggi di ricezione e di adattamento - ma dall’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 2 l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, che enuncia gli obblighi dello Stato e delle Regioni derivanti dal diritto internazionale pattizio. In base all’art. 117, comma 1, Cost. non può attribuirsi rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento (legge 4 agosto 1955 n. 848 che ha disposto la ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), derivando da tale previsione l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme poste dai trattati e dalle convenzioni internazionali, e tra queste figurano quelle contenute nella CEDU.

Secondo la Corte costituzionale, diversamente da quanto avviene con il diritto dell’Unione, il giudice nazionale non può disapplicare direttamente la norma interna contrastante con le disposizioni della CEDU (Corte cost. n. 348 e n. 349/2007. Nello stesso senso, tra le altre, Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 7 aprile 2011, n. 113; 11 marzo 2011, n. 80; 5 gennaio 2011, n. 1; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93; 4 dicembre 2009 n. 317; 26 novembre 2009, n. 311; 27 febbraio 2008, n. 39).

La CEDU - secondo la Consulta - in considerazione del suo contenuto, presenta una portata sub-costituzionale, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della Convenzione e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, comma 1, Cost. viola quest’ultimo parametro. In questo modo si determina un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, che dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali evocati dall’art. 117 e, con essi, al parametro stesso. Essendo l’uniformità dell’applicazione della CEDU garantita dall’interpretazione attribuita alla Corte EDU - alla quale questa competenza è stata espressamente riconosciuta dagli Stati contraenti - il giudizio di costituzionalità sulla norma interna dovrà riguardare la disposizione della Convenzione così come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Pertanto, il giudice nazionale comune, a fronte di un possibile contrasto tra la norma interna e quella della CEDU, deve cercare di risolvere l’antinomia mediante un’interpretazione conforme della norma interna alla Convenzione, secondo la lettura offertane dalla Corte di Strasburgo. Nel far questo, il giudice nazionale deve spingersi fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni messe a confronto, avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. L’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza (Corte cost. n. 311/2009).

Qualora tale risultato non sia conseguibile in via interpretativa nei limiti indicati, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, nell’ipotesi in cui vi sia un contrasto tra le due disposizioni, egli deve verificare se la norma contenuta nella CEDU sia conforme alla Costituzione.

Se la norma della CEDU rispetta la Costituzione, il giudice nazionale non può far altro che sollevare la questione di legittimità della norma interna con riferimento all’art. 117 Cost. e della norma o delle norme CEDU interposte, ovvero anche dell’art. 10, comma 1, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta (Corte cost. n. 311/2009).

In tal caso, la Corte costituzionale dovrà accertare la sussistenza del denunciato contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana, appurando la compatibilità della norma CEDU con le pertinenti norme della Costituzione (Corte cost. n. 311/2009). Il verificarsi di un conflitto con altre norme della nostra Costituzione - da ritenersi eccezionale - esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità a integrare il parametro dell’art. 117, comma 1, Cost., determinando l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349/2007).

In caso di accertato contrasto della norma interna con quella della CEDU, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alla norma convenzionale invocata.

È questo il meccanismo individuato dalla Corte costituzionale per realizzare un corretto bilanciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali e quella di evitare che ciò possa comportare una lesione della Costituzione stessa.

2.2.1. Il “diritto consolidato” e la “sentenza pilota”: i vincoli derivanti dall’interpretazione della Corte di Strasburgo.

La Corte costituzionale (sentenza 26 marzo 2015, n. 49) ha precisato a quali condizioni la giurisprudenza della Corte EDU - la cui interpretazione è fondamentale per definire l’esatto contenuto delle norme della Convenzione - vincoli il giudice nazionale, allo scopo di evitare un uso arbitrario e selettivo dei precedenti. La ricerca di questi ultimi è senz’altro più complessa di quella che si può effettuare per le decisioni della Corte di giustizia, di regola ufficialmente tradotte in tutte le lingue dell’Unione europea e presenti in un data base di agevole accessibilità, dove per la giurisprudenza di Strasburgo si prevedono due sole lingue ufficiali, il francese e l’inglese, mentre le traduzioni in lingua italiana delle principali decisioni vengono curate dal nostro Ministero della giustizia.

Alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” (sentenza n. 349/2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della CEDU.

Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, questo meccanismo non ha spogliato il giudice nazionale della funzione interpretativa che gli compete, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost., in quanto soggetto soltanto alla legge (in senso conforme Corte cost. 11 maggio 2017, n. 109; 7 aprile 2017, n. 68; 16 dicembre 2016, n. 276; 9 febbraio 2016 n. 36). Tale regola vale anche per le norme emergenti dalla giurisprudenza della CEDU, che entrano nell’ordinamento giuridico nazionale grazie a una legge ordinaria di adattamento e sono recate da sentenze meramente dichiarative e non esecutive (cfr. art. 46 Convenzione EDU).

Al di là dei casi in cui il giudice comune torni a occuparsi della richiesta di cessazione degli effetti lesivi della violazione accertata dalla Corte di Strasburgo (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210; Corte cost. n. 113/2011), l’interpretazione offerta dalla Corte EDU vincola il giudice nazionale soltanto in quanto espressiva di un “diritto consolidato”, mentre nessun obbligo esiste a fronte di pronunce che non siano il frutto di un orientamento divenuto definitivo (Corte cost. n. 49/2015 che ribadisce e precisa quanto affermato dalle sentenze n. 236/2011 e n. 311/2009 secondo cui il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla “giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente”, “in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza”, fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro, Corte cost. 6 gennaio 2012, n. 15 e n. 317/2009).

Sul punto, la Consulta (Corte cost. n. 49/2015) evidenzia che il riferimento al “diritto consolidato” risponde alle modalità organizzative della Corte di Strasburgo, che consente opinioni dissenzienti e prevede un meccanismo idoneo a risolvere il contrasto tra singole sezioni, quale la rimessione alla Grande Camera (la nozione stessa di “giurisprudenza consolidata” trova riconoscimento nell’art. 28 della CEDU con riferimento al potere del comitato investito di un ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 di potere, con voto unanime, di dichiararlo ricevibile e pronunciare congiuntamente sentenza sul merito, solo quando tale “giurisprudenza consolidata” sussista e vada applicata). La formazione del diritto giurisprudenziale della CEDU riveste quindi un carattere progressivo (e la Grande Camera, nel caso previsto dall’art. 30 CEDU, può essere chiamata a prevenire contrasti, sulla non opposizione delle parti, requisito questo dell’accordo tacito che secondo il protocollo n. 15 - non in vigore e non ratificato dall’Italia - potrebbe essere sostituito da un potere d’ufficio).

La Corte costituzionale, al riguardo, sottolinea che non è sempre di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano.

Si richiamano, a tal fine, alcuni indici idonei a orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

In presenza di tutti o alcuni di questi indizi, secondo la Corte costituzionale, in base a un giudizio che non può peraltro prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una certa controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto, secondo la procedura oggi definita nell’art. 61 del regolamento della Corte, non potendosi attribuire tale valenza in via interpretativa da parte del giudice nazionale. Il procedimento della “sentenza pilota”, di origine giurisprudenziale, è codificato nell’art. 61 del regolamento e può essere adottato nei confronti di una parte contraente in presenza di una grave disfunzione, quale un problema strutturale o sistemico che potrebbe dar luogo alla rappresentazione di ricorsi analoghi, ma la cui efficacia ultra partes verso Stati terzi non è espressamente disciplinata e risulta negata da Cass. pen., Sez. IV, 6 novembre 2014, n. 46067). La “sentenza pilota” è infatti adottata avendo riguardo alle specificità di un determinato ordinamento, che è quindi il solo chiamato a prendere le misure riparatorie in applicazione del suo dispositivo.

Ad aiutare il giudice nel suo compito potrà soccorrere il parere consultivo di cui al Protocollo addizionale n. 16-entrato in vigore con decorrenza dal 1° agosto 2018 con la ratifica ad opera della Francia, non ratificato dall’Italia - che la Corte EDU può rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori, pur se espressamente definito non vincolante (art. 5). Il procedimento è stato attivato per la prima volta dalla Corte di cassazione francese, che ha richiesto un doppio parere in materia di maternità surrogata (gestation pour autrui), riguardo alla trascrizione di atti dello stato civile formati all’estero ed al procedimento di adozione. Il parere della Corte EDU è stato pubblicato il 10 aprile 2019.

Il vincolo interpretativo per il giudice italiano discende pertanto dalla presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota” adottata nei confronti dell’Italia che, riempiendo di contenuti specifici la norma interposta della CEDU, impongono al giudice di superare eventuali contrasti rispetto alla norma interna attraverso gli strumenti interpretativi a sua disposizione, ovvero azionando l’incidente di costituzionalità ove ciò fosse possibile (Corte cost. n. 49/2015; Corte cost. n. 80/2011).

Al di là dei vincoli che possano derivare dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, resta fermo che il giudice comune, nell’esercitare l’attività interpretativa riconosciutagli dalla Costituzione, ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte di Strasburgo, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima (Corte cost. n. 109/2017; n. 68/2017; n. 276/2016; n. 36/2016) col solo limite del divieto di disapplicazione.

2.2.2. L’inquadramento delle norme della CEDU a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: persistenza del rilievo delle norme della CEDU quali “norme interposte” ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost.

Il sistema non ha subìto mutamenti in seguito all’entrata in vigore (1° dicembre 2009) del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui sono stati modificati il Trattato sull’Unione europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già Trattato istitutivo della Comunità Europea).

È noto che non sia ancora giunta a esser definita la questione dell’adesione dell’UE alla CEDU, prevista dalle modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona, avendo la Corte di giustizia, con parere articolato, ritenuto che il progetto di accordo sottopostole dalla Commissione non fosse compatibile con l’art. 6, par. 2, TUE, né con il connesso protocollo n. 8 (Corte giust., parere, 18 dicembre 2014).

La Corte costituzionale, allo stato, esclude che la riconduzione della CEDU al diritto dell’Unione europea - realizzata mediante il riconoscimento (art. 6, par. 1, TUE) dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), nonché attraverso l’attribuzione, ai diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, della dignità di principi generali del diritto dell’Unione (art. 6 parr. 2 e 3) - consenta di ritenere operante per le norme della Convenzione la copertura dell’art. 11 Cost. e di accedere, conseguentemente, alla possibilità di una loro diretta applicazione da parte del giudice nazionale (cfr., tra le tante, Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236; 28 novembre 2012, n. 264; 18 luglio 2013, n. 202; 4 luglio 2014, n. 191; 18 luglio 2014, n. 223).

Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80 puntualizza che il richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 dell’art. 6 TUE - secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione “e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali” - riprende lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del TUE, evocando una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona e quindi nelle forme già indicate dalla sentenza della Consulta n. 349/2007.

La Corte costituzionale esclude altresì una “trattatizzazione” indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali, discendente dall’equiparazione di quest’ultima ai Trattati. La Corte sottolinea che in sede di modifica del Trattato si è inteso evitare che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello “stesso valore giuridico dei trattati” abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione (art. 6, par. 1, primo alinea TUE secondo cui “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”), evidenziando che le disposizioni della Carta si applicano solo nell’ambito delle competenze dell’Unione europea (art. 51, par. 1, TUE; Corte giustizia sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

3. La giurisprudenza della cassazione civile. Casistica relativa all’applicazione delle norme della CEDU.

Le principali questioni che hanno portato la Corte di cassazione civile nel 2022 a confrontarsi con le norme della CEDU possono essere suddivise, a grandi linee, negli ambiti del diritto a un equo processo e dell’accesso alla tutela giurisdizionale, dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo (l. n. 89 del 2001), del diritto in famiglia, della tutela del cittadino straniero, del diritto tributario e della responsabilità civile dei magistrati.

3.1. Diritto a un equo processo e accesso alla tutela giurisdizionale.

In questa sezione vengono riportate alcune decisioni della S.C. che affrontano, sotto diversi profili, i temi del diritto a un equo processo e dell’accesso alla tutela giurisdizionale, così come declinati dalla giurisprudenza della Corte EDU in relazione all’art. 6 CEDU.

3.1.1. Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione alla luce della sentenza della Corte EDU 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia.

Diverse pronunce sono intervenute sul principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. alla luce della sentenza della Corte EDU 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia.

La Corte EDU ha evidenziato come il principio di autosufficienza sia volto a semplificare l’attività della Corte di cassazione e a garantire allo stesso tempo la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia. Si permette così alla cassazione di circoscrivere il contenuto delle doglianze formulate e la portata della valutazione che le viene richiesta alla sola lettura del ricorso, e si garantisce un utilizzo appropriato e più efficace delle risorse disponibili. La Corte EDU ritiene che tale approccio sia attinente alla natura stessa del ricorso per cassazione che protegge, da una parte, l’interesse del ricorrente a che siano accolte le sue critiche contro la decisione impugnata e, dall’altra, l’interesse generale alla cassazione di una decisione che rischi di pregiudicare la corretta interpretazione del diritto. In tal senso, anche se il carico di lavoro della cassazione può causare difficoltà al normale funzionamento della trattazione dei ricorsi, resta il fatto che le restrizioni dell’accesso alle corti di cassazione non possono limitare, attraverso un’interpretazione troppo formalistica, il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza (Zubac c. Croazia ([GC], n. 40160/12, 5 aprile 2018, § 98, Vermeersch c. Belgio, 49652/10, § 79, 16 febbraio 2021, Efstratiou e altri c. Grecia, n. 53221/14, § 43, 19 novembre 2020, Trevisanato c. Italia (n. 32610/07, §§ 33-34, 15 settembre 2016, § 38).

Secondo l’apprezzamento della Corte EDU, l’applicazione da parte della Corte di cassazione del principio in questione, almeno fino alle sentenze nn. 5698 e 8077 del 2012, rivela una tendenza dell’Alta giurisdizione a porre l’accento su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo individuato, in particolare per quanto riguarda l’obbligo di trascrivere integralmente i documenti citati nei motivi di ricorso, e l’esigenza di prevedibilità della restrizione.

Il principio di autosufficienza, dunque, in ossequio al criterio di proporzionalità, non deve trasmodare in un eccessivo formalismo.

In precedenza, Sez. U, Sentenza n. 34469/2019, Scarano, Rv. 656488-01 aveva ritenuto inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.

Alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021, Sez. U, n. 08950/2022, Conti, Rv. 664409-01 ha evidenziato che il principio di autosufficienza, corollario del requisito di specificità dei motivi, non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito.

Sulla stessa linea interpretativa, Sez. 1, n. 06769/2022, Mauro Di Marzio, Rv. 664103-01, richiamando i principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, Sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, ha ritenuto che il principio di autosufficienza non possa ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso faccia rinvio agli atti allegati e contenuti nel fascicolo di parte senza riassumerne il contenuto al fine di soddisfare il requisito ineludibile dell’autonomia del ricorso per cassazione, fondato sulla idoneità del contenuto delle censure a consentire la decisione.

Analogamente, Sez. 3, n. 07186/2022, Fiecconi, Rv. 664245-01 ha ritenuto il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia, compatibile con il diritto fondamentale di accedere al giudice di legittimità e con il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, purché i filtri di ammissibilità ex art. 366, comma 1, nn. 3 e 6, c.p.c., collegati alla tecnica di redazione del ricorso, non vengano letti in maniera eccessivamente formale, al solo scopo di fronteggiare il forte afflusso di procedimenti.

Il principio di specificità del ricorso per cassazione deve dunque essere modulato secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Sez. 3, n. 08117/2022, Porreca, Rv. 664252-01).

Il principio di autosufficienza è pertanto compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati. Sez. 1, n. 12481/2022, Vella, Rv. 664738-01 ha così ritenuto inammissibile il motivo per non essere stato trascritto neanche in estratto il contenuto del verbale di udienza, individuato con la sola indicazione della data, né indicati i dati necessari per il suo reperimento nel fascicolo, oltre a non essere stato indicato se e quando fosse stata depositata una lista testimoniale sui capitoli di prova trascritti in ricorso.

L’onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali - nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli - anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio e, nell’elenco degli atti depositati, posto in calce al ricorso, vi sia la richiesta, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, di trasmissione del fascicolo d’ufficio che lo contiene, risultando forniti in tal modo alla S.C. tutti gli elementi per verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito (Sez. 1, n. 07068/2022, Solaini, Rv. 664113-01).

Sulla deduzione della questione dell’inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c., integrante error in procedendo, che legittima l’esercizio, a opera del giudice di legittimità, del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, Sez. L, n. 03612/2022, Patti, Rv. 663837-01 ha evidenziato che essa presuppone pur sempre l’ammissibilità del motivo di censura, avuto riguardo al principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 e n, 6, c.p.c., che deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza Succi ed altri c. Italia, secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte e il diritto di accesso della parte a un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la sostanza stessa.

3.1.2. Diritto a un equo processo ed effettività della tutela giurisdizionale.

Sulla notificazione del controricorso per cassazione, effettuata nel termine ex art. 370 c.p.c., e il mancato perfezionamento imputabile all’erronea indicazione (meramente colposa ovvero consapevolmente ingannevole), in ricorso, del luogo del domicilio del ricorrente, Sez. 3, n. 01784/2022, Graziosi, Rv. 663708-01 ha ritenuto che il successivo perfezionamento della stessa oltre il suddetto termine, a seguito di immediata rinnovazione, non determini l’inammissibilità del controricorso medesimo, vertendosi in una fattispecie assimilabile a un’oggettiva e automatica rimessione in termini, in forza della regola espressa dall’art. 153 c.p.c. e altresì evincibile dal principio costituzionale del diritto di difesa e da quello sovranazionale di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 19 TUE, 263 TFUE e 6 CEDU), oltre che dell’obbligo delle parti di conformare la loro condotta al principio della leale collaborazione processuale (art. 88 c.p.c.).

La tardività dell’impugnazione può essere rilevata d’ufficio senza necessità di stimolare il contraddittorio, perché il divieto di porre a fondamento della decisione una questione non sottoposta al previo contraddittorio delle parti non si applica alle questioni di rito relative ai requisiti di ammissibilità della domanda previsti da norme la cui violazione è rilevabile in ogni stato e grado del processo, senza che tale esito processuale integri una violazione dell’art. 6, § 1, della CEDU, il quale - nell’interpretazione data dalla Corte europea - ammette che il contraddittorio non venga previamente suscitato su questioni di rito che la parte, con una minima diligenza, avrebbe potuto e dovuto attendersi o prefigurarsi (Sez. 6-3, n. 07356/2022, Scrima, Rv. 664444-01).

In tema di rapporti tra processo penale e processo civile, è stato ritenuto che qualora la Corte di cassazione annulli la sentenza penale di assoluzione ai soli effetti civili, con rinvio ex art. 622 c.p.p. al giudice civile competente per valore in grado d’appello, e quest’ultimo accerti la responsabilità dell’agente, non sia configurabile una violazione dell’art. 6 § 2 CEDU con riguardo al “secondo aspetto della presunzione di innocenza” considerato dalla Corte EDU nella sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini c. Repubblica di San Marino, in quanto con il predetto rinvio si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda civile (Sez. 3, n. 08997/2022, Fiecconi, Rv. 664579-03). Ne consegue che il giudice civile del rinvio deve procedere a una autonoma valutazione delle prove raccolte nel processo penale al fine di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo dell’illecito civile, secondo i criteri di accertamento civilistici.

Ove la Corte di cassazione penale, pronunciandosi sul ricorso della parte civile avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato da un reato consumato, ne rilevi la prescrizione e, previa riqualificazione dello stesso alla stregua di reato tentato, rinvii il procedimento, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado d’appello, quest’ultimo è vincolato da tale qualificazione del fatto ai fini della valutazione della sussistenza dell’illecito civile, non potendo statuire sulla legittimità del dictum della Corte di cassazione. Si esclude, peraltro, la configurabilità di un obbligo per la stessa Corte di segnalare previamente alle parti l’intenzione di procedere alla suddetta riqualificazione - in conformità all’art. 111, comma 2, Cost. e all’art. 6 CEDU, secondo l’interpretazione della giurisprudenza della Corte EDU nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia -, né l’obbligo, per il giudice del rinvio, di rinnovare l’istruttoria, trattandosi di una riqualificazione in melius, ai soli fini civili, del medesimo fatto contestato (Sez. 3, n. 08997/2022, Fiecconi, Rv. 664579-01).

In tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze del Tribunale Superiore delle acque pubbliche in unico grado, la S.C. ha ritenuto conforme ai principi di cui all’art. 6, par. 1, CEDU, e dell’ordinamento dell’UE (art. 47 CDFUE) la previsione del termine breve di quarantacinque giorni per l’impugnazione, di cui all’art. 202, in relazione all’art. 183, del r.d. n. 1775 del 1933 (Testo unico sulle acque), di natura officiosa in quanto decorrente dalla notificazione del dispositivo a cura della cancelleria, manifestando l’interesse dello Stato a non lasciare indefinitivamente pendenti le cause e ad assicurare, piuttosto, la sollecita formazione del giudicato e, con esso, la certezza dei rapporti giuridici, in un ambito in cui, essendovi materia di acque pubbliche, vengono in rilievo interessi pubblici e collettivi (Sez. U, n. 09313/2022, Tricomi I, Rv. 664411-01).

3.2. Durata ragionevole del processo e diritto all’equa riparazione.

Numerose sono le pronunce rese sul tema della violazione del diritto fondamentale a una ragionevole durata e dell’equa riparazione.

3.2.1. Presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio in caso di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti.

Diversi sono i principi affermati riguardo alla fattispecie della presunzione iuris tantum di insussistenza del danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, di cui all’art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, introdotto dalla l. 208 del 2015.

Al riguardo, è stato specificato che è sufficiente che il giudizio presupposto sia stato definito con una declaratoria di estinzione per rinuncia agli atti o per inattività delle parti, non rilevando nel senso della inoperatività della detta presunzione che queste ultime abbiano abbandonato il giudizio solo dopo la conclusione di una transazione che abbia posto fine alla lite (Sez. 2, n. 12026/2022, Scarpa, Rv. 664784-01).

Nel caso in cui il giudizio di appello si sia estinto per inattività delle parti subito dopo la definizione stragiudiziale della lite, avvenuta quando la durata complessiva del processo era già divenuta irragionevole, Sez. 2, n. 35372/2022, Falaschi, Rv. 666328-01, ha evidenziato che la presunzione non possa ritenersi automaticamente operante. Nel caso esaminato, il giudizio presupposto, estintosi in appello per inattività delle parti dopo una transazione, era durato tredici anni.

La presunzione di insussistenza del pregiudizio in caso di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti ex artt. 306 e 307 c.p.c., incidendo innovativamente sul riparto dell’onere della prova, impone alla parte di fornire la prova contraria attraverso una presunzione semplice avversa, che trae dal fatto noto della durata non ragionevole del processo, il fatto ignoto, opposto a quello presunto, del danno non patrimoniale da indennizzare (Sez. 2, n. 20423/2022, Falaschi, Rv. 665168-01).

Riguardo all’entrata in vigore della disciplina Sez. 2, n. 01142/2022, Varrone, Rv. 663572-01 ha chiarito che le presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, previste dall’art. 2, comma 2-sexies, della l. n. 89 del 2001, come introdotto dalla legge n. 208 del 2015, si applicano ai soli giudizi di equa riparazione introdotti dopo l’entrata in vigore di quest’ultima legge (1° gennaio 2016), con la conseguenza che, nel regime anteriore alla novella citata, ha diritto all’indennizzo anche la parte rimasta contumace, posto che la contumacia costituisce comportamento idoneo ad influire, implicando od escludendo specifiche attività processuali, sui tempi del procedimento e, pertanto, è valutabile agli effetti dell’art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001.

3.2.2. Metodo di liquidazione dell’indennizzo e criteri per determinare la durata del processo presupposto.

Sui criteri per stabilire la durata del processo e liquidare il pregiudizio, è stato evidenziato che l’art. 2-bis, comma 2, della l. n. 89 del 2001 individua il metodo di liquidazione dell’indennizzo, mentre l’art. 2, comma 3, contempla il criterio per determinare la durata del processo presupposto, con la conseguenza che, qualora il processo si sia svolto in più gradi, la durata complessiva si determina sommando il tempo effettivo trascorso per la sua definizione, senza alcun arrotondamento per i singoli gradi e con esclusione dei periodi di sospensione e di quelli compresi tra il dies a quo per proporre le impugnazioni ed il momento in cui l’impugnazione è effettivamente proposta, con arrotondamento ad un anno dei periodi superiori a sei mesi solo per una sola volta, in modo da non alterare la doverosa corrispondenza tra reale durata del processo ed entità del danno (Sez. 2, n. 21194/2022, Fortunato, Rv. 665544-01).

Sul danno non patrimoniale da patema d’animo, Sez. 2, n. 35374/2022, Falaschi, Rv. 666329-01, ha specificato che lo stesso non possa essere escluso automaticamente nel caso in cui, prima che il giudizio avesse superato il limite della ragionevole durata, fosse intervenuta una giurisprudenza sfavorevole all’attore del giudizio presupposto, qualora il grado di consolidamento di tale giurisprudenza non fosse tale da determinare nella parte la ragionevole certezza dell’esito infausto della lite.

Riguardo ai criteri di determinazione della durata ragionevole del processo è stato confermato che il giudice non può detrarre integralmente dal termine complessivo i periodi intercorrenti tra il deposito delle sentenze di primo e di secondo grado e la notifica dei rispettivi atti di gravame, non essendo addebitabili alle parti i tempi occorrenti per la comunicazione delle stesse sentenze potendosi comunque scomputare i soli lassi temporali non riconducibili all’esercizio del diritto di difesa (Sez. 2, n. 33416/2022, Rolfi, Rv. 666140-01; in senso conforme, Sez. 6-2, n. 26468/2013, San Giorgio, Rv. 628949-01). Ne consegue che, ove la parte, per perseguire un proprio interesse, non si sia avvalsa di una facoltà, come, ad esempio, quella della notificazione della sentenza a sé favorevole, lasciando così decorrere l’intero termine lungo per la proposizione dell’impugnazione, essa non può pretendere che tale termine venga integralmente addebitato all’organizzazione giudiziaria, dovendo il giudice dell’equa riparazione apprezzare in concreto il comportamento processuale della parte stessa anche in relazione alla scelta di non utilizzare detta facoltà sollecitatoria.

La protrazione del giudizio presupposto, pendendo una questione di legittimità costituzionale sollevata da altro giudice, avverso una norma di legge che determini nella parte la consapevolezza sopravvenuta del proprio torto, rilevante ai fini dell’art. 2, comma 2 quinquies, lettera a), l. n. 89 del 2001, non va ascritta a durata irragionevole, benché non riconducibile alla sospensione del processo ai sensi dell’art. 2, comma 2 quater, stessa legge, in quanto vale oggettivamente a conservare proprio l’unica chance favorevole che, diversamente, la chiusura del processo entro il termine di ragionevolezza avrebbe a priori impedito di cogliere, tenuto conto dei limiti cui soggiace l’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale (Sez. 2, n. 17573/2022, Manna F., Rv. 664894-01).

Con riferimento ai giudizi instaurati anteriormente alla data di entrata in vigore dell’art. 6 CEDU, la liquidazione dell’equo indennizzo il dies a quo decorre dall’1 agosto 1973 ma, al fine di valutare l’irragionevole durata del processo, occorre tener conto della situazione in cui la causa si trovava a quel momento, atteso che il processo costituisce il rapporto sostanziale dal quale trae origine il diritto giustiziabile dall’1 agosto 1973 (Sez. 2, n. 14858/2022, Casadonte, Rv. 664982-01). La S.C., enunciando tale principio di diritto, ha cassato con rinvio la sentenza della corte di appello che, in relazione ad un giudizio iniziato prima dell’1 agosto 1973, al fine di valutare l’irragionevole durata del processo, aveva preso in considerazione solo il segmento processuale svoltosi dall’1 agosto 1973 in poi.

3.2.3. Processo di equa riparazione e struttura bifasica.

In materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo, una volta esaurita la fase monocratica prevista dall’art. 3 della legge n. 89 del 2001, e introdotto, ex art. 5, il giudizio di opposizione, è quest’ultimo la sede processuale in cui viene delibata la domanda di equo indennizzo formulata dalla parte istante (Sez. 2, n. 29765/2022, Oliva, Rv. 665969-01). Ne consegue che, ove il giudice dell’opposizione declini la propria competenza a conoscere di detta domanda, o confermi la declinatoria eventualmente già pronunciata all’esito della fase monocratica, è onere della parte istante riassumere il giudizio, nelle forme di rito, dinanzi al giudice indicato come competente, in sede collegiale, e dunque senza necessità di ripetere la fase monocratica, ormai esaurita, né di formulare istanza per l’emissione di un nuovo decreto monocratico.

Il decreto emesso a conclusione della fase monitoria del procedimento di liquidazione dell’equo indennizzo (avverso il quale può essere proposta opposizione dinanzi alla Corte d’appello, nel termine previsto dall’art. 5 ter, comma 1, della l. n. 89 del 2001), in quanto privo di autonoma valenza decisoria e definitiva, non è immediatamente impugnabile per cassazione (Sez. 2, n. 17385/2022, Trapuzzano, Rv. 664891-01).

In tema di riassunzione della causa ex art. 392 c.p.c., il giudizio di rinvio nell’ambito di un procedimento per equa riparazione, in quanto configurabile come autonoma e ulteriore fase del giudizio originario, necessita di una nuova iscrizione a ruolo, costituita da un atto mediante il quale il cancelliere attesta la pendenza di un determinato procedimento presso l’ufficio giudiziario, ma non anche della nota di iscrizione a ruolo ex artt. 71 e 72 disp.att. c.p.c., stante la sua soggezione all’art. 392, comma 2, c.p.c., non essendo tale atto di parte richiesto nei giudizi introdotti con ricorso, nei quali il rapporto attore-giudice si instaura già con l’iniziale deposito dello stesso (Sez. 2, n. 13272 /2022, Scarpa, Rv. 664619-01).

3.2.4. Successione ed eredità.

In tema di indennizzo da irragionevole durata del processo maturato in capo al de cuius, sulla base della consolidata giurisprudenza della Corte, è stato ritenuto che l’indennizzo iure hereditatis vada riconosciuto per intero all’erede istante, e non pro-quota, in osservanza del principio secondo cui i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico, in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 757 c.c. prevista solo per i debiti (Sez. 2, n. 14858/2022, Casadonte, Rv. 664982-02; Sez. 6-2, n. 27417/2017, Criscuolo, Rv. 646949-01; Sez. U, n. 24657/2007, Miani Canevari, Rv. 600532-01).

La disciplina dell’equa riparazione di cui alla l. n. 89 del 2001, per il mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, § 1, della CEDU, non trova applicazione nella procedura di liquidazione dell’eredità beneficiata in seguito alla presentazione della dichiarazione di credito ai sensi dell’art. 498 c.c., atteso che i procedimenti di natura non contenziosa e unilaterale, senza interessi contraddittori in gioco, non rientrano tra le “controversie” sui diritti e doveri di carattere civile, di cui alla norma sopra menzionata (Sez. 2, n. 10532 /2022, Scarpa, Rv. 664332-01).

3.2.5. Irragionevole durata del giudizio civile e del lavoro.

Sul giudizio civile introdotto con citazione, è stato specificato che la data di inizio del giudizio presupposto deve considerarsi quella di notifica della citazione, da intendersi con il perfezionamento della stessa mediante ricezione da parte del destinatario, con conseguente irrilevanza della data di iscrizione a ruolo (Sez. 2, n. 17031/2022, Varrone, Rv. 664984-01; v. Sez. 2, n. 24745/2016, Petitti, Rv. 641911-01 che ha specificato che dalla durata complessiva va detratto il tempo necessario per la rinnovazione della notificazione o per l’integrazione del contraddittorio allorquando l’incompletezza o erroneità della notificazione dell’atto introduttivo siano imputabili alla parte).

Sez. 2, n. 16741/2022, Varrone, Rv. 664887-01 ha invece escluso che i processi che si svolgono con il rito lavoro possano rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 1 ter, comma 1, della l. n. 89 del 2001 – anche in ossequio al canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU – in quanto, a seguito della modifica dell’art. 429, comma 1, c.p.c. è già previsto che il giudice, all’udienza di discussione, decida la causa e proceda alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e in diritto della decisione, in analogia con lo schema dell’art. 281 sexies c.p.c.

Sulla posizione processuale del difensore distrattario nel giudizio presupposto, è stato confermato che nel delibare la sussistenza del diritto del difensore anticipatario delle spese di lite nel giudizio presupposto a ottenere l’indennizzo per violazione del diritto alla ragionevole durata di detto giudizio, occorre tener conto della circostanza che il conseguimento della pronuncia sulla distrazione delle spese processuali anticipate è evento che dipende, sia nell’an che nel quando, dalla pronuncia sulla domanda giudiziale che ha determinato l’insorgere del relativo processo (Sez. 2, n. 15964/2022, Rolfi, Rv. 664884-01; in senso conforme, Sez. 2, n. 16608/2012, Vincenti, Rv. 624089-01). In tal senso, l’istanza di distrazione, proprio per il suo carattere eminentemente accessorio, non può di per sé governare i tempi del processo, ma solo pedissequamente adeguarsi a quelli dettati per il giudizio sulla pretesa “principale”, stante la sua valenza incidentale e non di domanda autonoma, siccome occasionata dal processo pendente tra le parti principali, al cui esito resta condizionata.

3.2.6. Irragionevole durata delle procedure esecutive.

L’unicità del titolo esecutivo azionato dal creditore non è elemento sufficiente per considerare unitariamente, ai fini del computo del termine di durata ragionevole del processo, due procedimenti esecutivi avviati in successione, qualora questi siano stati preceduti dalla notifica di distinti atti di precetto, abbiano avuto ad oggetto pretese distintamente articolate e siano stati separatamente promossi ad una considerevole distanza di tempo l’uno dall’altro (Sez. 2, n. 17521/2022, Trapuzzano, Rv. 664892-01).

In tema di equa riparazione, qualora il creditore insoddisfatto si sia avvalso in via concorrenziale, in contemporanea ovvero in successione cronologica, del rimedio del giudizio di esecuzione e del giudizio di ottemperanza al fine di ottenere l’effettivo soddisfacimento della propria pretesa, il termine di decadenza per proporre la domanda ex art. 4 della l. n. 89 del 2001 decorre dalla definizione positiva, con l’effettiva estinzione dell’obbligazione azionata, dell’ultimo dei rimedi intentati (Sez. 2, n. 33764/2022, Criscuolo, Rv. 666313-01).

3.2.7. Irragionevole durata delle procedure concorsuali.

In tema di irragionevole durata della procedura fallimentare, il termine di decadenza di cui all’art. 4, l. n. 89 del 2001, per la proposizione della domanda di equa riparazione, decorre, anche per il creditore rimasto soddisfatto per effetto di un riparto parziale, dalla data in cui il decreto di chiusura del fallimento è divenuto inoppugnabile, avendo il dies a quo del predetto termine natura processuale, mentre la data di integrale soddisfacimento del creditore, avente natura sostanziale, segna la durata della procedura fallimentare indennizzabile (Sez. 2, n. 24174/2022, Cosentino, Rv. 665557-01).

Sull’irragionevole durata della procedura fallimentare iniziata prima delle modifiche normative introdotte con d.lgs. n. 5 del 2006 e con d.lgs. n. 169 del 2007, al fine di valutare il rispetto del termine di decadenza per la proposizione della domanda di indennizzo ex l. n. 89 del 2001, Sez. 2, n. 17384/2022, Trapuzzano, Rv. 664890-01 ha specificato che il decreto di chiusura non comunicato alle parti diventa definitivo decorso il termine lungo di un anno dal suo deposito, senza che lo svolgimento della fase di chiusura dopo l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 consenta di applicare il più breve termine di sei mesi, in quanto tale fase non è un procedimento autonomo occasionato dal fallimento, ma solo un subprocedimento nell’ambito della procedura fallimentare. Ne consegue che, per stabilire se per il reclamo del decreto di chiusura non comunicato debba applicarsi il termine lungo di un anno o quello di sei mesi dal deposito, occorre verificare il tempo in cui sia stata aperta la procedura fallimentare rispetto all’entrata in vigore della disciplina di diritto intertemporale recata dalla legge n. 69 del 2009.

Nel processo fallimentare, il termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di riparazione previsto dall’art. 4 della l. n. 89 del 2001 (data in cui è divenuta definitiva la decisione del processo presupposto) decorre, per i creditori che siano stati integralmente soddisfatti, dalla definitività del riparto, quanto alla riforma del d.lgs. n. 5 del 2006-che ha introdotto all’art. 114, comma 1, l.fall. l’irripetibilità dei pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto - perdendo essi da tale momento la qualità di parti, e dal provvedimento di chiusura del fallimento, quanto alla previgente disciplina, derivando da esso, in ragione della sua irrevocabilità, la definitiva stabilizzazione della relativa posizione (Sez. 2, n. 09590/2022, Giuseppe Grasso, Rv. 664322-01).

3.2.8. Irragionevole durata del processo penale.

Sulla ragionevole durata del processo penale presupposto, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 quater, della l. n. 89 del 2001, in relazione agli artt. 117 Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui esclude dal computo relativo alla irragionevole durata del processo il periodo di sospensione di un giudizio penale, nel quale i ricorrenti erano imputati, disposto per la pregiudizialità di un giudizio civile nel quale gli stessi non erano parti (Sez. 6-2, n. 12001/2022, Abete, Rv. 664801-01). Ciò in considerazione dell’ampia portata della dizione della norma, tenuto conto del fatto che i ricorrenti ben avrebbero potuto valutare se spiegare o meno intervento nel giudizio civile pregiudiziale e domandare, se del caso, in dipendenza dello spiegato intervento, l’equa riparazione in rapporto all’eventuale irragionevole durata di quel giudizio.

La persona offesa dal reato che, al fine di conseguire il risarcimento del danno, si sia costituita parte civile nel processo penale, ha diritto alla ragionevole durata del processo, con le connesse conseguenze indennitarie in caso di violazione, soltanto dal momento di detta costituzione, mentre non rileva la precedente durata del procedimento (Sez. 2, n. 13579/2022, Bertuzzi, Rv. 664622-01; in senso conforme, n. 5294/2012, Giusti, Rv. 622186-01).

Facendo applicazione del medesimo principio, Sez. 2, n. 19275/2022, Cosentino, Rv. 664998-01 ha confermato che il risarcimento del danno da durata non ragionevole del processo penale non spetta al danneggiato che non si sia (o fino a quando non si sia) costituito parte civile. Secondo la S.C., tale principio può ritenersi in contrasto con le pronunce della Corte EDU che hanno affermato la necessità di non fermarsi a un approccio formalistico nell’individuazione della nozione di parte, poiché, come chiarito dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 249 del 2020 e 203 del 2021, esso risulta coerente con la ricostruzione sistematica che, prima e al di fuori della formale instaurazione del rapporto processuale, nega al danneggiato la facoltà di far valere in sede penale il diritto al risarcimento del danno, stante la piena tutelabilità di tale diritto mediante la separata ed autonoma proposizione dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile.

3.3. Il diritto di famiglia.

In tema di sottrazione internazionale di minori, l’art. 13 della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, resa esecutiva in Italia dalla l. n. 64 del 1994, impone al giudice, anche alla luce dell’art. 8 CEDU, di esaminare in maniera dettagliata e analitica le dichiarazioni rese, in sede di ascolto, dal minore dotato di capacità di discernimento, sicché, in caso di opposizione di quest’ultimo al rientro, è obbligatoria la considerazione di tale volontà ed anche la verifica di tutte le circostanze fattuali capaci di confortarla, impedendo al giudicante di intraprendere una via alternativa, ritenuta dal legislatore sovranazionale idonea a cagionare un pregiudizio evidente allo sviluppo del minore (Sez. 1, n. 21055/2022, Conti, Rv. 665360-01).

Nel caso di specie, la S.C. ha cassato con rinvio il decreto del tribunale per i minorenni, che, dopo aver accertato la capacità di discernimento dei minori, aveva disposto il loro rientro nello Stato che era divenuto il luogo della loro residenza abituale, a seguito di trasferimento dall’Italia insieme alla madre, nonostante questi ultimi avessero manifestato una incondizionata opposizione, senza neppure operare approfondimenti istruttori in ordine alle difficoltà di ambientamento scolastico e sociale dagli stessi manifestate).

Riguardo ai procedimenti instaurati per la regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale Sez. 1, n. 07734/2022, Parise, Rv. 664526-02 ha chiarito che l’ampliamento in sede di reclamo del thema decidendum a comportamenti dei genitori pregiudizievoli al minore, rilevanti ex art. 333 c.p.c., comporta per il giudice, oltre al dovere di sollecitare il contraddittorio sul nuovo oggetto di indagine ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c., anche quello di nominare un curatore speciale al figlio per il sopravvenuto conflitto di interessi con i genitori, la cui inottemperanza determina la nullità del giudizio di impugnazione e, in sede di legittimità, la cassazione con rinvio alla Corte d’appello, dovendo escludersi il rinvio al primo giudice, perché contrario al principio fondamentale della ragionevole durata del processo (espresso dall’art. 111, comma 2, Cost. e dall’art. 6 CEDU), di particolare rilievo per i procedimenti riguardanti i minori, e comunque precluso dalla natura tassativa delle ipotesi di cui agli artt. 353, 354 e 383, comma 3, c.p.c., che non comprendono quelle in esame, ove le nullità attengono al solo giudizio di reclamo.

Sui provvedimenti meramente attuativi dell’affidamenti dei figli minori, relativi alla modifica delle modalità di frequentazione e visita dei minori, Sez. 1, n. 04796/2022, Scalia, Rv. 664020-01, diversamente da quanto stabilito in precedenti pronunce, ha ritenuto che gli stessi sono ricorribili per cassazione, con superamento del filtro dell’inammissibilità per difetto di decisorietà, nel rilievo assunto dall’errore di diritto per violazione del principio della bigenitorialità, che riceve tutela nell’art. 337 ter c.c. e nell’art. 8 CEDU.

In senso difforme, si afferma che i provvedimenti aventi a oggetto le modalità concrete del mero collocamento dei figli minori in regime di affidamento condiviso ovvero presso uno dei genitori affidatari non sono ricorribili per cassazione, non potendo riconoscersi alla relativa statuizione, priva di attitudine al giudicato in quanto modificabile in ogni momento a prescindere dalla sopravvenienza di fatti nuovi, i caratteri della decisorietà e definitività ai fini della proponibilità del mezzo di ricorso ex art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 1, n. 00614/2022, Lamorgese, Rv. 663555-01; Sez. 1, n. 33609/2021, Lamorgese, Rv. 663267-01; Sez. 1, n. 28724/2020, Caradonna, Rv. 659934-01).

La questione relativa alla possibilità di proporre ricorso per cassazione nei confronti dei provvedimenti de potestate di natura provvisoria, avuto riguardo alla complessità istruttoria relativa alla loro revoca o modifica e alla conseguente definitività di fatto che gli stessi finiscono per assumere, è stata rimessa alle Sezioni Unite (Sez. 1, n. 30457/2022, Caprioli, non massimata).

Il diritto del minore al mantenimento di rapporti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori (art. 337 quater c.c.), che in via sistematica si colloca all’interno di quello al rispetto della vita familiare di rilievo convenzionale (art. 8 Cedu), là dove si verifichi la crisi della coppia va riconosciuto dal giudice del merito in composizione con l’interesse del genitore, collocatario e non, nella loro reciproca relazione in cui l’interesse primario del figlio deve porsi quale punto di “tenuta” o “caduta” della mediazione operata (Sez. 1, n. 04796/2022, Scalia, Rv. 664020-02). In tal senso, il giudice del merito chiamato ad autorizzare il trasferimento di residenza del genitore collocatario del minore deve pertanto valutare con l’interesse di quest’ultimo, nell’apprezzata sussistenza della sua residenza abituale quale centro di interessi e relazioni affettive, quello del genitore che abbia richiesto il trasferimento e, ancora, del genitore non collocatario su cui ricadono gli effetti del trasferimento autorizzato, per le diverse peggiorative modalità di frequentazione del figlio che gliene derivino.

In tema di successioni legittime e diritto all’assegno vitalizio di cui all’art. 580 c.c., Sez. 1, n. 31672/2022, Parise, Rv. 666122-01 ha specificato che lo stesso ha fonte ex lege nel mero fatto procreativo e, pertanto, nel novero dei “figli non riconoscibili” aventi diritto a tale assegno vanno compresi anche i figli biologici che, avendo un diverso stato di filiazione, per scelta consapevole non hanno impugnato il riconoscimento o non hanno proposto azione di disconoscimento, non potendo negarsi al figlio, pena la violazione degli artt. 2 e 30 Cost. e 8 CEDU, la possibilità di scegliere tra la “minore tutela” prevista dal menzionato art. 580 c.c. - che, non essendo subordinata alla rimozione dello “status” di figlio altrui, consente di conservare l’identità familiare ormai acquisita - e la “tutela piena” che deriverebbe dall’accertamento giuridico della filiazione.

3.4. Il cittadino straniero.

Diverse sono le pronunce che hanno interessato la condizione dello straniero.

Sulla protezione internazionale, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, avuto riguardo alla libertà religiosa del cittadino straniero, il timore deve essere esaminato sia alla luce del contenuto della legislazione, sia della sua applicazione concreta da parte del Paese di origine, in relazione al rispetto dei limiti “interni” alla libertà religiosa, che emergono dall’art. 19 Cost. e dell’art. 9, par. 2 CEDU, dovendo il giudice valutare se l’ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge, sia diretta a perseguire uno o più fini legittimi e costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tali fini. (Sez. 6-1, n. 35526/2022, Catallozzi, Rv 666588-01). Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, nel rigettare la domanda proposta da una cittadina cinese aderente alla “Chiesa Evangelica” aveva escluso in radice la possibilità che i limiti alla libertà di culto previsti dall’ordinamento cinese potessero essere privi di una giustificazione compatibile con la tutela dei diritti umani).

In materia di protezione sussidiaria, è stato chiarito che la violazione del dovere di cooperazione istruttoria gravante sul giudice, in caso di difetto totale di accertamento istruttorio ufficioso sulla situazione di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007 (ravvisabile laddove nessuna fonte informativa sia stata indicata dal giudice, oppure sia stata indicata in modo del tutto inidoneo ad individuarla, purché le circostanze fattuali in ordine alle quali è lamentata l’omessa cooperazione sia state ritualmente dedotte nel giudizio), possa essere fatta valere in sede di legittimità con motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per violazione di legge, ovvero come vizio ex art. 360, comma 1, n. 4 e 132, comma 2, n. 4, c.p.c. per motivazione apparente, senza che sia necessaria da parte del ricorrente l’indicazione di informazioni alternative relativamente alla situazione del Paese d’origine, quale requisito di ammissibilità della censura (Sez. 1, n. 25440/2022, Caradonna, Rv. 665531-01). In tali casi, l’error in procedendo si traduce automaticamente in un pregiudizio in re ipsa del diritto all’effettività della difesa e del ricorso (ex artt. 13 CEDU e 46 della direttiva 2013/32/UE), garantita mediante l’attività officiosa di ricerca di informazioni pertinenti ed aggiornate e mediante il loro esplicito inserimento nel percorso logico della motivazione.

Si è così superato il precedente orientamento secondo cui il ricorrente in cassazione che deduce la violazione del dovere di cooperazione istruttoria per l’omessa indicazione delle fonti informative dalle quali il giudice ha tratto il suo convincimento, abbia l’onere di indicare le COI che secondo la sua prospettazione avrebbero potuto condurre a un diverso esito del giudizio, con la conseguenza che, in mancanza di tale allegazione, non potendo la Corte di cassazione valutare la teorica rilevanza e decisività della censura, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (Sez. 1, n. 22769/2020, Amatore, Rv. 659276-01)

Sulla protezione complementare, l’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dal d.l. n. 130 del 2020 (conv. con modif. dalla l. n. 173 del 2020), individua tre diversi parametri di “radicamento” sul territorio nazionale del cittadino straniero - quali il radicamento familiare (che prescinde dalla convivenza), quello sociale e quello desumibile dalla durata del soggiorno sul territorio nazionale - rilevanti ai fini della configurazione, in caso di espulsione, di una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall’art. 8 CEDU che, non prevedendo un diritto assoluto, ma bilanciabile su base legale con una serie di altri valori, tutela non soltanto le relazioni familiari, ma anche quelle affettive e sociali e, naturalmente, le relazioni lavorative ed economiche, le quali pure concorrono a comporre la vita privata di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (Sez. 6-1, n. 07861/2022, Scotti, Rv. 664582-01).

3.4.1. Protezione umanitaria.

La controversia avente a oggetto una domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (a seguito del silenzio dell’Amministrazione, che non aveva provveduto al rinnovo nonostante il decorso di oltre diciotto mesi dalla presentazione dell’istanza, senza fornire alcuna ragione del ritardo né chiedere alcuna integrazione documentale), è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la situazione giuridica soggettiva dello straniero ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 CEDU, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, cui compete solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore (Sez. U, n. 01390/2022, Falaschi, Rv. 663716-01).

Ai fini del giudizio di bilanciamento funzionale al riconoscimento della protezione umanitaria e alla condizione di vulnerabilità del richiedente, Sez. 1, n. 26671/2022, Acierno, Rv. 665542-01 ha confermato che questa deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza e a quella alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (in senso conforme, n. 22528/2020, Di Florio, Rv. 659032-01). A fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni sociopolitiche del Paese d’origine deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone, pertinenti al caso e aggiornate al momento dell’adozione della decisione; conseguentemente, il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di esaminare la documentazione prodotta a sostegno della dedotta integrazione e di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, incorrendo altrimenti la pronuncia nel vizio di motivazione apparente. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva rigettato la domanda volta ad ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria, senza considerare che la documentazione lavorativa prodotta a la situazione di estrema povertà, degrado umano e violenza del paese di origine del ricorrente costituiscono elementi idonei a fondare una condizione di vulnerabilità riconducibile nell’alveo dell’art. 8 CEDU, sotto il profilo del diritto alla vita privata.

La condizione di vulnerabilità derivante dalla lesione del diritto all’unità familiare, ex art. 8 CEDU deve essere autonomamente valutata mediante l’accertamento del dedotto ed allegato intervenuto radicamento familiare in Italia, senza che sia necessaria anche l’allegazione dell’integrazione dovuta allo svolgimento di attività lavorativa (Sez. 1, n. 10201/2022, Acierno, Rv. 664535-01). La S.C. ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’appello di rigetto della domanda di protezione umanitaria di una cittadina straniera che, in Italia, aveva contratto matrimonio e aveva avuto un figlio, in ragione del mancato svolgimento di attività lavorativa da parte di entrambi i coniugi e dell’assenza di fonti di sostentamento dell’intera famiglia).

Ove il ricorrente dimostri di aver raggiunto un’integrazione in Italia, anche se limitata alla sola attività lavorativa, il giudice di merito è tenuto ad effettuare la comparazione attenuata, al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio possa comportare uno scadimento delle condizioni di vita privata tale da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU (Sez. 6-1, n. 10130/2022, Pazzi, Rv. 664563-01). La S.C. ha così cassato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda di protezione umanitaria senza effettuare la menzionata comparazione, reputando che lo svolgimento dell’attività lavorativa fosse di per sé insufficiente all’ottenimento della protezione, in assenza dell’allegazione del fatto che un eventuale rimpatrio avrebbe esposto il ricorrente a seri pericoli per la sopravvivenza ovvero a condizioni di vita inumane o degradanti.

Il mancato esame del contratto di assunzione a tempo indeterminato del ricorrente, da parte del giudice del merito, può essere denunciato in sede di legittimità, in quanto tale documento appare decisivo ai fini della valutazione del raggiungimento di un apprezzabile grado di integrazione socio-lavorativa dello straniero sul territorio italiano, potenzialmente rilevante ai fini della tutela del diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU, da valutarsi nelle forme della comparazione attenuata, attraverso il criterio della proporzionalità inversa (Sez. 6-1, n. 19466/2022, Pazzi, Rv. 665333-01).

3.5. Il diritto tributario.

Ulteriore settore in cui hanno assunto rilievo i principi della CEDU è quello tributario.

Il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia, eventualmente, dell’avviso di accertamento o di rettifica dell’ufficio, sicché il giudice, ove ritenga in tutto o in parte invalido l’atto per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad accertare genericamente la debenza dell’imposta demandandone la sua successiva quantificazione ad una parte del giudizio, sia pure sulla base di alcuni criteri, atteso che l’art. 35, comma 3, ultimo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come interpretato alla luce degli artt. 111 Cost., 6 CEDU e 47 CDFUE, esclude la pronuncia di condanna indeterminata, rendendo necessario l’esame nel merito della pretesa, entro i limiti posti dalle domande di parte (Sez. 5, n. 34723/2022, Gori, Rv. 666401-02).

In tema di riscossione coattiva delle entrate pubbliche (anche extratributarie) mediante ruolo, è stato confermato che trova applicazione nei processi pendenti l’art. 12, comma 4 bis, del d.P.R. n. 602 del 1973 (introdotto dall’art. 3 bis del d.l. n. 146 del 2021, come convertito dalla l. n. 215 del 2021), poiché specifica, concretizzandolo, l’interesse alla tutela immediata rispetto al ruolo e alla cartella non notificata o invalidamente notificata (Sez. U, n. 26283/2022, Perrino, Rv. 665660-02, in senso conforme, Sez. 5, n. 18777/2020, Locatelli, Rv. 658860-01). La S.C. ha ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale della predetta norma, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 104, 113 e 117 Cost., quest’ultimo con riguardo all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della Convenzione.

3.6. Responsabilità civile dei magistrati.

In materia di danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie, è stato confermato che il termine decadenziale biennale prescritto dall’art. 4, comma 2, ultimo periodo, della l. n. 117 del 1988 (nel testo anteriore all’entrata in vigore della l. n. 18 del 2015) non si pone in contrasto con i principi di equivalenza ed effettività della tutela derivanti dal diritto dell’Unione europea, atteso che la norma, oltre ad assicurare un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per approntare adeguatamente l’azione, costituisce espressione del principio di ragionevole durata del processo, rilevante ai sensi sia dell’art. 111 Cost., che dell’art. 6 della CEDU (Sez. U, n. 02878/2022, Manzon, Rv. 663785-02, in senso conforme, Sez. 3. n. 258/2017, Barreca, Rv. 642354-02).

  • Corte di giustizia dell'Unione europea
  • cittadino straniero
  • divorzio
  • danni e interessi
  • diritto delle società
  • diritto del lavoro
  • diritto tributario
  • giurisdizione
  • diritto dei consumatori

II)

IL DIALOGO CON LA CORTE DI GIUSTIZIA UE

(di Angelo Napolitano, Eleonora Reggiani (1) )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’ambito applicativo dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. - 3 Giudicato sulla giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. - 4 La disapplicazione delle norme in contrasto con il diritto UE. - 5 L’incidenza del diritto dell’Unione sul giudizio di legittimità. - 6 Il giudizio di rinvio e la sopravvenienza di decisioni della Corte di giustizia. - 7 Divorzio in Italia davanti all’Ufficiale civile e riconoscimento in altro Stato dell’Unione. - 8 I diritti dei cittadini stranieri. - 9 Le clausole abusive nei contratti conclusi dal consumatore. - 10 Il Regolamento Bruxelles I bis e il patto di proroga della giurisdizione. - 11 Apertura della procedura d’insolvenza e trasferimento della società debitrice all’estero. - 12 Segni distintivi e giurisprudenza della Corte di giustizia. - 13 Il nesso causale nel risarcimento del danno alla salute. - 14 Dipendenti delle compagnie aeree e disciplina previdenziale applicabile. - 15 Il diritto del lavoro e la giurisprudenza della Corte di giustizia. - 16 Altre pronunce in materia di diritto del lavoro. - 17 Il diritto societario. - 18 Il diritto tributario.

1. Premessa.

Nel corso del 2022 la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte di cassazione hanno adottato importanti pronunce che hanno contribuito a definire in modo sempre più nitido il rapporto tra la Corte di giustizia e il giudice nazionale.

Di grande interesse sono inoltre le decisioni della Corte di cassazione in cui la giurisprudenza della Corte di giustizia ha assunto un ruolo fondamentale nella disciplina di vari istituti di diritto processuale ed anche sostanziale, comprendendo i diritti delle persone, i rapporti familiari, ma anche i rapporti economici, soprattutto negli ambiti tematici propri del diritto del lavoro, di quello societario e tributario.

Accanto alle decisioni della S.C. vengono ricordate le pronunce della Corte di giustizia, adottate nell’anno in rassegna, che, a seguito di rinvio pregiudiziale di giudici italiani, o comunque coinvolgenti vicende italiane, hanno valutato il rapporto tra normativa interna e diritto dell’Unione negli stessi ambiti tematici appena evidenziati.

2. L’ambito applicativo dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

Com’è noto, il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2022, n. 490) ha deciso di sospendere e rinviare alla Corte di giustizia dell’Unione europea ex art. 267 T.F.U.E. un procedimento che implicava l’interpretazione della direttiva 2012/18/UE sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con sostanze pericolose, sottoponendo alla CGUE, tra le altre, la questione pregiudiziale inerente al “se la corretta interpretazione dell’articolo 267 T.F.U.E. imponga al giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, di operare il rinvio pregiudiziale su una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea rilevante nell’ambito della controversia principale, anche qualora possa escludersi un dubbio interpretativo sul significato da attribuire alla pertinente disposizione europea – tenuto conto della terminologia e del significato propri del diritto dell’Unione, attribuibili alle parole componenti la relativa disposizione, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto unionale al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale – ma non sia possibile provare in maniera circostanziata, sotto un profilo soggettivo, avuto riguardo alla condotta di altri organi giurisdizionali, che l’interpretazione fornita dal giudice procedente sia la stessa di quella suscettibile di essere data dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di giustizia, ove investiti di identica questione.”

La Corte di giustizia si è pronunciata su tale quesito con ordinanza del 15 dicembre 2022 (CGUE, 15 dicembre 2022, causa C-144/22, Società Eredi Raimondo Bufarini s.r.l.).

La menzionata Corte ha ricordato che, qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’art. 267, comma 3, T.F.U.E., se è chiamato a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto dell’Unione.

Tuttavia, la stessa Corte ha precisato che il menzionato giudice può astenersi dal sottoporre alla Corte la menzionata questione, e risolverla sotto la propria responsabilità, qualora l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi, anche se, prima di concludere in tal senso, deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe agli altri giudici di ultima istanza degli Stati membri e alla stessa Corte di giustizia (CGUE, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management).

La configurabilità di tale evenienza, secondo la Corte di giustizia, va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione europea. In particolare, si deve tener conto del fatto che le disposizioni del diritto dell’Unione sono redatte in diverse lingue e che le varie versioni linguistiche fanno fede nella stessa misura, tant’è che, conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, una delle versioni linguistiche di una disposizione del diritto dell’Unione non può essere l’unico elemento a sostegno dell’interpretazione della disposizione medesima, né si può attribuire ad essa un carattere prioritario rispetto alle altre versioni linguistiche. Le norme dell’Unione devono essere, infatti, interpretate ed applicate in modo uniforme, alla luce delle versioni vigenti in tutte le lingue dell’Unione. Se è vero, pertanto, che un giudice nazionale di ultima istanza non può essere tenuto a effettuare un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione di cui trattasi, ciò non toglie che esso deve tener conto delle divergenze tra le versioni linguistiche di tale disposizione di cui è a conoscenza, soprattutto quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate. Inoltre, il diritto dell’Unione impiega una terminologia che gli è propria e nozioni autonome che non presentano necessariamente lo stesso contenuto delle nozioni equivalenti che possono esistere nei diritti nazionali. Infine, ciascuna disposizione di diritto dell’Unione deve essere collocata nel suo contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni di tale diritto, delle sue finalità e dello stadio della sua evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione in parola (CGUE, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management).

Solo nel caso in cui un giudice nazionale di ultima istanza, con l’ausilio dei criteri interpretativi appena menzionati, concluda per l’assenza di elementi atti a far sorgere un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta del diritto dell’Unione, esso potrà astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell’Unione e risolverla sotto la propria responsabilità.

La mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, segnatamente alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione (CGUE, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management).

Tuttavia, quando l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti – in seno agli organi giurisdizionali di un medesimo Stato membro o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi – relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale è portata a conoscenza del giudice nazionale di ultima istanza, esso deve prestare particolare attenzione nella sua valutazione riguardo a un’eventuale assenza di ragionevole dubbio quanto all’interpretazione corretta della disposizione dell’Unione di cui trattasi e tenere conto dell’obiettivo perseguito dalla procedura pregiudiziale che è quello di assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione (CGUE, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management).

In sintesi, il giudice nazionale di ultima istanza, per poter stimare che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con un’evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio e astenersi, per tale motivo, dal sottoporre alla Corte di giustizia la questione di interpretazione di detto diritto, non deve dimostrare in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche ai giudici degli altri Stati membri e alla Corte. È, infatti, sufficiente che valuti, sotto la sua responsabilità, in maniera indipendente e con tutta la dovuta attenzione, se si trovi nell’ipotesi sopra menzionata, fermo restando che dalla motivazione della decisione deve emergere che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice in parola con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (CGUE, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management).

Alle medesime conclusioni è pervenuta Sez. L, n. 36776/2022, Piccone, Rv. 666224-01, pubblicata lo stesso giorno in cui è stata pubblicata la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea appena illustrata, ove la S.C., richiamando lo stesso precedente menzionato in quest’ultima pronuncia (CGUE, 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management), ha evidenziato che non sussiste alcun obbligo del giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la questione interpretativa del diritto unionale alla CGUE ogni volta in cui - vertendosi in ipotesi di acte clair - la corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea è così ovvia da non lasciare spazio a nessun ragionevole dubbio, nonché nel caso - configurante un acte éclairé- nel quale la stessa Corte di giustizia ha già interpretato la questione in un caso simile, od in materia analoga, in un altro procedimento in uno degli Stati membri.

3. Giudicato sulla giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

In proposito, assume particolare rilievo Sez. U, n. 10860/2022, Stalla, Rv. 664484-02, ove si è precisato che, a seguito di statuizione sulla giurisdizione da parte della S.C. adita in sede di regolamento preventivo, il giudice nazionale non di ultima istanza, avanti al quale il processo prosegua, è ammesso a sollevare questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE avanti alla Corte di giustizia qualora dubiti della conformità dell’interpretazione operata dal giudice di legittimità al diritto dell’Unione, anche se, in tal caso, la vincolatività della statuizione interna sulla giurisdizione viene meno soltanto all’esito della decisione della Corte di Giustizia dalla quale si evinca l’effettiva contrarietà di questa statuizione al diritto dell’Unione e nei limiti della contrarietà così emergente.

Le Sezioni Unite hanno, in sintesi, evidenziato che ciò che esautora il giudicato sulla giurisdizione non è il fatto in sé della devoluzione della questione interpretativa già valutata dal giudice di legittimità all’esame pregiudiziale della CGUE, senza dubbio consentita, ma soltanto l’intervento di una pronuncia della CGUE dalla quale si evinca l’effettivo e materiale contrasto del giudicato interno con il diritto UE, con la conseguenza che occorre valutare se, nella concretezza del caso, questo contrasto sia ravvisabile oppure no.

4. La disapplicazione delle norme in contrasto con il diritto UE.

Grande rilievo assume in argomento una pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost., 16 marzo 2022, n. 67).

Com’è noto, nel 2021, la Corte di cassazione, in due distinti procedimenti, che ponevano questioni similari, dopo avere disposto il rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. alla Corte di giustizia, che si è pronunciata ravvisando la contrarietà delle norme interne alle corrispondenti direttive comunitarie, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle menzionate disposizioni di legge italiane, per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.

In particolare, Sez. L. n. 09378/2021, Calafiore, non massimata, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6 bis, d.l. n. 69 del 1988, conv. in l. n. 153 del 1988 per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 2, paragrafo 1, lett. a), b) ed e) ed all’art. 11, paragrafo 1 lett. d) della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nella parte in cui anche per i cittadini non appartenenti all’Unione europea titolari di permesso di lungo soggiorno, prevede che non fanno parte del nucleo familiare il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia, diversamente dagli altri beneficiari non cittadini stranieri.

Sez. L. n. 09379/2021, Calafiore, non massimata, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6 bis, d.l. n. 69 del 1988, conv. in l. n. 153 del 1988 per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 3, paragrafo 1 lett. b) e c) ed all’art. 12, paragrafo 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano titolari di permesso unico di soggiorno e di lavoro, nella parte in cui anche per i cittadini non appartenenti all’Unione europea titolari di permesso unico di soggiorno e di lavoro prevede che non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia, diversamente dagli altri beneficiari non cittadini stranieri.

In entrambi i procedimenti, la materia del contendere ha riguardato il mancato riconoscimento ad un cittadino straniero, titolare di permesso di lungo soggiorno, dell’assegno per nucleo familiare in un periodo di tempo durante il quale i suoi familiari erano ritornati nel Paese di origine, richiedendo la norma in questione (solo per il cittadino straniero) la residenza in Italia dei familiari per poter essere considerati facenti parte del nucleo familiare.

Secondo il giudice di legittimità, la contrarietà della norma interna alle disposizioni delle due direttive, ritenuta dalla Corte di giustizia (CGUE, 25 novembre 2020, causa C-303/19, INPS e CGUE, 25 novembre 2020, causa C-309/19, INPS), rende evidente la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, ma non consente di disapplicare la norma interna, perché, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di quella dichiarata incompatibile, e comunque anche il divieto di discriminazione, oggi sancito dall’art. 18 del T.F.U.E., richiede una valutazione d’insieme e un bilanciamento di interessi rimessi al singolo Stato membro.

A diverse conclusioni è, invece, pervenuta la Corte costituzionale che, con l’ordinanza sopra menzionata, ha dichiarato l’inammissibilità delle questioni sollevate in entrambi i procedimenti, per difetto di rilevanza.

Secondo la Corte costituzionale, la competenza esclusiva della Corte di giustizia nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati comporta, in virtù del principio di effettività delle tutele, che le decisioni adottate siano vincolanti, innanzi tutto nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio (CGUE, 16 giugno 2015, causa C-62/14, Gauweiler e altri, e CGUE, 3 febbraio 1977, causa 52/76, Benedetti). Nel sistema così disegnato, la procedura pregiudiziale, oltre a rappresentare un canale di raccordo fra giudici nazionali e Corte di giustizia per risolvere eventuali incertezze interpretative, concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto dell’Unione. D’altronde, a partire dalla sentenza Simmenthal (CGUE, 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato), la Corte di giustizia ha affermato che il giudice nazionale ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle norme europee dotate di effetto diretto, “disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. E, in tempi molto più vicini, la stessa Corte di giustizia è tornata ad affermare la centralità del rinvio pregiudiziale, al fine di garantire piena efficacia al diritto dell’Unione e assicurare l’effetto utile dell’art. 267 T.F.U.E., cui si salda il potere di “disapplicare” la contraria disposizione nazionale (CGUE, 20 dicembre 2017, causa C-322/16, Global Starnet Ltd.; CGUE, 24 ottobre 2018, causa C-234/17, XC e altri; CGUE, 19 dicembre 2019, causa C-752/18, Deutsche Umwelthilfe; CGUE, 16 luglio 2020, causa C-686/18, OC e altri). La mancata disapplicazione di una disposizione nazionale ritenuta in contrasto con il diritto europeo viola, infatti, “i principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri, riconosciuti dall’art. 4, paragrafi 2 e 3, T.U.E., con l’articolo 267 T.F.U.E., nonché … il principio del primato del diritto dell’Unione” (CGUE, 22 febbraio 2022, causa C-430/21, RS).

Ad avviso del giudice delle leggi, il principio del primato del diritto dell’Unione e l’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE costituiscono dunque l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi. In tale sistema il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo, ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate.

In tale ottica, nella prospettiva del primato del diritto dell’Unione, la Corte costituzionale ha ritenuto che alle norme di diritto europeo contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE deve riconoscersi effetto diretto, nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano. Si tratta, infatti, di un obbligo cui corrisponde il diritto del cittadino di paese terzo –rispettivamente titolare di permesso di lungo soggiorno e titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro – a ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro. E la tutela riconosciuta al diritto in questione, unitamente alla sua azionabilità, richiamano le condizioni che la costante giurisprudenza della Corte di giustizia individua per affermare l’efficacia diretta delle disposizioni su cui tali diritti si fondano (a partire da CGUE, 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich).

In sintesi, le richiamate direttive si limitano a prescrivere l’obbligo di parità di trattamento, in forza della previsione di cui all’art. 79, comma 2, lettera b), T.F.U.E., che consente al Parlamento europeo e al Consiglio, in sede di procedura legislativa ordinaria, di adottare misure nel settore della “definizione dei diritti dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro”. Si tratta di un obbligo imposto in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di effetto diretto, che, pertanto, consente la disapplicazione delle norme interne che la Corte di giustizia ha ritenuto in contrasto con le direttive menzionate.

Ovviamente, a seguito della menzionata ordinanza della Corte costituzionale, la S.C. ha deciso i ricorsi in questione, dando diretta applicazione al principio di parità di trattamento (Sez. L, n. 01423/2023, Cerulo, non massimata e Sez. L, n. 1425/2023, Cerulo, non massimata), come pure ha fatto, in analogo procedimento, Sez. L, n. 33016/2022, Gnani, Rv. 666017-01.

5. L’incidenza del diritto dell’Unione sul giudizio di legittimità.

Nel corso del 2022, alcune interessanti decisioni hanno delimitato l’ambito operativo del regolamento preventivo di giurisdizione e delle impugnazioni per motivi attinenti alla giurisdizione in rapporto alla prospettata violazione di norme di diritto dell’Unione.

In particolare, Sez. U, n. 01083/2022, Giusti, Rv. 663590-01, ha chiarito come l’oggetto del regolamento preventivo di giurisdizione verta sulla individuazione del giudice al quale spetta la competenza giurisdizionale a decidere la controversia e non può essere il veicolo per proporre questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione europea o questioni di costituzionalità riguardanti il merito, prive di influenza sulla attribuzione della giurisdizione, con la conseguenza che è inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto al fine di sollecitare la risoluzione preventiva di questioni non attinenti alla giurisdizione, ma alla sussistenza, secondo la disciplina sostanziale, dei diritti azionati dinanzi al giudice presso il quale la controversia è incardinata.

Nella stessa ottica, in tema di ricorsi per motivi inerenti alla giurisdizione, Sez. U, n. 25503/2022, Lamorgese, Rv. 665455-01, ha precisato che l’insindacabilità, da parte della Corte di cassazione a Sezioni Unite, per eccesso di potere giurisdizionale, ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., delle sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in violazione del diritto dell’Unione europea, non si pone in contrasto con gli artt. 52, paragrafo 1, e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione. Costituisce, quindi, ipotesi estranea al perimetro del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione la denuncia di un diniego di giustizia da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, derivante dalla violazione delle norme di riferimento, nazionali o unionali, come interpretate in senso incompatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia, risultando coerente con il diritto dell’Unione la riferita interpretazione in senso riduttivo dell’art. 111, comma 8, Cost. e degli artt. 360, comma 1, n. 1, e 362, comma 1, c.p.c.

Anche Sez. U, n. 01454/2022, Cosentino, Rv. 663783-01, ha affermato che il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla Corte di giustizia UE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione.

Peculiare è, poi, la fattispecie oggetto di un rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. (Sez. U, n. 18161/2022, Vincenti, non massimata), in un procedimento in cui le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere, in sede di regolamento preventivo, sulla sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, in una controversia concernente l’impugnazione, dinanzi al giudice amministrativo, della deliberazione di mancata promozione (c.d. “giudizio di ripetenza”) al successivo anno scolastico, adottata dal Consiglio di classe di una scuola europea nei confronti di uno studente del ciclo secondario di detta scuola. Secondo l’Istituto scolastico ricorrente, infatti, l’impugnazione doveva essere effettuata dinanzi alla Camera dei ricorsi, prevista dall’art. 27 della Convenzione del 21 giugno 1994 (Statuto delle scuole europee). Le Sezioni Unite hanno disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in ordine alla questione interpretativa se l’art. 27, par. 2, comma 1, primo periodo, della Convenzione summenzionata debba essere interpretato nel senso che l’ivi indicata Camera dei ricorsi è la sola competente, in prima e in ultima istanza, a conoscere, dopo aver esaurito la via amministrativa prevista dal Regolamento generale, delle controversie vertenti sul giudizio di ripetenza adottato nei confronti di uno studente del ciclo secondario dal Consiglio di classe.

Un problema di compatibilità tra l’ordinamento nazionale e i princìpi unionali si è posto con riferimento al ricorso per cassazione avverso le sentenze emesse dal Tribunale Superiore delle acque pubbliche.

Sez. U, n. 09313/2022, Tricomi l., Rv. 664411-01 ha, comunque, escluso che il termine breve per l’impugnazione in cassazione, determinato in quarantacinque giorni dalla notificazione del dispositivo a cura della cancelleria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 202 e 183 r.d. n. 1775/33, sia in contrasto con i princìpi di cui all’art. 6, par. 1, CEDU e dell’ordinamento unionale (art. 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea), manifestando, anzi, l’interesse dello Stato a non lasciare indefinitamente pendenti le cause ed assicurare la sollecita formazione del giudicato in un ambito in cui vengono in rilievo interessi pubblici e collettivi, relativi al regime delle acque pubbliche.

Infine, con riferimento al giudizio di legittimità in generale, Sez. 3, n. 01784/2022, Graziosi, Rv. 663708-01 ha affermato che nell’ipotesi in cui la notifica del controricorso per cassazione, effettuata nel termine ex art. 370 c.p.c., non sia andata a buon fine a causa dell’erronea indicazione del proprio domicilio da parte del ricorrente, il successivo perfezionamento della stessa oltre il suddetto termine, a seguito di immediata rinnovazione, non determina l’inammissibilità del controricorso medesimo, vertendosi in una fattispecie assimilabile a un’oggettiva e automatica rimessione in termini, in forza della regola espressa dall’art. 153 c.p.c., evincibile anche dal principio costituzionale del diritto di difesa e da quello sovranazionale di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 19 T.U.E., 263 T.F.U.E. e 6 CEDU), oltre che dell’obbligo delle parti di conformare la loro condotta al principio della leale collaborazione processuale (art. 88 c.p.c.).

6. Il giudizio di rinvio e la sopravvenienza di decisioni della Corte di giustizia.

Con riguardo al giudizio di rinvio, disciplinato dall’art. 392 e ss. c.p.c., deve essere richiamata Sez. 3, n. 25414/2022, Iannello, Rv. 665613-01, ove la S.C. ha ritenuto rientranti nell’ambito dello ius superveniens, che travalica il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, anche i mutamenti normativi prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea che hanno efficacia immediata nell’ordinamento nazionale.

Nella motivazione è precisato che il dovere del giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto enunciato dal giudice di legittimità ai sensi dell’art. 384 c.p.c. è destinato a recedere di fronte ad un eventuale intervento della Corte costituzionale, al sopraggiungere di modificazioni normative ed anche a seguito di una decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea, che dichiari l’incompatibilità della norma interna, applicata nell’enunciare il principio di diritto, con i Trattati UE o con norme di diritto comunitario derivato. Si ritiene, infatti, che i mutamenti normativi prodotti dalle pronunce della CGUE, come pure dalle sentenze di illegittimità costituzionale del giudice delle leggi, sopravvenuti alla sentenza di annullamento della S.C. impongono la disapplicazione della norma dichiarata illegittima o del principio di diritto in contrasto con dette pronunce e l’applicazione della regula iuris risultante dalle statuizioni sopravvenute. In tale prospettiva, si evidenzia che la Corte di cassazione ha ritenuto possibile proporre l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia anche nel giudizio di rinvio, in conformità a quanto affermato dalla Corte di giustizia, che ha ritenuto sussistente l’obbligo adeguamento alla soluzione proveniente dalla CGUE, anche quando una norma nazionale imponga di risolvere la controversia in conformità alla valutazione in diritto espressa dalla rispettiva Corte Suprema (CGUE, 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinov; CGUE, 20 ottobre 2011, causa C-396/09, Interedil S.r.l. in liquidazione; CGUE, 15 gennaio 2013, causa C-416/10, Krizan).

La decisione adottata nell’anno in rassegna segue, peraltro, un orientamento oramai consolidato, tenuto conto che negli stessi termini si sono già pronunciate Sez. L, n. 19301/2014, Tria, Rv. 632273-01 e, in una particolare fattispecie, Sez. 5, n. 10939/2005, Altieri, Rv. 581326-01.

7. Divorzio in Italia davanti all’Ufficiale civile e riconoscimento in altro Stato dell’Unione.

Grande rilievo assume una pronuncia adottata dalla Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, a seguito di un rinvio pregiudiziale dell’autorità giurisdizionale tedesca, determinato però da una fattispecie in cui si è data applicazione alla disciplina italiana dettata dall’art. 12 d.l. n. 132 del 2014, conv. con modif. in l. n. 162 del 2014.

In particolare, CGUE, Grande Sezione, 15 novembre 2022, causa C-646/20, Senatsverwaltung für Inneres und Sport, Standesamtsaufsicht, ha dichiarato che l’articolo 2, punto 4, del regolamento Bruxelles II bis (dal 1° agosto 2022 non più in vigore , perché sostituito dal regolamento (UE) n. 1111/2019, denominato Bruxelles II ter) deve essere interpretato, segnatamente ai fini dell’applicazione dell’articolo 21, paragrafo 1, del medesimo regolamento, nel senso che un atto di divorzio redatto da un ufficiale dello stato civile dello Stato membro d’origine, contenente un accordo di divorzio concluso dai coniugi e confermato da questi ultimi dinanzi a detto ufficiale, in conformità alle condizioni previste dalla normativa di tale Stato membro, rappresenta una “decisione” ai sensi del citato articolo 2, punto 4.

La controversia ha avuto origine dal rifiuto da parte dell’Autorità di vigilanza dello Stato civile tedesco di autorizzare la trascrizione nel registro dei matrimoni del divorzio tra due coniugi (uno cittadino italiano e un altro avente sia la cittadinanza italiana sia quella tedesca), che si erano sposati a Berlino, intervenuto in via extragiudiziale in Italia, mediante atto redatto da un Ufficiale dello Stato civile, contenente un accordo di divorzio, concluso dai coniugi e confermato da questi ultimi dinanzi al menzionato Ufficiale, in applicazione dell’art. 12 d.l. n. 132 del 2014, conv. con modif. in l. n. 162 del 2014.

La Corte di giustizia si è soffermata sul grado di controllo che deve esercitare l’autorità competente in materia di divorzio (nella specie, l’Ufficiale dello Stato civile) affinché l’atto che essa emana possa essere qualificato come una “decisione”, ai sensi dell’articolo 2, punto 4, del Regolamento Bruxelles II bis, ai fini dell’applicazione dell’articolo 21, paragrafo 1, del medesimo Regolamento.

In particolare, la menzionata Corte ha evidenziato che tale Regolamento riguarda solo i divorzi pronunciati da un’autorità giurisdizionale statale ovvero da un’autorità pubblica, o con il suo controllo, il che esclude i semplici divorzi privati, quale quello derivante da una dichiarazione unilaterale di uno dei coniugi pronunciata dinanzi a un tribunale religioso (così CGUE, 20 dicembre 2017, causa C-372/16). In altre parole, ogni Autorità pubblica chiamata a adottare una “decisione”, ai sensi dell’articolo 2, punto 4, del Regolamento Bruxelles II bis, deve mantenere il controllo sulla pronuncia del divorzio, il che implica, nell’ambito dei divorzi consensuali, che essa proceda a un esame delle condizioni del divorzio alla luce del diritto nazionale nonché dell’effettività e della validità del consenso dei coniugi a divorziare (v. sul punto CGUE, 2 giugno 1994, causa C-414/92, Solo Kleinmotoren, ove si è ritenuto che una transazione, intervenuta dinanzi a un giudice di uno Stato membro e che pone fine ad una lite, non può costituire una “decisione” ai sensi dell’articolo 25 della Convenzione di Bruxelles, presentando un carattere essenzialmente contrattuale, limitandosi l’autorità giurisdizionale a prendere atto della transazione senza svolgere alcun esame del contenuto della stessa).

Per la Corte di Giustizia, in tale quadro assume grande rilievo il Regolamento Bruxelles II ter, che ha proceduto ad una revisione del Regolamento Bruxelles II bis, ove enuncia (considerando 14) che qualsiasi accordo approvato dall’autorità giurisdizionale a seguito di un esame di merito effettuato conformemente al diritto e alle procedure nazionali dovrebbe essere riconosciuto, o eseguito, in quanto “decisione”. Il legislatore dell’Unione ha in tal modo chiarito, in un’ottica di continuità, il fatto che accordi di divorzio, approvati da un’autorità giurisdizionale o extragiudiziale a seguito di un esame di merito effettuato conformemente al diritto e alle procedure nazionali, costituiscono “decisioni”, ai sensi dell’articolo 2, punto 4, del Regolamento Bruxelles II bis (come pure delle disposizioni del regolamento Bruxelles II ter) e che è proprio tale esame di merito a distinguere tali decisioni dagli atti pubblici e dagli accordi privati.

In sintesi, qualora un’autorità extragiudiziale competente approvi, a seguito di un esame di merito, un accordo di divorzio, quest’ultimo è riconosciuto quale “decisione”, a norma dell’articolo 21 del Regolamento Bruxelles II bis (e dell’articolo 30 del Regolamento Bruxelles II ter), mentre altri accordi di divorzio aventi effetti giuridici vincolanti nello Stato membro di origine sono riconosciuti, a seconda dei casi, come atti pubblici o come accordi, in conformità all’articolo 46 del Regolamento Bruxelles II bis e all’articolo 65 del regolamento Bruxelles II ter.

Passando ad esaminare il caso di specie, la Corte di giustizia ha rilevato che l’Ufficiale dello Stato civile è, in Italia, un’autorità legalmente costituita che, in forza del diritto di tale Stato membro, è competente a pronunciare il divorzio in modo giuridicamente vincolante, registrando in forma scritta l’accordo di divorzio redatto dai coniugi, dopo aver effettuato un esame e un controllo dello stesso. Infatti, in forza dell’articolo 12 d.l. n. 132 del 2014, il menzionato Ufficiale dello Stato civile deve ricevere personalmente e per due volte, in un intervallo di almeno trenta giorni, le dichiarazioni di ciascun coniuge, il che implica che egli si accerti del carattere valido, libero e informato del loro consenso al divorzio. Egli procede ad un esame del contenuto dell’accordo alla luce delle disposizioni di legge in vigore, sincerandosi che tale accordo riguardi unicamente lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio con esclusione di qualsiasi trasferimento patrimoniale e che i coniugi non abbiano figli minori, né figli maggiorenni incapaci, portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, in modo tale che l’accordo non riguardi siffatti figli. Il medesimo Ufficiale dello Stato civile, inoltre, non è autorizzato a pronunciare il divorzio qualora una o più condizioni previste da tale disposizione non siano soddisfatte, in particolare qualora nutra dubbi quanto al carattere libero e informato del consenso di uno dei coniugi a divorziare, qualora l’accordo abbia ad oggetto un trasferimento patrimoniale, o altresì qualora i coniugi abbiano figli che non siano maggiorenni ed economicamente autosufficienti.

8. I diritti dei cittadini stranieri.

Numerose statuizioni adottate nell’anno in rassegna che hanno riguardato il tema del diritto di asilo hanno, in motivazione, richiami e riferimenti alle decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea. Si rinvia pertanto al capitolo destinato all’esame delle pronunce della S.C. in tale materia.

In questa sede occorre richiamare Sez. L, n. 20856/2022, Cinque, Rv. 665125-01, ove la S.C., in tema di permesso di soggiorno per il familiare straniero di cittadino dell’Unione europea, ricostruendo l’orientamento della CGUE in argomento, ha ritenuto che l’art. 10 del d.lgs. n. 30 del 2007, interpretato in conformità alla normativa UE, volta ad assicurare in modo sostanziale il diritto all’unità familiare, consente all’autorità giudiziaria di riconoscere al ricorrente il diritto ad ottenere la carta in questione, in presenza dei requisiti normativamente previsti, a seguito di rituale domanda in sede giudiziaria, pur in mancanza di una apposita richiesta in sede amministrativa, in quanto nei giudizi in materia il giudice può attribuire una qualunque forma di protezione ritenga adeguata ai fatti allegati dell’interessato, riguardando tale facoltà anche la fase amministrativa del procedimento, sulla base del ruolo attivo di cooperazione istruttoria svolto dalle diverse autorità - amministrative e giurisdizionali - nell’individuare la tipologia di misura di protezione adottabile in concreto, e senza che il riconoscimento di un diritto fondamentale e autodeterminato, come quello in esame, possa essere escluso dando prevalenza a meri formalismi (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda di rilascio della suddetta carta di soggiorno in ragione del fatto che il ricorrente, in possesso di tutti i requisiti, avesse chiesto in via amministrativa solo il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari).

Merita di essere ricordata anche Sez. L, n. 33016/2022, Gnani, Rv. 666017-01, supra già menzionata, ove la S.C. ha affermato che l’assegno per il nucleo familiare in favore dei cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo in Italia non è subordinato al fatto che i familiari siano ivi residenti, in quanto l’efficacia diretta dell’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109/CE, come interpretato dalla Corte di giustizia (CGUE, 25 novembre 2020, causa C-303/19, Inps), impone la parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani per i quali la residenza dei familiari in Italia non costituisce condizione per l’erogazione del beneficio; ne consegue la disapplicazione dell’art. 2, comma 6 bis, della l. n. 153 del 1988, nella sua formulazione vigente ratione temporis, laddove subordina a questa condizione il diritto alla prestazione suddetta.

Assume, infine, rilievo Sez. L, n. 18626/2022, Pagetta, Rv. 665023-01, che ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico all’obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine (Ucraina), ove l’arruolamento, per il conflitto armato internazionale in atto sull’intero territorio, comporti un elevato rischio di coinvolgimento, anche indiretto, nella commissione di crimini di guerra e contro l’umanità, costituendo, in tale contesto, la sanzione penale prevista dall’ordinamento straniero per la renitenza alla leva un atto di persecuzione, ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007 e dell’art. 9, par. 2, lett. e), della direttiva n. 2004/83/CE, come interpretato da CGUE, sentenza 26 febbraio 2015, causa C-472/13, Shepherd, indipendentemente da qualsiasi considerazione circa la proporzionalità della pena.

9. Le clausole abusive nei contratti conclusi dal consumatore.

Nell’anno in rassegna, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha adottato importanti pronunce in tema di clausole abusive nei contratti conclusi dal consumatore.

Si tratta di quattro pronunce della Grande Sezione della Corte di giustizia, rese tutte il 17 maggio 2022 (CGUE, 17 maggio 2022, causa C-600/19, Ibercaja banco; CGUE, 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 SPV Project e C-831/19 Banco di Desio e della Brianza e a.; CGUE, 17 maggio 2022, causa C-725/19, Impuls Leasing România; CGUE, 17 maggio 2022, causa C-869/19 Unicaja Banco).

La Corte di Giustizia ha statuito su varie domande di pronuncia pregiudiziale presentate da giudici spagnoli, da giudici italiani e da un giudice rumeno, vertenti sull’interpretazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

Alla Corte di giustizia è stato chiesto se i principi processuali nazionali, quali l’autorità di cosa giudicata, possano limitare i poteri dei giudici nazionali, in particolare dell’esecuzione, quanto alla valutazione dell’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali.

La Corte ha ricordato, a tale riguardo, l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, al fine di garantire la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, ed anche una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali, divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per attivare tali rimedi, non possano più essere rimesse in discussione (CGUE, 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones).

La Corte di giustizia ha, tuttavia, anche rilevato che il sistema di tutela, istituito con la direttiva 93/13/CEE, si fonda sull’idea che il consumatore si trova in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista per quanto riguarda sia il potere negoziale sia il livello di informazione (CGUE, 26 gennaio 2017, causa C-421/14, Banco Primus). Alla luce di tale situazione di inferiorità, la direttiva 93/13/CEE prevede che le clausole abusive non vincolino i consumatori. Si tratta di una disposizione imperativa, tesa a sostituire all’equilibrio formale del contratto un equilibrio reale (CGUE, 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, C-307/15 e C-308/15, Gutiérrez Naranjo e a.). Il giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13/CEE (CGUE, 14 marzo 2013, causa C-415-11, Aziz). Gli Stati membri sono obbligati a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive (CGUE, 26 giugno 2019, causa C-407/18, Addiko Bank).

Il problema è che, in linea di principio, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, ed esse sono pertanto soggette all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri. Le disposizioni procedurali nazionali devono, tuttavia, soddisfare il principio di effettività, vale a dire assolvere un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva (CGUE, 10 giugno 2021, cause riunite C-776/19, C-777/19, C-778/19, C-779/19, C-780/19, C-781/19 e C-782/19, BNP Paribas Personal Finance e a.), poiché, in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13/CEE non può essere garantito (CGUE, 4 giugno 2020, causa C-495/19, Kancelaria Medius).

Sulla base di tali considerazioni la Corte di giustizia ha pronunciato le quattro sentenze sopra menzionate.

In particolare, CGUE, 17 maggio 2022, causa C-869/19 Unicaja Banco, ha statuito in relazione ad una controversia bancaria, ove era stato contestato il mancato rilievo d’ufficio, da parte del giudice nazionale di appello, di un motivo relativo alla violazione del diritto dell’Unione. L’istituto di credito aveva concesso un mutuo che conteneva una “clausola di tasso minimo”, in forza della quale il tasso variabile non poteva essere inferiore al 3%. Il cliente aveva agito contro tale istituto per ottenere la declaratoria della nullità di tale clausola e la restituzione degli importi indebitamente percepiti, sostenendo che detta clausola dovesse essere dichiarata abusiva a causa della sua mancanza di trasparenza. Il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso, pur limitando nel tempo gli effetti restitutori conformemente a una giurisprudenza nazionale. Il giudice d’appello, adito dall’istituto bancario, non ha disposto la restituzione integrale degli importi percepiti in base alla “clausola di tasso minimo”, dal momento che il cliente non aveva proposto appello avverso la sentenza pronunciata in primo grado. Secondo il diritto spagnolo, quando un capo del dispositivo di una sentenza non è contestato da nessuna delle parti, il giudice di appello non può disapplicarlo o modificarlo. La Corte Suprema spagnola ha quindi interrogato la Corte di giustizia sulla compatibilità del diritto nazionale con il diritto dell’Unione, in particolare con riferimento alla circostanza che un giudice nazionale, adito in appello non possa sollevare d’ufficio un motivo relativo alla violazione della direttiva 93/13/CEE e disporre la restituzione integrale di detti importi.

Richiamando la giurisprudenza sopra menzionata, la Corte di giustizia ha affermato che il diritto dell’Unione osta a una giurisprudenza nazionale che limiti nel tempo gli effetti restitutori alle sole somme indebitamente versate in applicazione di una clausola abusiva successivamente alla pronuncia della decisione giurisdizionale che ha accertato tale carattere abusivo, aggiungendo che l’applicazione dei principi del procedimento giurisdizionale nazionale di cui trattasi rende impossibile o eccessivamente difficile la tutela di tali diritti, pregiudicando così il principio di effettività. In altre parole, il diritto dell’Unione osta all’applicazione di principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali un giudice nazionale, adito in appello avverso una sentenza che limita nel tempo la restituzione delle somme indebitamente corrisposte dal consumatore in base a una clausola dichiarata abusiva, non può sollevare d’ufficio un motivo relativo alla violazione di tale disposizione e disporre la restituzione integrale di dette somme, laddove la mancata contestazione di tale limitazione nel tempo da parte del consumatore interessato non possa essere imputata a una completa passività di quest’ultimo.

La controversia esaminata da CGUE, 17 maggio 2022, causa C-600/19, Ibercaja Banco ha, invece, riguardato una richiesta di pagamento di interessi, formulata da un istituto di credito, in conseguenza dell’inadempimento di un contratto di mutuo ipotecario.

Anche in questo caso, secondo la Corte di giustizia, il diritto dell’Unione osta a una normativa nazionale che, a causa degli effetti dell’autorità di cosa giudicata e delle preclusioni processuali maturate, non consente né al giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di clausole contrattuali nell’ambito di un procedimento di esecuzione ipotecaria né al consumatore, dopo la scadenza del termine per proporre opposizione, di far valere il carattere abusivo di tali clausole nello stesso procedimento di esecuzione o in un successivo procedimento di cognizione, quando dette clausole siano state oggetto di un esame d’ufficio da parte del giudice quanto al loro eventuale carattere abusivo, ma la decisione giurisdizionale che autorizza l’esecuzione ipotecaria non comporti alcun motivo, nemmeno sommario, che dia atto della sussistenza di tale esame né indichi che la valutazione sia stata effettuata. Tuttavia, quando il procedimento di esecuzione ipotecaria è terminato e i diritti di proprietà sono stati trasferiti a un terzo, il giudice non può più procedere a un esame del carattere abusivo di clausole contrattuali che condurrebbe all’annullamento degli atti di trasferimento della proprietà e a rimettere in discussione la certezza giuridica del trasferimento di proprietà già effettuato nei confronti di un terzo. Il consumatore deve nondimeno, in una tale situazione, essere in grado di far valere, in un successivo procedimento distinto, il carattere abusivo delle clausole del contratto di mutuo ipotecario, al fine di poter esercitare effettivamente e pienamente i suoi diritti ai sensi della direttiva per ottenere il risarcimento del danno economico causato dall’applicazione delle clausole di cui trattasi.

Nel procedimento deciso da CGUE, 17 maggio 2022, causa C-725/19, Impuls Leasing România, la materia del contendere ha riguardato un’opposizione all’esecuzione avverso atti di esecuzione forzata relativa ad un contratto di leasing. Il giudice rumeno riteneva che il contratto di leasing, sulla base del quale era stato avviato il procedimento di esecuzione forzata, contenesse alcune clausole che potevano essere considerate abusive, ma la normativa rumena che non consente al giudice investito dell’opposizione all’esecuzione di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista che costituisce titolo esecutivo, per il motivo che esiste un ricorso di diritto comune nell’ambito del quale il carattere abusivo delle clausole di un tale contratto può essere controllato dal giudice ivi adito, il quale può anche sospendere il procedimento esecutivo, ma solo a condizione che colui che chiede la sospensione del procedimento di esecuzione versi una cauzione calcolata sulla base del valore dell’oggetto del ricorso.

Orbene, secondo la Corte di giustizia, è verosimile che un debitore insolvente non disponga delle risorse finanziarie necessarie per costituire la garanzia richiesta. Inoltre, tali spese non possono scoraggiare il consumatore dall’adire il giudice ai fini dell’esame della natura potenzialmente abusiva delle clausole, ipotesi che risulta ricorrere a maggior ragione quando il valore delle azioni proposte è notevolmente superiore al valore totale del contratto. È per questo che ha ritenuto che il diritto dell’Unione osti a una tale normativa nazionale.

La decisione, adottata a seguito del rinvio dei giudici italiani (CGUE, 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 SPV Project e C-831/19 Banco di Desio e della Brianza e a.), ha riguardato procedimenti di esecuzione forzata basati su titoli esecutivi che avevano acquisito autorità di cosa giudicata. I giudici dell’esecuzione si sono interrogati sul carattere abusivo della clausola penale e della clausola che prevedeva un interesse moratorio dei contratti di finanziamento, nonché sul carattere abusivo di talune clausole dei contratti di fideiussione, anche se, sulla base di tali contratti, i creditori avevano ottenuto decreti ingiuntivi. I menzionati giudici avevano rilevato che, in forza dei principi processuali nazionali, in caso di mancata opposizione da parte del consumatore, l’autorità di cosa giudicata di un decreto ingiuntivo preclude la possibilità di indagare il carattere abusivo delle clausole del contratto, e ciò anche in assenza di qualsiasi esame espresso, da parte del giudice che ha emesso tale decreto ingiuntivo.

La Corte di giustizia ha ritenuto che una tale normativa nazionale possa privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali. L’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione.

Le pronunce impongono una attenta riflessione che coinvolge molteplici argomenti di teoria generale del contratto e del processo, calati all’interno della più specifica tutela consumeristica di matrice unionale.

È per questo che, proprio sulla questione relativa alla sorte del giudicato civile nazionale dinanzi alla normativa eurounitaria inderogabile di protezione del consumatore - con specifico riferimento alla possibilità (o meno) di contestare in sede esecutiva il carattere abusivo della clausola del contratto da cui è scaturito il decreto ingiuntivo non opposto - il Presidente della Terza Sezione, dopo la richiesta della Procura generale di enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c., in ragione dell’ipotizzata estinzione del giudizio in ragione della rinuncia al giudizio, ha rimesso con decreto gli atti al Primo Presidente della Corte di cassazione per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite.

10. Il Regolamento Bruxelles I bis e il patto di proroga della giurisdizione.

Com’è noto il regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, denominato “Regolamento Bruxelles I bis”, prevede, all’art. 25, comma 1, ai fini dell’individuazione dello Stato munito di giurisdizione, la possibilità di un accordo delle parti sull’individuazione dell’autorità giurisdizionale chiamata a conoscere delle controversie derivate da un determinato rapporto giuridico.

La norma richiamata stabilisce che “Qualora le parti, indipendentemente dal loro domicilio, abbiano convenuto la competenza di un’autorità o di autorità giurisdizionali di uno Stato membro a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico, la competenza spetta a questa autorità giurisdizionale o alle autorità giurisdizionali di questo Stato membro, salvo che l’accordo sia nullo dal punto di vista della validità sostanziale secondo la legge di tale Stato membro. Detta competenza è esclusiva salvo diverso accordo tra le parti. L’accordo attributivo di competenza deve essere: a) concluso per iscritto o provato per iscritto; b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; c) nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato.”

In argomento, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 13594/2022, Iofrida, Rv. 664749-01) hanno precisato che il rispetto del requisito della forma scritta, previsto per il patto di proroga della giurisdizione in favore dell’autorità giudiziaria di un Paese estero dall’art. 25, par. 1, lett. a), del Regolamento Bruxelles I bis, richiede, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di giustizia (CGUE, 8 marzo 2018, causa C-64/17, Saey Home & Garden NV), che la clausola attributiva della giurisdizione sia stata effettivamente oggetto di pattuizione tra le parti, manifestatasi in modo chiaro e preciso, ed è pertanto rispettato nel caso in cui tale clausola sia contenuta nelle condizioni generali di contratto predisposte dalla parte acquirente, espressamente richiamate negli ordini di acquisto e ad essi allegate, potendo le stesse ritenersi accettate dalla parte venditrice unitamente agli ordini di acquisto integranti la proposta contrattuale.

Le menzionate Sezioni Unite hanno ricordato che la Corte di Giustizia, in relazione ai requisiti formali dell’accordo di proroga della giurisdizione, ha precisato che il richiamo a una clausola di proroga inserita nelle condizioni generali deve essere “espresso e inequivoco” (CGUE, 19 giugno 1984, causa C-71/83, Partenreederei ms. Tilly Russ) e quindi, nel testo contrattuale firmato dalle parti, devono essere espressamente richiamate le condizioni generali contenenti la scelta del giudice e tali condizioni devono essere effettivamente comunicate all’altro contraente (CGUE, 7 luglio 2016, causa C-222/15, Hoszig Kft) ovvero devono essere rese disponibili mediante accesso ad un sito Internet, essendosi in presenza, come previsto dal comma 2 dell’articolo sopra riportato, di “una comunicazione elettronica che permette di registrare durevolmente tale clausola, ai sensi di tale disposizione, allorché consente di stampare e di salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto” (CGUE, 21 maggio 2015, causa C-322/14, Jaouad El Majdoub). Da ultimo, la Corte di Giustizia (CGUE, 8 marzo 2018, causa C-64/17, Saey Home & Garden NV) ha chiarito che “l’art. 25, paragrafo 1, del menzionato Regolamento deve essere interpretato nel senso che, con riserva delle verifiche che spetta al giudice del rinvio effettuare, una clausola attributiva di competenza, stipulata in condizioni generali di vendita menzionate in fatture emesse da una delle parti contraenti, non soddisfa i requisiti previsti dalla disposizione in parola”, dovendo operarsi un’interpretazione restrittiva delle disposizioni dell’articolo menzionato, dal momento che esclude sia la competenza determinata dal principio generale del foro del convenuto, sancita all’articolo 4 di detto Regolamento, sia le competenze speciali di cui ai successivi articoli da 7 a 9.

Tuttavia, nel caso di specie, richiamando anche precedenti in linea con la soluzione adottata, il giudice di legittimità ha ritenuto valida ed efficace la clausola di proroga della competenza giurisdizionale in favore del foro di Leineburg, sede della società di diritto tedesco, convenuta in giudizio, in quanto risulta contenuta nelle condizioni generali di contratto espressamente richiamate negli ordini di acquisto (che costituiscono la proposta contrattuale), accettate senza contestazioni, come si evince dalla corrispondenza intercorsa tra le parti ed anche dall’atto di citazione.

11. Apertura della procedura d’insolvenza e trasferimento della società debitrice all’estero.

Com’è noto, l’art. 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1346/2000, in tema di insolvenza tranfrontaliera, prevede che sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, precisando che, per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede statutaria.

È opportuno precisare che il regolamento (UE) n. 848/2015, che ha abrogato il regolamento appena richiamato e ha introdotto nuove disposizioni, all’art. 3, paragrafi 1 e 2, stabilisce che sono competenti ad aprire la procedura d’insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, ma precisa che il centro degli interessi principali è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi. Come il regolamento previgente, la norma prevede, inoltre, che, per le società e le persone giuridiche, si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale. È, infine, disposto che, se il centro degli interessi principali del debitore è situato nel territorio di uno Stato membro, i giudici di un altro Stato membro sono competenti ad aprire una procedura di insolvenza nei confronti del debitore solo se questi possiede una dipendenza nel territorio di tale altro Stato membro, ma gli effetti di tale procedura sono limitati ai beni del debitore che si trovano in tale territorio.

In argomento, un’importante pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 10860/2022, Stalla, Rv. 664484-01) ha ritenuto che, ove sia proposta istanza di fallimento nei confronti di una società che abbia trasferito all’estero la propria sede, l’art. 3, par. 1, del regolamento (CE) n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, applicabile ratione temporis alla fattispecie, conformemente a quanto stabilito dalla Corte di giustizia (CGUE, 24 maggio 2016, causa C-353/15, Leonmobili s.r.l.), dev’essere interpretato nel senso che, qualora la sede statutaria di una società sia stata trasferita da uno Stato membro ad un altro Stato membro, il giudice, investito successivamente a detto trasferimento di una domanda di apertura di una procedura di insolvenza nello Stato membro di origine, può superare la presunzione di coincidenza del centro degli interessi principali (cd. COMI) con la nuova sede statutaria posta in altro Stato, benché in quello di origine la stessa non abbia mantenuto alcuna dipendenza, solo se da una valutazione globale di altri elementi obiettivi e riconoscibili dai terzi, si evinca che il centro effettivo di direzione e di controllo della società, nonché la gestione dei suoi interessi, continui a trovarsi in tale Stato a tale data.

Anche la Corte di giustizia, nell’anno in rassegna, ha esaminato la questione, pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale, non disposto da un giudice italiano, in relazione ad una fattispecie disciplinata dal più recente regolamento (UE) n. 848/2015.

In particolare, CGUE, 24 marzo 2022, causa C-723/20, Galapagos BidCo. Sàrl, ha fornito i criteri per evitare che venga eluso l’obiettivo del menzionato regolamento (prevenire, cioè, il forum shopping pretestuoso o fraudolento e garantire un funzionamento efficace, migliorato e accelerato delle procedure transfrontaliere), affermando che l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 848/2015 deve essere interpretato nel senso che il giudice di uno Stato membro investito di una domanda di apertura di una procedura di insolvenza principale conserva una competenza esclusiva ad aprire siffatta procedura, anche se il debitore trasferisca il COMI in un altro Stato membro dopo la presentazione di tale domanda, ma prima che detto giudice si sia pronunciato su quest’ultima. Con la conseguenza che il giudice adito successivamente in altro Stato membro non può, in linea di principio, dichiararsi competente ad aprire una procedura di insolvenza principale finche´ il primo giudice non si sia pronunciato e abbia declinato la propria competenza.

12. Segni distintivi e giurisprudenza della Corte di giustizia.

In tema di segni distintivi, Sez. 1, n. 32408/2022, Fidanzia, Rv. 666445-01, richiamando una statuizione della Corte di giustizia (CGUE, 25 gennaio 2007, causa C-48/05, Adam Opel AG), ha affermato che, qualora sia registrato un marchio per autoveicoli dotato di rinomanza, l’apposizione da parte del terzo che realizza modellini di autovetture, senza autorizzazione del titolare del marchio, di un segno identico a tale marchio sulle miniature di tali prodotti, al fine di riprodurre fedelmente gli stessi, non è scriminata dall’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva 89/104/CEE, poiché il segno utilizzato non è un segno distintivo dei modellini ma un elemento ornamentale degli stessi, spettando, dunque, al giudice di merito accertare in concreto, e in base ad una valutazione fattuale, se l’uso del marchio altrui, effettuato in funzione non distintiva, rechi comunque pregiudizio alle altre funzioni (pubblicitaria ed evocativa) del segno, secondo i parametri previsti dall’art. 5, n. 2, della menzionata direttiva, che corrispondono a quelli di cui all’art. 20, lett. c), d.lgs. n. 30 del 2005 (nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione della Corte d’appello, secondo la quale l’apposizione del segno rappresentato dal “cavallino rampante” sulle miniature realizzate non aveva recato alcun danno al marchio celebre degli autoveicoli originali).

Sempre in tema di segni distintivi, va menzionata Sez. 1, n. 37697/2022, Reggiani, Rv. 666465-02, che ha affermato la possibilità di registrare come marchio anche una frase che costituisce un vero e proprio slogan pubblicitario, sempre che l’espressione contenente il messaggio promozionale adempia alla finalità distintiva, e cioè sia idonea a distinguere i prodotti o i servizi offerti dall’impresa che procede alla registrazione. La S.C., chiamata ad affrontare per la prima volta in sede di legittimità la questione, ha esaminato la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha maturato un consolidato orientamento in ordine alla possibilità di registrare, come marchio, slogan pubblicitari. Con riferimento ai marchi composti da segni o indicazioni che sono utilizzati quali slogan commerciali, indicazioni di qualità o espressioni incitanti ad acquistare i prodotti o i servizi cui detti marchi si riferiscono, la menzionata Corte di giustizia non ha escluso la registrazione in ragione di siffatta utilizzazione (CGUE, 4 ottobre 2001, C-517/99, Merz & Krell GmbH & Co., punto 40; CGUE, 21 ottobre 2004, C-64/02, Procter & Gamble, punto 41; CGUE, 6 luglio 2017, C-139/16, Ju.Mo.Ma. e a., punto 28), ma ha precisato che devono essere utilizzati gli stessi criteri selettivi utilizzati per altri tipi di segni (CGUE, 6 luglio 2017, C-139/16, Ju.Mo.Ma. e a., punto 28).

In altre parole, la registrazione di un marchio non può essere esclusa a causa del suo uso elogiativo o pubblicitario, ma il segno deve, comunque, essere percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione dell’origine commerciale dei prodotti e dei servizi da esso designati. Il marchio può contemporaneamente essere percepito dal pubblico di riferimento come una formula promozionale e come un’indicazione dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi (CGUE, 6 luglio 2017, C-139/16, Ju.Mo.Ma., punto 29), ma la sola qualificazione di un messaggio come slogan pubblicitario non comporta automaticamente che abbia anche quel carattere distintivo proprio del marchio, che deve essere accertato perché si compia una valida registrazione.

13. Il nesso causale nel risarcimento del danno alla salute.

La S.C. in una interessante pronuncia (Sez. 3, n. 34027/2022, Gorgoni, Rv. 666269-01), ha affermato, in tema di danni alla salute conseguenti alla vaccinazione contro la poliomielite, che l’accertamento del nesso causale - da compiersi secondo la regola del “più probabile che non” ovvero della “evidenza del probabile”, come pure delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza del 21 giugno 2017 in causa C-621/15 in tema di responsabilità da prodotto difettoso, in coerenza con il principio eurounitario della effettività della tutela giurisdizionale - implica la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) pericolosità del vaccino alla stregua delle leggi di copertura scientifica, e dall’altro, della sua effettiva sicurezza in relazione alla singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, apprezzata sulla scorta delle circostanze del caso concreto per come emerse dall’istruzione probatoria condotta nel processo.

Nella specie, la Corte di legittimità ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso il nesso causale tra l’insorgenza della poliomielite e la somministrazione del vaccino “Salk” sulla base unicamente di una valutazione di astratta non pericolosità dello stesso alla stregua delle conoscenze scientifiche dell’epoca della somministrazione, senza ulteriormente indagarne la sicurezza in relazione alla fattispecie concreta, sotto il profilo dell’eventuale appartenenza a un lotto non correttamente prodotto o confezionato, tanto più che si trattava della somministrazione della terza dose in paziente che aveva già manifestato gravi e abnormi reazioni in occasione delle due precedenti.

Come anticipato, la Corte di legittimità ha richiamato CGUE, 21 giugno 2017, causa C-621/15, Sanofi Pasteur MSD s.n.c., che si è pronunciata sull’interpretazione dell’art. 4 della direttiva 85/374/CEE in materia di responsabilità da prodotto difettoso, in una controversia riguardante l’azione risarcitoria contro il produttore di un vaccino per il danno derivante da un asserito difetto di quest’ultimo e, sulla scorta del principio di effettività della tutela che contraddistingue l’esercizio dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, ha ritenuto che la mancanza della prova scientifica della dannosità di un vaccino non può impedire l’individuazione processuale di un nesso di causalità tra l’inoculazione del farmaco e l’insorgere della malattia, dovendo il giudice investito della causa valutare scrupolosamente il quadro indiziario fornito dalla parte danneggiata per stabilire, nel caso specifico, l’eventuale inferenza tra la somministrazione del farmaco e l’evento lesivo. In questo modo, il giudice è autorizzato a concludere che tali elementi esistano, fondandosi su un complesso di indizi, la cui gravità, precisione e concordanza gli consentono di ritenere con un grado sufficientemente elevato di probabilità che una simile conclusione corrisponda alla realtà, senza che ciò comporti un’inversione dell’onere della prova. L’onere di dimostrare i vari elementi indiziari resta, infatti, a carico del danneggiato ed è richiesto al giudice di preservare il proprio libero apprezzamento sulla sufficienza della prova fornita dal danneggiato, per formare il proprio convincimento definitivo solo dopo avere preso conoscenza del thema probandum, cioè degli elementi prodotti dalle due parti e degli argomenti scambiati dalle stesse.

Di qui la necessità che il giudice pervenga all’affermazione di sussistenza o insussistenza del nesso di causalità materiale anche in situazioni di probabilità minori, tenuto conto delle acquisizioni probatorie, sia in positivo, che in negativo, ossia come assenza di fattori alternativi plausibili, ciò perché la “legge di copertura” viene, anzitutto, a delineare il perimetro della c.d. causalità generica, ma ciò non toglie rilievo alla c.d. causalità specifica che, attenendo alla concretezza della vicenda processuale, e dunque alla pretesa fatta valere dal danneggiato, saggia la definitiva concludenza della prima, facendo leva sugli elementi processualmente raccolti sulla base dell’evidenza probatoria.

Per tali motivi la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva escluso il nesso causale tra l’insorgenza della poliomielite e la somministrazione del vaccino “Salk” sulla base unicamente di una valutazione di astratta non pericolosità dello stesso alla stregua delle conoscenze scientifiche dell’epoca della somministrazione, senza ulteriormente indagarne la sicurezza in relazione alla fattispecie concreta, sotto il profilo dell’eventuale appartenenza a un lotto non correttamente prodotto o confezionato, tanto più che si trattava della somministrazione della terza dose in paziente che aveva già manifestato gravi e abnormi reazioni in occasione delle due precedenti.

14. Dipendenti delle compagnie aeree e disciplina previdenziale applicabile.

A seguito di rinvio pregiudiziale della Sezione Lavoro della Corte di cassazione, (Sez. L. n. 29237/2020, Calafiore, non massimata), la Corte di giustizia (CGUE, 19 maggio 2022, causa C-33/21, INPS e INAIL) ha affermato che l’articolo 14, punto 2, lettera a), i), del regolamento (CEE) n. 1408/1971 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, nella sua versione modificata e aggiornata dal regolamento (CE) n. 118/1997 del Consiglio, del 2 dicembre 1996, come modificato dal regolamento (CE) n. 631/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, l’articolo 13, paragrafo 1, lettera a), e l’articolo 87, paragrafo 8, del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, quale modificato dal regolamento (CE) n. 988/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, e successivamente dal regolamento (UE) n. 465/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012, nonché l’articolo 11, paragrafo 5, del regolamento n. 883/2004, come modificato dal regolamento n. 465/2012, devono essere interpretati nel senso che la normativa previdenziale applicabile al personale di volo di una compagnia aerea, stabilita in uno Stato membro, che non è coperto da certificati E101 e che lavora per un periodo di 45 minuti al giorno in un locale destinato ad accogliere l’equipaggio, denominato crew room, di cui tale compagnia aerea dispone nel territorio di un altro Stato membro nel quale detto personale di volo risiede, e che, per il tempo lavorativo restante, si trova a bordo degli aeromobili di detta compagnia aerea, è la legislazione di quest’ultimo Stato membro.

La controversia ha avuto origine da un’ispezione dell’INPS, all’esito della quale l’Istituto ha ritenuto che i 219 dipendenti di una compagnia straniera, assegnati all’aeroporto di Orio al Serio, esercitassero un’attività di lavoro dipendente sul territorio italiano e che, in applicazione del diritto italiano e del regolamento n. 1408/1971, dovessero essere assicurati presso l’INPS.

L’INAIL ha, poi, ritenuto che, in forza del diritto italiano, gli stessi dipendenti dovessero essere assicurati per i rischi connessi al lavoro non aereo, in quanto impiegati, secondo detto Istituto, presso la base di servizio della compagnia aerea straniera situata nell’aeroporto di Orio al Serio.

L’INPS e l’INAIL hanno chiesto pertanto alla compagnia straniera il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi relativi a tali periodi, circostanza che quest’ultima ha contestato dinanzi ai giudici italiani.

I giudici di primo e di secondo grado hanno esaminato i certificati E101 rilasciati dall’istituzione irlandese competente, attestanti che la legislazione previdenziale irlandese era applicabile ai dipendenti ivi indicati. Questi certificati, tuttavia, non coprivano tutti i dipendenti assegnati all’aeroporto di Orio al Serio per tutti i periodi interessati, sicchè, in relazione a questi ultimi, occorreva determinare la legislazione previdenziale applicabile. I giudici di merito hanno escluso l’applicazione della legislazione previdenziale italiana e, pertanto, l’INPS e l’INAIL hanno proposto ricorso per cassazione.

Come anticipato, la S.C. ha proposto alla Corte di giustizia la questione diretta ad accertare quale sia, conformemente alle disposizioni pertinenti del regolamento (CEE) n. 1408/1971 e del regolamento (CE) n. 883/2004, la normativa previdenziale applicabile al personale di volo di una compagnia aerea, stabilita in uno Stato membro, che non è coperto da certificati E101, che lavora per un periodo di 45 minuti al giorno in un locale destinato ad accogliere l’equipaggio, denominato crew room, di cui detta compagnia aerea dispone nel territorio di un altro Stato membro, nel quale detto personale di volo risiede e che, per il resto del tempo lavorativo, si trova a bordo degli aeromobili di questa compagnia aerea.

Con la menzionata sentenza, la Corte di giustizia ha dichiarato che, fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio, la legislazione previdenziale applicabile durante i periodi in questione ai dipendenti della compagnia aerea straniera assegnati all’aeroporto d’Orio al Serio non coperti da certificati E101 fosse la legislazione italiana.

Per quanto concerne, anzitutto, i periodi disciplinati dal regolamento (CEE) n. 1408/1971, la menzionata Corte ha richiamato il principio secondo il quale una persona che fa parte del personale navigante di una compagnia aerea che effettua voli internazionali e che dipende da una succursale o da una rappresentanza permanente della compagnia in questione, nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale essa ha la propria sede, è soggetta alla legislazione dello Stato membro nel cui territorio tale succursale o detta rappresentanza permanente si trova.

L’applicazione di tale disposizione richiede che siano soddisfatte due condizioni cumulative, vale a dire, da un lato, che la compagnia aerea interessata disponga di una succursale o di una rappresentanza permanente in uno Stato membro diverso da quello in cui essa ha la propria sede e, dall’altro, che la persona di cui trattasi sia alle dipendenze di tale entità (articolo 14, paragrafo 2, lettere a, i, del regolamento cit.). Per quanto riguarda la prima condizione, la Corte ha rilevato che le nozioni di “succursale” e di “rappresentanza permanente” devono intendersi riferite a una forma di stabilimento secondario che presenti carattere di stabilità e continuità al fine di esercitare un’attività economica effettiva e che disponga, a tal fine, di mezzi materiali e umani organizzati nonché di una certa autonomia rispetto allo stabilimento principale. Quanto alla seconda condizione, la Corte ha sottolineato che il rapporto di lavoro del personale di volo di una compagnia aerea presenta un collegamento significativo con il luogo a partire dal quale tale personale adempie principalmente le sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro.

Pertanto, la Corte di giustizia ha ritenuto che il locale destinato ad accogliere l’equipaggio della compagnia straniera (crew room), situato presso l’aeroporto d’Orio al Serio, costituisse una succursale o una rappresentanza permanente in cui i dipendenti della compagnia aerea straniera assegnati all’aeroporto d’Orio al Serio, e non coperti dai certificati E101, erano occupati durante i periodi considerati, di modo che questi ultimi erano assoggettati, in forza del regolamento n. 1408/1971, alla legislazione previdenziale italiana.

Per quanto concerne i periodi disciplinati dal regolamento (CE) n. 883/2004, la medesima Corte ha ricordato il principio secondo il quale la persona che di norma esercita un’attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta alla legislazione dello Stato membro di residenza, qualora essa eserciti una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro (articolo 13, paragrafo 1, lettera a, del regolamento cit.), con la precisazione che, per determinare se una parte sostanziale delle attività sia svolta in uno Stato membro, si tiene conto, nel caso di un’attività subordinata, dell’orario di lavoro e/o della retribuzione e che ciò non si verifica se tali criteri sono soddisfatti in misura inferiore al 25%.

Di conseguenza la Corte di giustizia ha ritenuto che qualora, durante i periodi in questione, i dipendenti della compagnia straniera assegnati all’aeroporto d’Orio al Serio, e non coperti dai certificati E101, avessero svolto una parte sostanziale della loro attività in Italia, circostanza che spettava al giudice del rinvio verificare, avrebbe dovuto applicarsi la legislazione previdenziale italiana.

Infine, la Corte ha precisato che, dal 2012, il regolamento (CE) n. 883/2004 reca una nuova disposizione (il novellato articolo 11, paragrafo 5, del regolamento cit.), secondo la quale l’attività di un membro dell’equipaggio di condotta o di cabina, che presta servizi di trasporto passeggeri, è considerata come attività svolta nello Stato membro in cui si trova la base di servizio, la quale consiste nel luogo designato dall’operatore per il membro dell’equipaggio, in cui quest’ultimo inizia e conclude normalmente un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio e in cui, in circostanze normali, l’operatore non è tenuto ad alloggiare tale membro dell’equipaggio.

Di conseguenza, la Corte ha affermato che il locale destinato ad accogliere l’equipaggio della compagnia aerea straniera di stanza presso l’aeroporto d’Orio al Serio costituiva una base di servizio, di modo che i dipendenti della compagnia aerea straniera non coperti dai certificati E101 ivi assegnati erano soggetti, in forza del regolamento (CE) n. 883/2004, alla legislazione previdenziale italiana.

A seguito di tale pronuncia, Sez. L, n. 34805/2022, Calafiore, Rv. 666715-01, adeguandosi ai contenuti appena elencati della sentenza della Corte di giustizia, ha cassato con rinvio la decisione impugnata.

15. Il diritto del lavoro e la giurisprudenza della Corte di giustizia.

Numerose statuizioni della S.C. in materia di diritto del lavoro e previdenziale hanno tenuto conto delle pronunce della Corte di giustizia.

In tema di lavoro subordinato, Sez. L, n. 06262/2022, Ponterio, Rv. 664002-01, ha affermato che il mancato esercizio del diritto alle ferie ed ai riposi determina il riconoscimento del diritto all’indennità sostitutiva, ove sia dipeso dalla volontà del datore di lavoro o da eccezionali ed ostative necessità aziendali, sicché, nonostante la irrinunciabilità del diritto alle ferie, sancita dall’ultimo comma dell’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla Corte di giustizia (CGUE, 6 novembre 2019, causa C-619/16, Sebastian W. Kreuziger), l’indennità sostitutiva non spetta al lavoratore che, avendo il potere di autodeterminare le proprie ferie, non ne abbia fatto richiesta.

Con riferimento al pubblico impiego, Sez. L, n. 35423/2022, Sarracino, Rv. 666185-01, ha ritenuto che, in caso di trasferimento di personale ministeriale all’INPS, ai sensi dell’art. 10 d.l. n. 203 del 2005, conv. in l. n. 248 del 2005, il ricorso alla facoltà concessa al cessionario di applicare le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione, non può determinare per i lavoratori trasferiti un peggioramento del trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio, poiché la normativa interna va interpretata in modo conforme a quella unionale - come interpretata dalla Corte di Giustizia (CGUE, 6 settembre 2011, causa C-108/10, Ivana Scattolon) - il cui scopo è quello di impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento (in applicazione del principio enunciato, la Corte ha ritenuto che l’assegno pensionabile percepito dal lavoratore alle dipendenze del Ministero andasse conservato anche successivamente al rinnovo del c.c.n.l. del personale del comparto enti pubblici non economici, non comportando l’applicazione d’un diverso contratto collettivo il venir meno del pregresso più favorevole quantum retributivo, quanto meno in via di assegno ad personam).

Alcune pronunce in questa sede rilevante hanno riguardato i contratti di lavoro a tempo determinato e quelli di somministrazione alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia.

In particolare, Sez. L, n. 13982/2022, Marotta, Rv. 664849-01, in tema di pubblico impiego privatizzato, ha evidenziato che la successione di contratti di somministrazione a tempo determinato è legittima, ai sensi del combinato disposto dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 e della disciplina di cui al d.lgs. n. 81 del 2015 (già d.lgs. n. 273 del 2006), quando non sia tale da eludere la natura necessariamente temporanea del lavoro tramite agenzia, dovendo attribuirsi alla normativa in materia un significato conforme alla direttiva 2008/104/CE sulla somministrazione, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18 (CGUE, 14 ottobre 2020, causa C-681-18, JH).

In applicazione del principio enunciato, la Corte ha accolto il ricorso, ritenendo l’illegittimità di plurimi contratti di somministrazione a temine, in forza dei quali il lavoratore era stato assunto da varie agenzie di somministrazione per essere destinato a svolgere sempre le medesime mansioni in favore dell’INPDAP, come ente utilizzatore, in un arco temporale pressocché ininterrotto di sei anni.

Nella stessa ottica, Sez. L, n. 23495/2022, Amendola, Rv. 665407-01 (in una controversia ricadente sotto la disciplina anteriore alla l. n. 92 del 2012), ha ritenuto che, in tema di successione di contratti di somministrazione a tempo determinato, il carattere di temporaneità, pur nell’assenza di limiti legislativamente previsti, costituisce requisito immanente e strutturale del ricorso all’istituto, dovendo attribuirsi alla normativa in materia un significato conforme alla direttiva 2008/104/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18 (CGUE, 14 ottobre 2020, causa C-681-18, JH), sicché il giudice non può arrestarsi alla verifica della ricorrenza delle causali giustificative, dovendo, invece, controllare, anche sulla base degli indici rivelatori indicati dalla Corte di giustizia, se sia da ravvisare nel caso concreto un abusivo ricorso all’istituto della somministrazione.

Sez. L, n. 07584/2022, Di Paolantonio, Rv. 664122-01, ha, poi, chiarito che la clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CEE impone al datore di lavoro di riservare all’assunto a tempo determinato il medesimo trattamento previsto per l’assunto a tempo indeterminato e, pertanto, in caso di progressione stipendiale connessa sia all’anzianità di servizio che alla valutazione positiva dell’attività prestata, il datore di lavoro sarà tenuto, da un lato, ad includere nel calcolo, ai fini dell’anzianità, anche il servizio prestato sulla base di rapporti a tempo determinato e, dall’altro, ad attivare, alla maturazione del periodo così calcolato, la procedura valutativa nei termini, con le forme e con gli effetti previsti per gli assunti a tempo indeterminato. La sola circostanza che la progressione stipendiale presuppone anche la valutazione positiva non costituisce, peraltro, ragione oggettiva idonea a giustificare la diversità di trattamento fra assunto a tempo determinato e assunto a tempo indeterminato, secondo i criteri indicati dalla Corte di giustizia (CGUE, 17 marzo 2021, causa C-652/19, KO, punto 60), e ad escludere il diritto alla predetta progressione stipendiale se, alla maturazione dell’anzianità, il datore di lavoro, contrattualmente tenuto ad attivare la procedura valutativa, l’abbia omessa sull’erroneo presupposto della non computabilità dei periodi a tempo determinato; in tal caso, poiché il diritto all’attribuzione del maggiore trattamento retributivo sorge solo al concorrere di entrambe le condizioni, ossia l’anzianità di servizio e la valutazione positiva, potrà essere pronunciata condanna al pagamento delle differenze retributive con la decorrenza contrattualmente prevista solo se la valutazione positiva in questione sia già avvenuta, anche se ad altri fini; altrimenti il giudice dovrà limitarsi ad accertare l’avvenuta maturazione dell’anzianità ed il conseguente diritto del dipendente ad essere valutato.

Sempre in tema di successione di contratti di lavoro in somministrazione a termine, Sez. L, n. 22861/2022, Piccone, Rv. 665357-01, ha ritenuto che, ove l’impugnazione stragiudiziale venga rivolta solo nei confronti dell’ultimo contratto della serie, il giudicato sull’intervenuta decadenza dall’impugnativa dei contratti precedenti non preclude l’accertamento dell’abusiva reiterazione, atteso che la vicenda contrattuale, pur insuscettibile di poter costituire fonte di azione diretta nei confronti dell’utilizzatore per la intervenuta decadenza, può rilevare come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti, valutabile, in via incidentale, dal giudice, al fine di verificare se la reiterazione delle missioni del lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea, sì da realizzare una elusione degli obiettivi della direttiva 2008/104/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenze del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18 (CGUE, 14 ottobre 2020, causa C-681-18, JH) e del 17 marzo 2022 in causa C-232/20 (CGUE, 17 marzo 2022, causa C-232-20, NP).

16. Altre pronunce in materia di diritto del lavoro.

Nel corso del 2022 il dialogo tra la Corte di cassazione e la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha avuto ad oggetto temi e questioni rilevanti in materia di diritto del lavoro.

Com’è noto, Sez. U, n. 23901/2020, Valitutti, non massimata, nell’ambito di una causa introdotta da medici che si erano iscritti ad una scuola di specializzazione prima dell’anno 1982 e che pretendevano una adeguata remunerazione in base alle direttive CEE, propose alla Corte di giustizia il quesito se l’art. 189, comma 3, del Trattato sull’Unione europea e gli artt. 13 e 16 della direttiva 82/76/CEE del Consiglio, del 26 gennaio 1982, che modifica la direttiva 75/362/CEE e la direttiva 75/363/CEE, ostino ad una interpretazione secondo cui il diritto ad una remunerazione adeguata – come previsto dall’art. 13 della direttiva 82/76/CEE a favore dei sanitari che svolgano l’attività di formazione, sia a tempo pieno che a tempo ridotto, e sempre che sussistano tutti gli altri requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza europea - spetti anche ai medici che si siano iscritti ad una scuola di specializzazione in anni precedenti l’anno 1982, e che siano in corso alla data del 1° gennaio 1983, e se il risarcimento per il ritardo nel recepimento della suddetta direttiva spetti anche a tali sanitari, con riferimento alla frazione temporale successiva al 1° gennaio 1983.

Al quesito ha dato risposta la Corte di giustizia (CGUE, sentenza 3 marzo 2022, C-590/20), dichiarando che l’art. 2, paragrafo 1, lett. c), l’art. 3, paragrafi 1-2 e l’allegato della direttiva 75/363/CEE, come modificata dalla direttiva 82/76/CEE, devono essere interpretati nel senso che qualsiasi formazione a tempo pieno o ridotto come medico specialista, iniziata prima della entrata in vigore, il 29 gennaio 1982, della direttiva del 1982 e proseguita dopo che sia scaduto in data 1 gennaio 1983 il termine di adeguamento, deve, per il periodo della formazione e con decorrenza dall’1° gennaio 1983, essere oggetto di una remunerazione adeguata, a condizione che la formazione riguardi una specializzazione comune a tutti gli Stati, o a due o più di essi, e sia menzionata negli artt. 5 o 7 della direttiva 75/363/CEE.

Alla luce di tale sentenza, le Sezioni Unite di questa Corte, pronunciando nel giudizio in relazione al quale era stata posta la questione rimessa alla CGUE (Sez. U, n. 20278/2022, Nazzicone, Rv. 664953-01) hanno affermato lo stesso principio appena riportato, adeguandosi alla statuizione della Corte di giustizia.

Il medesimo principio è stato subito ribadito da Sez. 3, n. 25414/2022, Iannello, Rv. 665613-01, in una fattispecie in cui la decisione della CGUE ha operato quale ius superveniens.

Ancora in tema di diritto del lavoro, nel corso del 2022, nell’ambito di una controversia tra alcuni autisti e una società che gestisce delle linee di trasporto pubblico regionale su strada, la S.C. è stata investita dell’interpretazione del regolamento (CE) n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006, relativo all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada e che modifica i regolamenti del Consiglio CEE n. 3821/85 e CE n. 2135/98 e abroga il regolamento CEE n. 3820/85 del Consiglio.

Nella fattispecie di causa, essendo rilevante, ai fini dell’applicazione del regolamento comunitario, stabilire l’estensione delle linee che dovevano “coprire” i veicoli guidati dagli autisti, si poneva il problema di come computare in chilometri di percorso la estensione di tali linee e dei periodi di guida degli autisti ai fini del riconoscimento dei giorni di riposo a questi ultimi spettanti.

Orbene, Sez. L, n. 15230/2022, Spena, non massimata, ha devoluto alla Corte di giustizia dell’Unione europea la risoluzione di due questioni pregiudiziali.

La prima riguarda la nozione di “percorso”, e precisamente se l’art. 3, lett. a) del regolamento CE n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006 debba essere interpretato nel senso che il termine “percorso” non superiore ai 50 km, escluso dal campo di applicazione del regolamento, si riferisce al chilometraggio dell’itinerario (linea) individuato dall’impresa di trasporto per il pagamento del titolo di viaggio, oppure al chilometraggio complessivo percorso dall’autista nel turno di lavoro giornaliero o, ancora, alla massima distanza su strada raggiunta dal veicolo rispetto al punto di partenza (raggio) o, comunque, con quale diverso criterio i chilometri del percorso vadano calcolati. Inoltre, la S.C., con la citata ordinanza, ha chiesto alla CGUE di chiarire se l’impresa che organizza il trasporto possa andare esente dall’applicazione del regolamento per quei veicoli che utilizza esclusivamente per “coprire” itinerari inferiori ai 50 km o se l’intero servizio di trasporto dell’impresa, per il fatto che essa effettua con altri veicoli itinerari superiori ai 50 km, sia soggetto all’applicazione del regolamento.

La seconda questione pregiudiziale sottoposta alla CGUE ha ad oggetto la nozione di “periodo di guida”, ed in particolare “se l’art. 6, paragrafo 3, del regolamento CE n. 561/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006, relativo all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada e che modifica i regolamenti del Consiglio CEE n. 3821/85 del Consiglio e CE n. 2135/98 e abroga il regolamento CEE n. 3820/85 del Consiglio, debba essere interpretato nel senso che il periodo di guida coincida sostanzialmente con “il tempo di guida”, sicché il periodo di guida complessivamente accumulato in un periodo di due settimane consecutive sia costituito dalla somma dei tempi di guida delle due settimane, secondo la definizione dell’art. 4 lett. j), oppure se tale “periodo di guida” comprende anche altre attività e, in particolare, l’intero turno di lavoro osservato dall’autista nelle due settimane, oppure tutte le “altre mansioni” indicate dallo stesso articolo 6 al paragrafo 5.

Deve segnalarsi, in tema di rapporti di lavoro, la recente Sez. U, n. 22726/2022, Marotta, Rv. 665452-01, che ha stabilito che ai fini della determinazione dell’anzianità di servizio del docente di materie curricolari da computare all’atto dell’immissione in ruolo anche nel passaggio dalla scuola materna alla scuola secondaria va considerato il servizio non di ruolo prestato prima dell’immissione in ruolo.

L’arresto, riguardante una insegnante di religione, è stato anche il frutto di una dialettica con la Corte di giustizia, che con la sentenza del 13 gennaio 2022 (CGUE, 13 gennaio 2022, causa C-282/2019, YT e a.) ha affermato che gli insegnanti di religione assunti a termine dal MIUR rientrano nell’ambito dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE e, dunque, sono soggetti al principio di non discriminazione di cui alla clausola 4, secondo la quale, per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a termine non possono essere trattati in modo meno favorevole di quelli a tempo indeterminato “comparabili” per la sola ragione di avere un rapporto a tempo determinato.

Di conseguenza, il fatto che secondo la CGUE siano assoggettati alla disciplina dell’Accordo Quadro e al principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato “comparabili”, e che secondo le disposizioni di cui alla legge n. 186 del 2003 valga anche per loro la disciplina sul riconoscimento del servizio agli effetti della carriera dettata per tutti gli altri insegnanti, non può che comportare che, all’atto dell’immissione in ruolo della scuola secondaria, gli insegnanti di religione a termine provenienti dalla scuola materna non debbano essere discriminati rispetto agli insegnanti che transitano nei medesimi ruoli della scuola secondaria provenendo da altro ruolo.

Sempre con riferimento ai docenti assunti a tempo determinato, Sez. L, n. 14268/2022, Spena, Rv. 664850-01, ha ritenuto che il docente che non ha chiesto di fruire delle ferie durante il periodo di sospensione delle lezioni ha diritto all’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo inutilmente invitato a goderne, con espresso avviso della perdita, in caso diverso, del diritto alle ferie ed alla indennità sostitutiva, in quanto la normativa interna - ed in particolare l’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, come integrato dall’art. 1, comma 55, della l. n. 228 del 2012 - deve essere interpretata in senso conforme all’art. 7, par. 2, della direttiva 2003/88/CE, che, secondo quanto precisato dalla Corte di Giustizia, Grande Sezione (con sentenze del 6 novembre 2018 in cause riunite C-569/16 e C-570/16, e in cause C-619/16 e C-684/16), non consente la perdita automatica del diritto alle ferie retribuite e dell’indennità sostitutiva, senza la previa verifica che il lavoratore, mediante una informazione adeguata, sia stato posto dal datore di lavoro in condizione di esercitare effettivamente il proprio diritto alle ferie prima della cessazione del rapporto di lavoro.

17. Il diritto societario.

In questa materia, Sez. 2, n. 11600/2022, Besso Marcheis, non massimata, si è occupata di una controversia nella quale si discuteva della legge applicabile ad una società che aveva trasferito la sua sede sociale in uno Stato membro dell’Unione e aveva, però, mantenuto il centro della sua attività in Italia, cioè nello Stato membro in cui aveva la sede precedentemente al trasferimento.

In particolare, la società aveva impugnato il conferimento ad un’altra società (oltre che l’ulteriore conferimento operato da quest’ultima verso una terza società) di un immobile di prestigio, sito in Italia, che costituiva quasi tutto il suo patrimonio.

Il problema era, allora, se, alla stregua dell’art. 25 della legge di diritto internazionale privato (l. n. 218 del 1995), all’atto di delega, a un soggetto estraneo all’organo amministrativo, dei poteri dall’amministratrice della società dopo il trasferimento della sede sociale in Lussemburgo potesse o meno applicarsi il diritto italiano, alla stregua del citato art. 25 l. n. 218 del 1995, ed in virtù del fatto che in Italia si trovava l’oggetto principale della società, o dovesse applicarsi il diritto lussemburghese.

In particolare, se si fosse applicato il diritto italiano in tema di ordinamento delle s.r.l., l’atto di attribuzione dei poteri gestori ad un soggetto estraneo all’organo amministrativo sarebbe stato nullo. Diverso, invece, sarebbe stato l’esito della causa se si fosse applicato il diritto lussemburghese.

La S.C. si è posta il problema della compatibilità dell’art. 25 l. n. 218 1995 con gli artt. 49 e 54 T.F.U.E., come interpretati dalla Corte di giustizia (CGUE, sentenza del 25 ottobre 2017, causa C-106/16, Polbud), chiedendo a quest’ultima, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., se gli artt. 49 e 54 T.F.U.E. ostino a che uno Stato membro, in cui è stata originariamente costituita una società nella forma di s.r.l., applichi alla stessa le disposizioni di diritto nazionale relative al funzionamento e alla gestione della società qualora quest’ultima, trasferita la sede e ricostituita secondo il diritto dello Stato membro di destinazione, mantenga il centro della sua attività nello Stato membro di partenza e l’atto di gestione in questione incida in modo determinante sull’attività della società.

Altra questione di rilievo è stata posta dalla Prima sezione Civile con un’ordinanza interlocutoria ex art. 267 T.F.U.E. (Sez. 1, n. 32365/2022, Terrusi, non massimata), riguardante l’interpretazione dell’art. 3 della sesta direttiva 82/891/CEE del Consiglio del 17 dicembre 1982, nella parte in cui, richiamato dall’art. 22 alla scissione mediante costituzione di nuove società, stabilisce che “se un elemento del patrimonio passivo non è attribuito nel progetto di scissione e non sia possibile stabilirne la ripartizione, ciascuna delle società beneficiarie è solidalmente responsabile”. In particolare, con l’ordinanza segnalata la S.C. ha chiesto alla Corte di giustizia se sia compatibile con il diritto eurounitario un’interpretazione del diritto nazionale, segnatamente dell’art. 2506 bis, comma 3 c.c., secondo la quale la responsabilità solidale delle società beneficiarie della scissione si estenda anche alla responsabilità per le conseguenze dannose, prodottesi dopo la scissione, di condotte (attive o omissive) venute in essere prima della scissione stessa o di condotte successive che ne siano lo sviluppo, aventi natura di illecito permanente, generative di un danno ambientale i cui effetti, al momento della scissione, non siano ancora compiutamente determinabili.

18. Il diritto tributario.

Altro campo “d’elezione” del dialogo tra la Corte di cassazione e la Corte di Giustizia dell’Unione europea è il diritto tributario, più precisamente quei campi del diritto tributario in cui operano presunzioni che, per la loro rigidità, potrebbero entrare in conflitto con i princìpi di proporzionalità, buona fede e capacità contributiva.

In una fattispecie in cui l’Agenzia dei Monopoli e delle Dogane aveva negato l’“abbuono” delle accise su prodotti petroliferi oggetto di sottrazione, ritenendo che tale condotta, addebitabile alla condotta fraudolenta di un soggetto terzo rispetto alla società contribuente, non rientrasse nella nozione di “perdita/distruzione” prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 504/1995 (cd. TUA), Sez. 5, n. 14361/2022, Manzon, non massimata, dopo aver ripercorso lo sviluppo della giurisprudenza eurounitaria in tema di presupposti della garanzia incombente sul depositario di prodotti petroliferi (CGUE, 2 giugno 2016, causa C-81/15, Kapnoviomichania Karelia, punti 31 e 32, CGUE 24 febbraio 2021, causa C-95/2019, Silcompa, punto 52, CGUE 12 dicembre 2002, causa C-395/2000, Distillerie Fratelli Cipriani s.p.a., CGUE 21 febbraio 2008, C-271/2006, Netto Supermarkt GmbH & Co), ha concluso che in base ai princìpi della certezza del diritto, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, non dovrebbe rispondere del pagamento delle accise il soggetto passivo che, nel realizzare operazioni in sospensione d’imposta (esportazione), sia stato impossibilitato a rendersi conto, nonostante l’uso della diligenza propria di un “commerciante avveduto”, che non sussistevano le condizioni dell’esenzione “a causa della falsificazione della prova dell’esportazione presentata dall’acquirente”.

Tuttavia, sussistendo dei dubbi sulla portata scriminante, rispetto al caso concreto, dei princìpi enunciati dalla CGUE al fine del riconoscimento dell’ “abbuono”, la S.C. ha posto alla CGUE il quesito se l’art. 14, primo periodo, della direttiva 92/12/CEE del Consiglio del 25 febbraio 1992 debba essere interpretato nel senso che, in caso di svincolo irregolare del prodotto soggetto ad accisa, la responsabilità del depositario garante del pagamento dell’imposta sia di tipo oggettivo, senza alcuna possibilità di discarico dall’obbligazione e dalle somme corrispondenti alle correlative sanzioni, anche qualora detto svincolo dipenda da un fatto illecito esclusivamente imputabile a un terzo, ovvero possa essere interpretato nel senso che l’abbuono dell’imposta e delle relative sanzioni correlative vada riconosciuto (quale caso fortuito o forza maggiore) al depositario garante che risulti non solo del tutto estraneo al fatto illecito del terzo, ma anche legittimamente ed incolpevolmente affidato in ordine alla regolarità della circolazione del prodotto in regime di sospensione d’imposta.

Una questione solo in parte analoga è stata affrontata da Sez. 5, n. 22677/2022, Fuochi Tinarelli, non massimata, che si è trovata a dover decidere se la dispersione di alcool etilico dovuta a una negligenza di un dipendente della società che lo aveva in deposito poteva rientrare nei casi di caso fortuito o forza maggiore che, ai sensi dell’art. 4 del testo unico sulle accise (TUA), danno diritto all’ “abbuono” dell’imposta, per l’impossibilità di immettere in consumo la quantità di prodotto andato disperso.

La S.C. ha rilevato che assume, ratione temporis, rilievo l’art. 7, paragrafi 4 e 5, del Capo II, Sezione I, della direttiva n. 2008/118/CE del Consiglio del 16 dicembre 2008, relativa al regime generale delle accise, che abroga la direttiva 92/12/CEE.

La citata disposizione non è, in sostanza, mutata in seguito all’introduzione dell’art. 6, paragrafo 5, del Capo II, Sezione I, della direttiva n. 2020/262 del Consiglio del 19 dicembre 2019, che ha abrogato dal 13 febbraio 2023 la direttiva n. 2008/118/CE, che, accanto alla distruzione o perdita di prodotto per causa di caso fortuito e di forza maggiore, ha escluso che possa essere considerata quale immissione in consumo “la perdita o la distruzione, totale o parziale, dei prodotti sottoposti ad accisa in regime di sospensione dall’accisa, dovuta ad autorizzazione delle autorità competenti dello Stato membro di distruggere i prodotti”.

L’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 504/1995 (TUA), applicabile ratione temporis, dispone che l’abbuono dell’imposta è concesso “qualora il soggetto obbligato provi, in un modo ritenuto soddisfacente dall’amministrazione finanziaria, che la perdita o la distruzione dei prodotti è avvenuta per caso fortuito o per forza maggiore. Fatta eccezione per i tabacchi lavorati, i fatti imputabili a titolo di colpa non grave, a terzi o allo stesso soggetto passivo sono equiparati al caso fortuito ed alla forza maggiore”.

Delineato il quadro normativo sia eurounitario che nazionale, si è posto il problema della compatibilità del secondo con il primo con riferimento alla previsione della “colpa non grave” di un dipendente della stessa società depositaria del prodotto quale elemento caratterizzante l’evento causativo della distruzione o della dispersione del prodotto medesimo idoneo a giustificare l’ “abbuono” dell’accisa.

Dunque, essendo consuetudine per la S.C. la proposizione alla CGUE di più questioni pregiudiziali articolate in subordine, l’ordinanza interlocutoria sopra citata ha chiesto alla CGUE, in primo luogo, se la nozione di caso fortuito all’origine delle perdite intervenute in regime sospensivo, ai sensi dell’art. 7, paragrafo 4, della direttiva n. 2008/118/CE, debba o meno essere intesa, come per la causa di forza maggiore, nel senso di circostanze estranee al depositario autorizzato, anormali e imprevedibili, e non evitabili malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso da parte sua, sfuggendo oggettivamente ad ogni possibilità di controllo; se, ai fini dell’esclusione di responsabilità nelle ipotesi di caso fortuito, assuma rilievo, e in quali termini, la diligenza prestata nell’allestire le precauzioni necessarie per evitare il fatto dannoso; se, in subordine alle prime due questioni, una disposizione come l’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1995, che equipara al caso fortuito e alla forza maggiore la colpa non grave (dello stesso soggetto o di terzi) sia compatibile con la disciplina di cui all’art. 7, paragrafo 4, della direttiva n. 2008/118/CE; se, infine, la locuzione “o in seguito all’autorizzazione delle autorità competenti dello Stato membro”, pure contenuta nel citato art. 7, paragrafo 4, possa essere intesa come possibilità, per lo Stato membro, di individuare una ulteriore categoria generale (la colpa lieve) idonea ad incidere sulla definizione di immissione in consumo in caso di distruzione o perdita del prodotto ovvero se tale locuzione non possa includere una clausola di questo genere, dovendo essa, invece, essere riferita a specifiche ipotesi, autorizzate di volta in volta o comunque individuate per casistiche definite nelle loro componenti oggettive.

Un altro dubbio di compatibilità con il diritto unionale dell’ordinamento tributario italiano riguarda la disciplina dei crediti e dei rimborsi iva per le società cc.dd. “di comodo”.

In particolare, l’art. 30, comma 4, della legge n. 724 del 1994 nega il diritto alla detrazione dell’iva assolta sugli acquisti, al rimborso dell’iva o all’utilizzazione della stessa in un successivo periodo di imposta al contribuente che, per tre periodi d’imposta consecutivi, esegua operazioni attive rilevanti ai fini iva in misura non coerente (in quanto eccessivamente bassa) rispetto a quanto potrebbe ragionevolmente attendersi dagli asset patrimoniali di cui dispone per tre anni consecutivi e non sia in grado di dimostrare, a giustificazione di tale circostanza, l’esistenza di oggettive situazioni ostative.

Orbene, in tale contesto normativo, Sez. 5, n. 16091/2022, Catallozzi, non massimata, ha proposto alla CGUE varie questioni pregiudiziali, in subordine l’una rispetto all’altra.

Innanzitutto, ha chiesto se l’art. 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE può essere interpretata nel senso di negare la qualità di soggetto passivo e, conseguentemente, il diritto di detrazione o di rimborso dell’iva assolta a monte al soggetto che esegua operazioni attive rilevanti ai fini iva in misura ritenuta non coerente (in quanto eccessivamente bassa) rispetto a quanto può ragionevolmente attendersi in ragione degli asset patrimoniali di cui dispone per tre anni consecutivi secondo criteri predeterminati dalla legge, e non sia in grado di dimostrare, a giustificazione di tale circostanza “anomala”, l’esistenza di oggettive situazioni ostative.

Nel caso di risposta negativa al primo quesito interpretativo, la S.C., con la citata ordinanza interlocutoria, ha chiesto alla CGUE se l’art. 167 della direttiva 2006/112/CE e i princìpi generali della neutralità dell’iva e di proporzionalità della limitazione del diritto alla detrazione dell’iva sugli acquisti, o comunque i princìpi unionali della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento ostano a una disciplina nazionale come quella recata dall’art. 30, comma 4, della legge n. 724 del 1994, che nega il diritto alla detrazione o al rimborso alle società che, in base a degli indici patrimoniali e al numero di operazioni attive eseguite, si presumono essere “di comodo”.

Sez. 5, n. 29634/2022, Giudicepietro, non massimata, infine, sempre in tema di rapporti tributari relativi ad operazioni di ristrutturazioni societarie, ha posto alla CGUE il quesito se sia compatibile con i princìpi di libera circolazione dei capitali e di neutralità delle operazioni di ristrutturazione societaria, di cui agli artt. 63 e ss., 101, 102, 120 e 173 TFUE, la disposizione dell’art. 2, commi 3 ter e 3 quater, del decreto legge n. 18 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 49 del 2016, nella versione anteriore alle modifiche apportate dal decreto legge n. 91/2018, convertito dalla legge n. 108 del 2018, nella parte in cui condiziona al versamento di una somma pari al venti per cento del patrimonio netto posseduto al 31 dicembre 2015 la possibilità per le banche di credito cooperativo aventi alla stessa data un patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro, in luogo dell’adesione ad un gruppo, di conferire l’azienda bancaria ad una società per azioni, anche di nuova costituzione, autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria, modificando il proprio statuto in modo da escludere l’esercizio dell’attività bancaria e mantenendo nel contempo le clausole mutualistiche di cui all’art. 2514 c.c., assicurando ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la società per azioni conferitaria di formazione ed informazione sui temi del risparmio e di promozione dei programmi di assistenza.

PARTE PRIMA I DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

  • diritti e libertà
  • disabile
  • libertà di religione
  • prestazione sociale
  • assistenza sociale
  • diritto all'istruzione
  • dati personali
  • integrazione dei disabili
  • diritto all'immagine

CAPITOLO I

LA TUTELA DELLA PERSONA: DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E DIRITTI DI NUOVA EMERSIONE

(di Francesco Agnino, Donatella Salari (1) )

Sommario

1 Il diritto alla protezione dei dati personali. - 2 Diritto alla riservatezza, diritto di cronaca e diritto all’immagine. - 3 Il diritto all’oblio. - 4 Trattamento dei dati personali: profili processuali. - 5 Identità, nome, origini. - 6 La libertà religiosa e i suoi attuali confini. - 7 La protezione contro le condotte discriminatorie. - 8 I diritti dei disabili. - 8.1 La tutela multilivello. - 8.2 Il diritto del disabile come diritto sociale. - 8.3 Diritto all’istruzione. - 8.4 Divieto di discriminazione. - 8.5 L’inclusione familiare e il ruolo del caregiver. - 8.6 L’inserimento nel mondo del lavoro. - 8.7 Le prestazioni socioassistenziali. - 8.8 La libertà di movimento.

1. Il diritto alla protezione dei dati personali.

La mutata realtà tecnologica e, di conseguenza, la raccolta massiva di informazioni, trattate anche a fini lucrativi, hanno trasformato in radice il concetto stesso di privacy. Tale termine, comunemente utilizzato per richiamare la complessa disciplina sui dati personali, originariamente alludeva esclusivamente alla riservatezza, al right to be let alone. Ad una simile accezione, passiva, se ne sostituisce oggi una attiva, incentrata sulla pretesa dell’individuo di controllare il flusso delle informazioni che lo riguardano. È questo il nucleo essenziale del diritto alla protezione dei dati personali che trova esplicita tutela nelle norme apicali dell’ordinamento europeo: l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e l’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’UE (T.F.U.E.).

Il diritto alla protezione dei dati personali rappresenta, dunque, il nuovo “archetipo” del diritto alla privacy, che è oggi tutelato, in particolare, dal regolamento (UE) n. 679/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), oltre che da vari altri atti normativi italiani e internazionali e dal Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196 del 2003), adeguato alle disposizioni del regolamento (UE) n. 679/2016 tramite il d.lgs. n. 101 del 2018.

Fornendo la definizione di “dato personale”, l’art. 4 del regolamento (UE) n. 679/2016 spiega che si tratta di “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile”. A tal proposito lo stesso articolo specifica che l’interessato si considera identificabile quando è possibile risalire alla sua identità “direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”.

Secondo Sez. L, n. 14270/2022, Spena, Rv. 664611-01, la voce di una persona, registrata da un apparecchio elettronico, costituisce dato personale ex art. 4, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 196 del 2003, ratione temporis applicabile - secondo cui è tale qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione - se ed in quanto la voce in questione consenta di identificare la persona interessata (nella specie, la S.C. ha ritenuto riconducibile alla nozione di “dato personale” la voce degli studenti contenuta nella registrazione di una lezione effettuata da un docente, essendo le persone interessate facilmente identificabili in quanto componenti di una comunità ristretta).

Ogni trattamento di dati personali deve avvenire nel rispetto dei principi fissati all’articolo 5 del regolamento (UE) n. 679/2016: liceità, correttezza e trasparenza del trattamento, nei confronti dell’interessato; limitazione della finalità del trattamento, compreso l’obbligo di assicurare che eventuali trattamenti successivi non siano incompatibili con le finalità della raccolta dei dati; minimizzazione dei dati: ossia, i dati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità del trattamento; esattezza e aggiornamento dei dati, compresa la tempestiva cancellazione dei dati che risultino inesatti rispetto alle finalità del trattamento; limitazione della conservazione: ossia, è necessario provvedere alla conservazione dei dati per un tempo non superiore a quello necessario rispetto agli scopi per i quali è stato effettuato il trattamento; integrità e riservatezza: occorre garantire la sicurezza adeguata dei dati personali oggetto del trattamento.

Il consenso quale base di liceità del trattamento dei dati personali per finalità di marketing risulta essere centrale.

Sez. 1, n. 11019/2021, Lamorgese, Rv. 661184-01, si è, in particolare, pronunciata sulla possibilità di qualificare alla stregua di una ‘‘comunicazione commerciale’’ il contatto telefonico volto a ottenere il consenso al trattamento dei dati personali per finalità di marketing da parte di colui che in precedenza l’aveva negato. Difatti, la finalità alla quale è imprescindibilmente collegato il consenso richiesto per il trattamento dei dati concorre a qualificarlo, ragione per cui il trattamento dei dati dell’interessato allo scopo di chiedere il consenso rappresenta esso stesso un trattamento per finalità di marketing. La Corte, nel caso affrontato, confermando la tesi del Garante, ha precisato che, diversamente opinando, risulterebbe del tutto vanificato il sistema dell’opt-out mediante l’iscrizione al registro pubblico delle opposizioni, previsto dall’art. 130 del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196.

Più di un dubbio, infatti, potrebbe essere avanzato sull’utilità della consultazione del registro prima di effettuare telefonate a scopo di richiesta del consenso per l’offerta di beni e servizi. La Corte ha, così, preferito un’interpretazione più restrittiva, secondo la quale i trattamenti di dati personali effettuati da Telecom nell’ambito della campagna ‘‘recupero consenso’’ devono essere considerati illeciti ai sensi dell’art. 11, comma 2, della precedente versione del c.d. Codice della privacy, la quale prevedeva che “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”

Ai fini della liceità del trattamento dei dati personali, il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento a un trattamento chiaramente individuato.

La S.C. ha precisato che in tema di dati personali, la legittimità del trattamento presuppone un valido consenso dell’interessato, prestato in modo espresso, libero e specifico, in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato. Tale principio rileva e prevale in ogni rapporto, anche di natura associativa, non potendo pertanto ritenersi un trattamento giustificato dal consenso espresso in un deliberato assembleare (Sez. 1, n. 17911/2022, Terrusi, Rv. 665216-01). Nella specie, la S.C. ha ritenuto illegittimo il trattamento dei dati effettuato da una società cooperativa che, con l’approvazione dell’assemblea, aveva pubblicato in bacheca le valutazioni settimanali di ciascun socio lavoratore, identificato con fotografia, nome e cognome, attraverso immagini grafiche - le “faccine” - affiancate da specifiche motivazioni del giudizio in tal modo espresso.

Sez. 1, n. 09919/2022, Terrusi, Rv. 664531-01, ha chiarito che costituisce illecito trattamento di dati sanitari, operato dal Comune, la comunicazione all’Inps di copia integrale del verbale della visita medica eseguita da un suo dipendente, ai fini del riconoscimento della pensione di inabilità, recante, oltre alla valutazione medico legale circa l’idoneità all’impiego, anche altri dati personali che, in quanto relativi alla diagnosi, agli esami obiettivi e agli accertamenti clinici e strumentali svolti, nonché a informazioni anamnestiche, non possono ritenersi indispensabili al buon esito del procedimento e, quindi, devono essere oscurati.

Nella fattispecie sottoposta all’attenzione della S.C., l’istante aveva lamentato che il trattamento era avvenuto in violazione del criterio di indispensabilità, perché l’ente datoriale (il comune), dopo aver ricevuto dall’Asl il verbale integrale di visita con tutte le notizie anche anamnestiche relative alla diagnosi complessivamente resa, aveva poi divulgato quel documento sia all’interno dei suoi uffici, sia all’esterno, trasmettendolo all’istituto previdenziale ancora una volta in forma integrale, senza adottare alcuna misura tesa a oscurarne il contenuto nelle parti non salienti.

L’art. 22 del d.lgs. n. 196 del 2003 (vigente ratione temporis) impone difatti ai soggetti pubblici di conformare il trattamento dei dati sensibili secondo modalità volte a prevenire violazioni dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dell’interessato. E in tal guisa per l’appunto stabilisce che gli enti possono trattare solo i dati sensibili “indispensabili per volgere attività istituzionali che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa”.

Sez. 1, n. 04475/2021, Campese, Rv. 660511-01, ha arricchito il quadro della violazione dei dati personali, giudicando un caso mai affrontato in precedenza. È stata riconosciuta l’illegittimità del comportamento posto in essere dalla compagnia assicuratrice che, nel comunicare al proprio assicurato l’avvenuto risarcimento del danno, ha diffuso anche i codici IBAN delle persone risarcite, determinando così una lesione al proprio diritto di riservatezza. La S.C. ha così sancito che le coordinate bancarie sono da qualificarsi come un dato personale ex art. 4, lett. b) del d.lgs. n. 196 del 2003 (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportategli dal d.l. n. 201 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 214 del 2011) e richiamando un precedente indirizzo della giurisprudenza di legittimità ha altresì indicato le modalità con le quali i dati personali devono essere trattati. La Corte ha precisato che, nel caso di specie, l’obbligo della compagnia assicuratrice di fornire una prova al proprio assicurato dell’avvenuto risarcimento del danno in favore dei ricorrenti “..non può in alcun modo ricomprendere anche la diffusione delle coordinate bancarie delle persone risarcite, atteso che tale trasmissione dei dati  oltre a non essere funzionale all’attività per cui gli stessi erano stati raccolti, neppure era necessaria per adempiere al predetto obbligo”; infatti la diffusione di quei dati ad opera di soggetto diverso dal preposto al trattamento non elide la responsabilità di quest’ultimo, non potendosi comunque escludere l’esistenza del nesso causale tra tale comportamento ed il danno lamentato, qualora risulti che le condotte dei terzi non sarebbero state possibili se non fossero stati resi noti i dati personali dei danneggiati.

Sez. 1, n. 27267/2022, Bisogni, Rv. 665709-01, si è, invece, occupata della violazione dei diritti alla privacy, alla riservatezza e alla dignità di una madre e della figlia neonata, entrambe esposte senza previo consenso a riprese realizzate da una troupe televisiva durante il parto, avvenuto prematuramente per delle complicanze legate alla gravidanza. Le suddette riprese, autorizzate dalla struttura sanitaria e realizzate materialmente per conto di una rete televisiva, erano state mandate in onda nel corso di un programma televisivo, nonostante l’invio di una formale diffida all’utilizzo del materiale.

I giudici di legittimità hanno rilevato che la pubblicazione senza consenso delle riprese in esame, contenenti immagini attinenti alla sfera privata della donna e di sua figlia determina violazione del generale principio del neminem laedere, fonte di responsabilità extracontrattuale, oltre che della responsabilità derivante dalla violazione della normativa sulla protezione dei dati personali. Il trattamento dei dati personali senza il previo consenso dell’interessato è subordinato all’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Tale requisito va inteso in maniera particolarmente rigorosa. In questo caso la pubblicazione di immagini raffiguranti una donna durante il parto ed una bambina durante i suoi primi momenti di vita, peraltro in condizioni complesse dal punto di vista medico, e il rilascio di interviste da parte del personale sanitario sulle condizioni cliniche dei soggetti interessati, sono state ritenute non in linea con la vigente normativa in materia di tutela dei dati personali, con la precisazione che grava sull’autore della violazione l’onere di provare l’essenzialità dell’informazione e l’interesse pubblico sotteso alla sua diffusione, onere che, nel caso in esame, non è stato ritenuto concretamente assolto, dato il generico richiamo alla libertà di espressione e al diritto di cronaca.

In un’altra pronuncia, la S.C. - sul rilievo che la disciplina di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, prescrivendo che il trattamento dei dati personali avvenga nell’osservanza dei principi di proporzionalità, pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti – ha ritenuto che gli spazi condominiali, aperti all’accesso di terzi estranei rispetto al condominio, non possono essere utilizzati per la comunicazione di dati personali riferibili al singolo condomino. Ne consegue che costituisce indebita diffusione dei dati personali ai sensi degli artt. 11 e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003, l’affissione da parte dell’amministratore di un condominio, nell’androne del palazzo accessibile a terzi, di un avviso di convocazione (già in precedenza comunicato ai singoli condomini) con allegato un ordine del giorno contenente la richiesta di conciliazione di un condomino in relazione ad un decreto ingiuntivo intimatogli, atteso che l’esposizione di informazioni sulla sua posizione debitoria rientra nel concetto di “dati personali” il cui trattamento, in quanto inerente dati già in precedenza comunicati ai condomini, deve considerarsi ingiustificato ed eccedente rispetto al fine (Sez. 1, n. 29323/2022, Terrusi, Rv. 665894-01).

Sez. 2, n. 33257/2022, Fortunato, Rv. 666311-01, ha, inoltre, rilevato che, in tema di attribuzione di benefici e sussidi scolastici, le amministrazioni, nel periodo di vigenza dell'art. 1 del d.P.R. n. 118 del 2000, abrogato dall'art. 43, comma 1, del d.lgs. n. 97 del 2016, all'atto della pubblicazione delle graduatorie, erano tenute ad indicare i soli nominativi degli assegnatari e le disposizioni di legge in base alle quali era stato accordato il beneficio. Ha così ritenuto che costituisce violazione del diritto alla riservatezza degli interessati la diffusione di dati personali esorbitanti rispetto all'esigenza di consentire la verifica della regolarità delle assegnazioni, quali l'indirizzo dell'abitazione, il codice fiscale, le coordinate bancarie per l'accredito delle somme, la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce ISEE.

In relazione alla individuazione dei soggetti responsabili del trattamento dei dati personali, si segnala Sez. 6-1, n. 25481/2022, Bisogni, non massimata, che ha rinviato alla pubblica udienza la controversia che poneva la questione in ordine al se l’agenzia di stampa possa essere qualificata come responsabile del trattamento dei dati personali, e quindi responsabile del controllo dell’attualità delle notizie reperibili sulla base di una semplice consultazione tramite internet, nonché l’ulteriore questione relativa al contemperamento del diritto all’oblio con il diritto della collettività all’informazione e alla libertà di stampa.

L’esigenza di tutela della riservatezza che si estrinseca nella protezione dei dati personale deve porsi in bilanciamento con altri diritti parimenti meritevoli di tutela.

Il Considerando 47 del regolamento (UE) n. 679/2016, prendendo in considerazione i legittimi interessi del titolare del trattamento, precisa che tali legittimi interessi, “compresi quelli di un titolare del trattamento a cui i dati personali possono essere comunicati, o di terzi”, costituiscono base giuridica del trattamento “a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato, tenuto conto delle ragionevoli aspettative nutrite dall’interessato in base alla sua relazione con il titolare del trattamento”.

A tale Considerando si lega, in funzione precettiva, l’art. 6 del regolamento, che stabilisce la liceità - appunto - del trattamento se necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali.

Nella stessa ottica, Sez. 1, n. 09922/2022, Terrusi, Rv. 664533-01, ha stabilito, sebbene in ordine al testo del d.lgs. n. 196 del 2003 anteriore al menzionato regolamento, che in tema di tutela della riservatezza ogni trattamento dei dati personali deve essere effettuato nel rispetto del cd. criterio di minimizzazione, vale a dire limitatamente ai dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle relative finalità. In applicazione di tale principio, da mantenere anche per le fattispecie disciplinate dal regolamento (UE) n. 679/2016, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto legittima la comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza di alcuni dati sanitari relativi alla salute psichica del titolare di un porto d’armi, finalizzata alla sua revoca, effettuata da una persona che in precedenza era stata minacciata e che era venuta legittimamente in possesso di tali dati, poiché riportati in documenti prodotti in un giudizio civile del quale entrambi erano stati parte.

Sez. U, n. 08763/2022, Nazzicone, Rv. 664224-02, si è occupata dei rapporti tra l’illecito previsto dall’art. 2, comma 1, lett. n), del (nella specie, l’aver il magistrato, nel presentare la domanda per la copertura del posto di Procuratore della Repubblica, prodotto una dichiarazione d’insussistenza delle cause di incompatibilità ex artt. 18 e 19 ord. giud., sebbene la moglie, svolgesse attività professionale di avvocato presso il Tribunale) e la lamentata violazione del diritto ai dati personali sulla vita privata e l’orientamento sessuale del magistrato e della partner, tutelati dal d.lgs. n. 196 del 2003 e dal regolamento (UE) n. 679/2016. Il giudice di legittimità ha evidenziato che in tema di illecito disciplinare del magistrato, atteso che la previsione delle situazioni di incompatibilità è diretta a tutelare la correttezza e l’imparzialità dell’attività giudiziaria, l’obbligo di comunicare una condizione di convivenza non viola il diritto ai dati personali sulla vita privata e l’orientamento sessuale del magistrato e del partner, rispondendo, invece, al necessario bilanciamento fra il diritto personale alla riservatezza delle situazioni familiari del magistrato (e dei soggetti con lui conviventi) e i primari interessi pubblici coinvolti, tra cui la tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, valore che rientra tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti.

Come precisato da Sez. 2, n. 01263/2022, Marulli, Rv. 663941-01, il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, anche nel vigore della disciplina di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, non è comunque soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso, purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva accolto l’opposizione proposta contro l’ordinanza-ingiunzione, con cui il Garante aveva intimato ad un consulente tecnico nominato dal P.M. ex art. 359 c.p.p. il pagamento di una somma a titolo di sanzione, per aver costituito una banca dati in cui aveva fatto confluire le risultanze acquisite nel corso dello svolgimento di n. 351 incarichi peritali).

Infine, Sez. 6-5, n. 04167/2022, Cataldi, Rv. 663877-01, ha precisato che in tema di diritto all’anonimato nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica, l’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003 legittima alla proposizione della relativa istanza di anonimizzazione delle generalità e degli altri dati identificativi la sola persona dell’“interessato” da individuarsi - per effetto delle modifiche apportate all’art. 4, lett. i), del d.lgs. cit. dall’art. 40 del d.l. n. 201 del 2011, conv. dalla l. n. 214 del 2011, che ha eliminato il riferimento alla persona giuridica - esclusivamente nella persona fisica, la quale può proporla in presenza di motivi “legittimi”, da intendersi come motivi “opportuni”.

2. Diritto alla riservatezza, diritto di cronaca e diritto all’immagine.

Sul necessario contemperamento tra diritto alla riservatezza ed altri diritti di rilievo costituzionale è intervenuta Sez. 6-1, n. 27223/2022, Bisogni, non massimata, che ha affrontato i rapporti tra videosorveglianza contro gli atti vandalici e violazione della privacy del vicino di casa, concludendo nel senso che il vicino di casa che lamenti la videosorveglianza in pregiudizio del proprio diritto alla privacy deve fornire prove idonee a dimostrare la violazione, in modo da consentire il bilanciamento con le esigenze di installazione dell'impianto (nella specie, si era trattato dell’installazione di una telecamera di videosorveglianza all’esterno dell’abitazione della convenuta, per disincentivare i ripetuti danneggiamenti che l’automobile della stessa aveva subito ad opera di vandali, cui si era però opposto l’attore, lamentando come tale installazione interferisse con la propria vita privata, registrando i movimenti della sua porta di ingresso ed essendo altresì puntata verso una sua finestra).

Il diritto all’immagine non è espressamente contemplato dalla Costituzione, anche se l’art. 2 Cost., dopo aver affermato la centralità della tutela della persona nell’ordinamento giuridico nazionale, amplia il novero dei diritti della personalità a quelle situazioni giuridiche soggettive che consentono un pieno ed integrale sviluppo della persona. L’immagine di una persona invece è esplicitamente tutelata dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633.

In particolare, ai sensi dell'art. 10 c.c., nonché degli artt. artt. 96 e 97 della l. cit., la divulgazione dell'immagine senza il consenso dell'interessato è lecita soltanto se e in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione, non anche quando sia rivolta a fini pubblicitari.

La ratio della deroga è ispirata dall'interesse pubblico all'informazione e di conseguenza, avendo carattere derogatorio del diritto alla immagine, quale diritto inviolabile della persona tutelato dalla Costituzione, è di stretta interpretazione.

È doveroso prender le mosse dal fatto che la ratio della deroga alla tutela dell'immagine, che consente la divulgazione del ritratto fotografico di una persona senza il suo consenso, va colta nelle esigenze della pubblica informazione e nel diritto di cronaca in relazione a vicende di interesse pubblico, anch'esso dotato di dignità costituzionale ex art. 21 Cost.

La divulgazione della fotografia, a prescindere dal consenso della persona ritratta, è giustificata dalla notorietà del soggetto ripreso, dall'ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, dalla necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o dal collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie d'interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

Sez. 1, n. 19515/2022, Scotti, Rv. 664972-01, ha affrontato la questione relativa al se la notorietà di un personaggio possa essere rigorosamente delimitata allo stretto ambito delle attività in cui si è inizialmente delineata e da cui è emersa, concludendo nel senso che l’esimente prevista dall’art. 97 della l. n. 633 del 1941, secondo cui non occorre il consenso della persona ritratta in fotografia quando, tra l'altro, la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, ricorre non solo allorché il personaggio noto sia ripreso nell'ambito dell'attività da cui la sua notorietà è scaturita, ma anche quando la fotografia lo ritrae nello svolgimento di attività a quella accessorie o comunque connesse, fermo restando, da un lato, il rispetto della sfera privata in cui il personaggio noto ha esercitato il proprio diritto alla riservatezza, dall’altro, il divieto di sfruttamento commerciale dell'immagine altrui da parte di terzi, al fine di pubblicizzare o propagandare anche indirettamente l’acquisto di beni e servizi (in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto che la notorietà indubbia dell’appellante, scaturente dalle sue imprese sportive del passato e rinvigorita dalla sua carriera politica, parlamentare e governativa in età matura, poteva autorizzare la pubblicazione, senza il suo consenso, di immagini fotografiche della sua persona, ma solo nello stretto contesto in cui lui aveva raggiunto la notorietà, e quindi in ambito strettamente sportivo).

3. Il diritto all’oblio.

Va premesso che il diritto all’oblio è tutelato attraverso l’eliminazione della notizia “da dimenticare” direttamente dalla fonte e la conformazione di tutte le identità personali del soggetto che sono prodotte online.

In tema di diritto alla riservatezza, dal quadro normativo nazionale (art. 2 Cost., art. 10 c.c., e art. 97 l. n. 633 del 1941) ed europeo (artt. 8 e 10, comma 2, CEDU e 7 e 8 della c.d. Carta di Nizza), si ricava che il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza dei seguenti specifici presupposti: -a) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; -b) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali); -c) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica del Paese; -d) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera, diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; -e) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al pubblico.

La deindicizzazione è una delle tre possibili declinazioni del diritto all’oblio: le altre due sono individuate nel diritto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione e quello, connesso all’uso di internet e alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale. Sia la contestualizzazione dell’informazione che la deindicizzazione trovano ragione in un dato che innegabilmente connota l’esistenza umana nell’era digitale: nel mondo segnato dalla presenza di internet, in cui le informazioni sono affidate a un supporto informatico, le notizie sono sempre reperibili a distanza di anni dal verificarsi degli accadimenti che ne hanno imposto o comunque suggerito la prima diffusione. Mette conto solo di rilevare come la deindicizzazione si sia venuta affermando come rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria. In tal senso la deindicizzazione asseconda il diritto della persona a non essere trovata facilmente sulla rete (si parla in proposito di right not to be found easily): lo strumento vale cioè ad escludere azioni di ricerca che, partendo dal nome della persona, portino a far conoscere ambiti della vita passata di questa che siano correlati a vicende che in sé - si badi - presentino ancora un interesse (e che non possono perciò essere totalmente oscurate), evitando che l’utente di internet, il quale ignori il coinvolgimento della persona nelle vicende in questione, si imbatta nelle relative notizie per ragioni casuali, o in quanto animato dalla curiosità di conoscere aspetti della trascorsa vita altrui di cui la rete ha ancora memoria (una memoria facilmente accessibile, nei suoi contenuti, proprio attraverso l’attività dei motori di ricerca)

La deindicizzazione ha, così, riguardo all’identità digitale del soggetto e ciò in quanto l’elenco dei risultati che compare in corrispondenza del nome della persona fornisce una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet.

L’attività del motore di ricerca si mostra in altri termini incidente sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali. Tuttavia, poiché la soppressione di link dall’elenco di risultati potrebbe avere, a seconda dell’informazione in questione, ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima, occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona di cui trattasi, derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Occorre però considerare che questa esigenza di bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e l’interesse della collettività ad essere informata - cui si correla l’interesse dei media a informare - permea l’intera area del diritto all’oblio, di cui quello alla deindicizzazione può considerarsi espressione.

È da rammentare, in proposito, che attraverso la deindicizzazione l’informazione non viene eliminata dalla rete, ma può essere attinta raggiungendo il sito che la ospita (il cosiddetto sito sorgente) o attraverso altre metodologie di ricerca come l’uso di parole-chiave diverse.

Sotto altro aspetto, la copia cache dei siti internet indicizzati consente al motore di ricerca di fornire una risposta più veloce ed efficiente all’interrogazione posta dall’utente attraverso una o più parole chiave. La cancellazione di esse preclude al motore di ricerca, nell’immediato, di avvalersi di tali copie per indicizzare i contenuti attraverso parole chiave anche diverse da quella corrispondente al nome dell’interessato. Detta cancellazione impedisce, inoltre, l’utilizzo di nuove copie cache che siano equivalenti a quelle cui si riferisce l’adottata statuizione, nella misura in cui si ritenga che tale ordine abbia il contenuto di una “ingiunzione dinamica”, estendendo la propria portata a tutte le copie, di contenuto sostanzialmente invariato rispetto a quelle cui si riferisce l’ordine, che il motore di ricerca possa realizzare nel futuro

Sez. 1, n. 03952/2022, Falabella, Rv. 664161-02, si è occupata dei rapporti tra deindicizzazione e cancellazione delle copie cache dalle pagine accessibili attraverso gli URL indicati, precisando che a fronte della richiesta di cancellazione delle copie cache rimane centrale l’esigenza di ponderare gli interessi contrapposti. Ma il bilanciamento da compiersi non coincide, in questo caso, con quello operante ai fini della deindicizzazione, giacché l’eventuale sacrificio del diritto all’informazione non ha ad oggetto una notizia raggiungibile attraverso una ricerca condotta a partire del nome della persona, in funzione del richiamato diritto di questa a non essere trovata facilmente sulla rete, riguardando la notizia in sé considerata, siccome raggiungibile attraverso ogni diversa chiave di ricerca. Il diritto all’informazione è, cioè, sempre collegato all’attività del motore di ricerca di cui si avvale l’utente, ma in funzione della residua capacità di questo di indirizzare all’informazione attraverso distinte e ulteriori modalità di interrogazione. Come è evidente, dunque, poiché attraverso l’ordine di cancellazione delle copie cache si esclude o si rende più difficoltoso il reperimento, da parte del motore di ricerca, della notizia attraverso l’uso di parole chiave, in questo caso, si delinea la necessità di una ponderazione che tenga conto non più dell’interesse a che il nome della persona sia dissociato dal motore di ricerca dall’informazione di cui trattasi, ma dell’interesse a che quella informazione non sia rinvenuta attraverso un qualsiasi diverso criterio di interrogazione. Pertanto deve concludersi nel senso che la cancellazione delle copie cache relative a una informazione accessibile attraverso il motore di ricerca, in quanto incidente sulla capacità, da parte del detto motore di ricerca, di fornire una risposta all’interrogazione posta dall’utente attraverso una o più parole chiave, non consegue alla constatazione della sussistenza delle condizioni per la deindicizzazione del dato a partire dal nome della persona, ma esige una ponderazione del diritto all’oblio dell’interessato col diritto avente ad oggetto la diffusione e l’acquisizione dell’informazione, relativa al fatto nel suo complesso, attraverso parole chiave anche diverse dal nome della persona.

Sez. 1, n. 21415/2022, Nazzicone, Rv. 665515-01, ha precisato che in tema di tutela della riservatezza, la doglianza di un soggetto terzo che prospetti l’illegittimo trattamento dei dati personali per effetto della pubblicazione sul sito internet di una delle Camere degli atti di una Commissione parlamentare d’inchiesta, recanti informazioni incomplete sulla sua persona, non rientra nella giurisdizione della Camera che ha effettuato la pubblicazione, quale espressione di autodichia, posto che quest’ultima riguarda solo le questioni interne agli organi costituzionali. L’azione a tutela dei dati personali non è tuttavia proponibile neppure davanti al giudice ordinario, come è stabilito dall’art. 8 del d.lgs. n. 196 del 2003, poiché l’attività delle Commissioni d’inchiesta rientra nella più lata attività ispettiva di ciascuna delle Camere su questioni di rilevante interesse pubblico. È per questo che, nella specie, la S.C. ha cassato senza rinvio la decisione di merito, rilevando l’improponibilità della domanda con cui un cittadino italiano aveva prospettato l’illegittimo trattamento dei propri dati a causa della pubblicazione sul sito internet del Senato degli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta relativi al “sequestro Aldo Moro”, dai quali emergeva la sua imputazione per alcuni reati, senza che fosse resa nota anche la sua successiva assoluzione.

Peraltro, la stessa sentenza si è occupata del diritto alla cancellazione o alla deindicizzazione dei dati inclusi negli atti della Commissione bicamerale di inchiesta (sempre riferita al sequestro di Aldo Moro). In particolare, la S.C. ha evidenziato che l’art. 8 del d.lgs. n. 196 del 2003, sotto la rubrica “Esercizio dei diritti”, stabilisce che i diritti di cui all’art. 7, come quello alla cancellazione o deindicizzazione del dato, “non possono essere esercitati con richiesta al titolare o al responsabile o con ricorso ai sensi dell’art. 145, se i trattamenti di dati personali sono effettuati: c) da Commissioni parlamentari d’inchiesta istituite ai sensi dell’art. 82 Cost.”. Sono, infatti, coinvolti rilevanti profili pubblicistici negli atti parlamentari, donde la necessaria pubblicità (cfr. in generale l’art. 64 Cost., circa la pubblicità dell’attività conoscitiva e legislativa del Parlamento), attraverso la quale si esplica la sovranità popolare, ai sensi dell’art. 1 Cost. In altri termini, l’attività di inchiesta delle Camere rientra nella più lata nozione di attività ispettiva di competenza istituzionale di ciascuna di esse, volta all’acquisizione di informazioni su materie di pubblico interesse, secondo la lettera dell’art. 82, comma 1, Cost., alla cui stregua ciascuna camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse, nella più piena espressione della sovranità popolare. Da tali premesse, emerge come, in taluni casi – nei quali sono coinvolti diritti ed interessi ritenuti dal legislatore primari nel bilanciamento con altri diritti ed interessi - viene meno la possibilità di proporre ricorso ai fini dei dati personali e del diritto relativo. La ratio della menzionata disciplina consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra il diritto alla protezione dei dati personali e quello di conoscere gli snodi di vicende che, come dimostra l’essere state demandate all’attenzione di una Commissione di inchiesta parlamentare, quale diretta espressione della sovranità popolare, hanno acquisito una importanza peculiare nella storia repubblicana.

4. Trattamento dei dati personali: profili processuali.

Di particolare rilievo sono le pronunce che nell’anno in rassegna esaminano aspetti processuali in riferimento alle controversie in materia di trattamento dei dati personali.

Sez. 2, n. 29049/2022, Falaschi, non massimata, ha precisato che in tema di protezione dei dati personali, il privato che impugni il provvedimento del Garante non può limitarsi a denunciare la mancata comunicazione di avvio del procedimento e la lesione della propria pretesa partecipativa, ma deve indicare o allegare gli elementi di fatto o valutativi che, se acquisiti, avrebbero potuto influire sulla decisione finale, poiché le garanzie procedimentali non costituiscono un mero rituale formalistico e il menzionato difetto di comunicazione è ininfluente, ove risulti che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Sez. 1, n. 03952/2022, Falabella, Rv. 664161-01, ha affrontato la questione del potere del Garante per i dati personali di emettere i provvedimenti che è titolato a pronunciare secondo la legge italiana nei confronti di un soggetto estero che opera al di fuori del territorio nazionale. La S.C. muove dall’art. 4.1, lett. a), della direttiva 95/46/CE, ove è previsto che ciascuno Stato membro applica le disposizioni nazionali adottate per l’attuazione di tale direttiva al trattamento di dati personali effettuato nel contesto delle attività di uno stabilimento del responsabile del trattamento nel territorio dello Stato membro. Da tale premessa – richiamando la giurisprudenza comunitaria - conclude nel senso che l’art. 4.1, lett. a), della direttiva 95/46/CE consente l’applicazione della legge in materia di protezione dei dati personali di uno Stato membro diverso da quello nel quale il responsabile del trattamento di tali dati è registrato, purché il medesimo svolga, tramite un’organizzazione stabile nel territorio di tale Stato membro, un’attività effettiva e reale, anche minima, nel contesto della quale si svolge il trattamento in questione. In altri termini, il trattamento dei dati personali, ove sia attuato nel contesto di uno stabilimento del responsabile del trattamento ubicato nel territorio italiano, è soggetto alle disposizioni nazionali che regolano l’attività dell’Autorità garante italiana per la protezione dei dati personali.

Infine, in tema di sanzioni amministrative comminate per la violazione del diritto alla riservatezza, deve essere menzionata Sez. 2, n. 33257/2022, Fortunato, Rv. 666311-02, secondo la quale l’Amministrazione che abbia pubblicato dati sensibili relativi ai vincitori di un bando per l’assegnazione di sovvenzioni e sussidi scolastici, non può superare la presunzione di colpa, dettata dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981, sostenendo di essersi conformata a un provvedimento dirigenziale provinciale, qualora non abbia fatto il possibile per evitare la violazione contestata, eventualmente attivandosi per ricevere un qualificato ed affidabile riscontro della liceità della pubblicazione.

5. Identità, nome, origini.

Il diritto all’identità personale tende ad irradiarsi anche in altre direzioni, venendo tuttavia a perdere i caratteri dell’assolutezza, per essere costantemente contemperato con altri interessi di pari rango.

Rientra così nell’ambito dell’identità personale a compasso allargato il diritto del figlio nato da parto anonimo di conoscere le proprie origini (anche in base all’art. 8 CEDU), ma i poteri che egli può esercitare a tal fine sono limitati dal correlato diritto della madre a mantenere l’anonimato (Sez. 1, n. 07093/2022, Iofrida, Rv. 664167-01). Di conseguenza, se, per un verso, deve consentirsi al figlio di interpellare la madre biologica al fine di sapere se intenda revocare la propria scelta, per altro verso occorre tutelare anche l’equilibrio psico-fisico della genitrice, sicché il diritto all’interpello non può essere attivato qualora la madre versi in stato di incapacità, anche non dichiarata, e non sia pertanto in grado di revocare validamente la propria scelta (in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto che l’interpello avesse avuto esito negativo, dopo aver accertato, in punto di fatto, che la donna aveva dimostrato una grave compromissione delle facoltà cognitive e volitive, non essendo stata in grado di esprimere la propria volontà e neppure di ricordare l’evento che le veniva rappresentato). Nella vicenda sottoposta all’attenzione della S.C., i giudici di legittimità hanno evidenziato che il diritto all’oblio della donna, inteso sia come suo diritto di dimenticare sia come diritto di essere dimenticata, era ancora sussistente e meritevole di protezione, rimarcando che la madre non aveva mai avuto contatti e notizie del figlio per oltre quarant’anni e, date le condizioni mentali in cui versava, aveva trovato una sua compensazione attraverso l’oblio dell’evento della nascita del figlio, mentre una rievocazione di quell’evento avrebbe potuto pregiudicare il suo attuale stato psichico (trattandosi di donna affetta da oligofrenia).

Non rileva, ai fini dell’applicazione di queste regole, l’abrogazione dell’art. 177, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, che aveva sostituito all’art. 28 della l. n. 183 del 1984, il comma 7, che inibiva il diritto alla conoscenza delle origini del nato da parto anonimo, sia perché il limite alla conoscenza di cui all’art. 28, comma 7, era già stato introdotto con la l. n. 149 del 2001, sia perché deve tenersi conto dell’intervento additivo di principio, cui ha provveduto la Corte costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013.

Sempre in tema di diritto del figlio nato da parto anonimo di conoscere le proprie origini, Sez. 1, n. 26616/2022, Iofrida, Rv. 665942-01, si è posta il problema relativo al se, oltre ai diritti e agli interessi della madre (nel caso sia deceduta) e del figlio, in tali casi, vengano in rilievo anche diritti ed interessi di terzi, segnatamente del nucleo familiare della madre e, in caso positivo, come detti diritti ed interessi debbano bilanciarsi. La S.C. ha individuato un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi in gioco, affermando che il diritto dell’adottato ad accedere alle informazioni concernenti le proprie origini e a conoscere l’identità della madre biologica, che alla nascita abbia dichiarato di non volere essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000, sussiste anche quando quest’ultima sia deceduta, dovendo comunque essere esercitato in modo corretto e lecito, circondato da cautele a protezione del nucleo familiare e relazionale costituito dopo l’esercizio del diritto all’anonimato della donna; nel bilanciamento dei valori, tuttavia, stante l’ampiezza che deve essere riconosciuta al diritto all’accertamento dello status di figlio, la tutela dei diritti degli eredi e dei discendenti della madre non può che recedere di fronte alla tutela del diritto del figlio che rivendica il proprio status, sicché, venuta meno l’esigenza di salvaguardare la vita e la salute di quest’ultima, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione ma anche per la proposizione dell’azione di accertamento dello status di figlio naturale.

6. La libertà religiosa e i suoi attuali confini.

In materia di libertà religiosa, merita una particolare segnalazione Sez. 1, n. 23805/2022, Lamorgese, Rv. 665372-01, che ha precisato come in tema di protezione internazionale, la nozione di libertà religiosa comprenda la libertà del cittadino di praticare fedi non ammesse dallo Stato, senza subire intimidazioni e costrizioni che, in quanto tali, possono configurarsi come atti di persecuzione, ai sensi degli artt. 7 e 8, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, anche se posti in essere dalle autorità statali o con provvedimenti di tipo legislativo, amministrativo, giudiziario o di polizia (nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva escluso l’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla “Chiesa di Dio Onnipotente”, per il solo fatto che, trattandosi di associazione religiosa clandestina e vietata, ella avrebbe potuto manifestare la propria libertà religiosa aderendo ad un culto ammesso o non segreto).

7. La protezione contro le condotte discriminatorie.

Il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge ed alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dai relativi trattati cui tutti gli Stati membri dell’UE hanno aderito, relativi rispettivamente ai diritti civili e politici ed ai diritti economici, sociali e culturali, dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di cui tutti gli Stati membri sono firmatari.

Nel diritto sovranazionale il principio di non discriminazione è altresì enunciato dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti Fondamentali della Unione Europea.

A seguito delle modifiche operate dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, l’attuale assetto ordinamentale giuridico dell’Unione prevede il T.U.E., che si occupa della discriminazione agli artt. 2, 3 e 6 (da cui si evince che l’Unione è fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e che combatte ogni forma di discriminazione) e il T.F.U.E., che dedica alla discriminazione gli artt. 10 e 19 (in cui si ribadisce che l’Unione, nella definizione ed attuazione delle sue politiche e azioni, mira a combattere ogni forma di discriminazione fondata su sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale).

Assume poi rilievo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 da Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione, che riprende con adattamenti la Carta adottata nell’ambito del Consiglio Europeo di Nizza del 2000 e che, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha il medesimo valore giuridico dei trattati (art. 6 T.U.E.), ponendosi, dunque, come pienamente vincolante per le istituzioni Europee e gli Stati membri, allo stesso livello dei trattati e protocolli ad essi allegati; anche gli Stati membri sono tenuti a conformarvisi ma soltanto allorquando si trovino a dare attuazione al diritto dell’Unione.

La Carta proclama la centralità della persona fondata su valori indivisibili ed universali: libertà umana, uguaglianza e solidarietà. L’art. 21 vieta qualsiasi forma di discriminazione. Ciò significa che è possibile contestare sia la normativa dell’UE che la legislazione nazionale che attua il diritto dell’Unione, qualora si ritenga che la Carta non sia stata rispettata.

Nell’ordinamento interno il principio di non discriminazione trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 2 e 3 Cost. e dunque, nel riconoscimento e nella garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in cui si svolge la sua personalità, oltre che nel principio di uguaglianza formale - che impone di trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni diverse in modo diverso - espresso attraverso una serie di divieti specifici di discriminazione (per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) nonché nel principio di uguaglianza sostanziale che assegna allo Stato il compito di creare azioni positive per rimuovere quelle barriere di ordine sociale ed economico che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

La discriminazione diretta si basa sulla differenza nel trattamento riservato a una persona e si caratterizza in primo luogo con il compimento di un trattamento sfavorevole. La sua individuazione può essere relativamente semplice rispetto alla discriminazione indiretta, per la quale sono spesso necessari dati statistici. Il trattamento sfavorevole assume rilievo, nel configurare la discriminazione, qualora sia tale rispetto al trattamento riservato a un’altra persona che si trovi in situazione analoga. È quindi necessario un “termine di confronto”, vale a dire una persona in circostanze materiali paragonabili, che si differenzi dalla presunta vittima principalmente per la caratteristica che forma oggetto del divieto di discriminazione.

Si possono cogliere in giurisprudenza tre elementi che danno luogo ad una discriminazione illegittima: -a) la differenziazione tra persone - o gruppi - nella medesima situazione o condizione; -b) la carenza di una adeguata e ragionevole giustificazione di tale differenziazione; -c) la sproporzione tra la giustificazione stessa ed i mezzi utilizzati (cfr. Corte EDU, sentenza 7 gennaio 2014, C-77/07, Cusan e Fazzo c. Italia).

In tale quadro, assume particolare rilievo Sez. U, n. 03057/2022, Scarpa, Rv. 663838-01, adottata in sede di regolamento preventivo di giurisdizione tra giudice italiano e giudice straniero. La materia del contendere ha riguardato la prospettazione, quali condotte discriminatorie, delle limitazioni al tesseramento di atleti provenienti da altri Stati dell’Unione europea, contenute nei regolamenti di una federazione sportiva italiana.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto che l’azione promossa contro un atto di una federazione sportiva che produce una discriminazione per motivi di nazionalità in relazione al tesseramento degli atleti, esula dalla giurisdizione amministrativa prevista dall’art. 3 del d.l. n. 220 del 2003, conv., con modif., dalla l. n. 280 del 2003 (riferita alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di atti delle federazioni sportive, che si configurano come decisioni amministrative aventi rilevanza per l’ordinamento statale), ma rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, essendo finalizzata alla tutela di un diritto soggettivo della persona, qualificabile come diritto assoluto.

Particolare rilievo assume in argomento Sez. 1, n. 07415/2022, Iofrida, Rv. 664313-01. In tale pronuncia, la Corte di cassazione, muovendo dalla circostanza che i termini “sesso” e “genere” hanno significati differenti - dovendo il primo essere riferito a una condizione biologica (l’essere uomo o donna) e il secondo a una rappresentazione psicologico-simbolica ovvero culturale dell’identità maschile o femminile (il divenire maschio o femmina), trattandosi di due aspetti dell’identità sessuale che, in quanto distinti, possono divergere ed entrare in tensione proprio nelle persone transessuali - ha riconosciuto l’applicazione a favore di persona transgender del d.lgs. n. 196 del 2007, adottato in attuazione della direttiva 2004/113/CE (nel testo modificato nel 2008), per disciplinare la tutela contro condotte discriminatorie sulla base del sesso, nella specie tra uomini e donne, nell’accesso di beni e servizi. Secondo la S.C., la sfera di applicazione della direttiva non può essere ridotta soltanto alle discriminazioni derivanti dall’appartenenza all’uno o all’altro sesso, potendo anche applicarsi alle discriminazioni che hanno origine nel mutamento del sesso dell’interessato, in quanto siffatte discriminazioni si basano intrinsecamente, se non esclusivamente, su di esso. In altri termini, la Corte ha ritenuto che la disciplina antidiscriminatoria per ragioni di sesso nell’accesso a beni e servizi vada estesa alle ipotesi, quale è quella esaminata, in cui il soggetto che denuncia la discriminazione sia persona transgender, in quanto l’identità di genere è compresa in quella di sesso tutelato dalla direttiva sopra menzionata e dalla normativa italiana di attuazione.

In tema di protezione internazionale, occorre richiamare Sez. 3, n. 08980/2022, Travaglino, Rv. 664256-01, ove la S.C. ha evidenziato che il rischio di assoggettamento a pratiche di mutilazioni genitali femminili (c.d. infibulazione) costituisce elemento rilevante per la concessione della tutela umanitaria, nonché per il riconoscimento della protezione internazionale sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, rappresentando dette pratiche, per la persona che le subisce o rischia di subirle, un trattamento oggettivamente inumano e degradante ed, anzi, ove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, al fine di realizzare un trattamento ingiustamente discriminatorio, diretto o indiretto, della donna, possono sussistere, in relazione alla previsione di cui all’art. 7, lett. a) ed f), del citato d.lgs. n. 251, anche i presupposti per la concessione dello status di rifugiato. Detta tutela, secondo la Corte, va riconosciuta anche quando il richiedente è di sesso maschile ed è esposto al rischio di un trattamento persecutorio religioso per aver cercato di sottrarre una familiare alla mutilazione.

Sez. 1, n. 08241/2022, Lamorgese, Rv. 664361-01, ha invece escluso il carattere discriminatorio della normativa italiana, nella parte in cui non prevede il diritto alla pensione di reversibilità in favore del partner superstite dello stesso sesso, in presenza di una relazione affettiva stabile ed equivalente a quella del coniuge conclusasi prima della l. n. 76 del 2016. La S.C. ha prima di tutto evidenziato che le disposizioni a tutela delle unioni civili sono state introdotte senza una espressa previsione di retroattività e che pertanto non è invocabile un diritto alla pensione di reversibilità a favore del partner di una relazione di fatto stabile e di lunga durata svoltasi e conclusasi - a causa del decesso dell’altro partner - prima della entrata in vigore della l. n. 76 del 2016. Ha, in particolare, evidenziato che non vi è alcuna discriminazione, poiché tali conclusioni valgono anche per i casi di convivenza tra persone dello stesso sesso, tenuto conto che la mancata inclusione fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità della persona unita ad un’altra in una relazione di fatto rinviene una non irragionevole giustificazione nella circostanza che la pensione di reversibilità si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico formalizzato che qui per definizione manca.

Relativamente agli aspetti probatori, com’è noto, l’art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, prevede che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.

In generale, si riconosce che caratteristica determinante dell’illecito sia quella di creare un effetto di ingiustificata diseguaglianza, in quanto conseguenza immediata, diretta ed esclusiva di una determinata caratteristica della persona, che sia stata ritenuta rilevante dall’ordinamento come “fattore di rischio”. A fronte di indizi offerti dall’attore in giudizio in ordine ad un tale trattamento deteriore collegabile ad un suo fattore di rischio, fonte di diseguaglianza, comportamento che si presume discriminatorio, il convenuto dovrà offrire elementi in grado di far acclarare l’insussistenza del fatto presunto a lui contestato, cioè la discriminazione, in quanto la medesima scelta sarebbe stata operata nei confronti di qualsiasi altra persona, che si fosse trovata nella stessa posizione.

Sul punto, si rinvia ai prossimi paragrafi in cui vengono esaminate le statuizioni relative alle condotte discriminatorie nei confronti dei disabili.

8. I diritti dei disabili.

Il valore costituzionale fondante dei diritti dei disabili può dirsi rappresentato a livello costituzionale dalla pienezza dello sviluppo della personalità dell’individuo secondo il principio di uguaglianza e di libertà di cui agli articoli 3 e 2 Cost., ossia attraverso il riconoscimento pieno della loro pari dignità sociale rispetto ai soggetti “abili”.

Si tratta di un’affermazione che, nella sua icasticità, potrebbe essere percepita come scontata, mentre essa rappresenta il vero punto di arrivo di un processo secolare di riscatto delle persone disabili in difficile contrapposizione rispetto ad una cultura egemone di “abilismo” che genera, a sua volta, discriminazione nei confronti di chi non rientra nella norma dell’essere “sano”.

Alla luce di questa premessa è possibile, così, delineare il contenuto dei diritti che riguardano il disabile, ma anche la definizione di disabilità che supera ormai l’originaria idea di handicap (inteso come svantaggio in assoluto) per approdare ad una concezione assai più dinamica tendente a rappresentare l’aspetto soprattutto sociale della menomazione come realizzazione della persona in quanto essere umano, ossia partendo dalla sua centralità.

In questo senso il nuovo sistema classificatorio delle disabilità adottato dall’Oms propone un approccio integrato al problema che muove, soprattutto, dall’analisi della menomazione non in astratto, ma relativamente ad un particolare contesto sociale o ambientale e che possiamo condensare nell’idea di disabilità come condizione di salute in un ambiente sfavorevole.

Il vasto repertorio di tutele nei confronti delle persone con disabilità, che si configura come di multilivello, va individuato, innanzitutto, sul piano nazionale a livello costituzionale e di normazione ordinaria, nonché sovranazionale (internazionale ed euro unitario) orientato a realizzare politiche attive di inclusione sociale e antidiscriminatorie e di pari opportunità per pari diritti.

8.1. La tutela multilivello.

Prendendo le mosse dal livello nazionale della tutela offerta del nostro ordinamento, possiamo aggiungere ai già menzionati articoli 2 e 3 Cost. tutto quello che è il catalogo costituzionale dei diritti sociali con riferimento agli articoli 4, 32, 34 e 38 Cost.

Va, di poi, menzionata la legge quadro n. 104 del 1992, chiamata a dettare i criteri generali d’inclusione sociale e di diretta partecipazione alla vita attiva da parte del disabile.

Molto recentemente (30 dicembre 2021) è stata, infine, pubblicata la legge delega n. 227 del 2021 per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di disabilità, in attuazione della Missione 5 “Inclusione e Coesione” Componente 2 “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore” del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La nuova legge delega si concretizzerà, in vista della realizzazione di un progetto di vita personalizzato e partecipato che realizzi per il disabile un’effettiva inclusione nella società, attraverso l’emanazione di una serie di decreti delegati diretti a riscrivere e razionalizzare tutti gli accertamenti che riguardano lo stato di disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa, fino alle valutazioni sul possesso dei requisiti per accedere alle agevolazioni fiscali, tributarie e della mobilità, da adottare entro 20 mesi prevedendo, infine, l’istituzione di un Garante nazionale della disabilità.

Da un punto di vista della tutela internazionale va ricordata la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’assemblea generale delle Nazioni unite il 13 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008, perché possa dirsi realizzato il noto principio di partecipazione ed interlocuzione del disabile del nothing about us, without us che stabilizza a livello internazionale il riconoscimento dei diritti, superando così l’idea che la menomazione riguardi una situazione irreversibile, rispetto alla quale l’ordinamento può solo intervenire con provvidenze ed aiuti materiali.

Può dirsi, infatti, che la prospettiva, in questo senso, si è capovolta perché, secondo i principi della Convenzione, è la stessa società che può impedire con strutture e infrastrutture inadeguate una piena partecipazione del disabile alla vita collettiva.

Anche per quanto riguarda gli interventi del Consiglio d’Europa, il catalogo delle tutele va riconnesso al sistema della Carta sociale Europea, così come alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in ragione, soprattutto, di un’interpretazione evolutiva che ha coinvolto la giurisprudenza della Corte EDU, in tema di divieto di discriminazione (art. 14 CEDU) e di promozione di diritti e di garanzia di piena partecipazione del disabile (da ricordare, in proposito, le raccomandazioni Rec (2006) 5 del Comitato dei ministri, nonché le raccomandazioni nn. 1185 (1992) e 1592 (2003) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

La Corte di Strasburgo, recentemente, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 14 della Convenzione e dell’articolo 2 del Protocollo n.1 (“Diritto all’istruzione”) per il caso di un’alunna della classe elementare affetta da autismo, sul rilievo che non risultavano adottate quelle misure, orientate al c.d. accomodamento ragionevole, capaci di garantire la frequenza della scuola elementare, pur senza imporre all’amministrazione un onere sproporzionato o eccessivo (cfr. Corte EDU, sentenza del 10 settembre 2020, C-24888/03, G.L. c. Italia; v. anche Corte EDU, sentenza del 9 luglio 2015, C-42219/07, Gherghina c. Romania, in tema di accessibilità all’edificio universitario in rapporto al diritto di istruzione superiore).

Le decisioni citate si pongono in linea con la strategia europea sulle disabilità, intesa come garanzia di pari diritti e, in particolare, al diritto ad un’istruzione di qualità per tutto l’arco della vita attraverso l’inclusione dei bambini e degli adulti con disabilità nel sistema scolastico, nonché il diritto di trovare e di mantenere un posto di lavoro per poter realizzare la propria personalità privilegiando le specifiche potenzialità individuali.

Il quadro si completa con l’adesione dell’UE nel 2009 alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e con la direttiva 2000/78/CE che ha definito la strategia di contrasto alle discriminazioni oltre alla risoluzione del Parlamento europeo del 7 ottobre 2021 sulla protezione delle persone con disabilità.

Sappiamo che molte delle conquiste recenti in tema di disabilità sono dovute a consistenti movimenti di opinione sostenuti dai c.d. disability studies a partire dagli anni 60 a livello europeo sulla scia del movimento per i diritti civili. Tuttora è in corso in molti paesi, europei e non, il processo di adattamento delle legislazioni nazionali rispetto alle misure adottate per applicare la Convenzione ONU sulla disabilità che sollecitano un cambiamento di paradigma che, per quanto riguarda i disabili, non è che lo specchio della progressiva lotta per il rispetto dei diritti umani e della ricerca di modelli sempre più avanzati di integrazione capaci di superare una visione esclusivamente protettiva delle persone che si è, purtroppo, aggravata durante la crisi pandemica e che ha costretto a vere e proprie privazioni della libertà i disabili.

Ciò premesso, va detto che il ruolo della giurisprudenza di legittimità nelle attività di inclusione appare cruciale essendo chiamata ad inverare la rimozione di tutti quegli ostacoli di natura pregiudiziale, non soltanto di carattere economico, ma di riconoscimento della vulnerabilità come cifra della condizione umana del disabile e di interventi pubblici di tutela e socializzazione.

In conclusione, al disabile va garantita una protezione giurisdizionale adeguata e conseguente al pieno riconoscimento dei suoi diritti fondamentali nella convinzione che si tratti di un catalogo non negoziabile da porre sullo stesso piano dei diritti inviolabili perché espressione di principi costituzionali.

Si tratta di un punto d’arrivo cui ha molto contribuito la giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha consentito, nella ricostruzione di un vero e proprio statuto vivente dei diritti dei disabili, al riconoscimento della garanzia dei loro diritti sociali.

8.2. Il diritto del disabile come diritto sociale.

Alcune pronunce della S.C. si muovono nel solco di un’evoluzione significativa del diritto del disabile, inteso come diritto sociale fondamentale, tendendo a superare lo schema più datato che lo vorrebbe relegare, non al semplice diritto ad una prestazione positiva da parte dell’ordinamento, ma al rafforzamento, conformemente all’evoluzione giuridica, del riconoscimento del diritto in questione, laddove già conformato e perfetto.

In proposito, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 01781/2022, Manzon, Rv. 663724-01), hanno affermato che la domanda di condanna dell’ASL al riconoscimento del diritto di un disabile ad uno specifico ed individualizzato trattamento terapeutico, sia in modalità diretta che per equivalente monetario, rientri nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 104 del 2010, non essendo dubbio che, in presenza di un “pubblico servizio”, debba considerarsi impugnabile, quale “provvedimento negativo”, l’omissione provvedimentale della P.A. sanitaria in relazione alle specifiche richieste azionate giudizialmente.

In motivazione si precisa che, non trattandosi, nella specie, di un’ipotesi in cui è contestata la mancata esecuzione di un “programma individuale” di intervento terapeutico in favore del soggetto disabile, essendo richiesto un ampliamento del programma medesimo con una specifica prestazione (diretta o indennitaria), viene implicata l’attività discrezionale, sia amministrativa che tecnica, della ASL, con la conseguenziale devoluzione della controversia al giudice amministrativo, in virtù della citata disposizione del d.lgs. n. 104 del 2010 (cfr. Sez. U, n. 20164/2020, Giusti, Rv. 658855-01, in tema di inclusione scolastica).

8.3. Diritto all’istruzione.

Il diritto all’istruzione del disabile è stato affermato già da Sez. U, n. 25011/2014, Giusti, Rv. 633145-01, con riferimento agli obblighi della scuola nel processo di inserimento scolastico, laddove fossero state già determinate le ore di sostegno programmate nel cosiddetto PEI (Piano Educativo Individuale) che, come noto, costituisce il documento centrale dell’integrazione scolastica dell’alunno disabile.

In tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno ritenuto che il piano educativo individualizzato, definito ai sensi dell’art. 12 della l. n. 104 del 1992, obbliga l’amministrazione scolastica a garantire il supporto per il numero di ore programmato, senza lasciare ad essa il potere discrezionale di ridurne l’entità in ragione delle risorse disponibili, e ciò anche nella scuola dell’infanzia, pur non facente parte della scuola dell’obbligo. Quindi, la condotta dell’Amministrazione che non appresti il sostegno pianificato si risolve nella contrazione del diritto del disabile alla pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, la quale, ove non accompagnata dalla corrispondente riduzione dell’offerta formativa per gli alunni normodotati, concretizza discriminazione indiretta, la cui repressione spetta al giudice ordinario (nello stesso senso, v. Sez. U, n. 09966/2017, Giusti, Rv. 643785-01; v. anche Sez. U, n. 25101/2019, Bisogni, Rv. 655502-01, e Sez. U, n. 09966/2017, Giusti, Rv. 643785-02, con riferimento alla scuola paritaria).

In linea con i precedenti, Sez. U, n. 20164/2020, Giusti, Rv. 658855-01, ha affermato che spetta al giudice ordinario (e non al giudice amministrativo) conoscere della controversia relativa alla mancata attuazione, in favore di una persona disabile, del progetto individuale predisposto dalla P.A. ai sensi dell’art. 14 l. n. 328 del 2000 poiché, a seguito dell’adozione di tale progetto, il portatore di disabilità diviene titolare di una posizione di diritto soggettivo alla concreta erogazione delle prestazioni e dei servizi ivi programmati, per il cui espletamento non è richiesto l’esercizio di alcuna potestà autoritativa (le Sezioni Unite hanno affermato il principio, risolvendo un conflitto negativo di giurisdizione in un giudizio promosso dall’amministratore di sostegno di un soggetto disabile, al fine di ottenere l’accertamento della natura discriminatoria del comportamento della P.A., che non aveva attivato i servizi previsti nel progetto individuale, e la condanna di quest’ultima alla immediata attivazione di tali servizi, oltre al risarcimento del danno).

Per quanto riguarda, invece, le controversie concernenti la declaratoria della consistenza dell’insegnamento di sostegno ed afferenti alla fase che precede la redazione del PEI, esse sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), d.lgs. cit., atteso che, in tale fase, sussiste ancora, in capo all’Amministrazione scolastica, il potere discrezionale, espressione dell’autonomia organizzativa e didattica, di individuazione della misura più adeguata al sostegno, il cui esercizio è precluso, invece, dalla successiva formalizzazione del piano suddetto, che determina il sorgere dell’obbligo dell’amministrazione di garantire il supporto per il numero di ore programmato ed il correlato diritto dell’alunno disabile all’istruzione come pianificata, nella sua concreta articolazione, in relazione alle specifiche necessità dell’alunno stesso (Sez. U, n. 05060/2017, Giusti, Rv. 643119-01).

8.4. Divieto di discriminazione.

In tema di condotte discriminatorie indirette nei confronti del disabile, così come definite dall’art. 2, comma 2, della l. n. 67 del 2006, Sez. 3, n. 09870/2022, Scoditti, Rv. 664399-01, è intervenuta con riguardo al riparto dell’onere probatorio, nel caso in cui vi sia la richiesta di misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, interpretandolo nel senso di un alleggerimento dell’onere stesso in favore del ricorrente, il quale è tenuto a fornire elementi che, sia pure privi di gravità e concordanza, rendano, quantomeno, plausibile l’esistenza di una situazione di svantaggio discriminatorio. Una volta che siano dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciare desumere la discriminazione, dunque, il rischio della permanenza dell’incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l’insussistenza della stessa.

La fattispecie ha riguardato l’azione proposta dai genitori di un minore affetto da autismo, che avevano lamentato l’applicazione della terapia ABA (Applied behaviour Analysis, ossia analisi applicata del comportamento) per un numero di ore inferiori a quelle ritenute necessarie, qualificando tale condotta come discriminatoria nei confronti del figlio disabile, ma la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva rigettato la domanda, ritenendo che non erano stati forniti elementi adeguati (nel senso appena illustrato), in ordine alla dedotta situazione di svantaggio rispetto a soggetti non disabili.

La disabilità ha assunto rilievo anche in materia di diritto di asilo. Come già accennato, Sez. 1, n. 13400/2022, Acierno, Rv. 664761-01, enunciando d’ufficio il principio di diritto ex art. 363, comma 3, c.p.c., ha affermato che lo straniero, quale portatore di una situazione di disabilità fisica o psichica determinante di una condizione di vulnerabilità, ha diritto alla protezione umanitaria fondata sull’allegazione della descritta disabilità, generatrice, nel paese di origine, di un trattamento discriminatorio, pur non derivante da atti o comportamenti statuali, dovuto ad emarginazione sociale e relazionale, secondo un modello culturale diffuso e non contrastato, tale da integrare una grave violazione dei diritti umani così come garantiti dagli artt. 2 e 3 Cost. e dall’art. 1 e seguenti della Convenzione ONU fatta a New York nel 2006, ratificata in Italia con l. n. 18 del 2009.

8.5. L’inclusione familiare e il ruolo del caregiver.

Al ruolo centrale della famiglia nel riconoscimento del diritto del disabile alla socializzazione si richiama, di poi, quella giurisprudenza che a partire dalla legge quadro n. 104 del 1992 è intervenuta sul tema dei congedi parentali.

Sappiamo che la famiglia, ove presente, deve essere messa in condizione di prendersi cura del disabile secondo i principi costituzionali di solidarietà e di valorizzazione della famiglia e dei suoi legami.

Già, sul punto, era intervenuta la Corte costituzionale in più occasioni (Corte cost., sentenza 2 febbraio 2016, n. 16; Corte cost., sentenza 18 luglio 2013, n. 203; Corte cost., sentenza 16 dicembre 2011, n. 329; Corte cost., sentenza 26 gennaio 2009, n. 19; Corte cost., sentenza 18 aprile 2007, n. 158; Corte cost., 16 giugno 2005, n. 233), indicando il ruolo della famiglia come sede privilegiata di composizione delle esigenze e dei disagi della persona disabile, così attuando non solo il rapporto affettivo, ma tutta quello che è la necessaria assistenza al soggetto ai fini della sua socializzazione in modo da rendere la posizione del caregiver familiare complementare rispetto alla soluzione assistenziale somministrata dall’ordinamento.

In questa cornice, si è sviluppato un filone giurisprudenziale di tutela dei diritti sociali della famiglia e che riguarda la disciplina dei congedi parentali sulla falsariga della legge quadro n. 104 del 1992, tutta incentrata sulla possibilità offerta ai familiari di contemperare le esigenze lavorative con l’assistenza al congiunto disabile, sempre in vista della sua migliore socializzazione e del suo progressivo inserimento nel tessuto della comunità.

Si tratta di una forma indiretta di assistenza nei confronti dei disabili gravi che va considerata espressione del principio di solidarietà e di sussidiarietà di cui agli articoli 2, 3 e 32 Cost.

Come noto, infatti, l’art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992 prevede che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, con lui convivente (peraltro l’obbligo di coabitazione non è più previsto per effetto della l. n. 53 del 2000) ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

Sulla necessità di un equo bilanciamento, in materia di mobilità scolastica, si è pronunciata Sez. L, n. 35105/2022, Di Paolantonio, Rv. 666182-01, ribadendo, in continuità con l’orientamento già espresso in tema di diritto di precedenza, che l’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992 non attribuisce al dipendente che assiste la persona affetta da handicap grave un diritto soggettivo assoluto ed illimitato, perché l’inciso “ove possibile” evoca, piuttosto, un necessario bilanciamento di interessi, tutti costituzionalmente protetti (così anche Sez. L, n. 22885/2021, Marotta, 662105-01, in generale con riferimento al pubblico impiego contrattualizzato).

La valutazione del condizionamento del diritto del caregiver familiare rispetto alle esigenze produttive ha visto spesso impegnata la giurisprudenza di merito e di legittimità portandole ad affermare che il diritto a non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, spettante a chi assiste con continuità un parente od un affine entro il terzo grado in situazione di handicap, non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda ovvero della P.A.

In proposito già Sez. L, n. 29009/2020, Arienzo, non massimata, aveva valorizzato le esigenze datoriali del tutto straordinarie che potevano sorreggere la minore pienezza dei diritti del caregiver familiare.

A conferma della natura non assoluta del diritto, interviene oggi Sez. L, 33429/2022, Michelini, Rv. 666023-01, per ribadire i principi appena richiamati. Si afferma, infatti, che il menzionato divieto di trasferimento si applica alle ipotesi di mobilità dei lavoratori per ordinarie ragioni tecnico-produttive, e non anche ai casi di soppressione del posto o ad altre situazioni di fatto (ad esempio, incompatibilità ambientale) insuscettibili di essere diversamente soddisfatte, ciò in quanto l’inamovibilità non costituisce un diritto assoluto, ma va bilanciata con altri beni e interessi costituzionalmente rilevanti.

L’esigenza di un vero e proprio diritto alla socializzazione del disabile, indirizzato verso un progressivo inserimento nel tessuto sociale, mediante la possibilità concreta di una sua vita di relazione, ha guidato la giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione di quelle norme che, partendo dai settori della scuola e del lavoro, sono destinate a realizzare, in concreto, il principio di uguaglianza sostanziale in tale diritto alla socializzazione del disabile, sia attraverso il suo pieno inserimento nella famiglia, sia valorizzando il ruolo della famiglia nel compito di accudimento dello stesso.

Va in questo senso ricordata Sez. L, n. 24694/2022, Gnani, Rv. 665462-01, che, in tema di congedo parentale straordinario ai sensi dell’art. 42, comma 5 ter, del d.lgs. n. 151 del 2001 - in base al quale hanno titolo a fruire del congedo straordinario retribuito della durata di due anni nell’arco dell’intera vita lavorativa i lavoratori dipendenti a tempo determinato (per la durata del contratto) o a tempo indeterminato, i quali assistono il familiare in situazione di handicap grave - ha esteso l’applicabilità dell’istituto anche alle aziende speciali di cui all’art. 114 del d.lgs. n. 267 del 2000, considerandole rientranti nel novero delle imprese di enti locali privatizzate.

Pertanto, nel caso scrutinato, relativo a una dipendente che assisteva i genitori disabili, ha ritenuto che quell’accudimento fosse da porre sullo stesso piano del congedo per maternità - letteralmente previsto dalla norma citata - nel solco della solidarietà familiare, con la conseguenza che il datore di lavoro, un’azienda comunale speciale, era tenuta a versare all’Inps la relativa contribuzione ai sensi dell’art. 20, comma 2, lett. a), del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008.

In tale quadro, è da segnalare la novella contenuta nel d.lgs. n. 105 del 2022, adottato in attuazione della direttiva 2019/1158/UE, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza (che abroga la direttiva 2010/18/UE), che ha introdotto un significativo ampliamento dei soggetti legittimati quali caregiver che possono accedere ai permessi di cui alla l. 104 del 1992, ossia oltre al coniuge, la parte dell’unione civile, il convivente di fatto, i parenti o affini entro il secondo grado.

8.6. L’inserimento nel mondo del lavoro.

Nella tutela multilivello apprestata al disabile quanto all’inserimento nel mondo del lavoro si colloca Sez. L, n. 24541/2022, Calafiore, Rv. 665461-01, che ha valorizzato il ruolo uniformante delle convenzioni previste dall’art. 11 della l. n. 68 del 1999, ossia degli accordi stipulati tra impresa e Agenzia del lavoro per la copertura della quota d’obbligo tramite graduale inserimento delle persone con disabilità. La S.C. ha infatti ritenuto che le agevolazioni contributive previste dall’art. 13 della menzionata legge, per l’assunzione dei disabili, sono necessariamente correlate alla stipula delle convenzioni, il cui contenuto, articolato a più livelli, statale e regionale, in un’ottica di armonizzazione della disciplina sul territorio nazionale, ne vede la finalizzazione all’inserimento, integrazione e tutela del soggetto in condizione di handicap. È per questo che la menzionata Corte ha ritenuto non consentito ottenere i benefici di cui al citato art. 13 per assunzioni di disabili avvenute prima della stipula di suddette convenzioni.

8.7. Le prestazioni socioassistenziali.

In tema di prestazioni socioassistenziali in favore di disabili, Sez. L, n. 24631/2022, Gnani, Rv. 665416-01, ha affermato che, nel conflitto tra i due Comuni, l’uno di residenza anagrafica, l’altro di residenza effettiva della persona disabile, troverà piena applicazione l’articolo 6, comma 4, della l. n. 328 del 2000 circa l’obbligo di pagamento della prestazione economica a favore di quest’ultimo (spese di ricovero), che indica nella seconda quella rilevante ai fini dell’adempimento di detto obbligo, nella convinzione che la tutela della persona fragile esige che la sua presa in carico faccia riferimento al Comune più vicino alle sue esigenze, ossia quello nel cui territorio la persona ha effettivamente la sua abituale dimora.

Come si vede, ai servizi socioassistenziali concorrono enti locali, Regioni e Stato, la tutela multilivello del disabile si evidenzia in vista di obiettivi ispirati ai principi costituzionali (artt. 2, 32 e 38 Cost.) come la qualità della vita, la prevenzione, la riduzione e l’eliminazione del disagio personale e familiare e il diritto alle prestazioni, la legge quadro n. 328 del 2000 con caratteri di universalità.

Si tratta di un sistema integrato progettato secondo un assetto pluralistico di interventi e servizi sociali facenti capo agli enti locali, alle Regioni e allo Stato secondo il principio di sussidiarietà in senso verticale, ossia distribuendo la varie competenze tra lo Stato stesso e le autonomie locali in base al quale l’ente gerarchicamente inferiore svolge le funzioni e i compiti di cui è capace, mentre all’ente sovraordinato viene lasciata la possibilità di intervenire surrogandone l’attività, ove necessario secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, ossia delegando le funzioni a soggetti privati individuati anche in organismi non lucrativi di utilità sociale.

Sez. 1 n. 05869/2022, Campese, Rv. 664040-01, ha, poi, ritenuto che in tema di interventi sociali, assistenziali e sociosanitari volti a garantire un aiuto concreto alle persone ed alle famiglie in difficoltà, spetta al comune territorialmente competente, nell’esercizio dei compiti e delle funzioni normativamente attribuitegli in materia dall’art. 6, commi 2 e 3, della l. n. 328 del 2000, la definizione dei parametri per la valutazione delle condizioni di povertà, di limitato reddito e di incapacità totale o parziale per inabilità fisica e psichica, e delle relative condizioni per usufruire delle prestazioni. L’ente, inoltre, può assumere obblighi diversi, anche di impegno economico meramente temporaneo, rispetto a quello per cui lo stesso è già tenuto, ove previamente informato, laddove si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali. In tal caso, però, atteso il limite della disponibilità delle risorse comunali in base ai piani nazionali, regionali e di zona degli interventi e dei servizi sociali, quell’impegno più circoscritto delimita in concreto l’entità dell’obbligazione assunta dal comune medesimo nei riguardi di chi esegue la prestazione assistenziale dopo averne accettato la corrispondente richiesta del primo.

La S.C. ha comunque precisato che tali principi vanno coordinati con il disposto degli artt. 183 e 191 del d.lgs. n. 267 del 2000, sicché l’obbligo del comune di residenza di disporre il ricovero di persone presso strutture private è subordinato all’attestazione della relativa copertura finanziaria.

In effetti, il tema del condizionamento di una tutela piena dei diritti del disabile rispetto ai vincoli di bilancio e agli stessi limiti sovranazionali di programmazione della spesa limita fortemente l’effettività dello statuto di quei diritti, tant’è che una parte della giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che si tratti di interessi legittimi.

Sul punto va ricordato che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione n. 8 del 2 maggio 2006, ha ritenuto che la determinazione da parte dell’Amministrazione del tetto di spesa e la suddivisione di essa tra le attività assistenziali, costituisce esercizio del potere di programmazione sanitaria, a fronte del quale la situazione del privato è di interesse legittimo.

Il pregiudizio per il disabile va, infine, prevenuto nell’ambito della cura e della riabilitazione del nostro sistema sanitario nazionale di tipo universale e avanzato, di modo che adempimenti amministrativi finalizzati alla valutazione continua del suo stato di salute psichica o fisica non siano d’impedimento alla continuità delle cure. In tal senso, Sez. 3, n. 13737/2022, Sestini, Rv. 664641-01, ha ritenuto che la ASL che abbia autorizzato temporaneamente la collocazione di un proprio assistito presso una struttura accreditata, prevedendo che l’eventuale prolungamento del trattamento venga autorizzato mediante una nuova valutazione dell’UVI (Unità di valutazione integrata), è tenuta a sostenere l’onere della quota sanitaria anche dopo che il termine originario sia scaduto, senza che si sia provveduto ad autorizzare il prolungamento mediante la nuova valutazione, fintantoché non sia stata disposta una diversa collocazione dell’assistito, che consenta alla struttura di interrompere le proprie prestazioni senza pregiudizio per il disabile.

In tale ottica, dal punto di vista processuale, per il caso di impugnazione della revoca della prestazione in favore dell’invalido civile, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 14561/2022, Garri, Rv. 664659-01) hanno affermato un principio che dà conto dell’esigenza di conformare la disciplina della revoca della prestazione assistenziale al quadro costituzionale fornito dagli artt. 24 e 113 Cost., garantendo all’interessato la possibilità di ottenere una piena tutela giurisdizionale del diritto inciso dal provvedimento di revoca, adottato dall’Amministrazione, senza dover prima presentare una nuova domanda amministrativa (cfr. la Relazione n. 66 del 2022 di risoluzione di questione di massima e di particolare importanza di questo Ufficio).

Sempre dal punto di vista del processo, e con riferimento all’indennità di accompagnamento in favore dell’invalido civile, Sez. L, n. 29034/2022, Calafiore, Rv. 665774-01, ha ritenuto che, poiché ai sensi dell’art. 336, comma 2, c.p.c. la riforma o la cassazione della decisione impugnata estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, l’indennità di accompagnamento erogata sulla base di sentenza provvisoriamente esecutiva non passata in giudicato, poi riformata in sede di impugnazione, è ripetibile alla stregua delle disposizioni generali sull’indebito civile, poiché, stante il definitivo accertamento dell’insussistenza del diritto ad ottenere la somma originaria, l’obbligo di restituzione è fondato sull’art. 336, comma 2, c.p.c., con correlativo assoggettamento del percettore dell’indebito all’obbligo di sopportare il rischio dell’attuazione della tutela giurisdizionale invocata. Ricorrendo, infatti, un’ipotesi di mancanza radicale ab origine di tutti i requisiti per il riconoscimento della predetta indennità, non è possibile ipotizzare una sua ignoranza incolpevole da parte del percettore.

8.8. La libertà di movimento.

Al disabile va, inoltre, riconosciuta una piena e incondizionata libertà di movimento sul territorio nazionale con la conseguenza che, laddove essa sia impedita dall’handicap che lo affligge, l’ordinamento è chiamato ad intervenire.

In tale ottica, Sez. 6-2, n. 08226/2022, Grasso, Rv. 664431-01, ha affermato che il “contrassegno invalidi”, che autorizza la circolazione e la sosta del veicolo adibito al trasporto di una persona con capacità di deambulazione sensibilmente ridotte anche all’interno delle zone urbane a traffico limitato e delle aree pedonali urbane, è rilasciato alla persona disabile in quanto tale, in modo che questa se ne possa servire esponendolo su qualsiasi veicolo adibito in quel momento al suo servizio e, perciò, la sua validità non è limitata ad un veicolo in particolare, né circoscritta al territorio del Comune che abbia rilasciato tale contrassegno, ma è estesa a tutto il territorio nazionale. L’autorizzazione in parola non può, dunque, trovare ostacoli nelle difficoltà organizzative dell’ente territoriale di transito diverso da quello che ha rilasciato l’autorizzazione, il quale non può porre limitazioni non previste per legge (nella specie, la S.C. ha annullato la decisione del giudice di merito che aveva rigettato l’opposizione alla sanzione amministrativa, proposta dalla conducente di un veicolo che recava a bordo il padre disabile - provvisto di contrassegno rilasciato da un Comune diverso da quello in cui la violazione era stata rilevata – sull’erroneo presupposto che la sola esposizione del contrassegno, in quanto non rilevabile dal sistema automatico di controllo, non fosse sufficiente ad autorizzare il transito in aree interdette).

Ancora in tema di libertà di movimento, Sez. 5, n. 14355/2022, Stalla, Rv. 664595-01, ha ritenuto che il presupposto dell’agevolazione di cui all’art.30, comma 7, della l. n. 388 del 2000, prevista in favore dei soggetti portatori di handicap fisico o psichico, è l’accertamento in concreto della “grave limitazione della capacità di deambulazione”, anche in assenza del requisito dell’adattamento del veicolo, non assumendo, invece, rilevanza la ricorrenza della connotazione di gravità dell’handicap di cui all’art. 3 della l. n. 104 del 1992, la cui nozione, non richiamata dall’art. 30 citato, viene riferita, non alla deambulazione in sé, ma alla valutazione globale dell’autonomia della persona disabile ed alla necessità di un’assistenza individuale e relazionale di tipo permanente.

Sez. 2, n. 24015/2022, Carrato, Rv. 665385-01, ha, poi, affermato che la mera esposizione dell’attestato invalidi non può condizionare l’accesso ad altri adempimenti e, pertanto, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle norme del codice della strada, il cd. “pass invalidi” - disciplinato ratione temporis dall’art. 188 del c.d.s. e dall’art. 381 del relativo regolamento di esecuzione - ha natura e funzione di autorizzazione in deroga, da render nota con la mera esposizione del contrassegno invalidi nella parte anteriore del veicolo, senza che possano essere imposti, con ordinanze degli enti locali, ulteriori obblighi, come la preventiva comunicazione della targa del veicolo utilizzato per il trasporto della persona invalida, con la conseguenza che il mancato rispetto di queste ulteriori formalità non concretizza la violazione dell’art. 7, comma 14, del c.d.s.

In tema di riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni in materia di tasse automobilistiche, Sez. 5, n. 14941/2022, Lo Sardo, Rv. 664598-01, ha evidenziato che il criterio di concorrenza si identica nel principio secondo cui la legislazione statale detta principi generali di coordinamento attinenti alla determinazione della misura del tributo, nel cui ambito alla legislazione regionale è consentito identificare in dettaglio gli altri elementi fondamentali dell’imposizione. In tale ottica, la Corte ha ritenuto che una legge regionale, avente a oggetto ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa automobilistica per i disabili, fosse comunque rispettosa dei criteri di riparto della legislazione concorrente in materia, atteso che le disposizioni regionali non modificavano in alcun modo i limiti minimi e massimi del tributo imposti dalla legislazione statale.

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CAPITOLO II

LA PROTEZIONE DEI SOGGETTI NON AUTONOMI

(di Chiara Giammarco )

Sommario

1 Premessa. - 2 I presupposti per l’apertura dell’amministrazione di sostegno. - 3 La difesa tecnica e l’audizione dell’amministrando. - 4 La morte dell’amministrando nel corso del procedimento. - 5 Gli effetti dell’apertura dell’amministrazione di sostegno. - 6 Gli atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione. - 7 Il rendimento finale del conto. - 8 Il reclamo e il ricorso per cassazione.

1. Premessa.

La giurisprudenza dell’anno in rassegna ha continuato quella che possiamo definire come actio finium regundorum dell’istituto dell’amministrazione di sostegno sotto i diversi profili dei presupposti per la sua applicabilità e della natura del provvedimento con il quale il giudice tutelare apre l’amministrazione o delle singole parti di esso (ove differenti nei rispettivi contenuti).

Sotto il primo profilo, infatti, la “fluidità” dell’istituto, confermata dalla giurisprudenza della S.C. come elemento caratterizzante e valore fondante, ha richiesto plurimi interventi del giudice di legittimità, resisi necessari anche sotto il secondo profilo, in considerazione del fatto che la natura dei provvedimenti del giudice tutelare - individuata in relazione al grado della loro incidenza sui diritti del beneficiario - è stata utilizzata dalla S.C., sin dalle prime pronunce immediatamente successive all’entrata in vigore della disciplina in esame, come discrimen per affermare l’obbligatorietà o meno della difesa tecnica, la reclamabilità dei provvedimenti adottati davanti alla Corte d’appello o al Tribunale (almeno fino a che non sono intervenute le Sezioni Unite (Sez. U, n. 21985/2021, Criscuolo, Rv. 662034-01).

2. I presupposti per l’apertura dell’amministrazione di sostegno.

Un primo profilo sul quale si è concentrata l’attenzione della giurisprudenza riguarda l’an dell’apertura dell’amministrazione di sostegno in tutti quei casi in cui la persona, pur presentando delle difficoltà nella gestione delle incombenze della vita quotidiana, non sia tecnicamente incapace di intendere e di volere, pur essendo affetta da una disabilità di tipo psichico, ovvero sia affetta da una disabilità solo di tipo fisico ed esprima il proprio dissenso all’applicazione dell’istituto.

In tali casi, secondo Sez. 1, n. 10483/2022, Tricomi L., Rv. 664540-01, che fa seguito al precedente orientamento già espresso da Sez. 1, n. 29981/2020, Terrusi, Rv. 660197-01, ha affermato che l’intrinseco dinamismo e la strumentale flessibilità che connotano la disciplina dell’amministrazione di sostegno, in modo da renderla effettiva e perdurante rispetto all’obiettivo di una “individualizzata rispondenza alle esigenze del beneficiario”, devono essere interpretati alla luce, oltre che dei principi costituzionali, anche dell’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con la l. n. 18 del 2009.

In particolare, l’accertamento dei presupposti di legge per l’apertura dell’amministrazione deve essere compiuto in maniera specifica e focalizzata rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario ed anche rispetto all’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, perimetrando i poteri gestori dell’amministratore, ove nominato, in termini direttamente proporzionati ad entrambi i menzionati elementi, di guisa che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona. In tale ottica, le dichiarazioni del beneficiario e la sua eventuale opposizione, soprattutto laddove la disabilità si palesi solo di tipo fisico, devono essere opportunamente considerate, così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati con sufficiente specificità e concretezza.

La statuizione ha riguardato una fattispecie in cui la persona risultava affetta, in base alla diagnosi riportata sul certificato della ASL, da “disturbo bipolare di tipo II”, ma la corte territoriale non aveva indagato, neppure mediante una c.t.u., sull’incidenza della malattia psichica diagnosticata sulla capacità della persona di gestire gli aspetti patrimoniali della propria esistenza.

Sez. 1, n. 21887/2022, Valentino, Rv. 665159-01, ha, poi, sottolineato la necessità di indagare espressamente sulla possibilità di risolvere le difficoltà dell’amministranda mediante il ricorso alla funzione vicariante del marito o alla predisposizione di un sistema di deleghe, idoneo a supportarla negli aspetti più complessi della gestione non ordinaria del proprio patrimonio, piuttosto che con l’amministrazione di sostegno. Nel caso di specie, la persona, che era stata sottoposta ad amministrazione di sostegno e ne aveva chiesto la revoca, svolgeva in tutta autonomia un’attività lavorativa e non presentava una specifica patologia di tipo psichico, ma solo aspetti di fragilità nella gestione straordinaria del proprio patrimonio. Tale circostanza aveva indotto i suoi parenti a richiedere l’apertura dell’amministrazione di sostegno, al fine di tutelare il patrimonio ereditario indiviso. Ma la S.C., ribadendo che l’opposizione dell’amministranda all’applicazione dell’istituto non poteva non essere tenuta in debito conto, quale espressione del suo diritto all’autodeterminazione, ha affermato che la tutela degli aspetti patrimoniali della vita della beneficiaria non poteva fondare di per sé sola l’adozione dell’istituto (nello stesso senso, v. anche Sez. 1, n. 32542/2022, Caprioli, Rv. 666127-01).

Va segnalato che, in passato, la giurisprudenza ha affermato la possibilità dell’apertura dell’amministrazione di sostegno nel caso in cui il beneficiario dovesse essere tutelato solo sotto l’aspetto personale e non anche sotto il profilo patrimoniale (Sez. 6-1, n. 19866/2018, Rv. 650197-01).

3. La difesa tecnica e l’audizione dell’amministrando.

Sez. 1, n. 25855/2022, Mercolino, Rv. 665876-01, ha affrontato il tema scivoloso della difesa tecnica nel procedimento di amministrazione di sostegno. La consolidata giurisprudenza di legittimità, inaugurata con Sez. 1, n. 25366/2006, San Giorgio, Rv. 595213-01, infatti, esprimendo il principio di diritto secondo il quale l’assistenza del difensore è necessaria nel procedimento solo ove questo conduca all’assunzione di provvedimenti incidenti sui diritti fondamentali della persona, ha, di fatto, rimesso al giudice la verifica, caso per caso, dell’individuazione di tali diritti. Nel caso sottoposto all’esame della S.C., l’amministrazione di sostegno era già stata aperta con un decreto con il quale, nominato l’amministratore, gli era stato conferito il potere di rappresentare necessariamente il beneficiario in tutti gli atti di straordinaria amministrazione. Tuttavia, con successivo decreto - emesso per rispondere all’istanza di sostituzione dell’amministratore, proposta dalla stessa beneficiaria - il giudice tutelare, rigettando l’istanza di sostituzione, senza procedere all’audizione della beneficiaria e senza la presenza di un difensore, aveva officiosamente ampliato i poteri dell’amministratore, correlativamente riducendo la facoltà della beneficiaria di operare sui propri conti correnti. In tale contesto, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso proposto dall’amministrata, che lamentava la violazione del proprio diritto di difesa, sia per la mancanza della difesa tecnica sia per non essere stata ascoltata. La S.C. ha ritenuto che, nella specie, tale violazione non sussistesse, poiché il decreto che specifichi gli atti o le categorie di atti che devono essere compiuti con l’intervento dell’amministratore non richiede l’audizione personale del beneficiario, prevista dall’art. 407, comma 2, c.c. soltanto per la nomina dell’amministratore, né il ministero del difensore, necessario solo quando il giudice ritenga di emettere un provvedimento che, d’ufficio o su richiesta dell’interessato, incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli stabiliti dalla legge per gli interdetti o gli inabilitati.

4. La morte dell’amministrando nel corso del procedimento.

Sez. 1, n. 08464/2022, Tricomi L., Rv. 664365-01, ha affermato che nel procedimento relativo alla nomina dell’amministratore di sostegno, in analogia a quanto avviene nel giudizio d’interdizione, la morte dell’amministrando determina la cessazione della materia del contendere, facendo venir meno la necessità di una pronuncia sullo status, sicché, qualora l’evento si verifichi nel corso del giudizio d’appello e sia accertato in tale sede, il ricorso diviene inammissibile per sopravvenuta carenza d’interesse (in senso conforme, v. già Sez. 1, n. 12737/2011, Felicetti, Rv. 618556-01).

La pronuncia si pone in continuità con Sez. 1, n. 07414/2022, Iofrida, Rv. 664312-01, ove la S.C. aveva già affermato che, nel procedimento relativo alla nomina dell’amministratore di sostegno, e in analogia a quanto avviene nel giudizio d’interdizione, la morte dell’amministrando determina la cessazione della materia del contendere, essendo venuto meno il potere-dovere del giudice di pronunciare sull’originario thema decidendum e, quindi, di emettere una decisione non più richiesta né necessaria.

5. Gli effetti dell’apertura dell’amministrazione di sostegno.

Sez. 1 n. 32845/2022, D’Orazio, Rv. 666134-01, ha affrontato per la prima volta il tema degli effetti della nomina dell’amministratore di sostegno sulla capacità processuale del beneficiario che sia parte in un giudizio. La S. C., partendo dall’esame delle caratteristiche dell’istituto e dalle profonde differenze che lo distinguono dai provvedimenti di interdizione e di inabilitazione, chiarisce che l’apertura dell’amministrazione di sostegno e la conseguente nomina dell’amministratore non determinano di per sé l’interruzione del giudizio di cui sia parte il beneficiario, come invece accade nelle diverse ipotesi dell’interdizione e dell’inabilitazione, atteso che, per le sue caratteristiche di estrema elasticità, l’istituto potrebbe anche non determinare la perdita della capacità processuale della persona. Peraltro, poiché gli effetti dell’amministrazione di sostegno, non essendo legislativamente predeterminati, possono essere valutati dal giudice solo una volta avuta cognizione del contenuto del decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno, anche qualora il difensore del beneficiario dichiari in udienza l’evento, non si verifica automaticamente l’interruzione del processo, escludendosi quindi l’applicazione dell’art. 300, comma 2, c.p.c. Ne consegue che, una volta che il giudice abbia valutato, sulla base del tenore del provvedimento del giudice tutelare, che il beneficiario sia privo di capacità processuale, dichiarerà l’interruzione del processo e da questo momento decorrerà il termine di tre mesi per la riassunzione ex art. 305 c.p.c., restando irrilevante a tal fine la precedente dichiarazione dell’evento da parte del difensore.

L’unico precedente che si è confrontato con l’ipotesi in cui nel corso del giudizio era stata aperta l’amministrazione di sostegno in favore della parte, che si trovava in uno stato di totale incapacità, ma che successivamente aveva l’aveva riacquistata, con la conseguente chiusura dell’istituto, è stato affrontato in tempi risalenti da Sez. 3, n. 03712/2012, Amendola A., Rv. 621429-01, che, tuttavia, aveva focalizzato la sua attenzione sulle conseguenze della mancata interruzione del processo da parte del giudice di primo grado, sul presupposto che nell’intervallo di tempo durante il quale l’amministrazione di sostegno era rimasta aperta, la persona fosse totalmente incapace.

6. Gli atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione.

Un caso interessante è quello esaminato da Sez. 1, n. 07420/2022, Iofrida, Rv. 664523-01, che - in relazione all’amministrazione di sostegno, in un caso in cui il decreto di apertura prevedeva la necessità della specifica autorizzazione da parte del giudice tutelare per ciascun atto di straordinaria amministrazione da compiersi da parte dell’amministratore, già autorizzato a compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione - ha affermato che il “patto di quota lite” sul compenso spettante all’avvocato che curi l’azione risarcitoria per il sinistro stradale che abbia cagionato gravi lesioni alla persona amministrata, ove quest’ultima sia priva di altre risorse economiche e con quel risarcimento debba gestire la propria vita futura, deve essere considerato atto di straordinaria amministrazione, dovendosi utilizzare, quale metro per definire l’ambito di tali atti, la considerazione degli effetti economici degli stessi sul patrimonio della persona beneficiaria.

Riguarda il caso particolare della prosecuzione delle liti che la persona abbia instaurato antecedentemente alla sua sottoposizione all’amministrazione di sostegno, Sez. 1, n. 08247/2022, Tricomi L., Rv. 664362-01, che afferma che, in forza dell’art. 374 c.c., richiamato dall’art. 411, comma 1 c.c., l’amministratore di sostegno non necessita dell’autorizzazione del giudice tutelare al fine di coltivare le liti promosse dal beneficiario della misura anteriormente alla sua sottoposizione ad essa ancorché inerenti a diritti personalissimi (nella specie, si trattava di proseguire il giudizio di appello all’esito dell’impugnazione della sentenza di primo grado, che aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi), non ravvisandosi, diversamente che nell’ipotesi in cui si tratti di intraprendere ex novo un giudizio, la necessità di compiere una preventiva valutazione giudiziale in ordine all’interesse ed al rischio economico per l’amministrato.

7. Il rendimento finale del conto.

L’art. 386 c.c. prevede, in ordine alla cessazione del tutore dal suo ufficio, una speciale disciplina per l’approvazione del rendiconto finale. In particolare, ai sensi di detta norma, “il giudice tutelare invita il protutore, il minore divenuto maggiore o emancipato, ovvero secondo le circostanze, il nuovo rappresentante legale, ad esaminare il conto e a presentare le loro osservazioni. Se non vi sono osservazioni il giudice che non trova nel conto irregolarità o lacune lo approva; in caso contrario nega l’approvazione. Qualora il conto non sia stato presentato o sia impugnata la decisione del giudice tutelare, provvede l’autorità giudiziaria nel contraddittorio degli interessati”.

L’art. 45 disp. att. cc. prevede, inoltre, all’ultimo comma che, nell’ipotesi in cui sia negata l’approvazione o essa sia stata impugnata, l’autorità giudiziaria competente provvede in sede contenziosa.

In tale quadro, Sez. 6-1, n. 04029/2022, Di Marzio M., Rv. 664215-01, nel ribadire che la predetta disciplina si applica anche all’ amministrazione di sostegno, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 411 c.c., specifica che l’impugnazione del decreto di approvazione del menzionato conto, emesso dal giudice monocratico in funzione di giudice tutelare, deve essere decisa dal Tribunale in sede contenziosa, ai sensi dell’art. 45 disp. att. c.c., con sentenza appellabile (ma non ricorribile per cassazione) e non dalla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 720 bis c.p.c.

8. Il reclamo e il ricorso per cassazione.

Sebbene la l. n. 6 del 2004 avesse introdotto nel c.p.c. l’art. 720 bis, il quale, al comma 2, prevede che “contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla Corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c.” e, al successivo comma 3, stabilisce che “contro il decreto della Corte d’appello, pronunciato ai sensi del secondo comma può essere proposto ricorso per cassazione”, il permanere della disciplina generale sulle impugnazioni dei decreti del giudice tutelare - che con l’art. 739 c.p.c. prevede il reclamo avanti al Tribunale in composizione collegiale, non ricorribile in cassazione - aveva indotto la giurisprudenza a ritenere che il disposto dell’art. 720 bis, comma 2, c.p.c. dovesse riferirsi non a tutti i decreti del giudice tutelare resi in materia di amministrazione di sostegno, ma solo a quelli di contenuto decisorio. L’intervento di Sez. 1, n. 32409/2019, Lamorgese, Rv. 656558-01, aveva messo in discussione tale ormai costante giurisprudenza ritenendo che l’art. 720 bis, comma 2, c.p.c. fosse norma speciale, di contenuto derogatorio rispetto alla disposizione generale di cui all’art. 739 c.p.c.

Intervenuta a chiarire il contrasto, Sez. U, n. 21985/2021, Criscuolo, Rv. 662034-01, ha di fatto confermato l’opinione espressa da Sez. 1, n. 32409/2019, Lamorgese, Rv. 656558-01, suggellando il principio secondo il quale tutti i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno sono reclamabili in Corte d’appello, essendo indifferente che abbiano contenuto gestori piuttosto che decisorio. La pronuncia non ha mancato tuttavia di aggiungere, pur esulando tale questione dall’ambito strettamente attenente ai motivi di ricorso, come, ai fini della ricorribilità in cassazione dei decreti della Corte d’appello, valesse comunque il discrimen tra atti di natura gestoria ed atti di natura decisoria.

Si conforma al precedente delle Sezioni Unite, Sez. 1, n. 17931/2022, Terrusi, Rv. 665217-01, ove viene ribadito che il procedimento di reclamo avverso il decreto del giudice tutelare sull’apertura dell’amministrazione di sostegno si svolge sempre avanti alla Corte d’appello. È anche precisato che il rito camerale, richiamato dalle norme per la trattazione di tali procedimenti, disciplinato dall’art. 739 c.p.c., si connota per la sommarietà della cognizione e la semplicità delle forme, con la conseguenza che resta esclusa la piena applicazione delle norme che regolano il processo ordinario, dovendo, in particolare, ritenersi ammissibile l’acquisizione di nuovi mezzi di prova, in specie di documenti, alla sola condizione che sia assicurato - come in tutte le procedure soggette al rito camerale - un pieno e completo contraddittorio tra le parti.

Anche Sez. 1, n. 32321/2022, Tricomi L., Rv. 666125-02, ha confermato che i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno sono reclamabili unicamente dinanzi alla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 720 bis, comma 2, c.p.c., trattandosi di disposizione speciale derogatoria rispetto all’art. 739 c.p.c., senza che abbia alcun rilievo la natura ordinatoria o decisoria di detti provvedimenti. Inoltre, chiamata a decidere sulla ricorribilità per cassazione del decreto della Corte d’appello di rigetto del reclamo, con il quale era stata chiesta la revoca dell’amministrazione di sostegno e la modifica dei poteri conferiti all’amministratore, ha precisato che tale decreto aveva natura decisoria, anche se relativo a decisioni modificabili in ogni tempo dal giudice tutelare, perché aveva una portata generale e non si limitava ad autorizzare il compimento di singoli atti di amministrazione, di talché doveva ritenersi ricorribile per cassazione (Sez. 1, n. 32321/2022, Tricomi L., Rv. 666125-01).

  • matrimonio
  • separato
  • filiazione
  • responsabilità parentale
  • divorzio
  • diritto di famiglia
  • diritto matrimoniale

CAPITOLO III

FAMIGLIA E FILIAZIONE

(di Valeria Pirari, Annachiara Massafra, Eleonora Reggiani (1), Francesco Agnino )

Sommario

1 Contratti stipulati in vista del matrimonio. - 2 Il regime patrimoniale della famiglia. - 3 La simulazione del matrimonio. - 4 La separazione personale dei coniugi. - 4.1 L’addebito della separazione. - 4.2 La riconciliazione. - 4.3 Gli accordi in sede di separazione consensuale. - 4.4 L’assegno di mantenimento in favore del coniuge. - 4.5 Aspetti processuali del giudizio di separazione. - 5 Il divorzio. - 5.1 La conservazione del cognome dell’ex marito. - 5.2 L’assegno divorzile. - 5.3 Altre pronunce in tema di assegno divorzile. - 5.4 La percentuale dell’indennità di fine rapporto. - 5.5 I trasferimenti immobiliari in sede di divorzio congiunto. - 5.6 Aspetti processuali del giudizio di divorzio. - 6 La restituzione dell’assegno di mantenimento e di quello divorzile. - 7 Lo status di figlio. - 7.1 Profili processuali delle azioni di stato. - 7.2 Contributo al mantenimento del figlio e azioni di stato. - 8 Il curatore speciale del minore. - 9 L’ascolto del minore. - 10 L’esercizio della responsabilità genitoriale. - 11 L’esercizio della responsabilità genitoriale, profili processuali. - 12 Misure ablative o limitative della responsabilità genitoriale: profili sostanziali. - 13 Misure ablative o limitative della responsabilità genitoriale, profili processuali. - 14 Il mantenimento dei figli. - 15 Il mantenimento dei figli, profili processuali. - 16 L’assegnazione della casa familiare. - 17 L’assegnazione della casa familiare e i terzi. - 18 L’affidamento familiare ex art. 2 l. n. 184 del 1983. - 19 La sottrazione internazionale di minori. - 20 Le sanzioni previste dall’art. 709 ter c.p.c. - 21 L’illecito endofamiliare.

1. Contratti stipulati in vista del matrimonio.

La giurisprudenza è orientata a ritenere che gli accordi prematrimoniali - ossia assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, e in vista del futuro divorzio, molto frequenti in altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili - siano nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con i principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (per tutte, Sez. 1, n. 06857/1992, Luccioli, Rv. 477561-01; Sez. 1, n. 09416/1995, Luccioli, Rv. 493943-01; Sez. 1, n. 3777/1981, Borruso, Rv. 414413-01).

Come osservato da Sez. 1, n. 23713/2012, Dogliotti, Rv. 624636-01, il rigore di tale orientamento - criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia, ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale - è stato attenuato dalla giurisprudenza più recente, che ha escluso la contrarietà di per sé di tali accordi all’ordine pubblico, sostenendo che il principio dell’indisponibilità preventiva dell’assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, unico titolare dell’azione di nullità (relativa), e che, pertanto, è da ritenersi valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di fallimento del matrimonio (nella specie trasferimento di un immobile di proprietà della moglie al marito, quale indennizzo delle spese, da questo sostenute, per ristrutturare altro immobile destinato ad abitazione familiare di proprietà della moglie medesima), siccome costituente contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c., essendo, infatti, il fallimento del matrimonio non causa genetica dell’accordo, ma mero evento condizionale.

Orbene, in tema di negozi stipulati prima del matrimonio, la Corte di legittimità ha esaminato, nell’anno in rassegna, un caso in cui il futuro sposo, con doppia cittadinanza iraniana e italiana, aveva stipulato, in Iran, con il padre della futura sposa, anch’esso di nazionalità iraniana, un negozio con il quale si era impegnato ad acquistare in futuro un’abitazione, completa di arredi, da adibire a casa coniugale ed a trasferirne alla moglie il 50% della proprietà, e aveva in prosieguo omesso di adempiere al proprio obbligo, sicché, nel contenzioso che ne era seguito, si era posto il problema di stabilire se tale pattuizione potesse considerarsi come patto prematrimoniale contrario all’ordine pubblico italiano, e perciò invalido, secondo quanto eccepito dal coniuge inadempiente, ovvero come preliminare di donazione, a sua volta nullo, come affermato, invece, all’esito dei due gradi di merito.

Sez. 1, n. 21462/2022, Di Marzio M., Rv. 665236-01, investita della questione, ha escluso che un tale tipo di contratto, possa considerarsi contratto preliminare di donazione e sia, in quanto tale, affetto da nullità secondo il nostro ordinamento, per il solo fatto di essere caratterizzato dall’elemento della gratuità, in assenza della previsione di un corrispettivo per l’incremento patrimoniale della beneficiaria. È stato, infatti, osservato come, al fine della qualificazione della pattuizione, sia indispensabile lo scrutinio della sussistenza non solo dell’elemento oggettivo della mancanza di corrispettivo, ma anche dell’elemento soggettivo dello spirito di liberalità, richiamato dall’art. 769 c.c., il quale si identifica non con un generico intento benefico o altruistico, ma con lo scopo obbiettivo che si raggiunge attraverso il negozio e che ne costituisce la causa, cioè, la gratuita attribuzione del bene al donatario, quale consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario mediante attribuzioni od erogazioni patrimoniali operate nullo iure cogente, ossia a titolo di mera e spontanea elargizione, fine a se stessa, verificando se il senso della pattuizione intercorsa tra il futuro sposo ed il padre della futura sposa, non risiedesse, piuttosto, nell’intento del primo di procacciarsi il consenso del secondo al matrimonio.

Proprio al fine di corroborare questa opzione ermeneutica, i giudici di legittimità hanno evidenziato come, in tale prospettiva venga ad esempio negata natura di liberalità ai negozi attributivi di beni conclusi in sede di separazione coniugale (Sez. 1, n. 12110/1992, Borrè, Rv. 479444-01; Sez. 2, n. 11342/2004, Fiore, Rv. 573683-01; Sez. 3, n. 05473/2006, Massera, Rv. 589660-01), giacché gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell’uno nei confronti dell’altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione, e rispondono, di norma, ad un più specifico e più proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di separazione consensuale, ovvero divorzio, evento che, sfuggendo da un lato alle connotazioni classiche dell’atto di donazione vero e proprio (tipicamente estraneo, di per sé, ad un contesto, quello della separazione personale, caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell’affettività), e dall’altro a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l’assenza di un prezzo corrisposto).

2. Il regime patrimoniale della famiglia.

La materia in esame contempla non soltanto il regime patrimoniale della comunione legale tra coniugi, ma anche l’istituto del fondo patrimoniale e l’impresa familiare, argomenti questi, sui quali si è pronunciata la Corte di cassazione anche nell’anno in rassegna.

Con specifico riguardo al regime patrimoniale della comunione legale tra coniugi, la Corte di legittimità non ha mancato di affermarne la peculiarità delle norme che lo regolano, allorché ha affermato che, qualora i coniugi stipulino congiuntamente un mutuo, il diritto alla sua restituzione compete non già agli stessi, ma alla comunione, con la conseguenza che il pagamento integrale della somma mutuata, da parte del debitore, nei confronti di uno solo dei coniugi ha effetto estintivo per l’intero, in quanto prevalgono le regole della comunione legale sul principio della parziarietà delle obbligazioni solidali dal lato attivo (in questi termini, Sez. 3, n. 23819/2022, Rubino, Rv. 665610-01, che, nell’affermare questo principio, ha ritenuto configurabile nella specie un acquisto ex art. 177, comma 1, lett. a), c.c., non avendo i coniugi dedotto che il denaro concesso a mutuo fosse personale, né essendo stato specificato, da parte del coniuge al quale l’intera somma era stata restituita, che trattavasi di incasso a titolo personale).

Inoltre, nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto di acquisto dell’altro coniuge non acquirente, prevista dall’art. 179, comma 2, c.c., non può assumere portata confessoria qualora la dichiarazione del coniuge acquirente, ai sensi dell’art. 179, comma 1, lett. f) c.c., che i beni sono stati acquistati con il prezzo del trasferimento di beni personali, non contenga l’esatta indicazione della provenienza del bene da una delle diverse fattispecie di cui alle lettere a), b), c), d), e), del medesimo art. 179 c.c. In mancanza di tale indicazione, l’eventuale inesistenza dei presupposti che escludono dal regime della comunione legale il bene acquistato può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento della comunione, senza che la dichiarazione adesiva del coniuge non acquirente, ex art. 179, comma 2, c.c., abbia alcun valore confessorio (in tal senso, Sez. 2, n. 35086/2022, Varrone, Rv. 666320-01).

Qualora, invece, la comunione legale si sciolga e, in sede di divisione, l’immobile adibito a casa familiare sia attribuito, in proprietà esclusiva, al coniuge che non era assegnatario dello stesso quale casa coniugale, né affidatario della prole, si realizza una situazione comparabile a quella del terzo acquirente dell’intero, sicché, posto che continua a sussistere il diritto di godimento in capo all’altro coniuge, il coniuge non assegnatario diventa titolare di un diritto di proprietà, il cui valore deve essere decurtato dalla limitazione delle facoltà di godimento da correlare all’assegnazione dell’immobile al coniuge affidatario della prole, permanendo il relativo vincolo sullo stesso, con i relativi effetti pregiudizievoli derivanti anche dalla sua trascrizione ed opponibilità ai terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c. (Sez. U, n. 18641/2022, Carrato, Rv. 665032-02). Nel caso in cui, invece, l’immobile adibito a casa familiare sia attribuito, in proprietà esclusiva, al coniuge che ne era già assegnatario, si determina la concentrazione, in capo a quest’ultimo, del diritto personale di godimento scaturito dall’assegnazione giudiziale e di quello dominicale sull’intero immobile, che permane privo di vincoli, venendosi così a configurare una causa automatica di estinzione del primo, che, pertanto, non potrà avere alcuna incidenza sulla valutazione economica del bene in comunione a fini divisori, o sulla determinazione del conguaglio dovuto al coniuge comproprietario non assegnatario, dovendosi conferire all’immobile un valore economico pieno, corrispondente a quello venale di mercato; né, a tal fine, rileva che nell’immobile stesso continuino a vivere i figli minori, o non ancora autosufficienti, affidati al coniuge divenutone proprietario esclusivo, rientrando tale aspetto nell’ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole, da regolamentare nella sede propria, anche con la eventuale modificazione dell’assegno di mantenimento (Sez. U, n. 18641/2022, Carrato, Rv. 665032-01).

Sempre con riguardo allo scioglimento della comunione legale, Sez. U, n. 15889/2022, Criscuolo, Rv. 665030-01, ha chiarito come, in caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

Tale diritto di credito non ha carattere privilegiato, non essendo annoverato tra le ipotesi tassative indicate dall’art. 2741 c.c., né può ritenersi applicabile la causa di prelazione di cui all’art. 189, comma 2 c.c., riferendosi tale norma alla garanzia offerta dai beni per i quali sia sorta una comunione reale, quindi non suscettibile di applicazione alla diversa ipotesi della comunione de residuo che, come appena evidenziato, attribuisce al coniuge solo un diritto di credito (Sez. U, n. 15889/2022, Criscuolo, Rv. 665030-02).

Peraltro, la prescrizione del diritto di credito volto ad ottenere la metà del valore dei beni rientranti nella comunione de residuo non è sospesa durante la separazione personale, poiché non è configurabile alcuna riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, essendo oramai conclamata la crisi della coppia e cessata la convivenza, a seguito dell’esperimento delle relative azioni, con la conseguenza che la prescrizione del menzionato credito comincia a decorrere dal momento in cui si scioglie la comunione legale per effetto della separazione e, dunque, da quando il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero dalla data di sottoscrizione, davanti al medesimo presidente, del processo verbale di separazione consensuale, poi omologato (in tal senso, Sez. 1, n. 32212/2022, Iofrida, Rv. 666444-01).

Con riferimento, invece, all’istituto del fondo patrimoniale, va premesso come la sua costituzione ex art. 167 c.c., attraverso la destinazione di determinati beni (immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito) a far fronte ai bisogni della famiglia, non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, quand’anche effettuata da entrambi i coniugi, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti (Sez. 6-1, n. 29298/2017, Ferro, Rv. 646785-01).

Peraltro, in presenza di un atto di costituzione del fondo patrimoniale trascritto nei pubblici registri immobiliari, ma annotato a margine dell’atto di matrimonio successivamente all’iscrizione di ipoteca sui beni del fondo medesimo, l’esistenza del fondo non è opponibile al creditore ipotecario, perché la costituzione del fondo patrimoniale è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 c.c. in materia di forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella di cui al quarto comma, che condiziona l’opponibilità ai terzi della convenzione all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio. La trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo (Sez. 3, n. 23165/2022, Valle, Rv. 665431-01, in conformità a Sez. 1, n. 12545/2019, Tricomi L., Rv. 654246-01).

In caso di azione revocatoria del fondo patrimoniale, la natura reale del vincolo di destinazione impresso dalla sua costituzione in vista del soddisfacimento dei bisogni della famiglia e la conseguente necessità che la sentenza faccia stato nei confronti di tutti coloro per i quali il fondo è stato costituito, comportano che, nel relativo giudizio per la dichiarazione della sua inefficacia, la legittimazione passiva vada riconosciuta ad entrambi i coniugi, anche se l’atto costitutivo sia stato stipulato da uno solo di essi, spettando ad entrambi, ai sensi dell’art. 168 c.c., la proprietà dei beni che costituiscono oggetto della convenzione, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto costitutivo, con la precisazione che anche nell’ipotesi in cui la costituzione del fondo non comporti un effetto traslativo, essendosi il coniuge (o il terzo costituente) riservato la proprietà dei beni, è configurabile un interesse del coniuge non proprietario alla partecipazione al giudizio, in quanto beneficiario dei relativi frutti, destinati a soddisfare i bisogni della famiglia (Sez. 6-3, n. 05768/2022, Cirillo F.M., Rv. 664077-01).

3. La simulazione del matrimonio.

Com’è noto, ai sensi dell’art. 123 c.c. il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti che da esso discendono.

Proprio con riferimento al giudizio promosso per far valere la simulazione del matrimonio, Sez. 1, n. 17909/2022, Terrusi, Rv. 664949-01, ha evidenziato che, ove nel corso del procedimento deceda la parte convenuta, i suoi eredi possono costituirsi nel giudizio, atteso che così come l’art. 127 c.c. autorizza gli eredi della parte che abbia impugnato il matrimonio a proseguire l’azione già esperita dal de cuius, per identica ratio deve intendersi autorizzato l’erede del de cuius convenuto nel giudizio di simulazione a resistere all’azione proposta contro di lui prima della sua morte.

4. La separazione personale dei coniugi.

In tema di separazione personale dei coniugi, le pronunce adottate nell’anno in rassegna hanno riguardato la prova dell’addebito e della riconciliazione, gli accordi raggiunti in sede di separazione consensuale e l’assegno di mantenimento in favore del coniuge. In uno spazio a parte sono raccolte le statuizioni che hanno affrontato questioni in rito proprie del giudizio di separazione.

Le statuizioni relative all’affidamento e al mantenimento dei figli, ed anche quelle che attengono all’assegnazione della casa familiare, adottate in sede di separazione, vengono esaminate insieme a quelle assunte in sede di divorzio, in conformità all’impianto codicistico, che oramai disciplina unitariamente tali aspetti.

Anche il tema della restituzione degli importi incassati a titolo di mantenimento o di assegno divorzile viene trattato unitariamente, essendo intervenuta una pronuncia a Sezioni Unite che ha affrontato in modo unitario la questione.

4.1. L’addebito della separazione.

Ribadendo una giurisprudenza oramai consolidata, la S.C. ha ribadito che grava sulla parte che richieda l’addebito l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (Sez. 1, n. 27597/2022, Reggiani, non massimata).

Tuttavia, come precisato da Sez. 1, n. 31351/2022, Casadonte, Rv. 665977-01, le reiterate violenze fisiche e morali inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse. Il loro accertamento esonera il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei (nello stesso senso, v. da ultimo Sez. 6-1, n. 03925/2018, Sambito, Rv. 647886-01).

In applicazione del principio enunciato, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, nel rigettare la richiesta di separazione con addebito proposta dalla moglie nei confronti del marito, aveva omesso di prendere in considerazione la condotta violenta di quest’ultimo, che da varie testimonianze, riscontrate da referti ospedalieri e provvedimenti del Questore, risultava avere spesso fatto ricorso a violenza fisica sia nei confronti della coniuge che dei figli.

In tema di addebito della separazione personale per inosservanza dell’obbligo di fedeltà, la Corte di legittimità ha, poi, evidenziato che, ai fini dell’esclusione del nesso causale tra la relativa condotta e l’impossibilità della prosecuzione della convivenza, non assume rilievo la tolleranza dell’altro coniuge, non essendo configurabile un’esimente oggettiva, che faccia venire meno l’illiceità del comportamento, né una rinuncia tacita all’adempimento dei doveri coniugali, aventi carattere indisponibile, anche se la sopportazione dell’infedeltà altrui può essere presa in considerazione, unitamente ad altri elementi, quale indice rivelatore del fatto che l’affectio coniugalis era già venuta meno da tempo (Sez. 1, n. 25966/2022, Mercolino, n. 665877-01).

4.2. La riconciliazione.

Com’è noto, ai sensi dell’art. 157 c.c., i coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.

In mancanza di una dichiarazione congiunta, come evidenziato da Sez. 6-1, n. 27963/2022, Caradonna, Rv. 665896-01, il coniuge che ha interesse a far accertare l’avvenuta riconciliazione dopo la separazione, ha l’onere di fornire una prova piena e incontrovertibile della ricostituzione del consorzio familiare, che il giudice di merito è chiamato a verificare, compiendo un apprezzamento di fatto, non sindacabile dal giudice di legittimità in presenza di una motivazione adeguata ed esaustiva (nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile, perché attinente al merito, la censura contro la sentenza che aveva ritenuto non provata la riconciliazione in base alle risultanze istruttorie, dalle quali era emerso soltanto che i coniugi avevano continuato a frequentarsi, conservando, però, una conflittualità tale da far escludere il superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la convivenza).

4.3. Gli accordi in sede di separazione consensuale.

Sul rilievo che, nei verbali di separazione consensuale, sono frequenti le clausole contenenti trasferimenti di proprietà o altri diritti reali su beni immobili o mobili da un coniuge all’altro, la Corte di cassazione ha ribadito quanto di recente affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 21761/2021, Valitutti, Rv. 661859-01). In particolare, la S.C. ha evidenziando che le clausole dell’accordo di separazione consensuale che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l’attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma 1 bis, della l. n. 52 del 1985, come introdotto dall’art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010 (Sez. 1, n. 25925/2022, Tedesco, non massimata). La pronuncia ha riguardato la validità della divisione della comunione operata in sede di separazione consensuale, che aveva comportato l’assegnazione in via esclusiva della casa coniugale e di un ulteriore immobile alla moglie e l’attribuzione della proprietà esclusiva dell’autoveicolo ad essa intestato al marito.

D’altronde, come evidenziato da Sez. 1, n. 24687/2022, D’Orazio, Rv. 665666-01, la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale, relativo allo status di separato, ed un contenuto eventuale, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata e che possono prevedere anche l’assegnazione di immobili. Mentre, dunque, il contenuto essenziale dell’accordo di separazione non può essere oggetto di azione di simulazione assoluta, il negozio patrimoniale di attribuzione immobiliare, contenuto nelle condizioni di separazione consensuale omologate, stante la sua autonomia, può essere aggredito dai terzi creditori del simulato alienante con l’azione di simulazione assoluta.

In tale ottica, deve ritenersi valida l’iscrizione ipotecaria effettuata dai terzi creditori del simulato alienante dopo la separazione consensuale e prima della sentenza di accoglimento della domanda di simulazione assoluta, la quale provoca la nullità del negozio per assenza di causa, facendo sì che i beni si considerino come mai usciti dal patrimonio del disponente (Sez. 1, n. 24687/2022, D’Orazio, Rv. 665666-02).

Sez. 1, n. 27323/2022, Tricomi L., Rv. 665637-01, ha, poi, aggiunto che può essere esercitata l’azione di annullamento contro le pattuizioni di contenuto economico, contenute negli accordi di separazione consensuale omologata, ravvisando, in particolare, il vizio della volontà per violenza morale, quando uno dei coniugi subisca una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del negozio, di natura tale da incidere, con efficienza causale, sul determinismo del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso l’accordo (a differenza del caso in cui la determinazione della parte sia stata provocata da timori meramente interni, ovvero da personali valutazioni di convenienza).

4.4. L’assegno di mantenimento in favore del coniuge.

L’assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole, oltreché dei figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, è previsto dall’art. 156, comma 1, c.c., a mente del quale “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

Come sostenuto dalla Corte di cassazione anche nell’anno in rassegna, la ratio di tale previsione va rinvenuta nella persistente permanenza, anche dopo la separazione, del dovere di assistenza materiale del coniuge, la quale, avendo una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto, invece, dell’assegno di divorzio, non presenta alcuna incompatibilità con la temporaneità della situazione, dalla quale deriva la sola sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione. La separazione personale, infatti, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (Sez. 6-1, n. 04327/2022, Tricomi L., Rv. 663965-01; negli stessi termini, Sez. 1, n. 12196/2017, Campanile, Rv. 644070-01).

Quello del tenore di vita goduto durante la convivenza in costanza di matrimonio costituisce, invero, il criterio che la giurisprudenza di legittimità, con orientamento ormai consolidato e ribadito anche nell’anno in rassegna, ha individuato al fine di quantificare l’importo dell’assegno di mantenimento per il coniuge, in virtù del quale occorre prescindere dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali godute, stante la rilevanza assunta al riguardo anche dai redditi occultati al fisco, accertabili attraverso strumenti processuali ufficiosi, quali le indagini della polizia tributaria (Sez. 1, n. 22616/2022, Reggiani, Rv. 665520-01). Si deve, comunque, tener conto del reddito netto - e non già di quello lordo - essendo queste le risorse sulle quali la famiglia faceva affidamento, e rapportava ogni possibilità di spesa, durante la convivenza matrimoniale (Sez. 1, n. 27771/2022, Meloni, Rv. 665885-01; negli stessi termini Sez. 6-1, n. 13954/2018, Mercolino, Rv. 648791-01, ove la S.C. ha cassato la sentenza della corte d'appello, la quale aveva ritenuto che il reddito di un agente di commercio potesse essere desunto dall'importo delle fatture emesse per il pagamento delle provvigioni, detratte le sole ritenute d'acconto, senza prendere in considerazione la dichiarazione dei redditi dell'onerato e le spese sostenute per l'esercizio dell'attività professionale).

In fase di determinazione dell’assegno, occorre altresì dare rilievo all’assegnazione della casa coniugale, in quanto, pur finalizzata alla tutela della prole e del suo interesse a permanere nell’ambiente domestico, costituisce un’indubbia utilità suscettibile di apprezzamento economico, stante quanto precisato dall’art. 337 sexies c.c. Tale principio trova, peraltro, applicazione anche quando il coniuge separato assegnatario dell’immobile ne sia comproprietario, giacché il godimento del bene, ad esso attribuito, non trova fondamento nel titolo dominicale, ma nel provvedimento di assegnazione, opponibile anche ai terzi, che limita la facoltà dell’altro coniuge di disporre della propria quota dell’immobile e si traduce in un pregiudizio economico, anch’esso valutabile ai predetti fini (Sez. 1, n. 27599/2022, Reggiani, Rv. 665640-01).

Peraltro proprio con riguardo alla comproprietà della casa, la Corte di cassazione ha evidenziato come l’attribuzione, in sede di divisione, dell’immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge che ne era già assegnatario, comportando la concentrazione, in capo a quest’ultimo, del diritto personale di godimento scaturito dall’assegnazione giudiziale e di quello dominicale sull’intero immobile, divenuto privo di vincoli, incida a sua volta sulla quantificazione dell’assegno, comportandone l’eventuale modificazione, quand’anche sul bene continuino a vivere i figli minori, o non ancora autosufficienti, affidati al predetto, rientrando tale aspetto nell’ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole, da regolamentare nella sede propria. (Sez. U, n. 18641/2022, Carrato, Rv. 665032-01).

La domanda volta ad ottenere la determinazione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, infine, contiene implicitamente anche quella avente ad oggetto la determinazione di un assegno di natura alimentare, che ne costituisce un minus, e questo comporta che la relativa istanza, se proposta per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito, non possa considerarsi nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti (Sez. 1, n. 27768/2022, Meloni, Rv. 665692-01; negli stessi termini Sez. 6-1, n. 27695/2017, Cristiano, Rv. 646778-01).

Non rientra, invece, nella materia afferente agli alimenti, né in quella relativa alla dote e al concorso alle incombenze coniugali durante la vita comune, l’eventuale convenzione matrimoniale di diritto straniero che regoli i rapporti patrimoniali post-coniugali tra gli ex coniugi, in quanto correlata al matrimonio e non al divorzio (in questi termini, Sez. 1, n. 33021/2022, Di Marzio M., Rv. 666229-01, ove la S.C. ha escluso che la sentenza di divorzio tra due cittadini iraniani, adottata dal giudice straniero, contenente anche statuizioni sull’assegno divorzile, potesse essere invocata quale giudicato esterno, nel giudizio promosso per ottenere l’attuazione di una convenzione matrimoniale).

4.5. Aspetti processuali del giudizio di separazione.

Come rilevato da Sez. U, n. 10443/2022, Acierno, Rv. 664483-01, ai fini della corretta individuazione della giurisdizione in un giudizio di separazione personale tra coniugi, cittadini di diversi Stati membri dell’Unione Europea, secondo i criteri stabiliti dall’art. 3 del regolamento (CE) n. 2201/2003, per “residenza abituale” della parte ricorrente deve intendersi il luogo in cui l’interessato abbia fissato con carattere di stabilità il centro permanente ed abituale dei propri interessi e relazioni, sulla base di una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica, essendo rilevante, sulla base del diritto unionale, ai fini dell’identificazione della residenza effettiva, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa alla data di proposizione della domanda.

In ordine all’istruttoria nei giudizi di separazione personale, Sez. 1, n. 22616/2022, Reggiani, Rv. 665520-02, ha affermato che il potere di disporre indagini della polizia tributaria, derivante dall’applicazione analogica dell’art. 5, comma 9, della l. n. 898 del 1970, costituisce una deroga alle regole generali sul riparto dell’onere della prova, il cui esercizio è espressione della discrezionalità del giudice di merito che, però, incontra un limite in presenza di fatti precisi e circostanziati in ordine all’incompletezza o all’inattendibilità delle risultanze fiscali acquisite al processo. In tali casi, il giudice ha il dovere di disporre le indagini della polizia tributaria, non potendo rigettare le domande volte al riconoscimento o alla determinazione dell’assegno, fondate proprio sulle circostanze specifiche che avrebbero dovuto essere verificate per il tramite delle menzionate indagini. Nell’enunciare il principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento, aveva ritenuto superflue le indagini della polizia tributaria, nonostante fossero stati dedotti fatti specifici a supporto della relativa richiesta, in base all’erroneo presupposto dell’irrilevanza, ai fini della ricostruzione del tenore di vita familiare, di eventuali entrate sottratte al fisco.

Per quanto riguarda il giudizio di appello, Sez. 1, n. 29865/2022, Iofrida, Rv. 666042-01, ha sottolineato che il giudizio di appello in materia di separazione personale dei coniugi è un procedimento di natura contenziosa che si svolge secondo il rito camerale e che, pur dovendo rispettare il principio del contraddittorio, si caratterizza per la particolare celerità e semplicità di forme. Ne consegue che a tale giudizio non sono applicabili le disposizioni proprie del processo di cognizione ordinaria, ben potendo la causa essere assunta in decisione, dopo che le parti abbiano precisato le conclusioni, senza l’assegnazione dei termini previsti dall’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

Sez. 1, n. 11964/2022, Campese, Rv. 664677-02, ha, poi, affermato che, qualora il giudice di primo grado, applicando il rito ordinario, abbia ritenuto inammissibili per difetto di “connessione forte” ex art. 40, comma 3, c.p.c., le domande risarcitorie avanzate unitamente a quella di separazione, nella successiva fase di appello non si verifica l’effetto espansivo del rito ordinario previsto dalla richiamata norma, sicché l’impugnazione soggiace al rito camerale e va introdotta con ricorso e non con citazione.

5. Il divorzio.

Nell’anno in rassegna, le pronunce di rilievo della S.C. hanno riguardato prevalentemente le conseguenze patrimoniali della pronuncia di divorzio. Isolate sono due pronunce relative al diritto della ex moglie alla conservazione del cognome del marito e all’azione di simulazione del matrimonio. Per il resto, la Corte di cassazione ha esaminato i presupposti per l’attribuzione, la revoca o la revisione dell’assegno divorzile ed anche per l’erogazione della quota di TFR, valutando il regime delle impugnazioni dei trasferimenti immobiliari concordati in sede di divorzio congiunto. Vi sono poi alcune decisioni riferite a questioni processuali proprie del giudizio di divorzio.

Come già anticipato, le statuizioni relative all’affidamento e al mantenimento dei figli, ed anche all’assegnazione della casa familiare, adottate in sede di divorzio, vengono esaminate insieme a quelle assunte in sede di separazione dei coniugi. Anche la trattazione della questione relativa alla restituzione degli importi incassati a titolo di mantenimento o di assegno divorzile è trattata unitariamente.

5.1. La conservazione del cognome dell’ex marito.

Com’è noto, ai sensi dell’art.143 bis c.c. l’aggiunta del cognome del marito a quello della moglie è un effetto del matrimonio, circoscritto temporalmente alla perduranza del rapporto di coniugio. L’eccezionale deroga alla perdita del cognome maritale, prevista dall’art. 5, comma 3, l. n. 898 del 1970, è discrezionale e richiede la ricorrenza del presupposto dell’interesse meritevole di tutela dell’ex coniuge.

Tale disciplina è frutto del principio cui l’ordinamento familiare è ispirato e che privilegia la coincidenza fra denominazione personale e status, sicché la possibilità di consentire con effetti di carattere giuridico-formali la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria affidata alla decisione del giudice di merito.

In quest’ottica, Sez. 6-1, n. 00654/2022, Parise, Rv. 663915-01, ha affermato che l’autorizzazione alla donna divorziata di conservare il cognome del marito accanto al proprio costituisce una eventualità straordinaria, affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito, da compiersi secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale, che non possono coincidere con il solo desiderio di conservare, quale tratto identitario, il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa, non potendo neppure escludersi che il perdurante uso del cognome del marito possa costituire un pregiudizio per quest’ultimo, ove intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale a mente dell’art. 8 CEDU, un nuovo nucleo familiare riconoscibile socialmente e giuridicamente come legame attuale.

5.2. L’assegno divorzile.

Del tutto autonomo dall’assegno di mantenimento concesso al coniuge separato è l’assegno divorzile, al quale, in seguito alla riforma introdotta nel 1987 e all’intervento chiarificatore da ultimo espresso da Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-01, è stata riconosciuta natura composita, ossia, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice, o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, a prescindere dalla condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce ad occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico di uno degli ex coniugi), nel senso che i criteri previsti dall’art. 5, comma 6, l. n. 898 del 1970 (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an della concessione, sia al fine di determinare il quantum dell’assegno.

La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile non è, dunque, finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (in tal senso, Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-03), sicché, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti, patrimoniale e reddituale, occorrerà verificare se esso, in termini di correlazione causale, sia o meno il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.

Ciò significa che in caso di non autosufficienza di uno degli ex coniugi o di matrimonio causativo di uno spostamento patrimoniale da un coniuge all’altro ex post divenuto ingiustificato, deve derogarsi al principio secondo il quale, sciolto il vincolo coniugale, ciascun ex coniuge deve preoccuparsi del proprio mantenimento, dovendosi provvedere a correggere, in funzione compensativo-perequativa, la situazione venutasi a creare attraverso il riconoscimento di un assegno divorzile, che sia adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali, alla stregua delle specifiche allegazioni e prove da quest’ultimo fornite in giudizio (in tal senso, Sez. 1, n. 23583/2022, Iofrida, Rv. 665367-01, che ha rilevato come la decisione di merito avesse rigettato la domanda volta ad ottenere il riconoscimento dell’assegno divorzile, senza considerare che il richiedente si era cancellato dalla Cassa dei dottori commercialisti per provvedere alle necessità dei due figli minori adottati dalla coppia, sacrificando le proprie aspettative professionali nell’interesse della famiglia).

Ovviamente, il riconoscimento dell’assegno può giustificarsi anche quando l’inadeguatezza dei mezzi e l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive siano sopravvenute alla sentenza di divorzio e anche quando tale modifica della situazione di fatto sia da ricondurre al licenziamento disciplinare del richiedente a causa della commissione di fatti di reato dolosi, atteso che il diritto all’assegno è legato ad una condizione di oggettiva impossibilità di procurarsi i mezzi adeguati e non può essere escluso sol perché la situazione di difficoltà economica sia dipesa da una condotta volontaria del richiede (in questi termini, Sez. 1, n. 37577/2022, Fidanzia, Rv. 666464-01).

Proprio in ragione del parametro assistenziale e perequativo-compensativo sotteso all’attribuzione dell’assegno divorzile, la Corte di legittimità ha chiarito come il suo presupposto venga meno allorquando, in sede di accertamento sulla sussistenza o meno di un significativo squilibrio delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, emerga che il marito, durante il matrimonio e dopo la separazione, abbia suddiviso il suo patrimonio in favore della moglie, creando tra gli ex coniugi una situazione patrimoniale sostanzialmente equivalente, ancorché costituita, per il marito, da reddito pensionistico e, per la moglie, da una rendita finanziaria (Sez. 1, n. 28936/2022, Crolla, Rv. 665891-01).

Tale precisazione è, del resto, in linea con quanto ulteriormente affermato dalla Corte di cassazione nell’anno in rassegna, allorché ha ritenuto che, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, si debba provvedere ad una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, che tenga conto del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto, condotto sulla scorta di un percorso motivazionale logico e specifico. Ciò non significa che, in grado di appello, il giudice non possa motivare richiamando la pronuncia di primo grado, ma se lo fa, deve dare conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (in applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 23997/2022, Reggiani, Rv. 665373-01, ha ritenuto censurabile la sentenza della Corte d’appello, nella parte in cui aveva attribuito al coniuge ritenuto più facoltoso la titolarità di due società e di plurimi immobili, mediante il mero rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado, in modo acritico e senza specificare la natura degli immobili o la tipologia di diritto reale effettivamente posseduti, non operando alcuna valutazione concreta circa la fondatezza dei motivi di gravame proposti).

Peraltro, in ragione della funzione assolta dall’assegno divorzile, Sez. 6-1, n. 20745/2022, Caiazzo, Rv. 665297-01, ha ritenuto invalidi per illiceità della causa gli accordi con i quali i coniugi avevano fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio, ritenendoli stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all’art. 160 c.c., e ha perciò concluso che di essi non si possa tener conto ai fini della determinazione dell’ assegno divorzile, non solo quando limitino o addirittura escludano il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze, in quanto una preventiva pattuizione potrebbe influenzare il consenso al successivo divorzio (nella specie, è stata perciò confermata la decisione di merito che aveva determinato l’assegno divorzile senza tenere conto degli accordi intercorsi sul punto in sede di separazione, considerando solo le attribuzioni patrimoniali ivi effettivamente operate, quali indici del contributo prestato da uno dei due coniugi alla formazione del patrimonio dell’altro).

Ai sensi dell’art. 9, l. n. 898 del 1970, l’assegno divorzile già riconosciuto può essere oggetto di revisione allorché sia accertata la sussistenza di un mutamento sopravvenuto delle condizioni economiche delle parti, che ne costituisce il presupposto e che deve essere valutato, tenendo conto della funzione in concreto svolta dall’ assegno alla luce dei principi enunciati da Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-01, secondo cui la valutazione delle condizioni economiche delle parti è collegata causalmente agli altri indicatori presenti nell’art. 5, comma 6, l. 898 del 1970, al fine di accertare se l’eventuale disparità esistente all’atto dello scioglimento del matrimonio sia stata determinata da scelte condivise di conduzione della vita familiare, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di uno dei coniugi, tenuto conto della durata del matrimonio e delle rispettive ed effettive potenzialità professionali e reddituali - in modo tale poter valutare l’incidenza o meno delle sopravvenienze sulla spettanza o sulla misura dell’ assegno (Sez. 1, n. 14160/2022, Pazzi, Rv. 664960-01, che ha cassato la decisione di merito in quanto, pur facendo richiamo ai principi della menzionata sentenza delle Sezioni Unite, aveva ridotto l’assegno divorzile, limitandosi ad effettuare una valutazione comparativa delle capacità economiche e patrimoniali degli ex coniugi).

Al riguardo, occorre, peraltro, precisare che il giudice, a fronte della prova di circostanze sopravvenute sugli equilibri economici della coppia, non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile, ma, alla luce dei principi affermati dalla citata Sez. U, n. 18287/2018, Acierno, Rv. 650267-01, deve verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato gli equilibri sanciti dall’assetto economico patrimoniale dato dalla sentenza di divorzio (Sez. 1, n. 07666/2022, Scalia, Rv. 664562-01).

Com’è noto, le Sezioni Unite hanno di recente precisato che l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina necessariamente la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno in relazione alla sua componente compensativa (Sez. U, n. 32198/2021, Rubino, Rv. 663241-01).

Qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge beneficiario dell’assegno, questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio solo per la sua componente perequativo-compensativa. A tal fine, dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell’apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge (Sez. U, n. 32198/2021, Rubino, Rv. 663241-02).

Il diritto all’assegno divorzile può, dunque, venir meno quando l’ex coniuge instauri una stabile convivenza more uxorio, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale.

Ai fini dell’accertamento di tale circostanza, può tenersi conto dell’elemento indiziario dato dall’eventuale coabitazione con l’altra persona e di tutti i fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge e valutati non atomisticamente ma nel loro complesso, oltreché degli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in merito (Sez. 1, n. 14151/2022, Di Marzio M., Rv. 664954-01).

Come sopra evidenziato, la revoca dell’assegno divorzile non contempla anche la componente compensativa, purché la relativa sussistenza sia specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all’ assegno.

In applicazione di tale principio, Sez., 1, n. 14256/2022, Di Marzio M., Rv. 664869-01, ha confermato la sentenza di merito pronunciata in data anteriore a Sez. U, n. 32198/2021, Rubino, Rv. 663241-02, con la quale era stata rigettata la domanda di assegno divorzile, poiché né nel ricorso per cassazione, né con le memorie illustrative ex art. 380 bis.1 c.p.c., era stata specificamente dedotta l’ipotetica consistenza di un contributo offerto dal coniuge che aveva richiesto l’assegno alla comunione familiare, né una eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative in costanza di matrimonio e neppure un apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare o personale dell’ex coniuge).

E’, invece, ininfluente, ai fini della revoca o della modifica del menzionato assegno, il fatto che l’ex coniuge beneficiario dello stesso abbia percepito la quota dell’indennità di fine rapporto spettante all’altro ex coniuge, atteso che, mentre al riconoscimento dell’assegno segue sempre il diritto alla percezione della quota di TFR, al riconoscimento della quota di TFR non segue la revoca dell’assegno, giacché, in caso contrario, si disapplicherebbe il disposto dell’art. 12 bis della l. n. 898 del 1970, che di tale beneficio fissa presupposti e legittimazione, tenuto anche conto che la percezione della quota di TFR da parte del titolare dell’ assegno divorzile si affianca all’incasso di un importo ben maggiore da parte dell’obbligato al suo pagamento (Sez. 1, n. 07733/2022, Scalia, Rv. 664525-01).

Allo stesso modo, non giustifica automaticamente l’aumento dell’assegno divorzile la revoca dell’assegnazione della casa familiare al coniuge che sia beneficiario dello stesso, trattandosi di un provvedimento che ha come esclusivo presupposto l’accertamento del venir meno dell’interesse dei figli alla conservazione dell’habitat domestico, in conseguenza del raggiungimento della maggiore età e del conseguimento dell’autosufficienza economica o della cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario (Sez. 1, n. 20452/2022, Mercolino, Rv. 665228-01).

In argomento, assumono, infine, rilievo le pronunce che hanno risolto i problemi interpretativi legati agli effetti della morte di uno dei coniugi nel corso del giudizio di divorzio, proprio con riferimento alle sorti della domanda di attribuzione dell’assegno in esame, di seguito illustrate nel paragrafo dedicato all’esame delle questioni processuali.

5.3. Altre pronunce in tema di assegno divorzile.

Appare meritevole di attenzione Sez. 1, n. 20228/2022, Conti, non massimata, ove la S.C., ribadendo un principio già enunciato (Sez. 1, n. 05605/2020, Scalia, Rv. 657036-01), ha affermato che la determinazione dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge in misura superiore a quella prevista in sede di separazione personale, in assenza di un mutamento nelle condizioni patrimoniali delle parti, non è conforme alla natura giuridica dell’obbligo, presupponendo l’assegno di separazione la permanenza del vincolo coniugale, e, conseguentemente, la correlazione tra l’adeguatezza dei redditi ed il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Al contrario tale parametro non rileva in sede di quantificazione dell’assegno divorzile, che deve invece essere determinato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa, secondo i criteri indicati all’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, essendo volto non già alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, bensì al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge beneficiario alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

D’altronde, il riconoscimento dell’assegno divorzile in funzione perequativo-compensativa non si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull’esistenza in sé di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi - che costituisce solo una precondizione fattuale per l’applicazione dei parametri di cui all’art. 5, comma 6, l. n. 898 del 1970 - essendo invece necessaria un’indagine sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta, seppure condivisa, di colui che chiede l’assegno, di dedicarsi prevalentemente all’attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente (Sez. 1, n. 29920/2022, Lamorgese, Rv. 666043-01). In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in presenza di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi, aveva attribuito l’assegno divorzile in ragione dell’attività domestica svolta dalla ex moglie, a prescindere dall’allegazione e dalla prova della perdita di concrete prospettive professionali e di potenzialità reddituali conseguenti alla scelta di dedicarsi alle cure della famiglia ed omettendo, altresì, di considerare che il patrimonio della richiedente era formato in misura prevalente da attribuzioni compiute da parte dell’ex coniuge.

Sul rilievo che la convivenza prematrimoniale è un fenomeno di costume che è sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca un accresciuto riconoscimento - nei dati statistici e nella percezione delle persone - dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali, Sez. 1, n. 30671/2022, Caprioli, ha rimesso al Primo Presidente della Corte per le valutazioni di sua competenza in ordine alla possibile assegnazione alle Sezioni Unite della questione se ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, si deve tener conto anche del periodo di convivenza prematrimoniale.

5.4. La percentuale dell’indennità di fine rapporto.

L’art. 12 bis, comma 1, l. n. 898 del 1970, stabilisce che “il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza”.

Secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, l’ottenimento della quota del trattamento di fine rapporto dell’ex coniuge è condizionato dalla titolarità, in capo al richiedente, dell’assegno divorzile ovvero dalla presentazione, da parte sua, della domanda di divorzio, seguita dalla relativa pronuncia e dall’attribuzione dell’assegno divorzile, al momento in cui l’ex coniuge maturi il diritto alla corresponsione di tale trattamento (vedi Sez. 1, n. n. 4499/2021, Scalia, Rv. 660515-01), costituendo la ratio della norma la correlazione del diritto alla quota del trattamento di fine rapporto alla percezione dell’assegno divorzile (vedi Sez. 1, n. 12175/2011, Felicetti, Rv. 618384-01).

In merito al momento in cui sorge il diritto del coniuge divorziato, che sia anche titolare dell’assegno ex art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, ad ottenere la quota del trattamento di fine rapporto dell’ex coniuge, Sez. 1, n. 24403/2022, Reggiani, Rv. 665374-01, ha chiarito come ciò accada quando quest’ultimo matura il diritto a percepire detto trattamento e, dunque, al tempo della cessazione del rapporto di lavoro, anche se il relativo credito è esigibile solo quando - e nei limiti in cui - l’importo sia effettivamente erogato, con la conseguenza che, una volta cessato il rapporto di lavoro, la richiesta di revoca dell’assegno divorzile, intervenuta nel corso del giudizio instaurato per la relativa liquidazione, non ha alcuna incidenza sulla debenza della menzionata quota, in quanto l’eventuale revoca, anche se disposta dalla data della domanda, è successiva all’insorgenza del diritto in questione.

5.5. I trasferimenti immobiliari in sede di divorzio congiunto.

Come sopra accennato, di recente le Sezioni Unite (Sez. U, n. 21761 del 29/07/2021, Valitutti, Rv. 661859-01) hanno affermato che le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l’attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma 1 bis, della l. n. 52 del 1985, come introdotto dall’art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, restando invece irrilevante l’ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari.

In tale quadro, va segnalato come, secondo Sez. 3, n. 15169/2022, Iannello, Rv. 664830-01, l’accordo tra coniugi avente ad oggetto un trasferimento immobiliare, nell’ambito di un procedimento di divorzio a domanda congiunta, sia soggetto alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti o di terzi, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza che lo recepisce, spiegando quest’ultima efficacia meramente dichiarativa e, dunque, non incidente, in quanto tale, sulla natura di atto contrattuale privato del suddetto accordo (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato inammissibili le domande di simulazione e revocatoria proposte avverso un accordo implicante un trasferimento immobiliare, ritenendo che lo stesso, una volta confluito nella sentenza di divorzio passata in giudicato, dovesse essere impugnato con l’opposizione di terzo revocatoria).

5.6. Aspetti processuali del giudizio di divorzio.

Le pronunce massimate nel periodo in rassegna, riguardanti aspetti processuali del giudizio di divorzio, ruotano tutte intorno alla questione della morte di uno degli ex coniugi in pendenza di tale procedimento.

Fondamentale rilievo assumono due sentenze delle Sezioni Unite.

In primo luogo, Sez. U, n. 20494/2022, Nazzicone, Rv. 665068-01, ha affermato che, nel caso di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo status, con prosecuzione del giudizio, al fine dell’attribuzione dell’assegno divorzile, il venir meno dell’ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all’accertamento della debenza dell’assegno dovuto sino al momento del decesso.

Nella stessa ottica, Sez. U, n. 20495/2022, Nazzicone, Rv. 665040-01, ha ritenuto che la morte in corso di causa dell’ex coniuge che aveva avviato il procedimento per la revisione dell’assegno divorzile non comporta la dichiarazione di improseguibilità dello stesso, perché gli eredi subentrano nella sua posizione, ai fini dell’accertamento della non debenza dell’assegno dalla domanda sino al decesso, oltre che per ottenere la ripetizione delle somme eventualmente non dovute.

Entrambe le decisioni, in motivazione, hanno esaminato le diverse ipotesi suscettibili di verificazione, rilevando che le soluzioni convergono solo nel caso in cui la morte di un coniuge preceda l’adozione di qualsiasi sentenza, e dunque sia anteriore anche alla declaratoria sullo status, divenendo, in questo caso, inammissibile ogni pretesa, inclusa quella all’assegno divorzile.

Il decesso di uno dei coniugi costituisce, infatti, una causa di scioglimento del matrimonio diversa dal divorzio, ai sensi dell’art. 149 c.c., che reca le conseguenze personali e patrimoniali previste dalla legge, non ostacolate da alcun contrastante giudicato.

Diverso è, invece, il discorso nei casi in cui sia stata pronunciata la sentenza costitutiva di divorzio, essendo diverse le possibili evenienze processuali, a seconda che la sentenza sia parziale, in quanto pronunciata solo sullo status, o definitiva, per avere statuito sullo status ed anche sul profilo patrimoniale dell’attribuzione dell’assegno, rilevando anche se al momento del decesso la pronuncia sia già passata in giudicato o non lo sia, per essere, ad esempio, stata impugnata in tutti o in alcuni capi della stessa.

Nella prima delle pronunce appena menzionate, il giudicato sullo status si era già formato e il decesso del coniuge era sopraggiunto nel corso della causa volta all’accertamento del diritto dell’altro a percepire l’assegno divorzile. Sulla scorta di tali premesse, le Sezioni Unite hanno ritenuto ammissibile la prosecuzione del giudizio concernente l’obbligo di corresponsione di un assegno nei confronti degli eredi del preteso obbligato, ai fini dell’accertamento della debenza del diritto all’assegno dalla data del passaggio in giudicato della sentenza sullo status a quella del decesso.

Anche nella seconda pronuncia era già intervenuto il giudicato che, addirittura, aveva riguardato tutte le statuizioni relative al divorzio, di cui uno degli ex coniugi, poi deceduto, aveva chiesto la revisione ai sensi dell’art. 9 l. n. 898 del 1970. Secondo le Sezioni Unite, venuta meno una delle parti del rapporto di solidarietà post-coniugale, la domanda di accertamento della non debenza dell’assegno - dalla data della domanda di revisione a quella del decesso - prosegue da parte degli eredi dell’obbligato, onde il processo può giungere al suo esito, ai fini dell’accertamento dell’eventuale non debenza dell’assegno a partire da una certa data e della condanna alla restituzione delle somme versate e non dovute.

Successivamente, Sez. 1, n. 37896/2022, Caprioli, Rv. 666471-01, ha ribadito che il decesso di uno dei coniugi nel corso del giudizio di divorzio in grado di appello, senza che sia passata in giudicato la sentenza sullo status, determina la cessazione della materia del contendere non solo con riferimento alla domanda di divorzio, in conseguenza del venir meno, per ragioni naturali, del rapporto di coniugio, ma anche in relazione alle domande volte ad ottenere l’assegno di mantenimento per i figli e quello divorzile, non potendo più essere vantato alcuno dei corrispondenti diritti.

In continuità con le decisioni delle Sezioni Unite, anche Sez. 1, n. 37898/2022, Caprioli, Rv. 666472-01, ha precisato che, ove sia proposto ricorso per cassazione avverso la decisione di merito riguardante l’assegno divorzile, la morte di uno di uno degli ex coniugi in corso di causa non determina l’improseguibilità del giudizio, sussistendo il giudicato sullo status, e il processo continua senza alcuna interruzione, producendo effetti nei confronti degli eredi, ai fini dell’accertamento della debenza del menzionato assegno sino al momento del decesso.

6. La restituzione dell’assegno di mantenimento e di quello divorzile.

L’ammissibilità o meno della restituzione dell’assegno di mantenimento o divorzile, erogato in corso di causa e risultato non dovuto, è fortemente condizionata dal problema relativo al rapporto sussistente tra provvedimenti provvisori presidenziali (e quelli successivi del giudice istruttore) e sentenza, il quale è stato più volte risolto in giurisprudenza nel senso di riconoscere a quest’ultima efficacia ex nunc (per tutte Sez. 1, n. 11029/1999, Verucci, Rv. 530452-01, con riferimento all’assegno in favore del coniuge separato). Ciò ha portato i giudici di legittimità ad escludere, in numerosi casi, la ripetibilità delle somme corrisposte in esubero dal coniuge abbiente, sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace ratione temporis, e considerate soggette alla presunzione della loro consumazione per il sostentamento del coniuge debole, benché, in alcuni casi, ne abbiano temperato la portata, attraverso il limite previsto dall’art. 96, comma 2, c.p.c., in virtù del quale hanno attribuito rilievo alla condotta posta in essere dal coniuge più debole, che abbia agito senza la normale prudenza, salva la natura sostanzialmente alimentare dell’assegno. Quello della natura alimentare dell’assegno è, peraltro, concetto ripreso anche da quelle pronunce che hanno considerato retroattiva la sentenza che determina in diminuzione l’assegno e dunque ripetibili le somme pagate in eccesso dal coniuge debitore, che hanno fatto salva proprio l’ipotesi in cui la consistenza quantitativa dell’assegno riconosciuto al coniuge debole e successivamente ridotto sia stata tale da imprimere ad esso i caratteri dell’assegno alimentare o sostanzialmente alimentare, evidenziando, perciò, la necessità di una verifica in concreto della sua natura alla stregua della sua entità (Sez. 1, n. 13060/2002, Magno, Rv. 557306-01; Sez. 1, n. 21926/2019, Acierno, Rv. 655300-01).

Nell’anno in rassegna, il problema della rimborsabilità o meno dell’assegno di mantenimento o divorzile è stato compiutamente affrontato da Sez. U, n. 32914/2022, Iofrida, Rv. 666186-01, che, proprio partendo dalla constatazione dell’affermazione, nella giurisprudenza di legittimità, della retroattività del provvedimento di riconoscimento dell’assegno in favore del coniuge più debole, quanto alla separazione, e della specifica disciplina sancita dall’art. 4, comma 13, della l. n. 898 del 1970, quanto al divorzio, hanno evidenziato come la questione della riconoscibilità del rimborso sia rimasta incisa da alcune modifiche processuali, che hanno consentito di confermare, nella sostanza, la funzione cautelare dei provvedimenti provvisori assunti dal presidente e dal giudice istruttore e dunque i caratteri della provvisorietà e strumentalità degli stessi, ancorché connotati da peculiarità, quali l’officiosità e l’ultrattività, richiamando, all’uopo, gli artt. 8 e 23 della l. n.74 del 1987, che, modificando la legge n. 898 del 1970, hanno stabilito la provvisoria esecutività dei provvedimenti economici disposti con la sentenza di primo grado; l’introduzione del c.d. “nuovo rito cautelare” di cui agli artt. 669 bis e ss. c.p.c. per effetto della l. n. 353 del 1990, a decorrere dal 1° gennaio 1993; la modifica dell’art. 336 c.p.c. (sempre a seguito della riforma di cui alla l. n. 353 del 1990); la l. n. 80 del 2005, che ha previsto, nel novellato art. 709 c.p.c., la revocabilità e modificabilità dei provvedimenti presidenziali ad opera del giudice istruttore; la l. n. 54 del 2006, che ha introdotto la reclamabilità dei provvedimenti presidenziali ex art.708 c.p.c.; e, in ultimo, il d.lgs. n. 149 del 2022 di riforma del processo civile, recante attuazione della legge delega n. 206 del 2021, nel quale è stato previsto, all’art. 473 bis.22, nel Titolo IV bis dedicato alle norme per il procedimento - unificato - in materia di persone, minorenni e famiglie, che il giudice, all’udienza di comparizione delle parti, se la conciliazione non riesce, adotta i provvedimenti necessari ed urgenti che ritiene opportuni nell’interesse delle parti “nei limiti delle domande da queste proposte” e, quando pone a carico delle parti l’obbligo di versare un contributo economico, determina “la data di decorrenza del provvedimento, con facoltà di farla retroagire fino alla data della domanda”.

Data questa premessa, le Sezioni unite hanno affermato che il diritto del coniuge separato o dell’ex coniuge, obbligato o richiesto, di ripetere le maggiori somme provvisoriamente versate e il correlativo obbligo di restituzione di quelle indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità), sussiste nel caso in cui, con la sentenza, venga escluso in radice e ab origine (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati), ovvero si addebiti la separazione al coniuge che, nelle more, abbia goduto di un assegno con funzione non meramente alimentare. Per converso, in considerazione della tutela di quella solidarietà post-familiare, sottesa in tutta la disciplina relativa alla crisi della famiglia, e dell’esistenza e permanenza, in giudizio, di un soggetto in condizioni di debolezza economica, detto diritto non può sussistere sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione), sia nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale (o nel rapporto tra la sentenza definitiva di un grado di giudizio rispetto a quella, sostitutiva, del grado successivo) venga rimodulato al ribasso, purché, in entrambi i casi, l’assegno non superi la misura che garantisca al soggetto debole di far fronte alle normali esigenze di vita della persona media, tale che la somma di denaro possa ragionevolmente e verosimilmente ritenersi pressoché tutta consumata, nel periodo per il quale è stata prevista la sua corresponsione.

Tenuto conto di ciò, si è dunque precisato che, in materia di crisi di famiglia e di regolazione dei rapporti economici tra coniugi nel corso di procedimenti di separazione e di divorzio, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere, nel senso che: a) opera la condictio indebiti ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione del richiedente o avente diritto, ove si accerti l’insussistenza ab origine dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la condictio indebiti e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione), sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità.

7. Lo status di figlio.

Com’è noto la disciplina relativa all’acquisto dello stato filiale di figlio è stata oggetto di diverse istanze di rimessione alla Corte Costituzionale, disattese dalla Corte di cassazione per la manifesta infondatezza delle questioni sollevate.

È stata così dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c., nella parte in cui, nel disciplinare la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità, prevede termini differenziati quando l’azione sia proposta dal figlio, oppure dai discendenti dopo la sua morte, perché la diversità di disciplina trova giustificazione nell’evidente disomogeneità delle situazioni considerate. L’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio tutela l’interesse del medesimo al riconoscimento della propria filiazione, interesse che resta integro anche nell’ipotesi di decesso del presunto genitore, mentre il termine decadenziale biennale previsto per l’azione promossa dagli eredi del presunto figlio, dopo la sua morte, è giustificato dal fatto che essi sono portatori di un interesse non diretto, ma solo riflesso, al riconoscimento della filiazione del loro ascendente. Inoltre, a differenza di quanto accade per i discendenti, il diritto al riconoscimento di uno status filiale corrispondente alla verità biologica costituisce per il figlio una componente essenziale del diritto all’identità personale, riconducibile all’art. 2 Cost. ed all’art. 8 CEDU, che accompagna la vita individuale e relazionale, e l’incertezza su tale status può determinare una condizione di disagio ed un vulnus allo sviluppo adeguato ed alla formazione della personalità. (Sez. 6-1, n. 01667/2020, Mercolino, Rv. 656982-01).

Analogamente è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250, commi 3 e 4 c.c., sollevata in relazione agli artt. 2, 3, 24, 31 e 32 Cost. - nella parte in cui rimette al giudice la decisione finale circa la rispondenza del riconoscimento all’interesse del figlio che non abbia ancora compiuto i quattordici anni, in assenza del consenso del genitore che lo abbia riconosciuto per primo - poiché la scelta del legislatore di dettare una clausola generale affidandone al giudice la concretizzazione nella singola fattispecie, non costituisce una delega al giudizio personale del singolo giudice, ma risponde all’esigenza di consentire l’adattamento del concetto generale dell’interesse del figlio, alle infinite varietà delle situazioni concrete che non potrebbero mai essere tutte previste nella norma scritta, consentendo così, senza lacune, in ogni caso il bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti dalla norma (Sez. 1, n. 21428/2022, Nazzicone, Rv. 665235-01).

Sotto altro, fondamentale, profilo, va segnalata Sez. 1, n. 26616/2022, Iofrida, Rv. 665942-01, la quale ha osservato che il diritto dell’adottato ad accedere alle informazioni concernenti le proprie origini e a conoscere l’identità della madre biologica, che alla nascita abbia dichiarato di non volere essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000, sussiste anche quando quest’ultima sia deceduta, dovendo comunque essere esercitato in modo corretto e lecito, circondato da cautele a protezione del nucleo familiare e relazionale costituito dopo l’esercizio del diritto all’anonimato della donna; nel bilanciamento dei valori, tuttavia, stante l’ampiezza che deve essere riconosciuta al diritto all’accertamento dello status di figlio, la tutela dei diritti degli eredi e dei discendenti della madre non può che recedere di fronte alla tutela del diritto del figlio che rivendica il proprio status, sicché, venuta meno l’esigenza di salvaguardare la vita e la salute di quest’ultima, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione ma anche per la proposizione dell’azione di accertamento dello status di figlio naturale.

7.1. Profili processuali delle azioni di stato.

Nel procedimento volto al riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, il compimento del quattordicesimo anno di età costituisce uno spartiacque fondamentale per la rilevanza del consenso del genitore, che per primo lo abbia riconosciuto, e per la valutazione del suo interesse al riconoscimento.

Va al riguardo preliminarmente rimarcato come, ove il figlio sia infraquattordicenne, la prestazione del consenso da parte del genitore che l’abbia già riconosciuto, ai sensi dell’art. 250, comma 3, c.c., non è elemento costitutivo della fattispecie, ma condicio iuris dell’efficacia dell’atto di riconoscimento, di talché, ove tale consenso manchi, la fattispecie è perfetta, ma improduttiva di effetti. Ne consegue che ove il figlio, raggiunti i quattordici anni, abbia inequivocabilmente manifestato il proprio assenso al riconoscimento da parte di uno dei genitori, il mancato consenso da parte dell’altro che l’abbia già riconosciuto non determina l’inefficacia del secondo riconoscimento (Sez. 2, n. 22953/2022, Criscuolo, Rv. 665380-01).

Laddove, inoltre, il figlio abbia già compiuto quattordici anni, nell’azione, intrapresa da un terzo interessato, di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, già maggiorenne ed economicamente indipendente al momento della instaurazione del giudizio, l’altro genitore non è un litisconsorte necessario, perché l’eventuale pronuncia caducatoria dello status filiationis del soggetto maggiorenne non produce effetti rilevanti di alcun genere nei confronti del primo, sotto il profilo della responsabilità genitoriale, come pure degli obblighi morali di crescita, educazione ed istruzione e di quelli materiali al mantenimento del figlio, ormai non più ipotizzabili; tale genitore, comunque, può intervenire volontariamente nel processo, ove intenda tutelare eventuali propri diritti e/o interessi, o esservi chiamato dal figlio stesso, laddove quest’ultimo voglia giovarsi della sua partecipazione alla lite (Sez. 1, n. 03252/2022, Campese, Rv. 664158-02).

Sez. 1, n. 03252/2022, Campese, Rv. 664158-03, ha inoltre chiarito le modalità per effettuare il giudizio di bilanciamento, affermando che nell’azione, intrapresa dal terzo interessato, di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio e già maggiorenne al momento della instaurazione del corrispondente giudizio, il bilanciamento che il giudice adito è tenuto ad effettuare tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata, né può implicare, ex se, il sacrificio dell’uno in nome dell’altro, ma impone di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, tra cui il diritto all’identità personale del riconosciuto, correlato non solo alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali interni alla famiglia, al consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento ed all’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che non aveva operato tale bilanciamento, in un caso in cui l’azione ex art. 263 c.c. era stata esperita dalla moglie di colui che aveva effettuato il riconoscimento, il quale si era limitato ad aderire alla domanda, senza che al giudizio avesse preso parte l’altro genitore che aveva operato il riconoscimento del figlio oramai ultraquarantenne.

Rileva, infine, Sez. 1, n. 35998/2022, Acierno, Rv. 666250-01, la quale ha osservato che nell’azione di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, già maggiorenne ed economicamente indipendente al momento della instaurazione del giudizio, il genitore di cui non si discute lo status non è un litisconsorte necessario, perché l’eventuale pronuncia caducatoria dello status filiationis del soggetto maggiorenne non produce effetti rilevanti di alcun genere nei suoi confronti, sotto il profilo della responsabilità genitoriale, come pure degli obblighi morali di crescita, educazione ed istruzione e di quelli materiali al mantenimento del figlio, ormai non più ipotizzabili. Ove, invece, l’azione di impugnazione coinvolga un figlio minorenne, la rilevante modifica della situazione familiare, in termini di obblighi morali e materiali verso il figlio, giustifica il litisconsorzio necessario del predetto genitore.

7.2. Contributo al mantenimento del figlio e azioni di stato.

In tema di determinazione del contributo al mantenimento, Sez. 1, n. 15148/2022, Condello, Rv. 664829-01, in aderenza a quanto statuito da Sez. 1, n. 26205/2013, Acierno, Rv. 629742-01, ha affermato che l’obbligo del genitore di concorrere all’educazione ed al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., sorge al momento della procreazione, anche qualora questa sia stata accertata successivamente con la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che, come verrà di seguito illustrato, costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti allo status di genitore.

Per quanto riguarda il rimborso delle spese di mantenimento sostenute dal genitore che per primo ha riconosciuto il figlio, Sez. 1, n. 16916/2022, D’orazio, Rv. 664947-01, ha precisato che, in materia di figli nati fuori del matrimonio, il diritto al rimborso delle spese in favore del genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, la cui paternità (o maternità) sia successivamente dichiarata, ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretto a ristorare colui che ha effettuato il riconoscimento dagli esborsi sostenuti, sicché il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile nel suo preciso ammontare, può utilizzare il criterio equitativo, tenendo conto delle molteplici e variabili esigenze del figlio (soddisfatte o da soddisfare), legate allo sviluppo e alla formazione di studio e professionale, restando comunque indiscutibili le spese di sostentamento, sin dalla nascita, in base ad elementari canoni di comune esperienza.

8. Il curatore speciale del minore.

L’interesse del minore spesse volte non coincide con quello di coloro che su di lui esercitano la responsabilità genitoriale, anzi, la prassi insegna come gli interessi ben possano essere contrapposti o, comunque, in conflitto.

Questo comporta non la semplice opportunità ma la necessità che tale interesse venga tutelato e rappresentato in giudizio da un curatore speciale.

Al riguardo occorre muovere da Sez. 1, n. 40490/2021, Campese, Rv. 663533-01, la quale - in aderenza alle precedenti Sez, 1, n. 38719/2021, Iofrida, Rv. 663115-01, e Sez. 1, n.01471/2021, Valitutti, Rv.660382-01 - ha affermato che nei procedimenti limitativi o eliminativi della responsabilità genitoriale ex artt. 330 e ss. c.c., il giudice di merito, in forza del combinato disposto dell’art. 336, commi 1 e 4, c.c., è tenuto a nominare al minore un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. (che a sua volta provvederà a designare un difensore ai sensi dell’art. 336, comma 4 c.c.), determinandosi, in mancanza, la nullità del processo che, se rilevata in sede d’impugnazione, comporta la remissione della causa al primo giudice, perché provveda all’integrazione del contraddittorio, in applicazione degli artt. 354, comma 1, e 383, comma 3, c.p.c.

Nell’ambito dei citati approdi si colloca Sez. 1, n. 07734/2022, Parise, Rv. 664526-02, che, sempre in tema di procedimento instaurati per la regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale ha specificato, in distonia con l’ordinanza innanzi citata, che l’ampliamento in sede di reclamo del thema decidendum a comportamenti dei genitori pregiudizievoli al minore, rilevanti ex art. 333 c.c., comporta per il giudice, oltre al dovere di sollecitare il contraddittorio sul nuovo oggetto di indagine ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c., anche quello di nominare un curatore speciale al figlio per il sopravvenuto conflitto di interessi con i genitori, la cui inottemperanza determina la nullità del giudizio di impugnazione e, in sede di legittimità, la cassazione con rinvio alla Corte d’appello, dovendosi escludere il rinvio al primo giudice, perché contrario al principio fondamentale della ragionevole durata del processo (espresso dall’art. 111, comma 2, Cost. e dall’art. 6 CEDU), di particolare rilievo per i procedimenti riguardanti i minori, e comunque precluso dalla natura tassativa delle ipotesi di cui agli artt. 33, 354, 383 c.p.c., comma 3, che non comprendono quelle in esame, ove le nullità attendono al solo giudizio di reclamo.

La medesima ordinanza ha altresì affermato che nei giudizi avente ad oggetto la regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, ove i genitori siano divenuti tali in assenza di legami sentimentale e di un progetto parentale comune ma in seguito ad un incontro volutamente episodico ed a fini esclusivamente procreativi tra persone mai viste prima, conosciute tramite un sito internet dedicato, e a tale genesi dell’evento procreativo segua una gestione sui generis della genitorialità e/o la volontà di ciascuno dei genitori, o anche di uno solo di essi, di escludere l’altro da ogni rapporto con il figlio, è ravvisabile un potenziale conflitto di interessi tra genitori e figlio, che impone la salvaguardia dell’interesse del minore (Sez. 1, n. 07734/2022, Parise, Rv. 664526-01).

Le decisioni innanzi riportate sono in linea con la recentissima evoluzione normativa avvenuta ad opera della cd. “riforma Cartabia” (l. 26 novembre 2021, n. 206, di seguito anche “legge delega”) che ha modificato gli artt. 78 e 80 c.p.c. rendendo obbligatoria, a pena di nullità, la nomina del curatore speciale a presidio e tutela dell’interesse del minore, ed ha ulteriormente rafforzato la disciplina dell’ascolto del minore, ulteriore fondamentale strumento per la sua tutela nel procedimento che lo riguarda.

Nel dettaglio, il novellato art. 78 c.p.c. ha previsto che tale nomina, in alcuni specifici casi, debba da considerarsi obbligatoria, pena la nullità degli atti del procedimento. In particolare, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

“3. Il giudice provvede alla nomina del curatore speciale del minore, anche d’ufficio e a pena di nullità degli atti del procedimento: 1) con riguardo ai casi in cui il pubblico ministero abbia chiesto la decadenza dalla responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, o in cui uno dei genitori abbia chiesto la decadenza dell’altro; 2) in caso di adozione di provvedimenti ai sensi dell’articolo 403 del codice civile o di affidamento del minore ai sensi degli articoli 2 e seguenti della legge 4 maggio 1983, n. 184; 3) nel caso in cui dai fatti emersi nel procedimento venga alla luce una situazione di pregiudizio per il minore tale da precluderne l’adeguata rappresentanza processuale da parte di entrambi i genitori; 4) quando ne faccia richiesta il minore che abbia compiuto quattordici anni. 4. In ogni caso il giudice può nominare un curatore speciale quando i genitori appaiono per gravi ragioni temporaneamente inadeguati a rappresentare gli interessi del minore; il provvedimento di nomina del curatore deve essere succintamente motivato”.

Le disposizioni appena riportate sono state abrogate dal d.lgs. n. 149 del 2022, attuativo della menzionata “legge delega”, che le ha riversate nel testo del nuovo art. 473 bis.8 c.p.c., di prossima entrata in vigore.

Sotto il profilo processuale, infine, va segnalata Sez. 1, n. 28333/2022, Falabella, Rv. 665897-01, la quale ha statuito che in tema di procedimenti instaurati per la regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, il decreto di nomina del curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c. non è ricorribile per cassazione poiché è privo sia del requisito della definitività (essendo revocabile e modificabile in ogni tempo ex art. 742 c.p.c.) sia di quello della decisorietà (in quanto pur attenendo a posizioni di diritto soggettivo, non risolve conflitti su diritti contrapposti). Il 2022 è stato caratterizzato da una copiosa produzione giurisprudenziale in tema di famiglia e tutela del minore. In breve tempo si sono susseguite numerose decisioni che hanno affrontato i diversi aspetti della materia, talvolta confermando i precedenti orientamenti, talvolta ponendo in luce nuovi profili.

9. L’ascolto del minore.

In argomento è da menzionare Sez. 1, n. 09691/2022, Caiazzo, Rv. 664370-03, che ha ribadito come l’ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, finalizzato a raccogliere le sue opinioni ed a valutare i suoi bisogni, dovendosi ritenere del tutto irrilevante che il minore sia stato sentito in altri precedenti procedimenti pur riguardanti l’affidamento. Il principio è stato affermato in una fattispecie nella quale la Corte d’appello che, nell’emettere un provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre, aveva omesso l’ascolto del minore, limitandosi ad osservare che il bambino era stato già ascoltato dai giudici e dai consulenti tecnici, in precedenti procedimenti aventi ad oggetto il suo affidamento. Tale pronuncia fa seguito a numerose decisioni che si sono espresse in tal senso tra cui Sez. 1, n.12018/2019, Tricomi L., Rv. 653695-02, la quale aveva già affermato che l’audizione dei minori, prevista nell’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardano ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la l. n. 77 del 2003, nonché dell’art. 315 bis c.c. (introdotto dalla l. n. 219 del 2012) e degli artt. 336 bis e 337 octies c.c. (inseriti dal d.lgs. n. 154 del 2013, che ha altresì abrogato l’art. 155 sexies c.c.).

Numerose sono le pronunce che negli ultimi anni hanno approfondito le caratteristiche di tale istituto, i limiti di operatività e le conseguenze della mancata applicazione. In questa sede è sufficiente richiamare Sez. 1, n. 06129/2015, Acierno, Rv. 634881-01. Conforme alla pronuncia testé indicata, e, tra le ultime, Sez. 1, n. 1474/2021, Valitutti, Rv. 660431-01, la quale ha affermato che, in tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l’audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, non solo se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore, ma anche qualora opti, in luogo dell’ascolto diretto, per quello effettuato nel corso di indagini peritali o demandato ad un esperto al di fuori di detto incarico, atteso che solo l’ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda.

10. L’esercizio della responsabilità genitoriale.

Il tema della responsabilità genitoriale, come ridisegnato dal legislatore nel biennio 2012-2013, ha dato luogo anche nell’anno in rassegna a numerose e importanti pronunce, nelle quali si è continuata a ribadire la centralità della posizione del minore.

Con riferimento al criterio che deve seguire il giudice nell’adozione dei provvedimenti che regolano l’esercizio della responsabilità genitoriale, si deve senza dubbio menzionare Sez. 1, n. 04796/2022, Scalia, Rv. 664020-02, ove la S.C. ha evidenziato che, quando si verifica la crisi della coppia, il diritto del minore al mantenimento di rapporti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori (art. 337 quater c.c.) - che in via sistematica si colloca all’interno di quello, di rilievo convenzionale (art. 8 CEDU), al rispetto della vita familiare – deve essere riconosciuto in composizione con l’interesse del genitore, collocatario e non, nella loro reciproca relazione, fermo restando che l’interesse primario del figlio deve porsi quale punto di “tenuta” o di “caduta” della mediazione operata. In tale ottica, la Corte di cassazione ha ritenuto che il giudice del merito, chiamato ad autorizzare il trasferimento di residenza del genitore collocatario del minore, dovesse valutare con l’interesse di quest’ultimo, nell’apprezzata sussistenza della sua residenza abituale quale centro di interessi e relazioni affettive, quello del genitore che aveva richiesto il trasferimento e, ancora, del genitore non collocatario su cui ricadevano gli effetti del trasferimento autorizzato, per le diverse peggiorative modalità di frequentazione del figlio, che ne derivavano.

In argomento, assume particolare rilievo anche Sez. 1, n. 04790/2022, Scalia, Rv. 664019-01, la quale (in aderenza a Sez. 1, Sez. 1, n. 19323/2020, Pazzi, Rv. 658973-01) ha affermato che la frequentazione, del tutto paritaria, tra genitore e figlio, che si accompagna a tale regime, nella tutela dell’interesse morale e materiale del secondo, ha natura tendenziale, ben potendo il giudice di merito individuare, nell’interesse del minore, senza che possa predicarsi alcuna lesione del diritto alla bigenitorialità, un assetto che se ne discosti, al fine di assicurare al minore stesso la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena (nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto non lesivo del diritto alla bigenitorialità il provvedimento della Corte d’appello che, in sede di reclamo, aveva conservato l’affidamento condiviso delle figlie minori prevedendo, in luogo della precedente collocazione a settimane alterne presso i due genitori, la collocazione prevalente presso la madre e la previsione dei tempi di permanenza delle minori presso il padre).

Se la regola in tema di affidamento del minore è l’affidamento condiviso, l’affidamento esclusivo, quale sua eccezione, deve essere disposto in situazioni particolari. Al riguardo Sez. 1, n. 21425/2022, Campese, Rv. 665234-01, ha avuto il pregio di specificare che la scelta dell’affidamento ad uno solo dei genitori, da effettuarsi in base all’interesse prevalente morale e materiale della prole, deve essere sostenuta non solo dalla verifica della idoneità o inidoneità genitoriale di entrambi i genitori, ma anche e, soprattutto, dalla considerazione delle ricadute che la decisione sull’affidamento avrà nei tempi brevi e medio lunghi, sulla vita dei figli. La citata ordinanza ha, pertanto, statuito che non può essere disposto l’affidamento di due minori in via esclusiva ad uno dei genitori, sulla base di una generica valutazione d’idoneità fondata sulla sola base della buona qualità della rete familiare allargata di quest’ultimo collegata ad una valutazione di grave carenza genitoriale dell’altro, motivata esclusivamente sulla base della sua scelta, non concordata con il genitore non collocatario, di trasferirsi con i figli in un’altra città, senza valutare le ragioni di tale decisione né le conseguenze che avrebbe avuto sui figli l’improvviso allontanamento dalla figura genitoriale di primo riferimento, con la quale avevano sempre vissuto fino ad allora.

In quest’ottica si colloca anche Sez. 1, n. 21054/2022, Conti, Rv. 665359-01, che, decidendo in merito a una controversia similare a quella appena descritta, ha affermato che il coniuge separato che intenda trasferire la residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde per ciò solo l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne il collocatario, dovendo il giudice esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò, ineluttabilmente, incida, in negativo, sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non collocatario. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto coerente con il regime di affidamento condiviso con collocamento presso la madre del minore, il trasferimento del piccolo insieme alla madre in altra città, nella prospettiva di miglioramento della condizione economica materna, escludendo che tale scelta si atteggiasse ad ostacolo al rapporto padre-figlio, ovvero che pregiudicasse il preminente interesse del minore.

Merita, inoltre, di essere segnalata Sez. 1, n. 27348/2022, Falabella, Rv. 665881-02, la quale ha evidenziato che, nei giudizi di separazione fra coniugi, ai fini della statuizione sull’affidamento dei figli, il giudice può legittimamente valorizzare il contenuto delle relazioni del coordinatore genitoriale, unitamente alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, poiché nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura che imponga la tassatività dei mezzi di prova ed è pertanto consentito il ricorso alle prove atipiche.

11. L’esercizio della responsabilità genitoriale, profili processuali.

Le pronunce rilevanti, adottate nell’anno in rassegna, si incentrano tutte sulla ricorribilità per cassazione dei provvedimenti adottati in ordine all’affidamento e alle modalità di visita e frequentazione dei figli anche all’esito dei procedimenti ex art. 709 ter c.p.c.

In via generale, Sez. U, n. 30903/2022, Mercolino, Rv. 666075-01, ha affermato che il decreto pronunciato dalla Corte d’appello in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui il Tribunale abbia adottato statuizioni in ordine all’affidamento e al mantenimento dei figli minori è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., poiché ha carattere decisorio e definitivo ed è volto a statuire su contrapposte pretese di diritto soggettivo con un’efficacia assimilabile, sia pure rebus sic stantibus, al giudicato.

Sez. 1, n. 04796/2022, Scalia, Rv. 664020-01, ha, poi, ritenuto che i provvedimenti giudiziali relativi alla modifica delle modalità di frequentazione e visita dei minori siano ricorribili per cassazione, con superamento del filtro dell’inammissibilità per difetto di decisorietà, nel rilievo assunto dall’errore di diritto per violazione del principio della bigenitorialità, che riceve tutela nell’art. 337 ter c.c. e nell’art. 8 CEDU.

Tale decisione si pone in contrasto con quanto statuito dalle precedenti Sez. 1, 33609/2021, Lamorgese, 663267-01, e dalla più recente Sez. 1, n. 00614/2022, Lamorgese, Rv. 663555-01.

Quest’ultima pronuncia, in particolare, ha distinto tra i provvedimenti che attengono all’affidamento e quelli che hanno ad oggetto le modalità concrete del collocamento dei figli minori, ritenendo che questa ultima categoria di provvedimenti non è ricorribile per cassazione, perché è priva dell’attitudine al giudicato, in quanto attiene a misure modificabili in ogni momento, a prescindere dalla sopravvenienza di fatti nuovi, mancanti dei caratteri della decisorietà e della definitività.

Nella stessa ottica, Sez. 1, n. 01568/2022, Nazzicone, Rv. 663624-01, ha affermato, in tema di ricorso ex art. 709 ter c.p.c. (inserito dall’art. 2 della l. n. 54 del 2006), che i provvedimenti del giudice di merito volti alla mera conformazione delle modalità concrete di esercizio della responsabilità genitoriale e di affidamento della prole, in quanto privi del carattere di definitività e di contenuto decisorio, non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. Il principio è stato affermato in riferimento al ricorso proposto da uno dei genitori avverso la decisione del giudice di merito che aveva autorizzato l’altro genitore ad iscrivere il minore presso una scuola nordamericana, con connesso trasferimento della residenza (a conclusioni opposte è pervenuta Sez. 1, n. 21553/2021, Dolmetta, Rv. 661923-01, secondo la quale i provvedimenti de potestate adottati ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. dalla Corte d’appello in sede di reclamo, al fine di risolvere l’intervenuto contrasto genitoriale, hanno natura stabile e carattere decisorio, pertanto nei loro confronti è ammesso ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., anche se siano destinati ad avere un’efficacia circoscritta nel tempo, come avviene in riferimento alla scelta della scuola presso cui iscrivere il figlio per un anno scolastico).

Anche il provvedimento di ammonimento, adottato ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., secondo Sez. 1, n. 22100/2022, Parise, Rv. 665243-01, non è ricorribile per cassazione, a differenza dei provvedimenti di risarcimento dei danni o di irrogazione della sanzione pecuniaria, in quanto privo dei caratteri della decisorietà e definitività.

Per completezza, occorre menzionare Sez. 1, n. 07266/2022, Fidanzia, Rv. 664170-01, ove si afferma che, in materia di separazione personale tra i coniugi, i provvedimenti provvisori pronunciati dal giudice istruttore nel corso del giudizio, pur incidendo su posizioni di diritto soggettivo, sono suscettibili di modifica o revoca in sede di decisione del giudizio di merito e, in quanto provvedimenti interinali e provvisori, non possono essere oggetto di reclamo in Corte d’appello. Ne consegue altresì che, dovendo escludersi la ricorrenza dei caratteri della definitività e della decisorietà, nei loro confronti non è ammesso ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. Per le medesime ragioni non è ammissibile ricorso per cassazione sul provvedimento di reclamo adottato dalla Corte d’appello avverso i provvedimenti presidenziali in tema di affidamento dei figli minori, trattandosi di provvedimenti con carattere endoprocessuale.

Anche Sez. 1, n. 04778/2022, Scotti, Rv. 664018-01, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. avverso il provvedimento che nel corso di un procedimento ex art. 337 bis c.c. ha adottato, in via provvisoria, misure limitative della responsabilità genitoriale.

Per ulteriori approfondimenti si rinvia alla relazione n. 6 del 2022 redatta da questo Ufficio.

12. Misure ablative o limitative della responsabilità genitoriale: profili sostanziali.

Com’è noto, vari sono i provvedimenti che il giudice di merito può adottare ex art. 333 c.c. Tra questi vi è anche l’affidamento eterofamiliare.

In relazione ai presupposti per la pronuncia di tale provvedimento all’esito di un procedimento instaurato per l’adozione di misure limitative della responsabilità, Sez. 1, n. 26279/2022, Casadonte, Rv. 665878-01, ha osservato che l’adozione di tale provvedimento non richiede necessariamente che sia prima disposta una consulenza tecnica d’ufficio per valutare le capacità genitoriali e individuare le migliori modalità di affidamento, essendo sufficiente l’acquisizione di una valutazione multidisciplinare non risalente, operata da professionisti competenti e terzi rispetto alle parti, che abbia ad oggetto fatti concreti rilevanti ai fini della decisione, accertati nel contraddittorio delle parti e direttamente apprezzabili dal giudice, oltre che caratterizzanti le relazioni del minore con i genitori. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva disposto l’adozione della menzionata misura, fondandola sulla valutazione di un’equipe multidisciplinare della Asl, soggetto terzo rispetto ai Servizi sociali che avevano in carico il minore, svolta, previo ascolto dello stesso, in un arco temporale molto ampio in quanto ritenuta in grado di offrire comprovate garanzie di competenza e terzietà rispetto alle parti del giudizio.

Per quanto riguarda i presupposti per l’assunzione di provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale, Sez. 1, n. 09691/2022, Caiazzo, Rv. 664370-02, ha affermato che la violazione del diritto alla bigenitorialità da parte del genitore che ostacoli i rapporti del figlio con l’altro genitore (anche ponendo in essere condotte che integrino gravi forme di abuso psicologico) e la conseguente necessità di garantire l’attuazione di tale diritto, non impongono necessariamente la pronuncia di decadenza del genitore malevolo dalla responsabilità genitoriale e l’allontanamento del minore dalla sua residenza, quali misure estreme che recidono ineluttabilmente ogni rapporto, giuridico, morale ed affettivo con il figlio, essendo necessaria la verifica, in applicazione del principio del superiore interesse del minore, della possibilità che tale rimedio incontri, nel caso concreto, un limite nell’esigenza di evitare un trauma, anche irreparabile, allo sviluppo fisico-cognitivo del figlio, in conseguenza del brusco e definitivo abbandono del genitore con il quale aveva sempre vissuto e della correlata lacerazione di ogni consuetudine di vita.

13. Misure ablative o limitative della responsabilità genitoriale, profili processuali.

Nel corso del 2022, la S.C. ha ribadito che i provvedimenti che incidono sul diritto degli ascendenti ad instaurare ed a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., nel testo novellato dall’art. 42 del d.lgs. n. 154 del 2013, al pari di quelli ablativi della responsabilità genitoriale emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, definendo essi procedimenti che dirimono comunque conflitti tra posizioni soggettive diverse e nei quali il minore è parte; pertanto, seppure adottati in via provvisoria e urgente, incidendo su diritti personalissimi e di rango costituzionale, hanno carattere decisorio e sono reclamabili davanti alla Corte di appello (così Sez. 1, n. 00082/2022, Caiazzo, Rv. 663483-01; nello stesso senso, Sez. 1, n. 19780/2018, Valitutti, Rv. 649955-01 e Sez. 1, n. 29001/2018, Campese, Rv. 651477-01).

Nella stessa ottica, Sez. 1, n. 09691/2022, Caiazzo, Rv. 664370-01, ha affermato che, in materia di provvedimenti de potestate ex artt. 330, 333 e 336 c.c., il decreto pronunciato dalla Corte d’appello sul reclamo avverso quello del Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari del decreto reclamato, carattere decisorio e definitivo, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, ed essendo modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto e quindi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, anche quando non sia stato emesso a conclusione del procedimento per essere stato, anzi, espressamente pronunciato in via non definitiva, trattandosi di provvedimento che riveste comunque carattere decisorio, quando non sia stato adottato a titolo provvisorio ed urgente, idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull’esercizio della responsabilità genitoriale. Il principio è stato affermato in un giudizio in cui il Tribunale per i minorenni aveva disposto la decadenza della madre dall’esercizio della responsabilità genitoriale, il collocamento del minore in una casa-famiglia e la temporanea sospensione di ogni rapporto tra il minore e la madre.

La decisione si pone in continuità con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha più volte confermato il principio enunciato da Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. n. 651820-02 (in termini, Sez. 1, n. 1668/2020, Mercolino, Rv. 656983-01, e Sez. 1, n. 17177/2020, Valitutti, Rv. 658565-01).

Una diversa opinione è espressa da Sez. 1, n. 02816/2022, Nazzicone, Rv. 663800-01, secondo la quale il decreto con cui la Corte d’appello dichiari inammissibile il reclamo contro la statuizione del Tribunale per i minorenni, che sospende la responsabilità genitoriale, attiene a un provvedimento privo dei caratteri di decisorietà e definitività e, pertanto, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. la fattispecie ha però riguardato un provvedimento provvisorio e non definitivo di sospensione della responsabilità genitoriale.

Come già anticipato, anche Sez. 1, n. 04778/2022, Scotti, Rv. 664018-01, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. avverso il provvedimento che nel corso di un procedimento ex art. 337 bis c.c. aveva adottato, in via provvisoria, misure limitative della responsabilità genitoriale.

In effetti, anche altre pronunce hanno escluso la ricorribilità per cassazione contro i provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale adottati in via provvisoria (Sez. 1, n. 28724 del 16/12/2020, Caradonna, Rv. 659934-01; Sez. 1, n. 24638/2021, Caradonna, Rv. 662541-01).

La Prima Sezione Civile (Sez. 1, n. 30457/2022, Caprioli,) ha comunque rimesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, relativa alla possibilità di proporre ricorso per cassazione nei confronti dei provvedimenti de potestate di natura provvisoria, avuto riguardo alla complessità istruttoria relativa alla loro revoca o modifica ed alla conseguente definitività di fatto che gli stessi finiscono per assumere.

14. Il mantenimento dei figli.

Tenuto conto dell’unitaria disciplina relativa al mantenimento dei figli, possono essere esaminate in un unico contesto tutte le statuizioni riguardanti il mantenimento dei figli (ed anche l’assegnazione della casa familiare), adottate nei diversi giudizi separativi (menzionati all’art. 337 bis c.c.).

Com’è noto, in tema di separazione personale dei coniugi, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole e dei figli minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, occorre accertare il tenore di vita della famiglia durante la convivenza matrimoniale, a prescindere dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali godute, assumendo rilievo anche i redditi occultati al fisco, all’accertamento dei quali l’ordinamento prevede strumenti processuali ufficiosi, quali le indagini della polizia tributaria (Sez. 1, n. 22616/2022, Reggiani, Rv. 665520-01).

Sez. 1, n. 27599/2022, Reggiani, Rv. 665640-01, ha inoltre osservato che alla quantificazione dell’assegno di mantenimento, a seguito della separazione dei coniugi, deve attribuirsi rilievo anche all’assegnazione della casa familiare che, pur essendo finalizzata alla tutela esclusiva della prole e del suo interesse a conservare il proprio habitat familiare, rappresenta un’utilità suscettibile di apprezzamento economico, come del resto espressamente precisato dall’art. 337 sexies c.c., anche nel caso in cui il coniuge separato assegnatario dell’immobile ne sia comproprietario, perché il suo godimento del bene non trova fondamento nella comproprietà dell’abitazione, ma nel provvedimento di assegnazione, opponibile anche ai terzi, che limita la facoltà dell’altro coniuge di disporre della propria quota immobiliare e si traduce in un pregiudizio economico, anch’esso valutabile ai fini della quantificazione dell’assegno dovuto.

In argomento, assume particolare rilievo Sez. 1, n. 22075/2022, Reggiani, Rv. 665242-01, ove la S.C. ha chiarito che nei giudizi di separazione e divorzio, a fronte della richiesta di revisione dell’assegno di mantenimento dei figli (minorenni o maggiorenni e non autosufficienti economicamente), giustificata dall’insorgenza di maggiori oneri legati alla crescita di questi ultimi, il giudice di merito, che ritenga necessarie tali maggiori spese, non è tenuto, in via preliminare, ad accertare l’esistenza di sopravvenienze nel reddito del genitore obbligato, ma a verificare se tali maggiori spese comportino la necessità di rivedere l’assegno, ben potendo l’incremento di spesa determinare un maggiore contributo anche a condizioni economiche dei genitori immutate (o mutate senza alterare le proporzioni delle misure di ciascuno dei due), ovvero non incidere sulla misura del contributo di uno o di entrambi gli onerati, ove titolari di risorse non comprimibili ulteriormente.

Di grande rilievo è anche Sez. 1, n. 13664/2022, Amatore, Rv. 664764-01, che ha evidenziato come, in tema di assegno di mantenimento del figlio, l’aumento delle esigenze economiche di quest’ultimo è notoriamente legato alla sua crescita e non ha bisogno di specifica dimostrazione. Ne consegue che le esigenze di cura, educazione, istruzione ed assistenza, crescenti con l’età - che devono essere soddisfatte dai genitori ai sensi dell’art. 337 ter, comma 1 c.c. - non possono ritenersi coperte ed assorbite integralmente con l’assunzione del pagamento delle cd. “spese straordinarie”, dovendosi provvedere ad un proporzionale adeguamento dell’assegno di mantenimento.

Sez. 1, n. 29264/2022, Terrusi, Rv. 665892-01, ha inoltre affermato che il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso. In applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha ritenuto insussistenti i presupposti per la persistenza del diritto all’assegno di mantenimento da parte di una figlia, ormai trentenne, convivente con uno dei genitori, evidenziando come l’età della stessa e la sua condizione di madre non economicamente autonoma avrebbero dovuto, responsabilmente, portarla a far ricorso a strumenti di sostegno sociale.

Sotto diverso profilo, Sez. 1, n. 10450/2022, Caiazzo, Rv. 664543-01, ha affermato che ai fini della valutazione in ordine alla permanenza dell’obbligo degli ascendenti di contribuire al mantenimento dei nipoti ai sensi dell’art. 148 c.c. (ora ex art. 316 bis c.c.) deve tenersi conto dell’età dei beneficiari (non potendo tale obbligo protrarsi oltre ragionevoli limiti di età), del tempo decorso dall’ordinanza che ha accertato il diritto al mantenimento ed anche della concreta possibilità che i nipoti possano accedere al “reddito di cittadinanza”, introdotto dal d.l. n. 4 del 2019, conv. con modif. in l. n. 26 del 2019. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia di merito, che aveva respinto la domanda dell’ascendente di revoca dell’assegno di mantenimento in favore di due nipoti, nati nel 1991 e nel 1993, previsto con ordinanza tredici anni addietro, semplicemente rilevando che i nipoti non erano ancora indipendenti economicamente e che il reddito della madre non era sufficiente a sostenerli.

Una fattispecie tutta particolare è quella esaminata da Sez. 2, n. 34865/2022, Tedesco, Rv. 666318-01, ove si è ritenuto che l’accordo raggiunto in sede di divorzio tra i genitori, contenente l’obbligo di fornire ai figli i mezzi per l’acquisto di un bene a loro nome, non costituisce una donazione indiretta ove, ancorché effettuato a titolo gratuito, non sia posto in essere per spirito di liberalità ma costituisca parte integrante della più ampia regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi.

15. Il mantenimento dei figli, profili processuali.

In tema di riparto di giurisdizione tra giudice italiano e giudice straniero, Sez. U, n. 30903/2022, Mercolino, Rv. 666075-01, ha statuito che, nelle controversie che hanno ad oggetto la determinazione del contributo al mantenimento del figlio minore residente in uno Stato non appartenente all’UE, spetta al giudice italiano la cognizione sulla domanda formulata nei confronti di un genitore avente la cittadinanza e residenza italiana, poiché, in assenza di una specifica convenzione internazionale, non trova applicazione l’art. 42 della l. n. 218 del 1995, che attiene ai rapporti personali tra genitore e figlio, bensì l’art. 37 della legge citata, relativo alla categoria delle “obbligazioni alimentari” nella famiglia, cui deve essere ricondotto anche l’obbligo di mantenimento dei figli. La giurisdizione del giudice italiano sussiste, pertanto, non solo nei casi previsti dagli artt. 3 e 9 della stessa legge, ma anche in quelli in cui uno dei genitori, o il figlio, sia cittadino italiano o risieda in Italia.

Con riferimento ai limiti della domanda nei procedimenti in cui si statuisce sul mantenimento dei figli, Sez. 1, n. 28483/2022, Conti, Rv. 665754-01, ha ritenuto che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice d’appello che, a fronte dell’impugnazione della sentenza di divorzio sul capo relativo alla quantificazione dell’assegno di mantenimento per i figli, provveda, in mancanza di una specifica impugnazione sul punto, anche in relazione alle spese di viaggio necessarie a consentire il diritto di visita del genitore non collocatario, atteso che tali spese rientrano tra gli esborsi destinati ai bisogni ordinari dei figli e sortiscono l’effetto di integrare l’assegno di mantenimento, cosicché la questione ad esse relativa deve intendersi tacitamente proposta in necessaria connessione con la domanda espressamente formulata.

In ordine al giudizio promosso dal figlio maggiorenne nei confronti di un genitore per ottenere il proprio mantenimento, Sez. 1, n. 18451/2022, Nazzicone, Rv. 664969-01, ha evidenziato che l’altro genitore non è litisconsorte necessario, non essendo l’obbligazione dedotta in giudizio obbligazione solidale. Tuttavia, una volta individuata la misura dell’assegno, il carico non può che ripartirsi fra i genitori in proporzione delle rispettive sostanze e possibilità; ne consegue che il giudice del merito è tenuto ad accertare, sia pure incidentalmente e senza forza di giudicato, i redditi di entrambi i genitori, per ripartire il peso dell’assegno a carico di ciascuno.

16. L’assegnazione della casa familiare.

La Corte di cassazione ha affrontato nel corso dell’anno, sotto molteplici profili, la disciplina dell’assegnazione della casa familiare.

In particolare, in tema di statuizioni conseguenti al divorzio, è stata ritenuta legittima la revoca dell’assegnazione della casa familiare all’ex coniuge collocatario del figlio minore, nel caso in cui risulti che lo stesso, insieme al figlio, abbia vissuto per un considerevole lasso di tempo in un’altra città, senza che assuma rilievo il successivo ritorno nella città di provenienza. La disciplina dall’art. 6, comma 6, l. n. 898 del 1970 risponde, infatti, all’esigenza dei figli minori di preservare la continuità delle abitudini e delle relazioni domestiche nell’ambiente nel quale esse si sono sviluppate prima della separazione dei genitori, ma tale esigenza viene a mancare quando i figli si siano oramai allontanati dal luogo in cui si è svolta la loro vita familiare prima che i genitori si lasciassero (Sez. 1, n. 10453/2022, Caiazzo, Rv. 664539-01).

Sempre in tema di divorzio Sez. 1, n. 20452/2022, Mercolino, Rv. 665228-01, ha poi osservato, così ribadendo la centralità dell’interesse della prole, che la revoca dell’assegnazione della casa familiare al coniuge beneficiario dell’assegno divorzile non giustifica l’automatico aumento di tale assegno, trattandosi di un provvedimento che ha come esclusivo presupposto l’accertamento del venir meno dell’interesse dei figli alla conservazione dell’habitat domestico, in conseguenza del raggiungimento della maggiore età e del conseguimento dell’autosufficienza economica, o della cessazione del rapporto di convivenza con il genitore assegnatario.

Di particolare interesse è, poi, Sez. 2, n. 34861/2022, Criscuolo, Rv. 666495-02, ove si precisa che è valida la clausola con la quale i coniugi, in sede di separazione consensuale, si accordino per vendere in futuro l’abitazione coniugale che sia stata assegnata al coniuge affidatario di figlio minore, in quanto autonoma rispetto alla concordata assegnazione e con essa non incompatibile.

Per quanto riguarda la rilevanza dell’assegnazione della casa familiare nel giudizio di divisione avente ad oggetto la casa medesima, si rinvia a quanto già illustrato nel paragrafo destinato alla trattazione del regime patrimoniale della famiglia.

Sotto il distinto ma connesso profilo tributario, per Sez. 5, n. 22557/2022, De Masi, Rv. 665213-01, in tema di imposta di registro e dei relativi benefici per l’acquisto della prima casa, ai fini della fruizione degli stessi, il requisito della residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile va riferito alla famiglia, con la conseguenza che, in caso di comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che l’immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo, in contrario, la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica in tale Comune, e ciò in ogni ipotesi in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ai sensi dell’art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che in caso di acquisto congiunto del bene stesso.

17. L’assegnazione della casa familiare e i terzi.

Le importanti pronunce adottate in argomento, per la loro portata, richiederanno un’attenta riflessione da parte del giudice di legittimità a composizione delle diverse posizioni interpretative, peraltro riguardanti questioni che assumono una grande incidenza sui diritti e i rapporti dei soggetti coinvolti nella crisi familiare.

In primo luogo, deve essere menzionata Sez. 2, n. 12611/2022, Dongiacomo, Rv. 664612-01, ove si precisa che, ai sensi dell’art. 6, comma 6, della l. n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dall’art. 11 della l. n. 74 del 1987) in vigore ratione temporis - dettato con riguardo al procedimento di divorzio e applicabile anche in tema di separazione personale dei coniugi - il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente solo a condizione che sia stato adottato anteriormente all’atto di acquisto da parte del terzo, ivi compreso il creditore ipotecario che abbia acquistato il suo diritto sull’immobile in base ad un atto iscritto anteriormente al provvedimento di assegnazione.

Sez. 2, n. 27996/2022, Caponi, Rv. 665700-01 ha, comunque, ritenuto che il difetto di trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare legittima l’assegnatario ad agire in giudizio ex art. 1415, comma 2, c.c. per far valere la simulazione di atti di alienazione relativi alla casa familiare, per esso pregiudizievole, indipendentemente dalla circostanza che al medesimo possa essere rimproverato un atteggiamento di inerzia nella trascrizione del provvedimento di assegnazione. In motivazione, si legge che il difetto di tempestiva trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare non lo rende opponibile ai terzi, una volta trascorsi nove anni dalla data del provvedimento (cfr. art. 6 l. n. 898 del 1970, che richiama l’art. 1599 c.c., così come interpretato da Sez. U, n. 11096/2002, Luccioli, Rv. 556297-01). Ciò costituisce il fattore che legittima ex art. 1415, comma 2 c.c., l’assegnatario ad agire in giudizio per far dichiarare la simulazione della vendita della casa familiare.

Sez. 3, n. 12387/2022, Porreca, Rv. 664811-01, ha, invece, affermato che l’assegnazione della casa familiare, disposta in sede di separazione personale o di divorzio ai sensi dell’abrogato art. 155 quater c.c., applicabile ratione temporis, è opponibile ai terzi solo se trascritta anteriormente alla trascrizione del titolo del diritto del terzo sull’immobile, così come previsto dalla norma citata (trasposta, senza modifiche, nel vigente art. 337 sexies c.c.) - e non anche nei limiti del novennio, ove non trascritta, come in origine desumibile dal combinato disposto di cui all’art. 6, comma 6, l. n. 898 del 1970 e all’art. 1599, comma 3, c.c. - perché, a seguito dell’introduzione dell’art. 155 quater c.c., l’assegnazione della casa coniugale è divenuta trascrivibile come tale, e non più agli effetti, non più previsti, dell’art. 1599 c.c., non potendo trarsi argomento contrario dalla circostanza della mancata abrogazione dell’art. 6, comma 6, l. n. 898 del 1970, tenuto conto dei limiti della delega legislativa, contenuto nell’art. 2 della l. n. 219 del 2012.

Quest’ultima decisione conduce ad una oramai ineludibile e netta scelta interpretativa.

Da una parte, il disposto dell’art. 155 quater c.c. (e poi dell’art. 337 sexies c.c.) può essere inteso come sostanziale riproposizione del vecchio testo dell’art. 155 c.c. recante, in aggiunta, la precisazione imposta dalla Corte costituzionale (Corte cost., n. 454 del 27/07/1989), relativa alla trascrivibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare, ai fini dell’opponibilità ai terzi. In questo modo, resta immutato il quadro interpretativo offerto dalla pronuncia delle Sezioni Unite sopra illustrata (Sez. U, n. 11096/2002, Luccioli, Rv. 556297-01), come pure resta immutata la qualificazione del diritto del coniuge assegnatario in termini di diritto personale di godimento sui generis (v. in tal senso Sez. 1, n. 00377/2021, Campese, Rv. 660361-01).

Dall’altra, il disposto dell’art. 155 quater c.c. (e poi dell’art. 337 sexies c.c.) può essere inteso come foriero di una disciplina del tutto nuova, che prescinde da ogni riferimento all’art. 1599 c.c. e regola l’opponibilità dell’assegnazione della casa familiare solo in base all’ordine temporale delle trascrizioni. In questo caso, le nuove disposizioni si pongono come sostanzialmente abrogative di quelle previgenti, e in particolare dell’art. 6, comma 6, l. n. 898 del 1970, superando la ricostruzione operata dalla Sezioni Unite nel 2002 e consentendo una qualificazione tutta nuova del diritto del coniuge assegnatario della casa familiare, non più ricondotto ad un diritto personale di godimento - come pure affermato da una ricca giurisprudenza di legittimità - ma ad un diritto reale, qual è quello, personalissimo, di abitazione, o comunque a un diritto nuovo, a quest’ultimo equiparabile.

Per ulteriori approfondimenti si rinvia alla relazione n. 67 del 2022 redatta da questo Ufficio.

18. L’affidamento familiare ex art. 2 l. n. 184 del 1983.

Com’è noto l’art. 2 l. n. 184 del 1983 prevede che il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti, è affidato ad una famiglia preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.

In argomento, Sez. 1, n. 33147/2022, Casadonte, Rv. 666232-02, ha precisato che l’affidamento familiare non può essere prorogato sine die, poiché si tratta di una misura per natura temporanea, destinata a dare soluzione ad una situazione transitoria di difficoltà o di disagio della famiglia di origine, che mira al reinserimento del minore nel suo ambiente familiare, come si evince anche dal disposto dell’art. 4 l. n. 184 del 1983, che prevede l’indicazione della sua presumibile sua durata e stabilisce tempi e modalità dell’eventuale proroga, senza che possa essere strumentalmente utilizzato per nascondere una diversa tipologia di affidamento, quale può essere l’affidamento a rischio giuridico o quello disposto in pendenza del giudizio di accertamento dello stato di abbandono.

Sez. 1, n. 04797/2022, Scalia, Rv. 664021-01, ha poi rilevato che l’art. 4, comma 3, l. n. 184 del 1983 attribuisce al giudice il potere di disporre l’affidamento familiare, ove non vi sia il consenso dei genitori, ma ciò non vale, nella ratio della disposizione indicata, ad attribuire, altresì, alla stretta competenza giurisdizionale la fissazione delle modalità attuative del provvedimento disponente l’affido che, servizi organizzati sul territorio, e dotati di specifiche competenze in ambito sociosanitario, più agevolmente possono individuare in relazione al caso concreto, su delega del giudice disponente.

Infine, un’importante pronuncia si è soffermata sull’ambito applicativo dell’art. 5, comma 1, l. n. 184 del 1983, nella parte in cui sancisce che l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, aggiungendo che questi ultimi hanno facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse.

Sez. 1, n. 36092/2022, Campese, Rv. 666254-01, ha, infatti, ritenuto che il menzionato dovere di convocazione trova applicazione (nella specie in un procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità) non solo qualora sia stato disposto l’affidamento ai sensi degli artt. 2 e ss. della l. cit., ma anche quando, pendente il procedimento ex art. 8 l. n. 184 del 1983, e fino alla eventuale declaratoria di adottabilità, il minore venga collocato temporaneamente presso una famiglia o una comunità di tipo familiare (collocamento cd. “a rischio giuridico”, detto pure affidamento cd. “a rischio giuridico”). La norma suddetta è, invece, inapplicabile, al caso di affidamento preadottivo di cui agli artt. 22 e ss. della menzionata l. n. 184 del 1983.

Nella stessa pronuncia è, inoltre, precisato che l’obbligo di convocazione, previsto dal menzionato art. 5, comma 1, l. n. 184 del 1983, trova applicazione anche in grado di appello, ove l’adempimento sia stato omesso dal giudice di prime cure. Qualora, invece, tale adempimento sia stato espletato in primo grado, spetta al giudice dell’impugnazione verificare se l’incombente debba essere rinnovato, in presenza di ulteriori, fondate e sopraggiunte ragioni evidenziate dalle parti, oppure se le dichiarazioni già rese dall’affidatario o dalla famiglia collocataria, completate dalle relazioni dei servizi sociali, possano essere ritenute esaustive senza necessitare di aggiornamenti (Sez. 1, n. 36092/2022, Campese, Rv. 666254-02).

19. La sottrazione internazionale di minori.

Con riferimento ai presupposti per ottenere il rimpatrio, Sez. 1, n. 03250/2022, Campese, Rv. 664010-01, ha evidenziato che, in tema di sottrazione internazionale di minori, il giudice è tenuto ad accertare puntualmente e in concreto che, al momento del trasferimento del minore, il genitore richiedente il rimpatrio eserciti effettivamente, e in modo non episodico, il diritto di affidamento, non essendo sufficiente una valutazione solo in astratto, sulla base del regime legale di esercizio della responsabilità genitoriale (nella specie, la S.C. ha respinto l’impugnazione del decreto che non ha accolto la richiesta di rimpatrio del padre del minore, dando rilievo ad elementi che dimostravano l’assenza di un effettivo e continuo esercizio del diritto di affidamento da parte di quest’ultimo, anche se la madre aveva trattenuto il figlio in Italia in violazione degli accordi con lui intercorsi).

Sez. 1, n. 32194/2022, Iofrida, Rv. 666123-01, ha, poi, ritenuto che, il minore che, al momento della proposizione della domanda di rimpatrio, abbia pochi mesi di vita e che sia effettivamente custodito dalla madre in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede abitualmente il padre, dal quale la donna si sia allontanata portando con sé il bambino, ai fini dell’individuazione della dimora abituale di quest’ultimo occorre verificare – tenuto conto della totale dipendenza del minore dalla madre – delle ragioni, della durata e dell’effettivo radicamento di quest’ultima nel territorio del primo Stato, in particolare verificando se tale soggiorno denoti un’apprezzabile integrazione nell’ambiente sociale della madre, della quale partecipa anche il minore, pur non potendosi trascurare l’altro genitore con il quale il minore mantenga contatti regolari (nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia del Tribunale per i minorenni che, senza tenere in considerazione gli elementi indicati in massima, aveva ritenuto integrata la fattispecie sottrattiva per un minore che la giovane madre italiana aveva avuto da un uomo spagnolo, conosciuto durante la permanenza per ragioni di studio in Spagna ed ove, dopo la nascita del figlio, aveva convissuto per un solo mese in casa della madre di lui, per poi andare a vivere in un appartamento da sola con il bambino, fino alla decisione di far rientro in Italia con il figlio di otto mesi).

Alcune pronunce hanno esaminato fattispecie in cui è stato dedotto che il trasferimento del minore era stato effettuato con l’accordo dei genitori.

In particolare, Sez. 1, n. 07261/2022, Scalia, Rv. 664169-01, ha affermato che, in materia di sottrazione internazionale dei minori, l’accordo raggiunto dai genitori sul trasferimento del figlio in un Paese diverso da quello in cui il minore aveva la residenza abituale, connotato dai caratteri di temporaneità e non definitività, fermi gli altri requisiti di legge, non esclude, cessate le ragioni del temporaneo trasferimento, l’illecito trattenimento del minore in Stato diverso da quello della dimora abituale in capo al genitore che lo pone in essere unilateralmente e contro la volontà dell’altro (nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’accordo concluso dai genitori di un minore straniero, in forza del quale il minore si sarebbe temporaneamente trasferito in Italia con la madre, per consentire alla stessa di curare la grave malattia che la affliggeva, fosse venuto meno in ragione del mutamento dell’originaria situazione di fatto e del successivo parere contrario alla perdurante permanenza in Italia espresso dal padre, con conseguente illiceità della condotta di “mancato rientro”).

Sez. 6-1, n. 13176/2022, Bisogni, Rv. 664778-01, ha, invece, precisato che, in tema di sottrazione internazionale dei minori, al giudice è riservata la decisione sulla sola liceità del trasferimento del minore, sicché, ove sia dedotta l’esistenza di un accordo preventivo dei genitori, chi lo deduce deve darne prova rigorosa e univoca, specialmente quando il trasferimento avvenga in una situazione di crisi della coppia genitoriale che non ha dato luogo all’instaurazione di un procedimento di separazione o di divorzio davanti al giudice competente in base alla residenza abituale del minore, quando tale procedimento sia avviato, subito dopo il trasferimento, davanti al giudice del luogo in cui il minore è stato trasferito.

Sulla rilevanza dell’ascolto del minore, nei giudizi promossi per il suo rientro, Sez. 1, n. 21055/2022, Conti, Rv. 665360-01, ha rilevato che l’art. 13 della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, resa esecutiva in Italia con la l. n. 64 del 1994, impone al giudice, anche alla luce dell’art. 8 CEDU, di esaminare in maniera dettagliata e analitica le dichiarazioni rese, in sede di ascolto, dal minore dotato di capacità di discernimento, sicché, in caso di opposizione di quest’ultimo al rientro, è obbligatoria la considerazione di tale volontà ed anche la verifica di tutte le circostanze fattuali capaci di confortarla, impedendo al giudicante di intraprendere una via alternativa, ritenuta dal legislatore sovranazionale idonea a cagionare un pregiudizio evidente allo sviluppo del minore (in applicazione del principio enunciato, la S.C. ha cassato con rinvio il decreto del Tribunale per i minorenni che, dopo aver accertato la capacità di discernimento dei minori, aveva disposto il loro rientro nello Stato che era divenuto il luogo della loro residenza abituale, a seguito di trasferimento dall’Italia insieme alla madre, nonostante questi ultimi avessero manifestato una incondizionata opposizione, senza neppure operare approfondimenti istruttori in ordine alle difficoltà di ambientamento scolastico e sociale dagli stessi manifestate).

Sez. 1, n. 37833/2022, Tricomi L., Rv. 666470-01, ha comunque affermato che, qualora, nel corso del procedimento, venga allegata la ricorrenza di forme di violenza rientranti nel campo di applicazione della Convenzione di Istanbul, il giudice, ove accertata, deve verificare in che misura la stessa sia tale da incidere sulla complessiva situazione dei fatti rilevanti ai fini dell’adozione del provvedimento di rientro del minore e, con riferimento all’art. 13, lett. b) della Convenzione dell’Aja del 1980, è tenuto a valutare la possibilità della sussistenza di un fondato rischio, per il minore, di trovarsi in una situazione intollerabile o di essere esposto, per il suo ritorno, a pericoli fisici e psichici in relazione alle violenze accertate.

Per quanto riguarda gli aspetti spiccatamente processuali, deve, infine, richiamarsi Sez. 1, n. 23631/2022, Fidanzia, Rv. 665371-01, ove la S.C. ha ritenuto che, nel procedimento di volontaria giurisdizione, previsto dalla l. n. 64 del 1994 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980 in tema di sottrazione internazionale di minori) - inquadrabile nello schema generale dei procedimenti speciali in materia di famiglia e di stato delle persone, e quindi soggetto, per quanto in esso non previsto, alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio, e nel contempo caratterizzato dall’estrema urgenza di provvedere nell’interesse del minore - al fine dell’osservanza del principio del contraddittorio occorre che sia fissata udienza in camera di consiglio e che la persona presso la quale si trova il minore e quella che ha presentato la richiesta siano informate dell’udienza e siano poste in grado di parteciparvi.

20. Le sanzioni previste dall’art. 709 ter c.p.c.

Com’è noto, l’art. 709 ter c.p.c. consente al giudice, adito per la soluzione di controversie tra genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento, in caso di gravi inadempienze o di atti che rechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, di disporre il mutamento delle condizioni di affidamento e di adottare (anche congiuntamente) misure sanzionatorie, quali l’ammonimento del genitore inadempiente, il risarcimento del danno da quest’ultimo cagionato al figlio o all’altro genitore e la condanna al pagamento di una sanzione amministrativa.

Come precisato da Sez. 1, n. 37899/2022, Caprioli, Rv. 666473-01, le misure sanzionatorie previste dall’art. 709 ter c.p.c. e, in particolare, la condanna al pagamento di sanzione amministrativa pecuniaria, sono suscettibili di essere applicate facoltativamente dal giudice, ma non presuppongono l’accertamento in concreto di un pregiudizio subito dal minore, poiché l’uso della congiunzione disgiuntiva “od” evidenzia che l’avere ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali è un fatto che giustifica di per sé l’irrogazione della condanna, coerentemente con la funzione deterrente e sanzionatoria intrinseca alla norma richiamata.

Sez. 1, n. 27147/2021, Fidanzia, Rv. 662720-01, ha comunque ritenuto che, nel procedimento camerale finalizzato all’adozione delle misure di cui all’art. 709 ter c.p.c., è consentita la proposizione della domanda risarcitoria da illecito endofamiliare per gli atti pregiudizievoli commessi dall’altro genitore ai danni del minore, non essendovi motivo per imporre al genitore, che intenda svolgere siffatta domanda nell’interesse del figlio minore, la necessità di proporre un’autonoma azione da illecito aquiliano (il principio è stato affermato, respingendo il ricorso contro la decisione impugnata, in una fattispecie nella quale il giudice di merito aveva ritenuto, ferme restando le gravi inadempienze di entrambi i genitori, che la madre fosse venuta meno al dovere di educazione, non consentendo una regolare frequentazione del padre, ed anche al dovere di collaborazione, così integrando una condotta sanzionabile ex art. 709 ter c.p.c.).

Ovviamente, la domanda risarcitoria è legittimamente formulata anche in via ordinaria, ma, come di seguito evidenziato, il riparto dell’onere di allegazione e di prova è disciplinato dalle regole comuni.

21. L’illecito endofamiliare.

Com’è noto, la nozione di illecito endofamiliare si riferisce a tutte le violazioni che si verificano all’interno del nucleo familiare, perpetrate da un membro nei confronti di uno o più altri facenti parte della medesima compagine.

Oramai da tempo è stata aperta la strada alla risarcibilità del danno cagionato dalla violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia, coabitazione, contribuzione ai bisogni della famiglia) secondo lo schema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 e 2059 c.c.

Sul punto, assume fondamentale rilievo Sez. 1, n. 09801/2005, Luccioli, Rv. 580822-01, ove si è affermato che il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile.

Sez. 3, n. 11097/2020, Graziosi, Rv. 658151-01, ha rilevato che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali verso la prole può essere sia istantaneo, ove ricorra una singola condotta inadempiente dell’agente che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno, sia permanente, se detta condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua reiterazione poiché il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli. La natura dell’illecito incide sul termine di prescrizione che decorre, nel primo caso, dal giorno in cui è provocato il danno e, nel secondo, da quello nel quale, in assenza di impedimenti giuridici all’esercizio dell’azione risarcitoria, l’illecito viene percepito o può essere percepito, come danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, con l’ordinaria diligenza e tenendo una condotta non anomala (in applicazione del principio, la Corte ha cassato con rinvio la decisione dei giudici di merito i quali, nel rigettare la domanda risarcitoria rivolta dal figlio verso il padre per i danni cagionati dal protratto disinteresse da questi mostrato nei suoi confronti, avevano qualificato erroneamente l’illecito come “istantaneo ad effetti permanenti” e ritenuto maturata la prescrizione del diritto, facendo decorrere il relativo termine dal momento nel quale si era configurata la condotta di abbandono del genitore, ovvero dalla nascita del figlio, anziché da quello in cui il medesimo figlio ne aveva percepito l’intrinseca ingiustizia).

Comunque l’obbligo del genitore di concorrere all’educazione ed al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., sorge al momento della procreazione, anche quando questa sia stata accertata successivamente a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, così determinandosi un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti allo status di genitore (così Sez. 3, n. 15148/2022, Condello, Rv. 664829-01; nello stesso senso, Sez. 1, n. 26205/2013, Acierno, Rv. 629742-01, e Sez. 1, n. 05652/2012, Campanile, Rv. 622137-01).

In materia, Sez. 1, n. 34950/2022, Tricomi L., Rv. 666450-01, ha precisato che, ai fini del risarcimento del danno subito dal figlio in conseguenza dell’abbandono da parte di uno dei genitori, occorre che quest’ultimo non abbia assolto ai propri doveri consapevolmente e intenzionalmente, o anche solo ignorando per colpa l’esistenza del rapporto di filiazione, aggiungendo che la prova di ciò può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti, ricavate dal complesso degli indizi, da valutarsi, non atomisticamente, ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno di essi, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che aveva escluso l’elemento soggettivo della menzionata responsabilità, limitandosi a negare l’esistenza sufficienti indizi, all’esito di una valutazione atomistica di alcuni elementi, quali la certezza di un rapporto sessuale non protetto avvenuto tra i genitori in epoca compatibile con il concepimento, la vicinanza tra le abitazioni di questi ultimi, situate in un piccolo paese, e la continuazione della frequentazione del ristorante paterno da parte della madre anche durante la gravidanza).

La decisione si pone in continuità con Sez. 1, n. 22496/2021, Iofrida, Rv. 662304-01, la quale aveva già ritenuto che l’illecito endofamiliare, attribuito al padre che abbia generato ma non riconosciuto il figlio, presuppone la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, richiede comunque la maturata conoscenza dell’avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre, ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio.

Da ultimo, in ordine alla quantificazione del danno, si deve menzionare Sez. 6-1, n. 34986/2022, Fidanzia, Rv. 666291-01, ove si precisa che la violazione dell’obbligo del genitore di concorrere all’educazione ed al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c., costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, risarcibile equitativamente, attraverso il rinvio, in via analogica e con l’integrazione dei necessari correttivi, alle tabelle per il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale in uso nel distretto.

  • protezione della famiglia
  • procreazione artificiale
  • diritto di famiglia
  • diritto di adozione
  • convivenza
  • unione civile

CAPITOLO IV

I NUOVI RAPPORTI FAMILIARI

(di Martina Flamini, Eleonora Reggiani (1) )

Sommario

1 Premesse generali. - 2 Unioni civili, famiglie di fatto, convivenze more uxorio. - 3 Procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, surrogazione di maternità e stato di figlio. - 4 Il genitore sociale e l’adozione in casi speciali.

1. Premesse generali.

La definizione di “famiglia” ha, da sempre, rappresentato una questione molto controversa, resa vieppiù complicata dalla radicale trasformazione subita dall’istituto nel corso del tempo.

La lettura dei lavori dell’Assemblea costituente rivela come tale concetto fu, sin dall’inizio, uno dei più dibattuti e problematici. Le parole pronunciate da Aldo Moro, nel corso della discussione sul progetto preparatorio alla Costituzione (seduta del 6 novembre 1946) - “dichiarando che la famiglia è una società naturale, si intende stabilire che la famiglia ha una sua sfera di ordinamento autonomo nei confronti dello Stato, il quale, quando interviene, si trova di fronte ad una realtà che non può menomare né mutare” - rivelano con chiarezza l’esistenza di un limite alla potestà, normativa prima e giurisdizionale poi, dello Stato.

Nel solco di questo limite possono essere lette le riforme legislative che hanno portato alla legge sulla parificazione di tutti i figli (l. n. 219 del 2012) ed al successivo decreto di attuazione (d.lgs. n. 154 del 2013) – provvedimenti che hanno modificato radicalmente i rapporti familiari, che non risultano più necessariamente fondati sul matrimonio - alla legge n. 162 del 2014 (che ha rafforzato il ruolo dell’autonomia privata nella crisi coniugale) per giungere sino alla l. n. 76 del 2016 sulle unioni civili e i contratti di convivenza, nella quale è stata consacrata la pluralità dei modelli familiari.

Proprio con riferimento alla legge da ultimo menzionata, la S.C., chiamata a pronunciarsi sul riconoscimento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso, contratto all’estero tra un cittadino italiano ed uno straniero (Sez. 1, n. 11696/2018, Acierno, Rv. 648562-02), ha precisato che “con la legge n. 76 del 2016 il legislatore ha colmato il vuoto di tutela che caratterizzata l’ordinamento interno, così come richiesto dalla Corte Cost. con la sentenza n. 170 del 2014 e dalla Corte europea dei diritti dell’umani nella sentenza Oliari contro Italia” (Corte EDU, sentenza 21 luglio 2015, cause riunite C-18766/11 e C-36030/11, Oliari e altri c. Italia), scegliendo un “modello di riconoscimento giuridico peculiare, ancorché in larga parte conformato, per quanto riguarda i diritti ed i doveri dei componenti dell’unione, al rapporto matrimoniale”.

Il pluralismo dei modelli familiari ha, poi, trovato un importante strumento di promozione (che non ha, però, ancora portato ad una completa parificazione tra diritti dei conviventi o partner di unioni civili rispetto a quelli del coniuge) nella giurisprudenza della Corte EDU, che ha interpretato in modo evolutivo la nozione di “vita familiare” (art. 8 CEDU), includendovi, oltre al rapporto di coniugio, la relazione di fatto tra partner di sesso diverso (Corte EDU, 27 ottobre 1994, C-18535/91, Kroon e altri c. Paesi Bassi; Corte EDU, 26 maggio 1994, C-16969-90, Keegan c. Irlanda), la relazione tra due persone unite in matrimonio religioso (Corte EDU, sentenza 2 novembre 2010, C-3976/05, Serife Yigit c. Turchia) e quella tra partner dello stesso sesso, sia di fatto (Corte EDU, sentenza 24 giugno 2010, C-30141/04, Schalk e Kopf c. Austria; Corte EDU, sentenza 7 novembre 2013, cause riunite C-29381/09 e C-34684/09, Vallianatos ce altri c. Grecia) sia sotto forma di unione civile (Corte EDU, sentenza 14 dicembre 2017, cause riunite C-26431/12, C-26742/12, C-44057/12 e C-60088/12, Orlandi e altri c. Italia).

Rispetto alle coppie di persone dello stesso sesso, la giurisprudenza europea, pur non affermando la piena equiparazione rispetto alle coppie unite in matrimonio, ha comunque registrato un’evoluzione nel tempo. Ribadendo che né l’apertura del matrimonio alle coppie same-sex né il riconoscimento del matrimonio omosessuale celebrato all’estero costituiscono obblighi convenzionali, la Corte EDU ha, infatti, ritenuto contraria all’art. 8 CEDU la totale assenza di riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale (Corte EDU, sentenza 14 dicembre 2017, cause riunite C-26431/12, C-26742/12, C-44057/12 e C-60088/12, Orlandi e altri c. Italia), affermando il diritto a vedere riconosciuto il legame di coppia anche alle persone che abbiano cambiato sesso (Corte EDU, sentenza 11 luglio 2002, C-28957/95, Christine Goodwin c. Regno Unito; Corte EDU, 11 luglio 2002, C-25680/94, I. c. Regno Unito; Corte EDU, sentenza 11 novembre 2007, C-27527/03, L. c. Lituania).

Nel capitolo in esame l’evoluzione dei nuovi rapporti familiari verrà esaminata alla luce degli arresti della S.C. nell’anno in rassegna.

2. Unioni civili, famiglie di fatto, convivenze more uxorio.

In tema di unioni civili, fondamentale rilievo assume una pronuncia adottata nel 2018, ove la S.C. ha affermato che il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero tra un cittadino italiano ed uno straniero può essere trascritto nel nostro ordinamento solo come unione civile, ai sensi dell’art. 32 bis della l. n. 218 del 1995, essendo trascrivibile come matrimonio solo quello contratto all’estero tra persone dello stesso sesso che siano cittadini stranieri. La Corte di legittimità ha spiegato che la previsione non è discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale - e, per questo, in contrasto con gli artt. 2, 3, 29 e 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU - poiché la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati membri, purché garantisca a tali unioni uno standard di tutele coerente con il diritto alla vita familiare ex art. 8 CEDU come interpretato dalla Corte EDU (Sez. 1, n. 11696/2018, Acierno, Rv. 648562-02).

Nella stessa decisione, la Corte di legittimità ha statuito che in tema di trascrizione di matrimonio, unione civile o altri istituti analoghi costituiti all’estero tra persone dello stesso sesso, le disposizioni della l. n. 76 del 2016 e dei decreti di attuazione nn. 5 e 7 del 2017 si applicano anche ai vincoli costituiti prima dell’entrata in vigore della predetta disciplina poiché, ai sensi dell’art. 1, comma 28, della l. cit., tali norme sono state espressamente formulate per garantire un trattamento giuridico uniforme a situazioni identiche sorte in tempi diversi (Sez. 1, n. 11696/2018, Acierno, Rv. 648562-01).

La S.C. si è di recente pronunciata in merito alla questione relativa alla configurabilità di un diritto alla pensione di reversibilità a favore del partner di una relazione affettiva stabile e di lunga durata con persona dello stesso sesso, svoltasi e conclusasi, a causa del decesso dell’altro partner, prima dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 (non applicabile retroattivamente).

In particolare, Sez. 1, n. 08241/2022, Lamorgese, Rv. 664361-01, ha affermato che la mancata inclusione della persona unita ad un’altra dello stesso sesso, in una relazione deformalizzata, fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità, ha una non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico formalizzato, che qui per definizione manca, con la conseguente legittimità di una differenziata disciplina. Nella decisione in esame, la S.C. ha precisato che “l’impossibilità per la coppia omoaffettiva di beneficiare del trattamento previdenziale, nel contesto normativo antecedente alla legge n. 76 del 2016, trova giustificazione nella impossibilità di contrarre il vincolo matrimoniale, trattandosi di una scelta del legislatore che è espressione del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati”.

Sul tema delle famiglie di fatto dalle quali siano nati figli, si è pronunciata Sez. 1, n. 00663/2022, Iofrida, Rv. 663557-01, per precisare che in tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, alla luce del disposto di cu all’art. 337 ter, comma 4 c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell’autonomia privata e pienamente lecito in materia, non essendovi necessità di un’omologazione o di un controllo giudiziale preventivo. Nella decisione in esame, il Collegio ha precisato che, avendo tale accordo ad oggetto l’adempimento di un obbligo ex lege, l’autonomia contrattuale delle parti assolve soltanto allo scopo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta ed incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale della prole.

Numerose sono, poi, le statuizioni che, sotto diversi profili, hanno guardato ai rapporti di convivenza more uxorio.

Alcune pronunce hanno valutato l’incidenza dell’instaurazione di una convivenza more uxorio da parte del beneficiario di un assegno divorzile, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla sentenza a Sezioni Unite del 2021 (Sez. U, n. 32198/2021, Rubino, Rv. 663241-01 e Rv. 663241-02). Si rinvia, per un’attenta analisi di tali decisioni, al capitolo che precede, nella parte in cui viene trattata la disciplina dell’assegno divorzile.

Deve, invece, in questa sede essere menzionata, Sez. 2, n. 05086/2022, Giannaccari, Rv. 663923-01, ove la S.C. ha affermato che, in favore del convivente more uxorio che abbia realizzato a sue spese opere sull’immobile di proprietà del partner e che, cessata la convivenza, pretenda di essere indennizzato per le spese sostenute ed il lavoro compiuto, trova applicazione non l’art. 936 c.c. (che ha riguardo all’autore delle opere che non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo) ma l’art. 2041 c.c. (sull’arricchimento senza causa), purché si accerti, tenuto conto dell’entità delle opere in base alle condizioni personali e patrimoniali dei partners, che le spese sono state sostenute ed il lavoro è stato compiuto senza spirito di liberalità, in vista di un progetto di vita comune, e che, realizzando quelle opere, il convivente non aveva intenzione di adempiere ad alcuna obbligazione naturale.

In tema di agevolazioni fiscali, va menzionata Sez. 5, n. 20956/2022, De Masi, Rv. 665066-01, ove la Corte di legittimità ha precisato, con riguardo alla decadenza dai benefici “prima casa”, che la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 19 della l. n. 74 del 1987, ad opera della sentenza della Corte cost. n. 154 del 1999, nella parte in cui non estende l’esenzione in esso prevista a tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, riguarda i soli soggetti astretti dal vincolo coniugale, che abbiano intrapreso il procedimento previsto dalla legge per definire materie e questioni attinenti al loro rapporto di coniugio, e non può estendersi analogicamente alle ipotesi di crisi delle convivenze di fatto, stante la diversità dei presupposti delle due fattispecie e l’inesistenza di disposizioni legislative di equiparazione delle medesime ai fini fiscali.

Nell’anno in rassegna, anche le Sezioni Unite si sono interessate dei rapporti di convivenza. In particolare, Sez. U n. 08763/2022, Nazzicone, Rv. 664224-02, in tema di illecito disciplinare del magistrato, ha affermato che l’obbligo di comunicare una condizione di convivenza non viola il diritto ai dati personali sulla vita privata e l’orientamento sessuale del magistrato e del partner, tutelati dal d.lgs. n. 196 del 2003 e dal reg. (UE) n. 2016/679, poiché la previsione delle situazioni di incompatibilità è diretta a tutelare la correttezza e l’imparzialità dell’attività giudiziaria e il menzionato obbligo risponde al necessario bilanciamento fra il diritto personale alla riservatezza delle situazioni familiari, del magistrato e dei soggetti correlati, ed i primari interessi pubblici coinvolti, tra cui la tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, che costituisce un valore rientrante tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti.

3. Procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, surrogazione di maternità e stato di figlio.

Sul tema relativo alle richieste di formazione o di rettifica degli atti di nascita di minori nati in Italia, concepiti con il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, la S.C. si è più volte pronunciata nel tempo, negando la possibilità di indicare insieme alla madre biologica anche la madre solo intenzionale, sia quest’ultima unita civilmente alla prima o meno.

La Corte ha sempre precisato che – ove si tratti di minore nato in Italia (sebbene concepito all’estero), e, dunque, di fattispecie interamente assoggettata alla disciplina dell’ordinamento italiano (non presentando alcun elemento di estraneità che giustifichi il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale) - non è consentito, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico.

In particolare, Sez. 1, n. 07668/2020, Lamorgese, Rv. 657495-01, ha ritenuto che non può essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l’inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva.

Anche Sez. 1, n. 08029/2020, Mercolino, Rv. 657628-01, ha affermato che, nel caso di minore nato in Italia, concepito mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, non è accoglibile la domanda di rettificazione dell’atto di nascita volta ad ottenere l’indicazione in qualità di madre del bambino, accanto a quella che l’ha partorito, anche della donna a costei legata in unione civile, poiché tale pretesa è in contrasto con l’art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004, che esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentite, al di fuori dei casi previsti dalla legge, forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico mediante i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto.

Alle medesime conclusioni è giunta Sez. 1, n. 07413/2022, Iofrida, Rv. 664311-01, ove si afferma che, in caso di concepimento all’estero mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, deve essere rettificato l’atto di nascita del minore, nato in Italia, che indichi quale madre, oltre alla donna che ha partorito, l’altra componente la coppia quale madre intenzionale, poiché il legislatore ha inteso limitare l’accesso a tali tecniche di procreazione medicalmente assistita alle situazioni di infertilità patologica, alle quali non è equiparabile l’infertilità della coppia omoaffettiva, né può invocarsi un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 l. n. 40 del 2004, non potendosi ritenere tale operazione ermeneutica imposta dalla necessità di colmare in via giurisprudenziale un vuoto di tutela che richiede, in una materia eticamente sensibile, necessariamente l’intervento del legislatore.

In alcune pronunce è stato attribuito rilievo alla sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale che, com’è noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della l. n. 184 del 1983, nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, comma 2, c.c., prevede che l’adozione in casi particolari non induca alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante (Corte cost., sentenza del 28 marzo 2022, n. 79).

In particolare, Sez. 1, n. 22179/2022, Iofrida, Rv. 665161-01, sempre con riferimento ai casi di concepimento all’estero mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, ha ribadito che la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita, recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il genitore intenzionale, non può trovare accoglimento, poiché il legislatore ha inteso limitare l’accesso a tali tecniche alle situazioni di infertilità patologica, fra le quali non rientra quella della coppia dello stesso genere. La Corte ha, poi, aggiunto che non può ritenersi che l’indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, atteso che, in tali casi, l’adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022 appena richiamata.

In argomento, assume grande importanza Sez. 1, n. 06383/2022, Terrusi, Rv. 664044-01, ove la S.C. ha precisato che nel caso di minore nato in Italia, concepito mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, non è accoglibile la domanda di rettificazione dell’atto di nascita volta ad ottenere l’indicazione in qualità di madre della bambina, accanto a quella che l’ha partorita, anche della donna cui è appartenuto l’ovulo poi impiantato nella partoriente, poiché la richiesta è in contrasto con l’art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004, che esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, anche in presenza di un legame genetico tra il nato e la donna sentimentalmente legata a colei che ha partorito.

In motivazione, viene evidenziato che “la circostanza che a fondamento della domanda di rettificazione sia stata posta l’esistenza di un legame genetico tra il nato e la donna sentimentalmente legata a colei che ha sostenuto il parto, siccome donatrice dell’ovocita, non cambia la sostanza delle cose. Non è invero decisiva in vista di una soluzione diversa, perché non è in grado di incidere sull’essenziale rilievo secondo cui la legge nazionale si contiene nel senso che una sola è la persona che può essere menzionata come madre in un atto di nascita. Questo è per l’appunto il dato correlabile all’opzione legislativa (artt. 4 e 5 della l. n. 40 del 2004) volta a limitare l’accesso alle tecniche di p.m.a. per rimuovere cause impeditive della procreazione circoscritte ai casi di sterilità o di infertilità accertate e certificate da atto medico. E quindi a situazioni di infertilità patologica, alle quali, come precisato dalla Corte costituzionale, non è omologabile la condizione – di contro fisiologica - di infertilità della coppia omosessuale (v. Corte cost. n. 221 del 2019)”.

A diverse soluzioni la S.C. è pervenuta nel caso in cui si è trattato di riconoscere nell’ordinamento italiano atti dello stato civile o provvedimenti giurisdizionali formati all’estero. In questi casi, viene, infatti, in rilievo il diverso limite dell’ordine pubblico internazionale.

Com’ è noto, Sez. 1, n. 19599/2016, Lamorgese, Rv. 641314-01, ha ritenuto riconoscibile in Italia un atto di nascita straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), atteso che non esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge alle coppie eterosessuali.

Anche Sez. 1, n. 14878/2017, Dogliotti, Rv. 645080-01, ha ritenuto che deve essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita del minore nato all’estero e figlio di due madri coniugate all’estero, già trascritto in Italia nei registri dello stato civile con riferimento alla sola madre biologica, non sussistendo contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano.

Più di recente, Sez. 1, n. 23319/2021, Mercolino, Rv. 662185-01, ha affermato che, in materia di stato civile, è legittimamente trascritto in Italia l’atto di nascita formato all’estero, relativo a un minore, figlio di madre intenzionale italiana e di madre biologica straniera, non essendo contrario all’ordine pubblico internazionale il riconoscimento di un rapporto di filiazione in assenza di un legame biologico, quando la madre intenzionale abbia comunque prestato il consenso all’impiego da parte della partner di tecniche di procreazione medicalmente assistita, anche se tali tecniche non sono consentite nel nostro ordinamento.

Con riferimento alle adozioni pronunciate all’estero, Sez. 1, n. 14007/2018, Iofrida, Rv. 649527-02, ha ritenuto che non è contraria all’ordine pubblico, ed è quindi trascrivibile nei registri dello stato civile italiano, la sentenza straniera che abbia pronunciato l’adozione piena dei rispettivi figli biologici, da parte di due donne di cittadinanza francese coniugate in Francia e residenti in Italia, poiché, ai sensi dell’art. 24 della Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale del 1993, il riconoscimento dell’adozione può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se, tenuto conto dell’interesse superiore del minore, essa sia manifestamente contraria all’ordine pubblico. Tale interesse, secondo la Corte, nella fattispecie esaminata è stato già vagliato dal giudice straniero e coincide con il diritto del minore al mantenimento della stabilità della vita familiare, consolidatasi con entrambe le figure genitoriali, senza che abbia rilievo la circostanza che le stesse siano rappresentate da una coppia dello stesso sesso, perché, ha precisato la Corte di cassazione, l’orientamento sessuale non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 12193/2019, Mercolino, Rv. 653931-03) hanno, poi, precisato che, in tema di riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 64, comma 1, lett. g), della l. n. 218 del 1995, deve essere valutata non solo alla stregua dei princìpi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti princìpi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico.

Hanno, quindi, ritenuto che il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione. La tutela di tali valori - non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione - non esclude, secondo le Sezioni Unite - la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983 (Sez. U, n. 12193/2019, Mercolino, Rv. 653931-04).

In una successiva pronuncia, le stesse Sezioni Unite hanno, comunque, precisato che, ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione, non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare sia omogenitoriale, (Sez. U, n. 9006/2021, Acierno, Rv. 660971-04).

Da ultimo, Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv 666544-01, ha ribadito che la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, con la conseguenza che il provvedimento giurisdizionale straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita, ricorrendo alla surrogazione di maternità nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci, non è automaticamente trascrivibile.

La controversia ha riguardato un bambino nato all’estero da maternità surrogata. In base al progetto procreativo condiviso dalla coppia omoaffettiva, uno dei due uomini ha fornito i propri gameti, che sono stati uniti nella fecondazione in vitro con l’ovocita di una donatrice. L’embrione è stato poi trasferito nell’utero di una diversa donna, non anonima, che ha portato a termine la gravidanza e partorito il bambino. I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, si sono uniti in matrimonio in Canada e l’atto è stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Il bambino è nato in Canada. Quando il bambino è venuto alla luce, le autorità canadesi hanno formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, mentre non sono stati menzionati né il padre intenzionale né la madre surrogata né la donatrice dell’ovocita.

Accogliendo il ricorso della coppia, la Corte Suprema canadese ha dichiarato che entrambi i ricorrenti dovevano figurare come genitori del bambino e ha disposto la corrispondente rettifica dell’atto di nascita in Canada. Sulla base di tale provvedimento dell’autorità giurisdizionale straniera, i menzionati ricorrenti hanno chiesto all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l’atto di nascita del bambino in Italia, che indicava come genitore il solo padre biologico.

L’Ufficiale di stato civile ha rifiutato la richiesta e tale rifiuto ha dato origine al contezioso.

Le Sezioni Unite hanno prima di tutto affermato che, ai fini del riconoscimento delle decisioni straniere, l'ordine pubblico internazionale svolge sia una funzione preclusiva, quale meccanismo di salvaguardia dell'armonia interna dell'ordinamento giuridico statale di fronte all'ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, sia una funzione positiva, promozionale, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, anche in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale. Nell'ambito di detta funzione positiva, il principio del best interest of the child concorre a formare l'ordine pubblico che, in tal modo, tende a favorire l'ingresso di nuove relazioni genitoriali, così mitigando l'aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino (Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv. 666544-02).

In tale quadro, il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto assoluto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, volto a tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione non solo soggettiva, ma anche oggettiva. Ne consegue che, di fronte ad una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non è consentito al giudice, in sede di interpretazione, mediante una valutazione caso per caso, escludere la lesività della dignità della persona umana e, con essa il contrasto con l'ordine pubblico internazionale, anche laddove la pratica della surrogazione di maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino (Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv. 666544-03).

Il bambino nato da maternità surrogata ha, comunque, un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. Secondo la Corte, tale ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983. Allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, l’adozione rappresenta, infatti, lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita (Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv. 666544-04).

La S.C., peraltro, già da tempo aveva preso in considerazione quest’ultima eventualità, accogliendo la possibilità ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari, per dare rilievo al rapporto di fatto instaurato tra il minore e il partner del genitore di quest’ultimo, legato da una relazione omoaffettiva.

Fondamentale rilievo assume, in argomento, Sez. 1, n. 12962/2016, Acierno, Rv. 640133-01, ove la S.C. ha affermato che l’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 183 del 1994, in tema di adozione in casi particolari, integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, con l’unica previsione della condicio legis della constatata impossibilità di affidamento preadottivo, che va intesa, in coerenza con lo stato dell’evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva, come impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo, e non di impossibilità “di fatto”, derivante da una situazione di abbandono (o di semi-abbandono) del minore in senso tecnico-giuridico. La mancata specificazione di requisiti soggettivi di adottante ed adottando, inoltre, implica che l’accesso a tale forma di adozione non legittimante è consentito alle persone singole ed alle coppie di fatto, senza che l’esame delle condizioni e dei requisiti imposti dalla legge, sia in astratto (l’impossibilità dell’affidamento preadottivo) che in concreto (l’indagine sull’interesse del minore), possa svolgersi dando rilievo, anche indirettamente, all’orientamento sessuale del richiedente ed alla conseguente relazione da questo stabilita con il proprio partner.

4. Il genitore sociale e l’adozione in casi speciali.

Sempre più spesso il minore si trova ad instaurare delle relazioni affettive con soggetti diversi dai genitori biologici o adottivi, che svolgono ugualmente un ruolo fondamentale per il suo sviluppo psicofisico.

Il riferimento è alla figura del genitore sociale, a quel soggetto cioè che di fatto svolge una funzione genitoriale, pur non avendo con il minore né un legame biologico né un legame giuridicamente rilevante.

Come rilevato da una parte della dottrina, il legislatore negli ultimi anni si è mostrato più sensibile alle problematiche relative alle relazioni affettive instaurate di fatto dal minore, offrendo tutela a legami che in passato non ricevevano protezione dall’ordinamento.

Un contributo essenziale in tal senso è stato fornito dalla riforma della filiazione del 2013 che, nell’ampliare la nozione di parentela, ha consentito di fornire tutela giuridica a quella che, sino ad allora, era una mera relazione di fatto tra il minore nato fuori del matrimonio e la famiglia del genitore che ha effettuato il suo riconoscimento (art. 74 c.c.).

Una maggiore attenzione alle relazioni affettive di fatto, a scapito di quelle fondate sul dato biologico, si nota anche nella scelta del legislatore di fissare un termine quinquennale entro cui esercitare l’azione di disconoscimento della paternità (art. 244 c.c.) e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (art. 263 c.c.) da parte dei legittimati diversi dal figlio. Tale termine segna il limite massimo oltre il quale non è più possibile mettere in discussione il rapporto di filiazione tra il minore e il genitore non biologico.

Assume indubbia rilevanza, in tale ottica, anche la legge n. 173 del 2015 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini in affido familiare che, nel ridisegnare il rapporto tra procedimento di affidamento familiare e quello di adozione, ha attribuito alla famiglia affidataria una corsia preferenziale per l’adozione, al fine di tutelare il rapporto affettivo instaurato di fatto con il bambino.

Tale trend legislativo, volto al riconoscimento di una tutela giuridica alle relazioni instaurate dal minore nei diversi contesti familiari, non ha interessato, invece, la l. n. 76 del 2016 che, nel disciplinare le unioni civili e le convivenze (omosessuali ed eterosessuali), ha chiaramente manifestato l’intenzione di non voler modificare la disciplina vigente in materia di adozioni. Come sopra evidenziato, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha mitigato tale chiusura, attribuendo ampi spazi applicativi all’istituto dell’adozione in casi particolari (v. supra).

Non si rinvengono, infine, disposizioni normative che abbiano espressamente disciplinato la figura del genitore sociale, come invece hanno fatto altri Paesi europei.

All’interno di tale figura possono essere ricomprese figure tra loro estremamente diverse, come il compagno (eterosessuale o omosessuale) del genitore biologico, anche nell’ambito delle famiglie ricomposte, o il soggetto che, a seguito dell’azione di disconoscimento della paternità da altri proposta, cessi di essere genitore legale del minore, con il quale ha, però, instaurato una relazione affettiva, svolgendo per anni il ruolo di genitore.

La famiglia ricomposta è senza dubbio il modello familiare di fatto più diffuso nella realtà sociale. Come anticipato, con tale espressione si suole intendere, in modo generico, la convivenza tra soggetti che abbiano già avuto esperienze familiari pregresse, interrotte a seguito di una separazione, un divorzio o una vedovanza, che decidono di formare una nuova famiglia, portando con loro i figli minori avuti dalle precedenti unioni.

Tale figura familiare costituisce oggetto di attenzione da parte di sociologi psicologi ed anche di giuristi, perché rappresenta il luogo in cui si creano legami e relazioni tra soggetti che hanno già vissuto un’esperienza familiare pregressa, con la quale bisogna fare i conti sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista giuridico. Essa crea una trama di relazioni che è molto più articolata di quella che si manifesta nella famiglia tradizionale, in cui convivono genitori e figli e pone seri problemi giuridici, in assenza, nel nostro ordinamento, di norme che disciplinino il fenomeno.

Particolarmente delicata è la situazione nei casi in cui il minore abbia entrambi i genitori e, quindi, il ruolo assunto dal convivente diventa quello di un “terzo genitore”, la cui figura va conciliata con quella del genitore biologico non convivente.

In tale quadro, si colloca una importante pronuncia adottata dalla S.C., che segna l’acquisizione della consapevolezza del problema.

Il riferimento è a Sez. 1, n. 10989/2022, Caiazzo, Rv. 664546-01, ove, in tema di adozione in caso particolari, si afferma che, non costituisce ostacolo all’adozione del minore da parte del coniuge di uno dei genitori con lui convivente, ex art. 44, comma 1, lett. b) della l. n. 184 del 1983, la circostanza che il minore mantenga rapporti con l’altro genitore, impossibilitato a far fronte al mantenimento, poiché, in questi casi, l’adozione realizza appieno il preminente interesse del fanciullo alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, in conformità alle ragioni di cui alla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 55 della l. n. 184 del 1983, nella parte in cui escludeva, nell’adozione in casi particolari, ogni rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.

  • adozione di minore
  • diritto di adozione
  • bambino abbandonato

CAPITOLO V

LA GENITORIALITÀ SOLIDALE

(di Annachiara Massafra )

Sommario

1 La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi. - 2 Lo stato di abbandono. - 3 Adozione: profili processuali. - 4 L’adozione in casi particolari. - 5 L’adozione mite. - 6 La questione di costituzionalità. - 7 L’adozione di persone maggiori di età.

1. La genitorialità solidale: gli sviluppi degli istituti adottivi.

Non molto numerose le pronunce del 2022 di questa Corte che, in tema di adozione, si inseriscono sulla scia della giurisprudenza precedente, sia per quanto riguarda quelle che affrontano temi processuali, sia per quanto riguarda quelle che riguardano temi di natura sostanziale.

2. Lo stato di abbandono.

La prima sezione della Corte di cassazione si è pronunciata, in diverse occasioni, in merito ai presupposti necessari ai fini della sussistenza dello stato di abbandono.

Di particolare importanza è il principio affermato da Sez. 1, n. 21024/2022, Pazzi, Rv. 665358-02, la quale ha statuito che, nel procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità, è necessario che l’indagine sulla condizione di abbandono morale e materiale sia completa e non trascuri alcun rilevante profilo inerente i diritti del minore, verificando, in particolare, se l’interesse di quest’ultimo a non recidere il legame con i genitori naturali debba prevalere o recedere rispetto al quadro deficitario delle capacità genitoriali, che potrebbe essere integrato, almeno in via temporanea, da un regime di affidamento extrafamiliare potenzialmente reversibile o sostituibile da un’adozione “mite” ex art. 44 l. n. 184 del 1983.

In applicazione di tale principio la S.C. ha, poi, cassato la decisione della Corte territoriale che, nell’accertare lo stato di abbandono della minore, non aveva verificato se corrispondesse alle esigenze educative e di accudimento del minore il mantenimento del legame con il genitore naturale.

Merita di essere segnalata Sez. 1, n. 03059/2022, Campese, Rv. 664157-01, la quale ha affermato che la situazione di abbandono si caratterizza per il fatto che il minore, anche indipendentemente da una situazione di colpa del genitore, si trova ad essere privo non transitoriamente di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi; ne consegue che l’adottabilità può essere dichiarata anche quando lo stato di abbandono sia determinato da una situazione psicologica e/o fisica grave e non transitoria, che renda il genitore, ancorché ispirato da sentimenti di amore sincero e profondo, inidoneo ad assumere ed a conservare piena consapevolezza delle proprie responsabilità verso il figlio, nonché ad agire in modo coerente per curarne nel modo migliore lo sviluppo fisico, psichico e affettivo, sempre che il disturbo sia tale da coinvolgere il minore, producendo danni irreversibili al suo sviluppo ed al suo equilibrio psichico. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato l’adottabilità di una minore, in considerazione di reiterati comportamenti gravissimi e pregiudizievoli per la figlia, indicativi di una incapacità genitoriale in concreto non recuperabile, tenuti dalla madre, affetta da un disturbo della personalità, nonché della infruttuosa adozione di tutte le misure assistenziali disponibili e della mancanza di parenti in grado di prendersi cura della minore.

Sez. 1, n. 06532/2022, Parise, Rv. 664045-01, ha avuto il pregio di osservare che in tema di dichiarazione di adottabilità, la condizione di persistente mancanza di assistenza morale e materiale dei figli minorenni, e l’indisponibilità a porre rimedio a tale situazione da parte del genitore, non viene meno per effetto della mera dichiarazione di quest’ultimo a prendersene cura, che non si concretizzi in atti o comportamenti giudizialmente controllabili, tali da escludere la possibilità di un successivo abbandono. (Nel caso di specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale i genitori dichiarati decaduti dalla responsabilità genitoriale proponevano, surrettiziamente, istanze di rivalutazione del materiale probatorio esaminato dalla corte di merito dal quale emergevano condotte incompatibili con la dichiarata volontà di prendersi cura dei figli minori, già eteroaffidati).

Sez. 1, 20948/2022, Pazzi, Rv. 665288-01, in aderenza a Sez. 1, n. 24717 del 2017, ha poi ribadito che, in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità, il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dall’art. 1 l. n. 184 del 1983. Ne consegue che il giudice di merito deve prioritariamente tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di crescere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione che aveva dichiarato l’adottabilità del minore sulla base di affermazioni apodittiche sui limiti accudenti del padre, senza spiegare, tra l’altro, le ragioni per cui non era possibile tentare un intervento di sostegno diretto a superare l’incapacità genitoriale ravvisata.

Particolare rilievo assume, infine, Sez. 1, n. 04746/2022, Parise, Rv. 664016-01, ove la S.C. ha precisato che, nel caso in cui i genitori siano considerati privi della capacità genitoriale, la natura personalissima dei diritti coinvolti e il principio secondo cui l’adozione ultrafamiliare costituisce l’extrema ratio impongono di valutare anche le figure vicariali dei parenti più stretti (tra i quali non possono non essere considerati i nonni), che abbiano rapporti significativi con il bambino e si siano resi disponibili alla cura e all’educazione del minore. Tale valutazione richiede che un giudizio negativo su di essi possa essere formulato solo attraverso la considerazione di dati oggettivi, quali le osservazioni dei servizi sociali che hanno monitorato l’ambito familiare o eventualmente il parere di un consulente tecnico (nello stesso senso, Sez. 1, n. 03915/2018, Genovese, Rv. 647147-01). In applicazione del principio enunciato, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva escluso l’idoneità ad occuparsi dei minori da parte della nonna paterna, a ciò disponibile, il cui interesse per i minori si era palesato mediante la richiesta di intervento dei servizi sociali a tutela dei minori stessi.

3. Adozione: profili processuali.

Come anticipato nel paragrafo introduttivo, la giurisprudenza di legittimità si è posta, in materia, nel solco degli approdi a cui era pervenuta in precedenza.

In particolare, Sez. 28371/2022, Conti, Rv. 665752-01, ha ribadito che nei giudizi d’impugnazione (ricorso in appello e per cassazione) successivi alla pronuncia da parte del Tribunale per i minorenni della sentenza sull’opposizione avverso il decreto di adottabilità, assumono la qualità di litisconsorti necessari, tra i soggetti che erano legittimati all’opposizione in quanto destinatari della notificazione del decreto di adottabilità, ai sensi dell’art. 15 della l. n. 184 del 1983 (P.M., genitori, parenti entro il quarto grado, tutore), soltanto coloro che abbiano effettivamente proposto l’opposizione, poiché gli altri non hanno la legittimazione ad impugnare la sentenza del Tribunale, che spetta, ai sensi dell’art. 17 della legge citata, ai soggetti destinatari della notifica di quest’ultima, cioè al P.M., all’opponente ed al curatore.

4. L’adozione in casi particolari.

In argomento, Sez. 1, n. 10989/2022 Caiazzo, Rv. 664546-01, ha affermato che non costituisce ostacolo all’adozione del minore da parte del coniuge di uno dei genitori con lui convivente, ex art. 44, comma 1, lett. b), della l. n. 184 del 1983, la circostanza che il minore mantenga rapporti con l’altro genitore, impossibilitato a far fronte al mantenimento, poiché in questi casi l’adozione realizza appieno il preminente interesse del fanciullo alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, in conformità alle ragioni di cui alla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 55 della l. n. 184 del 1983, nella parte in cui escludeva, nell’adozione in casi particolari, ogni rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.

L’istituto assume oggi particolare rilievo alla luce della recentissima pronuncia a Sezioni Unite, già menzionata nel precedente capitolo, la quale ha affermato che il minore nato all’estero mediante il ricorso alla surrogazione di maternità ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con il genitore d’intenzione. Tale esigenza, hanno precisato le Sezioni Unite, è garantita attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, primo comma, lett. d) della l. n. 184 del 1983 che, allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, rappresenta lo strumento che consente, da un lato, di conseguire lo status di figlio e, dall’altro, di riconoscere giuridicamente il legame di fatto con il partner del genitore genetico, che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita (Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv. 666544-04).

La medesima sentenza ha altresì chiarito la portata dell’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore sociale. Ha, infatti, affermato che tale dissenso può e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore. Ne consegue che il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione, ma abbia poi abbandonato il partner e il minore (Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv. 666544-05).

Sotto il profilo processuale, Sez. 1, n. 27600/2022, Acierno, Rv. 665641-01, ha ribadito che la pronuncia del Tribunale per i minorenni sul riconoscimento del provvedimento straniero in materia di adozione, ancorché adottata in forma di decreto, avendo carattere decisorio e definitivo, ha valore sostanziale di sentenza e, non essendo ravvisabile, in tale ipotesi, una competenza in unico grado, è impugnabile mediante l’appello e non direttamente con il ricorso per cassazione.

In argomento, rileva, infine, Sez. 1, n. 36092/2022, Campese, Rv. 666254-01, già illustrata nel precedente capitolo, ove la S.C. ha precisato che l’art. 5, comma 1, della l. n. 184 del 1983 - nella parte in cui prevede che l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili di adottabilità (oltre che in quelli relativi alla responsabilità genitoriale e all’affidamento) - trova applicazione non solo con riguardo ai casi affidamento familiare di cui agli artt. 2 e ss. della l. cit., ma anche a quelli in cui, pendente il procedimento ex art. 8 l. n. 184 del 1983, e fino alla eventuale declaratoria di adottabilità, il minore sia stato collocato temporaneamente presso una famiglia o una comunità di tipo familiare (collocamento cd. “a rischio giuridico”, detto pure affidamento cd. “a rischio giuridico”), mentre non riguarda le ipotesi di affidamento preadottivo ai sensi degli artt. 22 e ss. della menzionata l. n. 184 del 1983.

La medesima decisione ha altresì chiarito che l’obbligo di convocazione sussiste anche in grado di appello, ove l’adempimento previsto sia stato omesso dal Tribunale per i minorenni, essendo, altrimenti, lasciato alla discrezionalità del giudice valutare se rinnovare o meno l’incombente (Sez. 1, n. 36092/2022, Campese, Rv. 666254-02).

5. L’adozione mite.

Diversi sono i presupposti dell’adozione cd. mite rispetto a quella cd. legittimante.

Sez 1, n. 20322/2022, Mercolino, Rv. 665227-01, al riguardo ha affermato che l’adozione c.d. mite, avente il proprio fondamento normativo nell’art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, consente la costituzione di un vincolo di filiazione giuridica, che si sovrappone a quello di sangue, senza estinguere il rapporto tra il minore e la famiglia di origine, in tutte quelle ipotesi di abbandono semipermanente o ciclico, in cui alla sussistenza di una pur grave fragilità genitoriale fa riscontro la permanenza di una relazione affettiva significativa tra minore e genitore, che sconsiglia la radicale recisione dei loro rapporti. L’adozione c.d. legittimante costituisce, invece, l’extrema ratio, cui può pervenirsi soltanto nel caso in cui la conservazione di tali rapporti si pone in contrasto con l’interesse del minore, che si trova in una condizione di endemico e radicale abbandono, determinato da un’incapacità del genitore di allevarlo e di curarlo, non recuperabile in tempi compatibili con l’esigenza del figlio di conseguire un’equilibrata crescita psicofisica.

In applicazione del principio la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato lo stato di adottabilità di due minori, in considerazione delle irreversibili e gravi incapacità dei genitori, sostanzialmente impermeabili ad ogni sollecitazione ad un recupero sia pure parziale e tardivo del rapporto genitoriale.

Sez. 1, n. 21024/2022, Pazzi, Rv. 665358-01, ha, poi, ritenuto che il giudizio di accertamento dello stato di adottabilità di un minore, ai sensi degli artt. 8 e ss. l. n. 184 del 1983, e il giudizio volto a disporre un'adozione mite, ex art. 44, lett. d), della medesima legge, costituiscono due procedimenti autonomi, di natura differente e non sovrapponibili fra loro, poiché il primo è funzionale alla successiva dichiarazione di adozione piena (o legittimante), costitutiva di un rapporto sostitutivo di quello con i genitori biologici, che determina l'inserimento del minore in una nuova famiglia, mentre il secondo crea un vincolo di filiazione giuridica, che non estingue i rapporti del minore con la famiglia di origine, pur attribuendo l'esercizio della responsabilità genitoriale all'adottante. Sulla scorta di tale distinzione, la S.C. ha dedotto che nell'ambito del processo per l'accertamento dello stato di adottabilità non può essere assunta alcuna decisione che faccia applicazione dell'art. 44, lett. d), l. cit. e, in applicazione di tale principio, ha cassato con rinvio la statuizione della Corte territoriale che aveva dichiarato lo stato di adottabilità e, nel contempo, aveva disposto che si procedesse all'adozione mite.

6. La questione di costituzionalità.

Si ritiene opportuno concludere il presente capitolo, evidenziando come l’interesse preminente del minore, che costituisce il baricentro delle decisioni in tema di filiazione, talvolta può determinare l’opportunità di non recidere i rapporti con la famiglia d’origine anche nel caso in cui si proceda all’adozione piena.

In quest’ottica, alla luce della giurisprudenza innanzi riportata, e tenuto conto anche delle numerose pronunce della Corte EDU sul diritto alla vita familiare, assume rilievo l’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione Civile (Sez. 1, n. 00230/2023, Acierno) che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 3, della l. n. 184 del 1983, in relazione agli artt. 2, 3, 30 Cost, all’art. 117 Cost. con riferimento all’art. 8 CEDU, agli artt. 3 e 21 Convenzione ONU di New York, ratificata con l. n. 176 del 1991, ed all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui stabilisce che con l’adozione legittimante del minore, derivante dall’accertamento dello stato di abbandono e dalla dichiarazione di adottabilità, cessano definitivamente i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine, estesa ai parenti entro il quarto grado, escludendo la valutazione in concreto del preminente interesse del minore a non reciderli, secondo modalità da stabilirsi in via giudiziale.

7. L’adozione di persone maggiori di età.

In tema di adozione di persone maggiori di età, deve menzionarsi un’interessante pronuncia della Corte, secondo la quale la “valenza solidaristica” della relativa disciplina legittima un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 296 e 311, comma 1, c.c., nel senso di consentire all’adottando maggiorenne, che si trovi in stato di interdizione giudiziale, di manifestare il proprio consenso anche per il tramite del suo rappresentante legale, trattandosi di atto personalissimo che non gli è espressamente vietato, considerato anche quanto complessivamente sancito dagli artt. 1 e 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006 e ratificata dall'Italia con l. n. 18 del 2009 (Sez. 1, n. 03462/2022, Campese, Rv. 664160-02).

Nella stessa pronuncia è, poi, evidenziato che il giudizio di convenienza, ai sensi dell'art. 312 c.c., rappresenta il fulcro dell'attività istruttoria ed implica una valutazione di merito, diretta ad accertare se l'adozione risulti moralmente vantaggiosa ed economicamente non pregiudizievole per l'adottando. Ne consegue che le informazioni necessarie per decidere sull'adozione possono essere assunte, senza particolari vincoli o formalità, mediante organi di pubblica sicurezza, servizi locali, o autorità comunali, udite tutte le persone che potrebbero essere a conoscenza della situazione di fatto dell'adottante, dell'adottando e della loro famiglia (Sez. 1, n. 03462/2022, Campese, Rv. 664160-01).

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  • cittadino straniero
  • diritto dell'UE - diritto internazionale
  • diritto degli stranieri

CAPITOLO VI

I DIRITTI DEI CITTADINI STRANIERI

(di Chiara Giammarco, Martina Flamini )

Sommario

1 PARTE PRIMA - QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE. --- Status di rifugiato. - 1.1 La rilevanza degli atti persecutori subiti da un familiare del richiedente. - 1.2 I fattori di inclusione. In particolare, l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale. - 1.3 Opinioni politiche. - 1.4 Libertà religiosa. - 2 La protezione sussidiaria. Il “grave danno”. - 2.1 Gli agenti di persecuzione non statuali. - 3 La protezione umanitaria. - 3.1 Le condizioni di vulnerabilità rilevanti. - 3.2 Legami familiari e integrazione sociale e lavorativa. - 3.3 Giudizio di comparazione. - 4 La protezione speciale. - 5 PARTE SECONDA - QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- Questioni legate all’applicazione dei “vecchi riti” della protezione internazionale. - 5.1 L’appello. - 5.2 Protezione umanitaria: competenza e rito applicabile tra l’entrata in vigore del d.l. n. 13 del 2017 e l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018. - 5.3 Protezione umanitaria: la giurisdizione nel caso di impugnativa del provvedimento del Questore. - 6 Le domande reiterate nella fase di esecuzione di un provvedimento di espulsione ex art. 29 bis d.lgs. n. 25 del 2008 prima delle modifiche di cui al d.l. n. 130 del 2020. - 6.1 La domanda reiterata quale ipotesi di inammissibilità della domanda ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 25 del 2008. - 7 La valutazione di credibilità del richiedente asilo. - 8 La cooperazione istruttoria. - 8.1 Le fonti d’informazione (COI). - 8.2 I rapporti tra la valutazione di credibilità ed il dovere del giudice di cooperazione istruttoria. - 9 Il recepimento dell’internal relocation ex art. 32, comma 1, d.lgs. n. 25 del 2008 e la sua irretroattività. - 10 Minori stranieri non accompagnati. - 11 La giurisdizione sulla domanda di visto turistico. - 12 I centri di accoglienza straordinari dei richiedenti asilo: la giurisdizione del giudice ordinario sull’attuazione delle misure anti Covid- 19. - 13 Il procedimento per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale e i ricorsi avverso i provvedimenti dell’Unità Dublino. - 14 PARTE TERZA - ESPULSIONE, ALLONTANAMENTO E TRATTENIMENTO --- L’espulsione amministrativa. - 15 I casi d’inespellibilità. - 16 La tutela dell’unità familiare e dei minori. - 17 Espulsione e legami familiari. - 18 L’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore. - 19 Il trattenimento.

1. PARTE PRIMA - QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE. --- Status di rifugiato.

Prima di esaminare il contenuto delle pronunce della S.C. in tema di fattori di inclusione nella forma di protezione internazionale maggiore, rappresentata dal riconoscimento dello status di rifugiato, non appare inutile ricordare che, ai sensi del primo comma dell’articolo 1A, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, il termine “rifugiato” si applica ad ogni individuo che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. L’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/96/UE torna sui fattori di inclusione, ribadendo che per “rifugiato” si intende un “cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12”.

La normativa interna italiana ha recepito tutti contenuti sopra citati: l’art. 2 del d.lgs. n. 251 del 2007 definisce il concetto di “rifugiato” come il “cittadino straniero il quale, per fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può, o a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate non può o, a causa di tale timore non vuole farvi ritorno (…)”. Gli artt. 7 e 8 del d.lgs. n. 251 del 2007, prevedono che gli atti di persecuzione devono a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali; b) costituire la somma di diverse misure, tra cui la violazione dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a). Il secondo comma dell’art. 8 esemplifica le forme che gli atti di persecuzione possono assumere. Inoltre, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 251 del 2007, responsabili della persecuzione rilevante anche ai fini dello status di rifugiato, devono essere: 1) lo Stato; 2) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; 3) soggetti non statuali, se i responsabili di cui ai punti 1) e 2), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione.

L’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 251 del 2007 dispone, infine, che la protezione dagli atti persecutori consiste “nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi”.

La norma da ultimo citata, in combinato disposto con l’art. 3, comma 4, del predetto d.lgs., è stata invocata da Sez. 1, n. 00676/2022, Russo, Rv. 663487-02 (che affronta anche temi di natura processuale, su cui v. infra) per meglio precisare il concetto di “rischio concreto ed attuale” di atti lesivi. Ad avviso della Corte, infatti, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, pur avendo rilevanza degli atti persecutori già subiti, come normativamente previsto (art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 251 del 2007), occorre accertare nel singolo caso, tramite informazioni pertinenti ed aggiornate sul paese di origine, il rischio attuale di ulteriori atti lesivi, dello stesso tipo di quelli già subiti, ovvero anche diversi ma che possono comunque qualificarsi come atti persecutori.

Ancora con riferimento alla definizione di status di rifugiato (ed alla differenza rispetto alla protezione sussidiaria) nella pronuncia appena citata la Corte chiarisce che l’atto persecutorio e il danno grave possono anche consistere materialmente nella stessa azione (come nel caso esaminato nell’ordinanza, relativo alle violenze subite da una donna vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale) ma, ove tale atto possa essere qualificato dalle ragioni persecutorie verso un certo gruppo sociale, la misura di protezione appropriata è il riconoscimento dello status e non la protezione sussidiaria.

In merito ai fattori di inclusione, nell’anno in rassegna la Corte si è soffermata sui requisiti dell’appartenenza ad un particolare gruppo sociale e delle opinioni politiche, precisando altresì come gli atti persecutori possano assumere rilevanza anche se subiti da un familiare del richiedente.

1.1. La rilevanza degli atti persecutori subiti da un familiare del richiedente.

Nell’anno passato, Sez. 1, n. 04377/2021, Casadonte, Rv. 660503-01, aveva già affermato la rilevanza, ai fini del riconoscimento dei presupposti del rifugio, delle minacce di persecuzione e di danni gravi per ragioni politiche incombenti su un familiare del richiedente, per poi precisare la necessità di valutare se il medesimo, previa verifica dell’attualità della minaccia, a causa del legame familiare con la persona minacciata sia a sua volta esposto allo stesso pericolo, non potendosi affermare che il mancato svolgimento di attività politica escluda a priori la sussistenza nei suoi confronti della minaccia.

Sebbene il c.d. status derivato non sia contemplato dalla Convenzione di Ginevra – che non integra il principio dell’unità della famiglia nella definizione di rifugiato – non può non tenersi conto delle raccomandazione degli organi dell’UNHCR che, in più occasioni, si è espresso in merito al “diritto essenziale” del rifugiato all’unità della famiglia e ha raccomandato agli Stati firmatari l’adozione delle misure necessarie al suo mantenimento e, più in generale, alla protezione della famiglia del rifugiato.

Sez. L, n. 05144/2022, Boghetich, Rv. 664198-01, prendendo in esame il ricorso proposto da un cittadino del Gambia fuggito all’età di 15 anni dal paese d’origine, per sottrarre la sorella di tredici anni dalla pratica dell’infibulazione, ha precisato che il fatto che non sia il ricorrente colui che è esposto al rischio di subire la suindicata pratica non esclude che egli possa essere direttamente esposto al rischio di un trattamento persecutorio di tipo religioso per aver cercato di sottrarre la sorella alla pratica stessa.

1.2. I fattori di inclusione. In particolare, l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale.

Sull’appartenenza di genere come concetto riferibile al particolare gruppo sociale si era già pronunciata Sez. 3, n. 16172/2021, Di Florio, Rv. 661636-01, laddove aveva chiarito che, seppur la definizione di rifugiato di cui agli artt. 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 e 2, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 251 del 2007 non preveda espressamente l’appartenenza di genere tra le cause di persecuzione, una prima integrazione della disciplina sull’asilo in relazione al genere era stata fornita dalle Linee guida dell’UNHCR sulla persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1 della Convenzione del 1951, con le quali si evidenziava la necessità di interpretare la disciplina dell’asilo anche in un’ottica di genere, che deve essere inteso, a giudizio della Corte, come status di appartenenza sociale, economica e culturale e non come grossolana differenziazione soltanto biologica e chimica tra sessi opposti. In tale ottica, l’appartenenza di genere ben può (ed anzi deve) essere considerata, in determinate condizioni, come riferibile “ad un particolare gruppo sociale” che può essere oggetto di persecuzioni già ai sensi dell’art. 1A della Convenzione di Ginevra.

In motivazione, Sez. 1, n. 00676/2022, Russo, Rv. 663487-02, dopo un’analitica ricostruzione normativa dell’istituto della tratta degli esseri umani, si è soffermata sulla tratta a scopo di prostituzione, precisando come la stessa “sia connotata da crimini quali il rapimento, la detenzione, lo stupro, la riduzione in schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, le percosse, la negazione di cure mediche, il sequestro dei documenti di identità e la limitazione di libertà personale, che costituiscono gravi atti di aggressione a diritti fondamentali della persona”. Inoltre, prosegue la Corte, essa, in genere, “si fonda sull’approfittamento di una particolare condizione di debolezza in cui si trovano le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, e pertanto questi atti possono qualificarsi come atti persecutori ai sensi dell’art. 8 lett. d) del d.lgs. 251/2007 in quanto riconducibili alla appartenenza ad un “particolare gruppo sociale” costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata e cioè, in questo caso, l’appartenenza al genere femminile”. Con specifico riferimento alla forma di protezione accordabile, nella pronuncia in esame, ci si è soffermati sulle differenze tra la protezione maggiore e la protezione sussidiaria per chiarire che, se la persona già vittima di tratta rischia, in caso di rimpatrio, di essere sottoposta ad atti di grave aggressione alla sua incolumità psicofisica, alla libertà e dignità, fondati sulla appartenenza al genere femminile, e tra essi il rischio di essere nuovamente sottoposta a tratta, o di essere gravemente discriminata dal contesto sociale, o sottoposta a vessazioni per la particolare vulnerabilità conseguente alla tratta, deve concludersi che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e non della protezione sussidiaria.

Sez. 3, n. 08980/2022, Travaglino, Rv. 664256-01, ha qualificato gli atti di mutilazione genitale femminile come violazioni dei diritti delle donne alla non discriminazione, alla protezione dalla violenza sia fisica che psicologica, alla salute e financo alla vita per poi concludere come detti atti integrino atti persecutori compiuti per motivi di appartenenza ad un particolare gruppo sociale e giustifichino, quindi, il riconoscimento dello status di rifugiato. Con specifico riferimento al rischio prognostico in caso di rimpatrio, nella decisione in esame la Corte ha chiarito che la mutilazione genitale rappresenta una forma di controllo assoluto sulla vittima e sul suo destino di donna e di madre, “controllo brutalmente esercitabile in modo diversi all’interno della sua famiglia e che appare, allo stato, impossibile da impedire da parte dell’interessata in caso di rimpatrio, collocandosi all’interno di rapporti e riti famigliari e tradizionali in relazione ai quali non potrebbe ottenere alcuna tutela dalle autorità dello Stato”. Per altro verso, rileva la Corte, “gli effetti di una mutilazione siffatta possono ragionevolmente ritenersi destinati a dipanarsi e ad incidere negativamente non soltanto sul piano fisico, ma, e soprattutto, sulla psiche della ricorrente, e sarebbero destinati ad aggravarsi ulteriormente in caso di rimpatrio, non potendo ella contare né sul supporto dei famigliari (che anzi sono proprio i soggetti autori della violenza discriminatoria volta al controllo della sua vita anche sessuale), né sul supporto delle autorità del suo Paese, incapaci di incidere su riti e su tradizioni tribali, a più forte ragione nel caso di specie, in cui il comportamento illecito ha nondimeno avuto attuazione”.

Sez. 1, n. 22234/2022, Tricomi L., Rv. 665162-01, torna sulla rilevanza degli atti di mutilazione genitale per precisare che, ritenuta credibile l’opposizione alla pratica di mutilazione degli organi genitali femminili da parte del genitore della minore, il giudice è tenuto, in ossequio al dovere di cooperazione istruttoria, a verificare se, pur in presenza di una normativa penale formalmente repressiva di detta forma di violenza, tale pratica sia comunque radicata nel paese d’origine del richiedente e se le autorità statali e governative siano realmente in grado di arginare la prassi tradizionale, socialmente accettata e condivisa nelle zone tribali, che determina l’emarginazione dei soggetti che vi si oppongono.

1.3. Opinioni politiche.

Sez. 1, n. 22396/2022, Tricomi L., Rv. 665163-01, nell’esaminare il ricorso proposto da un cittadino pakistano che aveva lottato per l’indipendenza del Kashmir e, per tale motivo, aveva subito torture durante il periodo di detenzione, ha affermato che le violenze patite in ragione della manifestazione di opinioni politiche e l’ingiustificata reazione delle forze di polizia integrano i presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato, ai sensi degli artt. 7 e 8 del d.lgs. n. 251 del 2007.

Sul tema dell’obiezione di coscienza nel 2021, Sez. 6-1, n. 13461/2021, Campese, Rv. 661447-01 aveva affermato che lo status di rifugiato politico può essere riconosciuto all’obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine (Ucraina), anche nel caso in cui l’arruolamento comporti il rischio di un coinvolgimento, anche indiretto, in un conflitto caratterizzato anche solo dall’alto rischio di commissione di crimini di guerra e contro l’umanità, costituendo la sanzione penale prevista dall’ordinamento straniero per detto rifiuto atto di persecuzione ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007 e dell’art. 9, par. 2, lett. e), della direttiva 2004/83/CE, come interpretato dalla Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 26 febbraio 2015, causa C-472/13, Shepherd contro Germania), che estende la tutela anche al personale militare logistico e di sostegno.

Nell’anno in rassegna, la Corte si è soffermata sulle sanzioni cui incorrerebbe il richiedente protezione in caso di rifiuto di prestare il servizio militare.

Sez. 6-1, n. 05211/2022, Falabella, Rv. 664056-01, ha esaminato il ricorso di un cittadino egiziano che non aveva prospettato che il proprio arruolamento avrebbe determinato il rischio di essere coinvolto in un conflitto caratterizzato dal rischio succitato, ma si era limitato a dedurre che, nel corso del servizio di leva, avrebbe potuto essere impegnato in aree di guerra (evenienza ritenuta dalla Corte priva di decisività). Il tema rilevante esaminato dalla Corte attiene all’allegazione del ricorrente relativa al fatto che il rifiuto di prestare il servizio di leva avrebbe comportato l’essere considerato “un oppositore ai sistemi egiziani” in un paese in cui la renitenza alla leva era “punita severamente”. In forza del richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 26 febbraio 2015, causa C-472/13, Shepherd contro Germania), la Suprema Corte ha ribadito che il giudice di merito è tenuto a valutare se le azioni giudiziarie e le sanzioni in cui incorrerebbe il richiedente nel suo paese di origine, a causa del suo rifiuto di prestare servizio militare, siano sproporzionate rispetto a quanto necessario allo Stato per esercitare il suo legittimo diritto di mantenere una forza armata e se le stesse presentino carattere discriminatorio.

In merito alla valutazione della proporzionalità o meno delle sanzioni previste nell’ordinamento del richiedente per il caso di rifiuto di prestare servizio militare, si registra un diverso orientamento. Già nel 2021, Sez. 1, 00102/2021, Oliva, Rv. 660525 -03, aveva affermato (con riferimento al ricorso proposto da un cittadino ucraino, obiettore di coscienza, richiamato alle armi) che l’obiezione di coscienza è di per sé suscettibile di rilevare ai fini del riconoscimento della tutela internazionale, anche a prescindere da qualsiasi considerazione circa la proporzionalità della sanzione prevista per la renitenza alla leva dall’ordinamento nazionale del Paese di appartenenza dell’obiettore. Nel 2022, Sez. 1, n. 07047/2022, Oliva, Rv. 665875-01, sempre con riguardo ad un ricorso proposto da un cittadino ucraino obiettore di coscienza, ha ribadito che l’esistenza, nel diritto straniero, di una sanzione penale per il rifiuto di prestare il servizio di leva obbligatorio, a prescindere dalla sua adeguatezza, costituisce atto di persecuzione. Nella decisione in esame, la S.C. ha sottolineato che, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, è del tutto irrilevante il fatto che il ricorrente non abbia esibito la cartolina-precetto, atteso che, da un lato non vi è certezza sulle modalità di chiamata alle armi di una determinata classe di leva e, dall’altro, il pregiudizio derivante dalla chiamata obbligatoria non è legato alla ricezione dell’avviso di arruolamento, ma al fatto che il richiedente, in quanto anagraficamente appartenente ad un determinato scaglione, sia inserito negli elenchi di chiamata. A medesime conclusioni giunge anche Sez. L, n. 18626/2022, Pagetta, Rv. 665023-01, laddove, nell’esaminare la domanda di un cittadino ucraino obiettore di coscienza, ha affermato la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato evidenziando come l’arruolamento, per il conflitto armato internazionale in atto sull’intero territorio, comporti un elevato rischio di coinvolgimento, anche indiretto, nella commissione di crimini di guerra e contro l’umanità, costituendo, in tale contesto, la sanzione penale prevista dall’ordinamento straniero per la renitenza alla leva un atto di persecuzione, indipendentemente da qualsiasi considerazione circa la proporzionalità della pena.

1.4. Libertà religiosa.

Nel 2021 Sez. 1, 35102/2021, Gori, Rv. 663277-01 aveva ricordato che l’articolo 19 Cost. protegge autonomamente la libertà di professare la propria religione, nella sua duplice dimensione pubblica e privata, con il solo limite del rispetto del buon costume e che l’art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), compendia in un unico articolo la “Libertà di pensiero, di coscienza e di religione” specificando come “(…) tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. Nella citata pronuncia, la S.C. - cassando la decisione di merito, che aveva escluso l’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla chiesa domestica “Yin Xin Cheng Yi” di fede cristiana, per il solo fatto che, pur trattandosi di un’associazione religiosa clandestina e vietata, nei confronti di tale culto vi era una certa tolleranza da parte dello Stato - ha affermato che il riconoscimento dello status di rifugiato, avuto riguardo alla libertà religiosa dello straniero, così come delineata nell’art. 2, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007, ed in particolare alla parte in cui definisce rifugiato “il cittadino straniero il quale, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di religione, si trovi fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese”, richiede che il timore vada valutato sia alla luce del contenuto della legislazione, sia della sua applicazione concreta da parte del Paese di origine, in relazione al rispetto dei limiti “interni” alla libertà religiosa, che emergono dall’art. 19 Cost. e dell’art. 9, par. 2 CEDU, dovendo il giudice valutare se l’ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge, sia diretta a perseguire uno o più fini legittimi e costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tali fini. Nell’anno in rassegna tali principi vengono riaffermati da Sez. 6-1, n. 35526/2022, Catallozzi, Rv. 666588-01, che ha cassato la pronuncia di merito che, nel rigettare la domanda proposta da una cittadina cinese aderente alla “Chiesa Evangelica”, aveva escluso in radice la possibilità che i limiti alla libertà di culto previsti dall’ordinamento cinese potessero essere privi di una giustificazione compatibile con la tutela dei diritti umani.

Sez. 1, n. 23805/2022, Lamorgese, Rv. 665372-01, ha poi precisato che la nozione di libertà religiosa comprende la libertà del cittadino di praticare fedi religiose non ammesse dallo Stato, senza subire intimidazioni e costrizioni che, in quanto tali, possono configurarsi come atti di persecuzione, ai sensi degli artt. 7 e 8, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, anche se posti in essere dalle autorità statali o con provvedimenti di tipo legislativo, amministrativo, giudiziario o di polizia (nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva escluso l’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla “Chiesa di Dio Onnipotente”, per il solo fatto che, trattandosi di associazione religiosa clandestina e vietata, ella avrebbe potuto manifestare la propria libertà religiosa aderendo ad un culto ammesso o non segreto).

2. La protezione sussidiaria. Il “grave danno”.

Al fine di ritenere integrate le due fattispecie normative di cui all’art. 14, lett. a) e lett. b), del d.lgs. n. 215 del 2007, Sez. 3, n. 11936/2020, Rossetti, Rv. 658019-01, aveva già richiesto, diversamente da quanto disposto dalla successiva lett. c), che i rischi ai quali sarebbe esposto il richiedente in caso di rientro in patria siano “effettivi” (come richiesto dall’art. 2, comma 1, lett. g), dello stesso decreto) e, cioè, individuali o almeno individualizzanti e non già configurabili in via meramente ipotetica o di supposizione.

All’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati nell’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono stati ritenuti riconducibili: il danno grave alla persona determinato dalla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti con riferimento alle condizioni carcerarie di un Paese (Sez. 6-1, n. 16411/2019, Bisogni, Rv. 654716-01), donde la necessità di procedere officiosamente all’integrazione istruttoria necessaria, sia avuto riguardo alle condizioni generali del Paese che in relazione alle condizioni carcerarie (conf. Sez. 6-1, n. 24064/2013, Acierno, Rv. 628478-01); gli atti di vendetta e ritorsione minacciati o posti in essere da membri di un gruppo familiare che si ritiene leso nel proprio onore a causa di una relazione (nella specie sentimentale) esistente o esistita con un membro della famiglia, in quanto lesivi dei diritti fondamentali sanciti in particolare dagli artt. 2, 3 e 29 Cost. e dall’art. 8 CEDU, donde la necessità, da parte del giudice, di verificare in concreto se, in presenza di minaccia di danno grave ad opera di soggetti non statuali, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del decreto cit., lo Stato di origine del richiedente sia in grado o meno di offrire al soggetto vittima di tali atti un’adeguata protezione (Sez. 1, n. 01343/2020, Scordamaglia, Rv. 656759-01).

Con particolare riferimento alla fattispecie di cui all’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 1, n. 03336/2022, Amatore, Rv. 664100-01, ha precisato che la fattispecie applicativa di cui alla norma citata riferisce la definizione di danno grave alle modalità di esecuzione della pena ovvero del trattamento carcerario applicato (“tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine”) e non già (come invece previsto dalla lettera a della medesima norma in esame) alla tipologia di pena applicata ovvero applicabile (“condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte”), di modo che non è possibile predicare un’esegesi che qualifichi come “danno grave”, ai sensi dell’art. 14 d.lgs. n. 251 del 2007, l’applicazione di una pena ritenuta - in tesi - sproporzionata rispetto al delitto in relazione al quale è prospettata la sanzione penale (come avvenuto nel caso di specie ove il ricorrente ritiene la pena dell’ergastolo eccessiva e sproporzionata rispetto al delitto di violenza sessuale su minore). In merito a tale aspetto, la S.C., richiamando la giurisprudenza della Corte EDU, ha affermato che il danno grave è sempre determinato dalla modalità di esecuzione della pena (“tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante”), e cioè, per quanto concerne la pena dell’ergastolo, che quest’ultima non sia riducibile in alcun modo ovvero che non vi sia una “base penale” per la condanna. La Corte ha poi chiarito che l’ordinamento non prevede in alcun modo un sindacato giudiziale sul profilo della proporzionalità o meno della pena inflitta rispetto al delitto commesso ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria e che, anche ove tale scrutinio volesse, per ipotesi, ritenersi ammissibile, il sindacato giudiziale dovrebbe concentrarsi solo sulle ipotesi di eclatante sproporzione tra la tipologia di delitto commesso dal richiedente asilo e quella della pena prevista ed irrogabile nel paese di provenienza.

2.1. Gli agenti di persecuzione non statuali.

Quanto alla possibilità di ritenere responsabili della persecuzione o del danno grave anche soggetti privati, nelle precedenti Rassegne semestrali di questo Ufficio, era stata già sottolineata l’esistenza di due contrapposti orientamenti giurisprudenziali.

Secondo un primo e più risalente orientamento (Sez. 6-1, n. 03758/2018, De Chiara, Rv. 647370-01; Sez. 1, n. 23604/2017, Lamorgese, Rv. 646043-01; Sez. 6-1, n. 16356/2017, Acierno, Rv. 644807-01; Sez. 6-1, n. 15192/2015, Acierno, Rv. 636207-01), che ha ricevuto conferma in due pronunce più recenti, non massimate, sulle quali ci si soffermerà in seguito, le minacce di morte da parte di una setta religiosa integrano gli estremi del danno grave ex art. 14 del d.lgs. n. 251 del 2007 e non possono essere considerate un fatto di natura meramente privata, atteso che la minaccia di danno grave può provenire, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del d.lgs. cit., anche da “soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lett. a) e b)”, ossia lo Stato e i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o il territorio o parte di esso, comprese le organizzazioni internazionali, “non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi”.

Secondo un più recente orientamento (Sez. 1, n. 23281/2020, Manna, Rv. 659378-01, Sez. 1, n. 24214/2020, Manna, Rv. 659665-01 e Sez. 2, n. 19258/2020, Besso Marcheis, Rv. 659126-01, in conformità all’arresto inaugurato da Sez. 6-1, n. 09043/2019, Lamorgese, Rv. 653794-01) le liti tra privati non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal d.lgs. n. 251 del 2007, trattandosi, per l’appunto, di “vicende private” estranee al sistema di protezione internazionale, non rientrando né nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), né nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i cd. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave solo ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi.

La possibilità di ascrivere tra gli agenti di persecuzione anche i soggetti non statuali è stata riconosciuta da Sez. 3, n. 20278/2021, Di Florio, non massimata, che - esaminando il ricorso proposto da un cittadino del Senegal fuggito dal paese d’origine a causa delle minacce e violenze subite dai fratellastri (senza la possibilità di ricevere protezione dalle autorità statuali) - ha precisato che il danno grave ben può essere provocato da soggetti privati, qualora nel Paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornire adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione di quel Paese e, quindi, sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali.

A medesime conclusioni giunge anche Sez. L, n. 15810/2022, Pagetta, non massimata, che ribadisce come, anche nel caso in cui il danno grave sia provocato da soggetti privati (nel caso esaminato dalla Corte si trattava degli abitanti del villaggio vicino al quale era scoppiato un incendio del quale il ricorrente era stato accusato), la fattispecie risulta direttamente sussumibile nell’ambito della ipotesi regolata dall’art. 14 lett. b), d.lgs. n. 251 del 2007.

3. La protezione umanitaria.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 01390/2022, Falaschi, Rv. 663716-01) confermando un orientamento già espresso, hanno ribadito che il diritto alla protezione umanitaria ha consistenza di diritto soggettivo che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore.

Nello stesso senso si è pronunciata Sez. L, n. 02716/2022, Cinque, Rv. 663741-01, nel decidere sul ricorso proposto da un cittadino egiziano avverso il diniego della domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari presentata direttamente al Questore.

Con riferimento alla disciplina intertemporale applicabile alle domande volte ad ottenere la protezione complementare, sin dal 2019, le Sezioni Unite avevano chiarito che il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile (Sez. U, n. 29459/2019, Perrino, Rv. 656062-01). Nel 2022, Sez. L, n. 10214/2022, Cinque, Rv. 664333-01, ha ribadito quanto affermato dalle Sezioni Unite, per poi concludere che i requisiti sostanziali per il rinnovo del permesso di soggiorno, rilasciato in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, conv. dalla l. n. 132 del 2018, devono essere valutati sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del predetto d.l..

Sez. 1, n. 25459/2022, Fidanzia, Rv. 665532-01 ha precisato altresì che, con specifico riferimento ai procedimenti pendenti in grado d’appello al momento dell’entrata in vigore del d.l. n. 130 del 2020 (non specificamente disciplinati dalle disposizioni transitorie di cui all’art. 15 del citato d.l.), debba aversi riguardo al momento della presentazione della domanda del richiedente in sede amministrativa.

Con riferimento agli elementi che possono ritenersi ostativi al riconoscimento della protezione complementare, Sez. 6-1, n. 26612/2022, Caiazzo, Rv. 665573-01, ha precisato che la sentenza di condanna con patteggiamento non può ritenersi ostativa al riconoscimento di una condizione di vulnerabilità, in mancanza di altri fatti che siano espressivi di una personalità proclive a delinquere del richiedente, tenuto conto delle finalità di tale forma di protezione e della funzione rieducativa della pena sancita dall’art. 27, comma 3, Cost. (nel caso esaminato dalla S.C., la domanda di protezione umanitaria era stata rigettata esclusivamente alla luce di una sentenza di condanna con patteggiamento per sequestro di persona, omettendo di considerare che il ricorrente, negli otto anni successivi, non aveva posto in essere alcuna condotta antigiuridica ed aveva realizzato un significativo percorso di integrazione sociale e lavorativo).

La S.C., nell’esame dei ricorsi aventi ad oggetto i provvedimenti di rigetto delle domande volte ad ottenere la protezione complementare, anche nell’anno in rassegna, si è soffermata sul catalogo aperto rappresentato dai motivi che possono giustificare il riconoscimento di tale forma di protezione. In particolare, la Corte ha esaminato alcune delle fattispecie che hanno trovato poi una espressa codificazione nel d.l. n. 130 del 2020, recante, per quel che rileva rispetto al settore civile, “disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare”, conv. con modif. in l. n. 173 del 2020.

3.1. Le condizioni di vulnerabilità rilevanti.

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, nella normativa ormai abrogata, il concetto di vulnerabilità rivestiva un ruolo centrale, per la sua capacità di ricomprendere e assorbire ipotesi che andavano da quelle di vulnerabilità soggettiva normativamente tipizzate – quali i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, le vittime della tratta di esseri umani, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, le vittime di mutilazioni genitali, anche i genitori singoli con figli minori – ad ipotesi non espressamente previste dalla legge come, ad esempio, i ricorrenti vittima di sfruttamento lavorativo o i migranti ambientali. Anche nel 2022, la S.C. si è soffermata sulle numerose ipotesi di vulnerabilità, legate alla condizione di disabilità, alle violenze domestiche ed alle conseguenze subite in seguito all’assoggettamento a tratta ai fini di sfruttamento sessuale.

Sez. 1, n. 26671/2022, Acierno, Rv. 665542-01, ha affermato che ai fini del giudizio di bilanciamento funzionale al riconoscimento della protezione umanitaria, la condizione di vulnerabilità del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed a quella alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio. A fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni sociopolitiche del Paese d’origine deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone, pertinenti al caso e aggiornate al momento dell’adozione della decisione; conseguentemente, il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di esaminare la documentazione prodotta a sostegno della dedotta integrazione e di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, incorrendo altrimenti la pronuncia nel vizio di motivazione apparente. In particolare, nella decisione in esame, la S.C. ha osservato come la documentazione lavorativa prodotta dal ricorrente, cittadino nigeriano, e la situazione di estrema povertà, degrado umano e violenza del paese di origine costituiscano elementi idonei a fondare una condizione di vulnerabilità riconducibile nell’alveo dell’art. 8 CEDU, sotto il profilo del diritto alla vita privata.

Sez. 1, n. 27544/2022, Parise, Rv. 665638-01, decidendo sul ricorso proposto da un cittadino del Mali, affetto da un disturbo psicotico - la cui domanda era stata rigettata senza considerare lo stato di salute del ricorrente, la documentata necessità di proseguire nel piano terapeutico elaborato in Italia e le effettive capacità del sistema sanitario del paese d’origine di erogare le cure necessarie - ha precisato che la condizione di vulnerabilità per motivi salute richiede l’accertamento della gravità della patologia, la necessità ed urgenza delle cure, nonché la presenza di gravi carenze del sistema sanitario del paese di provenienza.

Sez. L, n. 05467/2022, Boghetich, Rv. 664199-01, ha evidenziato che, nel giudizio di comparazione tra la situazione soggettiva e oggettiva della richiedente nel paese di origine alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia (sul quale ci si soffermerà in seguito), deve essere posta particolare attenzione all’idoneità dei forti traumi, riportati per le violenze domestiche subite, ad incidere sulla sua condizione di vulnerabilità, nonché sulla capacità di reinserirsi socialmente in caso di rimpatrio preservando le inalienabili condizioni di dignità umana. Nel ricorso esaminato dalla Corte la richiedente, orfana, già abusata dal marito della donna che l’allevava e costretta all’aborto, dopo la fuga e il matrimonio, aveva perduto il bambino dato alla luce durante l’incarcerazione in Libia.

La già citata Sez. 1, n. 00676/2022, Russo, Rv. 663487-03, ha affermato che, ove si accerti la vicenda storica della tratta, ma si escluda il rischio attuale di atti persecutori, si dovrà valutare, nel caso in cui la persona non abbia ricevuto il permesso di soggiorno ex art. 18 del d.lgs. n. 286 del 1998, la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria. Nella decisione in esame, la Corte ha sottolineato come le violenze subite possono essere state fortemente traumatiche e idonee ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona, nonché sulla sua capacità di reinserirsi socialmente in caso di rimpatrio, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana.

Sez. 1, n. 13400/2022, Acierno, Rv. 664761-01, enunciando il principio di diritto ex art. 363, comma 3, c.p.c., ha statuito che “la condizione di vulnerabilità idonea a sorreggere il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, può essere fondata sull’allegazione di una situazione di disabilità fisica o psichica generatrice, nel paese di origine, di un trattamento discriminatorio, pur non derivante da atti o comportamenti statuali, dovuto ad emarginazione sociale e relazionale, secondo un modello culturale diffuso e non contrastato, tale da integrare una grave violazione dei diritti umani così come garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione e dall’art. 1 e seguenti della Convenzione ONU, fatta a new York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con la l. n. 19 del 2009”. Nella pronuncia in esame, la S.C. ha osservato che la grave violazione dei diritti umani deriva dal quadro costituzionale e convenzionale univocamente rivolto a eliminare le discriminazioni per ragioni di disabilità fisica o psichica. Oltre agli artt. 2 e 3 Cost. (che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo), deve rilevarsi l’adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con la legge n. 19 del 2009, con la quale gli Stati, all’art. 1, si impegnano a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone affette da disabilità ed a promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità, attraverso l’adozione di misure volte a scongiurare il rischio di qualsivoglia discriminazione sulla base della loro particolare condizione.

Sez. 1, n. 22771/2022, Casadonte, Rv. 665522-01, ha ribadito come il giudice, investito di una domanda volta ad ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria, debba valutare anche la minore età del richiedente al momento del suo ingresso in Italia trattandosi di elemento rilevante perché, come risulta da numerosi indici normativi, il minore rappresenta un soggetto vulnerabile, cosicché il raggiungimento della maggiore età nel corso del procedimento, i cui tempi non possono essere imputati al richiedente protezione, ne impongono comunque la considerazione.

3.2. Legami familiari e integrazione sociale e lavorativa.

Nel 2021, Sez. 1, n. 01347/2021, Caradonna, Rv. 660360-01, con riferimento alla vita familiare, aveva chiarito come rientri tra i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria la condizione del richiedente che conviva in Italia con moglie e figlio minore, quando uno dei fattori valorizzati dal richiedente sia proprio il legame familiare con la prole, tenuto conto della elasticità dei parametri entro i quali si muove la protezione umanitaria e che, ai sensi dell’art. 8 CEDU, la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente (la necessità di tener conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale è oggi esplicitata nel nuovo art. 19 T.U.I., come modificato dalla legge 173 del 2020).

Sez. 1, n. 00467/2022, Pazzi, Rv. 663898-01, confermando l’orientamento della Corte, ha precisato che, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, deve essere valutata la significativa relazione affettiva del richiedente con il figlio minore residente in Italia, ancorché non convivente, restando escluso che tale situazione possa avere rilievo solo per l’ottenimento dell’autorizzazione a permanere nel territorio nazionale ex art. 31 d.lgs. n. 286 del 1998, poiché questa norma, posta a tutela dell’interesse del minore, non preclude la valorizzazione delle medesime circostanze in una prospettiva di tutela della condizione del genitore, alla luce degli artt. 2 e 3 Cost., in relazione al rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive con il figlio.

L’autonoma rilevanza dell’unità familiare raggiunta nel paese in cui la domanda di protezione è proposta è affermata da Sez. 1, n. 10201/2022, Acierno, Rv. 664535-01; nella decisione si precisa che la condizione di vulnerabilità derivante dalla lesione del diritto all’unità familiare ex art. 8 CEDU deve essere autonomamente valutata mediante l’accertamento del dedotto ed allegato intervenuto radicamento familiare in Italia, senza che sia necessaria anche l’allegazione dell’integrazione dovuta allo svolgimento di attività lavorativa.

Sez. 3, n. 01074/2022, Rossetti, afferma che la rilevanza di uno stato di gravidanza e, in seguito, della presenza di figli minori rileva anche se sopravvenuta alla conclusione del giudizio di primo grado, in quanto teoricamente idonea a giustificare una situazione di vulnerabilità soggettiva. Con riferimento al fatto che lo stato di gravidanza è intervenuto dopo la pubblicazione del decreto impugnato, la S.C. precisa che “il fatto sopravvenuto alla decisione di merito, e documentato in sede di legittimità, è equiparabile al jus superveniens, e dunque di esso deve tenersi conto nell’esame del ricorso (Sez. 3, n. 26757 del 24/11/2020, Rv. 659865-02; in precedenza, nello stesso senso, Sez. 1, n. 2341 del 17/04/1982, Rv. 420225-01)”. A medesime conclusioni giunge anche la più recente, Sez. 1, n. 30136/2022, Catallozzi, Rv. 665922-01, laddove afferma che lo stato di gravidanza della richiedente e, conseguentemente, anche quello di madre con figlio minore - sopravvenuto nelle more del giudizio di impugnazione - deve essere valutato dal giudice d’appello ai fini dell’individuazione di una situazione di vulnerabilità, considerato che l’art. 19, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede il divieto di espulsione per le donne in gravidanza e nei sei mesi successivi al parto e che l’art. 2, comma 1, lett. h) bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, include tra le persone vulnerabili anche le donne in stato di gravidanza ed i genitori singoli con figli minori.

Sez. 1, n. 33315/2022, Nazzicone, Rv. 666234-01, ha precisato che l’integrazione lavorativa costituisce sintomo centrale per ritenere sussistente l’integrazione sociale del cittadino straniero, che non può essere esclusa solo in ragione del fatto che il contratto a tempo indeterminato è stato sottoscritto pochi mesi prima della decisione.

Con riferimento al percorso di integrazione sociale e lavorativa rilevante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, Sez. 2, n. 07396/2021, Grasso, Rv. 660750-01, aveva affermato la necessità di tenere in considerazione il lavoro e le attività formative e d’istruzione svolte dall’interessato, non rilevando la circostanza che tali attività risultino favorite dall’art. 22 del d.lgs. n. 142 del 2015 o da altre norme nazionali, regionali o locali.

Sez. 1, n. 07938/2022, Acierno, Rv. 664528-01, ha evidenziato che, ai fini della valutazione complessiva dell’integrazione sociale e del radicamento sul territorio italiano, deve essere valutato in concreto l’intero percorso compiuto dal cittadino straniero (anche con riferimento, ad esempio, alla frequentazione di corsi di lingua e di formazione professionale), anche considerando le attività svolte all’interno del sistema di accoglienza, previsto dalla legge e realizzato dagli enti locali, e la continuità temporale delle stesse. Tale principio è ribadito anche da Sez. 1, n. 23571/2022, Crolla, Rv. 665366-01, che - nell’esaminare il ricorso proposto da un cittadino del Senegal, il quale aveva provato di aver svolto un tirocinio formativo come aiuto cuoco e di aver ottenuto la licenza media, allegando di provenire da un paese caratterizzato da una condizione di illegalità ed insicurezza - ha precisato che la condizione di integrazione sociale e lavorativa dello straniero richiedente deve essere valutata in comparazione con la situazione oggettiva e soggettiva del suo Paese di origine, attraverso un’analisi rigorosa delle fonti di informazione, acquisite dal giudice in applicazione del principio di cooperazione istruttoria, e può ritenersi provata dallo svolgimento di un tirocinio formativo e dalla frequentazione di un corso scolastico, non assumendo alcun rilievo il fatto che tali attività siano state svolte all’interno del percorso di accoglienza.

In merito alla necessità di valutare le attività lavorative svolte dal ricorrente, Sez. 6-1, n. 32372/2021, Parise, Rv. 663304-01 aveva precisato come il giudice di merito non possa omettere di esaminare, dandone conto nella motivazione, la documentazione ritualmente prodotta dal richiedente relativa all’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, atteso che tali documenti costituiscono un fatto storico relativo all’integrazione del richiedente in Italia, che in quanto tale è astrattamente idoneo a configurarsi come decisivo nella comparazione con la situazione nel Paese di origine.

Con riferimento alla prova dell’integrazione, Sez. 6-1, n. 06111/2022, Caiazzo, Rv.664059-01, ha affermato che il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenta una forma di integrazione sociale, a prescindere dalla produzione delle buste paga o di altri documenti dimostrativi dell’effettività del rapporto lavorativo e, quale atto proveniente dal datore di lavoro, costituisce prova sufficiente dell’effettiva esistenza del rapporto di lavoro, anche in considerazione della possibilità per il giudice di esercitare i poteri ufficiosi, al fine di accertare l’effettivo svolgimento dell’attività indicata dal richiedente.

Per Sez. 6-1, n. 19466/2022, Pazzi, Rv. 665333-01 dalla rilevanza del contratto di lavoro di lavoro consegue che il mancato esame del contratto di assunzione a tempo indeterminato del ricorrente, da parte del giudice del merito, può essere denunciato in sede di legittimità, in quanto tale documento appare decisivo ai fini della valutazione del raggiungimento di un apprezzabile grado di integrazione socio-lavorativa dello straniero sul territorio italiano, potenzialmente rilevante ai fini della tutela del diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU.

3.3. Giudizio di comparazione.

Il concetto di vulnerabilità ricomprende ed assorbe ipotesi tra loro molto eterogenee, che, sin dal 2008, la S.C. ha precisato devono essere poste in comparazione con il grado di integrazione sociale in Italia.

Sul tema, centrali sono state le motivazioni di Sez. 1, n. 04455/2018, Acierno, Rv. 647298-01, che non solo ha aperto a una concezione allargata della vulnerabilità del cittadino straniero, ma che ha anche introdotto la necessità di “una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)”.

La tenuta della soluzione adottata nel 2018, confermata da Sez. U, n. 29459/2019, Perrino, Rv. 656062-02 (per un approfondimento dei temi affrontati dalle Sezioni Unite si rinvia alle relazioni n. 84 e 85 del 2019 redatte da questo Ufficio), è stata confermata sia nel 2021 che nell’anno in rassegna.

Sez. U, n. 24413/2021, Cosentino, Rv. 662246-01 (per un approfondimento dei temi affrontati dalle Sezioni Unite si rinvia alla relazione n. 25 del 2021 di questo Ufficio), ha ribadito la necessità di operare un giudizio di comparazione tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana. Ha così trovato formale consacrazione il criterio della c.d. comparazione attenuata, laddove le Sezioni Unite hanno precisato che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia. Con riferimento al livello di integrazione raggiunto in Italia, la Corte ha ribadito che qualora si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno.

Sez. 1, n. 00677/2022, Russo, Rv. 663488-01, ha precisato che se vi è un forte radicamento sul territorio del richiedente asilo, nel giudizio di comparazione tra le condizioni di vita nel paese d’accoglienza e quelle nel paese d’origine, queste ultime assumono una rilevanza proporzionalmente minore: segnatamente, non rileva se le condizioni del paese d’origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali, ma se tale effetto si produca con il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che il migrante ha conseguito in Italia e ciò che irrimediabilmente perderebbe ritornando nel paese natio.

A medesime conclusioni giunge Sez. 1, n. 00465/2022, Pazzi, Rv. 663485-01, laddove precisa che, nel giudizio di comparazione, deve essere attribuito alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che egli dimostri di aver raggiunto nella società italiana, sicché, ove si accerti che è stato raggiunto un apprezzabile livello di integrazione lavorativa del migrante, non è necessaria la verifica che il rimpatrio possa comportare una compromissione dei diritti fondamentali, essendo sufficiente la constatazione che il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare, tale da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, così integrandosi un serio motivo di carattere umanitario che, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, esclude il rifiuto del permesso di soggiorno.

In termini di comparazione attenuata si esprime Sez. 6-1, n. 10130/2022, Pazzi, Rv. 664563-01, precisando che ove il ricorrente dimostri di aver raggiunto un’integrazione in Italia, anche se limitata alla sola attività lavorativa, il giudice di merito è tenuto ad effettuare la comparazione attenuata, al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio possa comportare uno scadimento delle condizioni di vita privata tale da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU.

La necessità di compiere il giudizio di comparazione è ribadita da Sez. 3, n. 19045/2022, Travaglino, Rv. 665111-02, che si preoccupa altresì di segnare un criterio distintivo tra quanto deve essere accertato ai fini del riconoscimento della protezione internazionale (l’esistenza di un rischio che riguardi direttamente e personalmente il richiedente) e quanto, invece, è da valutare per il riconoscimento della protezione nazionale (la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona nel paese d’origine). In particolare, nella decisione in esame, si afferma che “se, per il riconoscimento dello status di rifugiato, o della protezione sussidiaria di cui alle lettere a) e b) del d.lgs. 251/2007, deve essere dimostrato che il richiedente asilo abbia subito, o rischi concretamente di subire, atti persecutori così come definiti dall’art. 7 (atti sufficientemente gravi per natura o frequenza, tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, ovvero costituire la somma di diverse misure il cui impatto si deve risolvere in una grave violazione dei medesimi diritti), di tal che la eventuale decisione di accoglimento della relativa domanda consegue ad una valutazione prognostica dell’esistenza di un rischio - onde il requisito essenziale per il riconoscimento di tale forma di protezione consiste nel fondato timore di persecuzione, personale e diretta, nel paese di origine del richiedente asilo, alla luce di una violazione individualizzata - e cioè riferibile direttamente e personalmente al richiedente asilo, in relazione alla situazione del Paese di provenienza, da compiersi in base al racconto ed alla valutazione di credibilità operata dal giudice di merito - diversa, invece, è la prospettiva dell’organo giurisdizionale in tema di protezione umanitaria, per il riconoscimento della quale è necessaria e sufficiente (anche al di là ed a prescindere dal giudizio di credibilità del racconto) la valutazione comparativa tra il livello di integrazione raggiunto in Italia e la situazione del Paese di origine, qualora risulti ivi accertata la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona che ne vulnerino la dignità - accertamento che prende le mosse, senza poterne in alcun modo prescindere, dal dettato costituzionale di cui all’art. 10 comma 3, ove si discorre di impedimento allo straniero dell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

4. La protezione speciale.

Il d.l. n. 130 del 2020, recante, per quel che rileva rispetto al settore civile, “disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare”, conv. con modif. in l. n. 173 del 2020, nel confermare la scelta della “tipizzazione” rispetto alla fattispecie di protezione complementare a catalogo aperto, ha modificato il testo dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, ripristinando il principio del rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali originariamente espresso, e poi eliminato, dal d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif. in l. n. 132 del 2018.

La novella legislativa ha modificato l’art. 19 del d.lgs. 286 del 1998, estendendo espressamente l’ambito di applicazione del divieto di espulsione ai casi in cui il cittadino straniero rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti; ha previsto il divieto di espulsione dello straniero, e correlativamente il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, anche nell’ipotesi in cui l’allontanamento dal territorio nazionale possa comportare la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare della persona, salvo ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica, con espressa indicazione degli indici da considerare (la natura e l’effettività dei vincoli familiari, l’effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del soggiorno nel territorio nazionale nonché l’esistenza di legami familiari, culturali e sociali con il Paese d’origine); ha ampliato i presupposti del divieto di espulsione dello straniero per ragioni di salute, nell’ipotesi in cui ricorrano “gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie”, estendendo sul punto le competenze attribuite alle Commissioni territoriali, alle quali è stata altresì riservata, nell’ipotesi di rigetto della domanda di protezione internazionale, la cognizione in ordine alla sussistenza dei presupposti per il divieto di espulsione di cui all’art. 19 commi 1 e 1.1, del d.lgs. 286 del 1998, ai fini del rilascio di un permesso di soggiorno per “protezione speciale”; ha riformulato le previsioni in materia di permesso di soggiorno per calamità introdotto con l’art. 20 bis del d.lgs. 286 del 1998, prevedendone la rinnovabilità, se permangono le condizioni di “grave” (non più “contingente ed eccezionale”) calamità, tali da non consentire il rientro e la permanenza dello straniero in condizioni di sicurezza.

Nell’anno in rassegna, Sez. 6-1, n. 07861/2022, Scotti, Rv. 664582-01, si è pronunciata sui tre parametri di “radicamento” previsti dall’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dal d.l. n. 130 del 2020, conv. con modif. in l. n. 173 del 2020, che così descrive: “il primo è familiare, espresso in relazione ai vincoli di tal genere esistenti in Italia, che debbono essere effettivi (termine, non a caso, utilizzato due volte nell’ambito dello stesso periodo) ed esprimersi quindi in una relazione intensa e concreta che accompagni il rapporto di coniugio o il legame di sangue, anche se la legge non ha preteso un rapporto di convivenza. Il secondo è sociale e si traduce nella necessità di un inserimento, ancora una volta richiesto nella sua dimensione di effettività. Il terzo parametro considerato dalla legge è la durata del soggiorno del richiedente asilo sul territorio nazionale ed esprime un concorrente elemento di valenza presuntiva (dello sradicamento dal contesto di provenienza e del radicamento in Italia), che sembra difficile potersi apprezzare in via autonoma”. Tanto premesso, la S.C. ha precisato che la protezione offerta dall’art. 8 CEDU, così come letta dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 24413/2021, Cosentino, Rv. 662246-01 e Rv. 662246-02), deve essere riferita all’intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia, comprendendo “relazioni familiari, ma anche affettive e sociali (ad esempio, esperienze di carattere associativo) e, naturalmente, relazioni lavorative e, più genericamente, economiche (rapporti di locazione immobiliare), le quali pure concorrono a comporre la vita privata di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.

Ancora in merito agli elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione speciale, Sez. 6-1, n. 08373/2022, Falabella, Rv. 664425-01, ha affermato che, per ritenere sussistente una violazione del diritto al rispetto della vita privata del richiedente, l’esiguità delle retribuzioni non costituisce un elemento dirimente al fine di escludere la sussistenza del diritto, atteso che la consistenza delle retribuzioni lavorative va apprezzata tenendo conto del graduale incremento delle stesse nel tempo, elemento che fornisce indicazioni utili in merito al consolidarsi del processo di integrazione in Italia.

La nuova formulazione dell’art. 19, comma 1.1, cit. aveva portato la giurisprudenza di merito, chiamata alle prime applicazioni della norma, ad interrogarsi in merito alla necessità o meno di continuare ad effettuare il giudizio di comparazione, sia pur attenuata, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento alla protezione umanitaria ex art. 5, comma 6, d.lgs. 286 del 1998 ante d.l. n. 113 del 2018.

La prima risposta della S.C. è stata nel senso di non ritenere più necessario il giudizio di comparazione con le condizioni esistenti nel paese d’origine. In questi termini è pronunciata Sez. 6-1, n. 18455/2022, Scotti, Rv. 665332-01, precisando come la formulazione della norma attribuisca diretto rilievo all’integrazione sociale e familiare in Italia del richiedente asilo, da valutare tenendo conto della natura e dell’effettività dei suoi vincoli familiari, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine, senza che occorra procedere ad un giudizio di comparazione con le condizioni esistenti in tale paese, neppure nelle forme della comparazione attenuata con proporzionalità inversa.

Sez. 1, n. 36789/2022, Fidanzia, Rv. 666259-01, ha ribadito che la seconda parte dell’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. 286 del 1998, come modificato dal d.l. n. 130 del 2020, conv. con modif. in l. n. 173 del 2020, attribuisce diretto rilievo all’integrazione sociale e familiare del richiedente protezione in Italia, da valutare tenendo conto della natura e dell’effettività dei suoi vincoli familiari, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine. Nella decisione in esame, la Corte ha cassato la decisione della corte territoriale che, nel rigettare la domanda volta ad ottenere la protezione speciale, si era limitata a prendere in esame il solo titolo di studio prodotto, senza valutare la sussistenza dei legami familiari del ricorrente, con particolare riferimento alla condizione della moglie che lo aveva seguito in Italia.

5. PARTE SECONDA - QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- Questioni legate all’applicazione dei “vecchi riti” della protezione internazionale.

Nell’anno in rassegna si registrano pronunce che hanno affrontato il tema della compatibilità della disciplina generale del procedimento avanti alla corte d’appello con le peculiarità del procedimento in tema di protezione internazionale, per il quale era prescritto il rito sommario di cognizione, ai sensi dell’art. 19 del d. lgs. n. 150 del 2011, oltre a pronunce che affrontano il tema legato alla disciplina processuale da applicare alle controversie in tema di protezione umanitaria, alla luce del d.l. n. 13 del 2017, prima delle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018.

5.1. L’appello.

Con Sez. 1, n. 00043/2022, Bellé, Rv. 663478-01, la S.C. si è pronunciata in ordine alle conseguenze della tardiva notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza oltre il termine stabilito dal giudice, precisando che da tale omissione non deriva l’improcedibilità dell’appello, ma solo la nullità della notificazione, suscettibile, quindi, di essere rinnovata ai sensi dell’art. 291 c.p.c.

Sez. 6-1, n. 11216/2022, Scotti, Rv. 664776-01, ha affrontato, invece, il tema dei termini e dei modi per l’articolazione della prova testimoniale, affermando l’ammissibilità della richiesta di prova testimoniale formulata dal ricorrente successivamente al deposito del ricorso e senza la deduzione di capitoli separati. La S.C. motiva tale scelta richiamando la necessità di interpretare le norme procedurali nazionali in modo compatibile con i principi espressi dalle direttive dell’Unione europea che, in tale materia, sanciscono un dovere ufficioso di cooperazione istruttoria, ricordando, quanto al diritto nazionale, che l’art. 702 ter c.p.c., attribuisce al giudice il potere di procedere nel modo che ritiene più opportuno all’istruttoria, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, senza prevedere alcuna preclusione o decadenza a carico delle parti.

Sez. 1, n. 10203/2022, Acierno, Rv. 664536-01, in tema di produzione documentale con le memorie successive all’udienza di precisazione delle conclusioni, pur dando atto che il rito relativo all’impugnazione in appello delle ordinanze del tribunale, disciplinato dall’art. 702 quater c.p.c., è del tutto deformalizzato, ne afferma l’inammissibilità perché tale produzione viola il contraddittorio tra le parti. Al riguardo la Corte tiene tuttavia a precisare, in relazione alla motivazione dell’ordinanza impugnata, che il rispetto del contraddittorio è l’unica ragione che vieta il deposito di documenti successivamente alla precisazione delle conclusioni, ponendo in rilievo che in tali giudizi è comunque ammessa l’allegazione di fatti nuovi e la produzione di nuovi documenti, trattandosi dell’accertamento di un diritto della persona che richiede una valutazione nell’attualità, che sotto questo profilo, non può subire preclusioni, mentre la produzione documentale, in uno con le memorie finali successive alla discussione, determinerebbe un’insanabile violazione del contraddittorio.

Sez. 1, n. 29866/2022, Amatore, Rv. 665921-01 affronta il tema del giudizio di rinvio in appello dopo la pronuncia cassatoria, affermando che la corte territoriale non può limitarsi a pronunciare l’inammissibilità del gravame per asserita carenza di interesse derivante dalla mancata comparizione del ricorrente nell’udienza svoltasi nel giudizio di primo grado, ma deve pronunciare sul merito delle domande volte ad ottenere la protezione invocata, atteso che il ricorrente, proponendo appello, ha allegato e dimostrato il suo interesse alla definizione della causa, senza che sulla erronea declaratoria di inammissibilità possa ritenersi formato il giudicato.

Riguarda i termini per proporre l’appello avverso l’ordinanza pronunciata in udienza ed inserita a verbale ex art. 702 ter c.p.c., Sez. 6-1, n. 31572/2022, Scotti, Rv. 665994-01. Tale pronuncia, muta il precedente orientamento - espresso, in generale, sulla decorrenza dei termini per proporre appello avverso le ordinanze pronunciate in udienza nel rito sommario di cognizione, già da Sez. 2 n. 14478/2018, Sabato, Rv. 648976-02 e fatto proprio in tema di protezione internazionale da Sez. 1 n. 14669/2021, Caradonna, Rv. 661400 01 - affermando, in conformità al mutamento di giurisprudenza determinato da Sez. U, n. 28975/2022, Patti, Rv. 665762-01, che nelle controversie in materia di protezione internazionale instaurate in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, per le quali è applicabile il rito sommario di cognizione, il termine di trenta giorni per l’impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c. decorre, per la parte costituita, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell’art. 281 sexies c.p.c.

5.2. Protezione umanitaria: competenza e rito applicabile tra l’entrata in vigore del d.l. n. 13 del 2017 e l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018.

Nell’anno in rassegna ancora si registra una pronuncia che affronta il tema dell’individuazione del rito applicabile alle controversie in materia di protezione umanitaria introdotte nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore del d.l. n. 13 del 2017 e le modifiche successivamente apportate dal d.l. n. 113 del 2018. La questione si è posta a causa della non univoca interpretazione del combinato disposto degli artt. 3, comma 4 bis, del d.l. n. 13 del 2017 e l’art. 35 bis d.lgs. n. 25 del 2008, come modificato dalla predetta norma. Il citato art. 3, comma 4 bis, infatti, nell’istituire le sezioni specializzate in materia di immigrazione, aveva attribuito ad esse la competenza nelle controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria “nei casi di cui all’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008” (vale a dire nei casi in cui la Commissione territoriale, non accogliendo la domanda di protezione internazionale, trasmetteva gli atti al Questore per il rilascio del permesso ex art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998, perché ravvisava la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario). L’articolo, tuttavia, non chiariva quale fosse il rito da osservare per tali controversie. Inoltre, l’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, nel disciplinare lo speciale rito camerale davanti alle sezioni specializzate, lo riservava in modo esplicito solo ai ricorsi di cui al precedente art. 31, comma 1 (ossia ai ricorsi avverso la decisione della Commissione territoriale e la decisione della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria), senza menzionare i casi di protezione umanitaria.

Sul punto una parte della giurisprudenza, valorizzando il mancato esplicito richiamo del menzionato art. 35 bis alle controversie relative alla protezione umanitaria, aveva ritenuto che dette controversie, qualora fosse stata richiesta solo la protezione umanitaria, ferma la competenza della sezione specializzata, dovessero essere trattate dal Tribunale in composizione monocratica, che doveva giudicare secondo il rito ordinario o, ricorrendone i presupposti, secondo il procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c. (Sez. 1 n. 16458/2019, Parise, Rv. 654637-01; Sez. 6-1 n. 03668/2020, Sambito, Rv. 06572-01; Sez. 2 n. 20888/2020, Oliva, Rv. 659210-01). Tale orientamento era stato tuttavia limitato da Sez. 1 n. 14681/2020, Meloni, Rv. 658389-01 e Sez. 6-1, n. 24771/2021, Lamorgese, Rv. 662432-01, all’ipotesi in cui era stata presentata solo la domanda di protezione umanitaria, escludendo che esso potesse trovare applicazione anche nel caso in cui la domanda di protezione umanitaria era stata proposta contestualmente a quella di protezione internazionale e di protezione sussidiaria, prevalendo, in tal caso, il rito camerale collegiale di cui all’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, in ragione della profonda connessione tra le domande, ritenendo irrilevante che, nel proporre ricorso contro la decisione di diniego di ogni forma di protezione da parte della Commissione territoriale, il ricorrente avesse limitato la propria domanda avanti al tribunale alla sola protezione umanitaria.

Torna su tale tema Sez. 1 n. 00241/2022, Falabella, Rv. 663481-01, che, in consapevole dissenso con la giurisprudenza per prima menzionata, afferma la competenza della sezione specializzata in composizione collegiale e l’applicazione del rito camerale, che si conclude con decreto ricorribile solo per cassazione, anche se, a seguito del diniego di asilo da parte della Commissione territoriale, sia proposta esclusivamente domanda di protezione umanitaria. Afferma infatti la Corte che, ove si escludesse l’applicabilità alle domande di protezione umanitaria dell’art. 35 bis, si perverrebbe ad esiti poco ragionevoli, difficilmente giustificabili sul piano della legittimità costituzionale, sia in relazione al fatto che la differenza dei riti tra le diverse forme di protezione determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra chi propone domanda per una delle protezioni maggiori e chi intende, invece, ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria, sia in relazione ad una analoga illogica sperequazione sul versante delle impugnazioni, giacché chi ha agito per l’accertamento dello status di rifugiato e per l’ottenimento della protezione sussidiaria si vedrebbe precluso l’accesso al rimedio dell’appello, che, invece, spetterebbe a chi ha invocato la protezione c.d. minore.

5.3. Protezione umanitaria: la giurisdizione nel caso di impugnativa del provvedimento del Questore.

Sempre legata all’applicazione del vecchio rito in tema di protezione umanitaria e, in particolare, all’ipotesi di rilascio del permesso di soggiorno direttamente da parte del Questore, ai sensi degli artt. 5, comma 6, del d.lgs. n.286 del 1998 e 11, comma 1, lett. c ter, del d.P.R. n. 394 del 1999, Sez. L, n. 02716/2022, Cinque, Rv. 663741-01, ha affermato - in un caso in cui la Corte d’appello aveva confermato il provvedimento del Tribunale di inammissibilità del ricorso avverso il provvedimento di rigetto del Questore, ritenendo che il mancato rispetto della procedura amministrativa rendesse l’atto non impugnabile avanti all’autorità giudiziaria ordinaria - che “appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario tutti i giudizi aventi ad oggetto il provvedimento di diniego, e ciò anche quando la Commissione territoriale non abbia espresso alcun parere (come nel caso di specie), la cui mancanza non influisce sul riparto di giurisdizione, in quanto il diritto alla protezione umanitaria ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, come tali dotati di un grado di tutela assoluta e non degradabili ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, a cui è rimesso solo l’accertamento dei presupposti di fatto che ne legittimano il riconoscimento”.

6. Le domande reiterate nella fase di esecuzione di un provvedimento di espulsione ex art. 29 bis d.lgs. n. 25 del 2008 prima delle modifiche di cui al d.l. n. 130 del 2020.

Come è noto, il d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif. in l. n. 132 del 2018, aveva introdotto nel d.lgs. n. 25 del 2008, l’art. 29 bis, rubricato “Domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento”, che prevedeva l’inammissibilità automatica (senza alcun esame preliminare da parte della CT e senza beneficiare di effetto sospensivo in caso di ricorso) della prima domanda reiterata di protezione presentata dal richiedente “nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale”, intendendosi per domanda reiterata, la richiesta di protezione internazionale presentata dopo che una precedente richiesta sia stata abbandonata o respinta in via definitiva dalle autorità del medesimo Stato. La presunzione di strumentalità, con conseguente inammissibilità, introdotta nel 2018 dal “decreto sicurezza” si fondava sul rilievo che la domanda fosse ripresentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento. L’art. 29 bis è stato, tuttavia, integralmente riscritto dal d.l. n. 130 del 2020, conv. con modif. in l. n. 173 del 2020, in quanto ritenuto non conforme alle garanzie previste, in caso di prima domanda reiterata, dalla “direttiva procedure”, introducendovi la previsione secondo cui, in caso di presentazione di una domanda reiterata “nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è trasmessa con immediatezza al presidente della Commissione territoriale competente, che procede all’esame preliminare entro tre giorni, valutati anche i rischi di respingimento diretti ed indiretti, e contestualmente ne dichiara l’inammissibilità ove non sino stati addotti nuovi elementi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera b)”.

Con riferimento al quadro normativo antecedente alla riforma del d.l. n. 130 del 2020, Sez. 1 n. 04561/2022, Fidanzia, Rv. 664015-01, ha affrontato il tema del rapporto tra l’art. 7 del d.lgs. n. 25 del 2008, che disciplina(va) il diritto del richiedente a restare nel territorio nazionale durante l’esame della domanda, e l’art. 29 bis dello stesso d.lgs., precisando, in un caso in cui la domanda reiterata era stata presentata in data antecedente alla notifica del decreto di espulsione, che l’unica ipotesi che esclude(va) automaticamente la sospensione dell’espulsione in caso di presentazione di domanda reiterata era quella prevista dall’art. 7, comma 2 , lett. d), della norma (che prevedeva il diritto del richiedente a restare nel territorio nazionale, salvo nel caso in cui la domanda reiterata fosse stata presentata “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale”), ipotesi nella specie esclusa, trattandosi di domanda reiterata presentata prima dell’adozione del decreto di espulsione.

In tal senso anche Sez. 1, n. 13690/2022, Vella, Rv. 664765-01, ha rigettato il ricorso con il quale si deduceva l’illegittimità di un decreto di espulsione con ordine di allontanamento immediato, poiché notificato nella pendenza di una domanda reiterata di protezione internazionale introdotta dopo la notifica di un decreto di espulsione. La pronuncia, pur dando atto, di quella giurisprudenza (Sez. 1, n. 02453/2021, Ariolli, non massimata) che aveva ritenuto la necessità che l’art. 29 bis, dovesse comunque essere interpretato in modo costituzionalmente orientato, ai sensi dell’art. 117 della Cost. e dell’art. 40 della direttiva 2013/32/UE (che prevede espressamente la necessità, in caso di domanda reiterata in fase di espulsione, di un esame preliminare, per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rispetto alla precedente domanda, atteso che l’automatismo ove sia già in corso l’espulsione, escluderebbe il vaglio di un’autorità terza in ordine all’accertamento di tali elementi), ha tuttavia ribadito che il diritto del cittadino straniero di restare in Italia fino alla decisione della Commissione resta escluso nel caso di domanda reiterata presentata in fase di esecuzione del provvedimento di allontanamento. Nel motivare la decisione, infatti, la S.C. ha richiamato l’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui è previsto il divieto di respingimento o di espulsione ove questi comportino la violazione del diritto al rispetto della propria vita privata o familiare, salve ragioni prevalenti di pubblica sicurezza, citando la propria precedente giurisprudenza che, in tema di domanda reiterata ha ribadito come l’oggetto del giudizio introdotto dinanzi al tribunale non e` il provvedimento amministrativo di inammissibilità, bensì l’accertamento di un diritto soggettivo, che include anche i presupposti della invocata protezione speciale.

6.1. La domanda reiterata quale ipotesi di inammissibilità della domanda ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 25 del 2008.

Riguarda l’interpretazione dell’art. 29, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 25 del 2008 (relativo ai casi di inammissibilità della domanda da parte della Commissione territoriale), Sez. L, n. 02717/2022, Cinque, Rv. 663742-01, che affronta, in particolare, il tema del significato della disposizione contenuta al comma 1, lett. b), dell’articolo sopra menzionato, che prevede, tra i casi in cui la Commissione non procede all’esame e dichiara inammissibile la domanda, l’ipotesi in cui “il richiedente ha reiterato identica domanda dopo che sia stata presa una decisione da parte della Commissione stessa senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo paese di origine”. La pronuncia, riportandosi a una sentenza della Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, 9 settembre 2021, causa C-18/20), afferma che una domanda reiterata, ai sensi dell’art. 40, par. 2 e 3 della direttiva 2013/32/CE, può essere fondata su elementi o risultanze nuove, sia in quanto emersi dopo l’audizione di una decisione relativa alla domanda precedente, sia in quanto presentati per la prima volta dal richiedente, considerato che, operando in materia un giudicato debole, ovvero rebus sic stantibus, non è preclusa una nuova rivisitazione della situazione in presenza di nuovi elementi. Consegue all’affermazione di tale principio che, come affermato da Sez. 1, n. 34650/2022, Perrino, Rv. 666242-01, in materia di domande reiterate di protezione internazionale, il giudicato non si forma sulla credibilità delle dichiarazioni del ricorrente e non preclude, pertanto, una nuova valutazione delle condizioni per il riconoscimento della protezione in presenza di nuovi elementi, che possono essere rappresentati anche da prove atipiche.

Sempre sullo stesso tema, Sez. 6-1 n. 06374/2022, Di Marzio M., Rv. 664060-01, in un caso in cui il Tribunale aveva dichiarato inammissibile una domanda reiterata, poiché proposta sulla base di documenti attestanti una grave condizione di salute del ricorrente non prodotti avanti alla Commissione territoriale, ha cassato la pronuncia di merito affermando che oggetto del giudizio introdotto non è il provvedimento amministrativo di inammissibilità, quanto l’accertamento di un diritto soggettivo, di talché il ricorrente può porre a fondamento della domanda fatti diversi ed ulteriori rispetto a quelli dedotti dinanzi alla Commissione territoriale e il Tribunale ha l’obbligo di pronunciarsi nel merito.

Prende spunto dal principio affermato da tale pronuncia, per chiarire un tema che era stato oggetto di controversa interpretazione da parte della giurisprudenza di merito, Sez. 1, n. 37275/2022, Vella, Rv. 666462-01. La S.C., in un caso in cui il Tribunale, nell’esaminare una domanda reiterata, aveva dichiarato inammissibile la domanda di protezione speciale, ritenendo che la domanda reiterata potesse avere riguardo solo al rifugio ed alla protezione sussidiaria, afferma, invece, la possibilità di valutare la sussistenza dei presupposti anche di tale tipo di protezione. La Corte, nel motivare la sua decisione, oltre a ricordare il principio sopra riportato, come espresso da Sez. 6-1, n. 06374/2022, Di Marzio M., Rv. 664060-01, richiama l’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui è previsto il divieto di respingimento o di espulsione ove questi comportino la violazione del diritto al rispetto della propria vita privata o familiare, salve ragioni prevalenti di pubblica sicurezza, concludendo, alla luce di tali due principi che poiché il tribunale deve accertare l’esistenza di un diritto soggettivo, nel suo ambito deve ritenersi incluso anche l’accertamento dei presupposti della protezione speciale.

7. La valutazione di credibilità del richiedente asilo.

La giurisprudenza relativa al periodo in rassegna, nel confermare il principio generale che richiama l’attenzione del giudice ad effettuare il giudizio di credibilità secondo la procedimentalizzazione prevista dall’art. 3, comma 5, del d. lgs. n. 251 del 2007, senza che possa essere effettuato alla stregua di mere opinioni soggettive (da ultimo Sez. L, n. 00010/2021, Patti, Rv. 660135-01), vi aggiunge, tuttavia, con Sez. L, n. 11910/2022, Amendola F., Rv. 664471-01, un’importante precisazione, sottolineando che il giudizio di verosimiglianza o plausibilità, ovvero lo stesso giudizio di ragionevolezza, non possono essere eseguiti comparando il racconto del richiedente con ciò che risulti ragionevole per un cittadino europeo medio, o con ciò che normalmente accade in un paese europeo, dovendo farsi piuttosto riferimento alla plausibilità dei fatti pertinenti inseriti nel contesto delle condizioni esistenti nel suo paese di origine, compresi genere, età, istruzione e cultura.

Nello stesso senso si esprime Sez. L, n. 07536/2022, Piccone, non massimata, che, anche in considerazione delle indicazioni contenute nella pubblicazione dell’EASO in materia (Valutazione delle prove e della credibilità nell’ambito del sistema europeo comune di asilo, 2018, p. 196, laddove si ricorda la necessità di valutare la “plausibilità di fatti pertinenti asseriti nel contesto delle condizioni esistenti nel paese di origine e del contesto del richiedente, compresi il genere, l’età, l’istruzione e la cultura”) ha ribadito la necessità di tenere conto del consolidato principio espresso dalla Corte EDU, secondo il quale la mancanza di prova documentale non può mai essere considerata decisiva, nonché di quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia con riferimento al fatto che quando taluni aspetti delle dichiarazioni di un richiedente asilo non sono suffragati da prove documentali o di altro tipo, tali aspetti non necessitano di una conferma, purché siano soddisfatte le condizioni cumulative stabilite dall’art. 4, par. 5, lett. da a) a c), della medesima direttiva.

Sez. 3, n. 19045/2022, Travaglino, Rv. 665111-01, nell’affermare che il giudice può ritenere il racconto del richiedente credibile anche solo in parte, indica il percorso logico-giuridico da seguire nella valutazione sulla credibilità, affermando che essa deve avvenire, dapprima secondo il modello cd. “atomistico-analitico”, che comporta un iniziale, rigoroso esame di ciascun singolo “fatto indiziante” emergente dalla narrazione, per poi procedere a una valutazione “complessiva e globale” di tutti quei fatti che, alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale, congruenza espositiva, concordanza prevalente, possa condurre all’approdo della prova presuntiva del factum probandum. La conseguenza in termini di motivazione di tale impostazione è sottolineata da Sez. 1, n. 28214/2022, Parise, Rv. 665751-01, ove si afferma che il giudice di merito nel provvedimento di rigetto (della protezione umanitaria) non può limitarsi a richiamare quanto osservato dalla Commissione territoriale senza nulla aggiungere circa il proprio convincimento, anche a confutazione delle contestazioni e deduzioni formulate dal ricorrente nel ricorso.

La necessità di una valutazione “complessiva ed unitaria” di tutti gli elementi probatori e di riscontro alle dichiarazioni del richiedente è confermata, in particolare, sul tema della credibilità delle dichiarazioni relative all’orientamento sessuale, quale ragione di persecuzione da Sez. 1, n. 06107/2022, Caiazzo, Rv. 664058-01, che ha cassato la pronuncia di merito che aveva ritenuto non credibile il racconto del richiedente, trascurando di valutare il contenuto di una relazione redatta da un’associazione LGBT da lui assiduamente frequentata, e da Sez. 6-1, n. 05216/2022, Falabella, Rv. 664057-01, che ha cassato la pronuncia di merito che aveva ritenuto non credibili le dichiarazioni del ricorrente relative al proprio orientamento omosessuale, sebbene confermate anche da una relazione tecnico-psicologica, che aveva dato conto del processo di maturazione della propria identità e delle ragioni che lo avevano portato a tacere su stati emotivi passati, legati ad un evento traumatico di abuso. Riguarda il tema della valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente che ha subito traumi fisici o psichici da tortura, Sez. 1, n. 36790/2022, Scotti, Rv. 666253-01, in cui si afferma che tale valutazione deve essere condotta sulla base dei criteri indicati dal Protocollo di Istanbul. In particolare, ove prodotta, la certificazione medico-legale deve essere considerata congiuntamente alle dichiarazioni rese dal richiedente, in sede di verbalizzazione delle domande e durante l’audizione, nonché alle informazioni sul Paese di origine e agli altri documenti o testimonianze portati all’attenzione dell’organismo accertante.

Intercetta sia il tema della valutazione di credibilità che quello della cooperazione istruttoria, Sez. 1, n. 00676/2022, Russo, Rv. 663487-01 e Rv. 663487-02 (già esaminata con riferimento ai profili di diritto sostanziale), che, in materia di tratta ai fini di avvio alla prostituzione, ed in riferimento alla protezione umanitaria, delinea, in maniera specifica e rigorosa l’ambito dell’ onere probatorio attenuato da parte della richiedente in relazione al dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice. La pronuncia ribadisce, in conformità alla costante giurisprudenza, l’onere della richiedente di allegare i fatti, ma non di qualificarli ed il dovere del giudice di analizzare i fatti allegati, senza modificarli né integrali, comparandoli con le informazioni disponibili, pertinenti e aggiornate sul Paese di origine e sui Paesi di transito, nonché sulla struttura del fenomeno, come descritto dalle fonti convenzionali ed internazionali, e dalle Linee guida per la identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR e dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo. La medesima pronuncia, riconosciuto che la tratta qualora abbia come vittime le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, può considerarsi anche atto persecutorio in quanto riconducibile alla appartenenza ad un “particolare gruppo sociale”, afferma che è compito del giudice accertare nel singolo caso, tramite informazioni pertinenti ed aggiornate sul paese di origine, il rischio attuale di ulteriori atti lesivi, dello stesso tipo di quelli già subiti, ovvero anche diversi ma che possono comunque qualificarsi come atti persecutori, in quanto atti discriminatori fondati sul genere.

8. La cooperazione istruttoria.

Nel 2021 su tale tema si erano creati diversi contrasti di giurisprudenza, soprattutto in relazione alle modalità di deduzione dei vizi attinenti al mancato rispetto delle regole indicate dall’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008 nel ricorso in cassazione. Sin dal 2020, infatti, era stato affermato (Sez. 1, n. 22769/2020, Amatore, Rv. 659276-01; Sez. 1, n. 19919/2021, Oliva, Rv. 661828-01; Sez. 1, n. 00899/2021, Dell’Orfano, Rv. 660278-01), che il ricorrente in cassazione che deduce la violazione del dovere di cooperazione istruttoria per l’omessa indicazione delle fonti informative, dalle quali il giudice ha tratto il suo convincimento, ha l’onere di indicare le COI che, secondo la sua prospettazione, avrebbero potuto condurre ad un diverso esito del giudizio, con la conseguenza che, in mancanza di tale allegazione, non potendo la Corte di cassazione valutare la teorica rilevanza e decisività della censura, il ricorso doveva essere dichiarato inammissibile. Tuttavia, Sez. 1, n. 07105/2021, Acierno, Rv. 660795-01, aveva limitato il dovere del ricorrente di indicare fonti alternative ritenute idonee a prospettare un diverso esito del giudizio alla sola ipotesi in cui il giudice di merito avesse reso note le fonti consultate mediante l’indicazione del loro contenuto, della data di risalenza e dell’ente promanante. Diversamente, nel caso in cui il richiamo alle fonti fosse assente, generico o deficitario nelle sue parti essenziali, era sufficiente che la censura deducesse la carenza degli elementi identificativi. Si era posto, inoltre, il tema, oggetto di diverse ordinanze interlocutorie di remissione alla pubblica udienza, relativo alla possibilità di configurare come error in procedendo il comportamento del giudice di merito che abbia violato il proprio dovere di cooperazione istruttoria, in relazione all’onere della prova attenuato gravante sul richiedente protezione ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, a prescindere dall’allegazione o dalla dimostrazione delle conseguenze pregiudizievoli scaturite dall’inadempimento di tale dovere. Sotto diverso profilo alcune delle ordinanze interlocutorie di remissione alla pubblica udienza si chiedevano se il ricorrente che denuncia in cassazione la violazione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, per avere il giudice del merito rigettato la domanda di protezione internazionale senza avere indicato le fonti informative sulla base delle quali ha tratto il suo convincimento, abbia o meno l’onere di allegare COI aggiornate e attendibili in grado di determinare un esito della lite diverso, valutando solo in quest’ultimo caso esistente l’interesse all’impugnazione ex art. 100 c.p.c.

Nell’anno in rassegna vengono date risposte ad alcuni di tali interrogativi.

Sez. 1, n. 25500/2022, Parise, Rv. 665533-01, afferma il principio secondo il quale, in materia di protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 4 della direttiva 2011/95/CE e degli artt. 8, 35 bis, comma 9, e 27, comma 1 bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, solo in presenza dell’adempimento da parte del richiedente dell’onere di allegazione pertinente e specifica in ordine alla sussistenza della situazione di cui all’art.14, lett. c), d.lgs. 251 del 2007 sorge il dovere del giudice di svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali. In assenza di quell’allegazione, la censura è inammissibile per difetto di specificità, non essendo pertinente al decisum e non congruente con il tipo di pericolo di danno grave oggetto di deduzione in causa e con il motivo.

Sul tema della formulazione dei motivi di ricorso in cassazione attinenti ai vizi relativi alla cooperazione istruttoria, Sez. 1, n. 25440/2022, Caradonna, Rv. 665531-01, chiarisce che, in tema di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, la violazione del dovere di cooperazione istruttoria gravante sul giudice, in caso di difetto totale di accertamento istruttorio ufficioso sulla situazione di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007 (ravvisabile laddove nessuna fonte informativa sia stata indicata dal giudice, oppure sia stata indicata in modo del tutto inidoneo ad individuarla, purché le circostanze fattuali in ordine alle quali è lamentata l’omessa cooperazione sia state ritualmente dedotte nel giudizio), può essere fatta valere in sede di legittimità con motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c. per violazione di legge, ovvero come vizio ex art. 360, comma 1, n. 4) e 132, comma 2, n. 4), c.p.c. (motivazione apparente), senza che sia necessaria da parte del ricorrente l’indicazione di informazioni alternative relativamente alla situazione del Paese d’origine, quale requisito di ammissibilità della censura. In tali casi, l’error in procedendo si traduce automaticamente in un pregiudizio in re ipsa del diritto all’effettività della difesa e del ricorso (ex artt. 13 CEDU e 46 della direttiva 2013/32/UE), garantita mediante l’attività officiosa di ricerca di informazioni pertinenti ed aggiornate e mediante il loro esplicito inserimento nel percorso logico della motivazione.

Nella stessa pronuncia si precisa, inoltre, che, nei casi in cui nel provvedimento impugnato siano indicate le fonti privilegiate di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008 (che, a differenza delle fonti atipiche, in ragione delle connotazioni di pubblicità e trasparenza, garantiscono la parità delle armi) e il ricorrente lamenti il non corretto adempimento da parte del giudice del dovere di cooperazione istruttoria (perché le fonti informative privilegiate indicate non sono aggiornate o non sono citate in modo completo), le corrispondenti censure possono essere fatte valere in sede di legittimità con motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c., per omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, a condizione che il vizio così denunciato si riferisca a circostanze o documenti già sottoposti al giudice del merito e non prodotti per la prima volta in sede di giudizio di legittimità (Sez. 1, n. 25440/2022, Caradonna, Rv. 665531-02).

8.1. Le fonti d’informazione (COI).

Nel 2020, il tema delle fonti informative di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 - che è la trasposizione dell’art. 10, par. 3, lett. b), della direttiva 2013/32/UE (“ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel paese di origine del richiedente e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR e dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art. 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”) - era stato oggetto di copiosa giurisprudenza, che aveva innanzi tutto chiarito come le indicazioni di tale norma non abbiano carattere esclusivo, ben potendo le informazioni essere tratte da concorrenti canali informativi (Sez. 1, n. 13253/2020, Fidanzia, Rv. 658089-01, conforme a Sez. 1, n. 15794/2019, Di Marzio, Rv. 654624-03), anche via web, i quali, per la capillarità della loro diffusione e la facile accessibilità da parte dei consociati, vanno considerati alla stregua del fatto notorio (Sez. 1, n. 13253/2020, Fidanzia, Rv. 658089-01 e Sez. l, n. 28349/2020, Cinque, Rv. 659802-01). Tra questi erano state considerate fonti idonee i siti delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale (così nel 2021 anche Sez. L, n. 14682/2021, Cinque, Rv. 661406-01), come “Amnesty International” e “Medici senza frontiere”.

Non era, invece, stato considerato fonte idonea il sito del Ministero degli Affari Esteri “Viaggiare sicuri” (Sez. 1, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-06; Sez. 1, n. 03357/2021, Dell’Orfano, Rv. 660492-01), come pure confermato, nell’anno in rassegna, da Sez. 1, n. 26463/2022, Abete, Rv. 665690-01.

Dà continuità al principio già affermato da Sez. 1, n. 29056/2019, Russo, Rv. 655634-01, Sez. 1, n. 26121/2022, Zuliani, Rv. 665538-01, in tema di sottoposizione al contraddittorio delle COI utilizzate in motivazione dal giudice. Così come il precedente citato, la pronuncia afferma che l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle informazioni sul Paese di origine (COI) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non suffragato dall’indicazione di pertinenti informazioni relative alla situazione del Paese di origine, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché in tal caso l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il giudice renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione. Sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della Corte d’appello che, nel rigettare la domanda di un cittadino pakistano volta ad ottenere il riconoscimento della protezione sussidiaria in ragione di una situazione di conflitto armato, aveva esaminato solo il rapporto EASO, pubblicato un mese dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, senza considerare altre COI specificamente indicate dalla difesa nell’atto di appello).

8.2. I rapporti tra la valutazione di credibilità ed il dovere del giudice di cooperazione istruttoria.

Una delle questioni interpretative più controverse, tutt’ora priva di un orientamento che possa dirsi consolidato, è quella delle ricadute della valutazione negativa di credibilità sul dovere officioso di cooperazione istruttoria del giudice. Una prima linea interpretativa della giurisprudenza di legittimità, che sino al 2020 non aveva visto pronunce contrastanti (Sez. 6-1, n. 16925/2018, Acierno, Rv. 649607-01; Sez 6-1, n. 28862/2018, Terrusi Rv. 651501-01; Sez. 1, n. 15794/2019, Di Marzio M., Rv. 654624-01; Sez. 1, n. 33858/2019, Sambito, Rv. 656566-01; Sez. 2, n. 08367/2020, Manna, Rv. 657595-02; Sez. 3, n. 11924/2020, Vincenti, Rv. 658163-01; Sez. 2 n. 16925/2020, Bellini, Rv. 658940-01; Sez. 1 n. 24575/2020, Scotti, Rv. 659573-01), afferma che il dovere di cooperazione istruttoria non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva, di talché il giudice di merito deve anzitutto accertare la credibilità soggettiva della versione del richiedente asilo circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona e, qualora giudichi le dichiarazioni inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui all’art. 3 d.lgs. n. 251 del 2007, non deve procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria del Paese d’origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori. Come afferma, infatti, Sez. 1 n. 24575/2020, Scotti, Rv. 659573-01, “il controllo sulla credibilità estrinseca, come desumibile dalla concordanza tra le dichiarazioni ed il quadro culturale, sociale, religioso e politico del paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito, assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente”.

Tuttavia, il presupposto di tali pronunce, rappresentato dalla necessità che la valutazione di credibilità preceda, comunque, eventuali approfondimenti istruttori, era stato messo in dubbio per la prima volta da Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-04, che aveva affermato “che il giudice, prima di decidere la domanda nel merito, deve assolvere all’obbligo di cooperazione istruttoria, che non può essere di per sé escluso sulla base di qualsiasi valutazione preliminare di non credibilità della narrazione del richiedente asilo, dal momento che, anteriormente all’adempimento di tale obbligo, egli non può conoscere e apprezzare correttamente la reale e attuale situazione dello Stato di provenienza e, pertanto, in questa fase, la menzionata valutazione non può che limitarsi alle affermazioni circa il Paese di origine”. La pronuncia ammetteva quindi che l’obbligo di cooperazione istruttoria da parte del giudice potesse venir meno solo ove le affermazioni relative al paese di origine risultassero immediatamente false oppure quando la ricorrenza dei presupposti della tutela invocata poteva essere negata in virtù del notorio. La medesima pronuncia aveva, poi, precisato (Sez. 3, n. 08819/2020, Travaglino, Rv. 657916-02) che, ancorché l’obbligo del giudice di cooperazione istruttoria non sorga per il solo fatto che sia stata proposta domanda di protezione internazionale, tuttavia, tale adempimento non può essere escluso solo perché, in base agli indicatori di credibilità soggettiva forniti dall’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007, le dichiarazioni della parte risultino intrinsecamente inattendibili, poiché, in questo modo, la valutazione di credibilità non atterrebbe più alla prova, ma diverrebbe una condizione di ammissibilità o un presupposto del riconoscimento del diritto o, comunque, si risolverebbe in un giudizio sulla lealtà processuale. Sulla stessa linea si è posta Sez. 3, n. 24010/2020, Di Florio, Rv. 659524-01.

Nel 2021 avevano dato seguito a tale orientamento Sez. 3, n. 00262/2021, Di Florio, Rv. 660386-01, e Sez. 3, n. 38095/2021, Pellecchia, Rv. 663301-01, secondo cui, una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, il giudice è tenuto, a prescindere dalla valutazione di credibilità delle sue dichiarazioni, a cooperare all’accertamento della situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo tale che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate, le cui fonti dovranno essere specificatamente indicate nel provvedimento, al fine di comprovare il pieno adempimento dell’onere di cooperazione istruttoria. Si ribadisce che il giudizio negativo in merito alla valutazione di credibilità del richiedente asilo non può in alcun modo essere posto a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege, in quanto quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del paese di provenienza del ricorrente.

Sempre nel 2021 aveva indicato una via interpretativa intermedia Sez. 1, n. 06738/2021, Russo, Rv. 660736-01, affermando che il giudizio sulla valutazione di credibilità del racconto del richiedente che sia ben circostanziato ma inverosimile, può essere espresso solo all’esito dell’acquisizione di pertinenti informazioni sul suo paese di origine e delle sue condizioni personali, a differenza di quanto accade nell’ipotesi di racconto intrinsecamente inattendibile alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva, in cui essendo il racconto affetto da estrema genericità o da importanti contraddizioni interne, la ricerca delle COI è inutile, perché manca alla base una storia individuale rispetto alla quale valutare la coerenza esterna, la plausibilità ed il livello di rischio.

Nell’anno in rassegna ripropone la linea di originario rigore, in tema di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. a) e b), del d.lgs. n. 251 del 2007, Sez. 1, n. 26149/2022, Zuliani, Rv. 665539-01, ove si afferma che, nei casi in cui il ricorrente lamenti un difetto di cooperazione istruttoria con riferimento all’allegazione di fatti persecutori o a un rischio di danno grave “individualizzato” ex art. 14, lett. a) e b), del d.lgs. n. 251 del 2007, una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta dal richiedente asilo, per le riscontrate contraddizioni, lacune e incongruenze, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca - che attiene alla concordanza delle dichiarazioni con il quadro culturale, sociale, religioso e politico del Paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito - poiché tale controllo assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati, riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente.

Ribadisce, invece, la necessità che le fonti informative utilizzate dal giudice siano aggiornate all’attualità, Sez. 1, n. 32712/2022, Abete, Rv. 666040-01, ritenendo che ove il giudice utilizzi, ai fini della verifica delle condizioni del paese di origine, fonti meno recenti di quelle allegate dal ricorrente, sussiste un difetto di cooperazione istruttoria.

9. Il recepimento dell’internal relocation ex art. 32, comma 1, d.lgs. n. 25 del 2008 e la sua irretroattività.

Con le modifiche introdotte dall’art. 10 della l. n. 132 del 2018 (di conversione del d.l. n. 113 del 2018) all’art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008, e, in particolare, con l’introduzione nel predetto comma della nuova lett. b) ter), è stato previsto il rigetto della domanda da parte della Commissione territoriale “se in una parte del territorio del Paese di origine, il richiedente non ha fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corre rischi effettivi di subire danni gravi o ha accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi, può legalmente e senza pericolo recarvisi ed essere ammesso, e si può ragionevolmente supporre che vi si ristabilisca”. Con tale previsione il legislatore ha dato attuazione all’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, il cui contenuto non era stato trasposto nel d.lgs. n. 251 del 2007. Il mancato recepimento aveva portato la giurisprudenza della cassazione (Sez. 1, n. 28433/2018, Tricomi L., Rv. 651471-01 e Sez. 1 n. 02294/2012, Ragonesi, Rv. 621824-01) a ritenere irrilevante, ai fini della valutazione della sussistenza del rischio di persecuzione nel paese di origine, la circostanza che le lamentate condizioni di persecuzione non si ravvisassero in parte diversa del paese rispetto a quella di provenienza del richiedente. Si era invece dato rilievo alla circostanza che tali presupposti, sia pure presenti in altra parte del paese di origine, mancassero tuttavia nella zona di provenienza diretta del richiedente.

Sez. L, n. 02456/2022, Amendola F., Rv. 663674-01, preso atto di detta modifica legislativa, ne esclude un’applicazione retroattiva limitandone l’applicabilità alle sole domande di protezione internazionale proposte dopo l’entrata in vigore della legge di modifica.

10. Minori stranieri non accompagnati.

Facendo seguito a Sez. 6-1, n. 41930/2021, Scotti, Rv.663728-01 che, nella pluralità delle fonti e delle definizioni normative nazionali ed eurounitarie aveva definitivamente chiarito il concetto di minore straniero non accompagnato (rilevante, nella specie, ai fini della determinazione del giudice competente all’apertura della tutela, individuato nel tribunale per i minorenni, piuttosto che nel tribunale ordinario, in funzione di giudice tutelare), Sez. 6-1, n. 09648/2022, Bisogni, Rv. 664426-01, ha riaffermato il principio secondo cui, ai sensi dell’art. 2 della l. n. 47 del 2017 si qualifica come “minore straniero non accompagnato”, ai fini dell’applicazione degli istituti di tutela apprestati dall’ordinamento, non soltanto il minore richiedente protezione internazionale, ma anche il minore che, in base ad un rapporto di affidamento intrafamiliare, goda in Italia di assistenza materiale ma sia, nello stesso tempo, privo di rappresentanza legale per l’impossibilità di riconoscere la validità in Italia di un atto di delega dell’affidamento del minore non riconosciuto nell’ordinamento di provenienza come attributivo della rappresentanza legale del minore (nella specie, si trattava di una minore albanese, affidata dai genitori alla zia residente in Italia, con dichiarazione resa avanti ad un notaio, priva di valenza giuridica, non essendo prevista in quell’ordinamento la delega della responsabilità genitoriale).

In merito alla specifica procedura prevista per l’identificazione, Sez. 6-1, n. 11232/2022, Scotti, Rv. 664777-02 precisa, poi, che si deve tenere conto della produzione dell’estratto dell’atto di nascita di quest’ultimo, poiché, ai sensi dell’art. 19 bis, comma 3, l. n. 142 del 2015, l’età deve essere verificata in via principale attraverso un documento anagrafico (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio il provvedimento che non aveva esaminato l’estratto dell’atto di nascita, rilevando che non erano stati prodotti “validi documenti di identificazione”).

11. La giurisdizione sulla domanda di visto turistico.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 15089/2022, Ferro, Rv. 664660-01), ritenendo che il rilascio del visto turistico, disciplinato dal regolamento (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 e dal d.m. n. 850 del 2011, implichi una valutazione ampiamente discrezionale da parte della P.A. in ordine alla sussistenza di requisiti e delle condizioni per il suo rilascio (nella specie era stato impugnato il diniego da parte dell’Ambasciata del visto turistico ad un cittadino egiziano ritenuto privo di mezzi di sussistenza), tanto da escludere la possibilità di configurare, in capo al cittadino straniero richiedente, una posizione di diritto soggettivo al relativo ottenimento, ha affermato che la giurisdizione sulle controversie inerenti al rilascio di detti visti, spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo.

12. I centri di accoglienza straordinari dei richiedenti asilo: la giurisdizione del giudice ordinario sull’attuazione delle misure anti Covid- 19.

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 04873/2022, Conti, Rv. 663852-01) hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di un’associazione a tutela degli immigrati che, prospettando una situazione di obiettivo sovraffollamento in una delle strutture pubbliche di accoglienza straordinaria per richiedenti, aveva proposto ricorso ai sensi dell’art.700 c.p.c., lamentando la mancata ottemperanza alla normativa anti Covid 19, con conseguente lesione del diritto alla salute degli ospiti della struttura. Il Tribunale aveva negato la tutela cautelare, ritenendo il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice amministrativo e, instaurato il giudizio di merito, l’associazione aveva proposto regolamento preventivo di giurisdizione. La S.C. ha, così, ritenuto che le controversie relative al mancato rispetto delle misure emergenziali previste dal legislatore per il contenimento della pandemia da Covid-19, da parte dei gestori dei centri di accoglienza straordinari per richiedenti asilo, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che nessun potere pubblico può incidere sul diritto soggettivo alla salute degli ospiti (nella specie, sul diritto al distanziamento sociale), fino al punto di degradarlo ad interesse legittimo. A fronte di una predeterminazione, da parte del legislatore, delle modalità concrete di esercizio del servizio straordinario di accoglienza, volte a tutelare la salute dei richiedenti asilo, il potere amministrativo nella gestione del servizio di accoglienza è, dunque, circoscritto e vincolato.

La menzionata pronuncia ha evidenziato che il dovere di salvaguardare la salute dei richiedenti asilo accolti nei centri di accoglienza straordinari (CAS) è intimamente legato al principio di solidarietà nella sua proiezione verticale, pubblica ed istituzionale, e per ciò stesso improntato ad impedire forme discriminatorie di tutela, entrando in gioco posizioni soggettive riferibili a persone che versano in situazioni di evidente vulnerabilità, proprio in ragione della condizione di richiedente asilo e dell’impossibilità di regolare in modo autonomo la propria esistenza all’interno delle strutture di accoglienza.

13. Il procedimento per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale e i ricorsi avverso i provvedimenti dell’Unità Dublino.

Il procedimento per la determinazione dello Stato competente a decidere sulla domanda per il riconoscimento della protezione internazionale rappresenta una fase solo eventuale e preliminare rispetto a quella dell’esame della domanda. La sua attivazione dipende dall’autorità alla quale è presentata la domanda di asilo (Polizia di frontiera o Questura) che, prima di verbalizzare la volontà dello straniero di richiedere protezione internazionale, procede alle operazioni di fotosegnalamento i cui esiti sono poi trasmessi alla banca centrale EURODAC. Se, in esito a tali accertamenti, risulta che lo straniero aveva presentato per la prima volta domanda di protezione in un altro Stato membro, viene attivato il procedimento avanti all’Unità Dublino, operante presso il Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del Ministero dell’Interno e delle sue articolazioni territoriali istituite presso le prefetture, ai sensi dell’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008. I criteri per l’individuazione dello Stato competente sono dettati dal regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cd. “Dublino III”), direttamente vincolante ed applicabile in tutti gli Stati membri. Esso enuncia i principi generali e le garanzie di applicazione delle sue norme (artt. 3-6), disciplina la gerarchia ed i criteri applicabili per la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale (artt. 7-17), la procedura prevista per la sua applicazione, compreso il diritto ad un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento e le eventuali modalità e garanzie di trasferimento (artt. 18-32 e 34-37). I criteri per la determinazione della competenza individuati dal regolamento “Dublino III” devono essere applicati secondo l’ordine gerarchico nel quale sono definiti dallo stesso regolamento (art. 7, par. 1) e la determinazione dello stato membro competente, in applicazione di tali criteri, avviene sulla base della situazione esistente nel momento in cui il richiedente ha presentato domanda di protezione internazionale per la prima volta in uno Stato membro. A parte i criteri che ruotano intorno al principio della tutela preminente del minore (art. 8) e della salvaguardia dell’unità familiare (artt. 9, 10 e 11), oltre che della “relazione di dipendenza tra un genitore e suo figlio, fratello o genitore, a motivo della sua gravidanza o maternità, del suo stato di salute, dell’età avanzata” (art. 16), e ai criteri di cui agli artt. 12 e 14, legati al rilascio di titoli di soggiorno o di visti di ingresso in uno o più Stati membri, il criterio maggiormente utilizzato al fine di determinare lo stato competente per l’esame della domanda di protezione internazionale è quello dell’ingresso e/o del soggiorno irregolari nel territorio di uno stato membro (art. 13). Secondo tale criterio quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie, che il richiedente ha varcato illegalmente la frontiera di uno stato membro, tale stato è competente per l’esame della domanda, ma la sua responsabilità cessa 12 mesi dopo la data di attraversamento. Infine, l’art. 3, par. 2, del regolamento stabilisce, quale criterio residuale, nel caso in cui lo Stato membro competente non possa essere designato sulla base dei criteri sopra indicati, la competenza ad esaminare la domanda del primo Stato membro nel quale la domanda di protezione internazionale è stata presentata. Precisa tuttavia tale norma che, “qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente, in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente”. Tale previsione, che si discosta dall’omologa previsione contenuta nel precedente regolamento “Dublino II”, secondo la quale il trasferimento dei richiedenti protezione in ogni Stato membro poteva essere considerata sicura, è stata anticipata dalla giurisprudenza sovranazionale che aveva messo in discussione gli automatismi del regolamento “Dublino II”, affermando, in sostanza, che la protezione della persona non può fondarsi su una presunzione assoluta di sicurezza di uno Stato, in quanto l’applicazione pura e semplice di tale criterio nei rapporti tra stati che si considerino reciprocamente “sicuri”, non esclude il pericolo di refoulement da parte degli stessi, ancorché europei.

Prevede una deroga ai criteri oggettivi di determinazione dello Stato competente, anche l’art. 17 che disciplina le clausole discrezionali. Al par. 1 è disciplinata la c.d. “clausola di sovranità”, in virtù della quale, in deroga a tutti i criteri per la determinazione della competenza previsti dal Regolamento, ciascuno stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale anche nel caso in cui tale competenza non gli spetti. Il par. 2 prevede, invece, la c.d. “clausola umanitaria” in base alla quale lo Stato membro, nel quale è manifestata la volontà di chiedere la protezione internazionale e che procede alla determinazione dello stato competente, o lo stato membro competente, può in ogni momento, prima che sia adottata una prima decisione nel merito, chiedere ad altro Stato membro di prendere in carico un richiedente, allo scopo di procedere al ricongiungimento di persone legate da qualsiasi vincolo di parentela, per ragioni umanitarie fondate su motivi familiari o culturali, anche se tale altro Stato membro non è competente. Per procedere all’applicazione della clausola umanitaria è necessario che le persone interessate esprimano consenso scritto e lo stato che richiede ad altro stato la presa in carico dello straniero, in applicazione di tale clausola, deve inviargli una richiesta di presa in carico, corredata dalla documentazione comprovante le ragioni della richiesta. Entro due mesi dal ricevimento dell’istanza lo stato richiesto può o motivatamente rigettare la richiesta, o accoglierla.

Quanto alla procedura per la determinazione dello stato competente, è necessario sottolineare che essa prevede preliminarmente specifici obblighi informativi a tutela del richiedente. In particolare, l’art. 4, rubricato “Diritto di informazione”, prevede che, al momento della presentazione della domanda di protezione internazionale, lo straniero sia informato, oltre che in relazione ai diritti e facoltà previsti da detta procedura, anche dall’applicazione del regolamento Dublino III, mediante comunicazione di informazioni analiticamente indicate ai punti da a) ad f) del paragrafo 1 del predetto articolo. Il paragrafo 2 prevede che le informazioni siano fornite al richiedente per iscritto, in una lingua che egli comprenda o che “ragionevolmente si suppone sia a lui comprensibile”, attraverso la consegna di un “opuscolo comune” redatto secondo i criteri indicati dalla Commissione, indicati dall’art. 16 bis del regolamento di esecuzione del regolamento Dublino.

L’art. 5 prevede poi che lo Stato in cui si trova il richiedente effettui con lui un colloquio personale, al fine non solo di acquisire informazioni utili per la determinazione dello Stato che dovrà pronunciarsi sulla domanda di protezione internazionale, ma anche al fine di assicurarsi della corretta comprensione da parte del richiedente delle informazioni a lui consegnate con l’opuscolo informativo. Ove necessario, al colloquio dovrà essere presente un interprete.

Nel corso del 2021 la giurisprudenza della S.C. si era occupata di diversi profili di tale procedura, non esprimendosi sempre in modo uniforme. Superato il dubbio interpretativo sulla competenza territoriale a decidere sull’impugnazione dei provvedimenti assunti dalla c.d. Unità di Dublino, nel caso in cui il ricorrente si trovi presso una centro di trattenimento, nel senso che tale competenza si radica attraverso il collegamento con la struttura di accoglienza del ricorrente, secondo un criterio “di prossimità”, nella sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede la struttura o il centro che lo ospita ( v. solo da ultimo Sez. 6-1, n. 05097/2021, Acierno, Rv. 660742-01), erano rimasti non superati alcuni contrasti in relazione, tra l’altro, all’ambito del sindacato del giudice nazionale avanti al quale sia impugnato il provvedimento di trasferimento dell’Unità Dublino.

In particolare, nel 2021 la S.C. aveva affrontato il tema della possibilità da parte del giudice di valutare, oltre che la sussistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nello Stato membro designato, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante, anche il rispetto delle garanzie informative previste dagli artt. 4 e 5 del regolamento (UE) n. 604/2013. Su tale tema la giurisprudenza di legittimità aveva dato risposte contrastanti, affermando la necessità per il giudice di sindacare il rispetto di tali prescrizioni (Sez. 2, n. 16888/2021, Oliva, Rv. 661454-02 e Sez. 2, n. 24493/2021, Oliva, Rv. 662323-02), in consapevole contrasto con il precedente di Sez. 1, n. 23584/2020, Pazzi, Rv. 659239-01, che aveva affermato il giudice ordinario nazionale non può annullare il provvedimento dell’Amministrazione sulla base della violazione di norme procedurali verificatasi nel corso del procedimento. La questione era stata posta all’attenzione della Corte di giustizia UE con ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione (Sez. 2, n. 08668/2021, Casadonte, non massimata). Sullo stesso tema era stata sollevata una questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia anche dal Tribunale di Trieste (Trib. Trieste, ordinanza 2 aprile 2021).

Un altro tema in ordine al quale si erano creati contrasti nella giurisprudenza di merito, è inerente alla portata del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’Unità Dublino, avuto riguardo, in particolare, al delicato tema della sindacabilità e dell’attivabilità delle “clausole discrezionali” da parte del giudice al posto dell’amministrazione. Il problema era stato affrontato per la prima volta in sede di legittimità da Sez. 1, n. 23724/2020, Pazzi, Rv. 659437-01 e, successivamente, da Sez. L, n. 26603/2020, Cinque, Rv. 659627-01, in relazione a due casi analoghi in cui il Tribunale aveva annullato il trasferimento di un cittadino extracomunitario in uno Stato membro, sul presupposto che il trasferimento in detto stato ne avrebbe determinato il rimpatrio nello stato di provenienza (rispettivamente, in Pakistan ed in Iraq) caratterizzato da una situazione di instabilità e di pericolo che, ai sensi dell’art. 23 del regolamento, avrebbe potuto determinare una lesione dei diritti fondamentali, in violazione del divieto di non refoulement anche indiretto ex art. 3 CEDU e artt. 4 e 19 della Carta fondamentale dei diritti UE. Entrambe le pronunce, nell’accogliere il ricorso proposto dal Ministero dell’interno, avevano precisato che al giudice investito del ricorso compete unicamente il sindacato di legalità riguardo detto atto, “da svolgersi come giudice dell’atto e non del rapporto”, ai fini della verifica del rispetto del procedimento e dei criteri di competenza, mentre è preclusa ogni rivalutazione della domanda di protezione già esaminata dallo Stato di prima accoglienza, sia perché ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro, sia perché l’operatività delle clausole discrezionali di cui all’art. 17 del citato regolamento, che consentono a ciascuno Stato di esaminare comunque una domanda di protezione internazionale, pur non essendo quello di presa in carico del richiedente, ha come destinatari gli Stati e non il giudice. Sullo stesso tema il Tribunale di Roma, con ordinanza del 12 aprile 2021, aveva sollevato una questione pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia, tutt’ora pendente.

Nell’anno in rassegna ribadisce il medesimo principio di diritto già espresso da Sez. 1, n. 23724/2020, Pazzi, Rv. 659437-01, Sez. 1, n. 36996/2022, Campese, Rv. 666252-01 che, confrontandosi con la giurisprudenza eurounitaria (in particolare, Corte di giustizia UE, 16 febbraio 2017, causa C-578/16 PPU. CK, HF, A.S. c. Republika Slovenija, e Corte di giustizia UE, 23 gennaio 2019, causa C-661/17, M.A., S.A., A.Z. c. Ireland), afferma che il ricorso alla “clausola discrezionale”, prevista dall’art. 17, par. 1, del regolamento (UE) n. 604/2013, di natura facoltativa, e` attribuito all’amministrazione (e segnatamente all’Unita` Dublino operante presso il Dipartimento per le liberta` civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno ex art. 3, comma 3, del d.lgs. 25 del 2008), in ragione della natura delle considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico che ne determinano l’esercizio, e non può essere direttamente compiuto dal giudice ordinario, puntualizzando che l’esercizio della facoltà in parola, per quanto discrezionale, non rimane, tuttavia, al di fuori di qualsiasi controllo, sicché il rifiuto dell’amministrazione di farne uso, risolvendosi necessariamente nell’adozione di una decisione di trasferimento, può essere contestato in sede di ricorso avverso quest’ultima, onde verificare se l’esercizio della discrezionalità amministrativa sia eventualmente avvenuto in violazione dei diritti soggettivi riconosciuti al richiedente asilo dal regolamento (CE) n. 604/2013 e, più in generale, dall’impianto normativo eurounitario.

14. PARTE TERZA - ESPULSIONE, ALLONTANAMENTO E TRATTENIMENTO --- L’espulsione amministrativa.

La disciplina dell’espulsione amministrativa dello straniero irregolare è inserita in un complesso quadro normativo. Chi è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera o non ha titolo per rimanervi può essere destinatario di un provvedimento di espulsione amministrativa (con avvio allo Stato di appartenenza, ovvero, quando ciò non sia possibile, allo Stato di provenienza) disposta dal Prefetto ed eseguita dal questore, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria che procede per reati a carico dello straniero espulso “salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali” (art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998).

Si tratta di un provvedimento impugnabile davanti al Giudice di pace ex art. 18 del d.lgs. n. 150 del 2011, che può eseguirsi mediante accompagnamento alla frontiera (art. 13, commi 4 e 5 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998), misura restrittiva della libertà personale che necessita di convalida da parte del giudice e che, una volta concessa, rende definitivo il provvedimento di espulsione (prima sospeso nella sua efficacia).

Con riferimento ai presupposti per disporre l’espulsione in ragione dell’asserita pericolosità sociale ex art. 13, comma 2, lett. c), del d. lgs. n. 286 del 1998, Sez. 1, n. 29148/2020, Oliva, Rv. 660125-01 aveva affermato che la valutazione della sussistenza del requisito della pericolosità sociale dello straniero deve essere effettuata in concreto e all’attualità, non prevedendo l’art. 4, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 una presunzione idonea a precludere automaticamente il soggiorno sul territorio nazionale.

Nel solco di tale orientamento si pone Sez. 1, n. 23423/2022, Vella, Rv. 665363-01, che ha ribadito come il Giudice di pace chiamato a valutare la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 2, lett. c), del d. lgs. n. 286 del 1998, al fine di verificare l’appartenenza dello straniero ad una delle categorie di persone pericolose indicate dalla predetta norma, non può limitarsi alla valutazione dei suoi precedenti penali, ma deve compiere il suo esame in base ad un accertamento oggettivo, e non meramente soggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni, estendendo il suo giudizio anche all’esame complessivo della personalità dello straniero, desunta dalla sua condotta di vita e dalle manifestazioni sociali nelle quali quest’ultima si articola, verificando in concreto l’attualità della pericolosità sociale. In particolare, nel caso portato all’attenzione della Corte, il Giudice di pace si era limitato a richiamare i precedenti penali del ricorrente (un’unica condanna per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e violenza sessuale, ipotesi di minore gravità ex art. 609 bis, comma 3, c.p.), senza valutare né il successivo comportamento tenuto dal cittadino straniero (il quale non aveva riportato altre condanne) né la decisione della Corte d’appello, che aveva ridotto la pena da tre a due anni di reclusione, applicando i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.

Come ha chiarito Sez. 1, n. 27555/2022, Campese, Rv. 665639-01 (in continuità con Sez. 6-1, n. 22694/2021, Scotti, Rv. 662348-01, Sez. 1, n. 12665/2019, Dolmetta, Rv. 653771-01 e Sez. 1, n. 28852/2005, Del Core, Rv. 585688-01, ma in difformità rispetto a Sez. 2, n. 24582/2020, Picaroni, Rv. 659666-01), il ricorso per cassazione avverso il provvedimento emesso all’esito del giudizio di opposizione al decreto prefettizio di espulsione dello straniero, va proposto nei confronti dell’autorità che ha emanato il decreto impugnato e notificato presso la stessa, sicché deve essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto contro il Ministero dell’interno e ad esso notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato.

Con riguardo al profilo delle garanzie dell’espellendo, nella fase amministrativa, la consolidata giurisprudenza di legittimità (riaffermata da Sez. 1, n. 27682/2018, Acierno, Rv. 651119-01), ha escluso l’obbligo di dare preventiva comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento amministrativo di espulsione, ai sensi degli artt. 7 e 8 della l. 7 agosto 1990 n. 241. L’argomentazione (leggibile, tra le altre, in Sez. 1, n. 28858/2005, Spagna Musso, Rv. 586798-01) valorizza la specialità della procedura espulsiva, ove rilevano sia motivi di ordine di pubblico che di sicurezza dello Stato, e tiene conto, altresì, dei caratteri di celerità e speditezza che ne connotano l’iter.

Attesa l’automaticità del provvedimento espulsivo, il giudice innanzi al quale l’atto viene impugnato è tenuto unicamente a controllare la sussistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l’emanazione (così Sez. 1, n. 18788/2020, Oliva, Rv. 659123-01, e Sez. 1, n. 28860/2018, Terrusi, Rv. 651500-01), i quali consistono nella mancata richiesta, in assenza di cause di giustificazione, del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento o nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego. Non è invece consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del Questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero ne abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l’impugnazione del provvedimento del Questore, non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l’impugnazione del decreto di espulsione del Prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile (Sez. 2, n. 19788/2020, Oliva, Rv. 659123-01; Sez. 6-1, n. 15676/2018, Acierno, Rv. 649334-01; Sez. 6-1, n. 12976/2016, De Chiara, Rv. 640104-01).

Nel giudizio di convalida del decreto di espulsione, il legislatore, con una scelta già compiuta con l’emanazione del d.lgs. n. 286 del 1998 (artt. 13, comma 5 bis, e 14, comma 4), aveva previsto per lo straniero che si opponga al provvedimento di espulsione, un’ammissione automatica al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, scelta questa che è stata reputata conforme a Costituzione (Corte cost., ordinanza del 29/12/2004, n. 439).

Nell’anno in rassegna, Sez. 6-2, n. 24102/2022, Criscuolo, Rv. 665406-01, ha affermato che il predetto regime normativo ha trovato, poi, conferma nell’art. 142 del d.P.R. n. 115 del 2002 e, da ultimo, nell’art. 18, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, ed ha, pertanto, concluso che l’ammissione della parte al beneficio, e quindi il diritto del difensore a pretendere la liquidazione dei compensi maturati per l’attività svolta, prescinda dalla presentazione di un’apposita istanza.

Sez. 6-1, n. 30648/2022, Catallozzi, Rv. 665927-01, richiamando un principio affermato sin dal 2002 (Sez. 1, n. 09499/2002, Macioce, Rv. 555462-01), ha ribadito che, nel giudizio di opposizione al decreto di espulsione davanti al Giudice di pace, la materia del contendere è costituita dalla sussistenza della specifica ipotesi contestata all’espellendo ed assunta a dichiarato presupposto dell’espulsione, poiché le ipotesi di violazione che possono giustificare la pretesa espulsiva dello Stato sono rigorosamente descritte dalla vigente normativa e il provvedimento espulsivo si configura come un atto a contenuto vincolato, con la conseguenza che il giudice non può accertare l’esistenza di una diversa causa espulsiva diversa da quella contestata.

Sez. L, n. 05837/2022, Ponterio, Rv. 664008-01 ha dichiarato la nullità del provvedimento di espulsione, redatto in lingua veicolare e non tradotto nella lingua del ricorrente (bengali, nel caso di specie), precisando che grava sull’Amministrazione l’onere di allegare l’impossibilità di predisporre un testo nella lingua del ricorrente per la sua rarità ovvero l’inidoneità di tale testo alla comunicazione della decisione in concreto assunta.

Ancora in termini di diritti del soggetto destinatario di un decreto di espulsione, Sez. 1, n. 00221/2022, Caradonna, Rv. 663480-01, ha precisato che, in tema di accompagnamento coattivo alla frontiera a seguito di decreto di espulsione, il destinatario del provvedimento ha diritto di essere tempestivamente informato del relativo decreto adottato dal Questore, oltre che dell’udienza di convalida, la quale deve necessariamente essere fissata dopo l’emissione del decreto che ne costituisce l’oggetto ed a seguito della comunicazione di quest’ultimo al Giudice di pace, sicché, in assenza di tali presupposti, l’udienza di convalida è nulla, al pari del decreto di convalida.

15. I casi d’inespellibilità.

L’istituto dell’espulsione amministrativa si intreccia con la garanzia dell’inespellibilità dello straniero, che ne preclude l’esecuzione coattiva.

Principale causa di inespellibilità è, tranne talune eccezioni, la presentazione della domanda di protezione internazionale.

Nell’anno in rassegna, Sez. 1, n. 21716/2022, Fidanzia, Rv. 665238-01, ha chiarito che il divieto di espulsione e di respingimento di cui all’art. 19, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998, impone al giudice di pace, in adempimento del suo dovere di cooperazione istruttoria, di esaminare e di pronunciarsi sul concreto pericolo prospettato dall’opponente di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, in quanto la norma di protezione introduce una misura umanitaria a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto ad elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice, senza che la mancata presentazione da parte dello straniero della domanda di protezione internazionale, valga ad escludere tale obbligo in capo al giudice di pace.

Sotto il profilo sostanziale, la disciplina europea e nazionale sancisce in via generale il diritto dei richiedenti la protezione internazionale a rimanere nello Stato membro, sia durante il periodo dell’esame amministrativo della loro domanda di protezione (art. 9 della direttiva 2013/32/CE e art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008), sia durante il periodo di attesa della definizione della fase giurisdizionale (artt. 9 e 46 della direttiva 2013/32/UE e 35 bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, quest’ultimo articolo aggiunto dal d.l. n. 13 del 2017, conv. con modif. in l. n. 46 del 2017, e poi modificato dal d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif. in l. n. 132 del 2018).

L’art. 35 bis, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 stabilisce che la proposizione del ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale determina la sospensione automatica degli effetti del provvedimento impugnato, tranne che in alcuni casi tassativamente indicati alle lett. a), b), c), d) del medesimo comma (quando il ricorrente sia trattenuto in un centro di permanenza per i rimpatri, quando vi sia un provvedimento di inammissibilità della domanda, o quando la domanda sia manifestamente infondata, quando la domanda sia stata presentata dopo che il ricorrente sia stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera, ovvero fermato in condizioni di soggiorno illegale, al solo scopo di impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento). Sez. 6-1, n. 33039/2021, Falabella, Rv. 663306-01, dal disposto della norma appena richiamata aveva tratto il divieto per l’Autorità prefettizia di disporre l’espulsione dello straniero prima ancora che il termine per impugnare il provvedimento di revoca della Commissione nazionale sia decorso. Ciò in considerazione dell’identità di questa situazione con quella di colui che abbia proposto una domanda di protezione internazionale che la Commissione territoriale abbia respinto, ipotesi in cui - come già affermato da Sez. 1, n. 32958/2019, Oliva, Rv. 656480-01) - il richiedente non ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale anche in assenza di un provvedimento di sospensione dell’efficacia della pronuncia.

Con riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 286 del 1998 - espulsione pronunciata nei confronti di chi si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo, Sez. 1, n. 20930/2022, Pazzi, Rv. 665230-01, ha ribadito che il cittadino straniero ha diritto di rimanere in Italia in pendenza del procedimento per il rinnovo del permesso di soggiorno, anche quando la relativa istanza sia presentata tardivamente, potendo l’espulsione essere disposta solo nel caso in cui la richiesta venga respinta per la mancanza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti richiesti dalla legge per il soggiorno sul territorio nazionale (nel caso portato all’attenzione della Corte, il Giudice di pace, nel rigettare il ricorso proposto avverso il decreto di espulsione, aveva omesso di considerare la pendenza del procedimento volto ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, avviato dopo più di sessanta giorni dalla scadenza, su cui la commissione territoriale aveva espresso parere sfavorevole, ma rispetto al quale la Questura non si era ancora pronunciata).

Ancora in tema di limiti all’espulsione, Sez. 1, n. 26863/2022, Meloni, Rv. 665635-01, chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso un decreto di espulsione, proposto da un richiedente che aveva presentato una domanda di emersione di lavoro irregolare ai sensi dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, conv. con modif. in l. n. 77 del 2020 (“al fine di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da Covid-19”), ha affermato che al giudice spetta solo accertare la data e la certezza dell’inoltro della dichiarazione prevista e non anche di compiere una prognosi sull’esito della domanda di sanatoria, del tutto estranea alla sua competenza. In forza di tale principio, la S.C. ha precisato che, per effetto del comma 17 dell’art. 103 del d.l. citato, dopo la presentazione della dichiarazione, non può essere legittimamente disposta l’espulsione del lavoratore straniero “in emersione” fino alla conclusione della procedura, salvo che lo stesso risulti pericoloso per la sicurezza dello Stato o ricorrano le condizioni descritte al comma 10 della stessa disposizione.

La proposizione della domanda di protezione internazionale, comunque, legittima lo straniero richiedente a permanere nel territorio dello Stato sino alla decisione della Commissione territoriale sulla stessa, quale unico soggetto deputato a verificarne le condizioni di ammissibilità e fondatezza, con la sola salvezza delle ipotesi di cui all’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 25 del 2008. Ne consegue che l’Autorità di pubblica sicurezza avanti alla quale lo straniero si presenti per proporre la domanda di asilo non è autorizzata a valutarla nel merito e, ritenendola infondata, ad attivare il procedimento di espulsione del cittadino straniero (così Sez. 6-1, n. 11309/2019, Terrusi, Rv. 654197-01).

Con riguardo ai rapporti tra espulsione e protezione internazionale ed alle cause di inespellibilità, Sez. 1, n. 17657/2021, Amatore, Rv. 661918-01, aveva escluso che la convivenza more uxorio con una cittadina italiana, anche se la coppia attende un bambino, potesse rilevare quale causa di inespellibilità dello straniero, neppure nel giudizio di legittimità della proroga del trattenimento volto all’esecuzione dell’espulsione, perché la convivenza more uxorio dello straniero non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione di cui all’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, le quali non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva.

16. La tutela dell’unità familiare e dei minori.

Nell’anno in rassegna la giurisprudenza della S.C., muovendosi lungo le linee direttrici tracciate negli anni precedenti, ha approfondito nei suoi vari aspetti la tematica della tutela dei legami familiari e dei minori sempre più nell’ottica della ricerca della ratio delle singole norme e della coerenza del sistema alla luce del principio di cui all’art. 8 CEDU, secondo cui la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme, affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente ed i membri della famiglia possano godere della reciproca compagnia.

In tale ottica, deve subito essere menzionata Sez. 1, n. 06909/2022, Fidanzia, Rv. 664112-01, che ha accolto il ricorso contro il provvedimento che aveva respinto il ricorso finalizzato ad ottenere il rilascio di un nulla osta al ricongiungimento familiare di una minore, cittadina straniera, nata da una relazione occasionale della defunta sorella della moglie del ricorrente e da quest’ultimo adottata, insieme alla moglie (entrambi soggiornanti nel territorio italiano), secondo le consuetudini ghanesi, tramite customary adoption order, ma ratificato dal Tribunale straniero, a seguito di una verifica dell’idoneità della coppia a prendersi cura della minore. In tale pronuncia, la S.C. ha richiamato una precedente statuizione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 21108/2013, Salmè, Rv. 627475-01) ed ha ribadito che l’eventuale contrarietà o l'elusione della disciplina dell'adozione internazionale, quale norma di applicazione necessaria, non assume rilievo ai fini del giudizio in esame. Tale aspetto sarebbe stato valutabile solo nel caso in cui il ricorrente avesse chiesto la delibazione in Italia del provvedimento del tribunale ghanese, volendone far derivare effetti nel nostro ordinamento identici o analoghi a quelli dell'adozione. Nel caso di specie, invece, egli si era limitato a domandare il ricongiungimento e, dunque, a chiedere che fosse riconosciuta al provvedimento, nel rispetto della disciplina vigente nel Paese di provenienza della minore, la funzione di legittimare lui e la moglie all’attività di cura materiale e affettiva della minore, senza la necessità di individuare nel legame tra essi e la bambina un vincolo di filiazione compatibile con i principi dell’ordinamento italiano.

17. Espulsione e legami familiari.

L’art. 13 d.lgs. n. 286 del 1998, comma 2 bis, inserito dal d.lgs. n. 5 del 2007 (attuativo della direttiva 2003/86/CE), prevede che, nell’adottare il provvedimento di espulsione dello straniero - entrato nel territorio nazionale sottraendosi ai controlli di frontiera o che non abbia chiesto il permesso di soggiorno o che sia titolare di un permesso revocato, annullato, scaduto da oltre sessanta giorni e non abbia chiesto il rinnovo - si debba tenere “anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”. Tale accertamento - imposto anche dall’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 per l’adozione del provvedimento di rifiuto di rilascio, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno - era previsto per lo straniero che avesse “esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o fosse un “familiare ricongiunto, ai sensi dell’art. 29” (trattandosi di coniuge, figli minori, figli maggiorenni a carico, genitori a carico in mancanza di altri figli nel Paese dì origine o di provenienza o genitori ultrasessantacinquenni in mancanza di altri figli che possano provvedere al loro sostentamento). Nel 2013, la Corte costituzionale (Corte cost., sentenza 18 luglio 2013, n. 202) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 5, comma 5, “nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo a chi abbia “esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o al “familiare ricongiunto”, e non anche allo straniero “che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”, definitivamente chiarendo che l’esistenza di “legami familiari” dello straniero in Italia costituisce un elemento di valutazione necessario.

Sin dal 2019, la S.C. (Sez. 1, n. 00781/2019, Lamorgese, Rv. 652401-01) ha affermato che, in tema di espulsione del cittadino straniero, a seguito della sentenza n. 202 del 2013 della Corte costituzionale - e in linea con la nozione di diritto all’unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 8 CEDU - l’art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 si applica - con valutazione caso per caso, in coerenza con la direttiva 2008/115/CE - anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché non nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare. Tuttavia, in caso di mancato esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, i legami familiari dello straniero nel territorio dello Stato, per consentire l’applicazione della tutela rafforzata di cui al citato comma 2 bis, devono essere soggettivamente qualificati ed effettivi e il giudice di merito è tenuto a darne conto adeguatamente, sulla base di vari elementi, quali l’esistenza di un rapporto di coniugio e la durata del matrimonio, la nascita di figli e la loro età, la convivenza, la dipendenza economica dei figli maggiorenni e dei genitori, le difficoltà che essi rischiano di trovarsi ad affrontare in caso di espulsione, altri fattori che testimonino l’effettività di una vita familiare. In mancanza di “legami familiari” qualificati nel senso anzidetto, non è possibile ricorrere ai criteri suppletivi della durata del soggiorno, dell’integrazione sociale nel territorio nazionale e dei legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine.

Sez. 1, n. 09445/2021, Tricomi L., Rv. 661176-01 pronunciandosi in un caso di mancata convalida del decreto di trattenimento presso il C.P.R. di un cittadino straniero per la presenza della figlia minore in Italia, in modo tale di consentire di “coltivare la genitorialità”, ponendosi nel solco della precedente giurisprudenza (Sez. 6-1, n. 05080/2013, Acierno, Rv. 625366-01; Sez. 6-1, n. 19334/2015, De Chiara, Rv. 637213-01), aveva precisato che la pendenza, sopravvenuta al provvedimento espulsivo, del giudizio sulla richiesta della misura temporanea di coesione familiare, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, è inidonea a giustificare la caducazione del provvedimento espulsivo e che, conseguentemente, non può impedire la convalida del decreto del questore di accompagnamento alla frontiera e dunque anche dell’analogo decreto di trattenimento.

Richiamando i principi da tempo affermati dalla S.C., Sez. 1, n. 07124/2022, Rocchi, ha ribadito che la sentenza della Corte costituzionale sopra menzionata, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui non prevede che la valutazione in concreto della pericolosità sociale da eseguire in sede di rilascio, revoca o rinnovo del permesso di soggiorno, possa essere svolta tanto nei confronti dello straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare ricongiunto, quanto nei confronti di chi abbia comunque legami familiari nel territorio dello Stato, ha chiarito che anche in quest’ultima ipotesi deve tenersi conto della durata del soggiorno e del quadro dei legami non solo familiari ma anche sociali, prospettando espressamente l’adozione dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte EDU relativa all’art. 8 CEDU, come parametro interposto di costituzionalità della norma impugnata. Ancora, Sez. 1, n. 35653/2022, Terrusi, Rv. 666293-01, ha riaffermato che i criteri posti dall’art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, relativi alla necessità di tenere conto della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell’esistenza dei legami con il suo Paese di origine, pur dettati per lo straniero che abbia chiesto il ricongiungimento familiare in Italia, si applicano, con valutazione da effettuarsi caso per caso, anche al cittadino straniero che pure non si trovi nella posizione di formale richiedente il ricongiungimento, ma, per tali ragioni, abbia proposto opposizione al decreto di espulsione.

Sez. 1, n. 19815/2022, Fraulini, Rv. 665219-01, ha, inoltre, precisato che, in ossequio al disposto dell’art. 8 CEDU, va riconosciuta autonoma tutela al diritto alla vita privata, e non soltanto alla vita familiare, assumendo così rilievo, ai fini della decisione sulla convalida, i legami sociali che il cittadino straniero alleghi di avere intrattenuto sul territorio nazionale.

18. L’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare del minore.

L’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede la possibilità di autorizzazione temporanea, all’ingresso ed alla permanenza del familiare sul territorio nazionale in deroga alle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, e nel concorso di gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute.

Detta disposizione svolge la funzione di norma di chiusura del sistema di tutela dei minori stranieri, fondato in via ordinaria sull’istituto del ricongiungimento familiare, ed apportando una eccezione alla disciplina sull’ingresso e sul soggiorno dello straniero, quando ricorrano le condizioni per salvaguardare il “preminente interesse” del minore in situazioni nelle quali l’allontanamento suo o di un suo familiare potrebbe pregiudicarne gravemente l’integrità fisio-psichica. La norma de qua completa ed esaurisce il bilanciamento necessario ed equilibrato tra il rispetto alla vita familiare del minore, che i pubblici poteri sono tenuti a proteggere e promuovere, e l’interesse pubblico generale alla sicurezza del territorio e del controllo delle frontiere.

Sez. 1, n. 00467/2022, Pazzi, Rv. 663898-01, è tornata sulla ratio dell’istituto per ribadire che l’art. 31 d.lgs. cit. è funzionale alla tutela di un interesse non già del richiedente, bensì essenzialmente del minore, e non preclude la valorizzazione, in una prospettiva che si focalizzi sulla condizione del genitore, del rischio di danno attuale da perdita di significative relazioni affettive con il minore presente sul territorio italiano per ottenere, nell’ambito di un giudizio promosso ai sensi degli artt. 35 d.lgs. n. 25 del 2008 e 19 d.lgs. n. 150 del 2011, l’accertamento del diritto a conseguire un permesso di soggiorno per motivi umanitari, secondo la disciplina applicabile ratione temporis.

Ai fini del rilascio di tale autorizzazione, la giurisprudenza ormai consolidata della Corte richiede una valutazione prognostica circa la ricorrenza per il minore di un danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave, con la precisazione che deve trattarsi di situazioni di non lunga ed indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che si concretino in eventi traumatici e non prevedibili non rientranti nel normale disagio dovuto al rimpatrio di un familiare.

Sui presupposti per il rilascio dell’autorizzazione in esame, è tornata Sez. 1, n. 04496/2022, Reggiani, Rv. 664014-01, per ribadire come non possa ritenersi sufficiente ad integrare i presupposti per il rilascio dell’autorizzazione l’esigenza di tutelare la coesione familiare, ritenendosi invece necessaria l’allegazione di un concreto pregiudizio che i minori rischino di subire per effetto dell’allontanamento del genitore. Nel caso portato all’attenzione della S.C., il genitore si era invece limitato a prospettare l’esigenza di recuperare il rapporto con i figli.

In argomento, Sez. 1, n. 10849/2021, Acierno, Rv. 661153-01, aveva precisato che il giudizio di bilanciamento tra l’interesse del minore e quello di rilievo pubblicistico alla sicurezza nazionale può essere effettuato solo una volta che sia stata valutata la situazione attuale del minore, verificando se sussista il pericolo di un suo grave disagio psico-fisico derivante dal rimpatrio suo o del familiare, potendosi denegare l’autorizzazione solo nel caso in cui l’interesse del minore, pur prioritario nella considerazione della norma, sia nel caso concreto recessivo, non avendo esso carattere assoluto come chiarito dalla CEDU nell’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione. Nella pronuncia in esame, è stato altresì chiarito che il rilascio di detta speciale autorizzazione non esclude la possibilità di una nuova autorizzazione, poiché l’elemento temporale non è condizione per il riconoscimento del diritto, ma indica esclusivamente una caratteristica legata alla durata del permesso in relazione alle singole richieste, ove sulla valutazione del prioritario interesse del minore sia compiuto in termini favorevoli un giudizio prognostico all’attualità (Sez. 1, n. 10849/2021, Acierno, Rv. 661153-02).

In punto di prova del pregiudizio, Sez. 2, n. 24039/2021, Oliva, Rv. 662170-01, aveva affermato che l’autorizzazione ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, è subordinata alla puntuale allegazione e dimostrazione della sussistenza dei gravi motivi per lo sviluppo psico-fisico del minore richiesti dalla norma soltanto quando la famiglia non sia ancora presente nel territorio nazionale, mentre nella diversa ipotesi in cui il nucleo familiare sia già presente opera la presunzione di radicamento del minore nel suo ambiente nativo, salvo prova contraria. In quest’ultimo caso, i gravi motivi idonei a giustificare l’autorizzazione temporanea possono perciò essere collegati all’alterazione di tale ambiente conseguente alla perdita della vicinanza con la figura genitoriale ovvero al repentino trasferimento in un altro contesto territoriale e sociale.

Nell’anno in rassegna, Sez. 1, n. 25662/2022, Parise, Rv. 665534-01, ha sottolineato che il giudizio prognostico relativo al grave disagio psico-fisico determinato allo stesso dal trasferimento fuori del territorio italiano deve essere svolto sulla base di una concreta ed effettiva indagine riguardante l’interesse del minore alla permanenza in Italia e l’eventuale correlato pregiudizio determinato dall’allontanamento in relazione al radicamento da valutarsi sulla base di allegati fattori d’integrazione quali quella familiare, scolastica, relazionale, ambientale.

19. Il trattenimento.

La giurisprudenza dell’anno in rassegna sul trattenimento non è particolarmente numerosa ed attiene a profili differenti fra loro.

Riguarda il tema del giudice competente a statuire sulla convalida Sez. L, n. 11859/2022, Ponterio, Rv. 664346-01 che afferma la competenza della Sezione specializzata presso il tribunale e non del Giudice di pace, ai sensi dell’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 142 del 2015, nel caso in cui lo straniero, trattenuto in un CIE, presenti nel corso del trattenimento domanda, anche reiterata, per il riconoscimento della protezione internazionale. In tale caso, afferma la Corte, si verifica un mutamento del titolo del trattenimento che prosegue, per il periodo massimo normativamente previsto, al fine di consentire l’espletamento della procedura di esame della domanda di protezione.

Affronta il profilo particolare della natura delle misure di isolamento anti Covid-19, attuate nei confronti di cittadini extracomunitari privi del titolo di soggiorno, che siano sbarcati sulle coste italiane e trasferiti a bordo di una nave in condizioni di isolamento, successivamente soggetti a respingimento ed a trattenimento, Sez. 1, n. 21612/2022, Fidanzia, Rv. 665237-01, che esclude che tale periodo di isolamento possa essere computato quale periodo di trattenimento ai sensi degli artt. 13 e 14 del d.lgs. n. 286 del 1998. Afferma infatti, la S.C. che l’art. 1, lett. d), del d.l. n. 19 del 2020 - che ha imposto l’adozione per tutti i cittadini provenienti da aree ubicate al di fuori del territorio nazionale di una quarantena precauzionale - non ha introdotto una misura limitativa della libertà personale, riducendo esclusivamente la libertà di circolazione sul territorio dello stato, libertà, che, a norma dell’art. 16 della Costituzione, può essere limitata per motivi di sanità o di sicurezza, come affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 127 del 2022.

Sez. 1, n. 17834/2022, Iofrida, Rv. 664948-01, si occupa dell’interpretazione del combinato disposto dell’art. 6, comma 5, e comma 6 del d. lgs. n. 142 del 2015, ed afferma che, ove il richiedente protezione già presente in un CPR, in attesa dell’esecuzione di un decreto di espulsione, sia nuovamente ivi trattenuto ex art. 6, comma 3, del d. lgs. n. 142 del 2015, per avere presentato una domanda di protezione internazionale, la durata massima del trattenimento così disposto deve intendersi stabilita dal comma 5 della predetta norma, mentre il disposto del comma 6, che prevede che “il trattenimento o la proroga del trattenimento non possono protrarsi oltre il tempo strettamente necessario all’esame della domanda”, deve intendersi nel senso che, una volta definito il procedimento amministrativo relativo all’esame della domanda, il trattenimento disposto a quello scopo decade, non potendo protrarsi oltre il tempo necessario a definire quel procedimento.

In punto di motivazione della convalida della proroga del trattenimento in un CPR, Sez. 6-1, n. 00610/2022, Marulli, Rv. 663963-01 precisa che il decreto con il quale il giudice di pace convalidi l’ulteriore proroga del trattenimento in un Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) non può limitarsi a richiamare le informative dell’autorità di polizia, senza riprodurne il contenuto e, in particolare, senza spiegare in base a quali concreti elementi sia ritenuta probabile l’identificazione dello straniero, secondo quanto previsto dall’art. 14, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, poiché la misura incide su un diritto inviolabile, la cui limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge di cui all’art. 13 Cost., e la motivazione per relationem, pur ammissibile, non può essere totalmente manchevole di ogni indicazione che ne attesti la condivisione da parte del decidente.

Infine, Sez. 1, n. 04562/2022, Fidanzia, Rv. 664165-01, afferma che l’illegittimo trattenimento presso un CIE di un cittadino straniero produce un danno da ingiusta detenzione, atteso che esso determina la lesione di un diritto inviolabile costituzionalmente garantito come la libertà personale. Ne consegue che, ai fini della liquidazione, è applicabile l’art. 315 c.p.p., dettato per l’ingiusta detenzione, essendo evidente l’analogia tra detenzione penale e trattenimento strumentale all’esecuzione dell’espulsione, che comportano entrambi la privazione della libertà personale, come già riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dalla sentenza 8 febbraio 2011 Seferovic c. Italia (Corte EDU, sentenza 8 febbraio 2011, causa C-12921-04, Seferovic c. Italia).

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  • violenza domestica
  • schiavitù

DIALOGANDO CON IL MERITO

L’APPARTENENZA AD UN PARTICOLARE GRUPPO SOCIALE NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO

(di Martina Flamini )

Sommario

1 Premesse generali. - 2 Orientamento sessuale. - 3 Violenza di genere. - 3.1 Tratta delle donne a fini di sfruttamento sessuale. - 3.2 Violenza domestica. - 3.3 Matrimoni forzati. - 3.4 Donne vittime di violenza di genere in condizione di conflitto armato (in Ucraina). - 4 Soggetti vulnerabili. - 4.1 Persone con disabilità e malattie, fisiche o psichiche. - 4.2 Bambini soldato. - 4.3 Bambini orfani. - 4.4 Bambini orfani dell’area subsahariana e vittime di tratta nel settore del calcio. - 5 Persone ridotte in condizioni di schiavitù.

1. Premesse generali.

Ai sensi del primo comma dell’articolo 1A, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati (del 28.7.1951), il termine “rifugiato” si applica ad ogni individuo che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

L’interpretazione della lettera della norma appena citata e la sua applicazione nel corso degli anni, anche alla luce del Manuale dell’UNHCR sulle Procedure e sui Criteri per la Determinazione dello status di Rifugiato (1), hanno reso evidente come la nozione di appartenenza ad un particolare gruppo sociale abbia rappresentato e rappresenta tutt’ora una delle fattispecie più complesse.

In particolare, il punto 77 del Manuale appena citato si limita a disporre che un “particolare gruppo sociale è di solito quello che comprende le persone che hanno ricevuto un’educazione analoga ed hanno un analogo modo di vivere o status sociale”.

Negli ordinamenti di Common law si erano registrati due approcci differenti per la definizione del fattore d’inclusione in esame. Il primo approccio, detto “delle caratteristiche protette” (e talvolta definito un approccio di “immutabilità”), considera se un gruppo è accomunato da una caratteristica immutabile o da una caratteristica che è talmente importante per la dignità umana che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. Una caratteristica immutabile può essere innata (ad esempio il sesso o l’appartenenza etnica) o per altri motivi inalterabile (come ad esempio il dato storico dell’appartenenza in passato ad un’associazione, ad una classe professionale o ad uno status particolare). Il secondo approccio considera se un gruppo condivide o meno una caratteristica comune che lo rende riconoscibile o lo contraddistingue dal resto della società. Questo è stato definito come l’approccio “della percezione sociale”.

Le discussioni sorte in merito all’applicazione di tale fattore di inclusione hanno portato all’elaborazione, da parte dell’Alto Commissariato, delle Linee Guida tematiche in materia di protezione internazionale e appartenenza ad un particolare gruppo sociale (2), ove, al punto 11, si afferma che: “è da considerarsi come un determinato gruppo sociale un gruppo di persone che condividono una caratteristica comune diversa dal rischio di essere perseguitati, o che sono percepite come un gruppo dalla società. Frequentemente la caratteristica in questione sarà una caratteristica innata, immutabile, o altrimenti d’importanza fondamentale per l’identità, la coscienza o l’esercizio dei diritti umani di una persona”.

La definizione appena indicata rivela come, nell’interpretazione dell’UNHCR, l’individuazione del membro di un particolare gruppo sociale può avvenire, in forza del criterio alternativo, sia sulla base delle caratteristiche protette, che della percezione sociale. Anche solo la presenza di uno dei due approcci, giustifica il riconoscimento dello status di rifugiato.

A diverse conclusioni è giunto, invece, il legislatore europeo, optando per un approccio cumulativo.

La Direttiva 2004/83/CE (Direttiva Qualifiche), in seguito rifusa nella Direttiva 2011/95/UE, all’art. 10, comma 1, lett. d), dispone che: “si considera che un gruppo costituisce un particolare gruppo sociale in particolare quando: i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, e tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante”. Nella definizione della Direttiva, pertanto, può essere riconosciuto come particolare gruppo sociale solo chi presenti entrambi i requisiti indicati dalla norma (le caratteristiche protette e la percezione sociale).

In attuazione dell’art. 3 della Direttiva – a norma del quale gli Stati membri hanno facoltà di introdurre misure più favorevoli – l’Italia (unitamente alla Gran Bretagna, Irlanda e Ungheria (3)) ha scelto l’approccio alternativo. L’art. 10, comma 1, lett. d) del d.lgs. 19.11.2007 n. 251, come modificato dal d.lgs. 21.2.2014 n. 18, dispone che: “particolare gruppo sociale”: è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l'identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un'identità distinta nel Paese di origine, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante.

In funzione della situazione nel Paese d'origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell'orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana. Ai fini della determinazione dell'appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell'individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l'identità di genere.

Tanto premesso in via generale, nelle pagine che seguono verranno esaminate le principali fattispecie nelle quali la giurisprudenza di merito ha riconosciuto lo status di rifugiato in presenza del fattore di inclusione oggetto del presente contributo.

2. Orientamento sessuale.

Il riconoscimento dello status di rifugiato in ragione della persecuzione subita o temuta a seguito del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere rappresenta un aspetto determinante della protezione internazionale dei rifugiati. Molte le decisioni di merito che, ritenute credibili le dichiarazioni dei ricorrenti in merito alla scoperta (o all’attribuzione) da parte delle autorità del proprio orientamento sessuale, hanno ritenuto fondato il timore di subire persecuzioni in ragione dell’esistenza di una legislazione che punisce un determinato orientamento sessuale (4).

Nell’esame di tali domande, la giurisprudenza parte della lettura delle Linee Guida n. 9 del 2012 dell’UNHCR (“Domande di riconoscimento dello status di rifugiato fondate sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere nell’ambito dell’articolo 1A (2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati”).

Tali linee guida muovono dall’assunto secondo il quale “molte persone nel mondo subiscono gravi abusi dei loro diritti umani e altre forme di persecuzione a causa del loro orientamento sessuale e/o della loro identità di genere, effettivi o percepiti che siano. È ampiamente documentato che ovunque nel mondo tra persone LGBTI vi siano vittime di omicidi, violenze perpetrate per motivi sessuali o legati al genere, aggressioni, tortura, detenzioni arbitrarie, accuse di comportamento immorale o deviante, diniego dei diritti di riunione, espressione e informazione, oltre che di discriminazioni in ambito professionale, sanitario ed educativo. In molti paesi il diritto penale contiene ancora disposizioni che puniscono severamente le relazioni consensuali tra persone dello stesso sesso, e alcune di queste norme prevedono incarcerazione, pene corporali e/o pena di morte”.

Nei decreti esaminati, pertanto, l’analisi muove dalla premessa che i richiedenti hanno diritto di vivere nella società per quello che sono e non devono nascondere la propria identità. L'orientamento sessuale e/o l'identità di genere sono aspetti fondamentali dell'identità umana che sono innati o immutabili, o che una persona non dovrebbe vedersi costretta ad abbandonare o a nascondere (5).

Poiché i diritti fondamentali e il principio di non discriminazione sono aspetti centrali della Convenzione di Ginevra del 1951 e del diritto internazionale dei rifugiati (6), la definizione di rifugiato deve essere interpretata e applicata tenendo in debita considerazione questi aspetti, ivi compreso il principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.

Molte delle decisioni fanno riferimento ai cd. Principi di Yogyakarta sull'applicazione del diritto internazionale dei diritti umani in relazione all'orientamento sessuale e all’identità di genere.

Si tratta di un documento (adottato nel 2007) che, sebbene non sia vincolante, riflette importanti principi consolidati del diritto internazionale (7) che stabiliscono il quadro della tutela dei diritti umani applicabile in relazione all’orientamento sessuale e/o all’identità di genere.

Il Principio 23, in particolare, sancisce il diritto di richiedere e di avvalersi della protezione internazionale dalla persecuzione perpetrata per motivi legati all’orientamento sessuale o all’identità di genere (8).

Ritenuta credibile la storia del ricorrente, nelle decisioni esaminate si sottolinea come la condizione di omosessuale passibile di persecuzione in virtù dell’orientamento sessuale nello stato di provenienza può indubbiamente costituire una situazione rilevante ai fini della protezione internazionale, come evidenziato dalla giurisprudenza comunitaria: invero, al fine del riconoscimento dello status di rifugiato politico “l'esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali persone devono essere considerate costituire un determinato gruppo sociale”. A ciò si aggiunga che “in sede di valutazione di una domanda diretta ad ottenere lo status di rifugiato, le autorità competenti non possono ragionevolmente attendersi che, per evitare il rischio di persecuzione, il richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d'origine o dia prova di riservatezza nell'esprimere il proprio orientamento sessuale.” (9)

Il Tribunale di Firenze - decreto del 4.3.2020 – ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino della Costa d’Avorio che aveva affermato di non essere omosessuale, ma di essere stato ritenuto tale in ragione della temporanea convivenza con un esponente in vista della comunità omosessuale e del suo lavoro alle sue dipendenze. Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che il solo fatto di essere ritenuto appartenente al gruppo di persone di orientamento omosessuale – a prescindere dal fatto che il ricorrente avesse precisato di essere eterosessuale - rendesse fondato il timore, sia da un punto di vista soggettivo che oggettivo, di subire atti persecutori per appartenenza al detto gruppo sociale.

Il Tribunale di Milano – decreto del 24.4.2020 - ha riconosciuto la protezione maggiore ad un cittadino nigeriano in ragione del suo fondato timore di essere perseguitato a causa del proprio orientamento sessuale. In particolare il ricorrente, dichiaratosi bisessuale, aveva riferito di essere riuscito a tenere nascoste per un certo periodo le proprie relazioni sentimentali, vietate in Nigeria, ma di essere stato scoperto nel 2016, di essere stato arrestato e poi rilasciato su cauzione.

A medesime conclusioni giunge il Tribunale di Bologna - decreto del 6.4.2022 - decidendo un ricorso proposto da un cittadino del Camerun, fuggito dal proprio paese d’origine perché accusato di aver compiuto “atti sessuali con una persona dello stesso sesso” ed ivi successivamente rimpatriato e poi incarcerato (fino alla successiva e nuova fuga). Con riferimento al rischio prognostico che il ricorrente, come tutte le persone LGBTIQ, correrebbe in caso di rientro in Camerun, il Collegio osserva come, alla luce delle numerose ed aggiornate fonti di informazioni consultate, non vi sia dubbio sul fatto che la legislazione camerunense sanzioni penalmente con pena detentiva l’omosessualità, sia sul fatto che tali sanzioni vengano effettivamente applicate, visto che la polizia indaga sui casi di omosessualità che vengono denunciati, con metodologie non conformi al rispetto dei diritti umani.

Tra le decisioni esaminate, di peculiare interesse quanto argomentato dal Tribunale di Napoli (10) in merito alla possibilità di ritenere integrata la fattispecie del particolare gruppo sociale – in favore di un ricorrente nigeriano il quale aveva riferito di aver preso consapevolezza del proprio orientamento sessuale nella preadolescenza -, pur non procedendo, però, al riconoscimento della protezione maggiore in ragione dell’esistenza di una clausola di esclusione (il ricorrente, infatti, aveva riferito di aver costretto il proprio fratellastro, dell’età di appena 6 anni, ad avere un rapporto sessuale). Ritenuta sussistente una condotta integrante un reato grave, quello di violenza sessuale – elemento rilevato d’ufficio - i giudici partenopei, sulla base delle aggiornate fonti di informazione in merito alla persecuzione per motivi di orientamento sessuale riservata in Nigeria agli omosessuali, hanno riconosciuto al ricorrente il diritto di non essere respinto in applicazione dell’art. 19, comma 1, t.u.i. e del generale principio di non refoulement e, di conseguenza, la protezione speciale.

3. Violenza di genere.

In via generale, non pare inutile ricordare che, come si legge nelle Linee Guida UNHCR n. 1 sulla persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati 7 maggio 2002 (11), “Non vi è dubbio che lo stupro e altre forme di violenza di genere, come le violenze legate alla dote, la mutilazione genitale femminile, la violenza domestica e la tratta, sono azioni che infliggono grave dolore e sofferenza – sia mentale che fisica – e che sono state utilizzate come forme di persecuzione, sia da parte degli Stati che di attori privati”.

Ancora, nelle Linee Guida dell’Alto Commissariato circa la possibilità di riconoscere lo status di rifugiato alle vittime di tratta, al punto 38 si legge: “Le donne costituiscono un esempio di un sottoinsieme sociale di individui che sono definiti da caratteristiche innate e immutabili e sono spesso trattate in modo diverso rispetto agli uomini. In questo senso esse possono essere considerate un particolare gruppo sociale”.

La Suprema Corte ha da tempo chiarito che la violenza di genere, al pari di quella contro l'infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del "fatto meramente privato", poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dall'art. 7, comma 2 del d. lgs. n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello "status" di rifugiato, sia con riferimento agli "atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale" (cfr. lett. a), che con riguardo, in generale, agli "atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia"(cfr. lett. f) (Sez. 1, n. 18803/2020, Oliva, Rv. 658815 – 01).

I giudici di legittimità hanno poi sottolineato come costituiscano atti di persecuzione basati sul genere le violenze subite da una donna per essersi rifiutata di prestare il consenso ad un matrimonio impostele nel paese di provenienza, ove emerga - attraverso l'acquisizione di informazioni specifiche ed aggiornate sulla condizione delle donne in quel paese - la certezza, la probabilità o anche solo il rischio per la richiedente di subire nuovamente atti di violenza nel caso di rientro, atteso che la coartazione al matrimonio, lungi dal poter essere considerata fatto di natura privata, è ascrivibile nell'ambito della violenza di genere così come riconosciuto, tra l'altro, dagli artt. 3, 37 e 60 della Convenzione di Istanbul del 2011, dalla Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne (CEDAW) del 1979 nonché dalle Linee guida dell'UNHCR sulla persecuzione basata sul genere e tenuto conto, peraltro, che l'appartenenza di genere deve essere considerata, in determinate condizioni, anche come riferibile "ad un particolare gruppo sociale" che può essere oggetto di persecuzione già ai sensi dell'art. 1 della Convenzione di Ginevra (Sez. 3, n.16172/2021, Di Florio, Rv. 661636-01).

Con specifico riferimento agli atti di mutilazione genitale femminile, la Suprema Corte (Sez. 3, n. 8980/2022, Travaglino, Rv. 664256-01) ha precisato che tali atti, rappresentando violazioni dei diritti delle donne alla non discriminazione, alla protezione dalla violenza sia fisica che psicologica, alla salute e financo alla vita, costituiscono atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale che giustificano il riconoscimento dello status di rifugiato.

Nello stesso senso era già orientata la giurisprudenza di merito che, in più occasioni, aveva riconosciuto la protezione maggiore a donne vittima di mutilazioni genitali. Interessante la decisione del Tribunale di Milano - decreto del 23-6-2021 - che ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna del Togo, che aveva dichiarato di non poter far ritorno nel paese d’origine per timore che le proprie figlie venissero costretta dalla famiglia paterna a subire una mutilazione genitale. Nella decisione in esame i giudici meneghini sottolineano come l’agire della ricorrente a protezione delle figlie, al fine di sottrarle alla violenza, oltre a costituire per lei un vero e proprio obbligo giuridico, persino penalmente rilevante, integra una condotta che la espone direttamente al pericolo di una possibile ed altamente probabile persecuzione.

Ancora, il Tribunale di Bologna - decreto del 7.10.2021 - dopo aver esaminato in modo specifico le numerose fonti di informazioni che danno atto della sottoposizione delle donne a rituali tradizionali dopo la morte del marito e dell’incapacità delle autorità statuali di offrire alcuna protezione, ha riconosciuto la protezione maggiore ad una donna nigeriana, vittima di una persecuzione personale e diretta per l'appartenenza a un gruppo sociale in quanto donna vedova, nella forma di “atti specificatamente diretti contro un genere sessuale” (art. 7, comma secondo, lett. f, d.lgs. 251/2007) da identificarsi chiaramente nei rituali di vedovanza e dalle conseguenze del suo esservi sottratta, specificatamente la minaccia grave di morte, l’allontanamento dalla abitazione, la privazione di tutte le proprietà e la vita nascosta per anni in un villaggio rurale.

3.1. Tratta delle donne a fini di sfruttamento sessuale.

Con riferimento alla tratta, la Corte di cassazione - Sez. 1, n. 00676/2022, Russo, Rv. 663487-01, dopo un’analitica ricostruzione normativa dell’istituto della tratta degli esseri umani, si è soffermata sulla tratta a scopo di prostituzione, precisando come la stessa “sia connotata da crimini quali il rapimento, la detenzione, lo stupro, la riduzione in schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, le percosse, la negazione di cure mediche, il sequestro dei documenti di identità e la limitazione di libertà personale, che costituiscono gravi atti di aggressione a diritti fondamentali della persona”. Inoltre, ha precisato la Suprema Corte, essa, in genere, “si fonda sull'approfittamento di una particolare condizione di debolezza in cui si trovano le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, e pertanto questi atti possono qualificarsi come atti persecutori ai sensi dell'art. 8 lett. d) del d.lgs. n. 251 del 2007 in quanto riconducibili alla appartenenza ad un “particolare gruppo sociale” costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata e cioè, in questo caso, l'appartenenza al genere femminile”. Con specifico riferimento alla forma di protezione accordabile, nella pronuncia in esame, ci si è soffermati sulle differenze tra la protezione maggiore e la protezione sussidiaria per chiarire che, se la persona già vittima di tratta rischia, in caso di rimpatrio, di essere sottoposta ad atti di grave aggressione alla sua incolumità psicofisica, alla libertà e dignità, fondati sulla appartenenza al genere femminile, e tra essi il rischio di essere nuovamente sottoposta a tratta, o di essere gravemente discriminata dal contesto sociale, o sottoposta a vessazioni per la particolare vulnerabilità conseguente alla tratta, deve concludersi che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e non della protezione sussidiaria.

Il Tribunale di Genova - decreto del 21.2.2022 - ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina nigeriana, nata e cresciuta a Benin City, in ragione dell’appartenenza della stessa al particolare gruppo sociale delle donne vittime di tratta a fini sessuali. Rilevante quanto osservato dal Tribunale in merito alla possibilità di ravvisare un rischio in caso di rimpatrio, anche ove l’esperienza di tratta della richiedente possa ritenersi conclusa in ragione del pericolo di ritorsioni (ai danni della ricorrente e dei di lei familiari) o di nuove esperienze di sfruttamento, desunta dall’inefficiente tutela fornita dallo Stato di provenienza nonché dalla pessima condizione sociale della donna in Nigeria.

Ancora il Tribunale di Genova - decreto del 3.4.2022 - dopo aver ribadito come le donne costituiscano un esempio di un sottoinsieme sociale di individui che sono definiti da caratteristiche innate e immutabili e sono spesso trattate in modo diverso rispetto agli uomini (e possono, pertanto, in questo senso, essere considerate un particolare gruppo sociale) si è soffermato sulla rilevanza degli indicatori di tratta. Di particolare rilievo quanto osservato in merito al fatto che la stessa reticenza con cui la donna aveva riferito di non essere attualmente più a rischio di sfruttamento di induzione alla prostituzione e di non essere in pericolo, deve essere considerata non tanto come una contraddizione a pregiudizio della sua credibilità quanto piuttosto un rilevante indicatore della sua attuale e persistente condizione di vittima di tratta degli esseri umani, in quanto ancora assoggettata al controllo ed alla volontà di persone terze. Sulla rilevanza degli indicatori di tratta, alla luce delle linee guida per le Commissioni Territoriali per l’identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR, in collaborazione con la Commissione Nazionale per il diritto d’Asilo, si soffermano anche il Tribunale di Venezia, con decreto del 17.2.2022 ed il Tribunale di Catania, con decreto del 31.1.2022.

Con decreto dell’8.4.2022, il Tribunale di Napoli ha riconosciuto la protezione maggiore ad una donna nigeriana (costretta a prostituirsi in una connection house in Libia), ravvisando nel racconto della stessa (la quale aveva riferito di aver lasciato il paese d’origine per paura di subire la vendetta dei membri della società segreta degli Ogboni) numerosi indicatori di tratta, alla luce delle Linee guida UNHCR: la provenienza dal Delta State, il fatto di non aver pagato il viaggio verso la Libia, prima, e verso l’Italia, poi, la figura della persona che la avrebbe aiutata a fuggire; i riferimenti ai riti jujù, le dichiarazioni poco precise in merito alle tappe del viaggio, l’incontro con i misteriosi “benefattori”.

Il Tribunale di Roma - decreto del 29.9.2022 - si sofferma sul rischio che in caso di rimpatrio affronterebbe una giovane donna nigeriana, vittima di tratta a fini sessuali. In particolare, i giudici capitolini sottolineano che, nonostante dalle dichiarazioni della ricorrente si possa ritenere che il tentativo di sfruttamento in Italia non si sia concretamente realizzato (in ragione dell’assenza di contatti con le persone che avrebbero potuto inserirla nel circuito della prostituzione una volta giunta nel paese di destinazione), in ragione del profilo e del vissuto della ricorrente (descritta come “molto giovane e senza veri strumenti “culturali” a propria difesa”), si possa ravvisare un fondato rischio in caso di rimpatrio, con particolare riferimento ad una condizione di emarginazione ed alla possibilità di essere costretta ad un matrimonio forzato.

3.2. Violenza domestica.

La Suprema Corte (Sez. 1, n. 28152/2017, Acierno, Rv. 649254-01) ha da tempo affermato che costituiscono atti di persecuzione basati sul genere, ex art. 7 d. lgs. 251/2007, rientranti nel concetto di violenza domestica, di cui all'art. 3 della Convenzione di Istanbul dell'11.5.2011, le limitazioni al godimento dei propri diritti umani fondamentali attuate ai danni di una donna, di religione cristiana, a causa del suo rifiuto di attenersi alla consuetudine religiosa locale - secondo la quale la stessa, rimasta vedova, era obbligata a sposare il fratello del marito - anche se le autorità tribali del luogo alle quali si era rivolta, nella perdurante persecuzione da parte del cognato, che continuava a reclamarla in moglie, le avevano consentito di sottrarsi al matrimonio forzato, ma a condizione che si allontanasse dal villaggio, abbandonando i propri figli ed i suoi beni. Come precisato dalla Suprema Corte, tali atti, ex art. 5 lettera c) del d.lgs. n. 251 del 2007, integrano i presupposti della persecuzione ex art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007 anche se posti in essere da autorità non statali, se, come nella specie, le autorità statali non le contrastano o non forniscono protezione, in quanto frutto di regole consuetudinarie locali.

In materia di violenza domestica si è pronunciato il Tribunale di Milano, con decreto del 15.7.2020, che – esaminando la domanda di protezione spiegata da una donna originaria delle Filippine ed espatriata per sfuggire agli abusi perpetrati ai danni della stessa e del figlio da parte del marito – ha riconosciuto alla ricorrente lo status di rifugiato per appartenenza al gruppo sociale delle donne vittime di violenza. Di particolare interesse il richiamo sia ai principi della “Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”, (c.d. Convenzione di Istanbul) sia alla definizione di “violenza basata sul genere” fornita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). In virtù della predetta definizione, i giudici milanesi hanno sottolineato che violenza comprende, sia abusi fisici, sessuali e psicologici all’interno del nucleo familiare, o all’interno della comunità nel suo complesso, ovvero perpetrati e giustificati da parte dello Stato e delle istituzioni, sia il traffico delle donne, delle ragazze e la prostituzione forzata, il mancato accesso a risorse economiche o mezzi di sussistenza, opportunità, istruzione, salute o altri servizi sociali. Merita, infine, rilevare come il Collegio abbia ritenuto la donna meritevole di essere riconosciuta come rifugiata alla luce delle fonti sul paese di origine che ben descrivono sia la diffusione del fenomeno della violenza familiare nelle Filippine, sia la mancanza di volontà e/o capacità da parte dello Stato e degli altri soggetti preposti alla protezione, secondo la disciplina normativa di cui al d.lgs. n. 251 del 2007, art. 6, di tutelare le donne ed i minori, vittime di tale reato.

Il Tribunale di Trento, con decreto del 31.8.2022, ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina del Marocco fuggita dopo aver subito ripetute violenze dapprima per mano della famiglia d’origine e, in seguito, da parte del marito (il quale usava violenza anche nei confronti dei loro tre figli). Nella decisione in esame, il Collegio sottolinea come la ricorrente, in caso di rimpatrio, andrebbe pertanto incontro ad una situazione complessiva di rischio persecutorio inteso come condizione di estrema e totalizzante fragilità, impossibilità di ricostruirsi una vita e di condurre una vita dignitosa, in assenza di una rete di riferimento ed anzi dovendo affrontare l’ostilità della famiglia di origine e le minacce della famiglia del marito. In un simile contesto di vita è possibile affermare che, secondo un giudizio prognostico, la ricorrente potrebbe trovarsi in una condizione di privazione di mezzi di sussistenza, mancanza di opportunità di accesso ai servizi di base e conseguente fragilità e isolamento. In forza di tali elementi, i giudici trentini applicano il ragionamento relativo alle cosiddette compelling reasons, formulato dall’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati, secondo cui ci sono circostanze in cui, per ragioni di straordinaria gravità e nei casi di terribile persecuzione subita o conseguenti durevoli effetti psicologici e traumatici della stessa, sia la stessa persecuzione passata a fondare il presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale.

3.3. Matrimoni forzati.

Il Tribunale di Bologna, con decreto del 28.4.2022, ha riconosciuto la protezione maggiore ad una donna nigeriana vittima di stupro infantile, la quale aveva dovuto affrontare una gravidanza forzata infantile, il tentato matrimonio forzato infantile e da adulta, gli stupri e la prostituzione in Libia. Tali condotte, ad avviso dei giudici bolognesi, rappresentano comportamenti connotati da una pervasività tale di impedire alla ricorrente di poter vivere liberamente, integrando forme di persecuzione nel senso di violazioni di diritti umani fondamentali.

Con decreto del 24.3.2022 il Tribunale di Napoli - nell’esaminare la domanda spiegata da una giovane donna nigeriana che, all’età di 16 anni era stata costretta dalla famiglia d’origine ad andare a vivere con un uomo di circa 60 anni, che l’aveva tenuta segregata all’interno dell’abitazione - ha precisato che il matrimonio forzato (peraltro ai danni di una minorenne) rientra nel concetto di grave atto di violenza fisica e psichica, di cui all’art. 7 lett. A) d.lgs. 251/07 e che la ricorrente, in quanto giovane donna sola, priva di adeguata istruzione, in una società come quella nigeriana in cui la violenza sulle donne, alla luce delle aggiornate fonti di informazione consultate dal Tribunale, è considerata accettabile, può considerarsi appartenente ad uno specifico gruppo sociale, come richiesto dagli artt. 7 e 8 d.lgs. n. 251/2007.

3.4. Donne vittime di violenza di genere in condizione di conflitto armato (in Ucraina).

Le citate linee guida dell’UNHCR n. 1 (Linee Guida sulla Protezione Internazionale n. 1, La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 2002), la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne (CEDAW Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women New York, 18 December 1979) (12) e la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica (13) Council of Europe Convention on preventing and combating violence against women and domestic violence Istanbul, 11.V.2011 https://rm.coe.int/168008482e, consentono di affermare, ad avviso del Tribunale di Genova (decreto del 15.10.2022) che i pericoli in cui incorrono le donne in Ucraina nell’attuale condizione di conflitto armato debbano essere classificati come violenza di genere.

In particolare, nell’esaminare la domanda di protezione spiegata da una cittadina ucraina che aveva lasciato il proprio paese d’origine a causa della crisi economica che non le consentiva di disporre di uno stipendio sufficiente a far fronte ai bisogni della propria famiglia, i giudici genovesi, dopo un accurato esame di tutte le fonti (che rivelano un quadro tragico della violazione dei diritti umani a danno del genere femminile), hanno affermato che la richiedente, in caso di rientro in Ucraina, sarebbe esposta non solo ad una situazione di conflitto generalizzato e violenza indiscriminata, allo stato sussistenti nel Paese, ma anche ad uno specifico rischio legato all’appartenenza di genere di essere sottoposta a violenze, stupri e trattamenti inumani e degradanti, qualificabili come atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

4. Soggetti vulnerabili.

L’esame degli arresti della giurisprudenza di merito relativa al particolare gruppo sociale rivela come, in presenza di determinate caratteristiche (e fatta salva la sussistenza degli altri requisiti previsti dalle norme sopra citate), la vulnerabilità dei richiedenti, perché minori (ad esempio, i minori orfani) o affetti da disabilità psichica, può giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato.

4.1. Persone con disabilità e malattie, fisiche o psichiche.

La Suprema Corte (Sez. 1, n. 13400/2022, Acierno, Rv. 664761 - 01) ha recentemente affermato che “la condizione di vulnerabilità idonea a sorreggere il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, può essere fondata sull'allegazione di una situazione di disabilità fisica o psichica generatrice, nel paese di origine, di un trattamento discriminatorio, pur non derivante da atti o comportamenti statuali, dovuto ad emarginazione sociale e relazionale, secondo un modello culturale diffuso e non contrastato, tale da integrare una grave violazione dei diritti umani così come garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione e dall'art. 1 e seguenti della Convenzione ONU, fatta a new York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con 1. n. 19 del 2009". Nella pronuncia in esame, la S.C. ha osservato che “la grave violazione dei diritti umani deriva dal quadro costituzionale e convenzionale univocamente rivolto a eliminare le discriminazioni per ragioni di disabilità fisica o psichica. Oltre agli artt. 2 e 3 Cost. (che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo), deve rilevarsi l'adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con la legge n. 19 del 2009, con la quale gli Stati, all'art. 1, si impegnano “a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone affette da disabilità, ed a promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità, attraverso l'adozione di misure volte a scongiurare il rischio di qualsivoglia discriminazione sulla base della loro particolare condizione”.

Il Tribunale di Firenze, con decreto del 2.11.2022, ha riconosciuto la protezione maggiore ad un cittadino della Nigeria affetto da psicosi cronica. Nella decisione in esame i giudici fiorentini hanno sottolineato come, alla luce delle aggiornate e pertinenti fonti d’informazione consultate, si possa ritenere che le persone con malattie mentali, in Nigeria, subiscano gravi violazioni dei diritti umani, possano essere incatenate, picchiate e incarcerate senza motivo e subire abusi fisici e come, pertanto, i trattamenti che il ricorrente subirebbe, nel paese d’origine, per la sua condizione soggettiva e per l’appartenenza al gruppo sociale delle persone con patologie psichiatriche integrino gli atti persecutori previsti dall’art. 7 del d.lgs. 251/2007.

Ad un cittadino del Ghana affetto da una malformazione ai piedi causata dalla ecterodattilia – il quale aveva riferito, con dichiarazioni ritenute credibili dal Collegio, di essere stato oggetto di scherno e derisione a causa della sua condizione fisica e di non aver trovato protezione dalle autorità statali - il Tribunale di Milano, con decreto del 30.9.2020 – dopo un’attenta analisi delle informazioni sul paese d’origine che confermano come la disabilità, in Ghana, sia oggetto di stereotipi che portano le persone disabili ad essere discriminate ed escluse dalla società - ha riconosciuto lo status di rifugiato. Particolarmente interessanti le considerazioni dei giudici meneghini relative agli elementi necessari per la qualificazione del particolare gruppo sociale, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia europea (cause riunite da C-199/12 a C-201/12) X, Y and Z v. Minister voor Immigratie en Asiel del 7 novembre 2013), nella quale si sottolinea come al richiedente non possa essere chiesto di nascondere la caratteristica fondante il gruppo sociale al fine di evitare la persecuzione.

La condizione di grave epilessia che ha colpito un cittadino del Mali, esaminata alla luce delle fonti internazionali aggiornate e pertinenti – che dimostrano come il ricorrente rischi concretamente di essere sottoposto ai trattamenti tali da incidere fortemente sulle sue concrete condizioni di vita e da impedirgli l’accesso ai servizi sanitari e assistenziali, al lavoro, ad una vita dignitosa nonché all’esercizio dei diritti civili e politici – fonda il riconoscimento dello status di rifugiato (Tribunale di Milano, 5.2.2020). Il collegio ha valutato come in Mali le persone affette da epilessia siano discriminate e stigmatizzate perché percepite come vittime di stregoneria e come le conseguenze inevitabili siano l’isolamento e la stigmatizzazione nonché l’impossibilità di ricevere cure adeguate che consentano di limitare gli effetti negativi della malattia.

Il Tribunale di Napoli, con decreto del 25.5.2022, pronunciandosi sul ricorso proposto da una donna nigeriana (vittima di tratta a fini sessuali e sfruttamento della prostituzione), ha ritenuto che la condizione di salute che accomuna tutti i malati di HIV possa costituire un particolare gruppo sociale. All’esito di un accurato ed attento esame delle più aggiornate fonti di informazione sul paese d’origine, i giudici partenopei hanno sottolineato come il complesso di discriminazioni poste in essere dalla società nigeriana nei confronti dei malati di HIV, non contrastate dalle autorità statali, produca l’effetto di una persecuzione e giustifichi il riconoscimento dello status di rifugiato. Ancora con riferimento al particolare gruppo sociale costituito dai malati di HIV si è pronunciato il Tribunale di Salerno che, con decreto del 20.4.2022, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino ucraino, proveniente dalla regione di Leopoli, affetto dalla predetta patologia (nonché tossicodipendente). Nella decisione in esame - particolarmente interessante anche per quanto riguarda la qualificazione della domanda (nella quale il ricorrente si era limitato a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari) ed alla scelta della forma di protezione maggiore da parte del Collegio – è stato ravvisato il timore di subire persecuzioni, in ragione delle gravi condizioni di salute, all’esito dell’esame di fonti aggiornate che rivelano come le persone sieropositive, e le persone tossicodipendenti continuino a subire stigma e discriminazione, che si possono esplicare anche nella frapposizione, da parte del personale sanitario o delle forze dell’ordine, di ostacoli all’accesso alle cure o di un rifiuto di fornire alle persone appartenenti a tali gruppi sociali le necessarie cure mediche.

4.2. Bambini soldato.

Il Tribunale di Milano, con decreto del 20.1.2021, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un giovane del Mali – il quale ha riferito di essere stato rapito, quando aveva quattordici anni, in un primo tempo dai ribelli, di essere stato, subito dopo, catturato dall’esercito maliano e considerato un bambino-soldato e, infine, di essere caduto nuovamente nelle mani dei jihadisti e sottoposto non solo a torture, ma anche ad un addestramento finalizzato ad un probabile coinvolgimento nelle ostilità contro lo Stato del Mali - per l’appartenenza al gruppo sociale degli ex bambini soldati. Nel decreto in esame, merita particolare attenzione la qualificazione dei bambini soldato come particolare gruppo sociale: ad avviso del Tribunale sebbene l’età non costituisca una caratteristica né innata né permanente poiché cambia continuamente, essere un bambino rappresenta comunque una caratteristica immutabile in un dato momento, atteso che un “bambino è chiaramente incapace di dissociarsi dalla propria età per evitare la persecuzione temuta”. Di peculiare interesse quanto sottolineato dai giudici meneghini in merito alla violazione delle garanzie procedurali.

Ad avviso del Tribunale, tale violazione, che si è sostanziata nella audizione condotta a distanza di oltre un anno dall’ingresso del ricorrente in Italia da minorenne non accompagnato, si è necessariamente riverberata sulla assenza di quelle tutele previste dall’art. 25 della Direttiva 2013/32/UE (quali, principalmente la presenza di un tutore e delle garanzie informative correlate all’audizione, finalizzate ad un corretto espletamento, ad un completa comprensione da parte del richiedente delle conseguenze della audizione e dei suoi contenuti). Nel decreto in esame, il Tribunale di Milano ha ritenuto che il recupero delle garanzie nella fase giurisdizionale si dovesse tradurre anche attraverso una diversa valutazione dei fatti rilevanti (fatti raccolti, appunto, senza il rispetto delle garanzie previste a tutela dei minori).

4.3. Bambini orfani.

L’appartenenza al particolare gruppo sociale dei bambini orfani giustifica, ad avviso del Tribunale di Torino – decreto del 13.5.2022 (4) – il riconoscimento dello status di rifugiato in favore di un giovane cittadino della Guinea. Nel caso portato all’attenzione dei giudici torinesi il ricorrente, rimasto orfano in tenera età, ha riferito di aver subito, numerose, reiterate e persistenti forme di maltrattamenti poste in essere nei suoi confronti da parte degli zii paterni che, come risulta dai certificati medici prodotti, avevano lasciato “traumi e risvolti psicologici”. Con riferimento al rischio in caso di rimpatrio, nella decisione in esame è stato osservato che, nonostante il raggiungimento della maggiore età, il ricorrente, trovandosi in una condizione di estrema vulnerabilità sia psicologica che sociale, rischierebbe di subire nuovamente forme di punizione, emarginazione, ritorsione, aggravate dal danno già sofferto in precedenza (quest’ultimo da valutare quali “motivi imperativi derivanti da precedenti persecuzioni”, alla luce delle Linee guida dell’UNHCR).

4.4. Bambini orfani dell’area subsahariana e vittime di tratta nel settore del calcio.

Il Tribunale di Trieste, con decreto del 17.6.2022, decidendo sul ricorso proposto da un giovane cittadino del Ghana – orfano, cresciuto in un orfanotrofio e, sin dall’età di 14 anni, costretto a giocare in diverse squadre di calcio, senza mai essere retribuito - , ha affermato che il ricorrente possa ritenersi appartenente al gruppo sociale degli orfani dell’area subsahariana, ridotti in forma di vera e propria schiavitù: egli, infatti, per la sua storia immutabile, appartiene alla categoria dei soggetti fortemente vulnerabili, facilmente “soggiogabile” al fenomeno della tratta dei calciatori e, proprio in ragione di tale vulnerabilità, incapace di uscire dalla situazione di schiavitù per propria scelta e senza possibilità di ricevere protezione dallo Stato che, secondo le fonti consultate dal Collegio, non è in grado di governare ed eradicare il fenomeno della tratta. Nella decisione in esame, i giudici triestini hanno sottolineato come il ricorrente sia stato sottoposto ad una vera e propria forma di schiavitù lavorativa, posta in essere mediante lo sfruttamento della particolare condizione di debolezza in cui si trovava al momento del “reclutamento”, a motivo del suo essere minore d’età e orfano e, pertanto, privo di qualsivoglia rete familiare o sociale di riferimento, che l’ha portato ad essere sostanzialmente soggiogato alla società sportiva che lo aveva reclutato. Molto articolata la ricostruzione delle fonti d’informazione dalle quali emerge che nella tratta nel settore del calcio, ossia lo sfruttamento di giovani calciatori nei paesi in via di sviluppo, che vengono, in particolare, dal Sud America e dall'Africa verso l'Europa e l'Asia, è diffusa la prassi di utilizzare mezzi di coercizione e pratiche ingannevoli per commettere "l'atto" della tratta e trasportare i minori dall'Africa subsahariana all'Europa per "scopi" di sfruttamento e guadagno finanziario. Il Collegio ha, inoltre, osservato come, in generale, la tratta lavorativa, nella specifica forma di sfruttamento calcistico che rileva nel caso di specie, è generalmente connotata da crimini quali la riduzione in schiavitù, le percosse, il sequestro dei documenti d’identità e la limitazione della libertà personale e si fonda, in genere, sull’approfittamento di una particolare condizione di debolezza in cui si trovano i bambini dell’area subsahariana provenienti da famiglie povere o, come nel caso di specie, che siano orfani. Proprio per la specificità del tipo di tratta cui è stato sottoposto il ricorrente, il Collegio ha ritenuto che essa presenti un evidente nesso di causa con la sua appartenenza al “determinato gruppo sociale” degli orfani ghanesi e giustifichi, pertanto, il riconoscimento della protezione maggiore.

5. Persone ridotte in condizioni di schiavitù.

Il Tribunale di Milano, con decreto del 7.7.2021, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Mali che era stato trattato per tutta la vita come schiavo dall’intero villaggio (analogo destino aveva coinvolto anche tutta la sua famiglia, da epoca antecedente alla sua nascita). Nella decisione in esame il Tribunale, dopo aver premesso la distinzione tra “classe sociale” (concetto definito o da una caratteristica non alterabile o da una mutabile caratteristica fondamentale che nessuno dovrebbe essere costretto ad abbandonare pena la violazione della dignità umana e dei diritti umani) e “particolare gruppo sociale”, ha sottolineato come il ricorrente presenti tutte le caratteristiche per poter essere definito membro di un particolare gruppo sociale: egli, infatti, proviene da un’area dove persone della sua stessa etnia sono nate schiave (come confermato dalle pertinenti ed aggiornate COI consultate dal Collegio); la condizione di schiavitù che connota la famiglia del ricorrente descrive una “caratteristica innata condivisa o una storia comune che non può essere mutata”. In forza di tali elementi, i giudici meneghini hanno ritenuto che la condizione di schiavitù che connota la famiglia del ricorrente assurga a caratteristica che non può essere mutata e possa, pertanto, essere riconducibile, nel caso concreto, alla definizione di particolare gruppo sociale.

  • adozione di minore
  • Corte di giustizia dell'Unione europea
  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • procreazione artificiale
  • adozione internazionale

APPROFONDIMENTO TEMATICO

NUOVI MODELLI GENITORIALI

(di Martina Flamini )

Sommario

1 Premesse generali. - 2 L’interesse superiore del minore. - 3 La genitorialità omoaffettiva e l’interesse alla continuità dello status del minore. - 3.1 Nato in Italia. - 3.2 Nato all’estero. - 4 Pluralità dei modelli di genitorialità adottiva. - 4.1 L’adozione in casi particolari. - 4.2 Coppia omogenitoriale femminile e adozione in casi particolari. - 4.3 L’adozione legittimante e il diritto del minore a non veder recisi i legami con il nucleo familiare d’origine. - 5 I bambini nati da tecniche di gestazione per altri. - 5.1 La giurisprudenza di legittimità. - 5.2 La giurisprudenza costituzionale. - 5.3 La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. - 5.4 La giurisprudenza della Corte di Giustizia. - 5.5 La sentenza delle Sezioni Unite n. 38162 del 2022. - 6 Questioni aperte.

1. Premesse generali.

La definizione di “famiglia” ha, da sempre, rappresentato una questione molto controversa. Come osservato da tempo da attenta dottrina (1), “occorre prendere atto che la Costituzione del 1948, per la prima volta nella storia del diritto italiano della famiglia, si è cimentata con la messa a punto di quella formula necessariamente compromissoria, nella delineazione di un modello di famiglia”.

La previsione dell’art. 29 della Cost., in forza della quale la famiglia è “fondata sul matrimonio” non preclude in alcun modo la possibilità di riconoscere analoghi diritti anche a diverse “società naturali” diversamente conformate, così come risulta dal disposto dell’art. 30 della Cost. (laddove si garantisce il diritto al mantenimento, all’istruzione e all’educazione anche ai figli nati fuori dal matrimonio), ma anche dalle disposizioni sul riconoscimento delle unioni civili e dalla previsione della possibilità di adottare per le persone non coniugate (art. 44, comma 3, della l. n. 184 del 1983).

La natura “necessariamente compromissoria” della definizione di famiglia contenuta nella Costituzione e l’evoluzione della realtà sociale - nella quale, come chiarito dalla Suprema Corte, la “genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia” (Cass. Sez. I, n. 13000 del 15.5.2019) - chiedono all’interprete di trovare soluzioni che, nel rispetto dei principi costituzionali e sovranazionali, siano idonee a fornire una tutela effettiva ai diritti fondamentali invocati, primo fra i quali, il “diritto allo status” ricondotto dalla Corte costituzionale al novero dei diritti costituzionali protetti dall’art. 2 della Costituzione (Corte Cost. n. 494 del 2002).

Nel presente contributo ci si soffermerà esclusivamente sulla relazione familiare genitore-figli e sulle esigenze di tutela dei minori poste dalle nuove forme di genitorialità, non potendo trattare, invece, le diverse questioni relative alla pluralità dei “modelli” di convivenza ed all’ampio ruolo ricoperto dalla libertà delle parti nella scelta degli stessi.

2. L’interesse superiore del minore.

L’esame delle risposte fornite dalla giurisprudenza alle domande di giustizia spiegate dai minori nati in modelli familiari diversi da quelli fondati sul matrimonio non può prescindere da alcune brevi considerazioni preliminari relative alla peculiare natura delle decisioni cui il giudice è chiamato quando rileva l’interesse del minore.

Attenta dottrina(2) ha osservato come, a differenza della quasi totalità delle decisioni che competono al giudice civile (chiamato a dirimere una lite, attraverso la valutazione di fatti già accaduti), nelle decisioni in cui rileva l’interesse del minore, il giudice è chiamato a decidere, pur tenendo conto degli eventi passati, scegliendo la soluzione migliore in futuro per un determinato minore. Già solo da questa preliminare considerazione, emerge in modo chiaro la natura “inafferrabile”, “incerta”, “indeterminata” di tale clausola generale, che dà, però, un’indicazione di principio: qualsiasi decisione o azione che riguardi una persona minore di età deve essere orientata a perseguire principalmente il suo benessere. La stessa dottrina ha poi messo in evidenza la molteplicità di significati racchiusi nell’espressione “interesse del minore” (che consente, a volte, al giudice di decidere un singolo caso concreto in modo difforme dalle regole legislative e dai precedenti giudiziali, mentre, in altri, rappresenta il fondamento giustificativo dell’esistenza di una norma di legge la cui applicazione è proclamata come strumento di protezione dell’interesse dei minori) richiamando l’interprete sulla necessità di comprendere il rapporto che esiste tra interesse del minore e diritti fondamentali dei minori.

Con riferimento all’ “interesse del minore”, il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’ “interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore, secondo le formule utilizzate nelle rispettive versioni ufficiali in lingua inglese e francese, nasce nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959, e di qui confluito – tra l’altro – nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e nell’art. 24, comma 2, CDFUE, per essere assunto altresì quale contenuto implicito del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 della CEDU dalla stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Grande Camera, sentenza 6 luglio 2010, Neulinger e Shuruk contro Svizzera, paragrafi da 49 a 56 e 135; Grande Camera, sentenza 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 96; sezione terza, sentenza 19 settembre 2000, Gnahoré contro Francia, paragrafo 59). Nel diritto interno rileva la Costituzione (che riconosce al figlio il diritto di crescere in un contesto familiare sano), ma anche le numerose riforme del diritto di famiglia, orientate a garantire l’interesse del figlio (l. n. 151 del 1975; l. n. 184 del 1983; l. n. 219 del 2012; l. n. 173 del 2015) nonché il disposto dell’art. 33, commi 1 e 2, della l. n. 218 del 1995 in forza del quale, nella determinazione dello status di figlio, si deve applicare la legge ad egli “più favorevole” tra quella sua nazionale e quella in cui è cittadino uno dei genitori.

Tanto premesso, passando dal piano della clausola generale interpretativa (dell’interesse del minore) al contenuto della situazione giuridica da proteggere (il diritto del minore e, in particolare, il diritto alla sua identità) – per quel che rileva ai fini del presente contributo - si osserva come attenta dottrina (3) lo abbia riassuntivamente descritto come “il diritto primario a che ogni adulto, che abbia qualche genere di responsabilità verso di lui, agisca nel suo specifico e individuale interesse, cioè si adoperi per porre in essere le condizioni necessarie a garantirgli la salute fisica e mentale, la sicurezza materiale, un insieme di relazioni interpersonali stabili e non superficiali, un’adeguata assistenza a sviluppare le sue capacità, un ragionevole grado di libertà e di autodeterminazione, crescenti con l’età, per seguire le sue inclinazioni naturali e le sue aspirazioni”.

In particolare, in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU, la l. n. 173 del 2015, n. 173 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare) ha valorizzato l’interesse del minore alla conservazione di legami affettivi che sicuramente prescindono da quelli di sangue, attraverso l’attribuzione di rilievo giuridico ai rapporti di fatto instaurati tra il minore dichiarato adottabile e la famiglia affidataria. Come già osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 272 del 2017, “il distacco tra identità genetica e identità legale è alla base proprio della disciplina dell’adozione (legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Diritto del minore ad una famiglia”), quale espressione di un principio di responsabilità di chi sceglie di essere genitore, facendo sorgere il legittimo affidamento sulla continuità della relazione”.

Nella successiva sentenza n. 102 del 2020, la Corte costituzionale ha poi chiarito che: “Tale principio – già declinato da questa Corte, con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata “la soluzione ottimale “in concreto” per l'interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”” (sentenza n. 11 del 1981) – è stato, peraltro, già considerato da plurime pronunce di questa Corte come incorporato altresì nell’ambito di applicazione dell’art. 31 Cost. (sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014), il cui contenuto appare dunque arricchito e completato da tale indicazione proveniente dal diritto internazionale (sentenza n. 187 del 2019)”.

La pronuncia, con riferimento al diritto del minore di mantenere un rapporto con entrambi i genitori, ha precisato che “tale diritto – riconosciuto oggi, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 315 bis, primo e secondo comma, cod. civ., ove si sancisce il diritto del minore a essere “educato, istruito e assistito moralmente” dai genitori, nonché dall’art. 337-ter, primo comma, cod. civ., ove si riconosce il suo diritto di “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori” e “di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi” – è affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali e dell’Unione europea, al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato” (art. 8, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo; il successivo art. 9, commi 1 e 3; art. 24, comma 3, CDFUE).

La recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 38162/2022 - chiamata a decidere in merito alla richiesta di trascrizione di un provvedimento della Corte suprema della British Columbia che aveva indicato, quali genitore di un minore nato da surrogazione di maternità, sia il genitore biologico che il genitore d’intenzione – ha ribadito come l’interesse del minore, pur non potendo rappresentare un diritto tiranno rispetto alle altre situazioni soggettive costituzionalmente riconosciute o protette, “ha un ruolo centrale e preminente”.

E la stessa Corte EDU, in sede di interpretazione dell’art. 8 CEDU, ha riconosciuto il diritto di ciascun genitore e del minore a godere di una “mutua relazione” (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 202; sezione prima, sentenza 28 aprile 2016, Cincimino contro Italia, paragrafo 62; Grande Camera, sentenza 12 luglio 2001, K. e T. contro Finlandia, paragrafo 151; Grande Camera, sentenza 13 luglio 2000, Elsholz contro Germania, paragrafo 43; sezione terza, sentenza 7 agosto 1996, Johansen contro Norvegia, paragrafo 52).

La Corte costituzionale, sin dal 1987, ha ricondotto il principio in parola all’art. 30 della Costituzione, affermando la necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata “la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”” (sentenza n. 11 del 1981). Più di recente, il Giudice delle leggi ha poi riaffermato il principio riconducendolo all’ambito di tutela dell’art. 31 Cost. (sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014) e dell’art. 30 Cost. (sentenza n. 33 del 2021).

Indicazioni decisive sul contenuto dei “diritti fondamentali dei minori” si ricavano anche dalla lettura delle più recenti decisioni del giudice delle leggi. Nella sentenza n. 32 del 2021 la Corte espressamente riconosce che: “la tutela del preminente interesse del minore comprende la garanzia del suo diritto all’identità affettiva, relazionale, sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e sul loro riconoscimento giuridico” e che siffatti “diritti concretamente azionabili [...] si traducono in altrettanti obblighi degli Stati a intervenire se la tutela non è effettiva” (§ 2.4.1.2). Nella sentenza n. 33 del 2021 la Corte costituzionale sottolinea che “l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”. I legami di cui sopra costituiscono per la Corte “parte integrante della stessa identità del bambino [...] che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost.”

3. La genitorialità omoaffettiva e l’interesse alla continuità dello status del minore.

In via generale, non può non richiamarsi il principio generale di cui alla l. n. 219 del 2012 che, nell’introdurre il concetto di status unitario di figlio, ha stabilito come regola generale, per tutte le ipotesi di filiazione, l’esistenza di un patrimonio comune di situazioni, diritti e prospettive che formano un identico status di figlio giuridicamente rilevante, che prescinde dall’orientamento sessuale dei genitori (4).

L’ininfluenza dell’orientamento sessuale nelle controversie riguardanti l’affidamento dei minori e la responsabilità genitoriale all’interno del conflitto familiare costituiscono un approdo fermo nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 601 del 2013), così come per l’accesso all’adozione non legittimante delle coppie omoaffettive (Cass. 12962 del 2016). Una più recente conferma è contenuta nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019 che, pur affermando la contrarietà ai principi fondamentali che compongono l’ordine pubblico della genitorialità formatasi per effetto della surrogazione di maternità, limita a questo aspetto il contrasto ritenendo il divieto interno e la sanzione penale espressione di valori fondamentali quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, ma esclude che sia da ricondurre a principio fondamentale dell’ordinamento l’eterosessualità della coppia nella definizione dei limiti al riconoscimento di atti stranieri relativi a status filiali.

Anche la Corte costituzionale, in linea con la giurisprudenza di legittimità in materia di accesso alla PMA, ha affermato che, da un lato, non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina; dall’altro, “non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore” (sentenza n. 221 del 2019, con argomentazione richiamate nella successiva sentenza n. 32 del 2021).

Con specifico riferimento al superamento della prospettiva esclusivamente naturalistica della procreazione, deve farsi inoltre cenno al disposto dell’art. 9 della l. n. 40 del 2004 che ha di fatto introdotto nell’ordinamento il concetto di “genitore intenzionale” (il genitore non partoriente che, pur non avendo un legame biologico con il nato, abbia assunto nei suoi confronti gli obblighi genitoriali di cura e sostegno morale e materiale), stabilendo l’inammissibilità del disconoscimento di paternità o dell’impugnazione del relativo riconoscimento in caso di generazione mediante pratiche di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuate con il consenso di entrambi i genitori, nonostante l’espressa previsione normativa del divieto di accesso a tali pratiche.

3.1. Nato in Italia.

Le richieste di rettifica degli atti di nascita di minori nati in Italia, concepiti con il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, sono state sempre respinte dalla Suprema Corte (5) che ha precisato come non sia consentito, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto (cfr. Cass. n. 8029 del 2020, Cass. n. 7668 del 2020, Cass. n. 23320 e n. 23321 del 2021).

Più di recente, la Corte (nell’ordinanza n. 6383 del 2022, con motivazioni richiamate anche dalla successiva ord. n. 7433 del 2022) ha precisato che nel caso di minore concepita mediante l'impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e nata in Italia, non è accoglibile la domanda di rettificazione dell'atto di nascita volta ad ottenere l'indicazione in qualità di madre della bambina, accanto a quella che l'ha partorita, anche della donna cui è appartenuto l'ovulo poi impiantato nella partoriente, poiché in contrasto con l'art. 4, comma 3, della l. n. 40 del 2004, che esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, anche in presenza di un legame genetico tra il nato e la donna sentimentalmente legata a colei che ha partorito. In particolare, nella decisione in esame, è stato sottolineato che: “la circostanza che a fondamento della domanda di rettificazione sia stata posta l’esistenza di un legame genetico tra il nato e la donna sentimentalmente legata a colei che ha sostenuto il parto, siccome donatrice dell’ovocita, non cambia la sostanza delle cose. Non è invero decisiva in vista di una soluzione diversa, perché non è in grado di incidere sull’essenziale rilievo secondo cui la legge nazionale si contiene nel senso che una sola è la persona che può essere menzionata come madre in un atto di nascita. Questo è per l’appunto il dato correlabile all’opzione legislativa (artt. 4 e 5 della l. n. 40 del 2004) volta a limitare l’accesso alle tecniche di p.m.a. per rimuovere cause impeditive della procreazione circoscritte ai casi di sterilità o di infertilità accertate e certificate da atto medico. E quindi a situazioni di infertilità patologica, alle quali, come precisato dalla Corte costituzionale, non è omologabile la condizione – di contro fisiologica - di infertilità della coppia omosessuale”.

All’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022, Cass. n. 22179 del 2022 ha precisato che la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il c.d. genitore intenzionale, non potrebbe trovare accoglimento neanche invocando il preminente interesse del minore. Ad avviso della S.C., infatti, non può inoltre ritenersi che l'indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, atteso che, in tali casi, l'adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022.

Tanto premesso, non può non sottolinearsi come la distinzione di categorie di figli che versano in situazione di fatto del tutto omogenee, solo in ragione di determinate circostanze e, segnatamente, nel caso di specie, del luogo di nascita, possa celare forme di discriminazione (6), messe in evidenza dalla Corte di cassazione (Cfr. SS.UU. n. 9006 del 31.3.2021, §18.6) e da tempo considerate dalla Corte Edu (Corte EDU, 13 giugno 1979, ric. 683/74, Marckx c. Belgio, in Foro it., 1979, IV, c. 382; Corte EDU, 1° febbraio 2000, ric. 34406/97, Mazurek c. Francia, in Dalloz, 2000, 332; Corte EDU, G.C. avis consultatif 10 aprile 2019) violative della Convenzione.

3.2. Nato all’estero.

La questione riguardante l'ammissibilità della trascrizione nei registri dello stato civile di un atto di nascita validamente formato all'estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, è figlio di due persone dello stesso sesso, è stata già ripetutamente affrontata dalla Suprema Corte, che l'ha risolta in senso positivo, avendo ritenuto irrilevanti, in contrario, le limitazioni imposte dalla legge n. 40 del 2004 all'utilizzazione delle predette tecniche, in virtù della considerazione che tale disciplina rappresenta soltanto una delle possibilità modalità di esercizio del potere regolatorio spettante al legislatore italiano in una materia, pur eticamente sensibile e costituzionalmente rilevante, nella quale le scelte legislative non risultano costituzionalmente obbligate. Tale principio è stato originariamente enunciato, da Cass. n. 19599 del 2016, in riferimento ad una fattispecie non interamente assimilabile alla fecondazione assistita di tipo eterologo, in quanto la sentenza riguardava la richiesta di trascrizione, in Italia, dell’atto di nascita di un bambino nato, all’interno di una relazione omoaffettiva fra due donne, in Spagna, Paese dove la coppia aveva contratto matrimonio. Le due donne avevano realizzato il progetto procreativo ricorrendo ad una procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, nella quale una delle due aveva portato a termine una gravidanza con l’ovocita della compagna, risultando, così, una la madre naturale e l’altra la madre genetica del bambino. Nella decisione in esame la Corte considera la genitorialità omoaffettiva non contraria all’ordine pubblico internazionale, in favore dell’interesse superiore del bambino alla continuità di status, ed afferma, inoltre, che il principio contenuto nell’art. 269 c.c. in base al quale madre è colei che partorisce, non solo non coincide con un principio di ordine pubblico, ma si pone per di più in contrapposizione con l’interesse del minore, a tutela del quale, lo si sottolinea, non si chiedeva di sostituire nell’atto di nascita il nome della madre naturale con quello della madre genetica, ma solo di aggiungere accanto al nome della madre naturale, comunque tutelato dal principio mater sempre certa est, quello della madre anche genetica.

Tali principi sono poi stati in seguito estesi anche ad un'ipotesi di vera e propria fecondazione eterologa, nella quale una delle genitrici (c.d. madre intenzionale) si era limitata a prestare il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, senza fornire alcun apporto, neppure di tipo genetico (cfr. Cass. n. 14878 del 2017).

Cass. SS.UU. n. 9006 del 2021 - chiamata a pronunciarsi sul caso di un cittadino italiano naturalizzato statunitense, il quale aveva chiesto all’Ufficiale dello stato civile in Italia, la trascrizione dell’atto di nascita del figlio minore, nato negli Stati Uniti, e riconosciuto in quello stato come figlio adottivo del ricorrente e del compagno – in merito alla contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento di trascrizione dedotta dalle parti ricorrenti, ha ribadito come il perimetro entro il quale deve esercitarsi il controllo giurisdizionale di un provvedimento straniero deve essere limitato agli effetti che l’atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non alla conformità della legge estera posta a base del provvedimento, alla nostra legge interna regolativa degli stessi istituti, non essendo consentito un controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento. Così definito l’oggetto del sindacato giurisdizionale, la S.C., infine, dopo avere verificato che nella specie la decisione era stata adottata nello stato estero nel pieno rispetto del diritto di difesa delle parti, e che il provvedimento era stato il frutto non solo dell’acquisito consenso dei genitori biologici del minore, ma era basato anche sul risultato di un’indagine svolta secondo le prescrizioni normative della legge interna in relazione alle capacità genitoriali degli adottanti, aveva affermato, nel merito, che non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell'adozione piena, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare sia omogenitoriale, ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.

4. Pluralità dei modelli di genitorialità adottiva.

L’ordinamento italiano conosce due forme di adozione: la prima è l’“adozione legittimante”, in forza della quale “l’adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome”, ai sensi dell’art. 27, primo comma, della l. n. 184 del 1983; la seconda è costituita dall’ “adozione in casi particolari”, prevista dall’art. 44 della predetta legge, che non presuppone necessariamente lo stato di adottabilità del minore e che non recide i rapporti di quest’ultimo con la famiglia d’origine.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha da tempo chiarito che “nel nostro ordinamento convivono modelli di adozione fondati sulla radicale recisione del rapporto con i genitori biologici con altri che escludono la ricorrente di tale requisito. La pluralità delle forme di genitorialità adottiva volute dal legislatore e l’intervento interpretativo compiuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità (Cass. n. 12692 del 2016; Cass. SU n. 12193 del 2019) sulla ipotesi normativa contenuta nella lettera d) dell’art. 44 della l. n. 184 del 1983 in modo da valorizzarne la natura di ipotesi residuale ed aperta consentono di adeguare il nostro sistema legislativo della filiazione adottiva con le rilevanti indicazioni provenienti dalla giurisprudenza EDU” (Cass. n. 1476 del 2021, con principi ribaditi dalla successiva n. 21024 del 2022). Le posizioni della giurisprudenza di legittimità e di merito, volte a valorizzare le specificità di un sistema pluralistico dei modelli di genitorialità adottiva, hanno trovato un completamento nella recente sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 che, eliminando quasi interamente le differenze di tutela tra i vari modelli adottivi, ha reso omogeneo lo statuto dei diritti del minore.

La pluralità dei percorsi che conducono alla genitorialità adottiva si riflette altresì sulla diversità dei procedimenti che conducono all’adozione legittimante piuttosto che all’adozione mite. Come recentemente chiarito dalla S.C., infatti, il giudizio di accertamento dello stato di adottabilità di un minore, ai sensi degli artt. 8 e ss. l. n. 184 del 1983, e il giudizio volto a disporre un'adozione "mite", ex art. 44, lett. d) della medesima legge, costituiscono due procedimenti autonomi, di natura differente e non sovrapponibili fra loro, poiché il primo è funzionale alla successiva dichiarazione di adozione "piena" (o legittimante), costitutiva di un rapporto sostitutivo di quello con i genitori biologici, che determina l'inserimento del minore in una nuova famiglia, mentre il secondo crea un vincolo di filiazione giuridica, che non estingue i rapporti del minore con la famiglia di origine, pur attribuendo l'esercizio della responsabilità genitoriale all'adottante.

4.1. L’adozione in casi particolari.

Il legame genitoriale può, pertanto, originare da un procedimento adottivo: il genitore diventa tale in assenza di legame biologico con il minore e a seguito di procedura giurisdizionale che sostituisce al vincolo biologico una attribuzione giuridica della responsabilità genitoriale. L’origine del progetto genitoriale non incide sullo stato giuridico dei figli che, come già osservato, è sempre e comunque lo stesso (art. 315 c.c. come modificato dalla l. 10 dicembre 2012 n. 219).

La l. 4 maggio 1983 n. 184 individua, in modo tassativo, i casi che consentono l’instaurazione giuridica (piuttosto che biologica) del legame genitoriale. L’adozione in casi particolari (7), poi, è stata introdotta dalla l. n. 184 del 1983 per fare fronte a situazioni particolari, nelle quali versa il minore, che inducono a consentire l’adozione a condizioni differenti rispetto a quelle richieste per l’adozione cosiddetta piena. Secondo l’art. 44, i minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni previste dall’art. 7, comma 1, nei quattro casi ivi indicati. Si tratta dell’adozione dell’orfano da parte dei parenti o da parte di chi avesse già con lui un rapporto stabile e duraturo (lett. a); dell’adozione del figlio del coniuge (lett. b); dell’adozione del minore per il quale risulti tuttavia impossibile procedere ad affidamento preadottivo (lett. d). A queste ipotesi è stata aggiunta, con la riforma del 2001, l’ulteriore ipotesi del minore che “si trovi nelle condizioni indicate dall’art. 3, comma 1, della l. 5 febbraio 1992, n. 104” (art. 44, comma 1, lettera c) – sia cioè persona “che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

L’evoluzione del diritto vivente ha ampliato il raggio applicativo dell’istituto e, estendendo in via ermeneutica la nozione di impossibilità, di cui all’art. 44, comma 1 lett. d) – riferita non solo all’impedimento di fatto, ma anche a quello giuridico (8) – ha aperto due nuovi “itinerari interpretativi”: quello dell’adozione mite (per i casi di minori non abbandonati, ma i cui genitori biologici versino in condizioni che impediscono in maniera permanente l’effettivo esercizio della responsabilità genitoriale) e quello che riguarda la situazione di minori che hanno una relazione affettiva con il partner del genitore biologico, quando il primo è giuridicamente impossibilitato ad adottare il minore.

L’adozione in casi particolari è disciplinata da norme diverse rispetto a quelle che regolano l’“adozione piena”, sia per quanto riguarda i requisiti degli adottanti (ad esempio, non si richiede che l’adozione sia effettuata da una coppia di coniugi), sia per quanto riguarda gli effetti ed il procedimento.

Il recente intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 79, depositata il 28.3.2022, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, mediante rinvio all’art. 300, secondo comma, del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante) ha contribuito a ridisegnare in modo più completo i confini dell’istituto, in un’ottica di maggior tutela dei diritti del minore.

Il Giudice delle leggi, dopo aver esaminato l’istituto dell’adozione in casi particolari con riferimento all’originario disegno legislativo ed al percorso evolutivo tracciato dal diritto vivente (che ne ha valorizzato le specificità e ne ha ampliato gradualmente il raggio applicativo) si è soffermata sui due nuovi itinerari interpretativi dell’istituto: l’adozione mite e la situazione dei minori che hanno una relazione affettiva con il partner del genitore biologico, quando il primo è giuridicamente impossibilitato ad adottare il minore.

Proprio con riferimento a tale secondo percorso evolutivo del diritto vivente che, come precisato dalla Corte “interseca questioni legate alla procreazione medicalmente assistita e al ricorso all’estero alla PMA e talora alla surrogazione di maternità” (punto 5.2.3.), la Consulta ha richiamato la propria giurisprudenza per affermare che “l’adozione in casi particolari, lungi dal dare rilevanza al solo consenso e dall’assecondare attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità, dimostri una precipua vocazione a tutelare “l’interesse del minore […] a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate” (sentenze n. 32 del 2021, n. 221 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 272 del 2017)”.

Così ricostruito l’istituto, la pronuncia si è soffermata sulla non completa adeguatezza dell’istituto al metro dei principi costituzionali e sovranazionali (sentenza n. 33 del 2021; in senso conforme, sentenze n. 32 del 2021 e n. 230 del 2020), per verificare se il diniego di relazioni familiari tra l’adottato e i parenti dell’adottante determini, in contrasto con gli artt. 3 e 31 Cost., un trattamento discriminatorio del minore adottato rispetto all’unicità dello status di figlio e alla condizione giuridica del minore, avendo riguardo alla ratio della normativa che associa a tale status il sorgere dei rapporti parentali.

La ricostruzione del quadro normativo – risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 219 del 2012 e dal d.lgs. n. 154 del 2013, nonché dalle disposizioni di cui agli artt. 48, commi 1 e 2, 51, comma 4, e 52, comma 4, della legge n. 184 del 1983) – palesa, ad avviso della Corte, che il minore adottato ha lo status di figlio e nondimeno si vede privato del riconoscimento giuridico della sua appartenenza proprio a quell’ambiente familiare, che il giudice è chiamato, per legge a valutare, al fine di deliberare in merito all’adozione. Da tale premessa “consegue che, a dispetto della unificazione dello status di figlio, al solo minore adottato in casi particolari vengono negati i legami parentali con la famiglia del genitore adottivo. Irragionevolmente un profilo così rilevante per la crescita e per la stabilità di un bambino viene regolato con la disciplina di un istituto, qual è l’adozione del maggiore d’età, plasmato su esigenze prettamente patrimoniali e successorie. La norma censurata priva, in tal modo, il minore della rete di tutele personali e patrimoniali scaturenti dal riconoscimento giuridico dei legami parentali, che il legislatore della riforma della filiazione, in attuazione degli artt. 3, 30 e 31 Cost., ha voluto garantire a tutti i figli a parità di condizioni, perché tutti i minori possano crescere in un ambiente solido e protetto da vincoli familiari, a partire da quelli più vicini, con i fratelli e con i nonni. Al contempo, la disciplina censurata lede il minore nell’identità che gli deriva dall’inserimento nell’ambiente familiare del genitore adottivo e, dunque, dall’appartenenza a quella nuova rete di relazioni, che di fatto vanno a costruire stabilmente la sua identità”.

La norma censurata, oltre a presentare le predette ragioni di contrasto con gli artt. 3 e 31, secondo comma, Cost., palesa, ad avviso della Corte, una violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Con riferimento a tale aspetto, nella pronuncia in esame si sottolinea che, “poiché il riconoscimento al minore di legami familiari con i parenti del genitore, in conseguenza dell’acquisizione dello stato di figlio, riveste – come si è sopra evidenziato (Corte EDU, sentenza Marckx, paragrafo 45) – un significato pregnante e rilevante nella nozione di “vita familiare” e va a comporre la stessa identità del bambino (sentenza Mennesson, paragrafi 96-101; sentenza Labassee, paragrafi 75-80), si deve ritenere che la norma censurata, ponendosi in contrasto con l’art. 8 CEDU, violi gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, primo comma, Cost.”.

Le predette argomentazioni portano la Corte costituzionale a concludere che: “La declaratoria di illegittimità costituzionale rimuove, dunque, un ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari (Corte EDU, sentenza D. contro Francia, paragrafo 51; decisione C. ed E. contro Francia, paragrafo 42; nonché il parere del 9 aprile 2019, paragrafo 54) e consente a tale istituto, la cui disciplina tiene in equilibrio molteplici istanze implicate nella complessa vicenda, di garantire una piena protezione all’interesse del minore”.

Al punto 10 della pronuncia in esame, la Corte ha notato come la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata consente l’espansione dei legami parentali tra il figlio adottivo e i familiari del genitore adottante che condividono il medesimo stipite, mantenendo, grazie alla definizione dell’art. 74 c.c., la distinzione tra i parenti della linea adottiva e quelli della linea biologica.

4.2. Coppia omogenitoriale femminile e adozione in casi particolari.

La giurisprudenza di merito e di legittimità, anche sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (e dalla giurisprudenza sovranazionale), ha qualificato l’adozione in casi particolari quale strumento adeguato a garantire i diritti riconosciuti dall’art. 8 della CEDU ai minori nati all’interno di famiglie dalle caratteristiche peculiari rispetto a quelle “fondate sul matrimonio” tra persone di sesso diverso. Una tutela realmente effettiva richiede, però, che al minore vengano riconosciuti tutti quei diritti che trovano fondamento nella Costituzione e nelle disposizioni unionali applicabili.

Tale istanza di tutela è stata recentemente posta all’attenzione del Tribunale di Roma che, con un’accurata e approfondita ordinanza (depositata il 9.9.2022), si è pronunciata sul ricorso proposto da una coppia omogenitoriale femminile, all’esito del diniego da parte dell’ufficiale di stato civile competente, avente ad oggetto il rilascio di carta d’identità elettronica valida per l’espatrio per la figlia minore, con l’indicazione, accanto ai nominativi, della qualifica per entrambe di “madre” o, in alternativa di quella neutra di “genitore”. Ad avviso della pubblica amministrazione resistente, la richiesta non poteva trovare accoglimento in ragione delle specifiche tecniche del programma informatico di emissione della C.I.E. che, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’interno del 31/01/2019, prevedevano esclusivamente la dicitura “padre” e “madre” per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori. Tale decisione è stata impugnata dinanzi al giudice amministrativo e, in seguito alla declaratoria di difetto di giurisdizione, le ricorrenti hanno riassunto nei termini il processo, riproducendo e confermando argomentazioni e censure già sollevate dinanzi al primo giudice.

Il Tribunale, acquisite informazioni dalla pubblica amministrazione in merito alla possibilità tecnica di adeguare il sistema nel modo richiesto dalle ricorrenti, ha compiuto un approfondito esame delle disposizioni normative invocate dai resistenti a supporto dell’impostazione tradizionale della famiglia per concludere che nessuna delle norme invocate è sufficiente a fornire una base giuridica sulla quale possa fondarsi un obbligo di nominare espressamente, in ogni circostanza ed a qualsiasi fine, un “padre” ed una “madre”. E’ stato ricordato come l’art. 30 Cost. non parli di madre e padre ma di genitori e che l’art. 29 in correlazione con l’art. 2 Cost. non impedisce il riconoscimento legislativo di altri modelli di relazione affettiva diversi dal matrimonio eterosessuale, così come non ostacola l’individuazione, grazie anche al diritto vivente (Cass. SU n. 12193 del 2019) anche per le coppie omogenitoriali, di un modello di filiazione adottiva.

Elemento centrale dal quale muovere, ad avviso del giudice capitolino, è rappresentato dal fatto che il Tribunale per i minorenni competente, con sentenza passata in giudicato, ha disposto farsi luogo all’adozione ex art. 44 della l. n. 184 del 1983 da parte di una delle ricorrenti, con l’attribuzione alla minore del doppio cognome e con l’ordine (peraltro già eseguito) di procedere alle corrispondenti annotazioni ad opera dello stato civile. E’, pertanto, “incontrovertibile” (perché coperta da giudicato) l’esistenza di una situazione giuridica e di fatto consistente nel rapporto di filiazione della minore, con due genitrici, entrambe di sesso e genere femminile, costitutiva di una famiglia.

Oggetto di discussione, prosegue l’ordinanza in esame, è pertanto solo l’esistenza di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”.

La fondatezza del diritto vantato dalle ricorrenti è argomentato, dal Tribunale di Roma, principalmente in forza dei seguenti rilievi.

L’indicazione, nel documento di identità della figlia, di una dei due genitori con la qualifica di “padre”, in modo difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU, priva dei connotati di necessità e proporzionalità.

Un’analoga violazione sarebbe perpetrata anche nei confronti della minore atteso che, anche in forza di un puntuale richiamo alla giurisprudenza della Corte Edu ed al parere del 10.4.2019, ella ha un diritto alla propria identità personale, che si realizza anche attraverso una veritiera rappresentazione dell’identità familiare.

Il rigetto delle domande spiegate dalle ricorrenti produrrebbe, altresì, la violazione dell’art. 21, par. 1 TFUE (come interpretato anche alla luce della sentenza della Corte di Giustizia del 14.12.2021, nella causa (C-490/20 V.M.A. Stolichna Obshtina rayon “Pancharevo”), nonché degli artt. 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e degli artt. 2 e 7 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo: si verificherebbe, infatti, una discriminazione dei diritti della minore se ella, avente una relazione parentale con genitori dello stesso sesso, dovesse esibire documenti di identità sui quali i genitori risultino indicati in termini manifestamente falsi e corrispondenti a quelli di minori aventi genitori di sesso diverso.

Viene ravvisata, infine, una violazione dell’art. 5, par. 1, lettere c) (principio di “minimizzazione”) e d) (principio di “esattezza”), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27/04/2016, nell’indicazione della qualifica di “padre” nel campo corrispondente al nome di una delle due donne, come peraltro già rilevato dal Garante per la protezione dei dati personali, nel parere del 31.10.2018.

Nella decisione in esame viene, infine, dato atto dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 12193 del 2019 (sulla quale si tornerà in seguito), in forza del quale il rapporto di filiazione originato da un procedimento di procreazione assistita espressamente vietato può però essere costituito ex novo, con piena validità ed efficacia nel nostro ordinamento, mediante l’istituto dell’adozione ex art. 44, c. 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983. Da tale premessa si trae il “principio che, con l’adozione, si costituisce una relazione genitoriale che non dev’essere stigmatizzata e mortificata dall’attribuzione, in ipotesi al genitore adottante (ma evidentemente ciò varrebbe ugualmente per il genitore “naturale”), di un ruolo parentale in contrasto con la sua identità sessuale e di genere. E, al tempo stesso, che anche la situazione familiare del minore, così come costituitasi per effetto dell’adozione, non dev’essere stigmatizzata con l’indicazione, sul suo documento d’identità, di una “genealogia formale” difforme dalla realtà”.

All’esito del bilanciamento tra l’interesse delle ricorrente e l’esigenza di rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali (imposti dal R.G.P.D.) – il cui fondamento è costituito dall’individuazione della funzione genitoriale esercitata nei confronti della minore e non dall’indicazione specifica del ruolo parentale sessualmente caratterizzato – il Tribunale di Roma ha ordinato al Ministero dell’Interno e, per esso, al Sindaco competente quale Ufficiale del Governo, di indicare sulla carta di identità della minore, in corrispondenza dei nome delle due madri, la qualifica neutra di “genitore”.

La decisione in esame segna un passaggio importante nella realizzazione di forme effettive di tutela dell’identità personale di minori che fanno parte di famiglie conformate su modelli di genitorialità diversi da quelli tradizionali: declamare la natura fondamentale del diritto del minore, senza prevedere un apparato di rimedi che presidi la realizzazione anche concreta di tali diritti (in forza dei quali, stando al caso in esame, il minore deve poter circolare con i propri genitori, identificati in modo corrispondente alla loro identità di genere) si tradurrebbe in una tutela deminuta non conforme alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale e dalle Corti sovranazionali.

4.3. L’adozione legittimante e il diritto del minore a non veder recisi i legami con il nucleo familiare d’origine.

L’art. 27 della l. n. 184 del 1983, come poc’anzi sottolineato, prevede che “con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali”. Tale norma, collocata nel capo IV (della dichiarazione di adozione) pone una regola in forza della quale nell’adozione legittimante, a differenza dell’adozione in casi particolari, la recisione dei legami con la famiglia d’origine ha carattere assoluto.

Tale previsione, anche alla luce della riforma introdotta dalla l. n. 149 del 2001 (in forza della quale il figlio adottivo ha diritto a conoscere le proprie origini a partire dall’età di 25 anni, formulando un’istanza al tribunale per i minorenni), e dell’introduzione di diversi modelli adottivi, ha portato la Prima Sezione della Corte a dubitare della legittimità costituzionale di una norma che, attraverso una predeterminazione generale ed astratta della recisione dei legami con la famiglia d’origine dell’adottando, non consente al giudice una valutazione concreta del preminente interesse del minore. Nella recente ordinanza interlocutoria (n. 230 del 2023), la S.C. – chiamata a decidere sul ricorso proposto avverso l’ordinanza della Corte d’Appello di Milano che, nonostante l’espressa previsione del citato art. 27, aveva disposto l’adozione legittimante di due minori, la cui madre era stata uccisa dal loro padre, prevedendo la conservazione dei legami con la famiglia d’origine, nel preminente interesse dei minori – ha rilevato come l’inderogabilità dell’art. 27, comma 3, esclude la possibilità di una valutazione concreta sulla corrispondenza all’interesse del minore della definitiva recisione dei legami con i nuclei familiari d’origine, consegnando alla norma la valutazione, “in modo predeterminato ed astratto di tutte le variabili che compongono il c.d. preminente interesse del minore”. La norma è stata, pertanto, ritenuta in contrasto con l’art. 2 Cost. (perché non consente di mettere in campo tutte le energie affettive e relazioni che possono contribuire alla costruzione dell’identità ed allo sviluppo equilibrato della personalità di minori che hanno subito deprivazioni affettive di particolare gravità), con l’art. 3 Cost. (perché determina un’ingiustificata disparità di trattamento con gli altri modelli di genitorialità adottiva, previsti dall’art. 44 della l. n. 184 del 1983), con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 Cedu (per la costante ed univoca inclusione nell’ambito del diritto alla vita familiare del diritto del minore a non veder recisi i legami con il nucleo familiare di origine quando ciò sia coerente con il perseguimento del suo preminente interesse) e con gli artt. 3 e 21 della Convenzione sui diritti del fanciullo e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

L’ordinanza interlocutoria in esame, riempendo di contenuto il principio del preminente interesse del minore, al fine di tutelarne l’identità personale, ha sottolineato come il “determinismo della norma censurata contrasta con la necessità di una pluralità di modelli adottivi flessibili pur nella predeterminazione legislativa che consentano di adeguare alla concretezza delle situazioni, lo statuto protettivo del minore da adottare, tenuto conto dell’evoluzione del contesto sociale e degli approdi più accreditati e recenti delle sciente sociali…nonché del contesto culturale e geografico di provenienza del minore che in molte situazioni costituisce un tratto ineliminabile della sua identità”.

5. I bambini nati da tecniche di gestazione per altri.

L’ordinamento italiano non consente il ricorso ad operazioni di maternità surrogata: l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, come recentemente ribadito dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 38163 del 30.12.2022, non ha cittadinanza nel nostro ordinamento. Tanto premesso, come sottolineato nella predetta pronuncia, il divieto di gestazione per altri “non argina il progetto di diventare genitori” e, ogniqualvolta la surrogazione di maternità è praticata all’estero, la questione dello status del nato da maternità surrogata “fuoriesce dal perimetro dell’ordinamento interno e si traduce nel problema del riconoscimento in Italia della genitorialità acquisita al di fuori dei confini nazionali”.

Prima di esaminare compiutamente i principi affermati recentemente dalle Sezioni Unite, appare opportuno, proprio nell’indispensabile ottica di dialogo tra le corti, richiamata anche dalla Corte, nella sua composizione allargata, ripercorrere le principali tappe della giurisprudenza nazionale e sovranazionale.

5.1. La giurisprudenza di legittimità.

La questione riguardante l'ammissibilità della trascrizione nei registri dello stato civile di un atto di nascita validamente formato all'estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, è figlio di due persone dello stesso sesso, è stata già ripetutamente affrontata dalla Suprema Corte, che l'ha risolta in senso positivo, avendo ritenuto irrilevanti, in contrario, le limitazioni imposte dalla legge n. 40 del 2004 all'utilizzazione delle predette tecniche, in virtù della considerazione che tale disciplina rappresenta soltanto una delle possibilità modalità di esercizio del potere regolatorio spettante al legislatore italiano in una materia, pur eticamente sensibile e costituzionalmente rilevante, nella quale le scelte legislative non risultano costituzionalmente obbligate. Tale principio è stato originariamente enunciato in riferimento ad una fattispecie non interamente assimilabile alla fecondazione assistita di tipo eterologo, in quanto caratterizzata dalla sussistenza di un legame biologico tra il nato ed entrambe le genitrici, una delle quali aveva provveduto alla gestazione, mentre l'altra aveva fornito l'ovulo necessario per la fecondazione, avvenuta con il contributo di un terzo donatore (cfr. Cass. n. 19599 del 2016); esso è stato in seguito esteso anche ad un'ipotesi di vera e propria fecondazione eterologa, nella quale una delle genitrici (c.d. madre intenzionale) si era limitata a prestare il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, senza fornire alcun apporto, neppure di tipo genetico (cfr. Cass. n. 14878 del 2017).

Le conclusioni cui sono pervenute le predette sentenze non sono state smentite dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019, ad avviso della quale l’esclusione dell’ammissibilità è giustificata mediante il richiamo al divieto della surrogazione di maternità previsto dall'art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, qualificato come principio di ordine pubblico. Tale pronuncia conclude la vicenda giudiziaria che trae origine dal ricorso proposto da una coppia omosessuale al fine di ottenere il riconoscimento, ai sensi dell'art. 67 della l. n. 218 del 1995, del provvedimento emesso in data 12 gennaio 2011 dalla Superior Court of Justice dell'Ontario, in forza del quale era stato accertato il rapporto di genitorialità intercorrente tra il padre intenzionale e i minori, nati da maternità surrogata. In seguito al diniego dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento, i ricorrenti avevano proposto ricorso e la Corte d'appello di Trento, con ordinanza del 23 febbraio 2017, pronunciandosi in merito al riconoscimento nell'ordinamento italiano dell'efficacia del provvedimento della Superior Court dell'Ontario, aveva accolto la domanda e ordinato all'ufficiale di stato civile di emendare gli atti di nascita dei figli in modo da far risultare il richiedente “come genitore e quale padre dei bambini".

Con specifico riferimento alla nozione di ordine pubblico, le Sezioni Unite, ponendosi nel solco della precedente sentenza delle Sezioni Unite n. 16601 del 2017, hanno dato rilievo non solo al quadro dei principi fondamentali desumibili dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali (così come ritenuto nella sentenza n. 19599 del 2016, relativa al riconoscimento di status genitoriale per una coppia omoaffettiva femminile), ma anche alle norme ordinarie attuative dei principi consacrati nella Costituzione. Sono state ritenute integranti la nozione di ordine pubblico le norme della legge n. 40 del 2004, in quanto poste “a regola e presidio di beni fondamentali” quali la dignità umana, costituzionalmente tutelata, della gestante e l’istituto dell’adozione. Nella decisione in esame, le Sezioni unite hanno affermato che solo all’interno delle regole inderogabili della disciplina legislativa dell’adozione può realizzarsi un progetto genitoriale privo di legami biologici.

In merito alla richiesta conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero, la Corte ha affermato come tale interesse sia “destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell’ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica”. Vengono sottolineate in modo netto le conseguenze, in merito alla conservazione dello status filiationis, della condotta che ha dato origine alla procreazione, affermando che ove la coppia abbia fatto ricorso alla maternità surrogata l’interesse del minore è “affievolito”.

Pochi mesi dopo il deposito della sentenza delle Sezioni unite, la Prima Sezione della Corte di cassazione, con ordinanza n. 8325 del 29 aprile 2020, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, dell’art. 64, comma 1, lett. g) della l. n. 218 del 1995 e dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, “nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di nascita di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico”. Con riferimento ai principi affermati nella sentenza n. 12193 del 2019, la Corte osserva che, alla luce di quanto affermato dai giudici di Strasburgo nel parere del 10 aprile 2019, si ravvisa una situazione di conflitto con il diritto vivente in Italia, formatosi in seguito alla decisione delle Sezioni Unite. In tale decisione, ad avviso dei giudici remittenti, si è attribuito al divieto di maternità surrogata “lo statuto di principio di ordine pubblico internazionale prevalente a priori sull’interesse del minore”, in contrasto con l’art. 117 c. 1 della Costituzione, in relazione ai parametri interposti costituiti dall’art. 8 CEDU, dagli articoli 2, 3, 7, 9, 10 e 18 della Convenzione di New York del 1989 e dall’art. 24 della Carta di Nizza. Nell’ordinanza di rimessione, la questione di legittimità costituzionale è posta anche in riferimento ai principi di eguaglianza e di non discriminazione, in relazione alla nascita e al rapporto di filiazione, consacrati dalla Costituzione agli articoli 2, 3, 30, 31, ritenendo l’interpretazione delle Sezioni unite in contrasto con il diritto del minore alla propria identità, alla formazione e al consolidamento del rapporto di filiazione. Ad avviso della Corte, il riferimento all’ordine pubblico internazionale non può mai giustificare la lesione di diritti fondamentali dell’individuo, non solo perché questi, in quanto manifestazione di valori supremi e vincolanti della nostra cultura giuridica, costituiscono un ordine pubblico gerarchicamente superiore (c.d costituzionale), ma anche perché l’interesse del minore, espressione del principio di inviolabilità della persona umana, non si contrappone all’ordine pubblico ma concorre alla sua formazione.

Contribuisce a disegnare il diritto vivente, infine, anche la già richiamata decisione assunta dalla Sezioni Unite nel marzo del 2021 (n. 9006 del 31 marzo 2021). L’oggetto della domanda attiene al riconoscimento di un adoption order, emesso dalla Surrogate Court dello Stato di New York, che ha attribuito alla coppia di padri lo status di genitori adottivi di un minore, dopo aver acquisito il consenso del padre e della madre naturali del bambino e dopo aver valutato l’idoneità della coppia adottante al fine di verificare la conformità del provvedimento al best interest of the child. Nella sentenza in esame, le Sezioni Unite precisano come oggetto del sindacato giurisdizionale sia la “compatibilità dello status genitoriale, di natura intrinsecamente adottiva, acquisito da una coppia omogenitoriale maschile con i principi attualmente costituenti l’ordine pubblico internazionale” e non, invece, la diversa questione (decisa nel 2019) relativa al riconoscimento dello status genitoriale costituito all’estero in forza di un accordo di surrogazione di maternità.

5.2. La giurisprudenza costituzionale.

L’esigenza di tutelare la persona nata a seguito di tecniche di fecondazione assistita è stata avvertita dalla Corte costituzionale anche in epoca antecedente alla legge n. 40 del 2004.

Nella sentenza n. 347 del 1998, infatti, il Giudice delle leggi – senza mettere in discussione la legittimità di tale pratica, “né […] il principio di indisponibilità degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono suscettibili di incidere le varie possibilità di fatto oggi offerte dalle tecniche applicate alla procreazione” – si è preoccupato “invece di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato […], non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare”.

Nella successiva sentenza n. 494 del 2002 (sopra citata, sullo status dei figli incestuosi) la Corte costituzionale ha affermato che “l’adozione di misure sanzionatorie … che coinvolga soggetti totalmente privi di responsabilità – come sono i figli di genitori incestuosi, meri portatori delle conseguenze del comportamento dei loro genitori e designati dalla sorte a essere involontariamente, con la loro stessa esistenza, segni di contraddizione dell’ordine familiare – non sarebbe giustificabile se non in base a una concezione totalitaria della famiglia” (§ 6.1).

Con riferimento alla specifica questione della tutela delle persone nate con tecniche di maternità surrogata, occorre prendere le mosse dalla sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 2017. La fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione riguardava una coppia eterosessuale, al tempo non coniugata, che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata in India per far nascere la propria figlia. La Corte d’Appello di Milano ha prospettato una questione di legittimità costituzionale che pone al centro l’interesse del bambino, nato a seguito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita. Il dubbio di costituzionalità sollevato dai giudici remittenti attiene, in particolare, all’art. 263 c.c., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità possa essere accolta solo laddove sia ritenute rispondente all’interesse del minore. Nel caso in esame, come precisato dalla Consulta (§3), non era in discussione né la legittimità del divieto della surrogazione di maternità realizzata all’estero (e la sua assolutezza o meno) né il tema dei limiti alla trascrivibilità in Italia di atti di nascita formati all’estero, ma solo la disciplina dell’azione di impugnazione prevista dall’art. 263 c.c., volta a rimuovere lo stato di figlio, già attribuito al minore per effetto del riconoscimento, in considerazione del suo difetto di veridicità.

Così delimitato l’oggetto del giudizio, la Corte costituzionale ha affermato che, pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, deve essere escluso che quello “dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento” atteso che “in tutti i casi di possibile divergenza tra identità genetica e identità legale, la necessità del bilanciamento tra esigenze di accertamento della verità e interesse concreto del minore è resa trasparente dall’evoluzione ordinamentale intervenuta e si proietta anche sull’interpretazione delle disposizioni da applicare al caso in esame” (§4.1). Nella pronuncia in esame, la Corte dopo aver affermato, con riferimento al giudizio sulla condotta dei genitori, che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, ha aggiunto, in merito al diverso piano relativo alla tutela della persona nata, che anche in caso di maternità surrogata “l’interesse del minore non è per questo cancellato” (§ 4.2) e che l’art. 263 c.c. deve essere interpretato nel senso di consentire al giudice di valutare se la rimozione dello status già acquisito sia, nel caso concreto, conforme o meno all’interesse superiore del minore, bilanciato con gli altri interessi e diritti fondamentali protetti dall’ordinamento. Viene richiesta pertanto dal giudice delle leggi una verifica, nel caso di specie, della conformità del riconoscimento ex art. 263 c.c. all’interesse del minore. (9)

Il giudizio di legittimità costituzionale sollevato dalla Corte di cassazione è stato definito con la sentenza n. 33 del 9 marzo 2021.

La Consulta, riaffermando la netta distinzione tra la valutazione dell’eventuale violazione di un precetto normativo e la valutazione relativa alla tutela della persona nata, ha precisato che le questioni alla stessa sottoposte sono focalizzate non sulla condotta di chi ricorre alla maternità surrogata, ma “sugli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata, nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale, come nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, ovvero eterosessuale) che ha sin dall’inizio condiviso il percorso che ha condotto al suo concepimento e alla sua nascita nel territorio di uno Stato dove la maternità surrogata non è contraria alla legge; e che ha quindi portato in Italia il bambino, per poi qui prendersene quotidianamente cura”. Dopo aver richiamato il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” o dell’“interesse superiore” del minore, la Corte ha richiamato la consolidata giurisprudenza della Corte EDU relativa alla necessità che i bambini nati mediante maternità surrogata “anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del “legale di filiazione” (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita e che se ne sia poi presa concretamente cura” (§ 5.4).

Con riferimento a tale aspetto, la Corte ha precisato che l’interesse del minore non “potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”, come è accaduto nel caso dal quale è scaturito il giudizio a quo, in cui l’originario atto di nascita canadese, che designava come genitore il solo P.F. era stato trascritto nei registri di stato civile italiani. Laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata” (§ 5.4).

Il preminente interesse nel minore dovrà poi essere bilanciato, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore.

Con riferimento al giudizio di bilanciamento, in forza di un richiamo alle sentenze rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, la Consulta ha ribadito che gli Stati parte ben possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al genitore di intenzione a condizione che ciascun ordinamento “garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione” al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati”. I principi affermati dalla Corte EDU e sanciti dalla Costituzione, prosegue la Corte, “non ostano alla soluzione, cui le Sezioni Unite della cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale” (§ 5.7).

In merito alle caratteristiche di una tale forma di tutela, la Corte ha espressamente precisato come la stessa dovrà essere assicurata attraverso un procedimento di adozione “effettivo” e “celere”, “che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato”. Ogni diversa soluzione che non offra al bambino una possibilità di tale riconoscimento “sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata”.

Con particolare riferimento all’adozione in casi particolari (tutela ritenuta esperibile nei casi all’esame delle Sezioni Unite nella sentenza n. 12193 del 2019), la Corte ha rilevato che, “come correttamente sottolinea l’ordinanza di rimessione, il possibile ricorso all’adozione in casi particolari costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati”.

I profili di non adeguatezza ravvisati dalla Corte costituzionale sono i seguenti: l’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante; è ancora controverso, stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 330 c.c., se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentale tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri; per il suo perfezionamento, l’adozione in casi particolari richiede il necessario assenso del genitore biologico (art. 46 della legge n. 1984 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia.

Una tutela del minore nato da maternità surrogata adeguata ai principi convenzionali e costituzionali richiamati nella sentenza attraverso l’adozione richiede, ad avviso della Corte, una disciplina “più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d) della legge n. 184 del 1983”.

Nella sentenza n. 32, depositata in pari data (9 marzo 2021) la Corte si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova aventi ad oggetto la condizione di nati a seguito di PMA eterologa praticata in un altro paese, in conformità alla legge dello stesso, da una donna, che aveva intenzionalmente condiviso il progetto genitoriale con un’altra donna e, per un lasso di tempo sufficientemente ampio, esercitato le funzioni genitoriali congiuntamente, dando vita con le figlie minori a una comunità di affetti e di cure (10). Nel caso portato all’attenzione della Corte, la circostanza che aveva indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni conflittuali all’interno della coppia, aveva reso evidente un vuoto di tutela dei diritti delle minori.

Il Giudice delle leggi ha sottolineato, inoltre, come “i nati a seguito di PMA eterologa praticata da due donne versano in una condizione deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati, solo in ragione dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto procreativo. Essi, destinati a restare incardinati nel rapporto con un solo genitore, proprio perché non riconoscibili dall’altra persona che ha costruito il progetto procreativo, vedono gravemente compromessa la tutela dei loro preminenti interessi” (§2.4.1.3.).

La Corte, riscontrato il “vuoto di tutela dell’interesse del minore”, ha richiamato la necessità di un intervento legislativo “al fine di individuare, come già auspicato in passato, un “ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana” (sentenza n. 347 del 1998). Un intervento puntuale di questa Corte rischierebbe di generare disarmonie nel sistema complessivamente considerato. Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale” (§2.4.1.4). La gravità del vuoto di tutela del preminente interesse del minore porta, infine, il Giudice delle leggi a qualificare come “non più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa”.

Con la già richiamata sentenza n. 79, depositata il 28.3.2022, infine, la Corte costituzionale ha sottolineato come la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata consente l’espansione dei legami parentali tra il figlio adottivo e i familiari del genitore adottante che condividono il medesimo stipite, mantenendo, grazie alla definizione dell’art. 74 c.c., la distinzione tra i parenti della linea adottiva e quelli della linea biologica.

5.3. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Nella giurisprudenza della Corte EDU la disposizione convenzionale che viene principalmente in rilievo è l’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) il quale funge da “clausola aperta” di tutela dei diritti convenzionali, anche se non mancano riferimenti al divieto di discriminazione, previsto dall’art. 14 CEDU.

Occorre premettere che mentre il primo paragrafo dell’art. 8 (11) individua le situazioni giuridiche protette dalla norma (con una distinzione che, ad avviso di parte della dottrina (12), consente di differenziare la prospettiva individualistica - che riguarda il minore e l’aspirante genitore – da quella che guarda alla dimensione relazione tra minore e genitore, biologico e sociale), il secondo consente alla Corte di sindacare l’assolvimento, da parte dello Stato membro, delle c.d. obbligazioni negative che implicano il rispetto delle condizioni di legittimità delle ingerenze statali nel godimento del diritto (misure statali prive di base legale, senza uno scopo legittimo e non proporzionate).

Nella valutazione della Corte, sempre orientata alla decisione del caso concreto, dopo aver ravvisato l’esistenza di una situazione giuridica soggettiva da proteggere (sub specie di vita privata o di vita familiare), viene esaminato il profilo relativo alla legittimità dell’interferenza da parte delle autorità pubbliche, con riferimento alla conformità alla legge, al perseguimento di uno scopo legittimo ed alla necessità delle misure adottate in una società democratica.

Nelle c.d. sentenze gemelle Labassee c. Francia, ric. 65941/11, e Mennesson c. Francia ric. 65192/11, del 26 giugno 2014 la Corte di Strasburgo si era pronunciata sui ricorsi di coppie di cittadini francesi (uno dei quali presentava un legame genetico con il figlio nato da procreazione sostitutiva) che avevano fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero e che avevano poi chiesto la trascrizione degli atti di nascita in Francia, incontrando il rifiuto delle autorità di quel Paese, rifiuto confermato poi dalle autorità giudiziarie, fino alla Corte di cassazione.

La Corte EDU aveva ritenuto che il mancato riconoscimento del legame parentale incidesse non soltanto sull’interesse dei genitori d’intenzione, ma anche su quello dei minori, in particolare sul loro diritto al rispetto della vita privata (art. 8 CEDU), evidenziando come la filiazione riguardi un profilo basilare e fondante dell’identità stessa del minore (sentenza Mennesson, §§ 96-101; sentenza Labassee, §§ 75-80).

Quasi due anni dopo la sentenza della Camera, II Sez., della Corte Edu (pubblicata il 27 gennaio 2015), la Grande Camera, adita dal Governo italiano ai sensi dell’art. 43 CEDU, con sentenza del 24 gennaio 2017 ha ribaltato il giudizio della Camera, riconoscendo che le autorità italiane – nel decidere di allontanare il minore dai ricorrenti – non avevano commesso, nel caso in esame, alcuna violazione della CEDU (in particolare dell’art. 8). La Corte - dopo aver più volte ribadito le differenze del caso in esame rispetto al precedente Mennesson e precisato che, avendo ritenuto inesistente una vita familiare, il caso sarebbe stato scrutinato con riferimento alla vita privata – ha affermato che le misure adottate da parte delle autorità italiane (allontanamento del minore, affidamento in una casa famiglia senza contatti con i ricorrente e nomina di un tutore) costituiscono un’ingerenza ai sensi dell’art. 8 prevista dalla legge, legittima e proporzionata. La decisione in esame, a differenza del caso Mennesson, (ove la Corte EDU aveva riconosciuto la violazione dell’art. 8 CEDU da parte delle autorità francesi che avevano rifiutato la trascrizione di un certificato di nascita di un minore nato all’estero da maternità surrogata, ma con legame genetico con il padre), non si occupa della questione dell’identità del minore e del riconoscimento della sua filiazione genetica perché un eventuale rifiuto dello Stato di riconoscere l’identità del minore non poteva essere contestato dai ricorrenti che – a differenza del caso Mennesson – non avevano titolo per agire per conto del minore (che, infatti, non era è stato parte del giudizio nemmeno presso la Camera), e dall’altro lato, non esisteva alcun legame biologico (§195).

Ancora i coniugi Mennesson, nell'ambito di una procedura introdotta di recente nell'ordinamento francese, che consente la revisione di una pronuncia resa in violazione della CEDU, ancorché passata in giudicato, hanno chiesto il riesame della decisione con la quale era stata annullata la trascrizione dell'atto di nascita estero che li riconosceva genitori. L'assemblea plenaria della cassazione, alla quale il caso è stato rimesso, avvalendosi del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione, ha sottoposto ai giudici di Strasburgo una duplice questione: per un verso, se lo Stato ecceda il proprio margine di apprezzamento rifiutando di registrare l'atto di nascita estero nella parte in cui attribuisce la maternità alla madre intenzionale - e se la circostanza che il figlio sia stato concepito o meno con i gameti della stessa modifichi i termini della questione - e, per l'altro verso, qualora il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale debba considerarsi un obbligo imposto dalla Convenzione, se l'adozione del figlio biologico del marito possa rappresentare un mezzo alternativo idoneo alla trascrizione.

Prima di esaminare il contenuto dell’avis consultatif non pare inutile precisare che, come chiarito dalla Corte costituzionale (al §3.1 della sentenza n. 33 del 2021), sebbene tale parere non sia vincolante (come stabilito dall’art. 5 del Protocollo n. 16 alla CEDU né per lo Stato cui appartiene la giurisdizione richiedente, né a fortiori per gli altri Stati, tanto meno per quelli – come l’Italia – che non hanno ratificato il protocollo in questione), lo stesso risulta confluito in pronunce successive, adottate in sede contenziosa dalla Corte EDU e dunque, ormai, “consolidate” alla luce degli indici di cui alla citata sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015.

La Corte ha premesso che il punto di osservazione dal quale porsi per impostare la questione non è tanto quello dei genitori, ma quello dei minori (§39), precisando come il mancato riconoscimento dello status nei confronti della madre intenzionale risulti pregiudizievole sotto molteplici aspetti: è fonte di incertezza giuridica riguardo alla loro identità all'interno della società; non consente loro di acquisire la cittadinanza della madre; rende più difficile la permanenza nel paese di residenza di lei; ulteriori problemi insorgono quanto ai diritti successori, alla stabilità della relazione in caso di separazione o morte del genitore o in caso di rifiuto della madre intenzionale di prendersi cura di loro (§40).

È stato ribadito come la tutela dell'interesse del bambino non sia assoluta, ma possa essere bilanciata con altri interessi, anch'essi rilevanti, compreso quello alla protezione contro i rischi di abuso degli accordi di surrogazione (§41).

Con riferimento al margine di apprezzamento degli Stati di fronte a questioni eticamente sensibili (§ 43), la Corte ha precisato che tale regola non possa trovare applicazione ed i margini di discrezionalità debbono essere ristretti, quando si tratta del diritto all'identità dei bambini, dell'ambiente in cui vivono e si sviluppa la loro personalità (§45).

Rispondendo al primo quesito la Corte ha affermato che, considerato il preminente interesse dei bambini ed il ridotto margine di apprezzamento riservato agli Stati, il diritto al rispetto della vita privata dei bambini nati all'estero da maternità surrogata - secondo l'articolo 8 della Convenzione - obbliga gli Stati ad offrire riconoscimento legale alla relazione con la madre intenzionale che sia indicata nel certificato di nascita straniero come "madre legale" (§46).

In merito al secondo quesito, relativo alle modalità del riconoscimento legale della genitorialità intenzionale, non sussistendo in Europa un generale consenso a questo proposito, la Corte ha ribadito che agli Stati competano più ampi spazi di discrezionalità e di scelta tra gli strumenti giuridici disponibili, compresa l'adozione. Lo strumento alternativo alla trascrizione dell'atto di nascita previsto dagli Stati deve in ogni caso garantire una tutela "pronta" ed "effettiva". Tutela pronta non significa riconoscimento alla nascita, è sufficiente che il riconoscimento della relazione con la madre stabilita all'estero venga fatto al più tardi quando tale relazione “è diventata una realtà effettiva”. La procedura deve essere dunque caratterizzata da "celerità" (§55) onde evitare che la situazione di incertezza si protragga. La valutazione dell'interesse del minore deve essere effettuata in concreto e non in astratto (§52). Ad avviso della Corte una tutela può dirsi realmente effettiva quando lo strumento alternativo alla trascrizione sia idoneo a fondare una relazione piena tra genitore e figlio con effetti della medesima natura (§ 53).

La Corte EDU è tornata ad affermare che la richiesta di riconoscimento della madre intenzionale di bambini nati da GPA all'estero solleva "una questione seria sulla compatibilità [del non riconoscimento] con il migliore interesse del bambino" (§12). Ciò detto, essa passa in rassegna gli interessi che risulterebbero frustrati dal mancato riconoscimento dello status filiationis: l'incertezza giuridica quanto alla linea genitoriale; l'accesso alla cittadinanza del genitore intenzionale; il diritto di continuare a vivere nel luogo di residenza del genitore intenzionale; l'accesso all'asse ereditario latere matris; il diritto alla continuità genitoriale in caso di separazione o morte del genitore biologico; l'esecuzione forzata degli obblighi alimentari nei confronti del genitore intenzionale che decide di allontanarsi dalla famiglia.

L’ampio margine di apprezzamento lasciato agli Stati in merito alla possibilità di riconoscere rapporti di filiazione conseguiti all’estero, facendo ricorso alla maternità surrogata, e il limite a tale margine di apprezzamento nella condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano “effettività” e “celerità” della sua messa in opera, conformemente all’interesse preminente del minore costituiscono le due linee direttrici di interpretazione che hanno trovato conferma nella successiva giurisprudenza della Corte Edu.

Nella sentenza D. contro la Francia del 16 luglio 2020 (app. n. 11288/18) – avente ad oggetto il rifiuto della domanda di trascrizione nei registri dello stato civile francese del certificato di nascita di un bambino nato all’estero mediante maternità surrogata – la Corte ha ribadito che dall’esistenza di un legame genetico non consegue necessariamente il diritto alla trascrizione del certificato di nascita straniero, precisando che, nella scelta tra diversi strumenti di tutela del minore, lo Stato membro deve garantire procedure “effettive” e “celeri”, conformemente all’interesse superiore del bambino (§ 51).

Con sentenza del 12 dicembre 2019 (C. ed E. contro la Francia, app. nn. 1462/18 e 17348/18, due cause riunite nelle quali i nati da maternità surrogata avevano, in entrambi i casi, un legame genetico con uno dei genitore), la Corte Edu, richiamando il contenuto del proprio parere consultivo del 10 aprile 2019, ha ricordato che un meccanismo efficace che consenta il riconoscimento di un rapporto genitore-figlio tra i figli interessati e il genitore affidatario deve esistere, al più tardi, quando, secondo la valutazione delle circostanze del caso di specie, si sia concretizzato il legame tra i due (§ 42). Con specifico riferimento alla valutazione dell’onere relativo alla necessità di attendere l’avvio e la conclusione del procedimento di adozione, la Corte ha affermato che il tempo medio per ottenere, in Francia, una decisione sulla domanda di adozione – 4,1 mesi in caso di piena adozione e 4,7 mesi in caso di adozione semplice – possa ritenersi un peso non eccessivo e, di conseguenza, ha concluso che il rifiuto delle autorità francesi di trascrivere i certificati di nascita stranieri dei figli dei ricorrenti non sia sproporzionato rispetto agli obiettivi perseguiti (§ 44). Viene ribadita la necessità di una decisione che valuti, caso per caso, se lo strumento alternativo alla trascrizione del certificato di nascita straniero nei registri dello stato civile dello stato membro interessato garantisca una tutela “effettiva” e “celere” dei diritti dei minori a veder riconosciuto il rapporto esistente con il genitore al più tardi quando il legame tra genitore e figlio si sia concretizzato.

La Corte EDU, più di recente, chiamata a pronunciarsi su un caso di maternità surrogata nell’ipotesi di insussistenza di legame biologico tra i genitori d’intenzione ed il nato, nella sentenza del 18 maggio 2021, Valdis Fiölnisdottir e altri c. Islanda (app. n. 71552/17), ha ritenuto non contrario alla Convenzione l’operato delle autorità islandesi che avevano rifiutato la domanda proposta da due sue cittadine avente ad oggetto la richiesta di riconoscimento della genitorialità sul bambino nato in California con la maternità surrogata, senza alcun legame genetico con la coppia. Le due donne, tornate in Islanda con il neonato, appena tre settimane dopo la nascita, avevano chiesto la cittadinanza islandese per il minore e il riconoscimento del rapporto di filiazione della coppia. Le autorità islandesi, in ragione del fatto che il bambino era nato da madre americana e che in Islanda vigeva il divieto di ricorrere alla maternità surrogata, è stato considerato minore non accompagnato e dato in affidamento alle due donne. La Corte EDU ha affermato che la Corte suprema islandese, riconoscendo l’affidamento del bambino alla coppia, e prevedendo la possibilità dell’adozione piena, abbia adottato le misure necessarie per salvaguardare la vita familiare delle ricorrenti e del minore.

Nella pronuncia in esame la Corte, richiamando alcune delle considerazioni già svolte nella sentenza Paradiso e Campanelli, espressamente ha ammesso, in determinate situazioni, l’esistenza di una vita familiare di fatto tra un adulto e un figlio, anche in assenza di legami biologici o di un legame giuridico riconosciuto, a condizione che vi siano legami personali autentici. Occorre, quindi, considerare la qualità dei legami, il ruolo svolto dai ricorrenti nei confronti del terzo richiedente e la durata della convivenza (§ 59). Con specifico riferimento al caso esaminato, la Corte EDU ha ritenuto soddisfatti i requisiti della vita familiare, pur in assenza di un legame biologico tra i genitori ed il minore, in considerazione dei seguenti elementi: la lunga durata del rapporto ininterrotti degli adulti con il minore (oltre 4 anni); la qualità dei legami già costituiti e degli stretti legami affettivi instaurati con il minore durante le prime fasi della sua vita, rafforzati dal regime di affidamento adottato dalle autorità nazionali (§ 62).

In merito al diritto al rispetto della vita privata, invece, ciò che viene in rilievo, è il diritto del minore al riconoscimento del rapporto con il padre (come già affermato dalla Corte nella sentenza Mennesson e Labassè) e con la madre intenzionali (come chiarito nel Parere consultivo). In merito a tale diritto, il Giudice Lemmens prosegue evidenziando come la Corte, fino ad ora, abbia limitato il diritto del minore al riconoscimento del rapporto tra genitore intenzionale e figlio alle relazioni che comportano un legame biologico con almeno uno dei genitori che hanno adito di comune accordo la procreazione medicalmente assistita, ma come la stessa abbia comunque espressamente affermato che potrebbe essere chiamata in futuro a sviluppare ulteriormente la propria giurisprudenza. Nell’opinione in esame, viene espressamente riconosciuto come l’adozione non sempre rappresenti una soluzione per le difficoltà che il minore potrebbe incontrare e come l’impatto negativo che il mancato riconoscimento di un rapporto giuridico tra il minore ed i genitori su diversi aspetti della vita del fanciullo al rispetto della propria vita privata sia lo stesso, indipendentemente dal fatto che uno dei genitori abbia un legame biologico con il nato.

Un riferimento merita, inoltre, la recente decisione adottata dalla Corte Edu il 7 aprile 2022 (AFFAIRE A. L. c. FRANCE, app. n.13344/20), in un caso di maternità surrogata, nel quale la madre surrogata, dopo aver accettato di farsi fecondare con i gameti del ricorrente, aveva venduto il nato ad una coppia di persone diverse. La Corte, ribadita la illiceità delle pratiche di maternità surrogata e l’esistenza di un margine di apprezzamento degli stati nella decisione relativa al riconoscimento dei rapporti tra genitore e nato da maternità surrogata, ha precisato come, nella valutazione del preminente interesse del minore, non possa non essere considerato l’elemento relativo al passare del tempo nel consolidarsi di una relazione genitore-figlio, che deve essere valutato alla luce del principio del fatto compiuto (§§ 54 e 68). In particolare, in considerazione del fatto che, nel caso di specie, il procedimento era durato 6 anni ed un mese, la Corte ha affermato la violazione dell’art. 8 CEDU, non avendo lo Stato francese osservato l’obbligo di eccezionale diligenza, impostogli dalle circostanze del caso di specie (§ 73).

Infine, nella recente sentenza del 22.11.2022 (D.B. e altri c. Svizzera), la Terza Sezione delle Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione del diritto alla vita privata da parte dello Stato svizzero nei confronti di un bambino, nato attraverso tecniche di surrogazione di maternità, proibita in Svizzera, legalmente riconosciuto figlio dei ricorrenti dalla Corte della California, per aver lasciato che il minore, per sette anni ed otto mesi, a causa dell’assenza di previsioni specifiche nella legislazione svizzera (che, solo nel 2018, aveva consentito alle persone dello stesso sesso legate da un’unione registrata, di procedere all’adozione), potesse ottenere il riconoscimento del rapporto con il proprio genitore d’intenzione. Ad avviso della Corte il significativo periodo di tempo in cui la legislazione svizzera non consentiva alcuna forma di riconoscimento (e, dunque, poneva il minore in una condizione di incertezza giuridica relativa alla sua identità sociale) deve ritenersi incompatibile con i principi già affermati dalla Corte e con il principio del best interest of the child.

Nel valutare la lamentata violazione del diritto alla vita familiare dei genitori, invece, la Corte EDU ha ritenuto condivisibile l’opinione del giudice nazionale secondo il quale i due ricorrenti, avvalendosi della gestazione per altri in uno stato terzo, hanno agito in frode alla legge svizzera, per cui tale procedura è vietata. Inoltre, le difficoltà pratiche che i ricorrenti hanno riscontrato, a seguito della mancata trascrizione del certificato di nascita estero, non hanno inciso in modo particolare sulla vita della coppia e non hanno superato una soglia minima di gravità tale da poter riscontrare, sotto questo profilo, una violazione dell’art. 8 CEDU.

5.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Anche la Corte di Giustizia è stata investita da domande pregiudiziali ad oggetto l’atto di nascita rilasciato da uno Stato membro che designa due donne quali madri del minore (cause C-490/2020 e C-2/21 K.S).

I giudici del rinvio (nella causa C-490/2020) – in un procedimento promosso da una cittadina bulgara e da una del Regno Unito, coniugate a Gibilterra e residenti in Spagna, volto ad ottenere il rilascio di un documento di identità bulgara per la loro figlia, nata nel 2019 e registrata dalle autorità spagnole con un documento di identità che reca i nominativi di entrambe le ricorrenti come madri della minore – hanno chiesto alla Corte se il rifiuto, da parte delle autorità statali, di registrare un atto di nascita spagnolo (motivato dal fatto che il diritto bulgaro non prevede la genitorialità di coppie dello stesso sesso) sia giustificato dal rispetto dell’identità nazionale ex art. 4, par. 2 del TUE.

Con sentenza del 14 dicembre 2021, la Corte di Giustizia ha dichiarato che “l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, gli articoli 20 e 21 TFUE nonché gli articoli 7, 24 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, devono essere interpretati nel senso che, nel caso di un minore, cittadino dell’Unione il cui atto di nascita rilasciato dalle autorità competenti dello Stato membro ospitante designi come suoi genitori due persone dello stesso sesso, lo Stato membro di cui tale minore è cittadino è tenuto, da un lato, a rilasciargli una carta d’identità o un passaporto, senza esigere la previa emissione di un atto di nascita da parte delle sue autorità nazionali e, dall’altro, a riconoscere, come ogni altro Stato membro, il documento promanante dallo Stato membro ospitante che consente a detto minore di esercitare, con ciascuna di tali due persone, il proprio diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”.

Nella decisione in esame, la Corte, dopo aver premesso che i diritti riconosciuti ai cittadini degli Stati membri dall’art. 21, par. 1, TFUE includono il diritto di condurre una normale vita familiare sia nello Stato membro ospitante sia nello Stato membro del quale possiedono la cittadinanza, beneficiando della presenza, al loro fianco, dei loro familiari, ha ricordato che lo status delle persone, in cui rientrano le norme sul matrimonio e sulla filiazione, è una questione di competenza degli Stati membri in cui il diritto dell’Unione non incide. La Corte ha però precisato che, nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla libertà riconosciuta ad ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro conformemente al diritto di quest’ultimo (§52, nel quale viene richiamata la sentenza del 5 giugno 2018, Coman e a., C-673/16, CGUE C-2018/385, punti da 36 a 38 e giurisprudenza ivi citata). In merito a tale aspetto, i giudici di Lussemburgo rilevano come, per permettere alla minore di esercitare il proprio diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri con ciascuno dei suoi due genitori, è necessario che le due ricorrenti possano disporre di un documento che le menzioni come persone autorizzate a viaggiare con tale minore.

In merito al limite dell’ordine pubblico, la Corte (al §55), dopo aver ricordato che tale nozione “in quanto giustificazione di una deroga a una libertà fondamentale, dev’essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione. Ne consegue che l’ordine pubblico può essere invocato solo in presenza di una minaccia reale e sufficientemente grave che colpisce un interesse fondamentale della società (sentenza del 5 giugno 2018, Coman e a., cit. punto 44 e giurisprudenza ivi citata)”, ha affermato che l’obbligo per uno Stato membro di “riconoscere il rapporto di filiazione tra la minore e ciascuna di queste due persone nell’ambito dell’esercizio, da parte della medesima, dei suoi diritti a titolo dell’art. 21 TFUE e degli atti di diritto derivato ai medesimi connessi, non viola l’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico di tale Stato membro”. Laddove tale obbligo di riconoscimento non impone comunque allo Stato membro di cui il minore ha la cittadinanza di prevedere nel suo diritto interno la genitorialità di persone dello stesso sesso o di riconoscere, a fini diversi dall’esercizio dei diritti che a tale minore derivano dal diritto dell’Unione, il rapporto di filiazione tra tale minore e le persone indicate come genitori nell’atto di nascita non può ravvisarsi, ad avviso della Corte di Giustizia, alcuna minaccia all’ordine pubblico.

Partendo, poi, dal principio di non discriminazione del minore (art. 2 della Convenzione sui diritti del fanciullo) – “il quale esige che i diritti enunciati in tale Convenzione, tra cui, all’art. 7, il diritto di essere registrato alla nascita, di avere un nome e di acquisire una cittadinanza, siano garantiti al minore senza che quest’ultimo subisca discriminazioni al riguardo, comprese quelle basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori” (§ 64), i giudici di Lussemburgo hanno precisato come “sarebbe contrario ai diritti fondamentali che gli articoli 7 e 24 della Carta garantiscono a tale minore privarlo del rapporto con uno dei suoi genitori nell’ambito dell’esercizio del suo diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri o rendergli de facto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso” (§ 65).

5.5. La sentenza delle Sezioni Unite n. 38162 del 2022.

L’esame della questione relativa alle forme di tutela dei bambini nati da surrogazione di maternità non può prescindere dal recente arresto delle Sezioni Unite. Il caso che aveva dato origine al giudizio poi deciso dalle Sezioni Unite riguardava un bambino nato all’estero da maternità surrogata, all’esito di un progetto procreativo condiviso da una coppia omoaffettiva, ove uno dei due uomini aveva fornito i propri gameti, uniti nella fecondazione in vitro con l’ovocita di una donatrice, con successivo trasferimento nell’utero di una diversa donna che aveva poi portato a termine la gravidanza e partorito il bambino. I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, avevano fatto ricorso alla Corte Suprema della British Columbia che aveva dichiarato entrambi i ricorrenti genitori del bambino e, in seguito al diniego dell’ufficiale dello stato civile, avevano adito la Corte d’appello competente chiedendo il riconoscimento della sentenza straniera. In seguito all’accoglimento del ricorso, hanno proposto ricorso il Ministero dell’Interno ed il Sindaco, nella qualità di ufficiale del Governo.

La questione di massima di particolare importanza attiene al “legame di filiazione con il componente della coppia omoaffettiva che non ha con il bambino un rapporto di sangue ma che, avendo condiviso con il padre biologico il disegno di genitorialità, risulta comunque genitore sulla base di un atto legittimamente formato da un’autorità giurisdizionale straniera” (§ 2 della sentenza). Le Sezioni Unite muovono dal rilievo secondo il quale l’ordinamento italiano non consente in alcun modo il ricorso ad operazioni di maternità surrogata. Tanto premesso, la Corte, nella sua composizione allargata, osserva come il divieto di gestazione per altri non argini il progetto di diventare genitori e come ogni qualvolta la surrogazione di maternità venga praticata all’estero (come nel caso in esame) si ponga il problema del riconoscimento dello status genitoriale ottenuto all’estero in virtù di norme più liberali di quelle italiane in materia di procreazione medicalmente assistita. Tale problema, proseguono le Sezioni Unite, presenta molteplici profili di complessità: la legge, infatti, non regola la sorte del nato, malgrado il divieto; la norma incriminatrice (art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004) non intercetta le condotte commesse fuori dal territorio dello Stato; si pone l’esigenza di bilanciare interessi diversi quali l’esigenza di salvaguardare i principi ispiratori dell’ordinamento giuridico italiano in una materia di “rilevante sensibilità sul piano etico” e di proteggere il diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che anno condiviso la scelta di farlo venire al mondo.

In merito all’evoluzione del diritto vivente, invocata dall’ordinanza di rimessione, ed alle conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, le Sezioni Unite ritengono che non si possa ritenere esistente una condizione di vuoto normativo e che la citata decisione non abbia determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019. Ad avviso della Corte, infatti, la sentenza n. 33 è una decisione di “inammissibilità-monito”, in cui il giudice delle leggi, pur avendo rilevato aspetti di criticità dell’istituto dell’adozione in casi particolari - con particolare riferimento alla necessità di maggiore speditezza, alla parificazione degli effetti a quelli dell’adozione legittimante e all’abbandono dell’assenso condizionante del genitore biologico dell’adottando - , ha ritenuto di non poter intervenire direttamente “in una materia che richiede necessariamente una valutazione discrezionale del legislatore”: spetta, infatti, al legislatore, e non può essere devoluta alla giurisprudenza, la “decisione sulla direzione di marcia, in un terreno denso di implicazioni etiche, antropologiche, sociali, prima ancora che giuridiche”.

Le Sezioni Unite, dopo aver dato atto dell’inerzia del legislatore, si preoccupano di chiarire i confini dell’attività ermeneutica del giudice che, trovandosi a decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non può lasciare “i diritti del bambino infinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati”. Viene così precisato che non essendo la giurisprudenza fonte del diritto, al giudice viene richiesto un “atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessità dell’esperienza e della connessione tra questa e il sistema”. La risposta alla domanda di effettività di tutela, posta dall’ordinanza di rimessione, viene fornita dalla Corte attraverso il richiamo alla “gradualità” che, in una vicenda caratterizzata da un ambito di discrezionalità del legislatore che il giudice delle leggi ha inteso preservare, appare necessaria a far assorbire il cambiamento e le novità nel sistema, all’interno del quale la giurisprudenza ha il compito di assecondare l’evoluzione che si realizza nei costumi e nella coscienza sociale.

Nell’istituto dell’adozione in casi particolari, pertanto, il giudice deve cercare, “allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento”, la risposta per una tutela effettiva dei diritti del nato da surrogazione di maternità. Con riferimento all’inadeguatezza dell’adozione in casi particolari, la Corte, nella sua composizione allargata, ha richiamato la sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale, successiva all’ordinanza di rimessione, (con la quale è stato rimosso l’impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell’adottante), per affermare come in tal modo si sia rimosso il più importante ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari.

Ulteriore profilo di criticità è rappresentato dall’impossibilità di costituire il rapporto adottivo, secondo la disciplina dei casi particolari, in mancanza dell’assenso del genitore biologico (art. 46 della l. n. 183 del 1983). Ad avviso delle Sezioni Unite - anche sulla scorta della giurisprudenza che ha considerato superabile, in ragione del preminente interesse del minore, il dissenso all’adozione manifestato dal genitore dell’adottando che non eserciti in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sul figlio e con il quale non intrattenga alcun rapporto affettivo (Cass. 21.9.2015 n. 18575; Cass. 16.7.2018 n. 18827) - atteso che, alla base della domanda di adozione particolare da parte del genitore sociale c’è la condivisione, con il genitore biologico, della responsabilità conseguente alla scelta di aver dato vita al progetto procreativo in un Paese estero in conformità alla lex loci, l’effetto ostativo del dissenso dell’unico genitore biologico all’adozione del genitore sociale può e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. Il genitore biologico, pertanto, potrebbe negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure avvia partecipato solo al progetto di procreazione, ma abbia poi abbandonato il partner e il minore.

Le Sezioni Unite, ancora in merito ai profili di inadeguatezza dell’istituto dell’adozione in casi particolari nella prospettiva di una tutela effettiva dei diritti del nato, rilevano come tale istituto presuppone comunque che il genitore assuma l’iniziativa, non essendo consentito al minore di rivendicare la costituzione del rapporto genitoriale per il tramite dell’adozione. Anche di fronte del rischio di un rifiuto del “committente”, la Corte ribadisce come la soluzione non sia comunque rappresentata dal meccanismo automatico della trascrizione, ma resti affidato al giudice il computo di ricercare nel sistema “gli strumenti affinchè siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente ad una verifica in concreto di conformità al superiore interesse del minore”.

Tanto chiarito in merito all’istituto dell’adozione in casi particolari, come strumento adeguato di tutela dei diritti dei minori nati da surrogazione di maternità, la Corte, passa ad esaminare i profili relativi alla compatibilità degli effetti del provvedimento straniero che accerta il rapporto di filiazione con il genitore intenzionale con l’ordine pubblico internazionale. Nella decisione in esame, viene chiarito come l’ordine pubblico, nel diritto internazionale privato, svolga sia una funzione preclusiva, quale meccanismo di salvaguardia dell’armonia interna dell’ordinamento giuridico statale di fronte all’ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, sia una funzione positiva, promozionale, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, anche in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale. In forza di un puntuale richiamo agli approdi già raggiunti dalle Sezioni unite (nelle sentenze n. 16601/2017, n. 12193/2019 e 9006/2021), viene ribadito come concorrano a formare l’ordine pubblico anche i principi fondanti l’autodeterminazione, il principio di non discriminazione, il principio solidaristico che fonda la genitorialità sociale e il principio del best interest of the child. Quest’ultimo, precisano le Sezioni Unite, sebbene non rappresenti un diritto tiranno rispetto alle altre situazioni soggettive costituzionalmente riconosciute e protette, ha un ruolo “centrale e preminente”. In tale cornice, le Sezioni Unite precisano come l’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternità surrogata, sia una norma di ordine pubblico internazionale: la sanzione penale, infatti, esprime l’elevato grado di disvalore che l’ordinamento italiano attribuisce alla surrogazione di maternità e pone l’esigenza di porre un confine al “desiderio di genitorialità ad ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un’altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile”.

Tanto premesso in generale con riferimento alla surrogazione di maternità – che, come precisato dalla Corte, “tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra ladre e figlio nel lungo periodo della gestazione” – le Sezioni Unite, disattendendo la soluzione ermeneutica proposta nell’ordinanza di rimessione, rilevano come non sia consentito all’interprete selezionare le fattispecie e ammettere la delibazione laddove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell’ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche (come nel caso portato all’attenzione delle Sezioni Unite). Ad avviso della Corte, nella maternità surrogata il bene tutelato è la dignità di ogni essere umano, nella sua dimensione soggettiva ed oggettiva, “non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona”. Pur consapevoli dell’esistenza di opzioni di contenuto diverso, effettuate da ordinamenti “saldamente inseriti nella tradizione liberaldemocratica occidentale” e di diverse letture offerte da una parte significativa del pensiero giuridico e culturale del Paese e dalla giurisprudenza di altre corti europee, le Sezioni Unite, richiamando le considerazioni svolte nella prima parte della pronuncia in merito al confine tra i compiti propri del legislatore e la funzione della giurisprudenza, ribadiscono come, di fronte ad una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non sia consentito all’interprete ritagliare dalla fattispecie normativa forme di surrogazione che, in ragione delle modalità della condotta e degli scopi perseguiti, non sarebbero idonee a vulnerare il nucleo essenziale del bene giuridico protetto. Non è, pertanto, consentito al giudice, in sede di interpretazione, escludere il contrasto con l’ordine pubblico internazionale nei casi in cui la pratica della gestazione per altri sia il frutto di una scelta libera e consapevole della dona, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino.

L’esclusione dell’automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero non comporta, però, che venga cancellato o che affievolisca l’interesse superiore del minore A differenza di quanto ritenuto nella precedente sentenza n. 12193 del 2019 (nella quale la Corte aveva affermato che l’interesse alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero, è “destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell’ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica”), le Sezioni Unite del 2022 affermano che “l’ordinamento italiano mantiene fermo il divieto di maternità surrogata e, non intendendo assecondare tale metodica di procreazione, rifugge da uno strumento automatico come la trascrizione, ma non volta le spalle al nato”. Tale interesse, ribadisce la Corte (in forza di un puntuale richiamo alla giurisprudenza di legittimità, che ha in più occasioni respinto la tesi che l’omosessualità sia una condizione in sé ostativa all’assunzione e allo svolgimento di compiti genitoriali e alle pronunce della Corte Edu e della Corte di Giustizia) non può ritenersi insussistente in ragione dell’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner e deve essere valutato in concreto dal giudice, chiamato a verificare, nella cornice caratterizzata da una pluralità di modelli familiari, l’esistenza di un rapporto affettivo e di cura con il genitore d’intenzione. Tale soluzione, precisano le Sezioni Unite, appare in linea con la giurisprudenza della Corte Edu, alla luce della quale, seppur nell’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati, deve essere garantita la concreta possibilità di riconoscimento giuridico dei legami che si sono di fatto concretizzati.

6. Questioni aperte.

La Corte costituzionale da tempo ci ha ricordato come la Costituzione “non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti” (Corte cost. sentenza n. 494 del 2002) e, più di recente, le Sezioni Unite hanno ribadito che “quando si ha a che fare con i diritti delle persone, l’interpretazione deve essere improntata ad un senso di umanità” (sentenza n. 38162 del 2022, § 2).

Le coordinate appena indicate fanno da sfondo ad un’evoluzione delle relazioni familiari nel mutato contesto sociale che, in assenza di un tempestivo e coordinato intervento del legislatore, chiama il giudice, secondo il criterio di “gradualità” necessario a far assorbire il cambiamento e le novità del sistema (indicato dalle Sezioni Unite nella sentenza del dicembre 2022), ad un intervento teso ad individuare, nel sistema, i rimedi più appropriati per garantire ai minori una tutela effettiva.

Molte le questioni aperte cui i giudici sono chiamati a fornire una risposta.

I diritti dei minori, concepiti all’estero con il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, e nati in Italia sono, fino ad ora, rimasti privi di tutela.

Minori che, a causa della perdita immediata ed improvvisa del rapporto con entrambi i genitori (si pensi, ad esempio, agli orfani dei femminicidi) sono dichiarati adottabili e costretti, in ossequio al disposto dell’art. 27 della l. n. 184 del 1983, a perdere in modo definitivo tutti i legami con i nuclei familiari d’origine, anche quanto tale recisione potrebbe essere per loro pregiudizievole.

E, ancora, bambini nati da surrogazione di maternità che, a causa della durata del procedimento di adozione in casi particolari (13) o del rifiuto del genitore “committente” di procedere all’adozione, potrebbero restare privi di tutela per un tempo ben superiore a quello in cui il legame tra il bambino e il genitore d’intenzione si è concretizzato.

Un riferimento meritano, infine, le istanze di tutela spiegate dai figli minori dei cittadini stranieri che hanno realizzato in Italia una vita familiare.

E, visto che il diritto processuale si pone come piano mobile di tutela per assicurare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, non può non farsi riferimento alla legge n. 206 del 2021 ed al d.lgs. n. 149 del 2022 che, riformando integralmente la giurisdizione dei diritti delle relazioni familiari, delle persone e dei minori e le norme di procedura del rito familiare ed istituendo il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie e unificando i tanti riti oggi esistenti in unico rito (ad esclusione dei procedimenti di adozione in senso stretto e delle minore relative ai minori stranieri) chiama il giudice a raccogliere la sfida da vincere per garantire ai minori una tutela effettiva.

PARTE SECONDA I DIRITTI A CONTENUTO ECONOMICO

  • proprietà privata
  • usufrutto
  • codice civile

CAPITOLO VII

LA PROPRIETÀ E I DIRITTI REALI

(di Annachiara Massafra )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le azioni a tutela della proprietà. - 3 I modi di acquisto a titolo originario della proprietà. - 3.1 L’accessione invertita. - 3.2 L’usucapione. - 4 I limiti legali al diritto di proprietà. - 5 La tutela del possesso. - 6 L’enfiteusi. - 7 Gli usi civici. - 8 L’usufrutto.

1. Premessa.

Il 2022 è stato caratterizzato da una copiosa produzione giurisprudenziale in tema di proprietà e diritti reali: in breve tempo si sono susseguite numerose decisioni che hanno affrontato i diversi aspetti della materia, talvolta confermando i precedenti orientamenti, talvolta ponendo in luce nuovi profili.

2. Le azioni a tutela della proprietà.

Sul versante processuale, molteplici decisioni che hanno analizzato, sotto vari angoli prospettici, i presupposti per l’esperimento delle azioni a difesa della proprietà.

Sez. 2, n. 24050/2022, Tedesco, Rv. 665553-01, in particolare, ha osservato che tanto nell'azione di accertamento della proprietà, quanto in quella di rivendicazione, l'ampiezza e la rigorosità della prova circa la spettanza del diritto sono identiche, mentre la differenza tra le due figure va vista nel momento finale dell'azione, che in quella di accertamento si esaurisce nella dichiarazione dell'appartenenza del diritto, laddove nella rivendica mira anche al conseguimento del possesso della cosa. Sempre in relazione alla rigorosità della prova, Sez. 2, n. 22661/2022, Tedesco, Rv. 665252-01, inoltre ha affermato che nel giudizio di revindica di un immobile, ai fini della prova della proprietà, non è sufficiente un atto di divisione, il quale, atteso il carattere retroattivo dell'atto divisionale, non ha di per sé forza probante, nei confronti dei terzi, del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, ma occorre necessariamente dimostrare il titolo di acquisto in base al quale il bene è stato attribuito in sede di divisione.

3. I modi di acquisto a titolo originario della proprietà.

Sez. 2 n. 11032/2022, Varrone, Rv. 664376-02, ha avuto il pregio di chiarire che la disposizione dell'art. 1153 c.c. - sull'acquisto della proprietà in forza di possesso di buona fede di beni mobili, conseguito in esecuzione di atto astrattamente idoneo all'effetto traslativo - non opera con riguardo a cose di interesse artistico e storico appartenenti ad enti o istituti legalmente riconosciuti diversi dallo Stato o da altri enti o istituti pubblici e soggette, a norma del combinato disposto degli artt. 26 e 28 della l. n. 1089 del 1939, al regime dell'inalienabilità senza previa autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione e della prelazione statale nell'acquisto di esse, in quanto si tratta di beni per i quali è espressamente vietata (art. 32) all'alienante la traditio in pendenza del termine per i detti adempimenti, mentre la consegna della cosa, per potere produrre gli effetti di cui al citato art. 1153 c.c., deve essere non vietata dalla legge per motivi d'interesse generale.

3.1. L’accessione invertita.

In tema di accessione invertita, Sez. 2, n. 12033/2022, Varrone, Rv. 664420-02, ha rilevato che la sentenza di accoglimento della domanda ex art. 938 c.c. e di attribuzione al costruttore della proprietà dell'opera realizzata e del suolo (cd. accessione invertita) ha natura costitutiva in quanto trasferisce il diritto di proprietà della porzione di suolo occupata in buona fede, sicché il giudice con la pronuncia deve condizionare l'effetto traslativo al pagamento dell'indennità dovuta al proprietario del suolo, pari al doppio del valore della superficie occupata.

Sotto altro profilo la medesima sentenza (Sez. 2, n. 12033/2022, Varrone, Rv. 664420-02) ha sostenuto che nell'ipotesi di accessione cd. invertita ai sensi dell'art. 938 c.c., il costruttore, che abbia occupato in buona fede una parte del suolo del vicino e intenda ottenere l'attribuzione della proprietà del suolo occupato, è tenuto a proporre un’espressa domanda, ma non anche ad offrire una congrua indennità, essendo la determinazione di questa riservata al giudice del merito, il quale non è, pertanto, vincolato dall'entità dell'offerta compiuta dal costruttore, né dalla condotta processuale dello stesso, che può indicare tale indennità anche in appello, nonché modificarla, senza che la sua attività processuale al riguardo resti soggetta ai limiti degli artt. 345 e 346 c.p.c. Alquanto interessante, anche in relazione alla peculiare fattispecie, è Sez. 2, n. 05086/2022, Giannaccari, Rv. 663923-01, la quale ha stabilito che in favore del convivente more uxorio che abbia realizzato, a sue spese, opere sull'immobile di proprietà del partner e che, cessata la convivenza, pretenda di essere indennizzato per le spese sostenute ed il lavoro compiuto, trova applicazione non l'art. 936 c.c., siccome avente riguardo al solo autore delle opere che non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale tale da attribuirgli la facoltà di costruire sul suolo, bensì la disposizione di cui all'art. 2041 c.c. sull'arricchimento senza causa, purché si accerti, tenuto conto dell'entità delle opere in base alle condizioni personali e patrimoniali dei partners, che le spese erano state sostenute e il lavoro era stato compiuto senza spirito di liberalità, in vista di un progetto di vita comune, e che, realizzando quelle opere, il convivente non aveva intenzione di adempiere ad alcuna obbligazione naturale.

3.2. L’usucapione.

L’acquisto della proprietà per usucapione, in quanto modo di acquisto a titolo originario, richiede, al fine del suo perfezionamento, il compimento di atti diretti in maniera non equivoca a manifestare sul bene un animus corrispondente a quello del proprietario: tali principi, assolutamente pacifici nella giurisprudenza di legittimità, sono stati affermati e chiariti dalle pronunce della S.C. di quest’anno.

Tra queste, Sez. 2, n. 11132/2022, Varrone, Rv. 664382-01, ha osservato che ai fini dell’usucapione, in presenza di atto traslativo della proprietà nullo, è necessario che il tradens eserciti sul bene il possesso, non essendo a tal fine idonea la mera detenzione, sicché, in applicazione del principio, è stata confermata la sentenza di merito che, ravvisando l'esistenza di un preliminare di vendita, aveva escluso che l'utilizzo esclusivo del bene ed il compimento di atti di amministrazione, per la conservazione ed il miglioramento delle condizioni dell'immobile, integrasse un atto di interversione del possesso nei confronti del proprietario, e successivamente dei suoi eredi, idoneo al mutamento del titolo, venendo in rilievo una relazione con la res qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata, inidonea, pertanto, a fondare un valido possesso ad usucapionem in capo all'avente causa.

Sempre in argomento, rileva Sez. 2, n. 22663/2022, Tedesco, Rv. 665181-01. Quest’ultima decisione ha chiarito, che il possesso esclusivo di un libretto al portatore, in capo ad un coerede, utile per l'usucapione, implica un atto positivo del possessore tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune e irrilevante la legittimazione del possessore ex art. 2003 c.c. a ricevere il pagamento delle somme ivi depositate dalla banca, con effetto liberatorio per quest'ultima, siccome non indicativa dell'unicità del titolare del diritto. In relazione a bene illecitamente occupato dalla P.A.

Sez. 1, n. 18361/2022, Parise, Rv. 665318-02, ha, inoltre, statuito che, ai fini della usucapione, in assenza di provvedimento ablatorio, da ritenersi possibile forma di acquisto della proprietà da parte dell'ente pubblico, la decorrenza del termine necessario ex art. 1158 c.c. dipende dalla natura del titolo in virtù del quale è iniziata la relazione di fatto con il bene, poiché se il titolo, seppur invalido, ha effetti reali ed è astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, sì da determinare l'animus possidendi, il termine decorre dalla traditio, operando la presunzione di cui all'art. 1141, comma 1, c.c.; se invece l'atto negoziale ha effetti meramente obbligatori, la consegna di per sé vale a trasferire unicamente la detenzione del bene, dovendo in tal caso l'occupante dimostrare l'interversione della detenzione in possesso ad usucapionem, mediante idonee attività materiali di opposizione, specificamente rivolte contro il privato proprietario, non essendo sufficiente a tal fine il prolungarsi della detenzione, né il compimento di atti corrispondenti all'esercizio del possesso, né atti di natura latamente amministrativa, rivolti ad una generalità indistinta di soggetti.

Sotto il diverso profilo probatorio, Sez. 2, n. 25095/2022, Caponi, Rv. 665588-01, ha affermato che in tema di usucapione, dalla presunzione discendente dall'art. 1141, comma 1, c.c. deriva un'inversione dell'onere probatorio in punto di animus possidendi, cosicché non spetta al possessore dimostrare l'esistenza di tale elemento soggettivo, ma alla parte che si opponga all'avvenuta maturazione dell'usucapione dimostrarne la mancanza. In applicazione del principio, è stata quindi cassata la sentenza di merito con cui il giudice dell'appello, nel valutare se l'accoglimento della domanda di rivendicazione potesse essere efficacemente contrastata dal maturare dell'usucapione, aveva invertito il riparto degli oneri probatori rispetto alla regola di cui all'art. 1141, comma 1, c.c., chiedendo ai coniugi convenuti, quali costruttori ed unici utilizzatori dell'immobile, di dimostrare l'animus possidendi e non già all'attore in rivendicazione di dimostrare il difetto di tale elemento soggettivo.

Sez. 2, n. 01796/2022, Oliva, Rv. 663640-01, in relazione alla domanda di accertamento dell'intervenuta usucapione della proprietà di un fondo destinato ad uso agricolo ha inoltre chiarito che non è sufficiente, ai fini della prova del possesso uti dominus del bene, la sua mera coltivazione, poiché tale attività è pienamente compatibile con una relazione materiale fondata su un titolo convenzionale o sulla mera tolleranza del proprietario e non esprime, comunque, un'attività idonea a realizzare l’esclusione dei terzi dal godimento del bene che costituisce l'espressione tipica del diritto di proprietà. Ancora più nel dettaglio, la citata ordinanza ha chiarito che, a tal fine, pur essendo possibile in astratto per colui che invochi l'accertamento dell'intervenuta usucapione del fondo agricolo conseguire, senza limiti, la prova dell'esercizio del possesso uti dominus del bene, la prova dell'intervenuta recinzione del fondo costituisce, in concreto, la più rilevante dimostrazione dell'intenzione del possessore di esercitare sul bene immobile una relazione materiale configurabile in termini di ius excludendi alios e, dunque, di possederlo come proprietario escludendo i terzi da qualsiasi relazione di godimento con il cespite predetto.

Sez. 1, n. 17230/2022, Vannucci, Rv. 665091-01, ha avuto il pregio di evidenziare che il titolo di acquisto della proprietà, trascritto successivamente alla dichiarazione di fallimento, non è di per sé opponibile nei confronti della massa, ma può rilevare ai fini della prova della data di inizio del possesso ad usucapionem, quale situazione fattuale che non viene interrotta dall'apertura della procedura concorsuale, né è impedita dal disposto degli artt. 42 e 45 l.fall., sicché, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto inopponibili alla massa fallimentare gli accordi di separazione consensuale che prevedevano l'acquisto della casa coniugale in favore della moglie del soggetto poi fallito, attribuendo tuttavia agli stessi il valore di prova presuntiva del momento iniziale del possesso.

In relazione poi al profilo temporale, Sez. 2, n. 18544/2022, Rolfi, Rv. 664991-01, ha osservato che l'atto introduttivo del giudizio di scioglimento della comunione non interrompe il decorso del tempo utile all'usucapione, trattandosi di atto dispositivo del proprietario non diretto al recupero del possesso.

Sotto il diverso profilo processuale, Sez. 2, n. 31807/2022, Criscuolo, Rv. 665997-01, ha infine osservato che la sentenza che abbia accertato l'acquisto per usucapione della proprietà di un bene in favore di un soggetto e nei confronti di chi, per effetto di un atto a titolo derivativo, si era già spogliato del proprio diritto in epoca anteriore alla data di introduzione del giudizio di usucapione, è suscettibile di opposizione di terzo ordinaria da colui che abbia acquistato a titolo derivativo la proprietà, senza che possa assumere efficacia impeditiva la mancata trascrizione del titolo di acquisto, atteso che, ai fini della produzione dell'effetto traslativo della proprietà ex art. 1376 c.c., rileva la sola conclusione dell'accordo manifestato nelle forme di legge.

Sez. 2, n. 08590/2022, Giannaccari, Rv. 664239-01, ha inoltre avuto il pregio di chiarire che il soggetto che assume di essere proprietario dell'immobile oggetto di un procedimento di esecuzione per rilascio, iniziato da chi, a sua volta, si professa proprietario dello stesso immobile sulla base di una sentenza che ne ha accertato l'usucapione all'esito di un precedente giudizio svoltosi contro un terzo, deve far valere la sua pretesa dominicale non con il rimedio previsto dall'art. 615, comma 1 c.p.c., bensì con l'opposizione di terzo ordinaria, ex art. 404, comma 1 c.p.c., proposta avverso la sentenza che ne pregiudica le ragioni, di cui può altresì chiedere la sospensione ai sensi dell'art. 407 c.p.c.

Infine, per quanto concerne l’usucapione speciale di cui all’art. 1159 bis c.c., Sez. 2, n. 36626/2022, Poletti, Rv, 666420-01, (riguardante i fondi rustici con annessi fabbricati siti in comuni classificati montani ovvero in comuni non montani quando il loro reddito dominicale non sia superiore ai limiti fissati dalla l. n. 97 del 1994), ha chiarito che essa postula, altresì, che il fondo rustico sia concretamente destinato all'attività agricola, tale intendendosi una ben individuata entità agricola avente destinazione e preordinazione a una propria vicenda produttiva, escludendo al contempo che, per definire il predetto concetto, possa essere impiegata la nozione di impresa agricola, ponendosi essa in contrasto con la ratio della norma, data dall'esigenza di tutelare l'attività agricola svolta in piccole zone montane di scarsa produttività, onde recuperare terreni incolti e abbandonati dal proprietario, ma non di incentivare l'attività agricola organizzata in forma imprenditoriale ed esplicata sui fondi in questione.

4. I limiti legali al diritto di proprietà.

Nell’ambito delle limitazioni legali al diritto di proprietà dettate dai rapporti di vicinato rilievo preminente assume la disciplina delle distanze tra costruzioni (artt. 873 ss. c.c.), le cui prescrizioni hanno carattere preventivo e trovano applicazione indipendentemente dall’esistenza di un danno (sebbene Sez. 6-2, n. 25082/2020, Criscuolo, Rv. 659708-01 abbia evidenziato in merito che la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in re ipsa, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure iuris tantum, tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso): si tratta di reciproci presupposti di convenienza e sviluppo, tuttavia non rientranti nel concetto di servitù, sebbene oggetto di tutela per il tramite dell’actio negatoria, imprescrittibili e non onerosi.

Passando all’esame degli arresti con cui la S.C. si è interessata dell’applicazione, in concreto, della normativa sulle distanze, Sez. 2, n. 12196/2022, Fortunato, Rv. 664390-01, ha chiarito che nell'ambito delle opere edilizie, in caso di demolizione di un edificio preesistente e successiva ricostruzione, comportante un aumento di volumetria, il manufatto nel suo complesso è sottoposto alla disciplina in tema di distanze, vigente al tempo della sua edificazione, solo ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa, con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni; in mancanza di tale previsione, il manufatto va considerato come nuova costruzione solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario e la demolizione va disposta non integralmente, ma esclusivamente per i volumi eccedenti, da accertare in concreto.

Sempre in argomento, Sez. 2, n. 11048/2022, Carrato, Rv. 664379-02, ha statuito che l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 debba essere interpretato nel senso che la distanza minima di dieci metri è richiesta anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e che è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell'edificio preesistente, essendo sufficiente, per l'applicazione di detta distanza, che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, benché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, con la conseguenza che il rispetto della distanza minima è dovuto pure per i tratti di parete parzialmente privi di finestre.

In relazione poi alla distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, Sez. 2, n. 28147/2022, Caponi, Rv. 665703-01, ha chiarito che l'obbligo di rispettare una distanza minima di dieci metri, previsto dall'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, vale anche quando la finestra di una parete non fronteggi l'altra parete (per essere quest'ultima di altezza minore dell'altra), tranne che le due pareti aderiscano in basso l'una all'altra su tutto il fronte e per tutta l'altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui.

Sez. 2, n. 20428/2022, Dongiacomo, Rv. 665169-01, ha peraltro affermato che rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41 sexies l. n. 1150 del 1942, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma altresì gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modificazioni apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente; né assume rilevanza, in senso contrario, il disposto dell'art. 2 bis, comma 1 ter, d.P.R. n. 380 del 2001 (nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 10, comma 1, lett. a), d.l. n. 76 del 2020, conv. con modif. in l. n. 120 del 2020) giacché tale norma, se prevede che possano rientrare nella nozione di ricostruzione anche opere che aumentano il volume o modificano la sagoma dell'opera da costruire, richiede pur sempre che l'intervento sia realizzato nel rispetto delle distanze preesistenti, e cioè di quelle conformi alla normativa vigente al momento in cui è stato realizzato l'intervento originario.

Ancora in argomento deve segnalarsi Sez. 2, n. 09264/2022, Cosentino, Rv. 664319-01, che ha statuito che la disciplina del distacco di costruzioni dal confine va individuata in quella regolamentare locale per la zona omogenea in cui sorge la costruzione, senza che rilevi né la destinazione della costruzione stessa, né la sua eventuale difformità rispetto alle destinazioni consentite dagli strumenti urbanistici per i fabbricati da realizzare in tale zona. Sez. 2, n. 03241/2022, Fortunato, Rv. 663691-01, inoltre ha avuto il pregio di chiarire che in tema di distanze, sia le norme tecniche di attuazione dei piani regolatori generali, sia i regolamenti edilizi comunali hanno valenza integrativa dell'art. 873 c.c. e natura regolamentare o di atti amministrativi generali, sicché sono subordinati solamente alle norme di rango primario, in esecuzione delle quali sono stati emanati. Da ciò consegue che la prevalenza delle diverse prescrizioni è, in materia, affidata essenzialmente ad un criterio di successione temporale delle norme locali.

In argomento rileva altresì Sez. 2, n. 11048/2022, Carrato, Rv. 664379-01, la quale ha precisato che, al fine di verificare se siano rispettati i vincoli di altezza fissati dai regolamenti edilizi quando l'entità del distacco tra fabbricati sia stabilita in rapporto all'altezza delle costruzioni che si fronteggiano, l'altezza da prendere in considerazione è quella dei prospetti che delimitano il distacco e deve essere misurata avendo riguardo al livello del suolo (anche con riferimento a quello di eventuali piani interrati) dei prospetti medesimi, dovendosi, in caso di fabbricati con prospetti su più fronti a quote diverse, aver riguardo, in particolare, all'altezza di ciascun prospetto.

Sez. 6-2, n. 05078/2022, Giannaccari, Rv. 664177-01, ha, infine, ribadito che in tema di distanze legali fra costruzioni, qualora il manufatto edificato da un terzo con materiali propri su fondo altrui si trovi a distanza non legale rispetto ad una preesistente costruzione ubicata sul fondo confinante (art. 873 c.c.), l'azione del proprietario di quest'ultimo, volta a conseguire la demolizione o l'arretramento dell'opera - qualificabile come negatoria servitutis - è esperibile esclusivamente nei confronti del proprietario confinante (in considerazione del carattere reale dell'azione medesima), dovendo, per converso, la legittimazione passiva del terzo costruttore essere riconosciuta (alla stregua della sua qualità di autore del fatto illecito) rispetto all'eventuale, ulteriore pretesa di risarcimento del danno.

5. La tutela del possesso.

La tutela del possesso è affidata alle azioni di reintegrazione e manutenzione (rispettivamente disciplinate dagli artt. 1168 e 1170 c.c.), nonché alle azioni di nunciazione o quasi-possessorie (denuncia di nuova opera e di danno temuto, disciplinate dagli artt. 1171 e 1172 c.c.) - che, in realtà, spettano non solo al possessore, ma anche al proprietario ed al titolare di altro diritto reale di godimento.

Va preliminarmente richiamata Sez. 3, n. 29924/2022, Scarano, Rv. 666047-01, che ha ribadito come la previsione di cui all'art. 1150 c.c. - che attribuisce al possessore, all'atto della restituzione della cosa, il diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie ed all'indennità per i miglioramenti recati alla cosa stessa - è di natura eccezionale e non può, quindi, essere applicata in via analogica al detentore qualificato od a qualsiasi diverso soggetto.

Sez. 2, n. 24236/2022, Criscuolo, Rv. 665558-01, in tema di giudizio possessorio, ha affermato che il divieto di proporre giudizio petitorio, previsto dall'art. 705 c.p.c., riguarda il solo convenuto nel giudizio possessorio, trovando la propria ratio nell'esigenza di evitare che la tutela possessoria chiesta dall'attore possa essere paralizzata, prima della sua completa attuazione, dall'opposizione diretta ad accertare l'inesistenza dello ius possidendi; diversamente, l'attore in possessorio può proporre azione petitoria, anche in pendenza del medesimo giudizio possessorio, dovendosi interpretare tale proposizione come finalizzata ad un rafforzamento della tutela giuridica, e non già come rinuncia all'azione possessoria.

Detta facoltà, tuttavia, non può essere esercitata nello stesso giudizio possessorio, ma soltanto con separata iniziativa, introducendo la domanda petitoria una causa petendi e un petitum completamente diversi, dal che deriva l'inammissibilità della stessa se proposta dall'attore nella fase di merito del procedimento possessorio, la quale costituisce mera prosecuzione della fase sommaria.

Sez. 2, n. 25094/2022, Caponi, Rv. 665587-01, ha avuto il pregio di chiarire che la condizione della denuncia di danno temuto non deve individuarsi in un danno certo, o già verificatosi, bensì anche nel solo ragionevole pericolo che il danno si verifichi, con la conseguenza che l'azione può esperirsi pure quando un danno si sia già verificato, ma permanga il pericolo che esso si verifichi di nuovo, poiché la circostanza che un danno si sia già prodotto non esclude il pericolo che possa verificarsi un ulteriore futuro danno e che quindi sussista il ragionevole timore che continui a sovrastare pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l'oggetto del diritto o del possesso.

Sotto il diverso profilo processuale rileva Sez. 2, n. 32350/2022, Besso Marcheis, Rv. 666166-01, la quale ha statuito che il procedimento possessorio, come risultante dalle modifiche apportate all'art. 703 c.p.c. dal d.l. n. 35 del 2005 (convertito dalla legge n. 80 del 2005), pur diviso in due fasi, conserva la sua struttura unitaria, nel senso che la fase eventuale di merito non è che la prosecuzione di quella sommaria ed è retta, perciò, dagli atti introduttivi della fase interdittale, sicché l'istanza di prosecuzione non deve essere notificata al contumace, non essendo introduttiva di un nuovo giudizio, né essendo tale incombenza prevista dall'art. 292 c.p.c.

6. L’enfiteusi.

Sez. 2, n. 12206/2022, Massafra, Rv. 664391-01, ha ribadito che la disposizione dell'art. 975, comma 1, c.c., secondo cui l'enfiteuta, quando cessa l'enfiteusi, ha diritto al rimborso dei miglioramenti apportati, nella misura dell'aumento di valore conseguito dal fondo per effetto dei miglioramenti stessi, quali risultino accertati al momento della riconsegna, trova applicazione solo ai miglioramenti che si collocano nell'ambito del rapporto di enfiteusi e che, essendo ancora esistenti alla data della riconsegna, si traducono in un valore economico direttamente o indirettamente riconducibile alla legittima attività dell'enfiteuta (o dei suoi danti causa), e non anche ai miglioramenti realizzati dopo la cessazione del rapporto nel tempo in cui l'enfiteuta abbia conservato di fatto il possesso materiale del bene, per i quali, invece, risultano applicabili i criteri generali previsti dall'art. 1150 c.c.

Mentre per quanto concerne gli elementi essenziali dell’enfiteusi, Sez. 6-2, n. 15822/2022, Grasso, Rv. 665077-01, afferma che, anche dopo le modifiche introdotte in materia dalle leggi n. 607 del 1966 e n. 1138 del 1970, e tanto nel caso in cui essa abbia ad oggetto un fondo rustico, quanto in quello in cui riguardi un fondo urbano (terreno da utilizzare per scopi non agricoli, ovvero edificio già costruito), è l'imposizione a carico dell'enfiteuta dell'obbligo di migliorare la precedente consistenza del fondo, il quale, pure nel suddetto caso dell'enfiteusi urbana, non si identifica, né si esaurisce nel diverso obbligo di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria. Ne consegue che, sia nel caso di enfiteusi urbana che rurale, le migliorie non si risolvono nella mera manutenzione, sia pure straordinaria.

7. Gli usi civici.

Gli usi civici sono essenzialmente disciplinati dalla l. 16 giugno 1927, n. 1766 (conversione in legge del regio decreto 22 maggio 1924 n. 751) e nel relativo regolamento di attuazione, regio decreto 26 febbraio 1928, n, 332 nonché nella l. 31 gennaio 1994, n. 97 (Nuove disposizioni per le zone montane.). Originariamente, la finalità di tali disposizioni era quella di liquidare i predetti usi civici, per una migliore utilizzazione agricola dei terreni su cui essi insistevano ma essi hanno continuato ad esistere con un ruolo non marginale nell’economia agricola del Paese (Corte cost. 210/2014).

In forza dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico in tema di assetti fondiari collettivi, la tutela paesistico-territoriale ha incorporato il regime giuridico dei predetti usi, sia i beni in quanto gestiti in conformità a siffatto regime (Corte Cost. n. 71/2020).

Gli usi civici possono insistere su beni appartenenti alla collettività degli utenti ovvero insistere su beni privati (cd. in senso stretto). Questi ultimi comportano, per il proprietario, un vincolo ed un limite al pieno godimento del proprio bene, stante l’obbligo di consentire ai membri di una data comunità di fare proprie specifiche utilità: donde la necessità di provvedere alla loro liquidazione.

Premesso quanto innanzi, in questa sede rileva Sez. 2, n. 19941/2022, Carrato, Rv. 665010-01, che ha avuto il pregio di affermare come, nell’uso civico esercitato su beni appartenenti alla collettività (terre possedute dai comuni, frazioni di comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie), il regime di inalienabilità e di indisponibilità, cui i beni stessi sono assoggettati, permane fino all'eventuale affrancazione, realizzabile con la liquidazione diretta ovvero - per le sole province ex pontificie - anche con la liquidazione c.d. invertita, ove è la collettività che riscatta, in tutto in parte, l'immobile dietro versamento di un canone al proprietario e successivo procedimento di "quotizzazione", mediante assegnazione delle unità fondiarie risultanti dalla ripartizione a titolo di enfiteusi.

Sotto il diverso profilo processuale, Sez. U, n.  28802, Orilia, Rv. 665941-01, ha statuito che, in tema di giurisdizione, spettano al giudice ordinario - e non al Commissario per la liquidazione degli usi civici - sia le controversie tra privati in cui l'accertamento sulla qualità del terreno che si assume di "uso civico" (cd. qualitas fundi) debba essere risolto incidenter tantum, per essere stata la relativa eccezione sollevata al solo scopo di negare l'esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare, risolvendosi la stessa nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato, sia quelle in cui insorga una questione possessoria su un terreno, la cui appartenenza al demanio civico sia già stata oggetto di accertamento coperto da giudicato, non avendo essa più attinenza con la qualitas soli, che notoriamente afferisce al petitorio.

Sez. U n. 19346/2022, Criscuolo, Rv. 665036-01, ha ribadito che appartiene alla giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici la cognizione sulle opposizioni eventualmente proposte dalle parti avverso l'esecuzione delle decisioni commissariali adottate in sede giurisdizionale, mentre Sez. U n.  15530/2022, Falaschi, Rv. 664750-01, ha ritenuto che sussiste la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ogni volta in cui oggetto della domanda principale sia l'accertamento della demanialità civica del bene, e le altre domande connesse siano conseguenza di tale accertamento (In applicazione di tale principio, è stata dichiarata la giurisdizione commissariale in relazione a una domanda di accertamento della qualità demaniale e collettiva di un bene, e della conseguente invalidità di un contratto di locazione dello stesso bene).

Sempre in argomento Sez. 2, n. 05334/2022, Abete, Rv. 663903-01, ha osservato che nel giudizio di accertamento negativo della demanialità civica di terreni, al Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici è consentita la disapplicazione del decreto regionale di accertamento dell'appartenenza degli stessi al demanio civico, anche se emesso anteriormente all'instaurazione del giudizio, avendo il Commissario il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi nell'ambito delle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva e sussistendo un rapporto di strumentalità tra l'esercizio di tale potere e le esigenze della pronuncia richiesta.

In tema di affrancazione dagli usi civici, Sez. U n. 04298/2022, Criscuolo, 663847-01, ha affermato che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente a oggetto la determinazione dell'esatto ammontare della somma dovuta quale canone di legittimazione ed affrancazione, trattandosi di controversia circa l'esistenza, la natura e l'estensione di tali diritti, che, non attenendo in alcun modo alla contestazione della naturale demanialità delle aree, esula dalla giurisdizione speciale dei commissari per la liquidazione degli usi civici, mentre appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda avente a oggetto il risarcimento dei danni connessi alla mancata conclusione, nei termini, della procedura di affrancazione, trattandosi di controversia circa l'indebito ritardo nella definizione di un procedimento amministrativo, ricadente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. a) n. 1, del d.lgs. n. 104 del 2010.

In argomento è opportuno evidenziare, infine, che Sez. 2, n. 34460/2022, Abete, (non massimata) ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza relativa alla possibilità che i terreni gravati da uso civico (nella specie terreni appartenenti al demanio comunale) siano, o meno, suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità.

8. L’usufrutto.

La proprietà può essere in vario modo compressa, non solo sulla base di diritti che altri soggetti vantino nei confronti del proprietario, ma anche in virtù di diritti esistenti sulla cosa stessa, esercitabili “erga omnes” e concorrenti con la proprietà: rispetto a quest’ultima, ovviamente, non hanno il carattere di pienezza ed esclusività (donde la definizione in termini di diritti parziari o limitati), ma ne condividono il carattere reale; sono inoltre caratterizzati, pur nella crescente critica, sul punto, della dottrina, dalla tipicità (si discorre, in proposito, di numerus clausus dei diritti reali) e dal diritto di seguito. Si distinguono, sistematica-mente, in diritti reali di garanzia e di godimento e tra questi ultimi rientrano le servitù, l’usufrutto, l’uso e l’abitazione. Sez. 6-2, n. 07031/2022, Besso Marcheis, Rv. 664187-01, ha statuito che l'art 1015 c.c., conformemente all'art. 516 c.c. del 1865, prevede tre distinte ipotesi in presenza delle quali l'usufruttuario può essere dichiarato decaduto dall'usufrutto, che ricorrono quando l'usufruttuario alieni i beni o li deteriori o li lasci andare in perimento per mancanza di ordinarie riparazioni.

La decadenza, peraltro, non può che riguardare i casi più gravi, in quanto, per gli abusi di minore gravità, la stessa legge prevede, nel comma 2 dell'art. 1015 c.c., rimedi meno rigorosi di carattere non repressivo e sanzionatorio, ma semplicemente cautelari, a tutela preventiva del diritto del nudo proprietario.

  • condominio
  • proprietà privata

CAPITOLO VIII

COMUNIONE E CONDOMINIO

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Le parti comuni nel condominio di edifici e conseguenze processuali. La fattispecie di cui all’art. 1127 c.c. sull’indennità di sopraelevazione. - 2 Il godimento della cosa comune sia nel condominio che nella comunione ordinaria. - 3 Le innovazioni nel condominio e nella comproprietà ordinaria. - 4 La responsabilità del condominio. - 5 Il regolamento di condominio. - 6 La ripartizione delle spese condominiali anche in caso di alienazione dell’immobile facente parte dello stabile condominiale e di quelle afferenti alla comunione ordinaria. - 7 L’assemblea del condominio e l’assemblea dei comunisti nella comunione ordinaria. - 8 L’amministratore del condominio e sua responsabilità. - 9 Il fondo costituito per lavori straordinari nel condominio. - 10 Lo scioglimento della comunione ordinaria: profili processuali.

1. Le parti comuni nel condominio di edifici e conseguenze processuali. La fattispecie di cui all’art. 1127 c.c. sull’indennità di sopraelevazione.

L'individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall'art. 1117 c.c. ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell'atto costitutivo del condominio - ossia dal primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell'edificio in più proprietà individuali -, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l'alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d'acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni (Sez. 2, n. 21440/2022, Scarpa, Rv. 665175-01).

I contrasti afferenti al regime proprietario delle porzioni immobiliari di uno stabile condominiale comportano alcune conseguenze anche processuali.

Con specifico riguardo al lastrico solare e alla sua rivendica, Sez. 2, n. 08593/2022, Oliva, Rv. 664240-01, ha affermato, ad esempio, che sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini quando nel giudizio promosso da alcuni di loro per l'accertamento della natura comune di un bene i convenuti, costituendosi in giudizio, abbiano chiesto in via riconvenzionale di esserne dichiarati proprietari esclusivi a titolo derivativo o, in subordine, a titolo originario, in virtù di usucapione abbreviata, dovendo la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi essere valutata non secundum eventum litis, ma al momento in cui essa sorge, osservando come, nella specie, nessuna delle parti in causa avesse prospettato la natura condominiale del lastrico di copertura, ma ne avessero rivendicato la proprietà esclusiva, peraltro, senza darne la prova, e come, dunque, la corte di merito avesse correttamente ritenuto la proprietà comune del lastrico di copertura di un immobile in capo ai partecipanti al condominio secondo la previsione di legge.

In generale, le transazioni stipulate dai condomini che abbiano ad oggetto rapporti relativi a beni comuni richiedono, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. il consenso di tutti i partecipanti al condominio (Sez. 6-2, n. 514/2022, Bertuzzi, Rv. 663806-01).

Del tutto peculiare, è la disciplina afferente al lastrico solare e alla colonna d’aria soprastante.

A quest’ultimo riguardo, Sez. 2, n. 12202/2022, Carrato, Rv. 664421-01, ha stabilito che la colonna d’aria soprastante il lastrico solare non può essere oggetto di diritti e proprietà autonoma rispetto a quella del lastrico solare, ma va intesa come inclusa nel diritto del proprietario di quest'ultimo di utilizzare tale spazio mediante sopraelevazione, senza che, in caso di proprietà esclusiva, ciò esoneri il relativo titolare, salva rinuncia da parte di tutti i proprietari dei piani sottostanti, dall'obbligo di corrispondere agli altri condòmini l'indennità prevista dall'art. 1127 c.c., la quale, secondo Sez. 2, n. 12202/2022, Carrato, Rv. 664421-02, trae fondamento dall'aumento proporzionale del diritto di comproprietà sulle parti comuni conseguente all'incremento della porzione di proprietà esclusiva, venendosi a configurare sia in caso di realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, sia di trasformazione, da parte del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio condominiale, di locali preesistenti mediante l'incremento delle superfici e delle volumetrie, indipendentemente dall'altezza del fabbricato, ed è dovuta, secondo Sez. 2, n. 35525/2022, Caponi, Rv. 666437-01, anche quando il titolo di provenienza, risalente al periodo antecedente all'entrata in vigore del codice civile del 1942, abbia esonerato il dante causa del condomino che esegue la sopraelevazione dal predetto obbligo alla luce del disposto di cui all'art. 564 dell'abrogato codice civile, atteso che l'esercizio della predetta facoltà, essendosi consumato nella vigenza della nuova disciplina, è ad essa soggetto in base al principio del "fatto compiuto", senza che possa invocarsi il principio della irretroattività della legge ex art. 11 delle Preleggi.

Peraltro, sempre secondo Sez. 2, n. 35525/2022, Caponi, Rv. 666437-02, la quantificazione, in sede giudiziale, dell’indennità di sopraelevazione non fa stato nei confronti dei condòmini che non abbiano partecipato al processo, né colui che ha eseguito la sopraelevazione può opporla ai condòmini che non abbiano partecipato al processo, atteso che il diritto di ciascun condomino alla predetta indennità è autonomo e si distingue da quello degli altri sia per causa petendi (il diritto di proprietà delle singole unità immobiliari), sia per petitum (il quantum determinato per ciascuno), mentre la partecipazione di più condomini al medesimo processo rinviene la propria disciplina nel c.d. litisconsorzio facoltativo ex art. 103 c.p.c., che lascia impregiudicate le posizioni dei condomini non partecipanti al processo, che non possono vedersi opporre l'indennità così come calcolata, pena la violazione dell'art. 2909 c.c.

La fattispecie di cui all’art. 1127 c.c. non è invece configurabile, secondo Sez. 2, n. 05023/2022, Oliva, Rv. 663920-01, nel caso di manufatto edificato sulla soletta di copertura di un garage interrato, a prescindere dal regime di proprietà dello stesso, atteso che esso costituisce norma speciale che presuppone l'esistenza di un edificio, per tale intendendosi la costruzione realizzata almeno in parte fuori terra e sviluppata in senso verticale rispetto al piano di campagna, sulla quale venga eseguita, a cura del proprietario dell'ultimo piano o del lastrico solare di copertura, una sopraelevazione, e neppure, secondo Sez. 2, n. 05023/2022, Oliva, Rv. 663920-02, nel caso di cd. supercondominio, che ricorre quando più condomini, tra loro autonomi, abbiano in comune alcuni beni o spazi a loro volta assoggettati a regime di condominialità, né nelle altre ipotesi previste dall'art. 1117 bis c.c., essendo necessaria la prova, da parte di colui che invoca l'indennizzo, che la proprietà sia collocata nella colonna d'aria interessata dall'intervento, e quindi al di sotto dell'area sopraelevata, sul presupposto che tale colonna sia di proprietà condominiale.

2. Il godimento della cosa comune sia nel condominio che nella comunione ordinaria.

Nell’ambito del condominio, l'art. 1122, comma 1, c.c., vieta a ciascun condomino che, nell'unità immobiliare di sua proprietà, siano eseguite opere idonee ad arrecare danno alle parti condominiali, elidendo o riducendo, in modo apprezzabile, le utilità conseguibili dalla cosa comune da parte degli altri condomini o comportando pregiudizievoli invadenze dell'ambito dei coesistenti diritti degli altri proprietari, circostanze queste che devono essere valutate dal giudice del merito, il quale, sulla base di apprezzamento di fatto sindacabile in cassazione soltanto nei limiti di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., è tenuto a verificare se l'opera, realizzata su parte di proprietà individuale (nella specie la chiusura eseguita in corrispondenza dell'appartamento di una condomina), pregiudichi in modo apprezzabile la fruibilità, da parte degli altri condomini, delle quote comuni (nella specie il ballatoio), avendo riguardo alla loro destinazione funzionale ed alle utilità che possano trarne le restanti unità di proprietà esclusiva (Sez. 2, n. 30307/2022, Scarpa, Rv. 666159-01).

Qualora si intenda, invece, far accertare la cessazione del vincolo di destinazione di un immobile, situato in uno stabile condominiale, ad alloggio per il portiere, l’azione esercitata, qualificabile come actio negatoria servitutis in quanto tesa a negare l'esistenza di pesi sull'immobile costituente oggetto del diritto di proprietà, non riguarda l'estensione del diritto di proprietà o di comproprietà dei singoli condòmini, ma attiene all'accertamento ed osservanza dei divieti o dei limiti contrattuali di destinazione d'uso delle unità immobiliari di proprietà esclusiva nell'ambito di un condominio edilizio, con la conseguenza che l'unico legittimato passivo è il condominio in persona dell'amministratore, senza necessità di estendere il contraddittorio ai singoli condòmini, venendo in considerazione la salvaguardia dei diritti concernenti l'edificio condominiale unitariamente considerato (Sez. 6-2, n. 30302/2022, Scarpa, Rv. 665975-01).

A differenza di quanto accade nel condominio, nell’ambito della comunione ordinaria, i limiti all’uso della cosa comune sono stabiliti dall’art. 1102 c.c., in virtù del quale non è impedito al singolo comunista di installare, ad esempio, un cancello su un ballatoio comune, al fine di servirsi del bene anche per fini esclusivamente propri e di trarne ogni possibile utilità, quando sia comunque garantita agli altri comunisti l'ordinaria accessibilità ed il godimento comune della res, circostanza che deve essere provata dal partecipante che pretende di usare il bene in modo particolare (Sez. 2, n. 08177/2022, Carrato, Rv. 664237-01).

Il riparto dell’onere probatorio tra colui che agisce in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di un manufatto realizzato sulle parti comuni e il convenuto che adduca la legittimità della modifica da lui operata è dettato, secondo Sez. 6-2, n. 05809/2022, Scarpa, Rv. 664184-01, dal fatto che il superamento dei limiti del pari uso della cosa comune, di cui all'art. 1102 c.c., che impedisce la modifica apportata alla stessa da un singolo condomino, si configura come un fatto costitutivo, inerente alle condizioni dell'azione esperita, sì da dovere essere dimostrato dal comproprietario attore ai sensi dell’art. 2697, comma 1, c.c., mentre la deduzione, da parte del convenuto, della legittimità della modifica costituisce un'eccezione in senso improprio, che, rilevabile dal giudice anche d'ufficio, non comporta alcun onere probatorio a carico del predetto.

3. Le innovazioni nel condominio e nella comproprietà ordinaria.

Le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l'aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (Sez. 2, n. 20712/2022, Scarpa, Rv. 645550-01).

4. La responsabilità del condominio.

Il condominio è un ente di gestione, privo di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, sicché il condòmino, che si ritenga danneggiato da un'omessa vigilanza da parte del condominio nell'esecuzione dei lavori eseguiti nelle parti comuni dello stabile, dovrà rivolgere la propria pretesa risarcitoria nei confronti dell'amministratore, in qualità di rappresentante del condominio, il quale, a sua volta, valuterà se agire in rivalsa contro l'amministratore stesso (Sez. 2, n. 24058/2022, Trapuzzano, Rv. 665386-01).

Discorso diverso va fatto con riguardo alla responsabilità per i danni derivanti dal lastrico solare o dalla terrazza a livello il cui uso non sia comune a tutti i condòmini. Infatti, la responsabilità per i danni derivanti da tali unità immobiliari è riconducibile alla fattispecie, di cui all'art. 2051 c.c., con la conseguenza che degli stessi rispondono sia il proprietario, o usuario esclusivo quale custode del bene, sia il condominio in forza degli obblighi inerenti all'adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull'assemblea dei condòmini ex art. 1135, comma 1, n. 4 c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria, con la conseguenza che il rapporto di responsabilità che si instaura tra i diversi soggetti obbligati va ricostruito in termini di solidarietà, ai sensi dell'art. 2055 c.c., con esclusione del litisconsorzio necessario di tutti i presunti autori dell'illecito e che il danneggiato, perciò, ben può agire nei confronti del singolo condòmino, senza obbligo di citare in giudizio gli altri (Sez. 6-2, n. 00516/2022, Bertuzzi, Rv. 663807-01).

Anche l'abusivo allaccio di un impianto condominiale alla rete idrica integra un fatto illecito imputabile al condominio nel suo complesso e tale da rientrare tra gli obblighi dell'amministratore di custodire le cose comuni e di vigilare onde evitare che rechino danni a terzi, compiendo conseguentemente gli atti idonei ad evitare il perpetrarsi dell'illecito (Sez. 3, n. 23823/2022, Pellecchia, Rv. 665570-01).

5. Il regolamento di condominio.

Il regolamento condominiale di natura contrattuale può porre limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condomini sul godimento delle parti comuni, imponendo la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica ed all'aspetto generale dell'edificio. L'interpretazione di esse deve avvenire secondo le regole legali di ermeneutica contrattuale, mentre le prescrizioni aventi natura solo organizzativa, come quelle che disciplinano le modalità d'uso delle parti comuni, possono essere interpretate, giusta l'art. 1362, comma 2, c.c., anche alla luce della condotta tenuta dai comproprietari posteriormente alla relativa approvazione ed anche per facta concludentia, in virtù di comportamento univoco (in tal senso, Sez. 6-2, n. 11502/2022, Scarpa, Rv. 664438-01, che ha confermato la decisione impugnata che da un lato, a fronte di una clausola del regolamento che imponeva il divieto di intraprendere "alcuna operazione esterna che modifichi l'architettura, l'estetica o simmetria del fabbricato", aveva ritenuto che la trasformazione dell'unità immobiliare destinata a negozio di alimentari in cinque autorimesse, con aperture basculanti al posto delle vetrine preesistenti, fosse lesiva del decoro architettonico per il forte impatto visivo sull'armonia degli elementi strutturali della facciata, dall'altro aveva affermato che altra clausola del medesimo regolamento condominiale, che poneva il divieto di ingombro del cortile comune, non precludesse l'utilizzo di parte dello stesso cortile come parcheggio, stante anche il comportamento tenuto dai condomini che posteriormente alla redazione del medesimo regolamento avevano sempre ivi parcheggiato).

Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse, deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all'interno dell'atto di acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro, il mero rinvio al regolamento stesso (Sez. 2, n. 24526/2022, Manna F., Rv. 665393-01), atteso che esse, secondo Sez. 2, n. 24526/2022, Manna F., Rv. 665393-02, costituiscono servitù reciproche a favore e contro ciascuna unità immobiliare di proprietà individuale e sono soggette, pertanto, ai fini dell'opponibilità ultra partes, alla trascrizione in base agli artt. 2643 n. 4 e 2659 n. 2 c.c..

In proposito, Sez. 2, n. 04529/2022, Oliva, Rv. 664173-01, ha chiarito che le clausole che dettino limiti ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, purché enunciate in modo chiaro ed esplicito, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione, nell'atto di acquisto si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che - seppure non inserito materialmente - deve ritenersi conosciuto o accetto in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto.

Quando il regolamento di condominio, predisposto dal costruttore od originario unico proprietario dell'edificio e richiamato nel contratto di vendita dell'unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, contenga, poi, una clausola relativa al pagamento delle spese condominiali, questa, secondo Sez. 6-2, n. 20007/2022, Scarpa, Rv. 665050-01, può considerarsi vessatoria, ai sensi dell'art. 33, comma 1, d.lgs. n. 206 del 2005, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d'ufficio dal giudice nell'ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall'alienante, o sull'obbligo di pagamento del prezzo gravante sull'acquirente, restando di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l'obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano.

Il regolamento di condominio può anche contenere una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, alla stregua della quale le controversie riguardanti l'interpretazione e la qualificazione del regolamento, che possano sorgere tra l'amministratore ed i singoli condomini, debbano essere definite dagli arbitri. Detta clausola, secondo Sez. 2, n. 08698/2022, Scarpa, Rv. 664243-01, deve essere interpretata, in mancanza di volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le cause in cui il regolamento può rappresentare un fatto costitutivo della pretesa o comunque aventi causae petendi connesse con l'operatività del regolamento stesso, il quale, in senso proprio, è l'atto di autorganizzazione a contenuto tipico normativo approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilita dall'art. 1136 c.c., comma 2, c.c. e contenente le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione.

Non può, invece, considerarsi clausola compromissoria quella, pure contenuta nel regolamento di condominio, che preveda, per i casi di contrasto tra condomini, l'obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite, sicché da essa non può derivare alcuna preclusione all'esercizio dell'azione giudiziaria, giacché i presupposti processuali per la validità del procedimento sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nell'autonomia privata (Sez. 2, n. 4711/2022, Giannaccari, Rv. 663886-01).

6. La ripartizione delle spese condominiali anche in caso di alienazione dell’immobile facente parte dello stabile condominiale e di quelle afferenti alla comunione ordinaria.

La riscossione dei contributi per la manutenzione e per l’esercizio delle parti e dei servizi comuni, ad opera dell’amministratore di condominio, deve avvenire esclusivamente nei confronti di ciascun condomino e cioè dell'effettivo proprietario o titolare di diritto reale sulla singola unità immobiliare, mentre è, invece, esclusa un'azione diretta nei confronti del coniuge o del convivente assegnatario dell'unità immobiliare adibita a casa familiare, avendo il relativo diritto natura di diritto personale di godimento "sui generis" (Sez. 6-2, n. 16613/2022, Scarpa, Rv. 665046-01).

Peraltro, l'obbligo del singolo partecipante di contribuire agli oneri condominiali derivanti dalla transazione approvata dall'assemblea con riguardo ad una lite insorta con un terzo creditore ha causa immediata non nell'efficacia soggettiva del contratto, ma nella disciplina del condominio, essendo le deliberazioni prese dall'assemblea vincolanti per tutti i condomini e dovendo questi ultimi sostenere "pro quota" le spese necessarie alle parti comuni (Sez. 2, n. 15302/2022, Scarpa, Rv. 664796-01).

Invero, le modifiche apportate alle tabelle millesimali dal costruttore venditore in forza di un mandato irrevocabile conferito dai condòmini allo scopo, genericamente enunciato, di correggere "eventuali errori" o di soddisfare l'esigenza di un "miglior uso delle cose comuni", sono inefficaci se non approvate dall'assemblea del condominio secondo le prescrizioni dell'art. 69 disp. att. c.c. (Sez. 2, n. 00791/2022, Varrone, Rv. 663564-01).

In caso di convenzione sulla ripartizione delle spese in deroga ai criteri legali, ai sensi dell'art. 1123, comma 1, c.c., invece, il relativo accordo deve essere approvato da tutti i condomini, ha efficacia obbligatoria soltanto tra le parti, non vincolando invece gli aventi causa da queste ultime, è modificabile unicamente tramite un rinnovato consenso unanime e presuppone una dichiarazione di accettazione avente valore negoziale, espressione di autonomia privata, la quale prescinde dalle formalità richieste per lo svolgimento del procedimento collegiale che regola l'assemblea e può perciò manifestarsi anche mediante successiva adesione al contratto, con l'osservanza della forma prescritta per quest'ultimo (Sez. 2, n. 21086/2022, Scarpa, Rv. 665377-01).

Tale principio è valevole solo in caso di convenzione che deroghi ai criteri legali, posto che, con particolare riferimento all’avente causa dal condomino, l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. nel regime previgente rispetto alla l. n. 220 del 2012, delinea, a carico dello stesso, un regime di responsabilità solidale per il pagamento degli oneri condominiali dovuti dall'alienante, limitata al biennio antecedente all'acquisto, che opera solo nei rapporti esterni con il condominio, ma non anche nel rapporto interno tra acquirente e alienante, sicché, in tale rapporto, salvo che non sia diversamente convenuto dalle parti, l'acquirente risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte successivamente al momento dell'acquisto e, qualora sia chiamato a rispondere di quelle sorte in epoca anteriore, ha comunque diritto di regresso nei confronti del suo dante causa, senza che, peraltro, assuma rilevanza alcuna, al fine di escludere tale regresso, la notificazione, da parte dell'alienante, di un atto di significazione di illegittimità della pretesa del condominio (in tal senso, Sez. 2, n. 14531/2022, Falaschi, Rv. 664789-01, che ha cassato la sentenza della Corte territoriale la quale aveva qualificato il pagamento dell’acquirente, relativo a contributi antecedenti di oltre due anni rispetto alla compravendita, in termini di adempimento del terzo, respingendo la richiesta di ripetizione di indebito in ragione del fatto che il precedente condomino aveva rappresentato all'acquirente l'illegittimità della pretesa del condominio poiché scaturente da deliberazioni affette da nullità).

Infatti, chi non fosse condòmino al momento in cui sia insorto l'obbligo di partecipazione alle relative spese condominiali, ossia alla data di approvazione della delibera assembleare inerente a tali spese, non può essere obbligato in via diretta verso il terzo creditore, né per il tramite del vincolo solidale di cui all'art. 63 disp. att. c.c., né attraverso la previsione dettata in tema di comunione ordinaria di cui all'art. 1104 c.c. (Sez. 2, n. 19756/2022, Trapuzzano, Rv. 665005-01).

In materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, la disciplina del condominio si differenzia da quella propria della comunione ordinaria.

Mentre in quest’ultimo caso l'art. 1110 c.c., escludendo ogni rilievo dell'urgenza o meno dei lavori, stabilisce che il comunista che, in caso di trascuranza degli altri compartecipi o dell'amministratore, abbia sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso, a condizione di aver precedentemente interpellato o, quantomeno, preventivamente avvertito gli altri partecipanti o l'amministratore, sicché solo in caso di inattività di questi ultimi egli può procedere agli esborsi e pretenderne il rimborso, pur in mancanza della prestazione del consenso da parte degli interpellati, incombendo comunque su di lui l'onere della prova sia della suddetta inerzia che della necessità dei lavori, in caso di condominio, il rimborso delle spese sostenute per la conservazione della cosa comune è condizionato al più stringente presupposto dell'urgenza, tenuto conto del fatto che i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione (Sez. 6-2, n. 5465/2022, Scarpa, Rv. 664179-01).

7. L’assemblea del condominio e l’assemblea dei comunisti nella comunione ordinaria.

Le deliberazioni assunte dall'assemblea condominiale, aventi natura di atti negoziali espressione della maggioranza e non della volontà assembleare, devono avere ad oggetto le sole materie ad essa attribuite, le quali afferiscono alla gestione dei beni e dei servizi comuni, ma non anche ai beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini o a terzi, come, nella specie, i muri perimetrali di proprietà esclusiva, quand'anche attraversati da tubazioni, canali e altro necessario al servizio degli alloggi soprastanti, rispetto ai quali operano semmai, in assenza di diversa, specifica pattuizione avente forma scritta, i criteri di cui all'art. 1069 c.c., sicché la deliberazione assembleare che approvi e ripartisca una spesa priva di inerenza alla gestione condominiale è affetta da nullità (Sez. 2, n. 16953/2022, Scarpa, Rv. 665048-01).

La delibera condominiale avente ad oggetto l'assegnazione del servizio di fornitura del gasolio per il riscaldamento, è imputabile, per la connessa responsabilità contrattuale, esclusivamente al condominio e non già ai singoli fruitori del servizio, atteso che le decisioni afferenti alla gestione ed all'utilizzazione dei beni comuni, tra i quali rientrano la caldaia e l'impianto di riscaldamento centralizzato, sono demandate in via esclusiva alla assemblea dei condomini, stante il carattere vincolante delle disposizioni in materia, che, delineando un sistema di organizzazione rigida e non derogabile se non nei limiti di legge, rendono inammissibili forme organizzative alternative (Sez. 2, n. 13583/2022, Bertuzzi, Rv. 664624-01). E’ dunque attraverso tale delibera che è possibile disporre l'eliminazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato per dar luogo ad impianti autonomi nei singoli appartamenti, ma questa può essere adottata a maggioranza, in deroga agli artt. 1120 e 1136 c.c., soltanto quando preveda che ciò avvenga nel rispetto delle previsioni normative di cui alla l. n. 10 del 1991, ossia a garanzia dell'an e del quomodo della riduzione del consumo specifico di energia, del miglioramento dell'efficienza energetica e dell'utilizzo di fonti di energia rinnovabili (in questi termini, Sez. 2, n. 24976/2022, Trapuzzano, Rv. 665567-01, che ha ritenuto nulla la delibera assembleare impugnata, in quanto si era limitata a stabilire il solo profilo soppressivo o abdicativo dell'impianto centralizzato, lasciando liberi i condomini di installare l'impianto ritenuto più opportuno, senza prevedere il deposito in comune del progetto di trasformazione dello stesso, nell'ottica di contenere il consumo energetico dell'intero edificio).

L'assemblea dei condomini, avendo il potere di autorizzare l'amministratore ad agire in giudizio per l'esercizio di diritti che, ancorché riferiti alle parti comuni dell'edificio condominiale, non rientrano nella rappresentanza giudiziale attiva attribuitagli dall'art. 1131 c.c., è legittimata a rinunciare all'azione nei confronti dell'appaltatore per vizi e difetti delle opere di manutenzione da lui eseguite, impegnando l'amministratore a dare esecuzione alla relativa delibera ai sensi dell'art. 1131, n. 1 , c.c., senza con ciò invadere la sfera dei diritti riservati ai singoli condomini, i quali possono liberamente fare valere nei confronti dell'appaltatore il diritto al risarcimento di eventuali danni ad essi derivanti dalla cattiva esecuzione dell'appalto (Sez. 6-2, n. 05645/2022, Scarpa, Rv. 664181-01).

Il sindacato dell'autorità giudiziaria sulla contrarietà alla legge o al regolamento delle deliberazioni prese dall'assemblea dei condomini, ai sensi dell'art. 1137 c.c., nella specie in ordine alla ripartizione delle spese inerenti ad una locazione immobiliare stipulata nel comune interesse dal condominio in veste di conduttore ed avente ad oggetto il godimento di un immobile di proprietà di terzi, non può riguardare la convenienza economica dell'importo del canone pattuito o la legittimità dell'accollo in capo al condominio conduttore degli esborsi sostenuti per il mantenimento della cosa in buono stato locativo o per l'esecuzione di miglioramenti o addizioni alla stessa, né può concernere questioni relative alla nullità o all'inefficacia delle clausole del contratto di locazione (Sez. 2, n. 15320/2022, Scarpa, Rv. 664798-01).

In caso di impugnazione della delibera condominiale, la cessazione della materia del contendere può ravvisarsi soltanto quando il secondo deliberato modifichi le decisioni del primo in senso conforme a quanto richiesto dal condomino che impugna e non anche quando reiteri o comunque adotti una decisione nello stesso senso della precedente, presupponendo la stessa il sopravvenire di una situazione che consenta di ritenere risolta o superata lite insorta tra le parti, sì da comportare il venir meno dell'interesse a una decisione sul diritto sostanziale dedotto in giudizio (Sez. 6-2, n. 05997/2022, Bertuzzi, Rv. 664186-01).

I principi elaborati in materia di assemblea condominiale non rilevano nella comunione "pro indiviso" di beni immobili, sia in ragione della diversità delle regole afferenti alla convocazione e allo svolgimento dell'assemblea, sia della facoltà, concessa ai comunisti, di risolvere ogni questione attraverso l'esercizio del diritto potestativo di richiesta di divisione del bene, sicché le deliberazioni adottate dall'assemblea dei comunisti non possono essere impugnate per il vizio di eccesso di potere assembleare o per conflitto di interesse, ma esclusivamente per le ragioni indicate dall'art. 1109 c.c. (Sez. 2, n. 02299/2022, Gorjan, Rv. 663642-01).

8. L’amministratore del condominio e sua responsabilità.

Al fine della costituzione di un valido rapporto di amministrazione condominiale, ai sensi dell'art. 1129 c.c., il requisito formale della nomina sussiste in presenza di un documento, approvato dall'assemblea, che rechi, anche mediante richiamo ad un preventivo espressamente indicato come parte integrante del contenuto di esso, l'elemento essenziale della analitica specificazione dell'importo dovuto a titolo di compenso, specificazione che non può invece ritenersi implicita nella delibera assembleare di approvazione del rendiconto (Sez. 6-2, n. 12927/2022, Scarpa, Rv. 664643-01).

L'amministratore non è responsabile dell'esecuzione di un contratto afferente a lavori straordinari sul bene comune, quando risulti in modo univoco la volontà dell'assemblea dei condòmini, ancorché tacitamente espressa, di rendere efficace detto negozio, atteso che la ratifica consiste in una manifestazione di volontà del "dominus" diretta ad approvare l'operato del suo rappresentante o del mandatario, per la quale non sono richieste formule sacramentali, occorrendo che la volontà di fare propri gli effetti del negozio già concluso sia manifestata in modo chiaro ed inequivoco, non necessariamente per iscritto, ma anche con atti o fatti che implichino necessariamente la volontà di far proprio il contratto e i suoi effetti (in applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 35278/2022, Falaschi, Rv. 666321-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità per inadempimento dell'amministratore di un condominio, il quale aveva dato esecuzione ai lavori di rifacimento del tetto senza che venissero rimosse e conferite in discarica, secondo la normativa di riferimento, le lastre in eternit di cui era composto, ritenendo che l'assemblea dei condòmini fosse consapevole che dette lavorazioni non avrebbero potuto essere eseguite in ragione dell'insufficienza del budget economico stabilito per esse).

9. Il fondo costituito per lavori straordinari nel condominio.

L'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., imponendo l'allestimento anticipato del fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori, configura una ulteriore condizione di validità della delibera di approvazione delle opere di manutenzione straordinaria dell'edificio, sicché è dal testo di tale deliberazione assembleare che deve necessariamente emergere il prezzo dei lavori, al cui importo occorre che equivalga quello del fondo speciale nella prima ipotesi di cui all'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., non potendo, viceversa, trarsi implicitamente dall'importo del fondo in concreto costituito quale sia l'ammontare delle spese necessarie (Sez. 6-2, n. 16953/2022, Scarpa, Rv. 665048-02).

Peraltro, la costituzione di un fondo cassa da parte dell'assemblea condominiale, ancorché non venga disposto in merito all'impiego dei residui attivi di gestione nell'esercizio di riferimento, non viola la necessaria dimensione annuale della gestione condominiale, essendo sufficiente che questi possano, anche solo implicitamente, desumersi dal rendiconto, ai fini della loro rilevabilità nei conti individuali dei singoli condòmini e della conseguente riduzione, per compensazione, delle quote di anticipazione dovute dagli stessi condòmini per l'anno successivo (Sez. 2, n. 25900/2022, Fortunato, Rv. 665592-01).

10. Lo scioglimento della comunione ordinaria: profili processuali.

L'atto introduttivo del giudizio di scioglimento della comunione non interrompe il decorso del tempo utile all'usucapione, trattandosi di atto dispositivo del proprietario non diretto al recupero del possesso (Sez. 2, n. 18544/2022, Rolfi, Rv. 664991-01).

In tale giudizio, quando la comune appartenenza dei beni sia incontroversa tra i condividenti, il giudice di appello, dinanzi al quale sia stata impugnata la sentenza che abbia erroneamente dichiarato inammissibile la domanda di divisione, non può rigettare il gravame sul rilievo della mancata estrazione, da parte dell'appellante, della copia della relazione notarile relativa agli immobili da dividere, già acquisita dinanzi al primo giudice, ma non rinvenibile nel fascicolo di parte; invero, la documentazione mancante non integra la prova di un fatto favorevole ad una parte e sfavorevole all'altra, ma ridonda a vantaggio di tutti i condividenti, ai quali la domanda di divisione è comune, sicché il giudice di appello, qualora ritenga di non poterne prescindere, può ordinarne alle parti la produzione anche nel corso delle operazioni divisionali, avuto riguardo all'esigenza di reiterare il riscontro documentale, già dato in primo grado, di una comune appartenenza pacifica e incontroversa (Sez. 2, n. 01065/2022, Tedesco, Rv. 663570-02).

Peraltro, l'esecuzione di un sequestro preventivo penale, avente ad oggetto un bene dell'imputato in comproprietà con terzi estranei al reato, non costituisce ragione di sospensione necessaria del processo civile di scioglimento della comunione, ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., nelle more del giudicato penale, atteso che le esigenze del sequestro e della eventuale confisca trovano tutela nella disciplina della trascrizione del provvedimento ablatorio e degli effetti della sentenza di divisione regolati dall'art. 1113 c.c. (Sez. 6-2, n. 30320/2022, Scarpa, Rv. 666160-01).

  • eredità
  • donazione
  • testamento di vita

CAPITOLO IX

SUCCESSIONI E DONAZIONI

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Apertura della successione e indegnità a succedere. - 2 L’accettazione beneficiata, l’“actio interrogatoria”, l’accettazione in luogo del debitore rinunciante, gli effetti della accettazione. - 3 Il testamento, il compenso dell’esecutore testamentario e i patti successori vietati. - 4 I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata. - 5 Il legato. - 6 La divisione ereditaria e la collazione. - 7 Le donazioni.

1. Apertura della successione e indegnità a succedere.

Il delitto di abbandono di minore o di persona incapace, ai sensi dell’art. 591 c.p., anche nella sua forma aggravata dall'evento morte ex art. 591, comma 3, c.p., non può a priori farsi rientrare fra le ipotesi di indegnità a succedere previste dall'art. 463, n. 2, c.c., atteso che la legge penale non dichiara applicabili, a tale fattispecie criminosa, le disposizioni sull'omicidio; nondimeno, qualora l'abbandono sia stato realizzato con la volontà di cagionare la morte del soggetto passivo del reato, ovvero il soggetto agente si sia rappresentato tale evento come probabile o possibile conseguenza della propria condotta, accettando il rischio implicito della sua verificazione, il fatto può farsi rientrare nelle ipotesi previste dall'art. 463, n. 1, c.c. (Sez. 2, n. 13266/2022, Tedesco, Rv. 664618-01).

Nell'azione di impugnazione del testamento per indegnità a succedere della persona designata come erede, sussiste il litisconsorzio necessario di tutti i successori legittimi, trattandosi di azione volta ad ottenere una pronuncia relativa ad un rapporto giuridico unitario ed avente ad oggetto l'accertamento, con effetto di giudicato, della qualità di erede che, per la sua concettuale unità, è operante solo se la decisione è emessa nei confronti di tutti i soggetti del rapporto successorio. Tuttavia, qualora tale azione si trovi in rapporto di pregiudizialità giuridica con un giudizio penale pendente, l'esistenza del litisconsorzio necessario non giustifica la sospensione totale o parziale del processo civile, se non vi è una perfetta coincidenza delle parti dei due giudizi, configurabile quando non solo l'imputato, ma anche il responsabile civile e la parte civile abbiano partecipato al processo penale (Sez. 2, n. 01443/2022, Orilia, Rv. 663628-01).

2. L’accettazione beneficiata, l’“actio interrogatoria”, l’accettazione in luogo del debitore rinunciante, gli effetti della accettazione.

L'accettazione con beneficio di inventario produce l'effetto di tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell'erede, consentendo a quest'ultimo di pagare i debiti ereditari e i legati nel limite del valore dei beni a lui pervenuti e soltanto con questi stessi beni, senza conformare il diritto di credito azionato, che resta immutato nella sua natura, portata e consistenza, ma segnando i confini della sua soddisfazione attraverso la limitazione della responsabilità dell'erede, in deroga al più generale principio della tendenziale illimitatezza della responsabilità patrimoniale ex art. 2740, comma 2, c.c. Ne deriva che, detto istituto, incidendo sulla qualità del rapporto, assume rilievo soltanto nel giudizio di cognizione avente ad oggetto l'accertamento del credito e la condanna del debitore al relativo adempimento, prima che si instauri la fase dell'esecuzione forzata (Sez. 2, n. 23398/2022, Papa, Rv. 665254-01, che, in applicazione di tale principio, ha cassato la sentenza impugnata, con la quale i giudici d'appello avevano confermato l'accoglimento dell'opposizione a decreto ingiuntivo, proposta dall'erede beneficiato, e rigettato la domanda del creditore, ritenendo che quest'ultimo non avesse azione di accertamento e condanna in danno del coerede, sia pure nei limiti dell'accettazione condizionata).

In caso di accettazione dell'eredità con beneficio di inventario, al fine di valutare se l'atto dismissivo, posto in essere dall'erede beneficiato, debba essere previamente autorizzato ai sensi dell'art. 493 c.c., occorre indagare se lo stesso si ponga come atto di straordinaria amministrazione, senza che rilevi la sua denominazione formale, sicché anche un atto denominato come transazione può esserne sottratto quando sia di ordinaria amministrazione, restando soggetto ad autorizzazione se sussiste il pericolo di diminuzione della garanzia patrimoniale. Ne consegue che detta autorizzazione non è necessaria quando tra creditore ed erede beneficiato intercorra una transazione che preveda il riconoscimento del debito ereditario in misura inferiore a quella richiesta in via giudiziale, con l'impegno degli eredi di far fronte all'obbligazione con denaro proprio, senza che rilevi in senso contrario, ed in presenza di accordo tra le parti circa la compensazione delle spese di giudizio transatto, l'ipotetica rinuncia al credito per le spese di lite che sarebbero spettate al de cuius nel giudizio oggetto di transazione, trattandosi di ragione creditoria del tutto ipotetica e venuta meno proprio per effetto della transazione, destinata a sostituirsi all'assetto regolamentare dedotto nella causa transatta (Sez. 2, n. 06146/2022, Criscuolo, Rv. 663921-01).

Con riguardo all’actio interrogatoria, la formale revoca della rinuncia sopraggiunta in pendenza del termine per l'accettazione dell'eredità fissato, ai sensi dell'art. 481 c.c., all'erede in rappresentazione, senza che questi abbia accettato, impedisce che possa aver luogo l'accrescimento a favore dei chiamati congiuntamente con il rinunziante; una volta concesso il termine, infatti, l'accrescimento può realizzarsi solo dopo lo spirare di esso e sempre che, nel frattempo, non sia intervenuta la revoca della rinunzia da parte del rinunziante o l'accettazione da parte del chiamato per rappresentazione (Sez. 2, n. 29146/2022, Bellini, Rv. 665965-01).

Peraltro, l'ordinanza emessa in sede di reclamo avverso il provvedimento reso ai sensi degli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c. - con il quale, a seguito della fissazione del termine, si è dichiarata la decadenza del chiamato ad accettare l' eredità - non è ricorribile per cassazione in quanto, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, definisce un procedimento di tipo non contenzioso privo di un vero e proprio contraddittorio e non statuisce in via decisoria e definitiva attesa la sua revocabilità e modificabilità alla stregua dell'art. 742 c.p.c. (Sez. 2, n. 24484/2022, Massafra, Rv. 665390-01; Sez. 6-2, n. 00969/2022, Tedesco, Rv. 663917-01).

L'azione per ottenere l'autorizzazione ad accettare l'eredità in nome ed in luogo del debitore rinunziante ha una mera funzione strumentale per il soddisfacimento del credito, e non è perciò necessario che il credito stesso si presenti con le caratteristiche dell'esigibilità e della liquidità, ma è sufficiente che, analogamente a quanto avviene per l'azione surrogatoria e per la revocatoria, sussista una ragione di credito, anche se non ancora accertata nel suo preciso ammontare, e persino eventuale e condizionata (Sez. 6-2, n. 07557/2022, Tedesco, Rv. 664202-01).

In seguito all’accettazione dell’eredità, il coerede che, dopo la morte del de cuius, utilizza ed amministra individualmente un bene ereditario, è obbligato al pagamento agli altri coeredi della corrispondente quota dei frutti naturali (che entrano a far parte della comunione e quindi si ripartiscono tra i partecipanti pro quota) e dei frutti civili (soggetti alla regola della divisione ipso iure), tratti dal bene goduto; peraltro, il convenuto può chiedere, per la prima volta nel giudizio di appello, il rimborso delle spese necessarie od utili per la conservazione o il miglioramento del bene comune anticipate, implicando la domanda di rendimento del conto la sistemazione contabile delle partite di dare e di avere tra le parti, senza che siano necessarie eccezioni o domande riconvenzionali, per ricavarne, quale conseguenza, l'accertamento contabile del saldo finale delle rispettive partite, oggetto della conseguente statuizione di condanna (Sez. 2, n. 18548/2022, Scarpa, Rv. 664992-01).

L'equo indennizzo liquidato iure hereditatis va riconosciuto per intero all'erede istante, e non pro-quota, in osservanza del principio secondo cui i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico, in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell'art. 757 c.c. prevista solo per i debiti (Sez. 2, n. 14858/2022, Casadonte, Rv. 664982-02).

3. Il testamento, il compenso dell’esecutore testamentario e i patti successori vietati.

La disposizione testamentaria può dirsi effetto di dolo, ai sensi dell'art. 624, comma 1, c.c., allorché vi sia prova dell'uso di mezzi fraudolenti che, avuto riguardo all'età, allo stato di salute, alle condizioni di spirito del testatore, siano stati idonei a trarlo in inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso verso il quale essa non si sarebbe spontaneamente indirizzata; idoneità da valutarsi con criteri di larghezza nei casi in cui il testatore, affetto da malattie senili che causano debolezze decisionali ed affievolimenti della 'consapevolezza affettiva', sia più facilmente predisposto a subire l'influenza dei soggetti che lo accudiscono o con cui da ultimo trascorre la maggior parte delle sue giornate, costituendo tali valutazioni apprezzamenti di fatto non sindacabili in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 30424/2022, Scarpa, Rv. 665995-01).

La domanda giudiziale di nullità del testamento olografo per difetto di autografia configura un'azione di accertamento negativo della provenienza della scrittura, con la conseguenza che l'onere della prova grava sulla parte che l'ha proposta, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo (Sez. 2, n. 24835/2022, Tedesco, Rv. 665562-01).

Quando l'erede in forza di un testamento olografo agisca per far dichiarare che quello successivo, che istituisce erede il convenuto, è stato alterato nella data da terzi, si è fuori della previsione dell'art. 602, comma 3, c.c., che riguarda i casi in cui è consentita la prova della non corrispondenza della data apposta dal testatore a quella del giorno di redazione della scheda, mentre l'alterazione della data da parte di terzi può essere fatta valere soltanto per mezzo della querela di falso il cui onere probatorio, in mancanza di altri elementi di prova, ben può essere assolto mediante le sole presunzioni (Sez. 2, n. 05091/2022, Criscuolo, Rv. 664201-01, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto contraffatta la data di un testamento che era invece anteriore rispetto a quella risultante dalla contraffazione e, quindi, antecedente a quelle di altre due schede testamentarie favorevoli agli eredi che avevano proposto querela di falso).

Quanto al contenuto del testamento, il connotato essenziale della istituzione di erede ex re certa non va ricercato nell'implicita volontà del testatore di attribuire all'istituito la totalità dei beni di cui egli avrebbe potuto disporre al momento della confezione del testamento, ma nell'assegnazione di un bene determinato, o di un complesso di beni determinati, come quota del suo patrimonio; risolta la questione interpretativa nel senso della istituzione ex re, l'erede in tal modo istituito può partecipare anche all'acquisto di altri beni, se del caso in concorso con l'erede legittimo e, quindi, raccoglierli in proporzione della sua quota, da determinarsi in concreto mediante il rapporto proporzionale tra il valore delle res certae attribuitegli ed il valore dell'intero asse ereditario (Sez. 2, n. 24310/2022, Tedesco, Rv. 665388-01).

La retribuzione a favore dell'esecutore testamentario non soltanto può essere disposta dal testatore, come prevede l'art. 711 c.c., ma è altrettanto possibile, in assenza di disposizione testamentaria ad hoc, che il compenso per l'opera prestata sia convenuto tra gli eredi e l'esecutore; tuttavia, mentre la retribuzione prevista dal testatore è a carico dell'eredità secondo quanto dispone l'art. 711 c.c., l'impegno autonomamente assunto dagli eredi non è idoneo a diminuire l'attivo ereditario in pregiudizio dei creditori ereditari e dei legatari, ma vincola soltanto i successori che l'abbiano stretto, nei cui confronti l'esecutore dispone di un diritto azionabile per ottenere quanto promessogli (Sez. 2, n. 24798/2022, Tedesco, Rv. 665395-01).

Con riferimento, infine, al divieto dei patti successori, deve essere esclusa la sussistenza di un patto successorio vietato quando non intervenga tra le parti alcuna convenzione e la persona della cui eredità si tratta abbia soltanto manifestato verbalmente all'interessato o a terzi l'intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale promessa verbale non crea alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena libertà del testatore, oggetto di tutela legislativa (Sez. 2, n. 05555/2022, Cosentino, Rv. 663924-01, ha ritenuto che non costituisse patto successorio vietato l'accordo intercorso tra le parti, avente ad oggetto prestazioni mediche e assistenziali in corrispettivo all'assegnazione di beni destinati a far parte del relictum, in quanto tradotto in mere dichiarazioni verbali, prive di specificazione in ordine alla individuazione dei cespiti ad assegnare).

4. I legittimari e la reintegrazione della quota loro riservata.

L’accertamento dell'eventuale lesione della quota riservata al legittimario postula il calcolo della quota legittima e di quella disponibile, il quale deve avvenire attraverso la riunione fittizia, quale operazione meramente contabile di sommatoria tra attivo netto e donatum, cioè tra il valore dei beni relitti al tempo dell'apertura della successione, detratti i debiti, ed il valore dei beni donati, sempre al momento dell'apertura della successione, con la conseguenza che l'inammissibilità della domanda di riduzione proposta, nei confronti del donatario non coerede, dal legittimario che non abbia accettato l'eredità con il beneficio d'inventario è del tutto ininfluente ai fini della riunione fittizia (Sez. 2, n. 08174/2022, Cosentino, Rv. 664236-01, in applicazione di tale principio, ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso dalla riunione fittizia il valore di un bene donato ad un non coerede in ragione dell'inammissibilità della domanda di riduzione proposta nei suoi riguardi dal legittimario che aveva omesso di accettare l'eredità con il beneficio dell'inventario).

La riunione fittizia, prevista dall'art. 556 c.c., non è legata solo all'esperimento dell'azione di riduzione, ma è operazione necessaria, nel concorso di eredi legittimari, ogni qual volta sia rilevante stabilire quale sia il valore della disponibile lasciata genericamente dal testatore ad uno di essi (Sez. 2, n. 14193/2022, Tedesco, Rv. 664627-01), il calcolo della quale, ai sensi dell'art. 556 c.c., impone di assoggettare a riunione fittizia tutte le donazioni, a chiunque fatte, indipendentemente dalla qualità di congiunto, erede o di estraneo del donatario (Sez. 2, n. 14193/2022, Tedesco, Rv. 664627-02).

A tale fine, le donazioni fatte in vita dal de cuius devono ridursi a cominciare dall'ultima e risalendo via via alle anteriori e tale ordine, in quanto tassativo e inderogabile, non consente al legittimario di far ricadere il peso della riduzione in modo difforme da quanto disposto dagli artt. 555, 558 e 559 c.c., sicché la scelta del legittimario di ridurre una donazione anteriore senza previamente aggredire quella più recente incontra il limite rappresentato dall'onere di scomputare dal valore della riduzione richiesta quello della riduzione che il legittimario avrebbe potuto richiedere al donatario posteriore, giacché egli non può recuperare, a scapito di un donatario anteriore, quanto potrebbe conseguire agendo in riduzione nei confronti del donatario più recente (in applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 35461/2022, Tedesco, Rv 666321-01, ha cassato con rinvio la sentenza d'appello che non aveva tenuto conto dell'interesse della ricorrente, donataria convenuta con l'azione di riduzione, da un lato, a far risultare che i beni relitti avevano una consistenza maggiore rispetto a quella indicata dai giudici di merito, in modo da escludere o circoscrivere l'esistenza di una lesione cagionata dalle donazioni, dall'altro, a fare emergere l'esistenza di eventuali donazioni, in ipotesi posteriori alla sua, in guisa da elidere o circoscrivere la riducibilità delle proprie.)

Peraltro, la distribuzione, ad opera del de cuius di tutto il suo patrimonio mediante disposizioni a titolo particolare inter vivos, pur non determinando, in caso di apertura della successione legittima, la diseredazione, in senso formale, del legittimario, in quanto chiamato ex lege all’eredità, ne determina comunque la sua pretermissione, sicché l' azione di riduzione non è soggetta all'onere dell'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, mentre il legittimario che non abbia già compiuto atti di accettazione diviene necessariamente erede nel momento stesso in cui la esercita, comportando tale condotta tacita accettazione di eredità (Sez. 2, n. 24836/2022, Tedesco, Rv. 665563-01).

Peraltro, sempre nell’ottica dell’esercizio futuro dell’azione di riduzione, il coniuge o il parente in linea retta del disponente possono esercitare l’azione di simulazione di un contratto dissimulante una donazione di bene immobile, anche prima dell'apertura della successione di quest'ultimo, proprio allo specifico scopo di rendere, in futuro, possibile l'esperimento della domanda di restituzione del bene donato di cui all'art. 563, comma 1, c.c. e di consentire l'opposizione di cui all'art. 563, comma 4, c.c. (Sez. 2, n. 04523/2022, Oliva, Rv. 663831-01), opposizione che intanto può essere notificata dal coniuge o dai parenti in linea retta del simulato alienante prima dell’apertura della successione, in quanto essi abbiano previamente esperito l’azione di simulazione, onde accertare che le parti abbiano inteso effettivamente realizzare una donazione, nei cui confronti soltanto l'opposizione è prevista, sicché ad essi, in quanto terzi, non si applicano le limitazioni alla prova della simulazione dettate dall'art. 1417 c.c. per le parti del contratto, essendo tale azione funzionale alla tutela di un'aspettativa di diritto riconosciuta al futuro legittimario (Sez. 2, n. 27065/2022, Criscuolo, Rv. 665887-01), e che deve essere proposta nel termine ventennale decorrente, ai sensi del comma 1 dello stesso art. 563, dalla trascrizione della donazione, in assenza di una norma di diritto intertemporale che indichi il dies a quo con riferimento alle donazioni anteriori alla data di entrata in vigore della legge n. 80 del 2005 (Sez. 2, n. 4523/2022, Oliva, Rv. 663831-02).

Sempre ai fini dell’azione di riduzione, ma anche nell’ottica della collazione, stante il rinvio alle norme dettate per quest’ultima operato dall’art. 556, c.c., occorre considerare, infine, come ricompresi nel valore della res donata, ai fini della stima del bene, anche il contributo di ricostruzione post-sismica ex art. 3, d.l. n. 79 del 1968, conv. dalla legge n. 241 del 1968, ponendosi esso in correlazione con la proprietà del fabbricato da ricostruire (Sez. 6-2, n. 02510/2022, Criscuolo, Rv. 663816-01).

Qualora, infine, il donatario beneficiario della disposizione lesiva abbia alienato l'immobile donatogli, il legittimario, se ricorrono le condizioni stabilite dall'art. 563 c.c., può chiederne la restituzione anche ai successivi acquirenti che sono, invece, al riparo da ogni pretesa restitutoria del legittimario nella diversa ipotesi di riduzione di una donazione indiretta; infatti, in tale ultima ipotesi, poiché l'azione di riduzione non mette in discussione la titolarità del bene, il valore dell'investimento finanziato con la donazione indiretta dev'essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito (in tal senso, Sez. 2, n. 35461/2022, Tedesco, Rv 666321-02).

5. Il legato.

La rinuncia al legato in sostituzione di legittima, fatta salva la forma scritta quando il legato abbia per oggetto beni immobili, ben può risultare da atti univoci compiuti dal legatario, implicanti necessariamente la volontà di rinunciare al legato, tra i quali non rientra la proposizione dell' azione di riduzione, ben potendo ipotizzarsi un duplice intento del legittimario di conservare il legato conseguendo anche la legittima, cosicché la rinuncia al legato sostitutivo, intervenuta nel corso della causa di riduzione, non è tardiva in senso strettamente temporale, potendo la stessa utilmente avere luogo anche prima della spedizione della causa a sentenza (Sez. 2, n. 13530/2022, Tedesco, Rv. 664621-01).

Il legato di "liberazione da debito" di cui all'art. 658, comma 1, c.c. (c.d. legatum liberationis), attribuendo al legatario il diritto di credito vantato nei suoi confronti dal testatore, comporta l'estinzione dell'obbligazione per confusione in quanto determina la riunione, nella stessa persona, della qualità di creditore e di debitore, pur distinguendosi dalla fattispecie della remissione ex art. 1236 c.c., in quanto, essendo una disposizione liberale a titolo particolare in favore del debitore e configurandosi come negozio unilaterale non recettizio, produce l'effetto della liberazione del legatario immediatamente all'apertura della successione. Tale efficacia viene, tuttavia, meno con effetto ex nunc nei confronti del legittimario che abbia ottenuto la riduzione della disposizione testamentaria che lo contiene, con la conseguenza che il credito del testatore verso il legatario, venendo meno l'effetto estintivo, può essere incluso nella porzione della divisione assegnata per soddisfare il legittimario vittorioso (Sez. 2, n- 23404/2022, Scarpa, Rv. 665256-01).

In caso di legato di usufrutto di un bene già locato, l'usufruttuario legatario subentra nei diritti e nelle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione e anche nell'obbligazione di restituzione del deposito cauzionale, salvo che nel testamento sia disposto che gli eredi debbano trasferire le relative somme all'usufruttario (Sez. 3, n. 23265/2022, Scrima, Rv. 665458-01).

6. La divisione ereditaria e la collazione.

Quando tra i condividenti non vi sia stato accordo per limitare le operazioni divisionali ad una parte soltanto del compendio comune, il giudizio di divisione deve ritenersi istaurato per giungere al completo scioglimento della comunione, previa esatta individuazione di tutto ciò che ne forma oggetto, sicché, salva l'operatività delle preclusioni dell'ordinario giudizio di cognizione, l'indicazione dei beni può essere compiuta successivamente alla domanda anche dal condividente che non l'abbia proposta, costituendo essa una precisazione dell'unitaria istanza, comune a tutte le parti, rivolta allo scioglimento della comunione (Sez. 2, n. 01065/2022, Tedesco, Rv. 663570-01).

Quando vi sia contestazione in merito all’inclusione di un bene nel compendio ereditario, tale da determinare l’instaurazione di un autonomo giudizio, non è ravvisabile, nel rapporto tra esso e quello di divisione ereditaria, un’ipotesi di sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c., atteso che, quando tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità, la sospensione ex art. 295 c.p.c. della causa dipendente permane fintanto che la causa pregiudicante penda in primo grado, mentre, una volta che questa sia definita con sentenza non passata in giudicato, spetta al giudice della causa dipendente scegliere se conformarsi alla predetta decisione, sciogliendo il vincolo necessario della sospensione, ove una parte del giudizio pregiudicato si attivi per riassumerlo, ovvero attendere la sua stabilizzazione con il passaggio in giudicato, mantenendo lo stato di sospensione (ovvero di quiescenza) attraverso però il ricorso all'esercizio del potere facoltativo di sospensione previsto dall'art. 337, comma 2, c.p.c., ovvero decidere in senso difforme quando, sulla base di una ragionevole valutazione prognostica, ritenga che tale sentenza possa essere riformata o cassata (Sez. 2, n. 09470/2022, Falaschi, Rv. 664320-01).

La domanda volta a conseguire la declaratoria di nullità di una divisione ereditaria giudiziale già attuata dà luogo ad un giudizio a carattere universale ed unitario sulla base di un rapporto soggettivo indivisibile, che deve svolgersi nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione, in quanto litisconsorti necessari nel giudizio divisorio, con la conseguenza che, in difetto di integrità del contraddittorio, il ricorso per cassazione è inammissibile e non improcedibile ex art. 371 bis c.p.c., riferendosi quest’ultima disposizione al difetto del successivo adempimento del deposito dell'atto di integrazione del contraddittorio, debitamente notificato (Sez. 2, n. 24834/2022, Tedesco, Rv. 665561-01).

Nel giudizio di divisione, qualora la vendita di una quota indivisa sia realizzata in presenza di un pignoramento di quest'ultima che, pur comprendendo tutti i beni di una certa specie, lasci tuttavia fuori beni di specie diversa, l'aggiudicatario non avrà una posizione uguale a quella degli altri compartecipi, in quanto estraneo ai beni non colpiti dal pignoramento, dovendo la divisione dei beni rispetto ai quali l'aggiudicatario è subentrato all'esecutato essere fatta separatamente dalla divisione del resto, sicché l'accordo paradivisorio stipulato dai condividenti e dall'aggiudicatario senza la partecipazione del coerede esecutato avrà efficacia purché limitato ai beni ricompresi nella quota che ha formato oggetto di vendita forzata (Sez. 2, n. 24833/2022, Tedesco Rv. 665578-01).

Peraltro, in tema di espropriazione presso terzi, il pignoramento di un credito ereditario da parte di un coerede nei confronti di altro coerede comporta che, ove il procedente non abbia espressamente limitato l'oggetto del pignoramento alla sola quota di spettanza del proprio debitore, il terzo pignorato è tenuto a versare l'intero importo del credito, dal momento che, a differenza dei debiti ereditari (che si dividono automaticamente "pro quota" ex art. 752 c.c.), i crediti ereditari ricadono nella comunione e possono, pertanto, essere fatti valere per l'intero da ciascuno dei coeredi, restando affidata la successiva ripartizione fra gli stessi al giudizio di divisione (Sez. 3, n. 18331/2022, Rossi, Rv. 665020-01).

Come noto, nell’ambito del giudizio di divisione, i figli, i loro discendenti e il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi, ai sensi dell’art. 737 c.c., tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente, salva dispensa ad opera dello stesso defunto, la quale non può che avvenire nei limiti della quota disponibile.

L'istituto della collazione, che, in presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius e salva apposita dispensa di quest'ultimo, impone il conferimento del bene che ne è oggetto in natura o per imputazione, ha la finalità di assicurare l'equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti nella formazione della massa ereditaria, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote determinate attraverso la sommatoria del relictum e del donatum al momento dell'apertura della successione, sicché il relativo obbligo sorge automaticamente in seguito ad essa, senza necessità di proporre espressa domanda da parte del condividente, essendo a tal fine sufficiente che sia chiesta la divisione del patrimonio relitto e che sia menzionata, in esso, l'esistenza di determinati beni quali oggetto di pregressa donazione. Tuttavia, in caso di donazione indiretta, è pregiudiziale all'obbligo di collazione la proposizione della domanda di accertamento dell'esistenza della stessa (Sez. 2, n. 23403/2022, Scarpa, Rv. 665255-01).

In caso di collazione di una donazione, non rileva la determinazione del valore del bene alla data di apertura della successione, allorquando non risulti anche avanzata la domanda di divisione, cui la collazione è funzionale, ma sia stata proposta la sola domanda di accertamento della natura parzialmente simulata di una vendita (nella specie, di quote societarie), il che impone unicamente di verificare se alla data della stessa vi fosse la dedotta sproporzione integrante gli estremi di un atto di liberalità (in tal senso, Sez. 6-2, n. 02505/2022, Criscuolo, Rv. 663814-02).

A proposito di atti afferenti alla società, in particolare, occorre distinguere tra cessione di quote societarie da quella d'azienda. Infatti, mentre la prima è soggetta alla disciplina propria della collazione dei beni mobili ex art. 750 c.c., in quanto attribuisce un diritto personale di partecipazione alla vita societaria e non un diritto reale sul patrimonio societario, distinto dalle persone dei soci, sebbene, ai fini della valutazione delle quote ai sensi dell'art. 2289 c.c., debba aversi riguardo alle varie componenti del patrimonio societario, oltreché al valore di avviamento e della futura redditività dell'impresa, la seconda è, invece, soggetta alle modalità previste per i beni immobili, ex art. 476 c.c., in quanto rappresenta la misura della contitolarità del diritto reale sulla "universitas rerum" dei beni di cui si compone, sicché, ove si proceda per imputazione, deve tenersi conto del valore dell'azienda, quale complesso organizzato, e non di quello delle singole cose (Sez. 6-2, n. 02505/2022, Criscuolo, Rv. 663814-01, che ha ritenuto non erroneo, ai fini dell'accertamento del valore di una cessione di quote societarie, far riferimento al valore dell'azienda rientrante nel patrimonio della società onde risalire a quello delle quote, occorrendo all'uopo stimare le varie componenti del patrimonio societario, tra le quali rivestiva valore determinante l'azienda di farmacia, al cui esercizio la società era deputata).

7. Le donazioni.

La donazione costituisce fattispecie a formazione progressiva, in quanto postula l’accettazione del donatario. Pertanto, in presenza di un contratto di donazione non ancora perfetto, per la mancanza della notificazione al donante dell'atto pubblico di accettazione del donatario, ai sensi dell'art. 782, comma 2, c.c., va riconosciuto in capo all’accipiens il solo animus detinendi e non l’animus possidendi, non essendo ancora venuto ad esistenza il negozio traslativo (Sez. 2, n. 09476/2022, Varrone, Rv. 664321-02). Peraltro, quando proposta e accettazione siano contenuti in atti distinti, la notificazione dell'accettazione della donazione, ai sensi della medesima norma, deve essere eseguita in modo rituale e costituisce requisito indispensabile per il perfezionamento del relativo contratto che, pertanto, prima del suo verificarsi non può considerarsi ancora concluso, con conseguente irrilevanza della prova della conoscenza, in capo al donante, dell'accettazione del donatario, ove acquisita aliunde (Sez. 2, n. 09476/2022, Varrone, Rv. 664321-01).

In tema di donazione di somma di danaro di non modico valore, la nullità del corrispondente contratto perché concluso, senza la forma dell'atto pubblico, dal mandatario del donante in virtù di un potere di rappresentanza pure invalidamente - perché non in forma di atto pubblico - attribuitogli da quest'ultimo, determina l'insorgere, a carico del mandatario medesimo, dell'obbligo di restituzione in favore del donante, attesa la perdita, da parte del donante stesso, della disponibilità della somma predetta (Sez. 1, n. 05488/2022, Campese, Rv. 664026-01).

Peraltro, poiché l'obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d'ufficio, stabilito dall'art. 101, comma 2, c.p.c., non riguarda le questioni di diritto ma quelle di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero un'attività assertiva in punto di fatto e non già solo mere difese, Sez. 2, n. 1617/2022, Tedesco, Rv. 663636-01, ha ritenuto violato detto principio allorché il giudice modifichi la qualificazione della dazione di un’ingente somma di denaro da donazione ad adempimento di obbligazione naturale, senza sottoporre i fatti costitutivi della ritenuta obbligazione naturale al contraddittorio delle parti.

Infine, Sez. 1, n. 21462/2022, Di Marzio, Rv. 665236-01, ha ritenuto che il contratto, concluso in Iran, con il quale il futuro marito, con doppia cittadinanza iraniana ed italiana, si obbliga nei confronti del padre della futura sposa ad acquistare in futuro un'abitazione da adibire a casa coniugale ed a trasferirne alla moglie il 50% della proprietà, non possa essere considerato un contratto preliminare di donazione e, come tale, nullo secondo il nostro ordinamento, per il solo fatto di essere caratterizzato dall'elemento della gratuità, per non essere previsto un corrispettivo per l'incremento patrimoniale della beneficiaria, atteso che è indispensabile, al fine della qualificazione della pattuizione, lo scrutinio della sussistenza non solo dell'elemento oggettivo della mancanza di corrispettivo, ma anche dell'elemento soggettivo dello spirito di liberalità, come consapevole determinazione dell'arricchimento del beneficiario mediante attribuzioni od erogazioni patrimoniali operate "nullo iure cogente", verificando se il senso della pattuizione intercorsa tra il futuro sposo ed il padre della futura sposa, non risieda, piuttosto, nell'intento del primo di procacciarsi il consenso del secondo al matrimonio.

PARTE TERZA OBBLIGAZIONI, CONTRATTI E RESPONSABILITÀ

  • credito
  • debito
  • diritti di obbligazioni

CAPITOLO X

LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE

(di Francesco Graziano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Buona fede e correttezza nel “contatto sociale qualificato”. - 3 L’abuso del diritto nella violazione del principio di buona fede e correttezza. - 4 Adempimento secondo diligenza e rapporti con correttezza e buona fede. - 5 Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale. - 6 La remissione. - 7 Compensazione cd. atecnica o impropria. - 8 Novazione. - 9 Cessione del credito e “datio in solutum”.

1. Premessa.

Già nel corso del 2021 la S.C. ha posto alla base di rilevanti decisioni in tema di obbligazioni il principio di correttezza e buona fede, quale espressione del più generale principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.

Sez. 3, n. 09200/2021, Scarano, Rv. 661071-02, infatti, ha ribadito che il principio di correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” – deve essere inteso in senso oggettivo.

Esso, in particolare, enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Ne consegue che dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (in senso conforme, “ex permultis”, sia erano già espresse in precedenza, Sez. 3, n. 22819/2010, A. Amendola, Rv. 614831-01, e Sez. U, n. 28056/2008, Morcavallo, Rv. 605685-01).

Nel fare proprio il principio di cui innanzi, la S.C. ha, nella specie, confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato una condotta contraria a buona fede e correttezza nel mancato ripristino della fornitura di energia elettrica in favore dell’utente, nonostante l’istanza di quest’ultimo, in quanto il somministrante aveva rilevato che l’utenza risultava a nome di altro soggetto; un sopralluogo o una richiesta di chiarimenti, sebbene non previsti dal contratto, avrebbero difatti potuto dimostrare che si trattava della medesima utenza, semplicemente volturata a un terzo.

Quanto innanzi è emerso con particolare riferimento non solo ai limiti dell’esercizio abusivo del diritto, alla stregua appunto del parametro della correttezza e della buona fede, ma anche in merito al “contatto sociale qualificato” ed alla relativa responsabilità oltre che in ordine all’adempimento secondo diligenza.

Il principio in considerazione, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto, ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, ha costituito, altresì, limite alla parcellizzazione della domanda giudiziale. In particolare, con riguardo all’azione esecutiva, Sez. 3, n. 33443/2022, Guizzi, Rv. 666143-02, ha chiarito che, in tema di spese processuali, integra abusivo frazionamento del credito il contegno del creditore esecutante il quale – dopo avere intimato al debitore esecutato, con un primo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate per il giudizio di appello conclusosi con la conferma della decisione adottata in prime cure – richieda, con successivo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate in primo grado, oltre alle spese e competenze relative a tale secondo atto di precetto.

La buona fede consiste, altresì, ex art. 1147 c.c., nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto; essa è presunta e, quale espressione di un principio generale, opera quando le norme facciano riferimento alla buona fede senza nulla dire in ordine a ciò che vale ad integrarla o ad escluderla, ovvero al soggetto tenuto a provarne l’esistenza o ad altri profili di rilevanza della stessa. Sicché, per Sez. 2, n. 37722/2021, Tedesco, Rv. 663020-01, essa trova applicazione anche alla fattispecie di cui all’art. 2652, n. 6, c.c., per il quale, se la domanda di nullità è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad atto iscritto o trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda.

Sez. 1, n. 05744/2022, Caradonna, Rv. 664028-01, con riferimento alla violazione delle regole di correttezza e buona fede da parte della P.A. ha affermato che i crediti dell’appaltatore di opera pubblica sono esigibili anche in mancanza di collaudo, qualora l’amministrazione committente abbia fatto decorrere un tempo tale da rendere l’inerzia sostanzialmente equivalente ad un rifiuto, non potendo essere ritardate “sine die” le determinazioni in ordine all’accettazione dell’opera e paralizzati i diritti dell’altro contraente, in violazione delle regole generali di correttezza e buona fede. Scaduti i termini contrattuali, grava sul committente l’onere di dimostrare che la mancata approvazione del collaudo sia stata determinata da condotta imputabile all’impresa.

2. Buona fede e correttezza nel “contatto sociale qualificato”.

Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede. La responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge, difatti, da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. Ciò non solo qualora tale danno derivi dall’emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione (in tal senso, Sez. U, 08236/2020, Cosentino, Rv. 657613-01, ancorché ai fini della risoluzione di una questione di giurisdizione, la quale conferma l’inquadramento del contatto sociale qualificato nell’ambito delle fonti dell’obbligazione).

Sulla scia del principio di cui innanzi, Sez. U, n. 12428/2021, Scoditti, Rv. 661305-02, ha ritenuto che la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, in quanto concernente diritti soggettivi, sia compromettibile in arbitrato rituale (in ragione della natura giurisdizionale dell’attività degli arbitri rituali, per la quale, da ultimo, Sez. 6-2, n. 34569/2021, Giannaccari, Rv. 663066-01; Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786). Quanto innanzi opera, però, a condizione che sia identificabile un comportamento della pubblica amministrazione, diverso dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di atti formali dei quali si compone il procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela dell’interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento riposto nell’emanazione del provvedimento non più adottato.

Nella specie, la Suprema Corte ha ravvisato nell’inerzia dell’amministrazione, consistita nell’omessa sottoscrizione del nuovo schema di convenzione urbanistica, approvato con delibera del Consiglio comunale, e nel perdurante mancato esercizio del potere di revoca, un comportamento idoneo a indurre il legittimo affidamento del privato sulla conclusione della convenzione.

La convenzione urbanistica, quale accordo sostitutivo ex art. 11 della l. n. 241 del 1990, non è suscettibile – per tutto ciò che non è disposto dal regolamento contrattuale – di produrre obblighi per la pubblica amministrazione correlati a diritti soggettivi del privato attraverso l’integrazione legale dell’accordo, in ragione della incompatibilità del principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la norma attributiva del potere amministrativo.

Ne consegue, per Sez. U, n. 12428/2021, Scoditti, Rv. 661305-01, che la controversia derivante dalla mancata adozione di provvedimenti da parte della pubblica amministrazione che abbia determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica non può essere risolta mediante arbitrato rituale, afferendo ad interessi legittimi.

Medesimo inquadramento della responsabilità da “contatto sociale qualificato” della P.A. conduce Sez. U, n. 00615/2021, Torrice, Rv. 660216-01, a ritenere, in materia di C.I.G. (ordinaria e straordinaria), che spetti alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa alla pretesa risarcitoria dell’imprenditore, fondata sulla lesione dell’affidamento riposto nella condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede.

Sempre in punto di qualificazione in termini di “contatto sociale”, si è espressa anche Sez. 2, n. 23422/2022, Trapuzzano, Rv. 665257-01, con riguardo agli incarichi di mediazione conferiti da ente pubblici anche economici per la conclusione di contratti stipulati a trattativa privata (c.d. mediazione tipica), chiarendo che essi ricadono tra gli atti a forma libera, per i quali non è prevista la forma scritta “ad substantiam”, atteso che il rapporto che si viene a creare non ha natura necessariamente contrattuale, ma costituisce atto giuridico in senso stretto, inserito nella categoria dei rapporti contrattuali di fatto o contatti sociali rilevanti, rispetto ai quali l’incarico non ha portata dirimente.

Infine, Sez. 3, n. 10050/2022, Spaziani, Rv. 664402-01, con riguardo alle ipotesi di responsabilità medica verificatesi anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 24 del 2017, ha confermato la possibilità di inquadramento in termini di “contatto sociale” del rapporto tra paziente – danneggiato e professionista sanitario – danneggiante, ribadendo le relative ricadute in punto di onere della prova del nesso di causalità già affermate in epoca recente (Sez. 3, n. 28991/2019, Scoditti, Rv. 655828-01).

Con specifico riferimento al canone di correttezza e buona fede nell’ambito del “contatto sociale qualificato”, Sez. 2, n. 15577/2022, Fortunato, Rv. 665164-01, ha precisato che, in tema di mediazione, il mediatore, sia quando agisca in modo autonomo (mediazione cd. tipica, riconducibile, come noto, alla categoria del “contatto sociale”: Sez. 3, n. 16382/2009, Spagna Musso, Rv. 609183-01), sia su incarico di una delle parti (mediazione c.d. atipica, costituente in realtà mandato), è tenuto a comportarsi secondo buona fede e correttezza e a riferire, perciò, alle parti le circostanze, da lui conosciute o conoscibili secondo la diligenza qualificata ex art. 1175 c.c. propria della sua categoria, idonee ad incidere sul buon esito dell’affare, senza che le eventuali più penetranti verifiche a ciò necessarie postulino il previo conferimento di specifico incarico, tali essendo, in caso di mediazione immobiliare, tutte quelle afferenti alla contitolarità del diritto di proprietà, all’insolvenza di una delle parti, all’esistenza di elementi atti a indurre le parti a modificare il contenuto del contratto, ad eventuali prelazioni ed opzioni, al rilascio di autorizzazioni amministrative, alla provenienza di beni da donazioni suscettibili di riduzione, alla solidità delle condizioni economiche dei contraenti, alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile e alla titolarità del bene in capo al venditore.

Sostanzialmente nella medesima scia si colloca anche Sez. 2, n. 24534/2022, Tedesco, Rv. 665394-01, secondo cui in caso di mediazione immobiliare, il mediatore è tenuto, secondo il criterio della media diligenza professionale, a rendere le informazioni sul rendimento energetico (cd. classe energetica) dell’immobile oggetto dell’affare intermediato fin dal momento in cui ne effettua la relativa pubblicità, con la possibilità di visionare la relativa documentazione, trattandosi di informazioni funzionali alla determinazione dell’acquirente in ordine all’acquisto dell’immobile.

3. L’abuso del diritto nella violazione del principio di buona fede e correttezza.

L’abuso del diritto non presuppone una violazione in senso formale, ma si realizza quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo esercizio, ne risulti alterata la funzione obiettiva rispetto al potere che lo prevede, ovvero lo schema formale del diritto sia finalizzato ad obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Elementi sintomatici ne sono pertanto: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia nondimeno svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte (“ex permultis” Sez. L, n. 15885/2018, Negri Della Torre, Rv. 649311-01; Sez. L, n. 10568/2013, Napoletano, Rv. 626199-01).

Sez. 3, n. 33443/2022, Guizzi, Rv. 666143-02, ha chiarito che, in tema di spese processuali, integra abusivo frazionamento del credito il contegno del creditore esecutante il quale – dopo avere intimato al debitore esecutato, con un primo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate per il giudizio di appello conclusosi con la conferma della decisione adottata in prime cure – richieda, con successivo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate in primo grado, oltre alle spese e competenze relative a tale secondo atto di precetto.

Sez. U, n. 32001/2022, Rossetti, Rv. 666062-01, in punto di abuso del diritto di impugnazione ai fini dell’accertamento di un’ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., ha chiarito che costituisce indice di mala fede o colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, non compiendo alcuno sforzo interpretativo, deduttivo ed argomentativo per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta. Nella specie, infatti, la S.C. ha condannato d’ufficio il ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., in un caso in cui una questione di puro diritto processuale era stata prospettata come questione di giurisdizione, qualificando come violazione dei limiti esterni della giurisdizione la mera delibazione da parte del giudice amministrativo degli effetti di un accordo transattivo sul giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo, effettuata “incidenter tantum” al solo fine di valutarne la pregiudizialità in relazione alla richiesta di sospensione (in senso conforme, si è espressa anche Sez. 3, n. 04430/2022, Rossetti, Rv. 663925-03, esaminando l’ipotesi di un ricorso per cassazione basato su tesi giuridiche contrastanti frontalmente con inequivoche previsioni normative).

4. Adempimento secondo diligenza e rapporti con correttezza e buona fede.

La buona fede oggettiva o correttezza, oltre che regola di comportamento e di interpretazione del contratto, è criterio di determinazione della prestazione contrattuale, imponendo il compimento di quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (ex plurimis, Sez. 3, n. 08494/2020, Scarano, Rv. 657807-01), come confermato dalla S.C. nel corso del 2022 anche con riferimento a diverse tipologie ed istituti di matrice contrattuale.

In particolare, Sez. L, n. 02169/2022, Garri, Rv. 663670-01, ha affermato come, in tema di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, ai sensi dell’art. 29, comma 2, del d.lgs. 276 del 2003, debba essere esclusa la configurabilità di un esonero in funzione della possibilità di conoscenza o meno, da parte del committente, dell’esistenza dei rapporti di lavoro dei quali è chiamato a rispondere, e ciò in ragione della “ratio” della disposizione, volta ad evitare che la dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione delle prestazioni vada a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto, precisando tuttavia come la violazione dei principi di buona fede e legittimo affidamento da parte dell’appaltatore (che, nella specie, aveva simulato l’esistenza di un rapporto diverso da quello subordinato, attribuendo al dipendente la qualità di socio), ne possa determinare la responsabilità risarcitoria a vantaggio del committente.

In tema di appalto di opere pubbliche, Sez. 1, n. 05848/2022, Scotti, Rv. 664029-01, ha chiarito che la scelta se disporre o meno varianti in corso d’opera, eccedenti il limite del quinto d’obbligo, compete al committente, che non può essere obbligato a far eseguire opere significativamente diverse da quelle progettate, neanche qualora il responsabile unico del procedimento abbia rilasciato parere favorevole e l’appaltatore, pur potendo opporre un legittimo rifiuto, vi abbia consentito. Tuttavia, stante la natura privatistica del rapporto, tale facoltà discrezionale deve essere esercitata nel rispetto dei principi generali di correttezza, lealtà e buona fede e del dovere di cooperare all’adempimento dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1206 c.c. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto la stazione appaltante responsabile della risoluzione del contratto non già per non aver dato corso alle varianti, ma per aver ritardato indebitamente nella relativa decisione.

Con riguardo alla responsabilità professionale del notaio, si è affermato che quest’ultimo, ove incaricato della redazione di un contratto di compravendita immobiliare, è tenuto a compiere le attività preparatorie e successive, necessarie per il conseguimento del risultato pratico voluto dalle parti, rientrando tra i suoi doveri anche l’obbligo di consiglio o dissuasione, la cui omissione è fonte di responsabilità per violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., quali criteri determinativi ed integrativi della prestazione contrattuale, che impongono il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della parte (Sez. 3, n. 07185/2022, Guizzi, Rv. 664244-01). Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabile, per inadempimento del contratto d’opera professionale, il notaio, il quale aveva rogato quattro atti di compravendita – con previsione di pagamento rateale e clausola di rinuncia della venditrice all’iscrizione di ipoteca legale – e, lo stesso giorno e nei due giorni successivi, aveva rogato altri quattro atti di rivendita a terzi dei medesimi cespiti da parte dello stesso acquirente, spogliatosi così dei beni costituenti garanzia patrimoniale generica per il pagamento del prezzo.

Analogamente, secondo Sez. 2, n. 10474/2022, Dongiacomo, Rv. 664373-01, il notaio, incaricato della redazione e autenticazione di un contratto di compravendita, non può limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, ma è tenuto a realizzare tutte le attività, preparatorie e successive, che, allo stato degli atti, garantiscano sia la serietà e la certezza dell’atto giuridico da rogare, sia il raggiungimento del suo scopo tipico e del risultato pratico perseguito dalle parti (come quelle di informazione, di consiglio o di dissuasione dalla stessa stipula dell’atto), tra le quali non rientra il pattuito esonero dal compimento delle visure catastali, in quanto costituente parte integrante del negozio, purché giustificato da concrete esigenze delle parti. Ne deriva che l’inosservanza di tali doveri, quand’anche non contemplati dalla legge professionale, determina l’insorgere di responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, trovando essi fondamento nella clausola generale di buona fede oggettiva, senza che possa configurarsi il concorso colposo del danneggiato ai sensi dell’art. 1227 c.c.

Ancora, Sez. 3, n. 04911/2022, Tatangelo, Rv. 663929-01, ha chiarito come il notaio incaricato della stipula di un contratto avente ad oggetto diritti reali su beni immobili non possa limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, essendo tenuto a compiere l’attività necessaria ad assicurare la serietà e certezza dei relativi effetti tipici, e il risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti stesse, dal momento che contenuto essenziale della sua prestazione professionale è l’obbligo di informazione e consiglio. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la responsabilità professionale di un notaio il quale, in sede di stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario, aveva omesso di accertare che l’immobile ipotecato era incommerciabile, in quanto gravato da usi civici non affrancati.

Sempre in ordine all’obbligo informazione del notaio, Sez. 6-3, n. 21205/2022, Porreca, Rv. 665205-01, ha affermato che quando lo scopo pratico dell’atto è messo a rischio da mancate verifiche o dalle dinamiche tecniche proprie della negozialità, il notaio è tenuto a rispondere anche per omessa informazione, oltre che per difetto delle doverose attività di accertamento, mentre, qualora, invece, le parti abbiano assunto impegni negoziali espressi, soggetti ad apprezzamento di affidabilità e convenienza (come quello alla cancellazione delle riscontrate formalità), il notaio non è tenuto a rispondere del susseguente inadempimento della parte obbligata.

Di particolare rilievo, in punto di diligenza qualificata, appare Sez. 6-3, n. 26866/2022, Guizzi, Rv. 665718-01, secondo cui in caso di pagamento di una somma in favore di soggetto non legittimato, non concorre ad individuare il livello di diligenza esigibile da Poste Italiane ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., la raccomandazione ABI contenuta nella circolare del 7 maggio 2001 (che prescrive l’identificazione del beneficiario del pagamento attraverso due documenti muniti di fotografia), dal momento che alla stessa non può essere riconosciuta alcuna portata precettiva, né tale regola prudenziale di condotta si rinviene negli “standards” valutativi di matrice sociale ovvero ricavabili dall’ordinamento positivo, posto che l’attività di identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro di un solo documento d’identità personale. In particolare, con tale pronuncia è stata confermata la sentenza di merito che aveva ritenuto correttamente osservati, da parte di Poste Italiane, gli obblighi di diligenza finalizzati all’identificazione del destinatario di un bonifico domiciliato, sul presupposto che la clausola delle condizioni generali della convenzione intercorsa col cliente ordinante, che faceva riferimento – al plurale – ai “documenti di riconoscimento” presentati dal beneficiario, dovesse essere interpretata non già nel senso dell’obbligo, per quest’ultimo, di esibire due documenti, bensì in quello di escludere la necessità di presentazione di uno specifico documento d’identificazione.

Con riguardo al contratto di appalto avente ad oggetto opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti, Sez. 3, n. 33465/2022, Condello, Rv. 666144-01, nel ribadire che l’appaltatore viola il dovere di diligenza stabilito dall’art. 1176 cod. civ. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell’arte, l’idoneità delle anzidette strutture a reggere l’ulteriore opera commessagli e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l’inidoneità di tali strutture, procede egualmente all’esecuzione dell’opera (Sez. 3, n. 12995/2006, Scarano, Rv. 591369-01), ha affermato l’estensibilità di tale principio anche al progettista e direttore dei lavori, chiarendo come esso imponga di ritenere che, qualora l’intervento edilizio interessi un’opera preesistente, si richiede al professionista una diligenza particolarmente qualificata, essendo egli tenuto, prima di procedere alla sopraelevazione, ad accertarsi della idoneità statica delle strutture già esistenti.

In tema di caparra confirmatoria, Sez. 2, n. 10366, Dongiacomo, Rv. 664329-01, ha precisato come essa  possa essere costituita anche mediante la consegna di un assegno bancario, pur se l’effetto che le è proprio si perfeziona al momento della riscossione della somma da esso recata e, dunque, salvo buon fine, essendo però onere del prenditore del titolo, dopo averne accettato la consegna, di porlo all’incasso, evidenziando altresì che il comportamento dello stesso prenditore, che ometta di incassare l’assegno e lo trattenga comunque presso di sé, è contrario a correttezza e buona fede, sì da impedirgli di imputare all’inadempimento della controparte il mancato incasso dell’assegno, come pure di recedere dal contratto, al quale la caparra risulti accessoria, ovvero di sollevare l’eccezione di inadempimento.

Sez. 1, n. 20159/2022, Scotti, Rv. 664978-01, in tema di associazione in partecipazione, ha precisato come l’autonomia che, di regola, si accompagna alla titolarità esclusiva dell’impresa e della gestione da parte dell’associante, trovi un limite sia nell’obbligo del rendiconto ad affare compiuto o del rendiconto annuale della gestione che si protragga per più di un anno, ex art. 2552, comma 3, c.c., sia, in corso di durata del rapporto, nel dovere generale di esecuzione del contratto secondo buona fede, che si traduce nel dovere specifico di portare a compimento l’affare o l’operazione economica entro il termine ragionevolmente necessario a tale scopo; pertanto, alla stregua dei principi generali sulla risoluzione dei contratti sinallagmatici per inadempimento, applicabili all’associazione in partecipazione, l’inerzia o il mancato perseguimento da parte dell’associante dei fini cui l’attività d’impresa o di gestione dell’affare è preordinata determina un inadempimento che, qualora si protragga oltre ogni ragionevole limite di tolleranza può, dunque, secondo l’apprezzamento del giudice del merito, dar luogo all’azione di risoluzione del contratto, secondo le regole indicate negli artt. 1453 e 1455 c.c. In particolare, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la richiesta di risoluzione di un contratto di associazione in partecipazione relativo ad immobili da costruire, ritenendo che le parti non avessero indicato un termine specifico ed essenziale per la realizzazione dell’affare, mentre il mancato inoltro del rendiconto non costituiva inadempimento grave dell’associante, in quanto lo stesso aveva messo a disposizione documentazione ritenuta equipollente, consistente nei propri bilanci ed allegati contabili.

Con riferimento alla compravendita immobiliare, è stato affermato che la clausola contrattuale, con la quale il promittente venditore assuma l’impegno di curare, a proprie spese, l’estinzione dell’ipoteca prima del rogito notarile, deve essere interpretata nel senso che l’obbligo va considerato assolto con l’estinzione per pagamento dell’obbligazione garantita, corredata del consenso del creditore ipotecario alla cancellazione, rilasciato con scrittura autenticata dal notaio che abbia presentato al conservatore l’atto fondante la richiesta, essendo contrario a buona fede ritenere, viceversa, necessario anche il completamento della formalità della cancellazione entro il termine pattuito. Ciò, in ragione del fatto che la cancellazione dell’ipoteca svolge sia una funzione di pubblicità-notizia, allorché sussista già un’autonoma causa estintiva dell’ipoteca in ragione della sua nullità o definitiva inefficacia, sia una funzione di autonoma causa estintiva dell’ipoteca, in quanto ne determina l’estinzione anche in assenza dei relativi presupposti (Sez. 2, n. 20434/2022, Giusti, Rv. 665170-01). 

L’applicazione delle regole della correttezza e buona fede è stata, inoltre ribadita, anche con riguardo ai rapporti rientranti nell’impiego pubblico contrattualizzato, essendosi precisato che gli atti di gestione del rapporto, in quanto espressione dei poteri propri del datore di lavoro privato, hanno natura privatistica, con la conseguenza che il rispetto dell’obbligo di motivazione imposto dalla legge o dalla contrattazione collettiva va parametrato, da un lato, alla natura dell’atto ed agli effetti che esso produce, dall’altro, ai principi di correttezza e buona fede ai quali, nello svolgimento del rapporto di lavoro, è obbligato ad attenersi il datore di lavoro pubblico, senza che trovi applicazione l’art. 3 della l. n. 241 del 1990 che disciplina la motivazione degli atti amministrativi (Sez. L, n. 24122/2022, Di Paolantonio, Rv. 665351-01).

Sez. 2, n. 25085/2022, Giannaccari, Rv. 665586-01, ha ribadito che le parti sono tenute a comportarsi secondo buona fede anche quando al contratto sia stata apposta una condizione sospensiva qualificabile come “potestativa mista”, con la conseguenza che, qualora un Comune abbia affidato ad un professionista la progettazione di un’opera pubblica, subordinando l’erogazione del compenso al finanziamento di quel progetto da parte della Regione, l’affidamento di un successivo incarico di progettazione della stessa opera pubblica ad un altro professionista, di cui il Comune chieda ed ottenga il finanziamento, costituisce comportamento contrario a buona fede, in violazione dell’art. 1358 c.c., che determina l’avveramento fittizio della condizione, ai sensi dell’art. 1359 c.c.

5. Principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale.

Circa i rapporti tra principio di correttezza e buona fede ed azione giudiziale, già nel corso del 2021 la S.C. si è posta nel solco della propria giurisprudenza.

Il creditore che introduca un giudizio di cognizione o inizi una procedura esecutiva senza altro scopo che quello di far lievitare il credito, attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, viola, difatti, l’obbligo di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., che gli impone di cooperare con il debitore per facilitarne l’adempimento, di non aggravarne la posizione e di tollerare quelle minime inesattezze della prestazione che siano insuscettibili di recargli un apprezzabile sacrificio. Ne consegue, per Sez. 3, n. 07409/2021, Rossetti, Rv. 661005-01, l’inammissibilità della domanda che presenti tali caratteristiche, integrando la detta condotta un abuso del processo. In particolare, con riguardo all’azione esecutiva, Sez. 3, n. 33443/2022, Guizzi, Rv. 666143-02, ha chiarito che, in tema di spese processuali, integra abusivo frazionamento del credito il contegno del creditore esecutante il quale – dopo avere intimato al debitore esecutato, con un primo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate per il giudizio di appello conclusosi con la conferma della decisione adottata in prime cure – richieda, con successivo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate in primo grado, oltre alle spese e competenze relative a tale secondo atto di precetto.

Sez. 3, n. 17984/2022, Frasca, Rv. 665748-01, ha affermato l’inammissibilità della domanda giudiziale originariamente rivolta unicamente al conseguimento di una condanna generica, in quanto l’art. 278 c.p.c. costituisce una norma eccezionale e la parcellizzazione dell’esercizio della tutela giurisdizionale determina un abuso del processo, con la conseguenza che la limitazione della domanda al solo “an debeatur” deve ritenersi “tamquam non esset” e il giudice, dovendo procedere all’accertamento del diritto fatto valere sia nell’”an” che nel “quantum”, deve dichiarare la nullità e la rinnovazione dell’atto introduttivo ove sia carente quanto all’indicazione del “quantum”, e rigettare la domanda in caso di mancanza di prova del “quantum”. In applicazione di tale principio, la Corte ha rigettato nel merito la domanda ed ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna ad un importo da determinarsi in base ad elementi non accertati dalla sentenza, non allegati dall’attore, né desumibili dall’istruttoria espletata, ritenendo tale condanna, per il tenore indeterminato e indeterminabile dell’importo, inidonea ad integrare una condanna specifica. In particolare, l’affermazione di tale principio si fonda, tra l’altro, sull’assunto secondo cui, dal momento che il legislatore nell’art. 278 c.p.c. ha previsto la possibilità di un frazionamento della richiesta di tutela fra “an” e “quantum debeatur” solo come fattispecie suscettibile di verificarsi nel corso di un giudizio introdotto a tutela della situazione giuridica nella sua pienezza, si dovrebbe lecitamente argomentare “a contrario” che la norma registri il principio per cui il frazionamento non possa essere deciso dall’attore che introduce la domanda, cioè proponendo egli stesso una domanda limitata all’”an”.

Nondimeno, successivamente Sez. U, n. 29862/2022, Rossetti, Rv. 665940-02, ha ribadito il principio secondo cui, ai fini del risarcimento del danno, la vittima di un fatto illecito può proporre una domanda limitata “ab origine” all’accertamento del solo “an debeatur”, con riserva di accertamento del “quantum” in un separato giudizio, chiarendo, altresì, che, nel giudizio introdotto da una siffatta domanda, il giudice, su istanza di parte, può pronunciare anche condanna provvisionale ai sensi dell’art. 278 c.p.c.

In particolare, è interessante notare come le Sezioni Unite, dopo aver ricordato come il principio di cui si tratta costituisca ormai diritto vivente, in quanto più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., “ex permultis”, Sez. U, n. 12103/1995, Bibolini, Rv. 494765-01, nonché Sez. 3, n. 04653/2021, Iannello, Rv. 660601-01), hanno poi ritenuto doveroso ribadirlo per ragioni di stabilità dell’interpretazione delle norme processuali che costituisce un valore immanente nell’ordinamento, a salvaguardia della certezza del diritto ed a tutela del diritto di difesa.

L’abuso del processo inteso come abuso del diritto di impugnazione è stato, poi, esaminato da Sez. 3, n. 04430/2022, Rossetti, Rv. 663925-03, che, con riguardo all’ipotesi di un ricorso per cassazione basato su tesi giuridiche contrastanti frontalmente con inequivoche previsioni normative, ha pronunciato d’ufficio la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. del ricorrente, da reputarsi, alternativamente, consapevole dell’infondatezza dell’impugnazione o, comunque, privo della diligenza necessaria per acquisire tale consapevolezza, ed ha affermato che, in tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria iniziativa processuale o, comunque, senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta.

Tale principio, come già sopra chiarito, è stato poi confermato da Sez. U, n. 32001/2022, Rossetti, Rv. 666062-01, con specifico riguardo all’ipotesi di un ricorso per cassazione mediante il quale una questione di puro diritto processuale era stata prospettata come questione di giurisdizione, qualificando come violazione dei limiti esterni della giurisdizione la mera delibazione da parte del giudice amministrativo degli effetti di un accordo transattivo sul giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo, effettuata “incidenter tantum” al solo fine di valutarne la pregiudizialità in relazione alla richiesta di sospensione.

Da ultimo, Sez. 6-5, n. 36713/2022, Mondini, Rv. 666587-02, ha chiarito come l’omessa riassunzione del giudizio costituisca un comportamento neutro non integrante gli estremi di un abuso del processo, che ricorre invece quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede, nonché dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti.

6. La remissione.

La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco e un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo se è privo di altra giustificazione razionale.

In questa scia si collocano senz’altro una serie di pronunce emanate nel corso dell’anno oggetto di rassegna.

Anzitutto, Sez. 2, n. 01057/2022, Besso Marcheis, Rv. 663794-01, che, nel ribadire la natura di negozio recettizio della remissione, ha affermato che la dichiarazione di rinuncia di un avvocato ai crediti vantati nei confronti di un cliente, ove resa in un procedimento disciplinare a carico del professionista, va qualificata come remissione del debito ed estingue l’obbligazione solo ove comunicata al debitore. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che tale dichiarazione non avesse efficacia estintiva, poiché non resa al debitore, ma emessa in un giudizio – disciplinare – distinto da quello di opposizione a decreto ingiuntivo nel quale il credito controverso era in discussione.

La recettizietà risulta, del resto, ribadita, sia pure implicitamente, anche da Sez. 2, n. 23404/2022, Scarpa, Rv. 665256-01, che, a proposito della distinzione tra remissione e legato di liberazione da debito, ha chiarito come in tema di successioni, il legato di liberazione da debito di cui all’art. 658, comma 1, c.c. (cd. “legatum liberationis”) attribuisca al legatario il diritto di credito vantato nei suoi confronti dal testatore, comportando così l’estinzione dell’obbligazione per confusione, in quanto determina la riunione, nella stessa persona, della qualità di creditore e di debitore; tale legato, peraltro, si distingue dalla fattispecie della remissione ex art. 1236 c.c., in quanto, essendo una disposizione liberale a titolo particolare in favore del debitore e configurandosi come negozio unilaterale non recettizio, produce l’effetto della liberazione del legatario immediatamente all’apertura della successione.

7. Compensazione cd. atecnica o impropria.

In tema di estinzione delle obbligazioni, si è in presenza di compensazione cd. impropria se la reciproca relazione di debito-credito nasce da un unico rapporto, nel quale l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio, diversamente da quanto accade nel caso di compensazione cd. propria, che per operare, postula l’autonomia dei rapporti e l’eccezione di parte. Ne è conseguita, per Sez. 1, n. 28568/2021, Scalia, 662857-01, la conferma della sentenza che, con riguardo ad un contratto di appalto, aveva ritenuto di non poter considerare d’ufficio quale controcredito da porre in compensazione con il corrispettivo dell’appalto azionato dall’impresa la pretesa risarcitoria per la voce “lavori da realizzare in danno” dell’impresa fatta valere dal Consorzio committente, stante la diversità delle cause.

Anche nel corso dell’anno oggetto della presente rassegna, la Corte si è posta in linea con il suddetto orientamento.

In particolare, Sez. 1, n. 16530/2022, Parise, Rv. 664871-01, ha ribadito che in tema di rapporti tra il credito dell’agricoltore a titolo di contributi dell’Unione europea conseguenti alla Politica agricola comune (Pac), ed i debiti dello stesso per prelievo supplementare relativo alle quote latte, è ammissibile la cd. compensazione impropria o atecnica, a condizione che il controcredito sia certo e liquido secondo la valutazione dei giudici di merito, incensurabile in sede di legittimità. Nella specie, la Corte ha confermato la pronuncia di merito che aveva escluso la compensazione eccepita dalla società ingiunta per il pagamento dei contributi di cui in massima, avendo ritenuto privo del carattere della certezza il debito per prelievo supplementare delle quote latte poiché in contestazione avanti al giudice amministrativo, ritenendo tale valutazione incensurabile in sede di legittimità. Già in precedenza, infatti, Sez. 1, n. 24325/2020, Scarano, Rv. 659653-01, aveva affermato tale principio valorizzando l’unitarietà del rapporto, in base al quale il regime delle quote latte è parte integrante del sistema PAC, il cui corretto funzionamento complessivo postula l’effettività del recupero delle somme dovute dai produttori di latte che abbiano superato i limiti nazionali, mediante la previa verifica del Registro nazionale previsto dalla legge, nel quale sono inseriti i debiti e crediti dell’agricoltore, la compensazione dei quali è connaturata al sistema della PAC, come configurato dal diritto dell’Unione (la primazia del quale all’interno degli Stati membri postula l’interpretazione conforme delle norme nazionali).

8. Novazione.

Sez. 2, n. 27028/2022, Giannaccari, Rv. 665873-01, ha ribadito che la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente con nuove ed autonome situazioni giuridiche, caratterizzato dall’”animus novandi”, consistente nella inequivoca intenzione delle parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e dall’ “aliquid novi”, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto, dovendosi invece escludere che la semplice regolazione pattizia delle modalità di svolgimento della preesistente prestazione produca novazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza d’appello che, senza accertare l’effettiva presenza di un “animus novandi”, aveva ritenuto estinta un’obbligazione del soggetto preponente verso uno dei suoi coagenti solo perché il rapporto di agenzia, già facente capo a questi, era continuato con un soggetto costituito in forma societaria).

9. Cessione del credito e “datio in solutum”.

Con particolare riguardo all’ipotesi del fallimento del debitore ceduto, Sez. 1, n. 02217/2022, Vella, Rv. 663949-01, ha affermato che, ai fini dell’ammissione alla procedura fallimentare, il cessionario è tenuto a dare la prova del credito e della sua anteriorità al fallimento, qualora venga in discussione la sua opponibilità, ma non anche la prova dell’anteriorità della cessione al fallimento, perché la legge prevede che il cessionario di un credito concorsuale sia tenuto a dare la prova che la cessione è stata stipulata anteriormente al fallimento soltanto ai fini di una eventuale compensazione, ovvero ai fini del voto in un eventuale concordato fallimentare, restando, altrimenti, la cessione opponibile al curatore anche se ha luogo nel corso della procedura.

In tema di operazioni di cartolarizzazione, secondo Sez. 3, n. 13735/2022, Ambrosi, Rv. 664640-01, i crediti oggetto di tali operazioni, eseguite ai sensi della l. n. 130 del 1999, costituiscono un patrimonio separato da quello della società di cartolarizzazione, destinato in via esclusiva al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti e al pagamento dei costi dell’operazione, sicché non è consentito al debitore ceduto proporre nei confronti del cessionario eccezioni di compensazione o domande giudiziali fondate su crediti vantati verso il cedente nascenti dal rapporto con quest’ultimo intercorso. In particolare, nella specie, la S.C. ha statuito che la società cessionaria non era passivamente legittimata in relazione alla domanda riconvenzionale proposta dal debitore ceduto in forza del rapporto intrattenuto con il cedente.

Sez. 2, n. 14705/2022, Oliva, Rv. 664790-01, ha affermato che, in tema di divieto di cessione a favore di determinate persone di crediti e diritti litigiosi, il dato testuale e la “ratio” dell’art. 1261 c.c., diretta ad impedire speculazioni sulle liti da parte dei pubblici ufficiali e degli esercenti le professioni legali che svolgono la loro funzione nell’ambito della giurisdizione dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale sia sorta la controversia, consentono di affermare che il divieto stesso non trova applicazione riguardo a un credito la cui controversia sia stata definita con sentenza passata in giudicato.

È stato altresì precisato che la cessione di un credito inesistente non è nulla per inesistenza dell’oggetto, bensì è valida ed il cessionario è tenuto al pagamento del prezzo, che non diviene indebito, ma è assistito dalla garanzia di cui all’art. 1266 c.c., da ritenersi un effetto naturale della cessione per l’ipotesi che l’effetto traslativo non si verifichi, essendo irrilevante che la garanzia stessa possa essere pattiziamente esclusa con il limite del “fatto proprio” del cedente, in quanto tale disposizione costituisce una deroga rispetto all’art. 1325, n. 3, c.c. ed alla disciplina del contratto in generale.  Il fatto proprio del cedente, che limita la possibilità di esclusione pattizia della garanzia ex art. 1266 c.c., ha un’area operativa distinta dalla nozione di dolo o colpa grave di cui all’art. 1229 c.c., in quanto la prima disposizione introduce una garanzia naturale del contratto ad effetti reali che non richiede una valutazione soggettiva dell’adempimento, dovendosi perciò ritenere come “fatto proprio” la mera oggettiva riferibilità del fatto che determina l’inesistenza del credito ceduto alla sfera di controllo esclusiva del cedente (Sez. 3, n. 17985/2022, Gorgoni, Rv. 665019-01, Rv. 665019-02). In particolare, con tale pronuncia, la S.C., nel confermare la validità di una cessione in blocco di crediti tramite selezione competitiva, taluni dei quali inesistenti, ha rilevato come il “fatto proprio” che limita l’esclusione pattizia della garanzia del “nomen verum” possa essere rappresentato dall’estinzione del credito per ricezione del pagamento, ancorché eventualmente attraverso esattore, ovvero mediante transazione, mentre non rientra in tale nozione l’annullamento della cartella esattoriale seguita da rateizzazione, come pure l’inesistenza derivante da sentenza passata in giudicato.

Sez. 1, n. 16837/2022, Iofrida, Rv. 664874-01, ha affermato che, in ipotesi di cessione di credito a scopo di garanzia di altra obbligazione (nella specie, un finanziamento o anticipazione da parte di una banca), il debitore ceduto – che può opporre al cessionario le eventuali eccezioni rifluenti sul pregresso rapporto con il cedente – rimane del tutto estraneo al distinto rapporto obbligatorio fra cedente e cessionario, a garanzia del quale è stata conclusa la cessione, non essendovi accessorietà tra i due rapporti, ma solamente un collegamento negoziale tra l’obbligazione garantita ed il credito ceduto a scopo di garanzia; ne consegue che il debitore ceduto non è terzo che abbia prestato garanzia ex art. 1204 c.c., ma piuttosto è “solvens” estraneo al negozio.

È stato altresì chiarito che, il cessionario beneficia “ope legis” degli effetti dell’azione revocatoria vittoriosamente esperita dal cedente a tutela del credito oggetto della cessione e, quindi, acquista il diritto – ex art. 2902 c.c., non concepibile come scisso dal credito ceduto – di agire “in executivis” nei confronti del terzo acquirente, come confermano, sul piano sistematico, il trasferimento al cessionario di tutti i privilegi (ex art. 1263 c.c.) e degli effetti del pignoramento eseguito dal cedente e la considerazione che l’atto in frode alle ragioni creditorie è egualmente pregiudizievole per il creditore cessionario, indipendentemente dalla circolazione del credito ”e latere creditoris” (Sez. 3, n. 20315/2022, Rossetti, Rv. 665260-03).

Con riguardo alla cessione di credito in luogo di adempimento (art. 1198 c.c.) ed, in particolare, in tema di cessione di cambiali in luogo dell’adempimento, la S.C. nell’anno oggetto di rassegna ha affermato che la volontà di conferire ai titoli efficacia “pro soluto”, con conseguente immediata estinzione dell’obbligazione di pagamento, deve essere espressa in modo univoco ed inequivocabile, mentre nel caso più comune di cessione ”pro solvendo” l’estinzione dell’obbligazione originaria si verifica solo con la riscossione del credito verso il debitore cedente, con conseguente onere di quest’ultimo, in applicazione dell’art. 2697, comma 2, c.c., di provare non solo la cessione, ma anche l’intervenuta estinzione del debito (Sez. 3, n. 15141/2022, Guizzi, Rv. 664826-01).

  • frode
  • contratto
  • ricorso per inadempienza
  • danni e interessi

CAPITOLO XI

IL CONTRATTO IN GENERALE

(di Francesco Graziano )

Sommario

1 I requisiti del contratto. - 1.1 La manifestazione del consenso e la forma. - 1.2 L’oggetto e la sua determinazione. - 1.3 La causa ed il contratto in frode alla legge. - 2 I contratti atipici e la meritevolezza degli interessi. - 3 Il dovere di buona fede e il contenuto del contratto. - 4 L’interpretazione del contratto. - 5 La nullità del contratto. - 5.1 La nullità per contrarietà a norme imperative. - 5.2 Aspetti processuali. - 6 Il contratto preliminare. - 7 Il contratto concluso dal rappresentante. - 8 Il contratto a favore di terzo. - 9 Le vicende del rapporto contrattuale. - 9.1 L’autotutela e la caparra confirmatoria. - 9.2 La risoluzione e l’eccezione di inadempimento.

1. I requisiti del contratto.

1.1. La manifestazione del consenso e la forma.

L’evoluzione della teoria generale del contratto è stata oggetto, negli ultimi anni, di una rinnovata attenzione degli interpreti relativamente al tema della veicolazione del consenso, della quale sono stati valorizzati i profili funzionali rispetto alla rilevanza sul piano strutturale.

Un ruolo certamente decisivo, al riguardo, hanno assunto le pronunzie rese dalla Suprema Corte in tema di oneri formali; tali pronunzie hanno tracciato un percorso che ha preso le mosse dalla distinzione fra norme di validità e regole di comportamento (di cui a Sez. U, n. 26724/2007, Rordorf, Rv. 600329-01), per poi definire il perimetro delle cosiddette “nullità di protezione” (Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633503-01) ed elaborare, da ultimo, una teoria “finalistica” degli oneri formali che, laddove stabiliti dal legislatore a protezione di una delle parti del rapporto, devono ritenersi assolti ogni qual volta lo scopo protettivo risulti comunque assicurato (Sez. U, n. 00898/2018, Di Virgilio, Rv. 646965-01).

Si collocano in continuità con tale percorso evolutivo alcune pronunzie rese nell’ultimo anno sul tema della forma del contratto; esse, in particolare, sono accomunate dall’indagine circa la possibile sussistenza, in seno agli oneri formali di legge, di una funzione ulteriore rispetto alla mera finalità di documentazione del consenso.

Così Sez. 2, n. 08765/2021, Dongiacomo, Rv. 660840-01, ha affermato che la previsione di forma scritta ad substantiam impone l’adozione del vincolo formale soltanto per gli elementi essenziali del contratto, in quanto solo su di essi si incentra la comune volontà delle parti e poiché gli stessi non possono essere ricavati in altro modo se non dall’obiettiva loro risultanza nel documento contrattuale. In tal senso, ha specificato la Corte, nel caso di preliminare di vendita immobiliare la forma scritta deve riguardare soltanto il consenso, il bene alienato ed il relativo prezzo, e non – ad esempio – il termine per la stipula del definitivo; dal che consegue che l’eventuale modifica dello stesso, ovvero la rinuncia della parte ad avvalersene, possono rivestire qualunque forma.

Analogamente, nell’anno oggetto della presente rassegna, Sez. 2, n. 19031/2022, Grasso, Rv. 664994-01, ha affermato che nei contratti per i quali è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, la volontà comune delle parti deve rivestire tale forma soltanto nella parte riguardante gli elementi essenziali (consenso, “res”, “pretium”), con la conseguenza che, in caso di preliminare di vendita che preveda un termine per la stipula del definitivo, la modifica di tale elemento accidentale e la rinuncia della parte ad avvalersene non richiede la forma scritta. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva omesso di valutare la rinuncia alla condizione unilaterale risultante dalla dichiarazione rilasciata a verbale dal ricorrente personalmente, da apprezzarsi unitamente alla citazione.

In tale scia si colloca anche Sez. 2, n. 06142/2022, Fortunato, Rv. 664048-01, secondo cui l’indicazione del prezzo, deve essere contenuta nel contratto di costituzione, a titolo oneroso, del diritto di usufrutto, essendone un elemento essenziale oltreché risultare per iscritto e per intero quando sia prevista la forma scritta “ad substantiam”, non essendo sufficiente a tali fini una dichiarazione di quietanza la quale fornisce soltanto la prova dell’avvenuto pagamento del prezzo con la conseguenza che in assenza di altre indicazioni circa l’effettivo ammontare del prezzo o circa i criteri di determinazione richiamati dai contraenti, la suddetta quietanza non può soddisfare i requisiti imposti, a pena di nullità, dal combinato disposto degli artt. 1346 e 1350, n. 2, c.c.

Sez. 1, n. 19298/2022, Vella, Rv. 664956-01, ha precisato che nei contratti bancari conclusi prima dell’entrata in vigore della l. n. 154 del 1992, il requisito della forma scritta richiesto dall’art. 1284 c.c. ai fini della valida pattuizione di interessi superiori rispetto alla misura legale, deve essere inteso in senso strutturale e non funzionale; pertanto, la sua violazione determina l’ordinaria forma di nullità assoluta, con conseguente necessità, ai fini della validità del patto, della sottoscrizione di entrambe le parti, sia pure con atti distinti, purché inscindibilmente connessi, senza poter integrare tale presupposto formale attraverso il cd. contratto “monofirma”. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che un contratto bancario concluso nel 1991 e sottoscritto dal solo correntista fosse inidoneo ad integrare la forma scritta richiesta dall’art. 1284, comma 3, c.c., al fine di pattuire validamente interessi “ultralegali”, in quanto stipulato prima dell’entrata in vigore delle norme relative alle cd. nullità di protezione.

Sez. 1, n. 01250/2022, Solaini, Rv.  663622-01, ha affermato che, in tema d’intermediazione finanziaria, il requisito della forma scritta del contratto-quadro, previsto dall’art. 6, lett. c), della l. n. 1 del 1991 (“ratione temporis” applicabile), deve essere inteso in senso non strutturale ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato, a pena di nullità (cd. di protezione), ancorché non prevista espressamente, ove il contratto sia redatto per iscritto ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione del cliente e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

Sez. U, n. 09775/2022, Vincenti, Rv. 664227-02, ha affrontato il problema della forma relativa ai contratti stipulati dalla P.A., anche diversi da quelli conclusi a trattativa privata con ditte commerciali, il requisito della forma scritta “ad substantiam” non richiede necessariamente la redazione di un unico documento, sottoscritto contestualmente dalle parti, poiché l’art. 17 del r.d. n. 2440 del 1923 contempla ulteriori ipotesi in cui il vincolo contrattuale si forma mediante l’incontro di dichiarazioni scritte, manifestate separatamente, che per l’amministrazione possono assumere anche la forma dell’atto amministrativo. La Corte ha infatti ritenuto compatibile con il citato art. 17 il modello di formazione del vincolo contrattuale in cui l’istanza del privato, tesa ad ottenere un provvedimento amministrativo, incorporava la disciplina del rapporto negoziale paritario ad esso accessivo, atteggiandosi così a proposta negoziale, accettata dall’Amministrazione mediante il rilascio del medesimo provvedimento richiesto.

In tema di simulazione, va segnalata anzitutto Sez. 2, n. 10933/2022, Fortunato, Rv. 664375-01, la quale ha chiarito che, in tema di simulazione relativa oggettiva, ai fini della prova del contratto dissimulato che avrebbe dovuto rivestire forma scritta “ad substantiam”, deve escludersi che la confessione possa supplire alla mancanza del requisito formale rappresentato dalla controdichiarazione scritta, necessaria per il contratto diverso da quello apparentemente voluto. In particolare, con tale pronuncia è stata cassata con rinvio la sentenza della corte territoriale che, sulla base della confessione della parte, aveva ritenuto provata la dissimulazione di una “datio in solutum” immobiliare di cui non vi erano gli elementi nel contratto di compravendita immobiliare asseritamente simulato.

In tema di simulazione relativa soggettiva, Sez. 2, n. 18049/2022, Giusti, Rv. 665165-01, ha affermato che il requisito della forma scritta “ad substantiam” deve essere rispettato dal contratto apparente, mentre l’accordo simulatorio tra interponente, interposto e terzo contraente – che può essere anteriore o contemporaneo al contratto simulato, ma non posteriore ad esso – va provato, tra le parti, con la controdichiarazione scritta, che, non essendo espressione della “voluntas simulandi”, ma atto ricognitivo della volontà manifestata in precedenza, è idoneo mezzo di prova anche se sottoscritta solo dalla parte contro cui sia prodotta in giudizio e anche se successiva all’accordo simulatorio, essendo soggetta solo alle regole della forma scritta “ad probationem”.

Per quanto concerne i negozi unilaterali, Sez. 2, n. 27517/2022, Giannaccari, Rv. 665696-01, ha chiarito che, in tema di diritti reali, la costituzione di una servitù da parte del rappresentante del proprietario del fondo servente, postula che i poteri di quest’ultimo trovino titolo in una procura avente la medesima forma scritta “ad substantiam” prescritta, a pena di nullità, per tale tipo di contratti, a nulla rilevando che, in suo difetto, il terzo abbia confidato, senza sua colpa, nella sussistenza di una situazione apparente, atteso che, per i contratti soggetti a vincolo di forma non può trovare applicazione il principio dell’apparenza del diritto, sussistendo per essi un onere legale di documentazione della procura.

Sez. 3, n. 18971/2022, Guizzi, Rv. 665182-01, ha precisato che il recesso del conduttore dal contratto di locazione ad uso abitativo dev’essere comunicato per iscritto, essendo tale tipo di contratto soggetto alla forma scritta “ad substantiam”, ai sensi dell’art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998.

Sez. 2, n. 04938/2022, Giusti, Rv. 663919-01, ha evidenziato che la ratifica di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, stipulato dal “falsus procurator”, non richiede necessariamente che il “dominus” manifesti per iscritto la volontà di far proprio quel contratto, potendo essere integrata anche dall’atto di citazione, notificato alla controparte e sottoscritto dal rappresentato o dal suo procuratore “ad litem”, con il quale si chieda l’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c., trattandosi di atto scritto che, redatto per fini conseguenziali alla stipulazione del contratto preliminare medesimo, è incompatibile con il rifiuto dell’operato del rappresentante senza poteri.

1.2. L’oggetto e la sua determinazione.

Con riguardo alla necessaria determinabilità dell’oggetto del contratto, si segnalano due pronunzie di rilievo.

In tema di permuta, Sez. 2, n. 30058/2022, Grasso, Rv. 666138-01, ha affermato che il contratto di permuta di un terreno contro beni immobili da costruire, individuati solo nel genere, è valido esclusivamente a condizione che questi ultimi siano determinabili con riferimento ai parametri di edificabilità, alla collocazione degli immobili da costruire, alla loro dimensione, alla loro destinazione, nonché ai criteri attraverso i quali individuare in concreto gli immobili da attribuire in permuta. La Corte, infatti, nell’enunciare tale principio, ha ritenuto nullo per indeterminabilità dell’oggetto un contratto di permuta di terreno contro immobili da costruire, con il quale il promittente alienante si era impegnato, in cambio del trasferimento di un terreno, a cedere al promissario una quota delle costruzioni che sarebbe stato possibile edificare sul terreno con progetti regolarmente approvati dalle autorità competenti.

Sempre in materia di contratti di trasferimento immobiliare, Sez. 6-2, n. 27834/2022, Giannaccari, Rv. 665713-01, ha affermato che nel caso di vendita di un immobile a corpo, anziché a misura, l’irrilevanza dell’estensione del fondo vale soltanto in relazione alla determinazione del prezzo, secondo il diverso regime di cui agli artt. 1537 e 1538 c.c., ma non ai fini dell’identificazione del bene effettivamente venduto. Ne consegue in tal caso che, qualora le parti, nel contratto di compravendita, abbiano identificato la porzione di immobile che ne formava oggetto facendo specifico riferimento ai dati catastali e al tipo di frazionamento, il giudice deve tener conto necessariamente di tali elementi, che, per espressa volontà delle parti, perdono l’ordinaria natura di elemento probatorio di carattere sussidiario per assurgere ad elemento fondamentale per l’interpretazione dell’effettivo intento negoziale delle parti.

Con riguardo ai contratti bancari, Sez. 1, n. 19825/2022, Amatore, Rv. 665220-01, ha affermato la nullità, per indeterminatezza dell’oggetto, della clausola negoziale che preveda la commissione di massimo scoperto indicandone semplicemente la misura percentuale, senza contenere alcun riferimento al valore sul quale tale percentuale deve essere calcolata.

1.3. La causa ed il contratto in frode alla legge.

In relazione al requisito della causa del contratto, Sez. U, n. 05061/2022, Falaschi, Rv. 663906-01, ha implicitamente ribadito la necessità di indagare la rilevanza della funzione concretamente perseguita dalle parti, affermando che il contratto stipulato dalla P.A. per il reperimento di immobili da adibire alla propria attività istituzionale (nella specie, da un Comune per la ricerca di locali da adibire ad archivio), rientra nella fattispecie tipica della locazione e non è riconducibile ai contratti di fornitura di cose delle P.A., poiché la “res” locata rimane nel patrimonio del proprietario locatore e la causa del contratto, rappresentata dal godimento della cosa per un tempo determinato dietro il pagamento di un canone, non è riconducibile alla fornitura di servizi attesa l’assenza di una prestazione di attività del proprietario in favore del destinatario; ne consegue che ogni controversia attinente a tale contratto, anche nella fase precontrattuale, concerne diritti soggettivi e, per questo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

Sez. 3, n. 15844/2022, Guizzi, Rv. 665103-01, ha chiarito che, in assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alle parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia. In attuazione del predetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto valido il contratto di mutuo stipulato tra due sorelle, allo scopo di far figurare l’esistenza di una posizione debitoria in capo a una di esse, nell’ambito del giudizio di divorzio.

2. I contratti atipici e la meritevolezza degli interessi.

Alcune pronunzie hanno riguardato fattispecie negoziali diffuse nella prassi contrattuale.

In particolare, Sez. 3, n. 12981/2022, Porreca, Rv. 664632-01, ha affermato che il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma 1, c.c., consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale.

Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati.

In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso, considerandola non meritevole di tutela, l’operatività della clausola “claims made”, sul presupposto che essa non solo limitava la garanzia nei limiti della vigenza contrattuale – così escludendo gli esiti delle lungolatenze, tipici dei danni da responsabilità medica – ma affiancava detto limite ad una retroattività solo a “secondo rischio”.

Sez. 1, n. 32705/2022, Mercolino, Rv.  666129-01, in tema di contratti di borsa ha affermato che la meritevolezza di tutela del contratto di “interest rate swap” va apprezzata “ex ante”, non già “ex post”, non potendosi far dipendere la liceità del contratto dal risultato economico concretamente conseguito dall’investitore, né utilizzare il giudizio di meritevolezza a fini di un riequilibrio equitativo; ne consegue che, ai fini della validità del contratto ed indipendentemente dalla sua finalità di copertura (“hedging”) o speculativa, devono essere preventivamente conoscibili, ai fini della formazione dell’accordo in ordine alla misura dell’alea, gli elementi ed i criteri utilizzati per la determinazione del “mark to market”, in assenza del quale la causa del negozio resta sostanzialmente indeterminabile.

Del resto, già Sez. 1, n. 24654/2022, Falabella, Rv. 665628-01, aveva ribadito il principio secondo cui, in tema di “interest rate swap”, occorre accertare, ai fini della validità del contratto, se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi; tale accordo non si può limitare al “mark to market”, ossia al costo, pari al valore effettivo del derivato ad una certa data, al quale una parte può anticipatamente chiudere tale contratto od un terzo estraneo all’operazione è disposto a subentrarvi, ma deve investire, altresì, gli scenari probabilistici e concernere la misura qualitativa e quantitativa della menzionata alea e dei costi, pur se impliciti, assumendo rilievo i parametri di calcolo delle obbligazioni pecuniarie nascenti dall’intesa, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse nel tempo (Sez. U, n. 08770/2020, Genovese, Rv. 657963-03). Nella specie, la S.C. aveva cassato la sentenza d’appello, che aveva escluso che, nelle operazioni di derivati, l’occultamento di costi a svantaggio del cliente si ripercuotesse sulla validità del contratto.

3. Il dovere di buona fede e il contenuto del contratto.

Nutrito, al solito, è il numero di pronunzie che ricorrono al dovere di buona fede come canone cui ispirare la valutazione della condotta delle parti nell’esecuzione del contratto, anche a prescindere dal tenore delle clausole contrattuali.

Innanzitutto, sebbene antecedente rispetto all’anno oggetto della presente rassegna, merita di essere ricordata Sez. 3, n. 09200/2021, Scarano, Rv. 661071-02, che ha avuto il pregio di enucleare con chiarezza il contenuto di tale dovere, evidenziandone fondamento ed effetti e ponendo una chiara distinzione rispetto all’obbligo di diligenza, spesso erroneamente inteso in senso sinonimico.

Secondo la Corte, infatti, il principio di buona fede enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., al cui rispetto le parti sono tenute anche a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali; è immanente, infatti, il loro vincolo, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, che si specifica in obblighi puntuali (come il dovere di informazione e di avviso) dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità.

L’impegno imposto dall’obbligo di buona fede, specifica ancora la Corte, va quindi correlato alle condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto, alla qualità dei soggetti coinvolti, e va valutato alla stregua della causa concreta del contratto; mentre il dovere di diligenza designa la misura dello sforzo esigibile dovuto da ciascuna parte nell’adempimento dell’obbligazione, avuto riguardo alle sue caratteristiche soggettive.

In tale ottica, merita di essere segnalata Sez. 2, n. 31378/2022, Scarpa, Rv. 666170-01, secondo cui in caso di vizi delle opere eseguite in virtù di contratto di appalto, dal rifiuto opposto dal committente all’impegno assunto dall’appaltatore, dopo la consegna delle opere, di eliminazione dei difetti, il giudice non può far discendere automaticamente l’esigibilità del credito di quest’ultimo dovendo, piuttosto, valutare comparativamente il comportamento delle parti ed accertare se sia contraria a buona fede la mancata cooperazione del committente rispetto al rimedio proposto dall’appaltatore, alla stregua tanto delle obbligazioni principali del contratto di appalto, quanto di quelle collaterali di collaborazione e, comunque, considerando che il committente non può dirsi obbligato ad adempiere se non dopo l’effettiva esecuzione dell’intervento diretto ad eliminare i difetti e le difformità dell’opera.

In tema di appalto di opere pubbliche, Sez. 1, n. 05848/2022, Scotti, Rv.664029-01, ha chiarito che la scelta se disporre o meno varianti in corso d’opera, eccedenti il limite del quinto d’obbligo, compete al committente, che non può essere obbligato a far eseguire opere significativamente diverse da quelle progettate, neanche qualora il responsabile unico del procedimento abbia rilasciato parere favorevole e l’appaltatore, pur potendo opporre un legittimo rifiuto, vi abbia consentito. Tuttavia, stante la natura privatistica del rapporto, tale facoltà discrezionale deve essere esercitata nel rispetto dei principi generali di correttezza, lealtà e buona fede e del dovere di cooperare all’adempimento dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1206 c.c. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto la stazione appaltante responsabile della risoluzione del contratto non già per non aver dato corso alle varianti, ma per aver ritardato indebitamente nella relativa decisione.

Con riguardo al contratto di appalto avente ad oggetto opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti, Sez. 3, n. 33465/2022, Condello, Rv. 666144-01, nel ribadire che l’appaltatore viola il dovere di diligenza stabilito dall’art. 1176 cod. civ. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell’arte, l’idoneità delle anzidette strutture a reggere l’ulteriore opera commessagli e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l’inidoneità di tali strutture, procede egualmente all’esecuzione dell’opera (Sez. 3, n. 12995/2006, Scarano, Rv. 591369-01), ha affermato l’estensibilità di tale principio anche al progettista e direttore dei lavori, chiarendo come esso imponga di ritenere che, qualora l’intervento edilizio interessi un’opera preesistente, si richiede al professionista una diligenza particolarmente qualificata, essendo egli tenuto, prima di procedere alla sopraelevazione, ad accertarsi della idoneità statica delle strutture già esistenti.

Sez. 2, n. 15577/2022, Fortunato, Rv. 665164-01, ha precisato che, in tema di mediazione, il mediatore, sia quando agisca in modo autonomo (mediazione cd. tipica, riconducibile, come noto, alla categoria del “contatto sociale”: Sez. 3, n. 16382/2009, Spagna Musso, Rv. 609183-01), sia su incarico di una delle parti (mediazione c.d. atipica, costituente in realtà mandato), è tenuto a comportarsi secondo buona fede e correttezza e a riferire, perciò, alle parti le circostanze, da lui conosciute o conoscibili secondo la diligenza qualificata ex art. 1175 c.c. propria della sua categoria, idonee ad incidere sul buon esito dell’affare, senza che le eventuali più penetranti verifiche a ciò necessarie postulino il previo conferimento di specifico incarico, tali essendo, in caso di mediazione immobiliare, tutte quelle afferenti alla contitolarità del diritto di proprietà, all’insolvenza di una delle parti, all’esistenza di elementi atti a indurre le parti a modificare il contenuto del contratto, ad eventuali prelazioni ed opzioni, al rilascio di autorizzazioni amministrative, alla provenienza di beni da donazioni suscettibili di riduzione, alla solidità delle condizioni economiche dei contraenti, alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile e alla titolarità del bene in capo al venditore. Sostanzialmente nella medesima scia si colloca anche Sez. 2, n. 24534/2022, Tedesco, Rv. 665394-01, secondo cui in caso di mediazione immobiliare, il mediatore è tenuto, secondo il criterio della media diligenza professionale, a rendere le informazioni sul rendimento energetico (cd. classe energetica) dell’immobile oggetto dell’affare intermediato fin dal momento in cui ne effettua la relativa pubblicità, con la possibilità di visionare la relativa documentazione, trattandosi di informazioni funzionali alla determinazione dell’acquirente in ordine all’acquisto dell’immobile.

Con riguardo alla responsabilità professionale del notaio, si è affermato che quest’ultimo, ove incaricato della redazione di un contratto di compravendita immobiliare, è tenuto a compiere le attività preparatorie e successive, necessarie per il conseguimento del risultato pratico voluto dalle parti, rientrando tra i suoi doveri anche l’obbligo di consiglio o dissuasione, la cui omissione è fonte di responsabilità per violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., quali criteri determinativi ed integrativi della prestazione contrattuale, che impongono il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della parte (Sez. 3, n. 07185/2022, Guizzi, Rv. 664244-01). Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabile, per inadempimento del contratto d’opera professionale, il notaio, il quale aveva rogato quattro atti di compravendita – con previsione di pagamento rateale e clausola di rinuncia della venditrice all’iscrizione di ipoteca legale – e, lo stesso giorno e nei due giorni successivi, aveva rogato altri quattro atti di rivendita a terzi dei medesimi cespiti da parte dello stesso acquirente, spogliatosi così dei beni costituenti garanzia patrimoniale generica per il pagamento del prezzo.

Analogamente, secondo Sez. 2, n. 10474/2022, Dongiacomo, Rv. 664373-01, il notaio, incaricato della redazione e autenticazione di un contratto di compravendita, non può limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, ma è tenuto a realizzare tutte le attività, preparatorie e successive, che, allo stato degli atti, garantiscano sia la serietà e la certezza dell’atto giuridico da rogare, sia il raggiungimento del suo scopo tipico e del risultato pratico perseguito dalle parti (come quelle di informazione, di consiglio o di dissuasione dalla stessa stipula dell’atto), tra le quali non rientra il pattuito esonero dal compimento delle visure catastali, in quanto costituente parte integrante del negozio, purché giustificato da concrete esigenze delle parti. Ne deriva che l’inosservanza di tali doveri, quand’anche non contemplati dalla legge professionale, determina l’insorgere di responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, trovando essi fondamento nella clausola generale di buona fede oggettiva, senza che possa configurarsi il concorso colposo del danneggiato ai sensi dell’art. 1227 c.c.

Ancora, Sez. 3, n. 04911/2022, Tatangelo, Rv. 663929-01, ha chiarito come il notaio incaricato della stipula di un contratto avente ad oggetto diritti reali su beni immobili non possa limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, essendo tenuto a compiere l’attività necessaria ad assicurare la serietà e certezza dei relativi effetti tipici, e il risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti stesse, dal momento che contenuto essenziale della sua prestazione professionale è l’obbligo di informazione e consiglio. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la responsabilità professionale di un notaio il quale, in sede di stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario, aveva omesso di accertare che l’immobile ipotecato era incommerciabile, in quanto gravato da usi civici non affrancati.

Sempre in ordine all’obbligo informazione del notaio, Sez. 6-3, n. 21205/2022, Porreca, Rv. 665205-01, ha affermato che quando lo scopo pratico dell’atto è messo a rischio da mancate verifiche o dalle dinamiche tecniche proprie della negozialità, il notaio è tenuto a rispondere anche per omessa informazione, oltre che per difetto delle doverose attività di accertamento, mentre, qualora, invece, le parti abbiano assunto impegni negoziali espressi, soggetti ad apprezzamento di affidabilità e convenienza (come quello alla cancellazione delle riscontrate formalità), il notaio non è tenuto a rispondere del susseguente inadempimento della parte obbligata.

Con riferimento alla compravendita immobiliare, è stato affermato che la clausola contrattuale, con la quale il promittente venditore assuma l’impegno di curare, a proprie spese, l’estinzione dell’ipoteca prima del rogito notarile, deve essere interpretata nel senso che l’obbligo va considerato assolto con l’estinzione per pagamento dell’obbligazione garantita, corredata del consenso del creditore ipotecario alla cancellazione, rilasciato con scrittura autenticata dal notaio che abbia presentato al conservatore l’atto fondante la richiesta, essendo contrario a buona fede ritenere, viceversa, necessario anche il completamento della formalità della cancellazione entro il termine pattuito. Ciò, in ragione del fatto che la cancellazione dell’ipoteca svolge sia una funzione di pubblicità-notizia, allorché sussista già un’autonoma causa estintiva dell’ipoteca in ragione della sua nullità o definitiva inefficacia, sia una funzione di autonoma causa estintiva dell’ipoteca, in quanto ne determina l’estinzione anche in assenza dei relativi presupposti (Sez. 2, n. 20434/2022, Giusti, Rv. 665170-01). 

Sez. 2, n. 25085/2022, Giannaccari, Rv. 665586-01, ha sottolineato che le parti sono tenute a comportarsi secondo buona fede anche quando al contratto sia stata apposta una condizione sospensiva qualificabile come “potestativa mista”, con la conseguenza che, qualora un Comune abbia affidato ad un professionista la progettazione di un’opera pubblica, subordinando l’erogazione del compenso al finanziamento di quel progetto da parte della Regione, l’affidamento di un successivo incarico di progettazione della stessa opera pubblica ad un altro professionista, di cui il Comune chieda ed ottenga il finanziamento, costituisce comportamento contrario a buona fede, in violazione dell’art. 1358 c.c., che determina l’avveramento fittizio della condizione, ai sensi dell’art. 1359 c.c.

Sempre in tema di comportamento in pendenza della condizione sospensiva, Sez. 2, n. 21427/2022, Poletti, Rv. 665173-01, ha evidenziato che in caso di inadempimento dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione sospensiva ai sensi dell’art. 1358 c.c., il momento dell’inadempimento – utile ai fini della determinazione del danno risarcibile e della sua decorrenza – va individuato in quello (ultimo) in cui risulta che la parte non si sia attivata per consentire il verificarsi della “condicio facti” (nella specie, l’ottenimento del mutuo agevolato, da parte del promissario acquirente, da perfezionarsi entro sette mesi dalla sottoscrizione del preliminare di vendita) e non già nel successivo momento della proposizione, ad opera della parte in mala fede, della domanda giudiziale di risoluzione del contratto (già inefficace per mancato avveramento della condizione).

4. L’interpretazione del contratto.

In ordine al rapporto tra il criterio letterale e gli ulteriori canoni ermeneutici, si segnala Sez. L, n. 02173/2022, Ponterio, Rv. 663736-01, secondo cui, nell’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, tra cui sono compresi i contratti aziendali, il criterio letterale va integrato, nell’obiettivo normativamente imposto di ricostruire la volontà delle parti, con gli altri canoni ermeneutici idonei a dare rilievo alla “ragione pratica” del contratto, in conformità agli interessi che le parti medesime hanno inteso tutelare, nel momento storico di riferimento, mediante la stipulazione negoziale. In particolare, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che – pur in presenza del riferimento nell’accordo aziendale al possesso della patente C, ai fini del riconoscimento di un incentivo professionale in favore di autisti aventi un determinato livello – aveva riconosciuto il beneficio anche ai conducenti di mezzi particolarmente complessi, ma privi di detta patente, sul rilievo che il requisito in questione fosse significativo della complessità di guida del veicolo, avuto riguardo alla portata e/o alle caratteristiche tecnologiche di utilizzo dello stesso.

Anche Sez. L, n. 11666/2022, Pagetta, Rv. 664469-01, ha affermato che l’interpretazione degli accordi integrativi va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la “ratio” del precetto contrattuale, non nell’ambito di una priorità di uno dei due criteri, ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, ricostruendo la volontà delle parti alla luce del tenore lessicale delle disposizioni del contratto integrativo aziendale Auchan del 2007 e verificando la coerenza del significato attribuito al testo con gli scopi perseguiti, aveva escluso che la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam”, per effetto di novazione, costituisse un premio individuale, incorporato nei singoli contratti individuali, e come tale insensibile alle modifiche non consensuali.

Anche con riguardo alla contrattazione collettiva, Sez. L, n. 30141/2022, Boghetich, Rv.  665759-01, ha affermato l’applicabilità dei criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c., sicché, seguendo un percorso circolare, occorrerà tener conto, in modo equiordinato, di tutti i canoni previsti dal legislatore, sia di quelli tradizionalmente definiti soggettivi che di quelli oggettivi, confrontando il significato desumibile dall’utilizzo del criterio letterale con quello promanante dall’intero atto negoziale e dal comportamento complessivo delle parti, coordinando tra loro le singole clausole alla ricerca di un significato coerente con tutte le regole interpretative innanzi dette.

La circolarità del percorso interpretativo è stata, inoltre, ribadita da Sez. 6-3, n. 32786/2022, Guizzi, Rv. 6663410-01, secondo cui, a norma dell’art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione “prima facie” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime. In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha ritenuto corretta la qualificazione, alla stregua di contratto autonomo di garanzia, della polizza cauzionale assunta da una banca a garanzia dell’esecuzione delle opere di urbanizzazione da parte di una società espressamente qualificata come concessionaria di un pubblico servizio, valorizzando l’elemento della natura infungibile della prestazione principale, ad onta della definizione formale del contratto stesso come fideiussione.

Sez. 3, n. 18283/2022, Scoditti, Rv. 665075-01, ha chiarito che, in tema di interpretazione del contratto, per l’identificazione della comune intenzione delle parti, ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c. (che fa riferimento al comportamento dei contraenti), non è possibile tener conto del comportamento dei soggetti che quel contratto non hanno posto in essere (nella specie, un comune rispetto alla polizza fideiussoria conclusa da una società costruttrice a garanzia dell’esecuzione delle opere di urbanizzazione assunte nell’ambito di una convenzione urbanistica), non potendo essi avere alcun rapporto né con l’interno volere dei contraenti, né con i precetti e i comandi nei quali si è oggettivizzata la loro volontà.

Sez. 3, n. 23762/2022, Rossetti, Rv. 665676-01, ha precisato come, in tema di assicurazione della responsabilità civile, la clausola secondo cui l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare a titolo di risarcimento dei danni causati “in conseguenza di un fatto accidentale” non possa essere intesa nel senso di escludere dalla copertura assicurativa i fatti colposi, giacché tale interpretazione renderebbe nullo il contratto per inesistenza del rischio ai sensi dell’articolo 1895 c.c., non potendo mai sorgere alcuna responsabilità dell’assicurato dal caso fortuito.

5. La nullità del contratto.

5.1. La nullità per contrarietà a norme imperative.

Anche nell’anno 2022, i profili “statici” della nullità del contratto hanno fatto registrare una crescente attenzione della giurisprudenza di legittimità per le fattispecie di cosiddetta nullità “virtuale”.

Sez. 2, n. 01221/2022, Varrone, Rv. 663626-01, in tema di “datio in solutum”, ha precisato che il contratto di trasferimento di un bene immobile in pagamento di un debito usurario è nullo ex art. 1418, comma 1, c.c., in conseguenza del suo contrasto con norma imperativa, dovendosi ravvisare una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale: in particolare l’inviolabilità del patrimonio e della libertà personale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sull’annullabilità dei contratti.

In maniera sostanzialmente analoga, Sez. 2, n. 17568/2022, Varrone, Rv. 664893-01, ha affermato il principio secondo cui il contratto concluso in violazione di una norma penale è nullo, ove il bene giuridico protetto dalla disposizione violata abbia una connotazione pubblicistica, perché volto a tutelare interessi generali della collettività. La S.C., infatti, ha ritenuto affetto da nullità, pur in assenza di sanzione esplicita, il contratto concluso mediante una condotta estorsiva di una parte nei confronti dell’altra, poiché l’oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è costituito non solo dalla salvaguardia del patrimonio dei singoli contraenti, ma anche dalla tutela di diritti inviolabili della persona, quali la libertà personale, la cui protezione è interesse generale della collettività.

Sez. U, n. 33719/2022, Lamorgese, Rv. 666194-01, in tema di mutuo fondiario, ha, invece, escluso che il limite di finanziabilità ex art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, costituisca un elemento essenziale del contenuto del contratto, non essendo la predetta norma determinativa del contenuto medesimo, né posta a presidio della validità del negozio, bensì un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto contrattuale, fissato dall’Autorità di vigilanza sul sistema bancario nell’ambito della cd. “vigilanza prudenziale”, in forza di una norma di natura non imperativa, la cui violazione è, dunque, insuscettibile di determinare la nullità del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), che potrebbe condurre al pregiudizio proprio di quell’interesse alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito che la disposizione mira a proteggere.

In ambito giuslavoristico, Sez. L, n. 30235/2022, Leone, Rv. 665779-01, ha affermato che, in tema di reclutamento del personale delle società “in house”, la violazione delle disposizioni che impongono l’adozione di procedure concorsuali e selettive determina una nullità originaria del contratto di lavoro, da cui consegue l’impossibilità di riconoscere al lavoratore le tutele previste per le lavoratrici madri, invece applicabili in contesti di lavoro legittimamente instaurato.

5.2. Aspetti processuali.

Circa i profili processuali della disciplina della nullità del contratto vanno segnalate alcune decisioni che, riferite al tema del rilievo officioso della nullità nel giudizio, ne specificano il perimetro applicativo in relazione a diverse fattispecie negoziali.

Così, ad esempio, Sez. 1, n. 20170/2022, Amatore, Rv. 665222-01, secondo cui nel giudizio di appello e in quello di cassazione, il giudice – in caso di mancata rilevazione officiosa, in primo grado, di una nullità contrattuale – ha sempre il potere di procedere a siffatto rilievo, anche quando si tratta di “nullità di protezione”, da configurarsi come “species” del più ampio “genus” delle nullità negoziali, poste a tutela di interessi e valori fondamentali che trascendono quelli del singolo contraente. In applicazione del principio enunciato, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, nella parte in cui ha esaminato nel merito la domanda di accertamento della nullità di un contratto quadro di intermediazione mobiliare, contenuta nell’atto di appello e fondata su motivi diversi da quelli dedotti in primo grado, escludendone l’inammissibilità.

Sez. 1, n. 28377/2022, Vannucci, Rv. 665753-01, ha precisato che la domanda di accertamento della nullità di un contratto relativo alla prestazione di servizi di investimento in valori mobiliari per inosservanza della forma scritta (nella specie, ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 415 del 1996) proposta dal cliente per la prima volta in appello, nei confronti dell’intermediario in valori mobiliari, nell’ambito di un giudizio volto ad ottenere il risarcimento di danni che si assumono essere derivati dall’esecuzione del contratto medesimo, pur essendo inammissibile quale domanda nuova, ex art. 345, comma 1, c.p.c., deve essere convertita ed esaminata nel merito dal giudice del gravame, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, come eccezione di nullità rilevabile d’ufficio – estesa anche alle nullità negoziali cd. di protezione – previa instaurazione del contraddittorio tra le parti ex art. 101, comma 2 c.p.c.

Sez. 1, n. 30885/2022, Falabella, Rv. 666118-01, ha affermato che la nullità della clausola con cui si realizzi un abuso di dipendenza economica, sancita dall’art. 9 l. n. 192 del 1998, è rilevabile d’ufficio e, pertanto, la sua deduzione può avvenire anche nella comparsa conclusionale, sempre che la stessa emerga dai dati già acquisiti al processo; tuttavia, la parte che, in sede di legittimità, lamenti il mancato rilievo ufficioso della menzionata invalidità deve dedurre – a pena di inammissibilità della censura per difetto di specificità – anche l’emersione, nel corso del giudizio di merito, degli elementi che avrebbero dovuto indurre il giudice a ravvisare detta nullità.

Circa i rapporti tra nullità del contratto e giudicato, merita di essere senz’altro segnalata Sez. 2, n. 04717/2022, Giannaccari, Rv. 663902-01, secondo cui il giudizio sulla insussistenza di una causa di nullità del contratto preclude la possibilità di invocare, in un diverso giudizio, la nullità del medesimo contratto sotto altro profilo, atteso che la domanda di nullità contrattuale è pertinente ad un diritto autodeterminato, individuato indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio, ed il giudicato, coprendo il dedotto e il deducibile, si estende anche all’insussistenza di cause di invalidità diverse da quelle fatte valere nel processo definito con sentenza irrevocabile (cd. giudicato per implicazione discendente).

6. Il contratto preliminare.

Piuttosto nutrito è il gruppo di sentenze che, nel corso dell’anno 2022, si sono occupate di questioni attinenti all’istituto del contratto preliminare.

Sez. 1, n. 00662/2022, Fidanzia, Rv. 663556-01, con particolare riguardo ai rapporti tra preliminare di cessione di quote societarie e contratto definitivo, ha affermato che l’omessa riproduzione, in quest’ultimo, di una clausola già inserita nel preliminare non comporta, necessariamente, la rinunzia alla pattuizione ivi contenuta, che non resta assorbita ove sussistano elementi in senso contrario ricavabili dagli atti ovvero offerti dalle parti. Ne consegue che il giudice è tenuto ad indagare sulla concreta intenzione delle parti, tanto più che il negozio di cessione richiede la forma scritta solo al fine dell’opponibilità del trasferimento delle quote alla società e non per la validità o la prova dell’accordo, per cui occorre verificare se, con la nuova scrittura, le parti si siano limitate, o meno, solo a “formalizzare” la cessione nei confronti della società, senza riprodurre tutti gli impegni negoziali in precedenza assunti.

Sez. 2, n. 00254/2022, Giannaccari, Rv. 663686-01, in punto di tutela della parte promissaria acquirente, ha affermato il principio secondo cui quando una parte negoziale, nel senso di centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti dal contratto, ha carattere soggettivamente complesso, essa resta insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che la costituiscono, e tale insensibilità si riflette anche su quelle posizioni; ne consegue, con riguardo ad ipotesi di preliminare di compravendita, che ove più soggetti si siano obbligati, con un’unica promessa, ad acquistare “pro indiviso” un immobile, l’adesione di uno dei promittenti compratori all’unilaterale recesso del promittente venditore non impedisce agli altri di chiedere l’emissione della sentenza costitutiva che tiene luogo del contratto non concluso ex art. 2932 c.c., rendendosi acquirenti dell’intero immobile.

Sez. 2, n. 07521/2022, La Battaglia, Rv. 664209-01, in tema di cd. allineamento catastale, ha affermato che il mancato inserimento, nel contratto preliminare di compravendita immobiliare, delle indicazioni circa la cd. conformità catastale oggettiva, ovvero l’identificazione catastale del bene, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto, la dichiarazione o attestazione di conformità dei dati catastali e delle planimetrie allo stato di fatto, non ne comporta la nullità, in quanto le prescrizioni previste dall’art. 29, comma 1 bis, della l. n. 52 del 1985, aggiunto dall’art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010 conv., con modif., dalla l. n. 122 del 2010, si riferiscono ai soli contratti traslativi, non trovando quindi applicazione ai contratti aventi efficacia meramente obbligatoria.

Secondo Sez. 2, n. 15496/2022, Giusti, Rv. 664878-01, la procura limitata alla stipula del preliminare non può intendersi estesa al potere di concludere anche il contratto definitivo e di trasferire la proprietà dell’immobile, giacché la stipula del contratto definitivo non può considerarsi come un atto necessario e conseguenziale per l’adempimento del mandato, costituendone, invece, un ulteriore sviluppo, attraverso una dilatazione dell’oggetto.

Sez. 2, n. 21198/2022, Bellini, Rv. 665545-01, ha chiarito che anche con riguardo al contratto preliminare deve trovare applicazione la regola, stabilita dall’art. 1373, comma 1, c.c., secondo cui il recesso non può essere esercitato dalla parte quando, dopo la conclusione del contratto, questo abbia avuto un principio di esecuzione, quando cioè l’effetto reale del contratto si sia, in tutto o in parte, realizzato o la prestazione obbligatoria, come la consegna del bene prima della stipulazione del contratto definitivo o il versamento di un acconto sul prezzo, sia stata in tutto o in parte adempiuta.

Di indubbio rilievo e meritevole di segnalazione è anche Sez. 1, n. 21462/2022, Di Marzio, Rv. 665236-01, la quale, implicitamente ribadendo la nullità del preliminare di donazione, ha affermato che il contratto concluso in Iran con il quale il futuro marito, con doppia cittadinanza iraniana ed italiana, si obblighi nei confronti del padre della futura sposa ad acquistare in futuro un’abitazione da adibire a casa coniugale ed a trasferirne alla moglie il 50% della proprietà non può essere considerato un contratto preliminare di donazione e, come tale, nullo secondo il nostro ordinamento, per il solo fatto di essere caratterizzato dall’elemento della gratuità, per non essere previsto un corrispettivo per l’incremento patrimoniale della beneficiaria, atteso che è indispensabile, ai fine della qualificazione della pattuizione, lo scrutinio della sussistenza non solo dell’elemento oggettivo della mancanza di corrispettivo, ma anche dell’elemento soggettivo dello spirito di liberalità, come consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario mediante attribuzioni od erogazioni patrimoniali operate “nullo iure cogente”, verificando se il senso della pattuizione intercorsa tra il futuro sposo ed il padre della futura sposa, non risieda, piuttosto, nell’intento del primo di procacciarsi il consenso del secondo al matrimonio.

In tema di pronuncia della sentenza ex art. 2932 c.c., Sez. 2, n. 22011/2022, Grasso, Rv. 665378-01, ha escluso che la stessa risulti invocabile ove il bene oggetto del contratto preliminare, per eventi sopravvenuti alla stipula dello stesso, venga modificato non essendo possibile, in sede giudiziale, costituire un rapporto giuridico diverso da quello voluto dalle parti. In particolare, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione che aveva disposto il trasferimento del 50% del diritto di usufrutto sulla porzione di venti ventiquattresimi di un immobile in ragione della cessione di pari quota della nuda proprietà del bene da parte del promissario alienante a terzi, intervenuta successivamente alla conclusione del contratto preliminare con cui, diversamente, era stata convenuta la cessione al promissario acquirente della quota del 50% dell’usufrutto sull’intero immobile.

Sempre con riguardo ai profili di tutela del promissario acquirente, Sez. 2, n. 24313/2022, Dongiacomo, Rv. 665559-01, ha escluso che nell’ipotesi di contratto preliminare di compravendita di un bene in comunione “pro indiviso”, stipulato da alcuni soltanto dei comproprietari e avente ad oggetto le quote di pertinenza di questi ultimi, nel processo ex art. 2932 c.c. gli altri comproprietari rivestano la qualità di litisconsorti necessari, dal momento che essi, non avendo sottoscritto il preliminare, non sono destinatari in via diretta degli effetti del contratto definitivo.

In applicazione del principio che si esprime nel noto brocardo secondo cui “contra non valentem agere non currit praescriptio” e che risulta codificato nell’art. 2935 c.c., Sez. 2, n. 31369/2022, Scarpa, Rv. 666006-01, ha ribadito che, in tema di contratto preliminare di vendita di immobile, l’inadempimento del promittente venditore alla stipula del contratto definitivo comporta che la prescrizione del diritto del promissario acquirente all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., non inizia a decorrere dalla conclusione del contratto preliminare, ma dalla data di scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo (Sez. 2, n. 19871/2009, Bursese, Rv. 610220-01).

Circa i rapporti con l’istituto della caparra confirmatoria, Sez. 2, n. 35068/2022, Trapuzzano, Rv. 666325-01, ha confermato come in tema di contratto preliminare, la funzione di anticipazione della prestazione dovuta e di rafforzamento del vincolo obbligatorio propria della caparra confirmatoria – che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (cd. contratto principale) – ben possa essere assolta anche da una dazione differita, così posticipandosi la consegna ad un momento successivo alla conclusione del contratto principale, purché il momento di tale consegna sia anteriore al termine di scadenza delle obbligazioni pattuite con il preliminare e con la conseguenza che, nelle more della consegna, non si producono gli effetti che l’art. 1385, comma 2 c.c. ricollega alla consegna in conformità della natura reale del patto rafforzativo del vincolo (Sez. 2, n. 24563/2013, Bianchini, Rv. 628549-01).

7. Il contratto concluso dal rappresentante.

Sul tema, meritevole di segnalazione è anzitutto Sez. 3, n. 15841/2022, Ambrosi, Rv. 665102-01, che ha affermato il principio secondo cui colui che, in qualità di “falsus procurator”, abbia stipulato un contratto in nome e per conto di un terzo, al quale poi succeda “mortis causa”, non può eccepirne l’inefficacia per carenza del potere rappresentativo, dovendosi ritenere che, alla stregua delle regole della correttezza, egli sia automaticamente vincolato in proprio al negozio per effetto dell’accettazione dell’eredità.

Sempre in tema di contratto stipulato da “falsus procurator”, Sez. 3, n. 26871/2022, Guizzi, Rv. 665720-01, ha chiarito come il potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui sia un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato e, pertanto, il suo difetto risulti rilevabile anche d’ufficio, precisando, però, come il comportamento processuale dello pseudo rappresentato che, convenuto in giudizio, tenga un comportamento da cui risulti in maniera univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e per suo conto dal “falsus procurator”, operi anche sul terreno del diritto sostanziale e valga quale ratifica tacita di tale contratto. Nella fattispecie esaminata dalla S.C., l’inefficacia di un contratto di noleggio di una tendostruttura, in quanto concluso da un “falsus procurator”, era stata eccepita, da parte dell’opponente al decreto ingiuntivo per il pagamento del corrispettivo, solo all’esito della consulenza tecnica grafologica che attestava la falsità di un documento dalla stessa prodotto, a fronte di un’iniziale difesa imperniata sulla diversa qualificazione del contratto alla stregua di compravendita, con deduzione dell’integrale pagamento del prezzo. Peraltro, Sez. 2, n. 04938/2022, Giusti, Rv. 663919-01, già sopra citata, ha chiarito come la ratifica di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, stipulato dal “falsus procurator”, non richiede necessariamente che il “dominus” manifesti per iscritto la volontà di far proprio quel contratto, potendo essere integrata anche dall’atto di citazione, notificato alla controparte e sottoscritto dal rappresentato o dal suo procuratore “ad litem”, con il quale si chieda l’esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c., trattandosi di atto scritto che, redatto per fini conseguenziali alla stipulazione del contratto preliminare medesimo, è incompatibile con il rifiuto dell’operato del rappresentante senza poteri.

Infine, va segnalato il principio – affermato da Sez. 1, n. 24149/2022, Mercolino, Rv. 665529-01 – secondo cui, in tema di intermediazione finanziaria, la nullità della delega ad operare per conto dell’investitore esclude la ratificabilità degli atti compiuti per suo conto dal “falsus procurator”, essendo la ratifica ex art. 1399 c.c. limitata alle sole ipotesi previste dall’art. 1398 c.c., non comprensive di quella in cui l’atto non avrebbe potuto essere compiuto a mezzo di quel soggetto, in virtù di un divieto posto dagli artt. 31 e 166 d.lgs. n. 58 del 1998 non a tutela del soggetto privato, ma dell’interesse generale al corretto funzionamento del mercato finanziario. In particolare, nella fattispecie esaminata dalla S.C. il vizio dell’atto compiuto dal rappresentante non dipendeva dalla mera assenza del potere rappresentativo, cui può porsi rimedio attraverso una successiva ratifica volta a far propri gli effetti dell’atto posto in essere dal rappresentante, ma da un divieto di legge, nella specie risultante dagli artt. 31 e 166 del d.lgs. n. 58 del 1998, collegato alla riserva dell’attività in favore di soggetti iscritti in un apposito albo, dotati di particolari requisiti di professionalità e sottoposti ad un articolato sistema di controlli.

8. Il contratto a favore di terzo.

Non numerose risultano, nel corso dell’anno 2022, le pronunce che hanno riguardato l’istituto del contratto a favore di terzo.

Anzitutto, Sez. 1, n. 04338/2022, Amatore, Rv. 664013-01, ha affermato che la clausola compromissoria contenuta in un contratto a favore di terzo è opponibile a quest’ultimo qualora abbia manifestato la volontà di profittare della stipulazione, in quanto tale volontà non può non riguardare tutte le clausole contrattuali nel loro insieme.

Secondo Sez. 3, n. 09866/2022, Cricenti, Rv. 664264-01, in tema di interpretazione e qualificazione del contratto di assicurazione connesso o condizionato ad un contratto di mutuo, correttamente il giudice del merito procede all’individuazione della comune volontà dei contraenti avuto riguardo, altresì, alle clausole contenute nel contratto di mutuo collegato; in tal caso, laddove le parti abbiano previsto la stipula del contratto di assicurazione in favore del soggetto finanziatore, lo stesso va qualificato come contratto a favore di terzo e risulta perciò valida la clausola che prevede il diritto di surroga della compagnia assicuratrice nei confronti del mutuatario in caso di inadempimento di quest’ultimo, in relazione all’indennizzo pagato al mutuante per l’avveramento del rischio (perdita del lavoro da parte del soggetto finanziato).

Sez. 3, n. 14895/2022, Ambrosi, Rv. 664825-01, ha chiarito che nel contratto a favore di terzo (nella specie, polizza vita con investimento del capitale in strumenti finanziari), in assenza di diverse previsioni convenzionali, va riconosciuta la legittimazione esclusiva del terzo ad agire per la risoluzione e il risarcimento del danno al fine di ottenere, in caso di inadempimento del promittente, la prestazione attribuitagli, qualora il contratto sia idoneo a fargli acquisire il relativo diritto senza necessità di attività esecutiva da parte del promittente medesimo, mentre, nel caso contrario, tale legittimazione attiva va riconosciuta anche allo stipulante.

Di indubbia rilevanza è anche Sez. U, n. 20802/2022, Falabella, Rv. 665081-02, che ha escluso che la qualità di consumatore rivestita dal beneficiario di un contratto a favore di terzo, stipulato in nome proprio da una società, rilevi ai fini dell’applicabilità del foro del consumatore previsto dall’art. 16 della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, mancando la qualità di consumatore in capo al soggetto che conclude il contratto ”nomine proprio”, atteso che la ratio della disciplina consumeristica è quella di approntare regole di riequilibrio ancorate a una presunzione astratta di disparità di potere contrattuale tra le parti, e che il terzo beneficiario, estraneo alla fase di conclusione del contratto, non essendone parte né in senso sostanziale, né in senso formale, si limita a ricevere gli effetti di un rapporto già costituito ed operante.

In ambito giuslavoristico, Sez. L, n. 21447/2022, Ponterio, Rv. 665128-01, ha affermato che l’accordo sindacale avente ad oggetto la ricollocazione del personale interessato dalla cessazione dell’attività di impresa e contenente l’impegno dell’azienda subentrante ad assumere alle sue dipendenze una determinata percentuale dei dipendenti messi in mobilità, va qualificato come contratto a favore di terzi, da cui derivano specifici diritti in capo ai beneficiari, ove questi siano individuati o individuabili; ne consegue che, qualora l’accordo non indichi nominativamente i dipendenti da assumere, ma si limiti a stabilire i criteri per la individuazione dei lavoratori che dovranno transitare alle dipendenze dell’imprenditore subentrante, è onere dei lavoratori, terzi estranei all’accordo medesimo, dimostrare il possesso dei requisiti condizionanti l’acquisito della qualità di terzi beneficiari.

Anche con riguardo al contratto di deposito di cose altrui, la S.C. (Sez. 3, n. 21219/2022, Rossetti, Rv. 665261-01) ha affermato la sua configurabilità in termini di contratto a favore di terzo ex art. 1411 c.c., il cui fine principale è quello della custodia, conservazione e restituzione delle merci, con la conseguenza che titolare dell’azione risarcitoria nei confronti del depositario per la perdita, distruzione o deterioramento delle cose depositate è, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, non solo il depositante ma anche il terzo che avrebbe avuto titolo alla restituzione.

9. Le vicende del rapporto contrattuale.

9.1. L’autotutela e la caparra confirmatoria.

In relazione alle vicende del rapporto contrattuale, e con particolare riferimento ai rimedi per l’inadempimento, rivestono particolare interesse alcune pronunzie che si sono occupate dei relativi meccanismi di regolazione adottati dalle parti.

Sez. 2, n. 10366/2022, Dongiacomo, Rv. 664329-01, ha precisato che la caparra confirmatoria può essere costituita anche mediante la consegna di un assegno bancario, pur se l’effetto proprio di essa si perfeziona al momento della riscossione della somma da esso recata e, dunque, salvo buon fine, essendo però onere del prenditore del titolo, dopo averne accettato la consegna, di porlo all’incasso; ne deriva che il comportamento dello stesso prenditore, che ometta di incassare l’assegno e lo trattenga comunque presso di sé, è contrario a correttezza e buona fede, sì da impedirgli di imputare all’inadempimento della controparte il mancato incasso dell’assegno, come pure di recedere dal contratto, al quale la caparra risulta accessoria, o di sollevare l’eccezione di inadempimento.

Sempre in tema di inadempimento contrattuale, Sez. 2, n. 18392/2022, Caponi, Rv. 664989-01, ha affermato che, una volta conseguita attraverso la diffida ad adempiere la risoluzione del contratto al quale accede la prestazione di una caparra confirmatoria, l’esercizio del diritto di recesso è definitivamente precluso, cosicché la parte non inadempiente che limiti fin dall’inizio la propria pretesa risarcitoria alla ritenzione della caparra ad essa versata o alla corresponsione del doppio della caparra da essa prestata, in caso di controversia, è tenuta ad abbinare tale pretesa ad una domanda di mero accertamento dell’effetto risolutorio.

Sez. 2, n. 35068/2022, Trapuzzano, Rv. 666325-02, ha affermato che quando si chieda in via monitoria il pagamento di una somma a titolo di caparra confirmatoria, conseguente ad un’implicita pronunzia costitutiva di risoluzione del contratto preliminare, il diritto non può considerarsi né liquido né esigibile in quanto il suo riconoscimento dipende dalla modificazione del diritto sostanziale operata dal giudice con la sentenza costitutiva. Ne consegue che se, da un lato, il decreto ingiuntivo non può essere emesso, d’altro canto, una volta emesso, il giudice dell’opposizione non può limitarsi a dichiarare la nullità del decreto ingiuntivo, ma deve pronunciarsi sull’intero rapporto dedotto in giudizio e conoscere anche la domanda di risoluzione del contratto sottesa alla richiesta di decreto ingiuntivo.

La medesima pronuncia ha precisato altresì che: 1) la funzione di anticipazione della prestazione dovuta e di rafforzamento del vincolo obbligatorio (nascente da un contratto preliminare) propria della caparra confirmatoria – che si perfeziona con la consegna che una parte fa all’altra di una somma di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili per il caso d’inadempimento delle obbligazioni nascenti da un diverso negozio ad essa collegato (cd. contratto principale) – ben può essere assolta anche da una dazione differita, così posticipandosi la consegna ad un momento successivo alla conclusione del contratto principale, ma a condizione che il momento di tale consegna sia anteriore al termine di scadenza delle obbligazioni pattuite con il preliminare e con la conseguenza che, nelle more della consegna, non si producono gli effetti che l’art. 1385, comma 2, c.c., ricollega alla consegna in conformità della natura reale del patto rafforzativo del vincolo; 2) la caparra confirmatoria, al pari della clausola penale stipulata per il caso di inadempimento, rivelano il comune intento di indurre l’obbligato all’adempimento e, pertanto, ambedue possono coesistere nell’ambito dello stesso contratto. I due istituti, tuttavia, differiscono quanto ad ambito di applicazione, giacché la caparra confirmatoria trova applicazione quando, per effetto del recesso, il contratto non possa essere più adempiuto, mentre la clausola penale è applicabile laddove colui che non è inadempiente preferisca domandare l’esecuzione del contratto o la risoluzione.

9.2. La risoluzione e l’eccezione di inadempimento.

Con riguardo alla risoluzione prevista dall’art. 1482 c.c., Sez. 2, n. 12032/2022, Bertuzzi, Rv. 664419-01, ha chiarito che essa ha carattere automatico e stragiudiziale, operando allo stesso modo della diffida ad adempiere, non costituisce per l’acquirente un rimedio speciale o esclusivo, ma alternativo, di ulteriore protezione e tutela del suo interesse all’adempimento, sicché egli conserva la possibilità di esperire l’azione ordinaria di risoluzione del contratto, in presenza del presupposto già richiamato della gravità dell’inadempimento.

In tema di “aliud pro alio”, Sez. 2, n. 00996/2022, Besso Marcheis, Rv. 663568-01, ha affermato che in caso di vendita di quadro non autentico, il diritto di richiedere la risoluzione e il conseguente risarcimento del danno è assoggettato alla prescrizione ordinaria decennale, il cui termine inizia a decorrere dalla consegna del quadro, che segna il momento in cui si verifica l’inadempimento, senza che rilevi la circostanza che l’acquirente non fosse a conoscenza della non autenticità, in quanto ai fini della sospensione del termine di prescrizione rileva l’impossibilità che derivi da cause giuridiche, non anche impedimenti soggettivi o ostacoli di mero fatto, tra i quali devono annoverarsi l’ignoranza del fatto generatore del diritto, il dubbio soggettivo sull’esistenza di esso e il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento.

In punto di valutazione circa la gravità dell’inadempimento, Sez. 2, n. 02223/2022, Penta, Rv. 663641-03, ha chiarito che l’avvenuta accettazione, da parte del creditore, dell’adempimento parziale, suscettibile di essere da lui rifiutato a norma dell’art. 1181 c.c., non estingue il debito, ma può ridurlo, non precludendo conseguentemente al creditore stesso di azionare la risoluzione del contratto, né al giudice di dichiararla, ove la parte residuale del credito rimasta scoperta sia tale da comportare ugualmente la gravità dell’inadempimento. Peraltro, tale pronuncia ha affermato anche che gli artt. 1181 e 1455 c.c. si riferiscono a due distinte sfere di applicabilità: il primo attiene alla facoltà del creditore di rifiutare la prestazione parziale e di agire, quindi, per il conseguimento dell’intero, donde la legittimità del rifiuto di un adempimento inesatto; l’art. 1455 riguarda, invece, il potere del contraente di risolvere il contratto a prestazioni corrispettive nel caso d’inadempimento di non lieve entità dell’altra parte. Ne consegue che, dato il diverso ambito di operatività delle due discipline, la condanna del debitore inadempiente al risarcimento del danno può essere pronunziata anche quando, per la scarsa importanza dell’inadempimento, non possa farsi luogo alla risoluzione del contratto.

Sez. 2, n. 14195/2022, Abete, Rv. 664684-01, ha affrontato il tema della tolleranza del creditore in presenza di una clausola risolutiva espressa, affermando che tale tolleranza non comporta l’eliminazione della clausola, né determina la tacita rinuncia ad avvalersene, qualora la stessa parte creditrice, contestualmente o successivamente all’atto di tolleranza, manifesti l’intenzione di volersene avvalere in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento, in quanto con tale manifestazione di volontà, che non richiede forme rituali e può desumersi per fatti concludenti, il creditore comunque richiama il debitore all’esatto adempimento delle proprie obbligazioni.

Con riguardo alla tematica del riparto degli oneri probatori, Sez. 2, n. 20150/2022, Carrato, Rv. 665013-01, ha precisato che, in tema di contratto atipico di vitalizio alimentare, ove il beneficiario delle prestazioni assistenziali agisca in giudizio per la risoluzione contrattuale nei confronti del vitaliziante, il primo deve provare esclusivamente la fonte negoziale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il secondo è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; qualora, invece, l’azione di risoluzione sia proposta da un terzo, grava su quest’ultimo l’onere di specifica allegazione dei fatti sui quali si fonda l’asserito inadempimento imputabile al vitaliziante e della prova della sussistenza dei relativi fatti costitutivi.

Sez. 3, n. 22244/2022, Ambrosi, Rv. 665265-01, introduce un’eccezione al principio suddetto, affermando che, in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione negativa, il creditore ha sempre l’onere di provare, oltre alla fonte (negoziale o legale) del suo diritto, anche l’inadempimento del debitore. La fattispecie esaminata concerneva la violazione dell’obbligo di non commercializzare i prodotti del preponente in un determinato ambito territoriale, oggetto di un patto di esclusiva in favore del ricorrente.

In tema di appalto, si è chiarito che l’ultimazione e la consegna delle opere non è ostativa alla proposizione da parte dell’appaltatore della domanda di risoluzione per inadempimento, in quanto, anche nei casi in cui la sua esecuzione si protragga nel tempo, e fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche, non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica, non sottraendosi pertanto alla regola generale, dettata dall’art. 1458 c.c., della piena retroattività degli effetti della risoluzione, con la conseguenza che il prezzo delle opere già eseguite può essere liquidato, a seguito della risoluzione del contratto, a titolo di equivalente pecuniario della dovuta “restitutio in integrum” (Sez. 1, n. 22065/2022, Caiazzo, Rv. 665160-01).

In ambito processuale, meritevole di segnalazione risulta Sez. 3, n. 23416/2022, Spaziani, Rv. 665440-01, secondo cui laddove siano state congiuntamente proposte la domanda di risoluzione del contratto e quella di ripetizione delle somme versate in esecuzione dello stesso, non pronuncia “extra petita” il giudice che, nel rigettare la prima per mancanza di prova dei relativi fatti costitutivi, accolga quella restitutoria, essendo quest’ultima (così come quella risarcitoria) una domanda autonoma e distinta, la cui “causa petendi” va ravvisata non già nella risoluzione del contratto, ma, più in generale, nella mancanza (originaria o sopravvenuta), per qualsiasi ragione, di “causa solvendi”, che rende la prestazione eseguita dal “solvens” non dovuta.

Anche Sez. 2, n. 23820/2022, Rubino, Rv. 665569-01, ha affermato che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che, a fronte di una domanda di risoluzione per inadempimento del contratto e conseguente restituzione dell’acconto versato, adotti la statuizione restitutoria in relazione alla diversa fattispecie del legittimo recesso della parte, trattandosi pur sempre di pronuncia consequenziale all’accertamento dell’avvenuto scioglimento del rapporto, fondato sulle circostanze di fatto originariamente dedotte, senza che sia stato introdotto un nuovo tema di indagine.

In tema di giudicato, Sez. 2, n. 24915/2022, Rolfi, Rv. 665584-01, ha escluso la riconducibilità della domanda restitutoria nell’ambito del “deducibile” connesso all’azione di risoluzione del contratto, in quanto l’effetto restitutorio non può ritenersi implicito nella domanda di risoluzione, con la conseguenza che la predetta risoluzione, pur comportando, per l’effetto retroattivo sancito dall’art. 1458 c.c., l’obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell’altro contraente, rientrando nell’autonomia delle parti disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo o meno, anche in un successivo e separato giudizio, la restituzione della prestazione rimasta senza causa.

Sez. 2, n. 28912/2022, Besso Marcheis, Rv. 665962-01, in ordine al principio desumibile dall’art. 1453, comma 2, c.c., ha affermato che la facoltà di poter mutare, nel corso del giudizio di primo grado, in appello e persino in sede di rinvio, la domanda di adempimento in quella di risoluzione, in deroga al divieto di “mutatio libelli” sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., postula che si resti nell’ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema di indagine, sicché il contraente, che abbia posto a base della domanda introduttiva del processo l’inadempimento dei promittenti alienanti alla stipulazione del contratto definitivo, non può, in sede di appello, addurre il pignoramento dell’immobile alla base della domanda di riduzione del prezzo e, poi, chiedere, con la precisazione delle conclusioni, la risoluzione del contratto preliminare per sostanziale difformità dal titolo “ad aedificandum”, così mutando due volte i fatti posti a base dell’inadempimento.

Da ultimo, Sez. 2, n. 35280/2022, Falaschi, Rv. 666326-01, in punto di effetti della pronuncia di risoluzione, ha chiarito che l’efficacia retroattiva della risoluzione, per inadempimento, di un contratto preliminare comporta l’insorgenza, a carico di ciascun contraente, dell’obbligo di restituire le prestazioni ricevute, rimaste prive di causa, secondo i principi della ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., e, pertanto, implica che il promissario acquirente che abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipate del bene promesso in vendita debba non solo restituirlo al promittente alienante, ma altresì corrispondere a quest’ultimo i frutti per l’anticipato godimento dello stesso, cosicché, nel caso di occupazione di un immobile fondata su di un titolo contrattuale venuto meno per effetto della risoluzione giudiziale del contratto, va esclusa la funzione risarcitoria degli obblighi restitutori.

Con riguardo all’eccezione di inadempimento, Sez. 2, n. 04225/2022, Fortunato, Rv. 663827-02, ha chiarito che, nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, l’esecuzione ha luogo per coppie di prestazioni da eseguirsi contestualmente e con funzione corrispettiva. Ne deriva che, in caso di risoluzione, rispetto alle reciproche prestazioni già eseguite, il rapporto deve intendersi esaurito senza alcun effetto restitutorio e con l’ulteriore conseguenza che l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere utilmente fatta valere solo allorché attenga temporalmente e logicamente alla prestazione di riferimento, rispetto alla controprestazione richiesta all’eccipiente e sempre che non vi sia una complessiva irregolarità di esecuzione del contratto.

Sez. 2, n. 04079/2022, Carrato, Rv. 663824-01, ha esaminato una fattispecie in tema di appalto di servizi di pulizia stipulato da un Condominio, chiarendo come,  a fronte dell’inadempimento, da parte dell’appaltatore, dell’obbligo di presentazione del documento unico di regolarità contributiva (DURC), il committente sia legittimato a sospendere il pagamento delle prestazioni, ai sensi dell’art. 1460 c.c., stante la sinallagmaticità del rapporto contrattuale e l’esposizione del committente al rischio di rispondere in solido del versamento degli oneri previdenziali e contributivi ex art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

Sez. 6-3, n. 17020/2022, Dell’Utri, Rv. 665058-01, ha ribadito il principio secondo cui, in tema di inadempimento contrattuale vale la regola che l’exceptio “non rite adimpleti contractus”, di cui all’articolo 1460 c.c., si fonda su due presupposti: l’esistenza dell’inadempimento anche dell’altra parte e la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, bensì in relazione alla situazione oggettiva, con la conseguenza che, qualora un conduttore abbia continuato a godere dell’ immobile locato, pur in presenza di vizi, non è legittima la sospensione da parte sua del pagamento del canone, perché tale comportamento non sarebbe proporzionale all’inadempimento del locatore (Sez. 2, n. 08425/2006, Di Nanni, Rv. 589183-01).

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CAPITOLO XII

I SINGOLI CONTRATTI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Il contratto di appalto privato; l’esecuzione, le patologie contrattuali e le forme di tutela della parte adempiente. - 1.1 La responsabilità verso terzi. - 2 Il contratto di assicurazione: premessa. - 2.1 L’assicurazione per la responsabilità civile. - 2.2 L’assicurazione obbligatoria. - 2.3 L’assicurazione sulla vita. - 3 I contratti agrari. - 4 La fideiussione e più in generale la tutela del credito tra garanzie tipiche e atipiche. - 5 La locazione: aspetti processuali. - 5.1 La locazione ad uso abitativo. - 5.2 Locatore e conduttore ed i rispettivi obblighi. - 5.3 Locazione di immobile ad uso non abitativo. - 6 Il mandato. - 7 La transazione. - 8 Il trasporto. - 9 La vendita: premessa. - 9.1 Vendita di bene di interesse storico-artistico. - 9.2 Il contratto preliminare. - 9.3 I vizi della cosa e i vizi della volontà. L’inadempimento e la tutela rimediale. - 9.4 La compravendita immobiliare. - 10 Il giuoco e la scommessa.

1. Il contratto di appalto privato; l’esecuzione, le patologie contrattuali e le forme di tutela della parte adempiente.

Nel corso del 2022 la Corte si è soffermata sulla esatta individuazione delle attività tipiche dell’appalto e, in particolare, di quelle proprie dell’esecuzione dell’opera rispetto a quelle meramente preparatorie o, comunque, accessorie ma non direttamente collegate alla suddetta esecuzione. Tale individuazione assume un aspetto assai rilevante in materia, in quanto indispensabile al fine di rilevare eventuali condotte inadempienti delle parti. Sez. 2, n. 24314/2022, Trapuzzano, Rv. 665560-01, ha sul punto affermato che “In tema di appalto, l’inizio di un’opera non può essere confuso o identificato con tutta l’attività preparatoria-burocratica e materiale precedente tale momento – tra cui la consegna dei lavori all’impresa appaltatrice e l’avvio delle opere di bonifica e di installazione del cantiere – essendo, invece, necessario l’inizio della realizzazione dell’opera nella sua consistenza strutturale”. Con la medesima sentenza si è, poi, rilavato che “Nei rapporti afferenti all’esecuzione dell’appalto, la data di ultimazione dell’opera nel suo complesso prescinde dalle attività accessorie, come gli interventi di smontaggio del cantiere, e dalle attività prodromiche alle successive operazioni di verifica e collaudo, tra cui rientrano le prestazioni occorrenti per ovviare ai vizi e ai difetti”.

Anche alla luce dei suindicati principi è fermo il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della risoluzione del contratto di appalto per i vizi dell’opera, e` necessario un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l’art. 1668 comma 2 c.c. la risoluzione può essere dichiarata soltanto se i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inidonea alla sua destinazione, l’art. 1490 c.c. stabilisce che la risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa, in aderenza alla norma generale di cui all’art. 1455 c.c., secondo cui l’inadempimento non deve essere di scarsa importanza avuto riguardo all’interesse del creditore. Pertanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto e` ammessa nella sola ipotesi in cui l’opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria, in quanto affetta da vizi che incidano in misura notevole sulla struttura e funzionalità della medesima si` da impedire che essa fornisca la sua normale utilità, mentre, se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può solo richiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal primo comma dell’art. 1668 c.c., salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore. A tal fine, la valutazione delle difformità o dei vizi deve avvenire in base a criteri obiettivi, ossia considerando la destinazione che l’opera riceverebbe dalla generalità delle persone, mentre deve essere compiuta con criteri subiettivi quando la possibilità di un particolare impiego o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto (ex plurimis e da ultimo Sez. 2, n. 10571/2001, Mazzacane, Rv. 548713-01).

Alla luce di tali principi Sez. 2, n. 21188/2022, Bellini, Rv. 665543-01, ha affermato il principio secondo cui in tema di appalto, la disciplina dettata dell’art. 1668 c.c. consente al committente di chiedere la risoluzione del contratto soltanto nel caso in cui i difetti dell’opera, incidendo in modo notevole sulla struttura e sulla funzionalità della stessa, siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione ovvero all’uso cui sia destinata mentre l’art. 1490 c.c. presuppone che i vizi siano tali da diminuire in modo apprezzabile il valore della cosa. A tal fine la valutazione della difformità o dei vizi deve effettuarsi in base a criteri obiettivi, considerando la destinazione che l’opera riceverebbe dalla generalità delle persone mentre deve essere compiuta con criteri subiettivi quando un determinato rendimento o un particolare impiego siano dedotti in contratto. Sicché ove i vizi e le difformità siano facilmente eliminabili, il committente può solo richiedere a sua scelta uno dei provvedimenti di cui al primo comma dell’art. 1668 c.c., salvo il risarcimento del danno in caso di colpa dell’appaltatore.

Sempre in tema di domanda di risoluzione Sez. 2, n. 04225/2022, Fortunato, Rv. 663827-01, ha precisato che l’appalto, anche nei casi in cui la sua esecuzione si protragga nel tempo, e fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche, non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica e, pertanto, non si sottrae alla regola generale, dettata dall’art. 1458 c.c., della piena retroattività di tutti gli effetti della risoluzione, anche in ordine alle prestazioni già eseguite.

Per quanto più specificatamente attiene ai vizi e alle difformità dell’opera Sez. 2, n. 19343/2022, Rolfi, Rv. 664999-02, ha affermato la distinzione tra il profilo del riconoscimento dei vizi dal ben diverso profilo dell’assunzione dell’impegno a rimuoverli e della conseguente assunzione di una obbligazione diversa ed autonoma rispetto a quella originaria, svincolata dal termine decadenziale e soggetta al solo termine prescrizionale ordinario. Da quanto sopra discende che anche in presenza di un riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore – riconoscimento che elide l’onere di effettuare la denuncia - non può farsi discendere automaticamente dal riconoscimento medesimo l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, in assenza della prova di un impegno in tal senso, con la conseguenza che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto. Sempre per quanto attiene l’esatto adempimento e, più precisamente, l’esatta esecuzione delle opere oggetto del contratto di appalto Sez. 2, n. 24314/2022, Trapuzzano, Rv. 665560-02, ha affermato che “In tema di appalto privato, il “giornale lavori”, ossia il brogliaccio che, compilato dall’assuntore, riporta la progressione dei lavori appaltati, configura una scrittura di natura privata, di provenienza unilaterale, operante nell’ambito del rapporto di appalto, la quale, pur non avendo piena efficacia probatoria, ha valenza indiziaria nei confronti dell’appaltante”. Sez. 2, n. 31378/2022, Scarpa, Rv. 666170-01, ha, poi, affermato che nel caso di vizi delle opere eseguite in virtù di contratto di appalto, dal rifiuto opposto dal committente all’impegno assunto dall’appaltatore, dopo la consegna delle opere, di eliminazione dei difetti, il giudice non può far discendere automaticamente l’esigibilità del credito di quest’ultimo dovendo, piuttosto, valutare comparativamente il comportamento delle parti ed accertare se sia contraria a buona fede la mancata cooperazione del committente rispetto al rimedio proposto dall’appaltatore, alla stregua tanto delle obbligazioni principali del contratto di appalto, quanto di quelle collaterali di collaborazione e, comunque, considerando che il committente non può dirsi obbligato ad adempiere se non dopo l’effettiva esecuzione dell’intervento diretto ad eliminare i difetti e le difformità dell’opera.

Si colloca nel tema delle controversie sulle opere eseguite o, meglio, della sussistenza o insussistenza di tale contrasto il principio enunciato dalla Corte che ha delimitato il potere del giudice di merito nell’individuare il corrispettivo dovuto per l’adempimento del contratto. Sez. 3, n. 26365/2022, Spaziani, Rv. 665651-01, ha affermato che “Il potere del giudice di determinare il corrispettivo dell’appalto ex art. 1657 c.c. se le parti non abbiano né pattuito la misura, né stabilito il modo per calcolarlo, e sempre che non possa farsi riferimento alle tariffe esistenti ed agli usi, è esercitabile solo ove non si controverta sulle opere eseguite dall’appaltatore, atteso che, in tal caso, questi deve provare l’entità e la consistenza delle opere, non potendo il giudice stabilire il prezzo di cose indeterminate né consentire all’attore di sottrarsi all’onere probatorio che lo riguarda”.

Sez. 2, n. 04079/2022, Carrato, Rv. 663824-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato legittimo, da parte del committente, la sospensione del pagamento del corrispettivo all’appaltatore, facendo applicazione del principio di cui all’art. 1460 c.c. Nella fattispecie il committente-condominio in mancanza del DURC da parte dell’appaltatore-impresa di pulizia, in ragione della solidarietà per la irregolare posizione contributiva e fiscale dei dipendenti di quest’ultima, aveva sospeso il pagamento delle fatture. La S.C. dopo aver qualificato il contratto come appalto di servizi, ha affermato che a fronte dell’inadempimento, da parte dell’appaltatore, dell’obbligo di presentazione del documento unico di regolarità contributiva (DURC), il committente era legittimato a sospendere il pagamento delle prestazioni, ai sensi dell’art. 1460 c.c., stante la sinallagmaticità del rapporto contrattuale e l’esposizione del committente al rischio di rispondere in solido del versamento degli oneri previdenziali e contributivi ex art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

Per quanto più specificatamente attiene agli obblighi di diligenza che discendono dal contratto di appalto, Sez. 3, n. 33465/2022, Condello, Rv. 666144-01, ha affermato che “In tema di appalto, nel caso di intervento edilizio su un’opera preesistente, è richiesta al progettista e direttore dei lavori una diligenza particolarmente qualificata, in ragione della quale egli è tenuto, prima di procedere alla sopraelevazione, ad accertare l’idoneità statica delle strutture già esistenti”.

Deve, infine, essere riportata Sez. 2, n. 34648/2022, Trapuzzano, Rv. 666317-01, che ha affermato che “In tema di appalto, la denuncia dei vizi cui all’art. 1669 c.c. non ha natura processuale e pertanto può essere effettuata anche mediante un atto stragiudiziale. Ciò comporta che l’atto interruttivo della prescrizione ad essa relativo si perfeziona in forza dell’avvenuta conoscenza da parte del destinatario, senza che al riguardo possa trovare applicazione il principio di scissione degli effetti della notifica. (Nella specie, la S.C. nel rigettare il ricorso, ha ritenuto prescritta l’azione per essere spirato il termine annuale di cui all’art. 1669 c.c. all’atto della ricezione del ricorso, non rilevando all’uopo che il procedimento notificatorio fosse iniziato entro l’anno)”.

1.1. La responsabilità verso terzi.

Sez. 2, n. 20840/2022, Oliva, Rv. 665172-01, – dopo aver premesso che in base ai principi di cui agli artt. 2043 e ss. c.c., il proprietario del bene immobile risponde dei danni cagionati a terzi, anche se questi, materialmente, siano conseguenza del fatto dei propri incaricati, dipendenti o collaboratori – ha precisato che non assume alcuna rilevanza nell’ambito del rapporto giuridico esistente tra il proprietario del bene dal quale proviene il danno e la parte danneggiata la circostanza che quest’ultimo deriva da un contratto di appalto. La Corte ha, infatti, rilevato che la clausola di un contratto di appalto, nella quale si preveda che tutti i danni che i terzi dovessero subire dall’esecuzione delle opere siano a totale ed esclusivo carico dell’appaltatore, rimanendone indenne il committente, non può essere da quest’ultimo invocata quale ragione di esenzione dalla propria responsabilità risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato per effetto di quei lavori, atteso che tale clausola, operando esclusivamente nei rapporti fra i contraenti, alla stregua dei principi generali sull’efficacia del contratto fissati dall’art 1372 c.c., non può vincolare il terzo a dirigere verso l’una, anziché verso l’altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito occasionato dall’esecuzione del contratto. L’esistenza di una clausola in tal senso avrebbe, semmai, consentito al committente di invocare la chiamata in causa, in garanzia impropria, dell’appaltatore.

2. Il contratto di assicurazione: premessa.

Il tema delle assicurazioni è stato ampiamente arato anche quest’anno dalla S.C., intervenuta, non solo, nell’ambito della responsabilità civile, ma anche in quello dell’assicurazione obbligatoria per la circolazione dei veicoli e dell’assicurazione sulla vita. Nel settore dell’assicurazione obbligatoria voi è stato un importante intervento delle S.U. circa la natura dell’azione diretta di regresso nei confronti degli autori del danno. L’assicurazione sulla vita ha visto un intervento circa l’applicabilità del diritto di recesso di cui all’art. 177 del d.lgs. n. 209 del 2005, n. 209 anche alle polizze infortuni.

2.1. L’assicurazione per la responsabilità civile.

Con riferimento agli elementi del contratto di assicurazione e, in particolare, del suo oggetto, la Corte è intervenuta con numerose pronunce nel corso del 2022.

In particolare:

Sez. 3, n. 12981/2022, Porreca, Rv. 664632-01, ha chiarito che il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole on claims made basis, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma 1, c.c., consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle claims made) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale on claims made basis vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso, considerandola non meritevole di tutela, l’operatività della clausola claims made, sul presupposto che essa non solo limitava la garanzia nei limiti della vigenza contrattuale – così escludendo gli esiti delle lungolatenze, tipici dei danni da responsabilità medica – ma affiancava detto limite ad una retroattività solo a “secondo rischio”.

Sez. 3, n. 12908/2022, Vincenti, Rv. 664813-01, ha, poi, precisato che la clausola claims made non integra una decadenza convenzionale, nulla ex art. 2965 c.c., nella misura in cui fa dipendere la perdita del diritto dalla scelta di un terzo, dal momento che la richiesta del danneggiato è fattore concorrente alla identificazione del rischio assicurato, consentendo pertanto di ricondurre tale tipologia di contratto al modello di assicurazione della responsabilità civile, nel contesto del più ampio genus dell’assicurazione contro i danni ex art. 1904 c.c., della cui causa indennitaria la clausola clams made è pienamente partecipe.

Sez. 3, n. 23961/2022, Rossetti, Rv. 665612-01, con la quale la Corte ha escluso l’operatività della garanzia assicurativa richiesta da un medico per aver egli formulato, al momento della stipula del contratto, una dichiarazione negativa circa l’esistenza di elementi suscettibili di fondare la propria responsabilità risarcitoria, pur avendo già ricevuto le rimostranze di una paziente per l’esito negativo di un intervento precedentemente effettuato. In proposito la Corte ha affermato che l’art. 1892 c.c. onera l’assicurato di comunicare all’assicuratore l’esistenza di fatti anche solo potenzialmente idonei a far sorgere la propria responsabilità, con la conseguenza che deve escludersi la nullità della clausola che riferisca il suddetto onere anche alla “percezione” dei presupposti della responsabilità, evocando pur sempre tale sostantivo il concetto di conoscenza, e non già di mera impressione.

Sez. 3, n. 23415/2022, Spaziani, Rv. 665606-02, ha, poi, affermato che “In tema di assicurazione contro i danni, la clausola contrattuale contemplante il risarcimento in forma specifica, predisposta unilateralmente dall’assicuratore, non può ritenersi vessatoria, non determinando uno squilibrio in suo favore dei diritti ed obblighi derivanti dal contratto, tenuto conto che, in linea generale, la concreta operatività di tale forma di risarcimento, ove materialmente possibile, trova un limite nelle esigenze di tutela del debitore, il quale può liberarsi mediante il risarcimento per equivalente, ove quello in forma specifica risulti per lui eccessivamente oneroso”. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la vessatorietà della clausola contenuta in un contratto di assicurazione contro i danni provocati da eventi naturali e fenomeni atmosferici, la quale, a fronte di una riduzione del premio, obbligava l’assicurato a far riparare il veicolo danneggiato presso una carrozzeria convenzionata con l’assicuratore, prevedendo, in caso contrario, un aumento della franchigia dal 10% al 30%.

Per quanto attiene al più generale agire delle parti Sez. 3, n. 04357/2022, Scoditti, Rv. 663939-03, ha affrontato la questione se l’accettazione senza riserve da parte dell’assicuratore di una rata di premio costituisca comportamento incompatibile con la volontà dell’assicuratore di avvalersi della sospensione. Sul punto nella giurisprudenza sono presenti due orientamenti. Secondo un primo orientamento l’accettazione senza riserve del premio pagato tardivamente costituisce rinuncia alla sospensione dell’efficacia del contratto. Si afferma in particolare che in applicazione del comma 2 dell’art. 1460 c.c. deve negarsi all’assicuratore la facoltà di rifiutare la garanzia assicurativa ove ciò sia contrario a buona fede, come nel caso in cui l’assicuratore medesimo abbia, sia pure tacitamente, manifestato la volontà di rinunciare alla sospensione, ad esempio tramite ricognizione del diritto all’indennizzo ovvero accettazione del versamento tardivo del premio senza effettuazione di riserve, nonostante la conoscenza del pregresso verificarsi del sinistro. (Sez. L, n. 15407/2000, Celentano, Rv. 542396-01). Secondo altro indirizzo più rigoroso la volontà di rinunciare all’effetto sospensivo, che può essere manifestata anche per facta concludentia, deve essere chiara ed inequivoca. Afferma Sez. 3, n. 09554/2002, Limongelli, Rv. 555490-01, che la rinunzia agli effetti della sospensione non può essere desunta dall’aver l’assicuratore accettato il tardivo pagamento del premio, ma deve manifestarsi con una specifica espressione di rinunzia da parte dell’assicuratore. Secondo tale indirizzo la volontà di rinunciare all’effetto sospensivo richiede un comportamento dell’assicuratore che implichi una volontà negoziale, ricognitiva del diritto all’indennizzo ed abdicativa del favorevole effetto di legge, volontà quindi che non può essere desunta dalla mera accettazione del tardivo pagamento del premio, trattandosi di circostanza di per sé equivoca. La pronuncia in esame condividendo il secondo indirizzo, conferma le sentenze pronunciate nei precedenti gradi di giudizio, e riafferma il principio di diritto secondo cui l’accettazione tacita e senza riserve, da parte dell’assicuratore, del pagamento tardivo di una polizza, non comporta alcuna rinuncia ad avvalersi della sospensione della copertura assicurativa prevista dall’art. 1901 comma secondo, c.c. Questa norma, infatti, stabilisce che “Se alle scadenze convenute il contraente non paga i premi successivi, l’assicurazione resta sospesa dalle ore ventiquattro del quindicesimo giorno dopo quello della scadenza”.

Quanto al requisito della forma Sez. 3, n. 18118/2022, F.M. Cirillo, Rv. 665074-01, collocandosi nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, ha rilevato che per i contratti di assicurazione la forma scritta è richiesta ad probationem e non ad substantiam, con la conseguenza che alla relativa carenza è possibile ovviare con un atto successivo.

Quanto al massimale dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore o dei natanti, qualora l’assicuratore sia sottoposto a liquidazione coatta amministrativa, Sez. 3, n. 08900/2022, Vincenti, Rv. 664253-01, ha affermato che il danno risarcibile dal Fondo di Garanzia per le vittime della strada, anche se lo stesso sta in giudizio per il tramite del suo rappresentante ex lege, costituito dall’impresa designata o cessionaria, resta assoggettato al limite fissato dall’art. 21, ultimo comma, della legge n. 990 del 1969, in forza del rinvio a detta norma operato dall’art. 4 del d.l. n. 576 del 1978, convertito nella legge n. 738 del 1978, cioè ai cosiddetti “massimali minimi di legge”, indicati nella tabella A allegata alla citata legge n. 990 del 1969, con gli adeguamenti disposti dai decreti emanati, con il procedimento di cui all’art. 9, comma secondo, della medesima legge n. 990, fino alla data della verificazione del sinistro ed a quella data vigenti, restando, viceversa, esclusa l’operatività retroattiva di eventuali decreti di adeguamento intervenuti dopo quella data (Sez. 3, n. 07247/2006, Trifone, Rv. 587987-01). Il limite del massimale minimo di legge cosi` individuato può, tuttavia, essere superato in ipotesi di ingiustificato ritardo nell’adempimento dell’obbligo risarcitorio gravante sul Fondo di Garanzia nei confronti del danneggiato (cosiddetta mala gestio impropria) e con riferimento a quanto risulti dovuto per interessi legali e rivalutazione monetaria, decorrenti dalla scadenza del termine previsto – quale spatium deliberandi – dall’art. 22 della legge n. 990 del 1990, che si identifica con quello della costituzione in mora. Tale principio risulta ribadito da Sez. 6-3, n. 08676/2022, Rossetti, Rv. 664608-01.

Sez. 3, n. 01786/2022, Scarano, Rv. 663709-01, ha esaminato il caso della responsabilità della compagnia di assicurazione per fatto del proprio dipendente e, in particolare, ha affermato che la responsabilità ex art. 2049 c.c. della prima per l’attività illecita posta in essere dal proprio agente è esclusa ove il danneggiato pone in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quantomeno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sull’agente. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, nell’accogliere la domanda dell’acquirente di una polizza di assicurazione sulla vita, poi rivelatasi inesistente, non aveva tenuto conto della condotta della stessa, la quale aveva in più occasioni consegnato all’agente somme di danaro in contanti, ricevendone meri certificati di copertura provvisoria, senza mai richiedere il rilascio di quietanza né di copia del contratto.

Passando agli aspetti processuali involgenti la domanda di risarcimento derivante da un contratto di assicurazione, Sez. 3, n. 21218/2022, Rossetti, Rv. 665210-01, ha affermato che nel giudizio di surrogazione proposto dall’assicuratore nei confronti del terzo responsabile, il primo assume la medesima posizione che, in un giudizio di danno, avrebbe assunto l’attore danneggiato, sicché su di lui incombe l’onere di provare l’esistenza e l’entità del danno, non essendo a tal fine sufficiente l’esibizione di un accordo transattivo raggiunto con l’assicurato, atteso che, da un lato, tale accordo non può produrre effetti de iure tertii in danno del responsabile e, dall’altro, la transazione, esigendo reciproche concessioni, è per definizione inidonea a dimostrare l’entità effettiva del pregiudizio.

Sotto il diverso profilo dell’azione proposta dal terzo danneggiato Sez. 3, n. 21220/2022, Rossetti, Rv. 665183-01, ha chiarito che la clausola inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, la quale stabilisca che l’assicurato, se convenuto dal terzo danneggiato, non ha diritto alla rifusione delle spese sostenute per legali o tecnici non designati dall’assicuratore, è nulla ex art. 1932 c.c., dal momento che deroga in pejus al disposto dell’art. 1917, comma 3, c.c. Osserva la S.C. che la legge non pone condizioni al diritto dell’assicurato di ottenere il rimborso delle suddette spese. Resta solo da aggiungere che le spese di resistenza sostenute dall’assicurato sono affrontate nell’interesse comune di questi e dell’assicuratore. Esse costituiscono perciò spese di salvataggio ai sensi dell’art. 1914 c.c., e sono soggette alla regola che ne subordina la rimborsabilità al fatto che non siano state sostenute avventatamente (art. 1914, secondo comma, c.c., il quale non e` che una applicazione particolare del generale principio di cui all’art. 1227, secondo comma, c.c.). Resta, poi, fermo il principio secondo cui il diritto dell’assicurato alla rifusione, da parte dell’assicuratore, delle spese sostenute per resistere all’azione promossa dal terzo danneggiato, ai sensi dell’art. 1917, comma 3, c.c., presuppone la dimostrazione dell’avvenuto corrispondente esborso da parte dell’assicurato medesimo, tenuto conto del tenore letterale della norma (formulata nel senso che tali spese siano state, per l’appunto, “sostenute”), nonché del disposto dell’art. 1914, comma 2, c.c., che pone a carico dell’assicuratore le spese di salvataggio fatte dall’assicurato. (Sez. 6-3, n. 21290/2022, Cricenti, Rv. 665207-01).

La Corte ha, poi, affrontato il caso di un mass tort come il blackout elettrico e, in particolare, se è ammissibile un’iniziativa giudiziaria generalizzata e, talvolta, anche preventiva da parte delle società danneggianti nei confronti delle loro assicurazioni per sentir accertare la copertura assicurativa e ottenere la manleva di quanto già pagato o che dovrà essere pagato all’esito dei singoli giudizi di danno ai quali rimane estranea l’assicurazione. Ebbene, Sez. 3, n. 12969/2022, Dell’Utri, Rv. 664814-01, ha dichiarato inammissibile l’azione dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore volta ad ottenere l’accertamento della copertura assicurativa per responsabilità civile in relazione a un fatto che abbia cagionato una pluralità di danni e la conseguente condanna a rivalerlo di quanto pagato o comunque dovuto ai danneggiati per l’effetto di condanne – pregresse o anche future – in esito a giudizi privi della partecipazione dell’assicuratore. A fondamento di tale pronuncia la S.C. ha rilevato che tale iniziativa giudiziaria mira a conseguire per via giudiziaria l’imposizione all’assicuratore dell’efficacia riflessa del giudicato, pretesa non riconosciuta dall’ordinamento giuridico, che non ammette che il giudicato possa produrre effetti nei confronti di terzi rimasti estranei al processo, nemmeno quando essi siano titolari di una situazione giuridica dipendente. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva accertato l’operatività della polizza assicurativa stipulata da Enel S.p.A. ed Enel Distribuzione S.p.A. con la propria compagnia assicuratrice e conseguentemente condannato quest’ultima a manlevare le società assicurate in relazione a quanto da esse pagato o da pagarsi a terzi a causa del blackout verificatosi nel 2003, per il quale dette società erano state condannate, in numerosi giudizi, a risarcire i danni in favore degli utenti.

Sez. 3, n. 11319/2022, Spaziani Rv. 664628-01, ha affrontato il tema dei limiti del risarcimento danni nei casi si mala gestio dell’assicuratore e, in particolare, del contenuto della relativa domanda processuale. La S.C. ha, sul punto, affermato che la responsabilità per mala gestio dell’assicuratore c.d. impropria – che deriva dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione di pagamento diretto verso il danneggiato – ha come conseguenza l’obbligo di corrispondere gli interessi ed eventualmente il maggior danno ex art. 1224, comma 2 c.c., anche in eccedenza rispetto al massimale; la responsabilità per mala gestio c.d. propria – derivante dal ritardo nell’adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti dell’assicurato per violazione dell’obbligo dell’assicuratore di comportarsi secondo correttezza nell’esecuzione del contratto ex artt. 1175 e 1375 c.c., comporta il diritto dell’assicurato al pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi oltre il massimale di polizza, ma l’ammissibilità di tale pretesa, avente specifici petitum e causa petendi, postula la proposizione di una specifica domanda, con allegazione dei comportamenti che sostanziano la mala gestio, sin dall’atto introduttivo del giudizio e non può ritenersi contenuta nella domanda di garanzia, avente diverso petitum e causa petendi.

Infine, Sez. 2, n. 01475/2022, Scarpa, Rv. 663631-01, ha affermato che l’eccezione con la quale l’impresa assicuratrice fa valere il limite del massimale di polizza, essendo destinata a configurare ed a delimitare contrattualmente il diritto dell’assicurato e il corrispettivo obbligo dell’assicuratore non configura un’eccezione in senso stretto e, conseguentemente, può essere proposta per la prima volta in appello.

2.2. L’assicurazione obbligatoria.

Sez. U, n. 21514/2022, Scrima, Rv. 665191-01, hanno chiarito la natura giuridica dell’azione nei confronti del danneggiante, partendo dal caso di un veicolo non assicurato condotto da un soggetto terzo rispetto al proprietario e, dunque, dell’azione dell’impresa designata dal Fondo vittime della strada (una volta pagato il danneggiato) nei confronti del danneggiante. In particolare, le SSUU sono intervenute al fine di risolvere il contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione relativa alla natura giuridica dell’azione di cui all’art. 292 del Codice delle Assicurazioni. Secondo un primo orientamento tale azione non trova titolo nel diritto del danneggiato a risarcimento dei danni ma sarebbe un’azione autonoma e specifica prevista dalla legge; secondo altro orientamento, l’azione recuperatoria ex articolo 292 deve essere ricondotta all’ambito della surrogazione legale ex art. 1203, numero 5, c.c. attribuendosi all’impresa designata il medesimo diritto vantato dal danneggiato; secondo un terzo orientamento si tratterebbe di un’azione speciale La diversa soluzione scelta, secondo l’ordinanza interlocutoria comporta rilevanti ricadute in relazione al termine di prescrizione e alla decorrenza dell’azione, oltre che sulla necessità o meno del previo accertamento della responsabilità dell’autore dell’illecito e sull’applicabilità dell’articolo 2055 c.c. Con la pronuncia in esame si è affermato che l’azione di regresso nei confronti dei responsabili del sinistro per il recupero dell’indennizzo pagato nonché degli interessi e delle spese, prevista dall’art. 292, comma 1, d.lgs. n. 209 del 2005 (codice delle assicurazioni private) ed esercitata dall’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, ha natura autonoma e speciale rispetto a quella sorta dal sinistro tra danneggiante e danneggiato – non essendo assimilabile né allo schema del regresso tra coobbligati solidali, né a quello della surrogazione nel diritto del danneggiato – in ragione della peculiarità della solidarietà passiva, atipica e ad interesse unisoggettivo, esistente, nel sistema dell’assicurazione obbligatoria, tra impresa assicuratrice e responsabile civile. La soluzione sopra indicata discende dall’evidenziato carattere solidaristico dell’obbligazione, che la legge pone in capo all’impresa designata per il Fondo, che conforma la natura e la disciplina dell’azione prevista dal primo comma dell’art. 292 cit. che risultano del tutto peculiari. Ed invero all’esigenza, considerata di pubblico interesse, di garantire il risarcimento dei danni alle vittime della strada, nel caso di inoperatività o inesistenza di una polizza assicurativa relativa al veicolo che ha causato il sinistro, non può che accompagnarsi anche l’esigenza di assicurare un efficace recupero del sacrificio solidaristicamente imposto dalla legge all’impresa designata. Dalla atipicità del vincolo solidale discende che l’impresa designata può agire per il recupero dell’intero importo corrisposto al danneggiato nei confronti del responsabile civile (o dei responsabili, conducente e proprietario) nell’ipotesi danno cagionato da veicolo non identificato o sprovvisto di copertura assicurativa (nonché negli altri casi previsti dal primo comma dell’art. 292 del d.lg n. 209 del 2005, con la conseguenza che, in caso di sinistro imputabile a più responsabili (come nel caso del conducente diverso dal proprietario del veicolo) l’impresa designata può pretendere da uno qualsiasi dei responsabili l’intero importo pagato.

Consegue da tutto quanto sopra che la competenza territoriale deve essere individuata con riferimento al luogo del domicilio del creditore agente e che il termine di prescrizione applicabile è quello ordinario decennale, che comincia a decorrere dalla data del pagamento effettuato.

Altra pronuncia rilevante intervenuta nel 2022 in materia è quella resa da Sez. 3, n. 30723/2022, Frasca, Rv. 666048-01, con la quale la Corte ha delineato il concetto di circolazione stradale. In proposito con tale sentenza si è affermato che “Rientra nel concetto di circolazione stradale ex art. 2054 c.c., dando luogo all’applicabilità della normativa sull’assicurazione per la R.C.A., la sosta instabile del veicolo senza che alcuno degli occupanti sia alla guida – intesa come guida funzionale all’effettivo movimento – e il suo conseguente movimento autonomo”. Nella specie, la S.C. ha ricondotto il sinistro di un’auto incautamente posta in sosta in prossimità del margine di una banchina e, successivamente, caduta in acqua, alla responsabilità derivante da circolazione stradale.

Particolare importanza ha assunto nell’anno 2022 la sentenza Sez. U, n. 35318/2022, Sestini, Rv. 666369-03, che ha esaminato la portata dell’art. 141 c. ass. e, dunque, dell’azione diretta in favore del terzo trasportato. Con tale pronuncia si è, infatti, affermato che “L’azione diretta prevista dall’art. 141 c.ass. in favore del terzo trasportato è aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall’ordinamento e mira ad assicurare al danneggiato una tutela rafforzata, consentendogli di agire nei confronti dell’assicuratore del vettore e di ottenere il risarcimento del danno a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, fatta salva la sola ipotesi di sinistro causato da caso fortuito; la tutela rafforzata così riconosciuta presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli, pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi, e si realizza mediante l’anticipazione del risarcimento da parte dell’assicuratore del vettore e la possibilità di successiva rivalsa di quest’ultimo nei confronti dell’impresa assicuratrice del responsabile civile, con la conseguenza che, nel caso in cui nel sinistro sia stato coinvolto un unico veicolo, l’azione diretta che compete al trasportato danneggiato è esclusivamente quella prevista dall’art. 144 c.ass., da esercitarsi nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile”. Con la medesima pronuncia si è, poi, precisato che l’art. 141 c.ass. disciplina un’azione di carattere eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica, con la conseguenza che la stessa non può essere estesa ai danni subiti iure proprio dai congiunti del trasportato deceduto in conseguenza del sinistro, risultando, invece, applicabile nell’ipotesi in cui i congiunti richiedano il risarcimento iure hereditatis del danno cd. terminale subito dallo stesso trasportato a causa del sinistro. Infine, le Sezioni unite hanno anche affermato che la nozione di “caso fortuito”, prevista come limite all’applicabilità dell’azione diretta del terzo trasportato ex art. 141 c.ass., riguarda l’incidenza causale di fattori naturali e umani estranei alla circolazione, risultando invece irrilevante la condotta colposa dell’altro conducente, posto che la finalità della norma è quella di impedire che il risarcimento del danno subito dal passeggero venga ritardato dalla necessità di compiere accertamenti sulla responsabilità del sinistro.

Sempre con riferimento all’art. 141 c.ass. la richiamata Sez. 3, n. 30723/2022, Frasca, Rv. 666048-02, ha fornito una definizione di trasportato, affermando che “In tema di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, ai sensi dell’art. 122, comma 1, del codice delle assicurazioni, fra i terzi – a beneficio dei quali opera l’assicurazione di un veicolo nel caso di scontro con altro veicolo – sono ricompresi i soggetti “lato sensu” trasportati su quest’ultimo e cioè sia chi si trovi a bordo di esso in quanto condotto da altri, sia chi lo conduce; diversamente il successivo comma 2 – in cui viene in rilievo l’assicurazione del veicolo su cui ha luogo il trasporto e, dunque, si voglia far valere una responsabilità in garanzia dell’assicurazione del veicolo – è riferito esclusivamente a chi risulti trasportato sul veicolo senza essere il conducente, in quanto terzo rispetto quest’ultimo tenuto all’obbligo risarcitorio”. Con riferimento al medesimo tema, Sez. 6-3, n. 27263/2022, Scrima, Rv. 665721-01, ha precisato la portata dell’art. 141 c. ass. e, pertanto, ha rilevato che ai sensi della suindicata disposizione la persona trasportata può avvalersi dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro soltanto se in quest’ultimo siano rimasti coinvolti ulteriori veicoli, pur in mancanza di un urto materiale. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la ricorrenza di tale fattispecie, a fronte della deduzione dell’attore di aver subìto lesioni fisiche a causa del malfunzionamento del sedile posteriore dell’autovettura nella quale stava prendendo posto, senza far riferimento alla movimentazione della stessa e alla presenza o meno del conducente.

La Corte si è, poi, occupata dei sinistri che vedono coinvolti due o più veicoli affermando i seguenti principi.

Sez. 3, n. 30726/2022, F.M. Cirillo, Rv. 666049-01, ha affermato che “Nel caso di sinistro stradale con pluralità di danneggiati, il terzo trasportato ha diritto, ai sensi dell’art. 141 c.ass., al risarcimento del danno da parte dell’assicuratore del veicolo a bordo del quale si trovava, nei limiti del massimale minimo di legge (da ripartirsi secondo il criterio di cui all’art. 140 c.ass.), potendo agire per l’eventuale maggior danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile”. Nel caso di specie la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, a fronte della domanda ex art. 141 c.ass. da parte del terzo trasportato su uno dei due veicoli coinvolti nell’incidente, aveva ritenuto legittima l’offerta, da parte dell’assicuratore del veicolo a bordo del quale si trovava, di un importo inferiore al massimale minimo di legge, nonostante i terzi trasportati sull’altro veicolo non avessero proposto, a loro volta, domanda nei confronti di tale assicuratore, chiedendo anzi di essere estromessi dal giudizio.

Con particolare riguardo al risarcimento del danno da sinistro stradale occorso ad un lavoratore e, in particolare alla surroga dell’INAIL, si segnala Sez. 3, n. 14981/2022, Rossetti, Rv. 664824-02, che ha affrontato il caso in cui, una volta ricevuta la richiesta di risarcimento da parte del danneggiato, l’assicurazione del danneggiante aveva provveduto all’intero risarcimento in assenza di comunicazione da parte dell’INAIL circa l’eventuale diritto a prestazioni da parte dell’assicuratore sociale (ex art. 142 codice delle assicurazioni). In particolare, nel giudizio a quo la compagnia di assicurazione chiedeva che in ragione di quanto sopra fosse affermato che non era tenuta ad alcun accantonamento a favore dell’assicuratore sociale. La S.C. in accoglimento del ricorso ha affermato che il silenzio dell’assicuratore sociale nei termini sopra indicati non libera l’assicuratore della r.c.a. dall’obbligo di accantonamento ivi previsto, se quest’ultimo, al momento in cui versa il risarcimento alla vittima, abbia già appreso aliunde, in qualunque modo, della volontà dell’assicuratore sociale di surrogarsi al danneggiato. Ha precisato la S.C. che l’art. 142 cit. ha, tra gli altri suoi scopi sopra riassunti, quello di tutelare l’affidamento dell’assicuratore della r.c.a., ingenerato dal silenzio dell’assicuratore sociale, ne discende che l’applicabilità di tale norma sta e cade con la sua ratio, e cioè l’esistenza d’un affidamento da tutelare. Affidamento che non può esservi quando l’assicuratore della r.c.a., al momento in cui paga il risarcimento dovuto alla vittima, sappia che l’assicuratore sociale ha manifestato l’intenzione di surrogarsi (come avvenuto nel caso di specie con l’intervento in giudizio spiegato dall’INAIL). Con la medesima pronuncia si è affermato che la volontà di surrogarsi nel diritto al risarcimento del danno, manifestata dall’assicuratore sociale al solo danneggiato cui abbia corrisposto l’indennizzo, è opponibile all’assicuratore della r.c.a. che abbia successivamente versato l’intero risarcimento solo se risulti che quest’ultimo, al momento del pagamento, fosse a conoscenza dell’avvenuta surrogazione, applicandosi, in caso contrario, l’art. 1189 c.c. La S.C. ha, poi, precisato che nel caso, poi, in cui l’assicuratore sociale non abbia manifestato all’assicuratore della r.c.a. la volontà di surrogarsi nel diritto al risarcimento del danno del danneggiato, nel termine di quarantacinque giorni previsto dall’art. 142 c.ass., perde il relativo diritto con riferimento ai soli danni che l’assicuratore della r.c.a. abbia risarcito alla vittima, ma non anche relativamente alle somme versate all’assistito a titolo di indennizzo di danni di cui questi non abbia chiesto né ottenuto il risarcimento. In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, in mancanza della comunicazione ex art. 142 c.ass., aveva escluso il diritto di surrogazione dell’INAIL relativamente alle somme versate a titolo di indennità giornaliera ex art. 68 del d.P.R. n. 1124 del 1965, rilevando come tale emolumento, indennizzando il danno patrimoniale da perdita della retribuzione, non fosse riconducibile al danno biologico risarcito al danneggiato dall’assicuratore della r.c.a. (Sez. 3, n. 14981/2022, Rossetti, Rv. 664824-03).

Con specifico riferimento al caso in cui l’assicuratore della r.c.a., ritardi il pagamento del risarcimento a favore della vittima di un incidente stradale e, dunque, versi in mora (condizione, questa, che si verifica in virtù del mero decorso del termine ex art. 148, commi 1 e 2, c.ass., e che non è esclusa dalla difficoltosa ricostruzione della dinamica del sinistro o dall’intervento delle assicurazioni sociali o, ancora, dal difetto di prova di alcune voci di danno richieste dalla vittima), è tenuta, nel caso in cui il debito sia inferiore al massimale, a pagare al danneggiato gli stessi interessi compensativi dovuti dal responsabile ex art. 1219 c.c. (calcolati al saggio e sul montante stabiliti da Cass., Sez. Un., n. 1712 del 1995), e laddove, invece, il debito sia superiore al detto massimale, a corrispondere gli interessi di mora su quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1224, commi 1 e 2, c.c. (Sez. 6-3, n. 04668/2022, Rossetti, Rv. 664075-01). Sez. 3, n. 20778/2022, Frasca Rv. 665113-02, ha, poi, affermato che l’assicuratore, per non incorrere in responsabilità per mala gestio, deve effettuare, nei confronti di coloro che abbiano presentato la richiesta stragiudiziale di risarcimento, l’offerta di cui all’art. 148, comma 2, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, applicando, in caso di incapienza del massimale, il criterio di cui al comma 1 dell’art. 140 del medesimo decreto.

Particolare rilievo assume la pronuncia della Sez. 3, n. 31345/2022, Rossetti, Rv. 666079-03, che si è occupata del patto denominato “appendice di vincolo”. La Corte ha precisato che esso costituisce un accordo trilatero in virtù del quale l’assicuratore si obbliga, in caso di sinistro, a versare l’indennizzo nelle mani del terzo vincolatario ovvero a non versarlo all’assicurato se non previa autorizzazione del vincolatario stesso. Tale patto ha la funzione di garantire un creditore dell’assicurato al pari della “surrogazione dell’indennità alla cosa”, dalla quale differisce, sia perché prescinde dall’esistenza di un diritto reale di garanzia sul bene assicurato (presupposto dell’istituto ex art. 2742 c.c.), sia perché il patto di vincolo attribuisce il diritto all’indennizzo direttamente al creditore dell’assicurato, mentre l’art. 2742 c.c. demanda all’assicurato la scelta se impiegare l’indennizzo assicurativo per ripristinare i beni distrutti o lasciare che sia versato ai creditori; ne consegue che, trattandosi di fattispecie diverse, le previsioni normative della surrogazione dell’indennità alla cosa non sono applicabili all’appendice di vincolo. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto inapplicabile alla clausola di “appendice di vincolo” la disciplina in forza della quale il creditore dell’assicurato non può vantare alcun credito nei confronti dell’assicuratore, se l’assicurato destina l’indennizzo alla ricostruzione dei beni ipotecati che siano stati distrutti dal sinistro.

Con specifico riferimento a temi processuali, si riportano le seguenti pronunce.

Sez. 3, n. 13501/2022, Pellecchia, Rv. 664817-01, ha precisato che nei giudizi sulla responsabilità civile derivante da circolazione stradale, il conducente di un veicolo coinvolto nel sinistro è incapace a deporre ai sensi dell’art. 246 c.p.c., in quanto titolare di un interesse giuridico, e non di mero fatto, all’esito della lite introdotta da altro danneggiato contro un soggetto potenzialmente responsabile, indipendentemente dalla circostanza che il diritto del testimone sia prescritto oppure estinto per adempimento o rinuncia, poiché potrebbe sempre teoricamente intervenire per il risarcimento di danni a decorso occulto o lungolatenti o sopravvenuti. Sez. 3, n. 27075/2022, Rubino, Rv. 665901-01, ha, poi, sancito che “In tema di sinistro stradale con pluralità di danneggiati, l’assicuratore del vettore che, dopo aver risarcito i trasportati ed i loro congiunti, agisca in rivalsa contro l’assicuratore del veicolo responsabile, si surroga nei diritti dei creditori indennizzati, partecipando al concorso con gli altri; pertanto, l’assicuratore del responsabile potrà essere condannato a pagare il credito in rivalsa nei limiti del massimale, ovvero anche oltre il medesimo, a seconda che abbia adempiuto o meno agli obblighi posti a suo carico dall’art. 140 c.ass., adoperandosi per assicurare la presenza in giudizio di tutti i potenziali danneggiati, restando l’onere di attivarsi nei confronti dei creditori già soddisfatti, per recuperare quanto pagato in eccesso, nel primo caso a carico dell’assicuratore del vettore, e nel secondo di quello del responsabile”. Infine, Sez. 3, n. 32919/2022, Rossetti, Rv. 666114-01, ha affermato che l’azione diretta proposta dalla vittima di un sinistro stradale nei confronti dell’assicuratore della r.c.a. è proponibile anche se preceduta da una richiesta stragiudiziale non conforme alle prescrizioni dell’art. 148 c.ass., se l’assicuratore non si sia avvalso della facoltà di chiederne l’integrazione, ai sensi del quinto comma della norma citata.

2.3. L’assicurazione sulla vita.

Nel corso dell’anno la S.C. ha effettuato degli interventi incisivi in materia di contratto sulla vita apportando un contributo chiarificatore su alcuni aspetti della disciplina rimasti ancora in alcuni coni d’ombra.

Sez. 3, n. 12264/2022, Dell’Utri, Rv. 664815-01, ha affermato che il diritto di recesso di cui all’art. 177 del d.lgs. n. 209 del 2005, n. 209 – previsto, con riguardo ai contratti di assicurazione sulla vita, al fine di garantire l’espressione di un consenso ponderato e consapevole, attese le “asimmetrie informative” fra assicuratore e contraente, particolarmente rilevanti nel ramo vita in considerazione del normale carattere duraturo del vincolo imposto al contraente, dell’elevato tecnicismo di tali polizze e della loro frequente collocazione mediante “tecniche aggressive”, assimilabili a quelle seguite nella collocazione degli strumenti finanziari – è applicabile al contratto di assicurazione contro gli infortuni (anche) mortali non già in virtù di una aprioristica e astratta riconduzione di tale schema contrattuale al tipo dell’assicurazione sulla vita, trattandosi di contratto di per sé del tutto privo di contenuto finanziario e a cui rimane estranea la previsione di alcun piano di accumulo, di alcun diritto di riscatto e di alcuna funzione previdenziale, ma all’esito della concreta valutazione di compatibilità della ratio della norma suddetta con lo specifico assetto di interessi che le parti hanno inteso realizzare attraverso la stipulazione della singola polizza.

3. I contratti agrari.

Con riferimento a tali contratti si segnalano nel corso del 2022 due decisioni della Corte che hanno delimitato i limiti di applicabilità e di operatività delle norme che disciplinano tali accordi.

Un primo insieme di pronunce si sono occupate dell’alienazione del fondo e delle norme che regolano la relativa vicenda.

Con una prima pronuncia (Sez. 3, n. 11491/2022, Rossetti, Rv. 664514-01) ha affermato che, ai fini dell’esercizio del riscatto agrario, il soggetto retrattante, in assenza di collaborazione dei venditori, deve necessariamente effettuare il versamento del prezzo – alla cui tempestiva esecuzione è subordinata l’efficacia del riscatto – mediante l’offerta reale ex art. 1208 c.c., non potendo valersi di un’offerta non formale – la quale non estingue l’obbligazione, ma produce il solo effetto di non incorrere nella mora del debitore – ed essendo irrilevante la pretesa obsolescenza e macchinosità della mora credendi, la cui disciplina è fondata su esigenze di certezza giuridica. Alla luce di tali principi la S.C. ha riformato la sentenza di merito che aveva affermato che le norme sull’offerta reale debbono essere interpretate alla luce dei principi di correttezza e buona fede; che tali principi impongono al creditore di cooperare con il debitore per consentire l’adempimento dell’obbligazione; di talché, nel caso di specie, tale cooperazione era mancata in quanto i creditori avevano restituito, senza alcuna valida ragione, l’assegno circolare loro inviato dal retrattante.

Con una seconda pronuncia Sez. 3, n. 34929/2022, Sestini, Rv. 666277-01, si è, poi, affermato che “In tema di prelazione agraria, il versamento del prezzo da parte del retraente vittorioso va eseguito nei confronti dell’acquirente retrattato, in quanto il primo subentra con effetto “ex tunc” nella posizione del retrattato che non può, quindi, che essere il destinatario del pagamento del prezzo; conseguentemente va escluso che, qualora il bene venga dal retrattato alienato a terzi nel corso del giudizio di riscatto, il prezzo debba essere corrisposto in favore del nuovo acquirente – destinatario unicamente dell’eventuale azione di rilascio – il quale dovrà invece agire nei confronti del proprio dante causa per veder soddisfatta la propria pretesa al recupero del prezzo pagato per l’acquisto”.

Con una terza sentenza, Sez. 3, n. 34196/2022, Sestini, Rv. 666173-01, ha, poi, precisato, che in caso di alienazione del fondo in violazione del diritto di prelazione, il retraente è tenuto a versare all’acquirente il prezzo risultante nel contratto di vendita trascritto, senza possibilità, per il retrattato, di provare che prezzo di acquisto è stato superiore a quello indicato nell’anzidetto contratto, trattandosi di circostanza rilevante esclusivamente nei rapporti tra alienante e acquirente retrattato ai fini della garanzia per evizione che sia fatta valere da quest’ultimo.

Con una quarta sentenza, sempre afferente al tema più generale della successione nel rapporto tra le parti originarie del contratto agrario, Sez. 3, n. 34411/2022, Rossi, Rv. 6662710-01, ha affermato che “In tema di contratti agrari, ai sensi dell’art. 49, comma 1, della l. n. 203 del 1982, la successione dell’erede all’affittuario coltivatore diretto nel contratto agrario, di cui era già parte il “de cuius”, è possibile, sempre che il preteso successore dimostri la ricorrenza delle condizioni richieste dalla legge. Ne consegue che, in caso di contestazione, chi intenda subentrare nel rapporto non deve soltanto dedurre la propria qualità di erede dell’affittuario, ma è anche tenuto a fornire la prova di essere “imprenditore agricolo a titolo principale” (ora qualificato “imprenditore agricolo professionale“ dall’art. 1 d.lgs. n. 99 del 2004), coltivatore diretto o, ancora, eventualmente, soggetto equiparato ai coltivatori diretti ex art. 7, comma 2, della l. n. 203 del 1982 e di avere esercitato e di continuare ad esercitare, al momento dell’apertura della successione, attività agricola sui terreni coltivati dal “de cuius””.

La Corte si è, poi, occupata della controversia relativa all’indennità per i miglioramenti apportati al fondo agricolo oggetto di contratto di affitto di azienda agricola (Sez. 6-3, n. 09781/2022, Guizzi, Rv. 664454-01), affermando che essa rientra nella competenza esclusiva delle sezioni specializzate agrarie, essendo attribuite a detto giudice tutte le controversie in materia di contratti agrari, sia sotto il profilo della genesi del rapporto che del suo funzionamento o della sua cessazione, anche ove la decisione venga assunta sulla base delle norme generali del codice civile; è irrilevante, pertanto, che la domanda sia proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c. piuttosto che dell’art. 17 della l. n. 203 del 1982, stante la natura indennitaria, e non risarcitoria, della pretesa azionata, che configura una ipotesi di responsabilità da atto lecito connessa con attività realizzate nell’esecuzione del contratto.

Sez. 3, n. 34131/2022, Condello, Rv. 666154-01, ha ribadito il costante e consolidato orientamento di questa Corte che ha, in più occasioni, precisato che una domanda in materia di contratti agrari inizialmente proposta innanzi a giudice incompetente non deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione in sede stragiudiziale neppure prima della riassunzione davanti alla sezione specializzata agraria, a seguito della pronuncia con cui il giudice adito, o, eventualmente, la Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza, preso atto della eccezione riconvenzionale di parte convenuta, abbia dichiarato l’incompetenza per materia del giudice originariamente adito. E ciò perché la riassunzione non comporta l’instaurazione di un nuovo rapporto processuale, ma costituisce la prosecuzione di quello promosso davanti al giudice dichiaratosi incompetente. Alla stregua dei superiori principi, la Corte ha affermato che “In materia di contratti agrari, la domanda inizialmente proposta dinanzi ad un giudice dichiaratosi incompetente (o dichiarato tale in esito a regolamento di competenza) non va preceduta dal tentativo di conciliazione in sede stragiudiziale, di cui all’art. 46 della l. n. 203 del 1982, prima della riassunzione della causa davanti alla sezione specializzata agraria”.

4. La fideiussione e più in generale la tutela del credito tra garanzie tipiche e atipiche.

Con riferimento alle forme contrattuali aventi come finalità quelle dell’accesso al credito e di tutela della posizione creditoria, assumono rilievo le garanzie atipiche o improprie, sia personali che reali, diffuse nella prassi bancaria e commerciale, che presentano punti in comune con la fideiussione, ma se ne distaccano per alcuni decisivi caratteri. Si tratta di fattispecie nate in ragione delle mutate esigenze del mercato rispetto a quelle esistenti al tempo di adozione del codice, nonché delle difficoltà di accesso al credito e della collegata esigenza di trovare nuove forme di tutela del creditore, e frutto di successiva elaborazione da parte della giurisprudenza di legittimità.

In tale contesto si collocano i Confidi (acronimo di “consorzio di garanzia collettiva dei fidi”) e si tratta di un consorzio che aiuta le PMI a ottenere mutui e prestiti dalle banche e dagli istituti di credito; mutui o prestiti negati per le piccole dimensioni e il ridotto patrimonio dell’impresa richiedente. La storia dei Confidi ha radici profonde in Italia: le prime associazione di mutua assistenza sono dei primi anni ‘50, mentre l’ultima riforma che disciplina la garanzia dei fidi è del 2003 (d.l. n. 326 del 2003). Oggi, la gestione dei Confidi è regolamentata dal Testo Unico Bancario (TUB). Nonostante le evoluzioni legislative, c’è un elemento che non è mai cambiato negli anni: sono e rimangono da sempre la massima espressione della collaborazione e solidarietà tra aziende di ogni settore. Con riferimento a tale fenomeno Sez. U, n. 08472/2022, Lamorgese, Rv. 664221-01, ha affermato il principio secondo cui “In tema di attività di prestazione di garanzie a opera di soggetti vigilati, la fideiussione prestata da un cd. confidi minore, iscritto nell’elenco di cui all’art. 155, comma 4, T.u.b. (nel testo vigente ratione temporis), nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario, non è nulla per violazione di norma imperativa, non essendo la nullità prevista in modo testuale, né ricavabile indirettamente dalla previsione secondo la quale detti soggetti svolgono esclusivamente l’attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali per favorire il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario, in quanto il rilascio di fideiussioni è attività non riservata a soggetti autorizzati (come gli intermediari finanziari ex art. 107 T.u.b.), né è preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale”.

Nel caso in esame, osservano le S.U., viene in rilievo un contratto di fideiussione concluso dal Consorzio di Garanzia (neppure nei confronti del pubblico ma) nell’interesse di un proprio associato a garanzia di un credito derivante da un contratto (estimatorio) non bancario. Si tratta di un contratto di fideiussione di diritto comune, la cui stipulazione non e` riservata ai soggetti autorizzati dal T.u.b. e non può dirsi, in mancanza di specifiche disposizioni proibitive, “vietata” a un soggetto come il Consorzio di Garanzia che, prima di essere un confidi, e` una società cooperativa a.r.l., il cui oggetto sociale, tra l’altro, gli consentiva di prestare garanzie personali e reali e di operare anche con terzi non soci. Osservano ancora le S.U. che la fideiussione non e` un contratto indefettibilmente “bancario”, ne´ tale la considera il codice civile; non e` corredata di una disciplina negoziale ad hoc allorché uno dei suoi contraenti sia una banca o altro soggetto autorizzato dal TUB, ad eccezione che per le regole di trasparenza (titolo VI del T.u.b.) che qui non vengono in rilievo. Per il resto, la disciplina legislativa di questa figura e` identica tanto che la fideiussione sia prestata da una banca, quanto da un altro soggetto, e non diversamente avviene nel caso in cui creditore garantito dalla fideiussione sia una banca. Conclude la Corte che dalla disciplina secondo le quali i cd. “confidi minori” svolgono “esclusivamente” l’attività di garanzia collettiva dei fidi, al fine di favorire l’accesso al credito bancario delle piccole e medie imprese associate, non e` possibile desumere implicitamente un divieto assoluto di svolgere attività diverse. Si dovrebbe altrimenti postulare che, secondo il codice civile, chiunque possa rilasciare fideiussioni, ad eccezione delle cooperative, alle quali sarebbe inibito di prestarle a favore dei propri associati.

Con specifico riferimento al contratto di fideiussione, Sez. 1, n. 34685/2022, Pazzi, Rv. 666243-01, ha affermato che qualora essa abbia ad oggetto un’obbligazione futura, il garante che chieda la liberazione della garanzia invocando l’art. 1956 c.c., ha l’onere di provare che successivamente alla prestazione della garanzia in parola, il creditore, senza la sua autorizzazione, abbia fatto credito al terzo pur essendo consapevole di un peggioramento delle sue condizioni economiche in misura tale da ingenerare il fondato timore che questi potesse divenire insolvente, il che non è ravvisabile nella mera circostanza di un saldo negativo dei conti correnti del garantito.

Nel corso dell’anno 2022 la Corte di cassazione ha, poi, esaminato diverse forme contrattuali aventi le finalità sopra descritte, riconoscendo loro tutela giuridica in ragione degli interessi da esse perseguiti.

Quanto alle forme di garanzia personale atipiche, assumono rilievo alcune sentenze relative al contratto autonomo di garanzia, che si distingue dalla fideiussione – oltre che per il fatto che il fideiussore assume l’obbligo di eseguire una prestazione di identico contenuto a quella dovuta dal debitore medesimo, mentre la prestazione dovuta dal garante ha ad oggetto il pagamento al beneficiario di una determinata somma di denaro – per l’assenza di accessorietà dell’obbligazione del garante rispetto all’obbligazione garantita, laddove il fideiussore può opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base ex art. 1945 c.c.

Tali principi sono stati ribaditi da Sez. 2, n. 19693/2022, Giannaccari, Rv. 665000-01, laddove si è affermato che il contratto autonomo di garanzia si caratterizza, rispetto alla fideiussione, per l’assenza dell’accessorietà della garanzia, derivante dall’esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga all’art. 1945 c.c., e dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest’ultimo. In particolare, la S.C. nel rigettare il ricorso proposto ha rilevato che la Corte di merito aveva accertato che la polizza fideiussoria conteneva la clausola “a semplice richiesta scritta e motivata del beneficiario”, con l’ulteriore previsione che l’obbligato era tenuto al pagamento, con rinuncia ad ogni eventuale eccezione “anche in presenza di opposizione della parte contraente”. Era inoltre prevista la rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, alla facoltà di opporre l’eccezione di compensazione con altri crediti ed al beneficio di cui all’art.1957 c.c. Alla luce delle disposizioni contrattuali sopra illustrate, la Corte d’appello qualificava, correttamente, il contratto di fideiussione come contratto autonomo di garanzia. Quest’ultimo, infatti, ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale. La causa concreta del contratto autonomo e` quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, indipendentemente dall’inadempimento colpevole del debitore principale mentre nella fideiussione, connotata dall’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto indipendente rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore.

Altra garanzia personale atipica è la cessione del credito a scopo di garanzia, fattispecie molto diffusa nella pratica commerciale con la cessione, da parte di un’impresa, di crediti a una banca al fine di ottenere finanziamenti, con la natura di detti crediti che usualmente si rifà alla commercializzazione di beni o servizi. È a carico della banca, in questi casi, la raccolta dei documenti giustificativi relativi al credito ceduto, come la consegna delle copie delle fatture che attestano la merce il cui prezzo è l’oggetto del credito ceduto. Con riferimento a tale fattispecie Sez. 1, n. 16837/2022, Iofrida, Rv. 664874-01, ha affermato che in ipotesi di cessione di credito a scopo di garanzia di altra obbligazione (nella specie, un finanziamento o anticipazione da parte di una banca) il debitore ceduto – che può opporre al cessionario le eventuali eccezioni rifluenti sul pregresso rapporto con il cedente – rimane de tutto estraneo al distinto rapporto obbligatorio fra cedente e cessionario, a garanzia del quale è stata conclusa la cessione, non essendovi accessorietà tra i due rapporti, ma solamente un collegamento negoziale tra l’obbligazione garantita ed il credito ceduto a scopo di garanzia; ne consegue che il debitore ceduto non è terzo che abbia prestato garanzia ex art. 1204 c.c., ma piuttosto è “solvens” estraneo al negozio.

In questa sede meritano un cenno le garanzie reali che si caratterizzano per una minore flessibilità rispetto a quelle personali, con la conseguenza che nella prassi si sono diffusi nuovi schemi contrattuali derivanti dagli istituti tipici del diritto obbligazionario e contrattuale: tra queste l’ampia categoria delle alienazioni a scopo di garanzia costituite da vendite sospensivamente o risolutivamente condizionate all’inadempimento del debitore, oppure da vendite con annesso patto di ricompera, di riscatto o di retrovendita. In questi casi la funzione di garanzia si compie con il trasferimento al creditore – a titolo temporaneo o provvisorio – del diritto pieno di proprietà. Di tali alienazioni a scopo di garanzia la Corte di cassazione si è dovuta occupare al fine di evitare che con esse le parti violino il divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c.

Con la vendita con patto di riscatto il venditore si riserva il diritto di riacquistare la cosa venduta alle condizioni stabilite dagli artt. 1500 ss. c.c. e ciò al fine di ottenere l’equivalente denaro, nella speranza che, successivamente, possa riacquistare il bene venduto. Il negozio in esame può assumere una funzione di garanzia se vista dal lato del compratore, in quanto il pagamento del prezzo può avere la natura di un prestito e la proprietà del compratore garantisce dall’inadempimento dello stesso.

Con riferimento a tale schema negoziale appare opportuno richiamare Sez. 2, n. 27362/2021, Oliva, Rv. 662360-01, che ha riaffermato il principio sancito dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’esistenza del patto commissorio, o, più in generale, la configurazione di un intento elusivo del relativo divieto legale, va verificata non soltanto in riferimento al tenore letterale delle clausole inserite nel contratto, o nei contratti, posti in essere dalle parti, bensì in considerazione della funzione economica che, in pratica, la fattispecie negoziale dalle stesse posta in essere mira a conseguire; principi che pongono in luce il criterio sostanzialistico e funzionale adottato. Fatta tale premessa la S.C. ha precisato che l’intento elusivo del divieto legale del patto commissorio è configurabile allorché sussista, tra le diverse pattuizioni, un nesso di interdipendenza tale da far emergere la loro funzionale preordinazione allo scopo finale di garanzia piuttosto che a quello di scambio, essendo l’indagine sopra indicata rimessa al giudice.

Diversamente, nel caso di vendita con riserva di proprietà, l’acquirente paga il prezzo del bene in via dilazionata divenendone proprietario, anche se ne ha già la materiale disponibilità, solo al momento del pagamento dell’ultima rata di prezzo. In sostanza il diritto di proprietà rimane in capo al venditore, svolgendo una funzione di garanzia sul pagamento del prezzo, laddove l’inadempimento del pagamento del prezzo da parte del compratore comporta la risoluzione del contratto.

Altro contratto che potrebbe essere utilizzato al fine di celare una violazione del divieto di patto commissorio è il sale and lease back (ovvero anche locazione finanziaria di ritorno); contratto con cui il proprietario di un bene cede detto bene ad una società di leasing e quest’ultima, a sua volta, versato il prezzo di vendita pattuito, lo concede in leasing all’originario proprietario, dietro corrispettivo di un canone periodico pattuito e con facoltà dell’alienante/utilizzatore di riscattare il bene alla scadenza del leasing. Con riferimento a tale fattispecie Sez. 3, n. 04664/2021, Guizzi, Rv. 660707-01, ha affermato che essa configura un contratto d’impresa socialmente tipico che, come tale, è, in linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità di verificare, caso per caso, la presenza di elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita sia stata posta in essere in funzione di garanzia e sia volta, pertanto, ad aggirare il divieto del patto commissorio. A tal fine, l’operazione contrattuale può definirsi fraudolenta nel caso in cui si accerti, con una indagine che è tipicamente di fatto, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della correttezza della motivazione, la compresenza delle seguenti circostanze: l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

5. La locazione: aspetti processuali.

La prima sentenza che merita di essere riportata è stata emessa dalle Sez. U, n. 05051/2022, Falaschi, Rv. 663906-01, afferente il riparto di giurisdizione con riferimento ad un contratto stipulato dalla P.A. per il reperimento di immobili da adibire alla propria attività istituzionale. Le S.U. hanno qualificato tale contratto come di locazione e non nella categoria dei “contratti di fornitura” di cose delle P.A. Sul punto assume rilievo la circostanza che la res locata rimane nel patrimonio del proprietario locatore e la causa del contratto, rappresentata dal godimento della cosa per un tempo determinato dietro il pagamento di un canone. Tali elementi fanno si che la suindicata fattispecie non è riconducibile alla fornitura di servizi attesa l’assenza di una prestazione di attività del proprietario in favore del destinatario. Consegue da tali affermazioni che ogni controversia attinente a tale contratto, anche nella fase precontrattuale, concerne diritti soggettivi e, per questo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

Le Sezioni Unite sono intervenute con una seconda pronuncia (Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-03) a seguito dell’ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 13556/2021, Scrima, non massimata, con la quale la Terza Sezione Civile aveva rilevato un contrasto sulla questione di diritto inerente la natura del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo e di conseguenza l’applicabilità o meno dell’art. 4 del D.Lgs. n. 150 del 2011 in caso di errata introduzione del giudizio.

La Suprema Corte a S.U., con la sentenza sopra indicata ha enunciato il principio di diritto per cui “allorché l’opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di locazione di immobili urbani, soggetta al rito speciale di cui all’art. 447 bis c.p.c., sia erroneamente proposta con citazione, anziché con ricorso, non opera la disciplina di mutamento del rito di cui al d.lgs. n. 150 del 2011, art. 4 – che è applicabile quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dai modelli regolati dal medesimo d.lgs. n. 150 del 2011 -, producendo l’atto gli effetti del ricorso, in virtù del principio di conversione, se comunque venga depositato entro il termine di cui all’art. 641 c.p.c.”. Nella specie, il Tribunale di Palermo, dopo aver disposto ex art. 426 c.p.c. il mutamento del rito da ordinario a speciale, dichiarava l’inammissibilità dell’opposizione in quanto tardiva essendo stato l’atto di citazione depositato in Cancelleria dopo il termine decadenziale ex art. 641 c.p.c. La Corte di Appello di Palermo rilevava l’applicabilità al caso di specie dell’art. 4 comma 5 del D.Lgs. n. 150 del 2011 con salvezza degli effetti della domanda secondo le norme del rito ordinario con cui era stata introdotta l’opposizione, nulla decidendo però nel merito dell’opposizione in quanto, ad avviso della Corte, l’appellante non aveva formulato alcuna domanda in tal senso. L’opponente proponeva ricorso per cassazione affermando l’applicabilità al caso di specie dell’art. 4 comma 5 del D.Lgs. n. 150 del 2011 e la conseguente violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 159 e 342 c.p.c.; rispondeva con controricorso contenente ricorso incidentale la società creditrice sostenendo l’inapplicabilità dell’art. 4 comma 5 del D.Lgs. n. 150 del 2011 al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in quanto trattasi della seconda fase di un giudizio già pendente e non rientrante nelle materie di cui al decreto legislativo.

Le S.U. hanno, dapprima, affrontato il tema circa la natura dell’opposizione a decreto ingiuntivo, indagando se tale procedimento possa considerarsi un giudizio autonomo, un grado autonomo di un giudizio già iniziato e, pertanto, un’impugnazione o la seconda fase di un giudizio già pendente; aspetti sui quali ha rilevato la sussistenza di un contrasto sia a livello giurisprudenziale che dottrinale.

Un orientamento risalente nel tempo affermava che l’opposizione a decreto ingiuntivo deve essere inquadrata non come un giudizio autonomo, ma come una fase ulteriore ed eventuale del giudizio monitorio (Sez. U, n. 07448/1993, Carbone, Rv. 483032-01). Diversamente, la successiva giurisprudenza di legittimità aveva affermato “l’assimilabilità del giudizio di opposizione a quello di impugnazione” (ex plurimis e da ultimo Sez. U, n. 09769/2001, Finocchiaro, Rv. 550798-01). A tali pronunce era seguito un ulteriore indirizzo per il quale l’opposizione doveva considerarsi un giudizio di cognizione autonomo rispetto al procedimento monitorio in quanto non teso al mero controllo della legittimità del decreto ingiuntivo emesso, ma all’analisi del rapporto giuridico alla base dello stesso (Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604555-01). Ricostruita nei termini sopra riportati l’evoluzione giurisprudenziale, le S.U. con la sentenza in esame ha confermato la correttezza dell’originario orientamento che individuava l’opposizione a decreto ingiuntivo come la seconda fase di un procedimento già pendente suddiviso in due fasi: la prima a cognizione sommaria e la seconda a cognizione piena e, sul punto, afferma che “l’opposizione prevista dall’art. 645 c.p.c., non è un’actio nullitatis o un’azione di impugnativa nei confronti dell’emessa ingiunzione, ma è un ordinario giudizio sulla domanda del creditore che si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio”, non quale “giudizio autonomo, ma come fase ulteriore (anche se eventuale) del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo”.

Fatta tale premessa le S.U., quanto all’applicazione del d.lgs. n. 150 del 2011 in caso di errata introduzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo con rito ordinario e non speciale, rilevano che l’art. 4 prevede, al comma 1, che “quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza”. Il dettato normativo è chiaro nel prevedere, quindi, secondo la sentenza in esame, la propria applicabilità ai soli procedimenti speciali extra codice richiamati dal d.lgs. cit., non fungendo tale disciplina da norma generale con portata abrogativa nei confronti degli artt. 426 e 427 c.p.c. Da ciò consegue che l’art. 4 cit. disciplina esclusivamente il mutamento del rito in caso di controversia promossa in forme diverse da quelle previste nel medesimo decreto, e non costituisce una norma generale abrogativa e sostitutiva delle norme specifiche di cui agli artt. 426 e 427 c.p.c., che rimangono le norme generali di coordinamento tra rito ordinario e rito lavoristico/locatizio.

Nell’ipotesi, quindi, di errata introduzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in materia lavoristica/locatizia con atto di citazione, anziché con ricorso, non opera la disciplina di cui all’art. 4 cit. (con salvezza delle decadenze e delle preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento), bensì l’art. 426 c.p.c., con conseguente applicazione del principio di conversione ed efficacia dell’atto di citazione, quale ricorso, solo se lo stesso sia stato depositato in cancelleria entro il termine di decadenza.

Con riferimento agli aspetti processuali, Sez. 6-3, n. 09899/2022, Iannello, Rv. 664455-02, ha precisato che la sentenza pronunciata per qualsiasi ragione (nullità, risoluzione, scadenza della locazione, rinuncia del conduttore-sublocatore al contratto in corso) nei confronti del conduttore o il provvedimento di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione o morosità esplicano l’efficacia di titolo esecutivo nei confronti del subconduttore, ancorché quest’ultimo non abbia partecipato al giudizio, né sia menzionato nel titolo, in quanto la subconduzione comporta la nascita di un rapporto obbligatorio derivato, la cui sorte dipende da quella del rapporto principale di conduzione, ai sensi dell’art. 1595, comma 3, c.c.

Ed ancora, Sez. 6-3, n. 03438/2022, Fiecconi, Rv. 664071-01, ha precisato che la controversia in materia di locazione di un fabbricato con annesso fondo rustico per lo svolgimento di un’impresa agricola non è di competenza delle sezioni specializzate agrarie non essendo sufficiente a configurare un contratto agrario né la destinazione agricola del fondo, né la qualità di imprenditore agricolo del conduttore. La S.C. ha, dunque, accolto il ricorso per regolamento di competenza con il quale era stata impugnata l’ordinanza con cui il Tribunale aveva rigettato l’istanza di convalida di sfratto avanzata dalla ricorrente, declinando la propria competenza in favore della Sezione Specializzata Agraria. Il Tribunale aveva, infatti, erroneamente rilevato la sussistenza di un rapporto di affitto di fondo rustico o di altro contratto agrario rispetto a un regolamento negoziale di locazione ad uso diverso, la` dove testualmente il fondo rustico era indicato come annesso al fabbricato dato in locazione per lo svolgimento di una impresa agricola: concetto affatto distinto da quello di impresa agraria che non può prescindere dalla attività di coltivazione della terra.

5.1. La locazione ad uso abitativo.

Sez. 3, n. 18971/2022, Guizzi, Rv. 665182-01, ha affermato che il recesso del conduttore dal contratto di locazione ad uso abitativo dev’essere comunicato per iscritto, essendo tale tipo di contratto soggetto alla forma scritta ad substantiam, ai sensi dell’art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998. Per effetto del suindicato principio la S.C. ha accolto il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva dato corso alla prova testimoniale, essendo la stessa inammissibile in relazione a fatti (nella specie, il recesso dalla locazione) che, in quanto relativi ad un contratto da provarsi per iscritto, qual è la locazione, risultano anch’essi soggetti allo stesso regime.

5.2. Locatore e conduttore ed i rispettivi obblighi.

Nel corso di un giudizio avente ad oggetto il rimborso delle spese straordinarie sostenute dal conduttore di un immobile ad uso non abitativo, la Corte d’Appello, accoglieva il gravame proposto dal locatore e, per l’effetto rigettava la suindicata domanda sul presupposto che era risultato indimostrato che i lavori sull’immobile, eseguiti, fossero diversi da quelli che si assumeva fossero indicati nella lettera che le parti si erano scambiate al momento della firma del contratto di locazione e per i quali la locatrice aveva concesso una riduzione del canone per i primi tre anni. Sez. 6-3, n. 18667/2022, Gorgoni, Rv. 665199-01, in accoglimento del ricorso proposto ha affermato che il conduttore che agisca in giudizio per il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione di opere eccedenti l’ordinaria manutenzione è tenuto a provare l’avvenuta esecuzione dei lavori, la necessità degli stessi per assicurare che la cosa locata possa essere utilizzata per l’uso pattuito e la relativa quantificazione, nonché di aver avvisato il locatore ovvero che questi sia rimasto inerte rispetto alla sollecitazione all’adempimento dell’obbligo di fare su di lui gravante; compete, invece, al locatore che eccepisca l’avvenuta conclusione di un patto per la corrispondente riduzione del canone l’onere di dimostrare che l’obbligazione restitutoria risulti già estinta mediante la concessione di tale riduzione.

Sez. 3, n. 12384/2022, F.M. Cirillo, Rv. 664810-01, – dopo aver affermato che ha l’obbligo del conduttore di osservare nell’uso della cosa locata la diligenza del buon padre di famiglia, a norma dell’art. 1587, n. 1, c.c., con il conseguente divieto di effettuare innovazioni che ne mutino la destinazione e la natura, è sempre operante nel corso della locazione, indipendentemente dall’altro obbligo, sancito dall’art. 1590 cod. civ., di restituire, al termine del rapporto, la cosa locata nello stesso stato in cui è stata consegnata, sicché il locatore ha diritto di esigere in ogni tempo l’osservanza dell’obbligazione di cui al citato art. 1587 n. 1 e di agire nei confronti del conduttore inadempiente – ha, poi, precisato che la presunzione di cui all’art. 1590, comma 2, c.c., secondo la quale, in mancanza di descrizione delle condizioni dell’immobile alla data della consegna, si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in buono stato locativo, può essere vinta solo attraverso una prova rigorosa.

Secondo Sez. 3, n. 23143/2022, Gorgoni, Rv. 665426-01, la responsabilità del conduttore verso il locatore per i danni cagionati da terzi alla cosa locata dopo la risoluzione del contratto, ma prima della riconsegna del bene, ha natura contrattuale, atteso che la caducazione del contratto non determina l’automatica cessazione degli effetti sostanziali collegati al rapporto di locazione, che permangono, ex art. 1591 c.c., sino all’esatto adempimento dell’obbligazione del conduttore di riconsegna del cespite, la quale rimane inadempiuta ogniqualvolta il locatore non riacquisti la disponibilità del bene locato in modo da farne uso secondo la sua destinazione e, dunque, anche quando l’immobile risulti inutilizzabile perché danneggiato o ancora occupato da cose del conduttore.

Sez. 3, n. 34131/2022, Condello, Rv. 666154-02, si è occupata della fattispecie relativa alla locazione di immobile in comproprietà e, in particolare, dei rapporti tra la parte locatrice e il conduttore. La Corte ha affermato che qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l’eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva statuito la validità ed opponibilità ai comproprietari, anche se rimasti estranei alla stipulazione, di un contratto di affitto di fondo agricolo sottoscritto da uno solo di essi, nonché l’estensione a ciascuno di essi degli effetti della domanda di risoluzione del contratto, avanzata da un comproprietario soltanto, e del conseguente ordine di rilascio.

5.3. Locazione di immobile ad uso non abitativo.

La locazione ad uso commerciale è disciplinata dagli artt. 27-42 della l. n.  392 del 1978 (legge sull’equo canone). La legge in esame riconosce al conduttore di un immobile ad uso commerciale l’indennità di avviamento in caso di risoluzione del rapporto purché però il conduttore non abbia manifestato di non avere più interesse alla locazione. Sez. 6-3, n. 20892/2022, Cricenti, Rv. 665062-01, – nel ribadire il principio secondo cui il diritto alla indennità di avviamento viene meno quando il recesso e` riferibile alla volontà del conduttore, nel senso che o e` dovuto ad una sua iniziativa, oppure alla espressa sua adesione ad un patto di risoluzione (Sez. 3, n. 14728/2001, Purcaro, Rv. 550470-01) – ha affermato che è escluso quindi che possa ammettersi disinteresse del conduttore nel caso in cui costui si limiti ad aderire alla richiesta di risoluzione fattagli dal locatore, o non aderisca alle nuove condizioni economiche da costui imposte o pretese. Il disinteresse del conduttore al proseguimento del rapporto postula una condotta di costui espressa o concludente, indicativa della volontà di non rinnovare il contratto. La perdita dell’avviamento presuppone cioè una chiara volontà del conduttore di disinteresse per la prosecuzione del rapporto, ricavabile anche da fatti concludenti, ma pur sempre univoca.

Sez. 3, n. 26618/2022, Condello, Rv. 665653-01, ha precisato che ai fini del valido ed efficace esercizio del diritto potestativo di recesso, che presuppone la specificazione del grave motivo per cui il conduttore intende cessare anticipatamente il rapporto, non è sufficiente la mera indicazione di cessazione dell’attività esercitata nei locali locati, poiché, non esternando la ragione giustificativa della cessazione, ne impedisce la riconduzione ad un fatto estraneo alla volontà del conduttore, unico idoneo a giustificare l’interruzione dell’impegno al rispetto del sinallagma. Le ragioni che possono giustificare la liberazione anticipata dal vincolo ai sensi dell’art. 27, ultimo comma, della legge n. 392 del l978 devono, infatti, essere determinate da avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto, estranei alla volontà del conduttore e imprevedibili, tali da rendere oltremodo gravosa per quest’ultimo la sua prosecuzione. Pertanto, la gravosità della prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva, non può risolversi nell’unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, e dev’essere, non solo tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma anche consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie, tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda globalmente considerata.

Quanto alle ipotesi di inadempimento del conduttore Sez. 3, n. 23269/2022, Scrima, Rv. 665459-01, ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva onerato il conduttore di provare che dopo la disdetta del locatore era stato costretto a locare un immobile più ampio, stante il lungo periodo temporale di circa tre anni per cercare un nuovo locale commerciale. Sul punto, la Corte ha affermato che in tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, l’obbligo in capo al locatore, che abbia ricevuto la riconsegna dell’immobile e non lo abbia adibito, entro sei mesi, all’uso in vista del quale ne aveva ottenuto la disponibilità, di risarcire il danno al conduttore ha una duplice natura, risarcitoria e sanzionatoria che si riverbera sui criteri di quantificazione. In proposito, il contemperamento tra il fine sanzionatorio e quello propriamente risarcitorio può ritenersi realizzato mediante la presunzione di sussistenza del danno comunque connesso all’anticipata restituzione dell’immobile che il giudice è chiamato a liquidare equitativamente sulla base delle caratteristiche del caso concreto anche in difetto di prova della sua precisa entità da parte del conduttore e salva la possibilità per il locatore di superare la presunzione suddetta provando l’assenza di conseguenze pregiudizievoli per il conduttore.

Per quanto più specificatamente attiene agli aspetti processuali nel 2022 la Corte ha affermato i seguenti principi.

Sez. 3, n. 10136/2022, Iannello, Rv. 664403-01, ha sancito il principio secondo cui il conduttore di un immobile ad uso non abitativo, se decaduto dal diritto di esercitare il riscatto di cui all’art. 39 della legge n. 392 del 1978, può domandare sia al venditore che al compratore il risarcimento del danno patito, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per effetto della decadenza, a condizione che ne dimostri la rispettiva malafede, consistita nell’intento di tenerlo all’oscuro dell’avvenuto trasferimento. L’accertamento di detto intento fraudolento spetta al giudice del merito e non è sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla ricognizione degli elementi di fatto che costituiscono il presupposto della dedotta responsabilità risarcitoria (salvo il limite ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), mentre è suscettibile di sindacato la sussunzione del fatto accertato nella fattispecie astratta della responsabilità risarcitoria del locatore. Nella specie, la S.C. ha rigetto il ricorso proposto sul rilievo che la Corte d’Appello aveva ritenuto assente la prova che il venditore e il terzo acquirente avessero volontariamente posto in essere comportamenti tali da indurre il conduttore in inganno circa l’avvenuta vendita del bene e ad omettere i controlli presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari, essendo in particolare, a tal fine, insufficiente la mancata risposta da parte del locatore alla lettera con il quale il conduttore aveva manifestato la sua intenzione di acquisto. I giudici di merito, poi, rilevavano che, proprio l’avvenuta conoscenza da parte del conduttore dell’intenzione del locatore di alienare l’immobile e la mancata risposta a detta lettera avrebbero dovuto indurlo ad essere maggiormente vigile e ad effettuare una verifica presso l’Ufficio dei Registri Immobiliari per accertare la titolarità del bene. La S.C. ha, quindi, statuito che i fatti accertati – l’inadempimento del locatore all’obbligo legale della denuntiatio e, poi l’inerzia, il silenzio o in genere la mancata cooperazione ai fini del succedaneo esercizio del diritto di riscatto – non possano, di regola, considerarsi fonte di alcun obbligo risarcitorio nei confronti del conduttore il cui eventuale interesse all’acquisto, con diritto di prelazione, dell’immobile locato rimanga inattuato.

Sez. 3, n. 26493/2022, Scrima, Rv. 665667-01, ha precisato che “Le cause di risoluzione di un contratto di locazione per inadempimento del conduttore debbono preesistere al momento in cui la controparte propone la domanda giudiziale, con la conseguenza che – per quanto sia consentito al giudice, in una considerazione unitaria della condotta della parte, trarre elementi circa la colpevolezza e la gravità dell’inadempimento dalla morosità che si sia protratta nel corso del giudizio – egli non può mai prescindere dall’indagine primaria sulla sussistenza dell’inadempimento al momento della domanda”. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che aveva confermato la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore – il quale, fino all’intimazione dello sfratto per morosità, aveva corrisposto il canone in misura ridotta ex art. 3, commi 8 e 9, d.lgs. n. 23 del 2011, poi dichiarati costituzionalmente illegittimi – attribuendo rilievo, ai fini della richiesta risoluzione, alla complessiva morosità determinatasi anche successivamente alla proposizione della domanda, senza esaminare i profili di imputabilità del pregresso inadempimento.

6. Il mandato.

Sez. 2, n. 15496/2022, Giusti, Rv. 664878-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’inefficacia nei confronti degli attori dell’atto di compravendita, avente ad oggetto un appartamento perché sottoscritto da persona priva del potere di trasferire il bene stesso. La Corte d’Appello aveva posto a fondamento della suindicata pronuncia la circostanza che, con la scrittura privata autenticata, i venditori avevano nominato un procuratore speciale “affinché in loro nome, conto e vece si obblig[asse] per il complessivo prezzo non inferiore a lire 425 milioni a vendere la piena proprietà e comunque ogni ragione e diritto agli stessi spettanti sulla porzione immobiliare posta in Comune di Olbia, località Porto Rotondo”, autorizzando “il nominato procuratore a concludere il relativo contratto preliminare di compravendita anche con se stesso” e conferendogli “ogni più ampia facoltà”. La Corte territoriale ha quindi rilevato che l’interpretazione letterale del testo della procura speciale, per l’espresso riferimento al conferimento del potere di obbligarsi a vendere, consente di ritenere che l’oggetto della procura sia costituito dall’attribuzione del potere di sottoscrivere un contratto preliminare di compravendita del menzionato immobile, con esclusione del potere di trasferirne la proprietà. La S.C. nel confermare il suindicato decisum ha rilevato che il potere di rappresentanza trova la sua fonte nella procura, sicché la legittimazione del rappresentante al compimento di uno o più atti in nome del dominus rinviene la relativa conformazione nella volontà manifestata nella procura. Ciò, tuttavia, non esclude che, quando la manifestazione di volontà appaia bisognosa di essere integrata o presenti un significato che lascia spazio ad un margine di incertezza, possa intervenire la legge al fine di tracciare l’esatta estensione, secondo ragionevolezza, del potere rappresentativo. Soccorre allora la regola – dettata per il mandato dall’art. 1708, primo comma, cod. civ. – secondo cui la procura speciale riferita a un certo atto copre anche gli atti, pur non espressamente indicati, che siano necessari per il compimento di quello autorizzato. La citata disposizione consente di ritenere compresi, ad ogni effetto, nell’oggetto della procura speciale anche gli atti, sia preparatori che consequenziali rispetto a quello specificamente autorizzato, il compimento dei quali si riveli indispensabile ai fini della compiuta e precisa esecuzione dell’incarico conferito al rappresentante.

Il Collegio ritiene che, qualora sia limitata alla stipula del preliminare di vendita, la procura speciale non può intendersi allargata al potere di concludere anche il contratto definitivo e di trasferire la proprietà dell’immobile. Rispetto al potere rappresentativo conferito al rappresentante, infatti, la stipula del contratto definitivo non può intendersi come un atto necessario e conseguenziale per il compimento di quello specificamente previsto, ma ne costituisce, semmai, un ulteriore sviluppo, attraverso una dilatazione dell’oggetto. Ne´ può indurre a diversa conclusione il rilievo della ricorrente circa il legame che intercorre tra contratto preliminare e definitivo, con la possibilità di qualificare la stipulazione di quest’ultimo un vero e proprio atto dovuto, al pari di qualsiasi atto di adempimento di un’obbligazione. Infatti, benché legati tra loro in una sequenza concepita come operazione unitaria, con il definitivo caratterizzato anche da una causa solvendi, il preliminare e il definitivo sono due contratti distinti e separati nel tempo.

Sez. 2, n. 15577/2022, Fortunato, Rv. 665164-01, ha affrontato il contenuto dei doveri di buona fede e correttezza ex art. 1175 c.c. nell’esecuzione del mandato e, in particolare nel caso di mediazione immobiliare. In particolare, la S.C. ha affermato che in tema di mediazione, il mediatore, sia quando agisca in modo autonomo (mediazione c.d. tipica), sia su incarico di una delle parti (mediazione c.d. atipica, costituente in realtà mandato), è tenuto a comportarsi secondo buona fede e correttezza e a riferire, perciò, alle parti le circostanze, da lui conosciute o conoscibili secondo la diligenza qualificata ex art. 1175 c.c. propria della sua categoria, idonee ad incidere sul buon esito dell’affare, senza che le eventuali più penetranti verifiche a ciò necessarie postulino il previo conferimento di specifico incarico, tali essendo, in caso di mediazione immobiliare, tutte quelle afferenti alla contitolarità del diritto di proprietà, all’insolvenza di una delle parti, all’esistenza di elementi atti a indurre le parti a modificare il contenuto del contratto, ad eventuali prelazioni ed opzioni, al rilascio di autorizzazioni amministrative, alla provenienza di beni da donazioni suscettibili di riduzione, alla solidità delle condizioni economiche dei contraenti, alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile e alla titolarità del bene in capo al venditore.

Molto dibattuto, sia in dottrina che in giurisprudenza è il problema della forma del mandato. Il problema, però, si pone solo per il mandato senza rappresentanza, perché in quello con rappresentanza la legge prescrive espressamente che la procura deve essere redatta nelle stesse forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere (art. 1392 c.c.). Sul punto Sez. 1, n. 05488/2022, Campese, Rv. 664026-01, in controversia avente ad oggetto un mandato con rappresentanza volto alla conclusione di una donazione di somma di danaro di non modico valore, ha affermato la nullità del corrispondente contratto perché concluso, senza la forma dell’atto pubblico, dal mandatario del donante in virtù di un potere di rappresentanza pure invalidamente – perché non in forma di atto pubblico – attribuitogli da quest’ultimo; nullità che determina l’insorgere, a carico del mandatario medesimo, dell’obbligo di restituzione in favore del donante, attesa la perdita, da parte del donante stesso, della disponibilità della somma predetta.

7. La transazione.

Lo strumento tipico di composizione delle liti è il processo, avendo, poi, il legislatore previsto, quando si verte in materia di diritti disponibili, la possibilità per le parti di comporre pattiziamente, per mezzo della transazione, le liti senza ricorrere alla pronuncia del giudice. In ragione di quanto sopra, l’istituto in esame trova applicazione in molti settori potendo avere i contenuti più svariati; si possono trasferire diritti, cedere crediti, estinguere obblighi. La causa di tale contratto deve individuarsi nella composizione di una lite già sorta o che può nascere, a fronte della quale le parti si fanno reciproche concessioni.

Con riferimento a tale istituto particolare rilievo assume Sez. 2, n. 12026/2022, Scarpa, Rv. 664784-01, la quale ha scrutinato il ricorso proposto avverso il decreto della Corte di appello di Bari avente ad oggetto la domanda di condanna all’equa riparazione per la irragionevole durata di un giudizio civile conclusosi con ordinanza di cancellazione ed estinzione della causa dal ruolo ex artt. 309, 181 e 307 c.p.c.

La Corte di appello di Bari, nel rigettare la domanda, ha ritenuto insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo presupposto, in applicazione dell’art. 2, comma 2-sexies, lettera c, della legge n. 89 del 2001, evidenziando come non fosse stata fornita alcuna prova connessa al danno non patrimoniale patito, in maniera da superare la presunzione negativa di legge. Il decreto impugnato sottolineava, altresì, che non valessero a provare il pregiudizio per l’irragionevole durata del processo presupposto ne´ la transazione stipulata dalle parti, ne´ la considerazione che proprio tale transazione era stata il motivo a monte della cancellazione e dell’estinzione della causa. La S.C. nel rigettare il ricorso ha osservato che ai fini dell’insussistenza del dannano lamentato era irrilevante la circostanza che le parti erano addivenuti ad una transazione in corso di causa. In sostanza, il ricorrente si era limitato ad opporre che la cancellazione e conseguente estinzione della causa fossero state a monte giustificate dalla transazione stipulata tra le parti in corso di giudizio, ma la transazione, di per se´, non e` circostanza contraria alla presunzione stabilita dall’art. 2, comma 2-sexies, lettera c), della legge n. 89 del 2001, allorché si sia verificato un abbandono della lite, avendo essa, piuttosto, potuto indurre le parti a richiedere una declaratoria di cessazione della materia del contendere, che costituisce pronuncia processuale per sopravvenuta carenza di interesse.

Sotto il profilo degli aspetti sostanziali, Sez. 2, n. 12058/2022, Carrato, Rv. 664389-01, ha affermato che, posto che l’arbitrato irrituale è un mandato congiunto a comporre una controversia mediante un negozio con questa funzione, deve escludersi la sua assimilabilità al contratto di transazione atteso che la risoluzione della controversia da parte degli arbitri non implica reciproche concessioni tra le parti; peraltro, a differenza dell’arbitrato rituale, la possibilità di attuare i diritti discendenti dall’arbitrato irrituale è rimessa esclusivamente al comportamento delle parti, dovendosi escludere che il relativo lodo possa essere reso esecutivo.

Sez. 1, n. 07094/2022, Vella, Rv. 664168-02, ha precisato che l’art. 1304, comma 1, c.c., nel consentire, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, che il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione tra creditore e uno dei debitori solidali, se ne possa avvalere, si riferisce esclusivamente all’atto di transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, mentre non include la transazione parziale che, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne.

Ed ancora, Sez. 2, n. 06146/2022, Criscuolo, Rv. 663921-01, in materia di diritti ereditari e, in particolare, in tema di eredità beneficiata e di atti dismissivi del patrimonio relitto, con riferimento all’autorizzazione ex art. 493 c.c. e alla valutazione della natura come atto di ordinaria o straordinaria amministrazione, ha affermato che in caso di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, al fine di valutare se l’atto dismissivo, posto in essere dall’erede beneficiato, debba essere previamente autorizzato ai sensi dell’art. 493 c.c., occorre indagare se lo stesso si ponga come atto di straordinaria amministrazione, senza che rilevi la sua denominazione formale, sicché anche un atto denominato come transazione può esserne sottratto quando sia di ordinaria amministrazione, restando soggetto ad autorizzazione se sussiste il pericolo di diminuzione della garanzia patrimoniale. Ne consegue che detta autorizzazione non è necessaria quando tra creditore ed erede beneficiato intercorra una transazione che preveda il riconoscimento del debito ereditario in misura inferiore a quella richiesta in via giudiziale, con l’impegno degli eredi di far fronte all’obbligazione con denaro proprio, senza che rilevi in senso contrario, ed in presenza di accordo tra le parti circa la compensazione delle spese di giudizio transatto, l’ipotetica rinuncia al credito per le spese di lite che sarebbero spettate al de cuius nel giudizio oggetto di transazione, trattandosi di ragione creditoria del tutto ipotetica e venuta meno proprio per effetto della transazione, destinata a sostituirsi all’assetto regolamentare dedotto nella causa transatta.

8. Il trasporto.

Sez. 6-3, n. 03150/2022, Rossetti, Rv. 664069-01, ha affrontato il tema della responsabilità per danno da vacanza rovinata, chiarendo se spetta o meno al turista il risarcimento del danno a seguito di una vacanza non rispondente a quanto pubblicizzato dall’agenzia viaggi. La vicenda in esame aveva ad oggetto una vacanza fatta nel 2013, quindi prima che intervenissero le modifiche al Codice del Turismo nel 2018 e quando la responsabilità del fornitore di pacchetti turistici “tutto compreso” era regolata dagli artt. 32 e ss. d.lgs. 23/05/2011, n. 79 (in seguito modificato dal d.lgs. 21.5.2018, n. 62). La Corte richiama l’art. 43, comma 1, del d.lgs. n. 79 del 2011, che, prima delle modifiche del 2018, disponeva che “l’organizzatore e l’intermediario sono tenuti al risarcimento del danno, secondo le rispettive responsabilità”, rilevando che l’espressione “secondo le rispettive responsabilità”, in base a consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, significa che l’intermediario di viaggi (anche detto venditore o agenzia di viaggi) risponde delle obbligazioni tipiche di un mandatario o venditore. Contrariamente, l’intermediario, ossia colui che vende, non è responsabile degli inadempimenti dell’organizzatore (anche detto “tour operator”) o della non rispondenza dei servizi effettivamente offerti a quelli promessi e pubblicizzati, a meno che il viaggiatore o il turista non dimostri che l’intermediario, tenuto conto della natura degli inadempimenti lamentati, conosceva o avrebbe dovuto conoscere, facendo uso della diligenza da lui esigibile in base all’attività esercitata (art. 1176, comma 2, c.c.), l’inaffidabilità del tour operator cui si era rivolto, oppure la non rispondenza alla realtà delle prestazioni da quello promesse e pubblicizzate”.

9. La vendita: premessa.

Il tema della compravendita ha impegnato anche quest’anno la S.C. su diversi fronti, rappresentando nella vita ordinaria un contratto tipico quotidianamente utilizzato dalla generalità dei cittadini. I giudici di legittimità sono stati impegnati nell’ambito della vendita immobiliare, su questioni relative al contratto preliminare, affrontando anche tematiche che hanno dato vita a dibattiti ancora aperti in dottrina. I temi scandagliati riguardano, in particolare, la prevedibilità del danno e dei suoi criteri di liquidazione, sia nell’ipotesi della mancata conclusione del contratto definitivo imputabile al promittente alienante, sia in quella imputabile, invece, all’alienante.

9.1. Vendita di bene di interesse storico-artistico.

Con riferimento a tale tipologia di compravendita deve essere segnalata Sez. 2, n. 11032/2022, Varrone, Rv. 664376-01, La questione sottoposta allo scrutinio della Corte aveva ad oggetto il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze che, confermando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda con la quale l’attore rivendicava la proprietà di un dipinto su tela noto come “La Madonna del Rosario con Bambino Gesù e San Giovanni Gualberto e Sant’Agostino”, risalente all’anno 1500 e attributo a Ridolfo del Ghirlandaio, dipinto in possesso della Parrocchia di San Pietro a Pitiana, con sede in Donnini-Reggello (FI). In particolare, la Corte territoriale rilevava che: a) la tela, di proprieta` della Parrocchia, era stata – negli anni ‘40 – catalogata ed inclusa, ex art. 23 e segg. della legge n. 1089 del 1939 (“Tutela delle cose di interesse artistico e storico”), tra i beni di assoluto interesse storico, culturale e artistico dall’allora Soprintendenza all’Arte Medioevale e Moderna per la Toscana – Firenze (ora Soprintendenza per i Beni Culturali); b) l’opera era stata illegittimamente alienata nel 1946 dal parroco del tempo, in assenza della prescritta autorizzazione del competente Ministero (prima Ministero per l’Educazione Nazionale, ora Ministero per la Pubblica Istruzione), al quale spettava peraltro il diritto di prelazione; c) l’opera medesima, a seguito di alienazioni successive, era pervenuta all’attore (ultimo acquirente), presso il quale era stata sequestrata dalla polizia giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale, per essere poi restituita alla Parrocchia, quale legittima proprietaria; d) l’assenza di autorizzazione ministeriale aveva determinato la nullità della prima vendita e dei negozi traslativi successivi, che si erano succeduti nel tempo; e) l’attore non poteva invocare la regola “possesso vale titolo” o, in via subordinata, l’usucapione decennale di cui all’art. 1161 cod. civ., non versando egli in buona fede e, comunque, essendo incorso in colpa grave.

Nel confermare la statuizione dei giudici di merito la Corte ha rilevato che qualora l’alienazione di beni di interesso storico e/o artistico riguarda beni appartenenti a privati, essa non e` soggetta ad alcun divieto ne´ ad alcuna autorizzazione, ma solo ad un obbligo di informazione dell’autorità. La violazione di tale obbligo non riguarda la possibilità giuridica della alienazione, ma attiene alle modalità con le quali l’alienazione e` compiuta, ossia al fatto che essa e` posta in essere senza informare il Ministero. In questi casi, e` essenzialmente lo Stato ad aver interesse a far valere la nullità dell’atto di alienazione, essendo la declaratoria di tale nullità espressamente finalizzata dalla legge (art. 61, comma 2, della l. n. 1089 del 1939) a consentire l’esercizio, da parte del Ministero, del diritto di prelazione (la possibilità per il Ministero di esercitare sine die il diritto di prelazione ha superato anche il vaglio di costituzionalità: Corte cost., sent. n. 296 del 1995).

Tale principio non è, però, applicabile nel caso di specie afferente alla alienazione di cose di interesse artistico e storico appartenenti allo Stato o ad enti o istituti pubblici (art. 23) ovvero ad enti o istituti legalmente riconosciuti (art. 26).

La legge, infatti, vieta in senso assoluto (art. art. 23) l’alienazione delle cose di interesse artistico e storico appartenenti allo Stato o ad enti o istituti pubblici; e vieta anche l’alienazione delle cose di interesse artistico e storico appartenenti ad enti o istituti legalmente riconosciuti se non preceduta e consentita da apposita autorizzazione ministeriale (art. 26). La violazione di tali prescrizioni normative non attiene alle modalità di esecuzione della alienazione, ma alla possibilità giuridica della stessa. In questi casi, stante il preminente interesse pubblico posto a fondamento della limitazione della possibilità giuridica di alienare la cosa di interesse artistico e storico, la nullità che colpisce il negozio di alienazione non può che essere di carattere assoluto, secondo la regola generale posta dall’art. 1421 cod. civ., a fronte per altro di una norma speciale (l’art. 61 l. cit.) che commina la “nullità di pieno diritto”. In conclusione, la nullità delle alienazioni delle cose di interesse artistico o storico appartenenti agli enti legalmente riconosciuti compiute in assenza della prescritta preventiva autorizzazione ministeriale, prevista dall’art. 61 della legge 1 giugno 1939 n. 1089, e` di carattere assoluto e, pertanto, può essere dedotta da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. In tali casi, dunque, non opera l’art. 1153 c.c., in quanto si tratta di beni per i quali è espressamente vietata (art. 32) all’alienante la traditio in pendenza del termine per gli adempimenti previsti dalla legge, mentre la consegna della cosa, per potere produrre gli effetti di cui al citato art. 1153, deve essere non vietata dalla legge per motivi d’interesse generale.

9.2. Il contratto preliminare.

Sotto il profilo della portata dell’obbligo della forma scritta nel contratto preliminare, Sez. 2, n. 19031/2022, Grasso, Rv. 664994-01, ha affermato che, fermo il principio secondo cui nei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam, la volontà comune delle parti deve rivestire tale forma soltanto nella parte riguardante gli elementi essenziali (consenso, res, pretium), ha precisato che da ciò consegue che, in caso di preliminare di vendita che preveda un termine per la stipula del definitivo, la modifica di tale elemento accidentale e la rinuncia della parte ad avvalersene non richiede la forma scritta. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva omesso di valutare la rinuncia alla condizione unilaterale risultante dalla dichiarazione rilasciata a verbale dal ricorrente personalmente, da apprezzarsi in uno alla citazione.

Sez. 2, n. 06729/2022, Besso Marcheis, Rv. 664175-01, nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto la domanda di accertamento della proprietà di un immobile proposta dall’attore sulla base di contratto di vendita per scrittura privata, ha affermato che essa non è fungibile con la domanda proposta in appello di trasferimento in esecuzione di preliminare di vendita. In particolare, qualora nel primo grado di giudizio sia proposta domanda di accertamento della proprietà sulla base di contratto di vendita per scrittura privata, la successiva domanda proposta in appello diretta a conseguire il trasferimento della proprietà di un immobile ex art. 2932 c.c. è inammissibile, presentando petita immediati diversi, atteso che la modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c. è possibile solo nel giudizio di primo grado, al fine di non determinare la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né l’allungamento dei tempi processuali.

Infine, Sez. 2, n. 31369/2022, Scarpa, Rv. 666006-01, ha affermato che “In tema di contratto preliminare di vendita di immobile, l’inadempimento del promittente venditore alla stipula del contratto definitivo comporta che la prescrizione del diritto del promissario acquirente all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., non inizia a decorrere dalla conclusione del contratto preliminare, ma dalla data di scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo”.

9.3. I vizi della cosa e i vizi della volontà. L’inadempimento e la tutela rimediale.

Con riferimento alla tutela rimediale in materia di compravendita Sez. 2, n. 22539/2022, Varrone, Rv. 665180-01, ha affermato il principio secondo cui, la parte che abbia chiesto, con la domanda giudiziale, la riduzione del prezzo pattuito, può, in alternativa, chiedere, con la memoria ex art.183, comma 6, c.p.c., la risoluzione del contratto per grave inadempimento, senza per questo porsi in contrasto sia col principio della irrevocabilità della scelta operata inizialmente ex art. 1492 c.c., atteso che esso, trovando il suo limite nella identità del vizio fatto valere, è superato dall’emersione di ulteriori e diversi vizi, sia con quello del divieto di mutatio libelli nel processo, stanti l’identità delle parti, del contratto e della complessiva vicenda sostanziale dedotta in giudizio e la connessione per alternatività delle due domande.

In particolare, con riferimento alle ipotesi di contratti di compravendita per i quali è applicabile il Codice del Consumo, Sez. 2, n. 03695/2022, Giannaccari, Rv. 663798-01, ha rilevato che l’art. 135, comma 2, del codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005) prevede che, in tema di contratto di vendita, le disposizioni del codice civile si applicano “per quanto non previsto dal presente titolo” e che l’art. 1469 bis c.c., introdotto dall’art. 142 del codice del consumo, stabilisce che le disposizioni del codice civile contenute nel titolo “Dei contratti in generale” “si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore”. Consegue da ciò una chiara preferenza del legislatore per la normativa del codice del consumo relativa alla vendita ed un conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica nel senso che trova applicazione innanzitutto la disciplina del codice del consumo (art. 128 e segg.) mentre trova applicazione la disciplina in materia di compravendita solo per quanto non previsto dalla normativa speciale. Alle disposizioni civilistiche dettate agli artt. 1490 e ss. del codice civile in tema di garanzia per i vizi dei beni oggetto di vendita si aggiungono, in una prospettiva di maggior tutela del contraente debole, gli strumenti predisposti dal codice del consumo. Dal combinato disposto degli artt.129 e ss. del summenzionato codice si desume che il venditore e` responsabile nei riguardi del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene allorché tale difetto si palesi entro il termine di due anni dalla predetta consegna. Il difetto di conformità consente al consumatore di esperire i vari rimedi contemplati all’art.130 cit., i quali sono graduati, per volontà dello stesso legislatore, secondo un ben preciso ordine: egli potrà in primo luogo proporre al proprio dante causa la riparazione ovvero la sostituzione del bene e, solo in secondo luogo, nonché alle condizioni contemplate dal comma 7, potrà richiedere una congrua riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto. Resta fermo che, per poter usufruire dei diritti citati, il consumatore ha l’onere di denunciare al venditore il difetto di conformità nel termine di due mesi decorrente dalla data della scoperta di quest’ultimo. Con la sentenza in esame si è, poi, precisato che il Codice del Consumo prevede una presunzione a favore del consumatore, inserita nell’art.132 terzo comma, a norma del quale si presume che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data. Si tratta di presunzione iuris tantum, superabile attraverso una prova contraria, finalizzata ad agevolare la posizione del consumatore: ove il difetto si manifesti entro tale termine, il consumatore gode di un’agevolazione probatoria, dovendo semplicemente allegare la sussistenza del vizio mentre grava sulla controparte l’onere di provare la conformità del bene consegnato rispetto al contratto di vendita. Superato il suddetto termine, trova nuovamente applicazione la disciplina generale posta in materia di onere della prova posta dall’art. 2697 c.c.: ciò implica che il consumatore che agisce in giudizio sia tenuto a fornire la prova che il difetto fosse presente ab origine nel bene, poiché il vizio ben potrebbe qualificarsi come sopravvenuto e dipendere conseguentemente da cause del tutto indipendenti dalla non conformità del prodotto. Corollario di questo principio e` che il consumatore deve provare l’inesatto adempimento mentre e` onere del venditore provare, anche attraverso presunzioni, di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto, ovvero la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione del bene; solo ove detta prova sia stata fornita, spetta al compratore di dimostrare l’esistenza di un vizio o di un difetto intrinseco della cosa ascrivibile al venditore. In sostanza, incombe sul soggetto danneggiato – ai sensi dell’art. 120 del d.lgs. n. 206 del 2005 – la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno e, una volta fornita tale prova, incombe sul produttore – a norma dell’art. 118 dello stesso codice – la corrispondente prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che il difetto non esisteva nel momento in cui il prodotto veniva posto in circolazione, o che all’epoca non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico- scientifiche. Risulterebbe, infatti, troppo oneroso per il consumatore assolvere l’onere probatorio mediante l’allegazione del vizio specifico da cui e` affetto il prodotto in quanto ciò richiederebbe l’accesso a dati tecnici del prodotto nonché un’assistenza tecnica specializzata, che invece si trovano nella più agevole disponibilità del venditore. A carico del consumatore grava l’onere di denunciare il difetto di conformità attraverso la tempestiva comunicazione dell’esistenza del difetto di conformità, senza che occorra la prova di tale difetto o che ne venga indicata la causa. Alla luce della disciplina interna e dell’Unione richiamata dalla sentenza in esame, quest’ultima ha precisato che, ove la sostituzione o riparazione del bene non siano state impossibili ne´ siano eccessivamente onerose, il consumatore, scaduto il termine congruo per la sostituzione o riparazione senza che il venditore vi abbia provveduto, ovvero se le stesse abbiano arrecato un notevole inconveniente, può agire per la riduzione del prezzo o per la risoluzione del contratto, pur in presenza di un difetto di lieve entità. Ed invero, ai sensi dell’art.130 del Codice del Consumo, le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate entro un congruo termine dalla richiesta e non devono arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha acquistato il bene. Nella disciplina consumeristica esiste, pertanto, una gerarchia dei rimedi a tutela del consumatore, distinti tra rimedi primari e rimedi secondari, ed e` imposto al consumatore di attenersi a tale gerarchizzazione, pur essendo libero di scegliere il rimedio per lui più conveniente, una volta rispettato l’ordine dei rimedi in via progressiva. Nel caso di non conformità del bene al contratto, il consumatore e` tenuto a chiedere in un primo momento la sostituzione ovvero la riparazione del bene, e solo qualora ciò non sia possibile, ovvero sia manifestamente oneroso, e` legittimato ad avvalersi dei cd. rimedi secondari. La riparazione e la sostituzione di un bene non conforme devono essere effettuate non solo senza spese, ma anche entro un lasso di tempo ragionevole e senza notevoli inconvenienti per il consumatore.

Alla luce di tali principi la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto non rilevanti, ai fini della tempestività della denuncia dei vizi, i ricoveri dell’autovettura presso la concessionaria “per riparazione in garanzia”, sul rilievo che essi non comportassero un riconoscimento dei vizi da parte del venditore ed ha, invece, dato rilievo alla raccomandata a/r del 19.11.2008, diretta alla società, con cui il consumatore denuncio` formalmente i vizi dell’autovettura.

In primo luogo, la denuncia dei vizi e` stata ancorata all’obbligo della forma scritta che, non solo non e` richiesta dalla disciplina generale ma, a fortiori, non può essere prevista nell’ambito dei contratti in cui e` parte il consumatore. La circostanza che l’autovettura fosse stata portata in concessionaria, secondo la Corte, costituiva una valida forma di denuncia dei vizi, essendo palese che il ricovero non fosse stato determinato da controlli di routine previsti dopo l’acquisto del mezzo.

In sostanza, l’errore di diritto in cui erano incorsi i giudici di merito si rinviene nell’affermazione che i ricoveri dell’autovettura non equivalessero alla denuncia dei vizi, idonea a superare la decadenza, dopo aver accertato che vi erano stati interventi volti alla riparazione del bene.

La Corte ha altresì affermato che i numerosi ricoveri in concessionaria non dimostrassero il riconoscimento dei vizi, incorrendo nella violazione della presunzione prevista dall’art.132 del Codice del Consumo, a norma del quale si presume che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data sicché gravava sul consumatore l’onere di allegare la sussistenza del vizio mentre la concessionaria aveva l’onere di provare la conformità del bene consegnato rispetto al contratto di vendita.

L’agevolazione probatoria di cui gode il consumatore, quale soggetto debole in un contratto asimmetrico lo esonerava dal provare la natura dei vizi e la causa che lo aveva generato, trattandosi di onere posto a carico della concessionaria, che aveva a disposizione l’assistenza tecnica per rimediare ai vizi del bene. L’interpretazione della corte distrettuale non tiene conto che il consumatore e` tenuto ad allegare l’esistenza del difetto di conformità e che, nel caso di specie, tale onere poteva essere assolto attraverso il ricovero dell’auto presso un centro di assistenza per la sua riparazione.

La Corte nell’accogliere il ricorso proposto rileva, infine, che i giudici di merito avevano errato nel ritenere che la risoluzione potesse essere dichiarata solo nell’ipotesi in cui i vizi fossero di caratura tale da condurre all’inidoneità dell’uso del bene o al suo rilevante deprezzamento sebbene il Codice del Consumo preveda che possa pronunciarsi la risoluzione del contratto anche per vizi di lieve entità che non siano stati riparati.

Sul punto la sentenza osserva, tra l’altro, che la risoluzione del contratto era stata correttamente proposta dopo l’esperimento dei rimedi ordinari in quanto l’attrice aveva inizialmente chiesto la riparazione e la sostituzione dell’autovettura. La domanda di risoluzione, sulla base del Codice del Consumo, una volta esauriti i rimedi ordinari non richiede l’inidoneità dell’uso cui il bene e` destinato ma l’assenza di riparazione del vizio. Nel caso di specie, la stessa corte distrettuale afferma che il vizio persisteva tanto che il consumatore avrebbe dovuto spendere la non insignificante somma di € 2.700,00 per la riparazione dei difetti di una autovettura pagata € 22.000,00.

In senso conforme, Sez. 6-3, n. 25417/2022, Gorgoni, Rv. 665449-01, ha, poi affermato che “in caso di difetto di conformità del bene la legge riconosce al consumatore due classi di rimedi subordinate ma non alternative, con la conseguenza che il consumatore che abbia dapprima richiesto al venditore la riparazione o sostituzione del bene può successivamente richiedere la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, ove il tentativo di riparazione compiuto non si sia rivelato idoneo a porre rimedio al difetto”.

Per quanto attiene all’onere probatorio conseguente alle domande ripristinatorie conseguenti all’inadempimento della parte venditrice, Sez. 2, n. 11126/2022, Varrone, Rv. 664417-01, con riferimento alla vendita di beni mobili, ha affermato che laddove non trovi applicazione l’art. 1518 c.c., in caso di ritardo da parte del venditore nella consegna della merce è onere dell’acquirente provare di aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per la perdita di valore del bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni, anche sulla base di elementi indiziari allegati dallo stesso danneggiato. Sempre con riferimento all’onere probatorio in esame, Sez. 2, n. 09960/2022, Giannaccari, Rv. 664326-01, ha affermato che l’obbligo di garanzia per vizi della cosa venduta dà luogo ad una responsabilità speciale interamente disciplinata dalle norme sulla vendita, che pone il venditore in situazione non tanto di obbligazione, quanto di soggezione, esponendolo all’iniziativa del compratore, intesa alla modificazione del contratto od alla sua caducazione mediante l’esperimento, rispettivamente, della actio quanti minoris o della actio redhibitoria. Ne consegue che, essendo dette azioni fondate sul solo dato obiettivo dell’esistenza di vizi, indipendentemente da ogni giudizio di colpevolezza, l’onere della relativa prova grava sul compratore, non trovando applicazione i principi relativi all’inesatto adempimento nelle ordinarie azioni di risoluzione e risarcimento danno.

Sempre in tema di danno subito dal compratore a causa dei vizi della cosa venduta e, in particolare della tutela rimediale apprestata a quest’ultimo, Sez. 2, n. 01218/2022, Falaschi, Rv. 663573-01, ha statuito che il compratore, che abbia subito un danno a causa dei vizi della cosa, può rinunciare a proporre l’azione per la risoluzione del contratto o per la riduzione del prezzo ed esercitare la sola azione di risarcimento del danno dipendente dall’inadempimento del venditore, sempre che in tal caso ricorrano tutti i presupposti dell’azione di garanzia e, quindi, siano dimostrate la sussistenza e la rilevanza dei vizi ed osservati i termini di decadenza e di prescrizione ed, in genere, tutte le condizioni stabilite per l’esercizio di tale azione.

Sez. 2, n. 00996/2022, Besso Marcheis, Rv. 663568-01, ha affrontato il tema del termine di prescrizione della domanda di risoluzione a seguito della vendita di aliud pro alio. In particolare, con riferimento alla fattispecie di una vendita di un quadro non autentico, qualificabile, il diritto di richiedere la risoluzione e il conseguente risarcimento del danno è assoggettato alla prescrizione ordinaria decennale, il cui termine inizia a decorrere dalla consegna del quadro, che segna il momento in cui si verifica l’inadempimento, senza che rilevi la circostanza che l’acquirente non fosse a conoscenza della non autenticità, in quanto ai fini della sospensione del termine di prescrizione rileva l’impossibilità che derivi da cause giuridiche, non anche impedimenti soggettivi o ostacoli di mero fatto, tra i quali devono annoverarsi l’ignoranza del fatto generatore del diritto, il dubbio soggettivo sull’esistenza di esso e il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento.

9.4. La compravendita immobiliare.

Particolare rilievo assume la statuizione espressa da Sez. 2, n. 21441/2022, Scarpa, Rv. 665176-01, secondo cui qualora il compratore – il quale abbia acquistato un immobile per costruirvi un edificio secondo un progetto cedutogli dal venditore come realizzabile sotto il profilo urbanistico – veda poi ostacolata tale realizzabilità da azioni ripristinatorie proposte da terzi per il mancato rispetto delle norme relative alle distanze tra costruzioni, non si riscontra alcuna violazione dell’impegno traslativo del diritto di proprietà sulla cosa venduta e non possono, dunque, trovare applicazione ne´ la disciplina sulla garanzia per l’evizione parziale (perché non si tratta di vendita di cosa parzialmente altrui ex art 1480 c.c.), ne´ quella sulla garanzia per vendita di cosa gravata da oneri o da diritti reali di godimento non apparenti di terzi (la quale riguarda la diversa ipotesi di cosa venduta come libera, ma che poi risulti gravata da taluno dei pesi anzidetti: art. 1489 c.c.), potendo, eventualmente, ricorrere, piuttosto, l’ipotesi di un difetto di qualità promesse o essenziali ai sensi dell’art. 1497 c.c., la cui domanda rientra nella disciplina degli adempimenti contrattuali.

Con specifico riferimento a fattispecie in cui ricorre l’inadempimento del venditore assumono rilievo le seguenti pronunce. Sez. 2, n. 12032/2022, Bertuzzi, Rv. 664419-01, si è occupata del ricorso avverso la pronuncia di merito che aveva dichiarato legittimo il recesso da parte del promissario acquirente di un immobile per inadempimento del venditore, il quale aveva scientemente taciuto, in sede di stipula del preliminare, che l’immobile compromesso era sottoposto, da circa due anni, ad una procedura esecutiva. Tale condotta, costituente grave inadempimento dell’obbligo di correttezza contrattuale, aveva pregiudicato la parte promissaria acquirente, in ordine alla possibilità sia di nominare un terzo acquirente al momento della stipula del contratto definitivo, che di accedere al mutuo bancario necessario per il pagamento del saldo del prezzo, che gli era stato rifiutato. Nel confermare la statuizione di merito, la Corte ha precisato che la risoluzione prevista dall’art. 1482 c.c., ha carattere automatico e stragiudiziale, operando allo stesso modo della diffida ad adempiere e non costituisce per l’acquirente un rimedio speciale o esclusivo, ma alternativo, di ulteriore protezione e tutela del suo interesse all’adempimento, sicché egli conserva la possibilità di esperire l’azione ordinaria di risoluzione del contratto, in presenza del presupposto già richiamato della gravità dell’inadempimento. Sez. 2, n. 24900/2022, Casadonte, Rv. 665581-01, ha, poi, affermato che solo dopo che la parte acquirente abbia vista accertata, con sentenza definitiva, l’esistenza del peso ed onere sul bene, nella specie la non potenzialità edificatoria del terreno, scatta la garanzia contrattuale e il termine per esercitare l’azione ex art. 1489 c.c. Ne consegue che il predetto termine decorre non dalla conclusione del contratto ma dal passaggio in giudicato della sentenza.

Con riferimento all’ipotesi di alienazione di un bene immobile unitamente ad una sua pertinenza senza alcuna menzione di quest’ultima nella nota di trascrizione, Sez. 2, n. 01471/2022, Tedesco, Rv. 663769-01, ha sancito che, ove l’autore provveda ad una successiva alienazione del solo bene pertinenziale con tempestiva trascrizione, il secondo avente causa che non trovi trascritto l’acquisto dell’immobile pertinenziale contro l’alienante, ma trovi solo la trascrizione del bene principale, può avvalersi di questo difetto per fare prevalere il proprio acquisto limitatamente alla pertinenza, indipendentemente da ogni indagine sulla buona o malafede.

Sez. 6-2, n. 27834/2022, Giannaccari, Rv. 665713-01, ha, poi, affermato che “Nel caso di vendita di un immobile a corpo, anziché a misura, l’irrilevanza dell’estensione del fondo vale soltanto in relazione alla determinazione del prezzo, secondo il diverso regime di cui agli artt. 1537 e 1538 c.c., ma non alla identificazione del bene effettivamente venduto. Ne consegue in tal caso che, qualora le parti, nel contratto di compravendita, abbiano identificato la porzione di immobile che ne formava oggetto facendo specifico riferimento ai dati catastali e al tipo di frazionamento, il giudice deve tener conto necessariamente di tali elementi, che, per espressa volontà delle parti, perdono l’ordinaria natura di elemento probatorio di carattere sussidiario per assurgere ad elemento fondamentale per l’interpretazione dell’effettivo intento negoziale delle parti”.

10. Il giuoco e la scommessa.

In tema di giochi e scommesse Sez. 3, n. 33576/2022, Rossello, Rv. 666148-01, ha affermato che il biglietto del gioco del lotto non può essere annoverato tra i titoli di credito, ex art. 1992 c.c. e, quindi, non incorpora il diritto indicato, in quanto non è dotato dei requisiti di letteralità e autonomia che connotano tali titoli; esso, valendo ad attestare la giocata del possessore, cui pagare la vincita, costituisce titolo di legittimazione in senso ampio, ex art. 2002 c.c., atto ad individuare l’avente diritto alla prestazione e quindi idoneo, per un verso, a liberare il debitore che paga in buona fede al possessore e, per altro verso, a legittimare il possessore della ricevuta a richiedere il pagamento della vincita. Ne consegue che il giocatore ha diritto di ottenere la prestazione costituente la vincita non perché essa è contenuta nel biglietto, bensì perché le regole del contratto di lotteria di cui trattasi gliela attribuiscano in presenza di determinate condizioni, anche estranee al biglietto stesso.

  • obbligazione
  • divorzio
  • diritto bancario
  • giurisdizione
  • fallimento

CAPITOLO XIII

LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE

(di Francesco Graziano )

Sommario

1 Premessa. - 2 La ripetizione d’indebito con riguardo alla condanna successivamente caducata. - 3 La ripetizione d’indebito ed il riparto dell’onere probatorio, con particolare riferimento ai contratti bancari. - 4 La ripetizione dell’indebito e l’esecuzione forzata. - 5 L’indebito nell’assegno divorzile. - 6 L’indebito tributario e la giurisdizione ordinaria. - 7 Rapporti tra fallimento e ripetizione d’indebito. - 8 Azione di arricchimento senza causa: presupposti, profili processuali e liquidazione del relativo indennizzo.

1. Premessa.

Nel corso dell’anno 2022, la S.C. ha ribadito i principi in merito alla disciplina della ripetizione dell’indebito, con particolare riferimento ai relativi oneri probatori. Anche con riguardo all’arricchimento senza causa sono stati ribaditi i principi concernenti i presupposti, i profili processuali e la liquidazione del relativo indennizzo.

2. La ripetizione d’indebito con riguardo alla condanna successivamente caducata.

La disciplina della ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c. ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa (ex plurimis, Sez. L, n. 18266/2018, Lorito, Rv. 649965-01). L’azione di restituzione delle somme pagate in base ad una pronuncia di condanna successivamente caducata non è, invece, riconducibile allo schema della ripetizione d’indebito perché si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale e, dunque, non si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dell’accipiens. Per ottenere la restituzione di quanto pagato, prosegue Sez. 3, n. 34011/2021, Rubino, Rv. 662956-01, è necessaria la formazione di un titolo restitutorio, il quale comprende ex lege, senza bisogno di una specifica domanda in tal senso e a prescindere anche da una sua espressa menzione nel dispositivo, il diritto del solvens di recuperare gli interessi legali, con decorrenza, ex art. 1282 c.c., dal giorno dell’avvenuto pagamento.

In questa scia, Sez. 6-3, n. 27943/2022, Iannello, Rv. 665976-02, ha chiarito che la domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una pronuncia di condanna caducata è proponibile in separato giudizio e al relativo accoglimento non osta l’erronea qualificazione giuridica della stessa operata dall’attore, competendo al giudice il potere-dovere di effettuare autonomamente tale qualificazione nei limiti dei fatti dedotti, senza che si possa configurare un giudicato ostativo in ordine alla qualificazione operata dal primo giudice, ove non consti che essa abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito.

3. La ripetizione d’indebito ed il riparto dell’onere probatorio, con particolare riferimento ai contratti bancari.

In punto di oneri probatori, come chiarito da Sez. 2, n. 27372/2021, Criscuolo, Rv. 662545-01, allorché una parte, provata la consegna di una somma di denaro all’altra, ne domandi la restituzione omettendo di dimostrare la pattuizione del relativo obbligo e la controparte non deduca alcuna causa idonea a giustificare il suo diritto a trattenere la somma ricevuta, il rigetto per mancanza di prova della domanda restitutoria va argomentato con cautela e tenendo conto di tutte le circostanze del caso, onde accertare se la natura del rapporto e le circostanze del caso concreto giustifichino che l’accipiens trattenga senza causa il denaro ricevuto dal solvens.

Nella specie, la S.C. ha riformato la sentenza della Corte di appello osservando che, a fronte di un’espressa imputazione del versamento da parte dell’attrice, documentata dalla causale del bonifico, il giudizio in ordine alla carenza di prova dell’esistenza del rapporto di mutuo invocato dalla ricorrente, non si era attenuto al criterio di particolare cautela valutativa, specie in presenza di un’allegazione difensiva della controparte che si fondava unicamente su documenti unilaterali predisposti in epoca successiva alla dazione della somma.

Sez. 3, n. 34427/2022, Condello, Rv. 666272-01, ha precisato che chi alleghi di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e proponga nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma versata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta.

In particolare, la S.C. con tale pronuncia ha cassato la decisione della corte territoriale che, nell’accogliere la domanda di restituzione di parte dei compensi proposta da due clienti nei confronti del loro difensore, aveva fatto gravare su quest’ultimo l’onere di provare la causa che potesse giustificare il diritto a trattenere la somma asseritamente ritenuta in eccesso rispetto a quella indicata nella fattura, senza valutare se i clienti avessero fornito la prova dell’inesistenza della causa giustificativa del pagamento che asserivano non dovuto.

La tematica in oggetto, nel corso dell’anno 2022, è stata altresì sviluppata con riguardo ai contratti bancari.

In particolare, Sez. 1, n. 01550/2022, Solaini, Rv. 663942-01, ha affermato che in materia di contratti bancari che prevedano il pagamento di interessi anatocistici o a tasso ultralegale, la prova dell’inesistenza di una giusta causa dell’attribuzione patrimoniale, compiuta in favore del convenuto, grava sull’attore in ripetizione dell’indebito, ancorché si tratti di prova di un fatto negativo; la produzione del contratto posto a base del rapporto bancario è a tal fine, per un verso, non indispensabile e, per altro verso, neppure sufficiente.

Non è sufficiente perché, anche qualora sia stato esibito il contratto, resta possibile che l’accordo sugli interessi sia stato stipulato con un atto diverso e successivo; e non è neppure indispensabile, perché anche altri mezzi di prova, quali le presunzioni, unitamente agli argomenti di prova ricavabili dal comportamento processuale della controparte, ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., nonché, al limite, il giuramento, possono valere allo scopo di dimostrare l’assenza dei fatti costitutivi del debito dell’attore.

Analogamente, Sez. 1, n. 19812/2022, Amatore, Rv. 665218-01, ha precisato che in tema di conto corrente bancario, ove al conto acceda un’apertura di credito, grava sul cliente che esperisce l’azione di ripetizione di interessi non dovuti l’onere di allegare e provare l’erronea applicazione del criterio di imputazione di cui all’art. 1194 c.c. (secondo cui ogni pagamento deve essere imputato prima agli interessi e poi al capitale) alle rimesse operate, in ragione della natura ripristinatoria delle stesse, trattandosi di fatto costitutivo della domanda di accertamento negativo del debito, con la conseguenza che non è configurabile un onere a carico della banca di dedurre e dimostrare quali rimesse abbiano carattere solutorio.

Del resto, è stato anche chiarito che nel contratto di conto corrente assistito da apertura di credito, ove il cliente agisca per la ripetizione degli importi indebitamente versati, la banca che sollevi l’eccezione di prescrizione può limitarsi ad affermare l’inerzia del titolare del diritto, dichiarando di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte; al contrario il correntista, attore nell’azione di ripetizione, ha l’onere di produrre in giudizio gli estratti conto dai quali emerge la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti, di modo che ove non assolva a tale onere la domanda attrice deve essere respinta, senza necessità di esaminare l’eccezione di prescrizione (Sez. 1, n. 21225/2022, Falabella, Rv. 665196-01).

4. La ripetizione dell’indebito e l’esecuzione forzata.

Il pagamento spontaneo eseguito in ottemperanza all’intimazione contenuta nel precetto o allo scopo di evitare l’espropriazione o anche dopo il pignoramento, ma prima della definizione del processo esecutivo con la distribuzione del ricavato dalla vendita dei beni, non osta all’esperimento, da parte del debitore, dell’azione di ripetizione di indebito contro il creditore per ottenere la restituzione di quanto riscosso. La preclusione all’azione ex art. 2033 c.c., come già chiarito da Sez. 3, n. 15963/2021, Tatangelo, Rv. 661635-01, deriva, infatti, soltanto dalla chiusura della procedura con l’approvazione del progetto di distribuzione, la quale comporta l’intangibilità della concreta ed effettiva attribuzione delle somme ricavate, né assume rilievo, sul piano sostanziale, la possibilità di proporre il rimedio, pur sempre facoltativo, dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.

In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 12673/2022, Di Marzio, Rv. 664682-01, ha affermato che in tema di interferenze fra procedura concorsuale ed esecuzione forzata, nell’ipotesi patologica in cui il giudice di quest’ultima, ancorché reso edotto del fallimento del debitore, dichiari l’esecutività del progetto di distribuzione, qualora il curatore rimanga inerte e non reagisca tempestivamente con il rimedio oppositivo, subisce l’irretrattabilità della successiva esecuzione del medesimo progetto, cui consegue l’intangibilità delle somme concretamente attribuite e l’impossibilità di chiederne la restituzione mediante l’esercizio dell’azione di ripetizione di indebito.

5. L’indebito nell’assegno divorzile.

Come noto, nel corso dell’anno 2021, la S.C. aveva affermato che, qualora sia stato disposto un assegno divorzile dal giudice di primo grado, ma questa decisione sia stata revocata dal giudice d’appello in conseguenza dell’accertamento dell’insussistenza originaria dei presupposti per la sua attribuzione, l’ex coniuge che ne abbia beneficiato è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto, a far data da quando ha iniziato a percepire gli emolumenti, oltre agli interessi legali dai rispettivi pagamenti e fino all’effettivo soddisfo, perché in caso di somme indebitamente versate in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva successivamente riformata, non si applica la disciplina della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., spettando all’interessato il diritto ad essere reintegrato dall’accipiens dell’intera diminuzione patrimoniale subita, a prescindere dal suo stato soggettivo di buona o mala fede (Sez. 1, n. 28646/2021, Campese, Rv. 662906-01).

Nell’anno 2022 sono intervenute, sulla tematica in esame, le sezioni unite, chiarendo che, in tema di assegno di mantenimento separativo e divorzile, ove si accerti nel corso del giudizio – nella sentenza di primo o secondo grado – l’insussistenza “ab origine”, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento del contributo, ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica, opera la regola generale della “condictio indebiti” che può essere derogata, con conseguente applicazione del principio di irripetibilità, esclusivamente nelle ipotesi in cui si escluda la debenza del contributo, in virtù di una diversa valutazione con effetto “ex tunc” delle sole condizioni economiche dell’obbligato già esistenti al tempo della pronuncia, ed ove si proceda soltanto ad una rimodulazione al ribasso, di una misura originaria idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente, sempre che la modifica avvenga nell’ambito di somme modeste, che si presume siano destinate ragionevolmente al consumo da un coniuge, od ex coniuge, in condizioni di debolezza economica (Sez. U, n. 32914/2022, Iofrida, Rv. 666186-01).

In altri termini, in materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione del richiedente o avente diritto, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione), sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità.

6. L’indebito tributario e la giurisdizione ordinaria.

Nell’anno oggetto di rassegna, è stato ribadito il principio secondo cui, con riferimento alle controversie aventi ad oggetto richieste di rimborso delle imposte, la giurisdizione generale del giudice tributario può essere esclusa – a favore del giudice ordinario, configurandosi un’ordinaria azione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. – nel solo caso in cui l’Amministrazione abbia formalmente riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, sicché non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il “quantum” del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato, ipotesi a cui va equiparata quella in cui la certezza dell’indebito derivi da una sentenza passata in giudicato (Sez. U., n. 00761/2022, Crucitti, Rv. 663585-01). In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto spettare alla giurisdizione ordinaria l’azione proposta da un’azienda ospedaliera di condanna del concessionario della riscossione al versamento di quanto ricevuto a seguito di pignoramento presso terzi in esecuzione di una cartella di pagamento di cui, con sentenza divenuta irrevocabile, era stato accertato lo sgravio da parte dell’ente impositore.

7. Rapporti tra fallimento e ripetizione d’indebito.

Sez. 1, n. 00621/2022, Mercolino, Rv. 663685-01, ha chiarito che, in tema di ripetizione dell’indebito, il soggetto pignorato che, in sede di espropriazione presso terzi, e dopo la dichiarazione di fallimento del debitore esecutato, in qualità di “debitor debitoris”, versi al creditore pignorante le somme a lui assegnate, ha diritto a ottenere da quest’ultimo la restituzione di quanto corrisposto, ma il termine di prescrizione della relativa azione decorre dalla data del pagamento, e non dal passaggio in giudicato della sentenza che, su domanda del curatore, pronunci l’inefficacia ex art. 44 l.fall. del pagamento stesso, avendo quest’ultima natura meramente dichiarativa.

8. Azione di arricchimento senza causa: presupposti, profili processuali e liquidazione del relativo indennizzo.

L’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., per la sua natura complementare e sussidiaria, può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti: a) la mancanza di un titolo specifico idoneo a far valere il diritto di credito; b) l’unicità del fatto causativo dell’impoverimento sussistente quando la prestazione resa dall’impoverito sia andata a vantaggio dell’arricchito e lo spostamento patrimoniale non risulti determinato da fatti distinti, incidenti su due situazioni diverse e in modo indipendente l’uno dall’altro, con conseguente esclusione dei casi di arricchimento cd. “indiretto”. In essi, difatti, l’arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell’impoverito. Tuttavia, avendo l’azione di ingiustificato arricchimento uno scopo di equità, il suo esercizio deve ammettersi anche nel caso di arricchimento indiretto nei soli casi nei quali lo stesso sia stato realizzato dalla P.A., in conseguenza della prestazione resa dall’impoverito ad un ente pubblico, ovvero sia stato conseguito dal terzo a titolo gratuito (Sez. 3, n. 29672/2021, Scarano, Rv. 662731-01; conf. Sez. U, n. 24772/2008, Travaglino, Rv. 604830-01).

Sez. 2, n. 05086/2022, Giannaccari, Rv. 663923-01, in tema di rapporti tra ex conviventi “more uxorio”, ha affermato che in favore del convivente che abbia realizzato, a proprie spese, opere sull’immobile di proprietà del partner e che, cessata la convivenza, pretenda di essere indennizzato per le spese sostenute ed il lavoro compiuto, trova applicazione non l’art. 936 c.c., che ha riguardo solo all’autore delle opere che non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo, bensì la disposizione di cui all’art. 2041 c.c. sull’arricchimento senza causa, purché si accerti, tenuto conto dell’entità delle opere in base alle condizioni personali e patrimoniali dei partners, che le spese erano state sostenute ed il lavoro era stato compiuto senza spirito di liberalità, in vista di un progetto di vita comune, e che, realizzando quelle opere, il convivente non aveva intenzione di adempiere ad alcuna obbligazione naturale.

In ambito processuale, Sez. 3, n. 14944/2022, Scarano, Rv. 664823-01, ha ribadito il principio (già affermato da Sez. 2, n. 11682/2018, Penta, Rv. 648332-01) secondo cui l’azione di arricchimento può essere valutata, se proposta in via subordinata rispetto all’azione contrattuale articolata in via principale, soltanto qualora quest’ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento, ma non anche nel caso in cui sia stata proposta una domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti al relativo accoglimento. In particolare, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l’ammissibilità dell’azione di arricchimento sul presupposto che la stessa fosse stata esercitata in via subordinata rispetto ad un’azione contrattuale respinta per carenza di prova, mentre invece nessuna azione contrattuale era stata esercitata nei riguardi delle parti destinatarie dell’azione ex art. 2041 c.c.

È stato altresì confermato, da Sez. 1, n. 18145/2022, Marulli, Rv. 664950-01, che la proposizione per la prima volta in appello dell’azione di ingiustificato arricchimento è inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c. quando in primo grado sia stata proposta azione contrattuale, poiché le due azioni sono diverse sia per la “causa petendi”, basandosi quest’ultima sull’obbligazione assunta e l’azione di arricchimento sull’assenza di un vincolo negoziale, sia per il “petitum” avendo l’azione contrattuale ad oggetto il corrispettivo pattuito e l’azione di ingiustificato arricchimento la corresponsione di un indennizzo equivalente alla diminuzione patrimoniale subita (Sez. 6-1, n. 03058/2021, Iofrida, Rv. 660579-01).

Con riguardo alla liquidazione dell’indennizzo ex art. 2041 c.c., Sez. 1, n. 28930/2022, Crolla, Rv. 665890-01, ha confermato il principio (già espresso da Sez. 3, n. 01889/2013, D’Amico, Rv. 624953-01) secondo cui tale indennizzo, in quanto credito di valore, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia ed il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche d’ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell’interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell’indennizzo medesimo. La somma così liquidata produce interessi compensativi, i quali sono diretti a coprire l’ulteriore pregiudizio subito dal creditore per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell’opera, o per le erogazioni o gli esborsi che ha dovuto effettuare, e decorrono dalla data della perdita del godimento del bene o degli effettuati esborsi, coincidente con quella dell’arricchimento. Analogamente, Sez. 6-3, n. 35480/2022, Guizzi, Rv. 666352-01, ha affermato che il credito indennitario ex art. 2041 c.c., per l’espletamento di prestazioni professionali in favore della pubblica amministrazione in assenza di un valido contratto scritto, va liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia, dovendo il giudice tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell’interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell’indennizzo medesimo, producendo, inoltre la somma così liquidata interessi da liquidarsi al tasso legale, e non ai sensi dell’art. 9 della legge 2 marzo 1949, n. 143, decorrenti dalla data dell’arricchimento della pubblica amministrazione, ovvero dal momento del completo espletamento della prestazione in suo favore.

  • circolazione stradale
  • trasporto di merci pericolose
  • responsabilità civile
  • danno

CAPITOLO XIV

LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE

(di Luigi La Battaglia, Paola Proto Pisani (1) )

Sommario

1 L’ingiustizia del danno. - 2 La colpa. - 3 Il nesso di causalità. - 4 La responsabilità solidale. - 5 Il danno patrimoniale. - 5.1 La determinazione del danno risarcibile. - 5.2 Allegazione e prova del danno patrimoniale. - 5.3 La prescrizione del credito risarcitorio. - 6 Il danno non patrimoniale. - 6.1 Nozione e caratteri del danno non patrimoniale. - 6.2 Il danno morale. - 6.3 Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. - 6.4 Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità. - 6.5 Il danno non patrimoniale da perdita di chance. - 7 La liquidazione del danno non patrimoniale. - 7.1 La liquidazione del danno biologico. - 7.2 La compensatio lucri cum damno. - 7.3 La liquidazione tabellare del danno da perdita del rapporto parentale. - 8 Le responsabilità speciali. - 8.1 Genitori, tutori, precettori e maestri d’arte. - 8.2 Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). - 8.3 Attività pericolose (art. 2050 c.c.). - 8.4 Cose in custodia (art. 2051 c.c.). - 8.5 Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). - 8.6 Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.). - 9 I rapporti tra processo penale e giudizio civile risarcitorio. - 9.1 Il giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. - 9.2 L’efficacia del giudicato penale nel processo civile e di quello civile nel processo penale.

1. L’ingiustizia del danno.

In ordine al requisito dell’ingiustizia del danno, nell’anno in rassegna si registrano interessanti applicazioni di principi già affermati nella giurisprudenza della Corte.

Quanto alla lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente e alla risarcibilità del danno non patrimoniale che ne consegue, distinto dal danno alla salute, si segnala l’applicazione dei principi in precedenza già affermati dalla giurisprudenza della Corte in tema di responsabilità medica e di violazione degli obblighi di informazione, nella particolare fattispecie della violazione da parte dell’amministrazione carceraria degli obblighi informativi sull’esito dei periodici accertamenti sulla salute dei detenuti, cui l’amministrazione è tenuta ai sensi dell’art. 11 della legge 26 luglio 1975, n. 354.

Sez. 3, n. 28394/2022, Rubino, Rv. 665954-01 ha infatti affermato il principio così massimato da questo Ufficio: “l’amministrazione carceraria ha l’obbligo di tutelare la salute del singolo detenuto - indipendentemente dalle richieste da questo provenienti o dal suo disinteresse alle proprie condizioni di salute - attraverso periodici accertamenti medici, il cui esito gli deve essere comunicato; ne consegue che la lesione del diritto del detenuto all’informazione può essere fonte di responsabilità risarcitoria dell’amministrazione sia per il danno non patrimoniale inferto alla salute, sia per il pregiudizio, autonomamente risarcibile, cagionato all’autodeterminazione”. In tale pronuncia la Corte, in una fattispecie in cui l’amministrazione non aveva informato il detenuto sull’esito positivo del test per l’HIV, ha ribadito il principio (già in precedenza affermato, ex multis, da Sez. 3, n. 9706/2020, Olivieri, Rv. 657783 – 01, in motivazione, e da Sez. 3, n. 28985/2019, Olivieri, Rv. 656134-02) secondo cui il diritto all’autodeterminazione del malato non si identifica con la lesione del bene salute o con la perdita di chance, ma integra la lesione di un bene autonomo di per sé risarcibile in quanto tutelato dalla Costituzione. L’informazione in ordine agli esiti del test è stata ritenuta dovuta non solo con riferimento al diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 della Cost., ma anche al fine di consentire il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione del malato, ritenendo possibile la lesione, in mancanza di una corretta e tempestiva informazione, di entrambi questi diritti, e anche la causazione di un pregiudizio non patrimoniale, distinto dalla perdita della possibilità di controllo o rallentamento della malattia, consistente nella perdita della possibilità di una “consapevole predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo” e di libera scelta dei propri percorsi esistenziali.

La riconosciuta autonomia del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico, rispetto al diritto alla salute, sta alla base anche di un’altra pronuncia intervenuta nell’anno in rassegna, la quale, in tema di rifiuto delle trasfusioni da parte dei testimoni di Geova, ha affermato che, “se il paziente presta il consenso ad un intervento a rischio emorragico e al contempo manifesta un inequivoco dissenso all'esecuzione di trasfusioni di sangue in caso di avveramento di tale rischio, il medico può legittimamente rifiutare l’intervento autorizzato, perché il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; tuttavia, qualora il sanitario opti comunque per l’esecuzione dell'intervento, è tenuto a rispettare il dissenso opposto, diversamente integrandosi la lesione del diritto all' autodeterminazione del paziente” (Sez. 3 , n. 26209/2022, Porreca, Rv. 665650-01).

In tale sentenza la Corte, dopo aver ribadito che la manifestazione del consenso alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli - autonomo e distinto rispetto a quello alla salute, e fondato sugli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost. -, ha affrontato la questione della responsabilità medica nel caso in cui sia prestato il consenso a un intervento chirurgico cui è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri. In questo caso, il bilanciamento tra il diritto del medico di rifiutarsi di eseguire un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale, e il fondamentale diritto del paziente all’autodeterminazione è stato risolto dalla Corte riconoscendo la prevalenza del primo, “fermo restando che, se accetta d’intervenire, [il medico] dovrà farlo alle condizioni di rispettare il dissenso del paziente, diversamente integrandosi la lesione del diritto all’autodeterminazione di quest’ultimo”.

Sempre nel campo dell’ingiustizia del danno per lesione di diritti della persona, Sez. 1, n. 4562/2022, Fidanzia, Rv. 664165-01, in tema di immigrazione, ha ritenuto che l’illegittimo trattenimento presso un Centro di identificazione ed espulsione di un cittadino straniero produce un danno da ingiusta detenzione, integrando la lesione di un diritto inviolabile costituzionalmente garantito come la libertà personale.

Nel diverso ambito della lesione di interessi di natura patrimoniale, Sez. 3, n. 15913/2022, Guizzi, Rv. 665104-01, ha ribadito il principio secondo cui l’usufruttuario ha un’autonoma legittimazione ad agire ex art. 2043 c.c. per il risarcimento dei danni occorsi al bene oggetto del suo diritto, così confermando la pronuncia di merito che aveva accolto la domanda dell’usufruttuario di un bosco ceduo, volta al risarcimento dei danni cagionati dall’erronea esecuzione del taglio degli alberi da parte dei terzi, eredi dell’originario alienante che si era riservato il relativo diritto.

Nel campo del diritto societario (nel sistema precedente all’introduzione dell’art. 2497 c.c. da parte del d.lgs. n. 6 del 2003), Sez. 1, n. 14876/2022, Nazzicone, Rv. 664768-01, ha ritenuto che, a tutela del ceto creditorio della società eterodiretta (poi fallita), pregiudicato dalla diminuzione del patrimonio conseguente all’attività di abuso di direzione e coordinamento della capogruppo, il curatore avrebbe potuto azionare un’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., anche prima dell’introduzione dell’art. 2497 c.c., ad opera del d.lgs. 17 gennaio , n. 6, con la conseguenza che la decorrenza del relativo termine di prescrizione non poteva ritenersi preclusa anteriormente al 1° gennaio 2004 (data di entrata in vigore della menzionata disposizione).

2. La colpa.

In tema di colpa, nell’anno in rassegna si segnala Sez. 3, n. 26275/2022, Vincenti, Rv. 665623-01, la quale, in tema di responsabilità per emotrasfusioni con sangue infetto, ha ritenuto che la struttura che non le abbia eseguite attraverso un proprio autonomo centro interno, utilizzando sacche acquisite tramite il servizio pubblico competente, è onerata di provare la propria condotta diligente e, cioè, di essersi concretamente accertata che il sangue trasfuso fosse stato sottoposto a controlli preventivi ed effettivi da parte del suddetto servizio. Sempre nell’ambito della responsabilità sanitaria, Sez. 3, n. 13510/2022, Porreca, Rv. 664845-01 ha affermato che, il cosiddetto “soft law” delle linee guida, pur non avendo la valenza di norma dell’ordinamento, costituisce espressione di parametri per l’accertamento della colpa medica, che contribuiscono alla corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella legale disciplinata da clausole generali, quali quelle contenute negli artt. 1218 e 2043 c.c. È stato così ribadito il principio già affermato nella giurisprudenza della Corte (Sez. 3, n. 11208/2017, Cardino, Rv. 644394 – 01) che, il rispetto, da parte del sanitario, delle “linee guida” costituisce un utile parametro, sebbene non esaustivo, nell’accertamento di una sua eventuale colpa.

In tema di responsabilità per omissione, Sez. 3, n. 3294/2022, Gorgoni, Rv. 663775-01, ha ritenuto che, ai fini dell’integrazione della fattispecie di responsabilità, è necessario che alla sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso si accompagni il criterio soggettivo di imputazione della responsabilità, traducentesi in un addebito quantomeno colposo all’agente. Nel caso di specie (relativo a una controversia successoria nella quale l’erede testamentario invocava la responsabilità extracontrattuale di quello legittimo, per aver fatto apporre i sigilli a un immobile ereditario senza compiere l’inventario “quanto prima”), la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto tale omissione di per sé suscettibile di condurre alla condanna del convenuto a risarcire il danno derivante dalla mancata disponibilità del bene, senza verificare la concreta imputabilità del danno a titolo di colpa, così illegittimamente espungendo da tale norma il riferimento al criterio soggettivo di imputazione della responsabilità. In motivazione, la Terza Sezione evidenzia che “le fattispecie normative di responsabilità in cui la colpa non è il criterio di imputazione della responsabilità, ove non si profilino come tipiche (ad esempio responsabilità ambientale), rispondono comunque al requisito della specificità, giacché ciascuna di esse ha una sua disciplina che contiene la specificazione del criterio di imputazione del danno, la delimitazione dell'ambito di applicabilità, le eventuali cause di esonero dalla responsabilità”.

Per quel che riguarda la responsabilità della Pubblica Amministrazione, Sez. L, n. 2340/2022, Buffa, Rv. 663673-01, ha ribadito la necessità che l’evento dannoso sia imputabile a colpa o dolo della p.a., senza che sia configurabile una colpa in re ipsa, connessa al mero dato obiettivo dell’esecuzione volontaria di un provvedimento illegittimo. Sul versante della responsabilità omissiva (con particolare riguardo a quella per i danni cagionati da cani randagi), Sez. 6 - 3, n. 9621/2022, Guizzi, Rv. 664453-01 ha ritenuto, invece, che, una volta individuato - alla stregua della normativa nazionale e regionale applicabile - l’ente titolare dell’obbligo giuridico di recupero degli stessi, il danneggiato è chiamato a provare soltanto che l’evento dannoso rientri nel novero di quelli che la regola cautelare omessa mira ad evitare, e solo una volta che l’ente abbia, a propria volta, dimostrato di essersi attivato rispetto a tale onere cautelare, sarà tenuto ulteriormente a dimostrare (anche per presunzioni) l’esistenza di segnalazioni o di richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi. Infine, Sez. 3, n. 1180/2022, Iannello, Rv. 663704 -01, ha ritenuto il sindaco di un comune solidalmente responsabile dei danni subiti da uno spettatore a causa dell’accensione non autorizzata di fuochi di artificio, dal momento che, pur a conoscenza del programmato spettacolo pirotecnico, era rimasto inerte rispetto all’obbligo (su di lui gravante in qualità di ufficiale di governo) di vigilare sul corretto esercizio delle attività suscettibili di porre in pericolo l’incolumità dei cittadini, anche quando non siano state oggetto di alcuna autorizzazione.

3. Il nesso di causalità.

Nell’anno in rassegna, la Corte di cassazione ha ribadito l’impossibilità di escludere il nesso causale fra condotta ed evento dannoso, per il solo fatto che siano prospettabili più cause possibili ed alternative, essendo chiamato il giudice a stabilire, alla stregua di una valutazione comparativa, quale tra esse sia, in concreto, la più probabile.

In proposito, Sez. 3, n. 25884/2022, Pellecchia, Rv. 665948-01, ha affermato che, qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”; pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente. Il caso di specie riguardava la morte di un paziente a seguito della sopravvenienza, nella fase finale di un intervento chirurgico, di un’emorragia per la lacerazione di una vena che i consulenti d’ufficio avevano prospettato poter derivare da una pluralità di autonome cause, di cui due più probabili delle altre, tra le quali una soltanto riconducibile ad una scorretta esecuzione dell’intervento da parte dei medici, senza tuttavia precisare quali delle due ipotesi alternative “più probabili” fosse, in concreto, la più probabile. La Corte, nell’enunciare il principio di diritto di cui sopra, ha statuito doversi applicare, nel caso di specie, il criterio della probabilità prevalente, il quale “implica che, rispetto ad ogni enunciato fattuale, venga considerata l'eventualità che esso possa essere vero o falso, e che, accertatane la consistenza indiziaria, l’ipotesi positiva venga scelta come alternativa razionale quando è logicamente più probabile di altre ipotesi, in particolare di quella/e contraria/e, per essere viceversa scartata quando gli elementi di fatto disponibili le attribuiscano una grado di conferma “debole”, tale, cioè, da farla ritenere scarsamente credibile rispetto alle altre. In altri termini, il giudice deve scegliere l’ipotesi fattuale (essendo la valutazione del nesso di causalità un giudizio di fatto di tipo relazionale) ritenendo “vero” l’enunciato che abbia ricevuto il grado di maggiore conferma relativa sulla base dei fatti indiziari disponibili, rispetto ad ogni altro enunciato, senza che rilevi il numero degli elementi di conferma dell'ipotesi prescelta, e senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori”. Quanto all’operazione intellettuale cui è chiamato il giudice di merito, in tal caso, la Corte ha individuato tre fasi: a) l'eliminazione, dal novero delle ipotesi valutabili, di quelle meno probabili; b) l'analisi, tra le rimanenti ipotesi, di quelle ritenute più probabili; c) la scelta, tra le ipotesi così residuate (nella specie, in numero di due) di quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente.

La sempre maggiore attenzione della Corte, in tema di accertamento del nesso causale, alle circostanze del caso concreto (su cui è innestato il giudizio di probabilità logica, distinto da quello di probabilità quantitativa) emerge anche in tema di danni alla salute conseguenti alle vaccinazioni. In un caso in cui la sentenza di merito aveva escluso il nesso causale tra l'insorgenza della poliomielite e la somministrazione del vaccino “Salk”, sulla base unicamente di una valutazione di astratta non pericolosità dello stesso alla stregua delle conoscenze scientifiche dell’epoca della somministrazione, senza ulteriormente indagarne la sicurezza in relazione alla fattispecie concreta, sotto il profilo dell’eventuale appartenenza a un lotto non correttamente prodotto o confezionato (tanto più che si trattava della somministrazione della terza dose in paziente che aveva già manifestato gravi e abnormi reazioni in occasione delle due precedenti), Sez. 3, n. 34027/2022, Gorgoni, Rv. 666269 -01, ha affermato che l’accertamento del nesso causale implica la concorrente valutazione, da un lato, della (astratta) pericolosità del vaccino alla stregua delle leggi di copertura scientifica e, dall’altro, della sua effettiva sicurezza in relazione alla singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, apprezzata sulla scorta delle circostanze del caso concreto per come emerse dall’istruzione probatoria condotta nel processo.

Sempre in tema di danno alla salute, Sez. 3, n. 13512/2022, Moscarini, Rv. 664638-01, ha ritenuto che il nesso causale tra decesso intervenuto per tumore polmonare ed esposizione ad amianto possa ritenersi provato quando, sulla scorta delle risultanze scientifiche e delle evidenze già note al momento dei fatti e secondo il criterio del “più probabile che non”, possa desumersi che la non occasionale esposizione all’agente patogeno - in relazione alle modalità di esecuzione delle incombenze lavorative, alle mansioni svolte e all’assenza di strumenti di protezione individuale - abbia prodotto un effetto patogenico sull’insorgenza o sulla latenza della malattia.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 3285/2022, Guizzi, Rv. 663773-01, ha ritenuto errato negare l’efficienza causale della condotta sulla base del mero dato cronologico della risalenza nel tempo della stessa rispetto all’evento dannoso verificatosi, dal momento che, all’interno di una stessa serie causale, non può distinguersi “tra cause mediate ed immediate, dirette ed indirette, precedenti e successive”, salvo che non si riconosca all’ultima verificatasi - ma a condizione che sia “autonoma, eccezionale ed atipica” - l’idoneità a produrre, da sola, l’evento dannoso, per tal ragione degradando la causa remota a semplice occasione dell’evento dannoso. Diversamente opinando, il nesso causale finirebbe per essere affermato solo in presenza di relazioni di “prossimità cronologica” tra condotta ed evento, dandosi così ingresso al principio (più volte avversato dalla giurisprudenza di legittimità) post hoc ergo propter hoc (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che, in relazione a una domanda di risarcimento del danno ambientale, aveva escluso il nesso causale tra lo sversamento di materiale oleoso, provocato dal cedimento del manto stradale in corrispondenza delle cisterne che lo contenevano, e le condotte ascritte ai convenuti, precedenti proprietari dell’area, di occultamento sotto la sede stradale di tali cisterne e di mancata rimozione delle stesse, in quanto poste in essere molti anni prima dell’evento lesivo).

Sez. 3, n. 4908/2022, Scoditti, Rv. 663928-01, ha ritenuto la partecipazione a un’associazione a delinquere di per sé sufficiente a fondare la responsabilità civile per i danni conseguenti ai reati-fine commessi dai relativi componenti, precisando che il nesso rilevante non è quello della porzione di contributo dell’associato all’attività associativa che sarebbe singolarmente strumentale ai fini della ulteriore condotta illecita ma quello della mera partecipazione all’associazione, posto che ciò che rileva è la complessiva strumentalità della struttura associativa, di cui il soggetto è parte, alla realizzazione di determinati comportamenti illeciti. Nel caso di specie, la Terza sezione ha confermato la sentenza di merito che, accertata l’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di frodi fiscali preordinate a conseguire indebiti rimborsi IVA, aveva riconosciuto la responsabilità di un membro della stessa anche in relazione alle operazioni compiute presso uffici finanziari diversi da quello nel quale egli operava.

L’accertamento del nesso causale tra il fatto illecito e l’evento di danno (rappresentato, in questo caso, dalla perdita non del bene della vita in sé ma della mera possibilità di conseguirlo) non soggiace a un diverso regime nel danno da perdita di chance, sicché sullo stesso non influisce, in linea di principio, la misura percentuale della suddetta possibilità, della quale, invece, dev’essere provata la serietà ed apprezzabilità ai fini della risarcibilità del conseguente pregiudizio (in tal senso Sez. 6 - 3, n. 2261/2022, Gorgoni, Rv. 663862-02, che, con riferimento a una fattispecie in cui l’attore non era stato ammesso a partecipare alla prova scritta di un concorso indetto da un’azienda ospedaliera, a causa del ritardo con cui gli era stata recapitata la raccomandata contenente la relativa convocazione, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, sulla base della mera allegazione, da parte del candidato, del titolo di studio che lo abilitava a partecipare alla selezione, in mancanza della prova della sussistenza, nella propria sfera giuridica, di una seria e apprezzabile possibilità di conseguire il risultato atteso).

Sempre in tema di procedure selettive, nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, Sez. L , n. 35432/2022, Sarracino, Rv. 666383-01, ha ritenuto che nel caso in cui un lavoratore, privo dei requisiti fissati dal bando per la partecipazione ad una procedura selettiva interna (in quanto erroneamente inquadrato a un livello inferiore rispetto a quello necessario per la partecipazione alla stessa), ne ottenga successivamente il riconoscimento per via giudiziale, la mancata presentazione della domanda di ammissione con riserva non rappresenti un fattore causale sopravvenuto, idoneo ad elidere il nesso eziologico tra l’inadempimento del datore di lavoro e l’invocato danno da perdita di chance, né ad integrare una condotta colposa rilevante ai sensi dell’art. 1227 c.c.

Sez. 3, n. 21563/2022, Scarano, Rv. 665185-01, ha ritenuto configurabile l’interruzione del nesso di causalità soltanto quando la causa sopravvenuta (che può identificarsi anche con la condotta dello stesso danneggiato) sia da sola sufficiente a provocare l’evento, in quanto autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, sì da assorbire sul piano giuridico ogni diverso antecedente causale e ridurlo al ruolo di semplice occasione.

D’altra parte, in tema di danni derivanti dalla presentazione di denuncia o esposto all’autorità giudiziaria o amministrativa, ancorché infondata, Sez. 6 - 2, n. 299/2022, Scarpa, Rv. 663966-01, ha ribadito il principio secondo cui deve escludersi la responsabilità a carico del denunciante o dell’esponente, ai sensi dell’art. 2043 c.c., tranne nel caso di calunnia; al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare della funzione giurisdizionale o della potestà provvedimentale si sovrappone in ogni caso all’iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato.

4. La responsabilità solidale.

Uniformandosi all’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, Sez. U, n. 13143/2022, Terrusi, Rv. 664654-01, ha ribadito che l’art. 2055 c.c. - norma imperniata sull’unicità del fatto dannoso, in quanto finalizzata alla tutela dell’interesse del danneggiato - è integrato ogniqualvolta il fatto suddetto sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e anche se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale). È irrilevante, pertanto, l’eventuale diversità delle norme giuridiche violate, essendo necessario unicamente che le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno. La solidarietà va esclusa, allora, dall’angolo visuale dell’art. 41 c.p., solo nell’ipotesi in cui ad uno degli antecedenti causali possa riconoscersi efficienza assorbente, di modo che gli altri fattori siano ridotti al rango di semplici occasioni.

Un esempio di solidarietà tra soggetti responsabili a diverso titolo di un evento dannoso è offerto dalla fattispecie su cui si è soffermata Sez. 6 - 1, n. 27267/2022, Bisogni, Rv. 665709-01, relativa ai danni non patrimoniali invocati (anche per la figlia minore) da una madre che era stata ripresa, senza il suo consenso, mentre era ricoverata in ospedale per il parto, nell’ambito della realizzazione di un programma televisivo, successivamente andato in onda nonostante la formale diffida dell’attrice. In tale caso, la Corte ha condannato in solido al risarcimento del danno, da un lato la struttura sanitaria presso cui la donna si trovava (responsabile, a titolo contrattuale, per la violazione degli specifici obblighi di protezione dei pazienti rispetto alle potenziali lesioni provenienti da terzi), e dall’altro l’emittente televisiva (della quale si configurava, invece, una responsabilità extracontrattuale per violazione del generale principio del neminem laedere), proprio sull’assunto che l’applicazione dell’art. 2055 c.c. postuli soltanto l’unicità del fatto. S’inscrive, invece, nell’alveo del (solo) versante aquiliano la responsabilità solidale del sindaco e dell’associazione “Pro loco” per i danni subiti dallo spettatore a causa dell’accensione di fuochi di artificio non autorizzata, riconosciuta da Sez. 3, n. 1180/2022, Iannello, Rv. 663704-01, in ragione del fatto che il sindaco è tenuto, in qualità di ufficiale di governo, a vigilare sul corretto esercizio delle attività suscettibili di porre in pericolo l’incolumità dei cittadini, anche quando non siano state oggetto di alcuna autorizzazione.

Il soggetto passivo della fattispecie risarcitoria può esimersi da responsabilità, addossandola per intero in capo al corresponsabile, ma solo nei rapporti interni con quest’ultimo, e mai con efficacia nei confronti (anche) del danneggiato: in tal senso si è espressa, nell’annualità in rassegna, Sez. 2, n. 20840/2022, Oliva, Rv. 665172-01, secondo cui la clausola di un contratto di appalto, nella quale si preveda che tutti i danni che i terzi dovessero subire dall’esecuzione delle opere siano a totale ed esclusivo carico dell’appaltatore, rimanendone indenne il committente, non può essere da quest’ultimo invocata quale ragione di esenzione dalla propria responsabilità risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato per effetto di quei lavori, atteso che tale clausola, operando esclusivamente nei rapporti fra i contraenti, alla stregua dei principi generali sull’efficacia del contratto fissati dall'art 1372 c.c., non può vincolare il terzo a dirigere verso l’una, anziché verso l’altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito occasionato dall’esecuzione del contratto. Al di fuori di tale evenienza, il rapporto interno tra i co-autori del fatto illecito è disciplinato dalla regola del regresso delineata dall’art. 2055, comma 2, c.c. (che fa richiamo alla “misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate”), la quale - ovviamente - presuppone (secondo Sez. 3, n. 36902/2022, Sestini, Rv. 666287-01) che ciascuno dei corresponsabili abbia una parte di colpa nel verificarsi dell’evento dannoso, così escludendo implicitamente la possibilità di esercitare l’azione di regresso nei confronti di coloro che, essendo tenuti a rispondere del fatto altrui in virtù di specifiche disposizioni di legge - dunque in base ad un criterio di imputazione legale - risultano per definizione estranei alla produzione del danno (ciò che, peraltro, la Corte ha escluso essersi verificato nella specie, in relazione al mancato esercizio del poteri autoritativi da parte del sindaco di un comune, suscettibile di fondare, oltre alla responsabilità penale di costui, una responsabilità diretta dell’amministrazione di riferimento, ai sensi dell’art. 2043 c.c., in virtù del rapporto di immedesimazione organica).

Natura peculiare ha l’azione di regresso nei confronti dei responsabili del sinistro prevista dall’art. 292, comma 1, d.lgs. n. 209 del 2005 (codice delle assicurazioni private), in favore dell’impresa designata dal Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada che abbia risarcito il danneggiato. Essa - come ha statuito Sez. U, n. 21514/2022, Scrima, Rv. 665191-01 - non è, infatti, assimilabile né allo schema del regresso tra coobbligati solidali, né a quello della surrogazione nel diritto del danneggiato, in ragione della peculiarità della solidarietà passiva, atipica e ad interesse unisoggettivo, esistente, nel sistema dell’assicurazione obbligatoria, tra impresa assicuratrice e responsabile civile. Ne consegue che, per mezzo di tale azione, l’impresa designata può convenire in giudizio il responsabile civile (o i responsabili, laddove il proprietario del veicolo non assicurato non coincida con il conducente) per il recupero dell’intero importo corrisposto al danneggiato e, quindi, non solo della quota gravante sul soggetto inadempiente all’obbligo assicurativo, non trovando applicazione l'art. 1299 c.c., né l'art. 2055 c.c., con l'ulteriore conseguenza che ciascuno dei corresponsabili è tenuto per l'intero anche nell'eventualità che uno degli altri sia insolvente (Sez. U, n. 21514/2022, Scrima, Rv. 665191-02).

Una responsabilità solidale per lo stesso titolo (il rapporto di custodia con la cosa, ai sensi dell’art. 2051 c.c.) è stata ravvisata da Sez. 6 - 2, n. 516/2022, Bertuzzi, Rv. 663807-01, in capo vuoi al condominio vuoi al proprietario (o usuario esclusivo) del lastrico solare (o terrazza a livello) dal quale era scaturito il danno (dovuto, nella specie, all’occlusione di un pluviale), con la conseguenza dell’insussistenza di un litisconsorzio necessario tra i diversi soggetti obbligati.

5. Il danno patrimoniale.

5.1. La determinazione del danno risarcibile.

In ordine alla determinazione del danno patrimoniale risarcibile, nell’anno in rassegna Sez. 6 - 3, n. 33537/2022, Guizzi, Rv. 666346-01, ha ribadito il principio consolidato in base al quale l’art. 1223 c.c., laddove individua il danno nella perdita subita e nel mancato guadagno, riflette una prospettiva "differenzialista", per la quale il danno coincide col pregiudizio economico dato dalla differenza tra il valore attuale del patrimonio del danneggiato e quello che lo stesso avrebbe avuto se l’obbligazione fosse stata tempestivamente ed esattamente adempiuta o il fatto illecito non fosse stato perpetrato, dovendosi escludere che, al di fuori di una specifica previsione di legge (nei termini delineati da Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01), il risarcimento possa avere funzione “ultracompensativa”, in quanto l’ordinamento non consente che un soggetto si arricchisca ai danni di un altro, in mancanza di una causa giustificatrice del relativo spostamento patrimoniale. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva quantificato il danno patrimoniale da inadempimento dell’obbligazione professionale di progettazione e costruzione di un impianto di riscaldamento destinato a uno stabilimento industriale con riferimento ai costi necessari all’integrale smantellamento e rifacimento di quello preesistente, senza scomputare le spese che la società committente avrebbe comunque dovuto sostenere per procurarsi un impianto confacente alle caratteristiche dello stabilimento medesimo.

Coerentemente con tale principio, Sez. 2, n. 22580/2022, Trapuzzano, Rv. 665250-01, pur riconoscendo che il risarcimento del danno patrimoniale si estende, in linea di principio, anche agli oneri accessori e conseguenziali - con l’effetto che la liquidazione determinata in base alle spese da affrontare per riparare un bene strumentale all’esercizio dell’attività d’impresa comprende anche l’iva, anche se la riparazione non sia ancora avvenuta -, ha ribadito che tale estensione non spetta allorché il danneggiato, per l’attività svolta, abbia diritto al rimborso o alla detrazione dell’Iva versata per tale riparazione.

La determinazione dell’esatta entità del pregiudizio postula l’applicazione della regola della compensatio lucri cum damno, che si traduce in un’eccezione in senso lato, la quale non integra la deduzione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto azionato, ma una mera difesa in ordine all’esatto ammontare del danno risarcibile, ed è, come tale, rilevabile d’ufficio dal giudice (il quale, per determinare l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio). Ha statuito in tal senso, nell’annualità in rassegna, Sez. 1, n. 23588/2022, Parise, Rv. 665368-01, cassando con rinvio la sentenza di merito che, nel determinare il danno occorso a una società costruttrice in conseguenza dell’inadempimento, da parte di un Comune, degli obblighi discendenti da una convenzione urbanistica, aveva omesso di considerare il potenziale vantaggio correlato al valore delle opere di urbanizzazione eseguite su terreni rimasti in proprietà della società stessa, sul presupposto del mancato assolvimento, da parte del citato Comune, dell’onere di provare il suddetto vantaggio.

In altro campo, relativo al risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, Sez. 3, n. 1152/2022, Graziosi, Rv. 663698-01, ha ritenuto che la pubblicazione di una rettifica ai sensi dell’art. 8 della l. n. 47 del 1948 non determina, quale conseguenza automatica, la riduzione del danno, dovendosi procedere a una valutazione in concreto della relativa incidenza sullo specifico pregiudizio già verificatosi quale conseguenza delle dichiarazioni offensive.

5.2. Allegazione e prova del danno patrimoniale.

Con riferimento al tema dell’allegazione e prova del danno patrimoniale, si segnala, nell’anno in rassegna, la pronuncia delle Sezioni Unite, intervenuta a comporre il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità in relazione alla risarcibilità del danno patrimoniale da occupazione senza titolo di un bene immobile, sotto il profilo della configurabilità di un c.d. danno in re ipsa consistente nella perdita della facoltà del proprietario di godere del bene, per il sol fatto dell’occupazione abusiva dello stesso da parte del terzo (Sez. U, n. 33645/2022, Scoditti, Rv. 666193-01, -02, -03, -04). Dopo aver distinto, ai fini della delimitazione del campo d’indagine, il danno emergente (cui va ascritto anche quello conseguente all’impossibilità di locare il bene ai valori di mercato) dal lucro cessante (cui deve essere ricondotto il pregiudizio discendente dall’impossibilità di alienare il bene immobile ovvero darlo in locazione per un canone superiore a quello medio di mercato), le Sezioni Unite dichiarano di voler perseguire un “punto di mediazione” tra la concezione normativa del danno, tendente a configurare un “danno presunto” legato alla natura normalmente fruttifera del bene occupato (suscettibile, peraltro, della prova contraria ”che il proprietario si è intenzionalmente disinteressato dell’immobile”) e la concezione cd. causalistica, per cui il pregiudizio in discorso non può essere fatto coincidere con l’evento di danno rappresentato dalla mancata disponibilità del bene, postulando la prova (anche per presunzioni) di aver perso concrete occasioni di vendita o di locazione dello stesso. Tenendo ferma la distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica (entrambe necessarie per l’integrazione della fattispecie di responsabilità, quali “due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto”), concludono, allora, che, nell’ipotesi in cui oggetto della lesione sia non la cosa, “ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa”, accanto alla tutela restitutoria (cui fa capo l’obbligo di corresponsione dei frutti ex art. 1148 c.c.), la configurabilità del danno risarcibile postula l’allegazione (e prova) “della specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva”. Ciò comporta l’irrisarcibilità del (danno conseguente al) non uso, atteso che “l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato”. La perdita della possibilità di godimento integra un danno emergente anche nell’ipotesi in cui si alleghi che detto godimento sarebbe stato concesso a terzi contro un corrispettivo corrispondente ai frutti civili. In questo caso, il criterio di liquidazione equitativa utilizzabile è omogeneo, attestandosi sul valore locativo di mercato, che rappresenta - per l’appunto - il controvalore convenzionalmente attribuito al godimento alla stregua della tipizzazione normativa del contratto di locazione. Al lucro cessante afferiscono, invece, quelle perdite di occasioni di guadagno “da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 c.c., ma alla titolarità del diritto”, espressioni “della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali” (pag. 10). Si tratta, in concreto, del danno conseguente alla impossibilità di vendere l’immobile o locarlo a un canone superiore a quello di mercato, il quale necessita “di prova specifica, anche in via presuntiva”. Dal punto di vista processuale, all’allegazione, da parte dell’attore, di una delle voci di danno suddette potrà contrapporsi la (specifica) contestazione del convenuto, la quale attiverà, in capo all’attore stesso, l’onere di provare il fatto costitutivo del risarcimento, se del caso mediante il ricorso alle presunzioni ovvero alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Oggetto di prova sarà, a seconda dei casi, la perdita della possibilità di godimento (diretto o indiretto), ovvero di alienazione o concessione in locazione del bene a canone maggiore di quello medio di mercato. Non potendo operare il meccanismo della non contestazione per i fatti ignoti al convenuto, la necessità di prova diretta da parte dell’attore sarà statisticamente più frequente nell’ipotesi in cui il pregiudizio invocato assuma le forme del mancato guadagno (ove la prova potrà atteggiarsi sulla falsariga di quella del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c.); mentre, qualora a venire in questione sia il danno emergente, si assisterà “a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva”.

Sempre in tema di prova del danno patrimoniale, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 27389/2022, Cricenti, Rv. 665950-01, la quale, in coerenza con l’impianto argomentativo delle Sezioni Unite (benché precedente alla decisione delle stesse) ha ribadito il principio secondo cui il danno da “fermo tecnico” di veicolo incidentato non è in re ipsa ma dev’essere provato, essendo sufficiente, peraltro, a tal fine, la dimostrazione della spesa sostenuta per il noleggio di un mezzo sostitutivo, la cui derivazione causale dall’illecito è possibile inferire alla stregua del ragionamento presuntivo.

In tema di danno patrimoniale conseguente alla morte di un congiunto per fatto illecito addebitabile ad un terzo Sez. 3, n. 21402/2022, Guizzi, Rv. 665209-03, ha ribadito il principio secondo cui è risarcibile il pregiudizio subito per effetto del venir meno di prestazioni aggiuntive, in denaro o in altre forme comportanti un’utilità economica, erogate in vita dal congiunto deceduto, spontaneamente e in assenza di obbligo giuridico, ai figli o ai nipoti, a condizione che preesistesse una situazione di convivenza (ovvero una concreta pratica di vita, in cui rientri l’erogazione di provvidenze all’interno della famiglia allargata), in mancanza della quale, non essendo altrimenti prevedibile con elevato grado di certezza un beneficio durevole nel tempo, non può sussistere perdita che si risolva in un danno patrimoniale.

In ordine all’illecita pubblicazione dell’immagine della persona non nota, Sez. 3, n. 11768/2022, Cirillo, Rv. 664629-01, ha ritenuto che la stessa dà luogo al risarcimento anche del danno patrimoniale, il quale, ove non sia possibile dimostrare specifiche voci di pregiudizio, può essere quantificato nella somma corrispondente al compenso che il danneggiato avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, equitativamente determinata con riguardo al vantaggio economico conseguito dall’autore della pubblicazione e ad ogni altra circostanza utile, tenendo conto, in particolare, dei criteri enunciati dall'art. 158, comma 2, della l. n. 633 del 1941 (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva negato il risarcimento del danno patrimoniale in capo a un soggetto che, senza avervi consentito, era stato ripreso per 14 secondi, nell'ambito di una trasmissione televisiva, mentre rendeva testimonianza in seno a un processo penale, sul presupposto che - per la sua scarsa notorietà, l’assenza di finalità pubblicitarie o di intrattenimento, il brevissimo frangente temporale nel quale la sua immagine era stata diffusa - non avrebbe potuto conseguire alcun compenso per l’assenso alla messa in onda delle immagini in questione).

Un’altra importante pronuncia delle Sezioni Unite si è incentrata sul danno patrimoniale conseguente all’evasione fiscale (Sez. U, n. 29862/2022, Rossetti, Rv. 665940-04), statuendo che lo stesso, allorché l’evasione integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest’ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell’erario, non può farsi coincidere automaticamente con il tributo evaso, ma deve necessariamente consistere in un pregiudizio “ulteriore e diverso”, ricorrente qualora l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità di riscuotere il credito erariale. Con riferimento all’ipotesi di reato commesso dal contribuente, le Sezioni Unite, premesso che il debito d’imposta costituisce un’obbligazione pecuniaria scaturente dalla legge, ai sensi dell’art. 1173 c.c., e che, in caso di inadempimento, il creditore conserva il diritto di esigere coattivamente il proprio credito (che mantiene intatti fonte, struttura, contenuto e mezzi di tutela) e, al tempo stesso, acquista il diritto di pretendere il risarcimento del danno (art. 1218 c.c.), hanno chiarito che diritto alla prestazione e diritto al risarcimento del danno formano oggetto di due obbligazioni diverse: la prima nascente dalla legge, la seconda dall’inadempimento della prima. Da ciò consegue che l’imposta non versata dall’evasore non costituisce - di norma - per l’erario un “danno” in senso tecnico, dal momento che, in primo luogo, il credito accertato e non adempiuto spontaneamente non è perduto, ma potrà essere oggetto di esecuzione forzata; in secondo luogo, l’amministrazione finanziaria dispone di una vasta gamma di strumenti sostanziali, processuali e cautelari per tutelare le proprie ragioni e riscuotere i propri crediti tributari (i quali, consentendole di procedere alla riscossione coattiva del tributo e soddisfarsi sul patrimonio del debitore ai sensi dell'art. 2740 c.c., impediranno - di norma – all’erario di pretendere a titolo di risarcimento del danno l'importo dell’imposta evasa); in terzo luogo, l’amministrazione finanziaria è titolata ad emettere provvedimenti idonei ad acquistare ex se l’efficacia del titolo esecutivo, sicché il creditore munito di tale titolo finirebbe per pretenderne un secondo senza utilità, con la conseguenza che l’azione di danno sarebbe inammissibile per difetto di interesse. Se ne conclude, quindi, che, in tutti i casi in cui l’amministrazione non abbia perduto il diritto di agire esecutivamente nei confronti del debitore e questi abbia un patrimonio capiente, il danno causato dal reato non può ravvisarsi nell’importo del tributo evaso. Per le stesse ragioni, non è possibile chiedere al giudice penale, a titolo di risarcimento del danno da reato, la liquidazione del credito per interessi moratori, il quale deve essere, del pari, obbligatoriamente liquidato e riscosso secondo le forme della riscossione delle imposte. Non può, peraltro, escludersi che l’evasione fiscale possa causare all’erario un pregiudizio ulteriore o diverso rispetto a quello ristorato dagli interessi di mora, per il quale non sia possibile ricorrere agli strumenti di riscossione coattiva previsti dal diritto tributario: ipotesi, quest’ultima, da ricondursi al “maggior danno” di cui all'art. 1224, comma 2, c.c., che è espressione di un precetto generale ed è, dunque, applicabile anche alle obbligazioni tributarie. Questo pregiudizio non può, però, identificarsi nel c.d. “danno funzionale” (ovvero nel “turbamento dell'attività amministrativa” conseguito all’attività di accertamento dell’evasione). L’attività di accertamento è, infatti, una delle funzioni per le quali gli uffici dell’amministrazione finanziaria sono costituiti e finanziati, e non può ritenersi “danno” ex art. 1218 c.c. lo svolgimento proprio di quell’attività per la quale una struttura amministrativa è costituita. Un “maggior danno” ex art. 1224, comma 2, c.c., derivante dalla commissione di un reato tributario, potrà dunque ammettersi solo a condizione che l’amministrazione deduca e dimostri l’esistenza di uno specifico pregiudizio, che sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito (art. 1223 c.c.), ulteriore o diverso rispetto a quello costituito dal costo della propria normale attività istituzionale. Laddove il credito tributario resti esigibile, non è ipotizzabile alcun danno neppure nel caso in cui l’evasione fiscale integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente. Se, invece, l’esazione del credito tributario, in conseguenza del reato, sia divenuta impossibile o di difficile realizzo, il danno che il terzo avrà arrecato all’erario va ricondotto alla fattispecie del “danno da lesione del credito” che annovera, quali suoi presupposti, l’esistenza d'un credito; la sopravvenuta impossibilità (fattuale o giuridica) della sua esazione; un nesso di causa tra l’illecito e la perdita del credito. Il terzo correo del reato tributario potrà, quindi, essere chiamato a rispondere nei confronti dell’erario: a) del danno da perdita del credito tributario, se sia dimostrato che in assenza della condotta illecita l’amministrazione finanziaria avrebbe potuto esigere il proprio credito dal contribuente, secondo la regola causale della preponderanza dell’evidenza; b) di eventuali ed ulteriori danni diversi dal tributo evaso, ai sensi dell'art. 1224, comma 2, c.c.; c) nel caso di corresponsabilità penale, del danno non patrimoniale di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.

Sulla base delle considerazioni che precedono, le Sezioni Unite negano che l’Amministrazione abbia la possibilità di scegliere tra la riscossione coattiva del tributo e l’azione aquiliana, tenuto conto che, nei confronti del contribuente, l’alternativa tra riscossione coattiva e azione di danno è esclusa dalla già rilevata circostanza che il “danno” in senso tecnico causato dall’evasore all'erario non coincide con l’imposta evasa (e che, dunque, da un lato, l’azione aquiliana è inutilizzabile per ottenere l’esatta esecuzione della prestazione dovuta e, dall’altro, le forme speciali della riscossione coattiva dei tributi non consentono di esigere il ristoro del “maggior danno” ex art. 1224, comma 2, c.c.); nei confronti di eventuali correi (ex art. 110 c.p.) o corresponsabili (ex art. 2055 c.c.) dell’evasione, se l’erario ha titolo, in base alla legislazione di settore, per agire in executivis nei confronti di persona diversa dal contribuente, l’esistenza di tale titolo rende inconcepibile l’azione di danno, mentre se tale titolo non sussiste, la via dell'azione aquiliana è obbligata e non vi saranno alternative possibili.

Sotto il profilo della ripartizione dell’onere della prova, nei rapporti tra erario e contribuente spetterà al primo dimostrarne l’esistenza, l’entità e la derivazione causale dal fatto illecito del(l’unico) danno patrimoniale risarcibile di cui all’art. 1224, comma 2, c.c., mentre, nei rapporti tra l’erario e il terzo corresponsabile dell’evasione, sull’erario incomberà l’onere di provare la titolarità del credito; la perdita di questo per fatto del terzo; il nesso di causa tra condotta del terzo e perdita del credito. Se poi l’erario, per negligenza, trascuri di riscuotere il proprio credito o di avvalersi degli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale, o incorra colpevolmente in prescrizione o decadenze, tali condotte rileveranno ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., di modo che spetterà al convenuto eccepire e dimostrare che l’erario ha perso il credito per propria negligenza, ai sensi della norma appena citata.

Infine, in tema di liquidazione del danno patrimoniale futuro per spese di cura e assistenza Sez. 3, n. 13727/2022, Vincenti, Rv. 666261-01, ha rimarcato che, nel rispetto del principio di integralità del risarcimento, il giudice di merito deve considerare la prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato e non può assumere a riferimento la speranza di vita media nazionale, salvo il caso in cui la predetta prognosi individuale non sia possibile, ritenendo, comunque, errato (anche in quest’ultimo caso) l’utilizzo delle tabelle di cui al r.d. n. 1403 del 1922, essendo queste costruite su tavole di mortalità ormai obsolete e individuando un “montante di anticipazione” basato su un coefficiente di capitalizzazione non più corrispondente alla realtà attuale.

5.3. La prescrizione del credito risarcitorio.

Sez. 3, n. 27014/2022, Iannello, Rv. 665766-01, ha affermato che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da illegittima cancellazione dalle liste di collocamento obbligatorio decorre dal momento in cui il lavoratore raggiunge l’età pensionabile, poiché è in tale momento che insorge il danno che segna il perfezionamento della fattispecie legale e la conseguente insorgenza del credito risarcitorio. In applicazione di tale principio, la cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva individuato il dies a quo della prescrizione nel momento dell’erronea cancellazione del lavoratore dagli elenchi del collocamento obbligatorio, anziché in quello del manifestarsi della conseguenza pregiudizievole, rappresentata dal trattamento pensionistico deteriore a seguito del mancato accumulo del capitale contributivo.

Due rilevanti pronunce hanno interessato, nell’anno in rassegna, un settore nel quale tradizionalmente cospicua è la produzione giurisprudenziale, quello del danno da emotrasfusioni. Sez. 3, n. 14748/2022, Sestini, Rv. 664822-01, ha affermato che, in caso di patologie conseguenti ad infezione da virus HBV, HIV e HCV, la responsabilità del Ministero della salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi è configurabile solo a partire dal 1° gennaio 1968, posto che solo con la l. n. 592 del 1967 (che ha attribuito al Ministero specifiche funzioni in materia di “raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano”) vennero enucleati gli obblighi di cautela la cui violazione è suscettibile di fondare la condotta omissiva colposa del Ministero medesimo, e tenuto conto del lasso di tempo ragionevolmente occorrente per organizzare le attività di vigilanza e controllo. Conseguentemente, è stata confermata la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni conseguenti a una trasfusione di sangue effettuata nel 1963, sul presupposto che il ricorrente non avesse dedotto elementi idonei a sostenere l’assunto che all'epoca dei fatti sussistessero, da un lato, cognizioni scientifiche che consentissero di rilevare il rischio infettivo e di prevenirlo, e dall’altro obblighi di intervento da parte del Ministero, tali da rendere configurabile una sua condotta omissiva colposa. Sez. 3, n. 15379/2022, Ambrosi, Rv. 664832- 01, ha, invece, ritenuto che la pronuncia emessa nel giudizio intentato contro il Ministero della Salute per il riconoscimento dell’indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 abbia efficacia di giudicato, circa l’acquisizione della consapevolezza del nesso causale tra la somministrazione di emoderivati e la patologia contratta (funzionale all’individuazione del dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno), nel successivo giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della Salute, sussistendo l’identità di parti che costituisce presupposto indispensabile per la configurazione del fenomeno del giudicato esterno.

Infine, quanto al diritto al risarcimento preteso, nei confronti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dai soggetti danneggiati dall’esondazione di un fiume, Sez. U, n. 4115/2022, Grasso, Rv. 663845-01, ha affermato la decorrenza del relativo termine di prescrizione dal giorno in cui gli stessi hanno avuto la conoscenza (o la conoscibilità) tecnico-scientifica dell’incidenza causale delle carenze di progettazione e di manutenzione delle opere idrauliche, sicché – ha affermato la Corte – incorre in un errore di sussunzione (e, dunque, nella falsa applicazione dell’art. 2935 c.c.) il giudice di merito che, ai fini della determinazione della decorrenza del termine di prescrizione, ometta del tutto l’indicazione dei fatti sintomatici da cui i danneggiati avrebbero potuto immediatamente percepire, con la normale diligenza, i difetti delle opere idrauliche e il nesso di causalità con i danni subiti.

6. Il danno non patrimoniale.

6.1. Nozione e caratteri del danno non patrimoniale.

L’assetto sistematico della materia del risarcimento del danno non patrimoniale è tuttora ispirato ai principi messi a punto da Sez. U., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493-01, sul cui tronco si sono successivamente innestati arresti più recenti, che hanno contribuito a meglio definire i termini della relativa fattispecie. Centrale, sotto il profilo dell’ingiustizia del danno, resta la lesione dei diritti inviolabili della persona di ascendenza costituzionale, ai quali non può essere disconosciuta la frontiera di tutela “minima” rappresentata dal risarcimento del danno, al cospetto di una lesione munita del carattere della “serietà” e produttiva di un pregiudizio “grave” (ovvero non “bagatellare”). In ragione della loro “assolutezza”, i diritti inviolabili sono evidentemente tutelabili anche dinanzi a un contegno inerte della pubblica amministrazione, con la conseguenza che pertiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia nella quale il privato, deducendo l’omessa adozione da parte della P.A. degli opportuni provvedimenti a tutela del diritto alla salute, domandi il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a immissioni intollerabili di odori e polveri provenienti da un’azienda agricola privata, venendo in rilievo, alla stregua del criterio del petitum sostanziale, un comportamento materiale di pura inerzia delle autorità pubbliche, suscettibile di compromettere il nucleo essenziale del diritto soggettivo inviolabile alla salute (Sez. U, n. 23436/2022, Giusti, Rv. 665277-01).

Un ruolo preminente nelle pronunce giurisprudenziali compete senz’altro al risarcimento del danno da lesione del diritto alla salute (alias danno biologico), la cui conversione monetaria è stata storicamente agevolata dall’apporto della scienza medico-legale, grazie al quale è possibile convertire il dato descrittivo delle varie menomazioni in un valore cardinale convenzionale, rappresentato dalla percentuale di invalidità permanente. Quest’ultima - ha ribadito Sez. 6 - 3, n. 19229/2022, Rossetti, Rv. 665202-02 - non può, dunque, essere individuata in via equitativa, dovendosi determinare con corretto criterio medico-legale e in base ad un barème redatto con criteri di scientificità (requisito di cui è provvisto quello approvato con d.m. 3 luglio 2003).

Indipendentemente dalla lesione di un diritto inviolabile (peraltro ricorrente con frequenza anche in questi casi), la fattispecie delineata dall’art. 2059 c.c. (in combinato disposto con l’art. 185 c.p.) è integrata da un comportamento del danneggiante (astrattamente) integrante gli estremi del reato. Di notevole interesse, in argomento, appare Sez. 3, n. 4908/2022, Scoditti, Rv. 663928-01, secondo cui la partecipazione a un’associazione per delinquere è di per sé sufficiente a fondare la responsabilità civile per i danni conseguenti ai reati-fine commessi dai relativi componenti (nella specie, si trattava di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di frodi fiscali preordinate a conseguire indebiti rimborsi IVA, la responsabilità di un membro della quale era stata riconosciuta anche in relazione alle operazioni compiute presso uffici finanziari diversi da quello nel quale egli operava). Relativamente al reato di calunnia, si segnala, invece, Sez. 6 - 2, n. 299/2022, Scarpa, Rv. 663966-01, secondo la quale la presentazione di una denuncia o di un esposto all’autorità giudiziaria o amministrativa, seppur rivelatasi infondata, non può essere fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante o dell’esponente, ai sensi dell'art. 2043 c.c., se non quando possa considerarsi calunniosa; al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare della funzione giurisdizionale o della potestà provvedimentale si sovrappone in ogni caso all'iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato.

6.2. Il danno morale.

A partire da Sez. 3, n. 00901/2018, Travaglino, Rv. 647125-01-02-03-04, e Sez. 3, n. 07513/2018, Rossetti, Rv. 648303-01, la Corte di cassazione ha abbracciato un orientamento che, incrinando la concezione unitaria messa a punto dalle Sezioni Unite nel 2008, ha nuovamente scomposto il danno non patrimoniale in due pregiudizi distinti: uno interno all’individuo, rappresentato dalla sofferenza interiore, e uno esterno, consistente nelle ripercussioni dell’evento lesivo sulle sue abitudini di vita, proiettate in una dimensione dinamico-relazionale. La natura “unitaria” del risarcimento del danno non patrimoniale viene, dunque, intesa come “unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica” (così la sentenza n. 901), mentre, sul piano delle conseguenze pregiudizievoli della lesione, si prospetta un’ontologica differenza tra danno morale e danno dinamico-relazionale (quest’ultimo coincidente con il danno biologico, ove ad essere leso sia il diritto alla salute), che devono essere autonomamente apprezzati e liquidati.

Nell’anno in rassegna esprime bene la distinzione tra le due voci Sez. 3, n. 9006/2022, Scarano, Rv. 664553-01, secondo cui il danno morale consiste in uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato (che pure può influenzare) ed è insuscettibile di accertamento medico-legale, sicché, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico (in applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, nel liquidare il danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale sulla base delle Tabelle di Milano del 2018, aveva negato il riconoscimento del danno morale quale autonoma voce di pregiudizio, ritenendo che la considerazione della sofferenza interiore patita dal danneggiato potesse incidere unicamente sulla personalizzazione del risarcimento del danno biologico). Un approccio più incentrato sul profilo cronologico caratterizza, invece, Sez. 6 - 3, n. 12060/2022, Guizzi, Rv. 664839-01, che ha affermato che il danno morale, quale sofferenza interiore patita dal soggetto leso, si realizza nel momento stesso in cui l’evento dannoso si verifica, di modo che la sua liquidazione deve essere effettuata con riferimento a tale momento, senza che assuma rilievo la durata del periodo di residua sopravvivenza della vittima, come invece accade con riferimento alle ripercussioni afferenti alla sfera dinamico-relazionale del soggetto, naturalmente suscettibili di proiezione futura in rapporto alla sua effettiva permanenza in vita (nella specie, si trattava della sofferenza interiore patita dalla vittima di un incidente stradale, sulla cui liquidazione la Corte ha ritenuto non potesse incidere la circostanza dell’avvenuto decesso del danneggiato in corso di causa).

6.3. Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale.

Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale è un danno-conseguenza, discendente dalla violazione dell’interesse “all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.” (in questi termini, per la prima volta, Sez. 3, n. 8828/2003, Preden, Rv. 563841-01), il quale può manifestarsi alla stregua di sofferenza interiore e/o di contrazione delle abitudini afferenti alla sfera dinamico-relazionale del soggetto (ma anche di danno biologico in senso stretto, ove dia luogo a una patologia medico-legalmente accertabile). Non integrando un danno in re ipsa, esso dev’essere compiutamente allegato e provato, se del caso attraverso il ragionamento presuntivo. Tale ultimo assunto è stato ribadito, da ultimo, da Sez. 3, n. 25541/2022, Pellecchia, Rv. 665444-01, il cui principio di diritto è nel senso che il pregiudizio patito dai prossimi congiunti della vittima va allegato, ma può essere provato anche a mezzo di presunzioni semplici e massime di comune esperienza, dato che l’esistenza stessa del rapporto di parentela fa presumere la sofferenza del familiare superstite, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l’assenza di un legame affettivo, dal momento che la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. danno in re ipsa, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione. Più stretto, dunque, è il rapporto familiare spezzato, più pregnante è l’efficacia presuntiva che dalla stessa circostanza della lesione riverbera in ordine alla (prova della) esistenza del pregiudizio. Sez. 3, n. 22397/2022, Frasca, Rv. 665266-01, ha osservato, al riguardo, che l’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur); in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva negato qualsivoglia risarcimento ai fratelli di un uomo deceduto a seguito di un incidente stradale, per il solo fatto che due di essi risiedessero in India, e l’altro in una città italiana diversa da quella della vittima). Sulla stessa scia Sez. 3, n. 9010/2022, Tatangelo, Rv. 664554-01, che, in un caso in cui il giudice di merito aveva risarcito una donna per la perdita del marito, senza tener conto dell’incertezza circa l’effettiva convivenza tra i coniugi, della pacifica esistenza di una relazione extraconiugale del coniuge defunto e della circostanza che, a breve distanza di tempo dal decesso del marito, l’attrice aveva a sua volta intessuto una stabile relazione sentimentale con altro uomo (dalla quale, per giunta, era nato un figlio), ha ribadito che la presunzione di esistenza del pregiudizio conseguente al venir meno di effettivi rapporti di reciproco affetto e solidarietà con il congiunto, fondata sulla comune appartenenza al medesimo “nucleo familiare minimo”, può essere superata dalla prova contraria fornita dal convenuto, a sua volta imperniata su elementi presuntivi tali da farla venir meno (ovvero attenuarla), dovendo in ogni caso il giudice procedere, ai sensi dell'art. 2729 c.c., a una valutazione complessiva della gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari a sua disposizione.

Mano a mano che ci si allontana dalla famiglia cd. nucleare, all’attore è richiesto di provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale conculcata, attraverso la dimostrazione di circostanze di fatto ulteriori rispetto alla mera sussistenza dello stesso. Con riguardo, per esempio, al rapporto tra nonni e nipoti, Sez. 3, n. 7743/2020, Positano, Rv. 657503-01, aveva affermato che il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, poiché la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., non è limitata alla cd. “famiglia nucleare”, il rapporto tra nonni e nipoti, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, non può essere ancorato alla convivenza, escludendo automaticamente, in caso di insussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto. Sul tema del rapporto nonni-nipoti merita di essere segnalata, nell’annualità in rassegna, Sez. 3, n. 12987/2022, Cricenti, Rv. 664635-01, che, con riferimento al risarcimento invocato da una bambina che aveva perso il nonno all’età di otto mesi, ha ritenuto che non potesse configurarsi un danno risarcibile, né con riferimento al danno morale (in quanto si tratterebbe di un danno futuro soltanto eventuale) né quale danno da perdita del rapporto parentale (non potendosi configurare una lesione del godimento postumo di beni che il rapporto familiare avrebbe consentito).

L’assetto degli oneri probatori appena descritto non muta per la circostanza che la morte della vittima “primaria” sia intervenuta nell’ambito della responsabilità sanitaria, dal momento che - come ribadito da Sez. 3, n. 11320/2022, Spaziani, Rv. 664513-01 (sulla scia di Sez. 3, n. 14258/2020, Guizzi, Rv. 658316-01) - il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico non produce (fatta eccezione per il circoscritto campo delle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione) effetti protettivi in favore dei terzi, trovando applicazione il principio generale di cui all’art. 1372, comma 2, c.c., con la conseguenza che l’autonoma pretesa risarcitoria vantata dai congiunti del paziente per i danni ad essi derivati dall’inadempimento dell’obbligazione sanitaria, rilevante nei loro confronti come illecito aquiliano, si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.

In applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, dal risarcimento del danno spettante ai congiunti, in conseguenza del contagio della vittima “primaria” a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, deve essere scomputato - secondo Sez. 6 - 3, n. 8773/2022, Rossetti, Rv. 664448-02 – l’indennizzo una tantum, previsto in loro favore dall’art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992, trattandosi di beneficio spettante iure proprio e non iure hereditario, e dunque anche quando la persona contagiata, prima di morire, abbia a sua volta ottenuto il riconoscimento dell'indennizzo di cui all'art. 1 della medesima legge.

Merita di essere segnalata, infine, in tema di giurisdizione, Sez. U, n. 28427/2022, Vincenti, Rv. 665910-01, alla cui stregua, ai fini dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno extracontrattuale da perdita del rapporto parentale, per “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto”, ai sensi dell'art. 5, n. 3, del reg. CE n. 44 del 2001, deve intendersi quello in cui si è verificato il fatto generatore della responsabilità a carico della vittima “primaria” dell'illecito (nella specie, un incidente stradale mortale avvenuto in Germania), senza che rilevi, invece, il luogo ove si sono verificate le conseguenze pregiudizievoli ai danni dei congiunti che agiscono in giudizio.

6.4. Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità.

Un primo gruppo di pronunce pubblicate nel 2022 ha riguardato il tema (ormai “classico”) del rapporto tra diritto di cronaca (o critica) giornalistica e tutela dell’onore/reputazione/identità personale/riservatezza dell’individuo.

Cominciando dal diritto di cronaca, si pone nel solco di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità Sez. 3, n. 12985/2022, Sestini, Rv. 664634-01, che ne configura un esercizio legittimo laddove sia riportata la verità oggettiva (o anche solo putativa) della notizia sicché, secondo la distribuzione degli oneri probatori disciplinata dall'art. 2697 c.c., una volta provato dall’attore, che assume di essere stato leso da una notizia di stampa, il fatto della pubblicazione diffamatoria, spetterà al convenuto dimostrare, a fondamento dell’eccezione di esercizio del diritto di cronaca e della sussistenza della relativa esimente, la verità della notizia, che può atteggiarsi anche in termini di verità putativa, laddove sussista verosimiglianza dei fatti in relazione alla attendibilità della fonte (nel qual caso competerà all’attore dimostrarne l’inattendibilità). Per non incorrere in responsabilità - ha ribadito Sez. 1, n. 29265/2022, Terrusi, Rv. 665893-01 - il giornalista ha, quindi, l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa (a meno che non provenga dall'autorità investigativa o giudiziaria) e di accertare la verità del fatto pubblicato, restando altrimenti responsabile dei danni derivati dal reato di diffamazione a mezzo stampa, salvo che non provi l’esimente di cui all’art. 59, ult. comma c.p., ossia la sua buona fede. A tal fine, la cosiddetta verità putativa del fatto non dipende dalla mera verosimiglianza dei fatti narrati, essendo necessaria la dimostrazione dell’involontarietà dell’errore, dell’avvenuto controllo - con ogni cura professionale, da rapportare alla gravità della notizia e all’urgenza di informare il pubblico - della fonte e della attendibilità di essa, onde vincere dubbi e incertezze in ordine alla verità dei fatti narrati. Sulla cronaca giudiziaria è incentrata, in particolare, Sez. 3, n. 11769/2022, Cirillo F.M., Rv. 664805-01-02-03, che ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato una legittima espressione del diritto di cronaca in alcuni articoli giornalistici che davano conto dei rapporti intrattenuti da un alto ufficiale della Guardia di Finanza con un imprenditore sottoposto a indagini preliminari (dal quale il primo, in cambio di informazioni riservate, avrebbe ottenuto un posto di lavoro per la figlia e il denaro per l'acquisto di due immobili), sul presupposto che dal contesto dei suddetti articoli si evincesse chiaramente che le notizie erano state tratte dagli atti delle indagini in corso. Ha evidenziato la Corte, in questa pronuncia, che, laddove la notizia sia stata attinta da atti giudiziari, il requisito della verità è integrato ove la stessa sia fedele al contenuto dell’atto, senza che sia necessaria né la verifica della fondatezza del fatto ivi riportato, né l’indicazione specifica della fonte, purché dal contesto dell’articolo risulti con chiarezza la natura giudiziaria della fonte stessa, mentre integra un’inesattezza secondaria e marginale, insuscettibile di assumere valenza diffamatoria, la falsa attribuzione della qualità di indagato ad un soggetto che sia stato sentito come persona informata dei fatti, trattandosi di figure pur sempre afferenti alla fase delle indagini preliminari (anteriore all’esercizio dell'azione penale) e non potendosi pretendere da un giornalista l’uso tecnicamente ineccepibile dei corretti termini tecnici processuali. Infine, la Terza Sezione ha chiarito che, nel caso di attribuzione al danneggiato di una pluralità di fatti lesivi della sua reputazione, il requisito della verità della notizia deve sussistere con riguardo a ciascuno di essi, non potendo un fatto diffamatorio perdere tale valenza per la sua “portata offensiva marginale”, vale a dire solo perché affiancato da altro più grave.

Per quel che riguarda, invece, il diritto di critica (in particolare, nella sua declinazione di critica politica, nell’ambito della quale è consentito il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti intersoggettivi), Sez. 3, n. 11767/2022, Cirillo F.M., Rv. 664804-01, ha osservato che, perché possa considerarsi legittimo, il relativo esercizio presuppone pur sempre il rispetto del limite della continenza, intesa come correttezza formale dell’esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse (in applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto integrasse legittima espressione del diritto di critica politica l’affissione di manifesti nei quali si censurava la condizione di degrado del cimitero cittadino, accostando la figura del sindaco a quello di Satana).

Resta fermo, in linea generale, che la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione e la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio dei diritti di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione. Pertanto, con specifico riguardo al diritto di cronaca, il controllo affidato alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell'interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., applicabile ratione temporis, restando estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione (in tal senso si è pronunciata Sez. 3, n. 18631/2022, Scarano, Rv. 665016-01, che ha confermato la sentenza di merito che aveva accolto la domanda risarcitoria proposta da una magistrata, in relazione ad un articolo giornalistico nel quale la menzione delle sue funzioni di giudice addetto ai fallimenti era stata allusivamente accostata alla notizia dell'acquisto di un immobile a un’asta fallimentare - in realtà tenutasi presso diverso ufficio giudiziario - da parte di un politico al quale la prima era legata da un rapporto sentimentale).

Nella fattispecie esaminata da Sez. 3, n. 30377/2022, Guizzi, Rv. 666264-01, (sommarie informazioni testimoniali rese nell’ambito di un procedimento penale) a venire in questione, in funzione scriminante del comportamento del convenuto, è (non già l’esercizio di un diritto, bensì) l’adempimento di un dovere, a condizioni - beninteso - che le suddette dichiarazioni corrispondano al vero (potendosi integrare, in caso contrario, la fattispecie della diffamazione).

Dev’essere menzionata anche Sez. 3, n. 1152/2022, Sestini, Rv. 663698-01, la quale, sul piano dei rimedi, ha sottolineato come la pubblicazione di una rettifica ai sensi dell’art. 8 della l. n. 47 del 1948 non determina, quale conseguenza automatica, la riduzione del danno, dovendosi procedere a una valutazione in concreto della relativa incidenza sullo specifico pregiudizio già verificatosi quale conseguenza delle dichiarazioni offensive.

Al di fuori del campo della diffamazione a mezzo stampa, meritano di essere segnalate, con riguardo alla lesione del diritto all’autodeterminazione riconducibile all’art. 2 Cost., Sez. 3, n. 28394/2022, Rubino, Rv. 665954-01, e Sez. 3, n. 26209/2022, Porreca, Rv. 665650-01. Nella prima, relativa alla vicenda di un detenuto che non era stato informato, dall’amministrazione carceraria, della sua accertata sieropositività all’HIV, la Corte, sul presupposto che la suddetta amministrazione (indipendentemente dalle richieste da lui provenienti o dal suo disinteresse alle proprie condizioni di salute) avesse l’obbligo di tutelare la salute del singolo detenuto attraverso periodici accertamenti medici, il cui esito doveva essergli comunicato, ha concluso che l’omessa informazione integra lesione del diritto del detenuto all’autodeterminazione, che può essere fonte di responsabilità risarcitoria indipendentemente dalla sussistenza di un danno alla salute, conseguentemente cassando con rinvio la decisione di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria per l’asserita mancanza di un nesso causale tra la condotta omissiva dell’amministrazione e il successivo aggravamento dello stato di salute dell’attore a seguito della contrazione dell’AIDS. Nella seconda, afferente al campo della responsabilità sanitaria e concernente il delicato tema del consenso all’esecuzione di un intervento a rischio emorragico, la Terza Sezione ha sostenuto che, laddove il paziente, per tale eventualità, manifesti un inequivoco dissenso all’esecuzione di trasfusioni di sangue, il sanitario che opti per l’esecuzione dell’intervento è tenuto a rispettare tale dissenso, diversamente integrandosi la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente (fermo restando che il medico può legittimamente rifiutare l'intervento autorizzato, dal momento che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali).

Sempre in ambito sanitario - ma questa volta in relazione alla diffusione non autorizzata di immagini riprese senza consenso all’interno di una struttura ospedaliera - si deve dar conto di Sez. 6 - 1, n. 27267/2022, Bisogni, Rv. 665709-01, che ha configurato la concorrente responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e dell’emittente televisiva, che aveva mandato in onda le suddette immagini nell’ambito di un programma intitolato “Gente di notte”, nonostante la formale diffida preventiva dell’interessata.

Sul versante del diritto alla reputazione si pone Sez. 3, n. 13515/2022, Graziosi, Rv. 664639-01, la quale ha cassato la decisione di merito che, pur avendo ritenuto raggiunta la prova dell’esistenza del danno alla reputazione personale e commerciale derivante da indebita segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia, non aveva provveduto alla sua liquidazione equitativa, affermando il principio di diritto per cui il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., costituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c. ed il suo esercizio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della richiesta di parte, dando luogo ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, con l’unico limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (dovendosi, peraltro, intendere l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo). In tali casi, non è, invero, consentita al giudice del merito una decisione di non liquet, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria.

Infine, di sicuro rilievo appare la decisione di Sez. 1, n. 4562/2022, Fidanzia, Rv. 664165-01, in tema di immigrazione, che ha giudicato l’illegittimo trattenimento presso un Centro di identificazione e di espulsione di un cittadino straniero come produttivo di un danno da ingiusta detenzione, atteso che esso determina la lesione di un diritto inviolabile costituzionalmente garantito come la libertà personale, sicché, ai fini della relativa liquidazione, è applicabile l'art. 315 c.p.p., dettato per l’ingiusta detenzione, essendo evidente l’analogia tra detenzione penale e trattenimento strumentale all’esecuzione dell’espulsione, che comportano entrambi la privazione della libertà personale (come già riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo, a partire dalla sentenza 8 febbraio 2011 Seferovic c.Italia).

6.5. Il danno non patrimoniale da perdita di chance.

Il danno (non patrimoniale) da perdita di chance (che trova precipua applicazione nel settore della responsabilità sanitaria) consiste nella privazione, in conseguenza del contegno colposo del medico, della possibilità di una più lunga o migliore sopravvivenza del paziente; possibilità che, pur dovendo essere apprezzabile, seria e consistente, non può accertarsi che si sarebbe evoluta in senso favorevole a quest’ultimo, nell’ipotesi di corretta esecuzione della prestazione. A partire dalla pronuncia che, in tempi recenti, ha messo a punto lo statuto teorico del danno da perdita di chance (Sez. 3, n. 5641/2018, Travaglino, Rv. 648461-01, seguita, nell’ambito del cd. progetto sanità, da Sez. 3, n. 28993/2019, Valle, Rv. 655791-01) si parla, al riguardo, di “incertezza eventistica”, legata alla condotta illecita da un nesso causale da declinarsi secondo l’ordinario canone del “più probabile che non” (Sez. 3, n. 12906/2020, Tatangelo, Rv. 658177-01). Di incertezza eventistica, e non causale, discorre, nell’anno in rassegna, anche Sez. 3, n. 25886/2022, Pellecchia, Rv. 665403-01 (relativa al danno da perdita della possibilità di contenere il rischio di recidiva di un ictus), che si sofferma anche sul profilo processuale della diversità della relativa domanda risarcitoria da quella afferente al pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, con la conseguenza dell’inammissibilità della domanda risarcitoria per perdita di chance avanzata per la prima volta in appello.

7. La liquidazione del danno non patrimoniale.

7.1. La liquidazione del danno biologico.

Come noto, il sistema generalizzato per la liquidazione del danno alla persona derivante da lesione della salute è il metodo tabellare c.d. a punto variabile, al quale si richiamano gli artt. 138 e 139 c. ass. (come novellati dall’art. 1, commi 17 e 19, della l. n. 124/2017), con riguardo alla liquidazione del danno biologico derivante dalla circolazione stradale, nonché, in virtù del corrispondente rinvio, l’art. 7, comma 4, della l. n. 24/2017, per il danno alla salute da responsabilità sanitaria. Al medesimo criterio sono ispirate le Tabelle elaborate dai diversi uffici giudiziari, in primis quella milanese, eletta da Sez. 3, n. 12408/2011, Amatucci, Rv. 618047-01, a parametro uniforme per la liquidazione equitativa del danno biologico ex art. 1226 c.c., “salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono”. Nel 2009, per adeguarsi al nuovo assetto impresso al danno non patrimoniale dagli arresti delle Sezioni Unite dell’anno precedente (Sez. Un., n. 26972/2008, Preden, Rv. 605495-01), la Tabella milanese abbandonò la separata liquidazione del danno morale come frazione del danno biologico, incorporando il valore corrispondente alla sofferenza soggettiva in quello del punto di invalidità. Ai fini dell’ulteriore personalizzazione del risarcimento, in funzione delle peculiari caratteristiche della fattispecie concreta, si previde un’ulteriore percentuale incrementale del valore base del punto (suscettibile di essere ulteriormente superata dal giudice, in relazione a fattispecie del tutto eccezionali e nel rispetto di uno stringente onere motivazionale). A tale assetto tabellare fa riferimento Sez. 3, n. 15733/2022, Dell’Utri, Rv. 665015-01, secondo cui, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della salute secondo le Tabelle di Milano, ove si accerti la sussistenza, nel caso concreto, tanto del danno biologico (nel senso di dinamico-relazionale) quanto del danno morale, il quantum risarcitorio deve essere determinato applicando integralmente i valori tabellari (che contemplano entrambe le voci di danno), mentre, ove si accerti l’insussistenza del danno morale, il valore del punto deve essere depurato dall’aumento percentuale previsto per tale voce, salvo procedere all’aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico (con esclusione, dunque, della componente morale), qualora sussistano i presupposti per la personalizzazione di tale tipologia di pregiudizio.

In ordine all’efficacia temporale dei criteri tabellari, Sez. 6 - 3, n. 19229/2022, Rossetti, Rv. 665202-01, nel confermare la liquidazione ex art. 139 c.ass. del danno biologico da lesioni “micropermanenti”, conseguente a un sinistro stradale avvenuto prima dell’entrata in vigore della norma citata, ha espresso la regola per cui, in assenza di diverse disposizioni di legge, il risarcimento dev’essere quantificato secondo le regole vigenti al momento della liquidazione, e non già al momento del fatto illecito.

Allorquando il danneggiato muoia prima di ottenere la liquidazione del danno alla persona, per cause non riconducibili alla lesione primigenia, il pregiudizio si caratterizza per rapportarsi a un intervallo di tempo noto, quello compreso tra l’evento lesivo e la morte del danneggiato. A tale intervallo di tempo (dunque, alla durata effettiva della vita della vittima) il risarcimento dev’essere precisamente parametrato (Sez. 3, n. 4551/2019, Di Florio, Rv. 652827-01), sicché non si mostra adeguato, ai fini della relativa liquidazione, il criterio tabellare “classico” del danno biologico, nel quale il valore del punto è influenzato dal parametro statistico generale della durata media della vita. Il principio è stato ribadito, nell’annualità in rassegna da Sez. 3, n. 32916/2022, Scarano, Rv. 666113-02, che ha escluso che tale regola si applichi ove la morte sia intervenuta, dopo una temporanea sopravvivenza, in conseguenza diretta dell’evento lesivo, dovendosi in tal caso fare ricorso a una tecnica di valutazione probabilistica tipica del danno permanente. La malattia insorta a seguito delle lesioni può essere, peraltro, progressivamente ingravescente, sicché, in tal caso, la determinazione del danno biologico da invalidità permanente deve avvenire alla luce delle concrete condizioni di salute del soggetto e del periodo di sopravvivenza prevedibile in relazione alla patologia diagnosticata, di modo che, qualora il grado percentuale di invalidità del soggetto espresso dai barèmes medico-legali di riferimento non tenga conto della minore speranza concreta di vita della vittima (ovvero non contempli il maggior rischio di subire, anche a distanza di tempo, una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, suscettibile di condurla al decesso), il giudice deve maggiorare la liquidazione in via equitativa (in tal senso si è espressa Sez. L, n. 35416/2022, Cavallari, Rv. 666184-02, relativamente a una neoplasia polmonare causata da inalazione di amianto). Sempre in tema di “patologie evolutive” - ma questa volta dal punto di vista dei presupposti per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento in favore di un portatore di handicap -, Sez. 6 - L, n. 35899/2022, Buffa, Rv. 666196-01, ha affermato che sebbene, in linea generale, il momento di insorgenza dello stato invalidante (rilevante ai fini della decorrenza della prestazione previdenziale) non coincida con quello degli accertamenti tecnici, né con quello del deposito della relazione del consulente tecnico, poiché è in questione uno stato o un processo esteso nel tempo, rispetto al quale è improbabile che l’accertamento tecnico intervenga nella fase iniziale, è, purtuttavia, onere della parte che richiede la prestazione dimostrare che l’evoluzione del quadro clinico nella misura rilevante si sia verificato in data antecedente all'accertamento peritale, fornendo elementi di valutazione minimi per ritenere già integrati i requisiti costitutivi della prestazione in un momento antecedente rispetto a quello accertato dal consulente.

Nel caso in cui l’invalidità si innesti su una preesistente patologia (non determinata dall’evento lesivo di cui si tratta), Sez. 6-3, n. 28327/2022, Iannello, Rv. 665955-01 (ribadendo i principi già espressi da Sez. 3, n. 28986/2019, Rossetti, Rv. 656174-01) ha affermato che quest’ultima è irrilevante (vuoi in termini di determinazione del grado di invalidità, vuoi in termini di liquidazione del risarcimento) ove si atteggi nei termini di menomazione cd. coesistente (afferente, cioè, a un diverso distretto anatomico-funzionale); mentre, nel caso in cui si ponga come menomazione “concorrente” (afferente, cioè, al medesimo organo o apparato), può costituire concausa dell’evento di danno, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica, con la conseguente incidenza ai soli fini della liquidazione del pregiudizio (e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità, da determinarsi, comunque, in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni). In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva quantificato il danno ponendo a base del calcolo tabellare una percentuale di invalidità pari alla differenza tra quella effettivamente riscontrata dal c.t.u., per il quale le lesioni conseguenti al sinistro avevano inciso in termini peggiorativi su una preesistente frattura biossea, e quella ascrivibile alle menomazioni preesistenti concorrenti.

Nell’ipotesi del danno cd. lungolatente (nel quale le conseguenze pregiudizievoli si manifestano a distanza di tempo dall’evento lesivo: nella specie, si trattava della contrazione di epatite B, asintomatica per più di venti anni, derivante da trasfusione), Sez. 3, n. 25887/2022, Pellecchia, Rv. 665445-01, ha osservato che il risarcimento deve essere liquidato solo con riferimento al momento di manifestazione dei sintomi e non dalla contrazione dell’infezione cioè), coerentemente alla configurazione come danno-conseguenza del danno biologico, il quale non consiste nella semplice lesione dell'integrità psicofisica in sé e per sé considerata, bensì - per l’appunto - nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona, sicché, in mancanza di queste ultime, difetta un danno risarcibile, altrimenti configurandosi un danno in re ipsa, privo di accertamento sul nesso di causalità giuridica (necessario ex art. 1223 c.c.) tra evento ed effetti dannosi.

7.2. La compensatio lucri cum damno.

Un altro gruppo di decisioni rese dalla Suprema Corte nel 2022 ha riguardato il rapporto tra il risarcimento “civilistico” del danno alla salute e le indennità a vario titolo corrisposte al danneggiato da soggetti pubblici o assicuratori sociali. Sullo sfondo, il principio della cd. compensatio lucri cum damno, come ricostruito, in funzione nomofilattica, da Sez. U, n. 12564/2018, Giusti, Rv. 648647-01. Con riguardo all’indennizzo erogato dall’Inps in favore degli invalidi civili, Sez. 6 - 3, n. 11657/2022, Rossetti, Rv. 664837-01, ha escluso che lo stesso debba essere detratto dall’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico, trattandosi di prestazione volta a ristorare un pregiudizio patrimoniale rappresentato dalla perduta capacità di lavoro e, quindi, di guadagno. Ha invece ribadito la piena applicabilità della regola della compensatio dell’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 con il risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto Sez. 3, n. 7345/2022, Moscarini, Rv. 664249-01, precisando che il primo può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo risarcitorio solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum, di modo che sono soggette alla predetta detrazione non soltanto le somme già percepite al momento della pronuncia, ma anche le somme da percepire in futuro, in quanto riconosciute e, dunque, liquidate e determinabili. Sempre con riguardo all’indennizzo ex l. n. 210/1992, Sez. 3, n. 32916/2022, Scarano, Rv. 666113-01, ha affermato che esso può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno) in favore degli eredi solo in relazione a quanto già percepito dal de cuius alla data del decesso, e non anche in relazione ai ratei da percepire in futuro, giacché, con il decesso del beneficiario, cessa l’obbligo di relativa corresponsione, e il danneggiante verrebbe altrimenti a trarre inammissibilmente vantaggio dal proprio illecito.

Relativamente all’indennizzo per gli infortuni e le malattie professionali corrisposto dall’INAIL, ponendosi nel solco di un consolidato orientamento, Sez. L, n. 31919/2022, Pagetta, Rv. 666011-01, ha affermato che il danno biologico cd. differenziale va liquidato - tenuto conto della diversità strutturale e funzionale tra l’erogazione dell’indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento del danno - determinando il danno civilistico in base al grado percentuale di invalidità permanente individuato con i criteri elaborati dalla scienza medico legale, senza che la diversa percentuale di invalidità riconosciuta dall’Inail possa costituire un limite. L’assunto si trova affermato anche in Sez. L, n. 22021/2022, Marotta, Rv. 665322-01, secondo cui, in ragione della differenza strutturale e funzionale tra tale indennizzo e il risarcimento del danno civilistico, la liquidazione del danno alla salute conseguente ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale va effettuata secondo i criteri civilistici e non sulla base delle tabelle di cui al d.m. del 12 luglio 2000, deputate alla liquidazione dell’indennizzo Inail ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, salvo, poi, detrarre d'ufficio quanto indennizzabile dall’Inail, anche indipendentemente dalla effettiva erogazione.

7.3. La liquidazione tabellare del danno da perdita del rapporto parentale.

Nell’ultimo ventennio, anche la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale si è ispirata a criteri tabellari, i quali però, a differenza del danno biologico, si articolavano in “forbici” di valori monetari (variabili a seconda del rapporto familiare preso in considerazione), comprendenti sia gli aspetti dinamico-relazionali sia quelli legati alla sofferenza soggettiva. Con riguardo a tale sistema (segnatamente quello messo a punto dall’Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Milano a partire dal 2004, e successivamente aggiornato negli importi) - la cui applicabilità, nella specie, non era stata contestata da alcuna delle parti -, Sez. 6 - 3, n. 26440/2022, Rossetti, Rv. 665715-01, ha affermato che, se la liquidazione avviene in base ad un criterio “a forbice”, che prevede un importo variabile tra un minimo ed un massimo, è consentito al giudice di merito liquidare un risarcimento inferiore al minimo solo in presenza di circostanze eccezionali e peculiari al caso di specie, tra le quali non possono annoverarsi né l’età della vittima, né quella del superstite, né l’assenza di convivenza tra l’una e l’altro, trattandosi di circostanze che possono solo giustificare la quantificazione del risarcimento entro la fascia di oscillazione della tabella (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva liquidato il risarcimento del danno per la perdita del rapporto parentale in misura inferiore al minimo edittale affermando che, al momento della morte, la madre dei danneggiati era “vecchia e malata” e, di conseguenza, i figli - già adulti e autonomi - si sarebbero dovuti aspettare da un momento all’altro il suo decesso).

A partire dall’arresto rappresentato da Sez. 3, n. 10579/2021, Scoditti, Rv. 661075-01, si è assistito a un avvicinamento del criterio tabellare in discorso a quello applicato per il danno biologico, avendo la Corte di cassazione esplicitato il suo favore per una liquidazione secondo il “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza), nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga (fornendone adeguata motivazione) una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella. Tale presa di posizione finiva per avallare la Tabella nel frattempo elaborata dal Tribunale di Roma (aggiornata nel 2019), basata sull’attribuzione di punteggi variabili in rapporto a cinque “fattori di influenza del risarcimento” (il rapporto di parentela; l’età del congiunto superstite; l’età della vittima; la situazione di convivenza; la consistenza del nucleo familiare superstite). Senonché, nel giugno del 2022, l’Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Milano ha provveduto ad aggiornare la propria precedente tabella e, nell’intento di uniformarsi a propria volta alle indicazioni della Suprema corte, ha adottato un sistema contemplante una graduazione di punteggi in funzione delle diverse fasce d’età della vittima primaria e secondaria, nonché della condizione di pregressa convivenza e della sopravvivenza di altri congiunti appartenenti al nucleo familiare (con la possibilità di attribuire un ulteriore punteggio in considerazione della “qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava lo specifico rapporto parentale perduto”, a sua volta desumibile da una serie di circostanze puntualmente elencate). Anche tale parametro è stato ritenuto idoneo ai fini di una liquidazione rispondente al canone dell’equità di cui all’art. 1226 c.c. da Sez. 3, n. 37009/2022, Pellecchia, Rv. 666288-01, ferma restando la possibilità, per il giudice di merito, di discostarsene procedendo a una valutazione equitativa “pura”, purché sorretta da adeguata motivazione. Nel caso di specie, la S.C., nel cassare la sentenza di merito che aveva immotivatamente omesso di applicare le tabelle di Milano nonostante la rituale richiesta in tal senso contenuta nell’atto di appello, ha rimesso al giudice del rinvio l’applicazione delle suddette tabelle, nella loro versione più aggiornata. Va precisato, peraltro, che il danneggiato può limitarsi a formulare una generica istanza di applicazione del criterio tabellare, spettando poi al giudice di merito liquidare il pregiudizio avvalendosi della tabella conforme a diritto (così, nell’annualità in rassegna, Sez. 6 - 3, n. 20292/2022, Scoditti, Rv. 665061-01). Sempre in tema di liquidazione equitativa “pura” deve segnalarsi Sez. 6 - 3, n. 36297/2022, Scrima, Rv. 666353-01, ha, invece, ritenuto ammissibile una liquidazione equitativa “pura” (nella specie, fissata in euro 3.000,00), in favore del nonno di una ragazza deceduta, in considerazione della breve durata della sua sopravvivenza successiva (soli sette mesi) e del sostegno verosimilmente ricevuto dagli altri componenti della famiglia, allorché l’assenza di convivenza della ragazza con i nonni.

A differenza di quanto accade per il danno biologico, nessuna incidenza in senso diminuente del risarcimento può essere riconosciuta, invece, alle pregresse menomazioni concorrenti da cui era affetta la vittima “primaria”, essendo le stesse del tutto irrilevanti rispetto alle conseguenze dannose derivanti ai suoi congiunti dall'illecito (in tal senso Sez. 3, n. 22724/2022, Dell’Utri, Rv. 665399-01).

Infine, Sez. 6 - 1, n. 34986/2022, Fidanzia, Rv. 666291-01, ha ritenuto legittimo il ricorso, in via analogica, alle tabelle per il risarcimento del danno parentale, ai fini della liquidazione del danno endofamiliare conseguente alla violazione dell’obbligo del genitore di concorrere all'educazione ed al mantenimento dei figli, ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c.

8. Le responsabilità speciali.

8.1. Genitori, tutori, precettori e maestri d’arte.

In tema di lesioni riportate da un alunno all’interno della scuola, Sez. 6 - 3, n. 21255/2022, Pellecchia, Rv. 665267-01, ha affermato che la responsabilità dell’istituto, in conseguenza della condotta colposa del personale scolastico, ricorre anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto al di fuori dell’orario delle lezioni, in quanto il dovere di organizzare la vigilanza degli alunni mediante l’adozione, da parte del personale addetto al controllo degli studenti, delle opportune cautele preventive, sussiste dal momento del loro ingresso e per tutto il tempo in cui si trovino legittimamente nell’ambito dei locali scolastici (nel caso di specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva escluso la responsabilità della scuola per l’infortunio occorso, giocando a pallacanestro durante il cambio dell’ora al termine della lezione di educazione fisica, ad un alunno esonerato dal parteciparvi, omettendo di verificare la presenza dell’insegnante o di altro rappresentante della struttura scolastica, in grado di far rispettare - anche durante l’intervallo tra un’ora e l’altra - il divieto conseguente al suddetto esonero).

8.2. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.).

La fattispecie di cui all’art. 2049 c.c. è incentrata sul nesso di occasionalità necessaria tra l’evento di danno e l’esecuzione delle incombenze affidate ai dipendenti. Con riguardo ai rapporti tra una compagnia assicuratrice e un proprio agente, Sez. 3, n. 1786/2022, Scarano, Rv. 663709-01, ha escluso che potesse configurarsi la responsabilità della prima per l’illecito del secondo, in considerazione della condotta agevolatrice posta in essere dal danneggiato, caratterizzata, se non da vera e propria collusione, quantomeno da consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sull’agente (nel caso di specie, l’acquirente di una polizza di assicurazione sulla vita, poi rivelatasi inesistente, aveva in più occasioni consegnato all’agente somme di danaro in contanti, ricevendone meri certificati di copertura provvisoria, senza mai richiedere il rilascio di quietanza né di copia del contratto).

Sez. 3, n. 22717/2022, Cirillo F.M., Rv. 665422-01, ha evidenziato, da parte sua, come sia estranea alla ratio dell’art. 2049 c.c. la tutela dei terzi che, in cooperazione col dipendente, abbiano cagionato danni al soggetto preponente, essendo essa finalizzata a proteggere i terzi danneggiati dalla condotta del dipendente (rispetto alla quale il preponente risponde per il cd. collegamento funzionale). Pertanto, ferma restando l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. (ove ne ricorrano i presupposti), non può essere utilmente invocato l’art. 2049 c.c. in un caso come quello giunto all’attenzione della Corte, nel quale una banca era stata danneggiata dalla condotta truffaldina del direttore di una sua filiale, che, in cooperazione con un notaio e con un imprenditore in crisi, aveva concesso una serie di mutui garantiti da ipoteche su immobili di consistenza molto inferiore rispetto alle somme mutuate.

8.3. Attività pericolose (art. 2050 c.c.).

Due pronunce, nel 2022, si sono soffermate sui caratteri della prova liberatoria “di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”, di cui all’art. 2050 c.c. Nella prima, relativa all’infortunio occorso al cliente di una vetreria in conseguenza della caduta di una cassa di vetro, Sez. 6 - 3, n. 16170/2022, Guizzi, Rv. 665056-01, ha statuito che, per vincere la presunzione di responsabilità contemplata dall’art. 2050 c.c. non è sufficiente la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, occorrendo quella positiva di avere impiegato ogni cura o misura volta ad impedire l’evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l’evento e non già quando costituisca elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l’insorgenza a causa dell’inidoneità delle misure preventive adottate (in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso che la condotta asseritamente posta in essere dalla vittima – consistente nel posizionare, al di sotto della suddetta cassa di vetro, alcuni pezzetti di legno per evitarne la caduta – fosse idonea ad assorbire l’eziologia dell'evento, atteso che il danneggiante non aveva fornito la prova di aver adottato tutte le precauzioni necessarie ad evitare il ribaltamento della cassa, segnatamente di averla appoggiata sull’apposito cavalletto di sostegno). L’interruzione del nesso causale, da parte del comportamento dello stesso danneggiato, esclude, peraltro, in radice la necessità della prova liberatoria, sicché - per usare le parole di Sez. 6 - 3, n. 2259/2022, Pellecchia, Rv. 663861-01 - anche nell’ipotesi in cui l’esercente non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, in tal modo realizzando una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta, che abbia i requisiti del caso fortuito e sia idonea - secondo l’apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione - a determinare da sola l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto di un terzo o del danneggiato stesso (nel caso di specie, efficacia eziologica assorbente è stata riconosciuta al comportamento di un motociclista il quale, nel corso di un giro di prova all’interno di un circuito, e in violazione del relativo regolamento, si era fermato al centro della pista per verificare un’avaria meccanica, venendo conseguentemente investito da altro mezzo proveniente da tergo).

8.4. Cose in custodia (art. 2051 c.c.).

Un nutrito gruppo di pronunce ha interessato, nell’anno 2022, la fattispecie di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., la quale - come ribadito da Sez. U, n. 20943/2022, Conti, Rv. 665084-01, ha carattere oggettivo e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode. Nel caso di specie, le particolari condizioni meteorologiche che avevano contribuito all’esondazione di un fiume non sono state ritenute idonee ad integrare il caso fortuito escludente la responsabilità del gestore di una diga, in mancanza della prova, da parte di quest’ultimo, dell’adempimento delle prescrizioni contenute nel documento di protezione civile della diga stessa. Sempre in tema di allagamento di immobili a seguito di precipitazioni atmosferiche, si segnala Sez. 3, n. 4588/2022, Iannello, Rv. 663781-01, che ha messo in chiaro come queste ultime possano integrare l’ipotesi di caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 c.c., quando assumono i caratteri dell’imprevedibilità oggettiva e dell’eccezionalità, da accertarsi - sulla base delle prove offerte dalla parte onerata (cioè, il custode) - con indagine orientata essenzialmente da dati scientifici di tipo statistico (i ccdd. dati pluviometrici) di lungo periodo, riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia, la quale va considerata nello stato in cui si presenta al momento dell’evento atmosferico, restando, invece, irrilevanti i profili relativi alla diligenza osservata dal custode in ordine alla realizzazione e manutenzione dei sistemi di deflusso delle acque piovane. Impostazione parimenti rigorosa caratterizza Sez. 6 - 3, n. 9610/2022, Iannello, Rv. 664452-01, occupatasi di un sinistro stradale determinato dalla repentina comparsa di un animale sulla carreggiata di un’autostrada, che ha affermato che la società di gestione autostradale, titolare del potere di custodia della cosa, per andare indenne da responsabilità, avrebbe dovuto dimostrare che la presenza dell’animale era stata determinata da un fatto imprevedibile ed inevitabile, quale non poteva ritenersi la circostanza della mancata ricezione, prima dell’incidente, di segnalazioni relative alla presenza di un varco nella recinzione posta al margine della sede stradale, tanto più che il fatto era avvenuto in prossimità di uno svincolo autostradale (circostanza ritenuta, viceversa, dalla Suprema Corte idonea ad escludere che l’ingresso di animali potesse considerarsi evento imprevedibile e inevitabile, come tale suscettibile di integrare il caso fortuito). Per quanto riguarda la fattispecie “classica” della caduta del pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, Sez. 3, n. 37059/2022, Sestini, Rv. 666289 -01, ha sottolineato come - ferma restando la sua rilevanza ai fini della riduzione o esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 (primo o secondo comma) c.c. - l’accertamento di una condotta colposa della vittima non valga, di per sé, ad integrare il caso fortuito suscettibile di escludere la responsabilità del custode sul piano del nesso causale, essendo necessario, a tal fine, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all’origine del danno, degradando la serie causale riconducibile alla cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno. Sez. 3, n. 16223/2022, Spaziani, Rv. 664901-01, da parte sua, ha riconosciuto la responsabilità del gestore di una pista da sci per la caduta di uno sciatore, provocata dalla presenza di un accumulo di neve derivante da innevamento artificiale, scarsamente visibile e di rilevanti dimensioni, tale da impegnare una parte considerevole della pista e, pertanto, non riconducibile al normale utilizzo della stessa, sul presupposto che esso integrasse un pericolo “atipico” sulla pista, da intendersi come ostacolo difficilmente visibile e, pertanto, non facilmente evitabile anche da parte di uno sciatore diligente.

Il presupposto della custodia non postula la titolarità formale di un diritto sulla cosa dalla quale origina il danno, essendo sufficiente, ai fini della relativa integrazione, la gestione di fatto della stessa: in questi termini si è espressa Sez. 3, n. 15509/2022, Moscarini, Rv. 665099-01, ritenendo responsabile della morte di un automobilista precipitato in un burrone, in un tratto di strada privo di barriere laterali, il Comune nel cui territorio ricadeva la strada in discorso (adibita ad uso pubblico alla stregua di strada vicinale), nonostante il mancato perfezionamento del procedimento di espropriazione condotto da una società concessionaria, funzionale alla successiva voltura in favore del demanio comunale.

La responsabilità del custode - ha ribadito, ancora, Sez. 3, n. 21977/2022, Rossetti, Rv. 665264-01 - sussiste non solo allorquando il danno scaturisca quale effetto dell’intrinseco dinamismo della cosa, ma anche laddove consegua a un’azione umana che determini l’insorgenza di un processo dannoso nella cosa medesima (come nel caso - rilevante nel caso di specie - di infiltrazioni idriche provenienti dall’immobile sovrastante a quello dell’attore, provocate dai lavori di ristrutturazione eseguiti da diversi appaltatori). Ove sia una modifica improvvisa delle condizioni della cosa, indotta da un fattore esterno, a conferirle il modo d’essere dal quale scaturisce il danno, perché possa operare la fattispecie ex art. 2051 c.c. è necessario il trascorrere di un tempo sufficiente a far perdere a tale fattore la sua natura eccezionale, sicché esso finisca col fare corpo con la cosa stessa (Sez. 3, n. 35429/2022, Gorgoni, Rv. 666487 -01, ha ritenuto che ciò non si fosse verificato in relazione al danno occorso a un automobilista per la presenza di una balla di fieno su un’autostrada, essendo rimasto accertato che il detto ostacolo era stato disperso sulla carreggiata da altro veicolo, in una fascia oraria (notturna) non coperta dai turni ordinari di sorveglianza e senza che l’evento fosse stato segnalato da alcuno.

Ove le infiltrazioni (nella specie, dovute all’occlusione di un pluviale) provengano da un lastrico solare o dalla terrazza a livello di un condominio, il cui uso non sia comune a tutti i condòmini, secondo Sez. 6 - 2, n. 516/2022, Bertuzzi, Rv. 663807-01, dei relativi danni rispondono ex art. 2051 c.c., in solido tra loro, sia il proprietario o usuario esclusivo quale custode del bene sia il condominio, in forza degli obblighi inerenti all’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria ex art. 1135, comma 1, n. 4 c.c.

L’afferenza alla cosa della dinamica eziologica che conduce alla produzione dell’evento dannoso è messa bene in evidenza da Sez. 3, n. 16224/2022, Spaziani, Rv. 664902-01, relativa alle lesioni conseguenti all’urto contro le porte scorrevoli di un supermercato, secondo cui non è configurabile una responsabilità contrattuale per violazione degli obblighi di protezione del venditore, non potendo considerarsi il pericolo per l’incolumità fisica del danneggiato come occasionato dalle modalità di adempimento delle obbligazioni gravanti sul venditore medesimo, bensì piuttosto dalla potenzialità dannosa delle cose poste all’interno del locale, suscettibile di attingere allo stesso modo chiunque si fosse trovato all’interno di quest’ultimo, avesse o meno acquistato qualcosa.

In ordine ai criteri di liquidazione del danno, Sez. 6 - 3, n. 4509/2022, Dell’Utri, Rv. 664074-01, ha affermato che quelli previsti dall’art. 139 c.ass. per il caso di danni derivanti da sinistri stradali costituiscono oggetto di una previsione eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica nei casi riconducibili a responsabilità ex art. 2051 c.c. (come nella fattispecie all’esame della Corte, relativa all’urto tra il veicolo condotto dalla danneggiata e alcune lastre di travertino abbandonate sulla sede stradale).

Infine, sotto il profilo processuale, merita di essere segnalata Sez. 2, n. 14732/2022, Abete, Rv. 664792-01, che ha affermato che, qualora l’attore abbia invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 c.c., il divieto di introdurre domande nuove non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ex artt. 2050 o 2051 c.c., a meno che egli non abbia sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, perché compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata dai detti articoli.

8.5. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.).

Tenendo sullo sfondo l’orientamento consolidatosi a partire dal 2020 (Sez. 3, n. 7969/2020, Tatangelo, Rv. 657572-03), nel senso della possibile concorrenza del titolo di responsabilità ex art. 2052 c.c. con quello generale ex art. 2043 c.c., Sez. 6 - 3, n. 2502/2022, Fiecconi, Rv. 663865-01, ha ritenuto che, allorquando si controverta di danni cagionati dalla fauna selvatica all’interno di un Parco nazionale (ente di diritto pubblico sottratto al controllo della Regione e sottoposto a quello del Ministero dell'ambiente), la legittimazione passiva rispetto all’azione ex art. 2043 c.c. compete non già alla Regione ma, appunto, all’ente Parco, al quale è riservata la funzione di controllo sulla fauna selvatica dalla l. n. 394 del 1991, costituente lex specialis rispetto agli artt. 1, 9 e 19 della l. n.157 del 1992 (che fissano le competenze generali della Regione nella suddetta materia).

Per quel che riguarda la peculiare fattispecie dei danni causati da cani randagi (dei quali - secondo quanto già precisato da Sez. 6 - 3, n. 32884/2021, Iannello, Rv. 662964-01 - le singole leggi regionali, attuative della legge quadro nazionale n. 281 del 1991, disciplinano la cattura e la custodia), Sez. 6 - 3, n. 9621/2022, Guizzi, Rv. 664453-01, ha affermato, in punto di onere della prova, che, una volta individuato (alla stregua della normativa nazionale e regionale applicabile) l’ente titolare dell’obbligo giuridico di recupero degli stessi, il danneggiato è chiamato a provare soltanto che l’evento dannoso rientri nel novero di quelli che la regola cautelare omessa mira ad evitare, e solo una volta che l’ente abbia, a propria volta, dimostrato di essersi attivato rispetto a tale onere cautelare, sarà tenuto ulteriormente a dimostrare (anche per presunzioni) l’esistenza di segnalazioni o di richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi.

Configura una concorrenza tra titoli presuntivi di responsabilità (quello di cui all’art. 2052 c.c. e quello ex art. 2054, comma 1, c.c.) Sez. 6 - 3, n. 16550/2022, Moscarini, Rv. 665057-01, con riguardo ai danni occorsi a un autoveicolo in conseguenza dell’urto con un animale tenuto al guinzaglio dal proprietario, sicché, ove non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso - sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico dimostrando, quanto al conducente, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto al proprietario dell’animale, il caso fortuito - il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c.

8.6. Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.).

In ordine al presupposto per l’integrazione della fattispecie di cui all’art. 2054 c.c., rappresentato dalla “circolazione” del veicolo, si sono espresse, nel 2022, Sez. 6 - 3, n. 9948/2022, Iannello, Rv. 664456-01, e Sez. 3, n. 30723/2022, Frasca, Rv. 666048-01, entrambe affermando il principio di diritto secondo cui il concetto di circolazione stradale di cui all’art. 2054 c.c. include anche la posizione di arresto e di sosta del veicolo, in relazione sia all’ingombro da esso determinato sugli spazi addetti alla circolazione, sia alle operazioni propedeutiche alla partenza o connesse alla fermata, sia, ancora, rispetto a tutte le operazioni che il veicolo è destinato a compiere e per il quale può circolare sulle strade. In ragione di tale concezione estensiva di circolazione, la prima pronuncia vi ha ricompreso il movimento del motoveicolo che non mantenga la posizione di arresto a margine della strada e si riversi su un fianco, cadendo su un pedone; la seconda quello dell’autovettura accidentalmente mossasi dalla posizione di sosta in cui si trovava in prossimità del margine di una banchina portuale, precipitando in mare. Requisito per l’applicazione della garanzia per r.c.a. è, in definitiva, che il veicolo, nel suo trovarsi sulla strada di uso pubblico o sull’area ad essa parificata, mantenga le caratteristiche che lo rendano tale in termini concettuali e, quindi, in relazione alle sue funzionalità non solo sotto il profilo logico ma anche delle eventuali previsioni normative, risultando invece indifferente l’uso che in concreto se ne faccia, sempre che esso rientri nelle caratteristiche del veicolo medesimo.

Venendo alle decisioni che, nell’anno in rassegna, si sono soffermate sull’individuazione delle regole di condotta la cui violazione sia suscettibile di fondare la responsabilità colposa del conducente, secondo Sez. 3, n. 30070/2022, Valle, Rv. 666070-01, il conducente di un veicolo a motore che ad un crocevia fra strade pubbliche debba svoltare a sinistra ha l’obbligo di dare la precedenza ai veicoli provenienti da destra nonché quello, derivante dalla comune prudenza, di assicurarsi, prima di svoltare, che non sopraggiungano veicoli da tergo (ai quali pure spetta la precedenza, ancorché si trovino in una illegittima fase di sorpasso), essendo, peraltro, tale ultimo obbligo circoscritto al momento spazio-temporale che precede la manovra di svolta, laddove nella fase di esecuzione della stessa il conducente non può distrarre l’attenzione dal suo normale campo visivo. Sez. 6 - 3, n. 17896/2022, Pellecchia, Rv. 665059-01, con riguardo all’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante, ha precisato che la presunzione di uguale colpa dei conducenti di ciascuna coppia di veicoli nei tamponamenti a catena, qualora non sia stata fornita la prova liberatoria, postula, ai fini della sua applicabilità, l’accertamento che si tratti di veicoli incolonnati nella stessa corsia di marcia. Sez. 3, n. 21402/2022, Guizzi, Rv. 665209-02, relativa alla circolazione, a sirene spiegate, degli autoveicoli della polizia, dei vigili del fuoco o delle ambulanze, ha affermato che l’esonero dall’osservanza delle regole del codice della strada non implica quello dal generale dovere di rispettare le norme di comune prudenza, di modo che permane, in capo al conducente, l’onere di fornire la prova liberatoria ex art. 2054, comma 1, c.c., di aver fatto tutto il possibile per evitare il sinistro, pur se la inevitabilità altrimenti dell’evento va valutata tenendo conto della effettiva situazione di emergenza (il caso di specie riguardava un’autoambulanza che aveva investito una donna la quale, con incedere incerto, stava attraversando sulle strisce pedonali, in cui la Suprema Corte ha rinviato al giudice di secondo grado la valutazione se tale contegno della vittima non integrasse una condotta comunque ragionevolmente prevedibile da parte del conducente del veicolo). Sez. 3, n. 9856/2022, Dell’Utri, Rv. 664262-01, sempre in un caso di investimento pedonale, ha ricordato che, ai fini del superamento della presunzione di colpa posta a carico del conducente dall’art. 2054, comma 1, c.c., non è sufficiente l'accertamento del comportamento colposo del pedone, ma è necessaria la prova, da un lato, che il predetto abbia tenuto una condotta anormale e ragionevolmente non prevedibile e, dall’altro, che il conducente abbia adottato tutte le cautele esigibili in relazione alle circostanze del caso concreto, pure sotto il profilo della velocità di guida mantenuta (nel caso di specie, relativo all’investimento di un pedone che procedeva a piedi, nel senso opposto a quello di marcia dell’autovettura, in presenza di una curva che ne limitava la visuale e senza giubbotto catarifrangente nonostante il buio e l’assenza di illuminazione pubblica, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità del conducente, il quale, a fronte della assoluta imprevedibilità ed abnormità della condotta della vittima, aveva rispettato tutte le misure idonee ad evitare l'impatto, procedendo ad una velocità adeguata, tenendo accese le luci anabbaglianti e mantenendo la propria autovettura entro la mezzeria di pertinenza). Sez. 3, n. 9857/2022, Dell’Utri, Rv. 664263-01, con riferimento a un supposto obbligo di moderare ulteriormente la velocità (già mantenuta entro i limiti), nell’approssimarsi all’intersezione della strada percorsa con il tratturo di campagna dal quale proveniva il veicolo antagonista, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ravvisato una corresponsabilità del conducente danneggiato, senza però indicare gli elementi dai quali si sarebbe potuta desumere la segnalazione dell’incrocio ovvero la verosimile e concreta percepibilità dello stesso, in applicazione del principio di diritto per cui, in tema di circolazione stradale, per l’affermazione della responsabilità del conducente che, pur osservando i limiti di velocità, non ha moderato ulteriormente la propria velocità in considerazione dello stato dei luoghi, il giudice del merito è tenuto a indicare le specifiche ragioni di fatto che avrebbero in concreto giustificato l’adozione di tale condotta prudenziale, essendo invece priva di congruità logica la motivazione che si limiti ad un richiamo meramente astratto delle predette ragioni senza un adeguato riscontro nelle caratteristiche del luogo.

Laddove, alla stregua delle risultanze istruttorie raccolte nel processo, non sia possibile ricostruire (non solo l’effettiva ripartizione delle colpe nella causazione dell’evento, ma, a monte) l’esatta dinamica di un sinistro tradottosi in uno scontro tra veicoli, resta ferma la presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., con la conseguenza che causa presunta dell'evento devono ritenersi in eguale misura i comportamenti di entrambi i conducenti coinvolti nello scontro, anche se solo uno di essi abbia riportato danni (in tal senso, sulla scorta di un orientamento ampiamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, Sez. 3, n. 15736/2022, Pellecchia, Rv. 664834-01). In tema di giudicato interno, al cospetto dell’impugnazione di una sentenza che aveva fatto applicazione della regola residuale di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., Sez. 3, n. 30728/2022, Scoditti, Rv. 666050-01, ha statuito che il giudicato interno non si determina sul fatto ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell'ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame. Pertanto, è stata confermata la sentenza di appello che, a seguito dell’impugnazione della statuizione relativa all'applicazione della regola residuale di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., aveva concluso - sulla base di un diverso giudizio di fatto - nel senso della mancata dimostrazione del coinvolgimento di una delle due vetture nel sinistro, ciononostante confermando la sentenza di primo grado per mancanza di appello incidentale.

Due pronunce, in certo senso speculari, hanno riguardato, nell’anno in esame, fattispecie di scontro tra un veicolo e un animale. Nella prima (ove a invocare il risarcimento era il proprietario della vettura, per i danni materiali occorsi alla stessa), Sez. 6 - 3, n. 16550/2022, Moscarini, Rv. 665057-01, ha opinato nel senso della concorrenza della presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore dell’animale (art. 2052 c.c.) e di quella a carico del conducente del veicolo (2054, comma 1, c.c.), la quale, ove non sia possibile accertare la sussistenza e la misura delle rispettive colpe (con conseguente superamento delle suddette presunzioni), conduce a un’affermazione di pari responsabilità (non entrando in gioco l’art. 1227 c.c.); nella seconda (ove, al contrario, era stato il proprietario del cane a domandare il risarcimento dei danni conseguenti all’uccisione dello stesso da parte di un veicolo), Sez. 3, n. 9864/2022, Cricenti, Rv. 664398-01, ha ritenuto la circostanza che il cane fosse stato lasciato senza guinzaglio idonea a sostanziare un concorso di colpa del danneggiato, non già in virtù della trasgressione delle disposizioni previste dall'ordinanza n. 209 del 2013 del Ministero della Sanità (volte alla tutela dell'incolumità dei terzi rispetto ad aggressioni degli animali), bensì in ragione della violazione della regola di cautela generica, non prevista da leggi o regolamenti, di legare l’animale o ricondurlo in un luogo sicuro, onde tenerlo al riparo da manovre di emergenza o, comunque, dalla presenza di autoveicoli nelle vicinanze.

Perché possa fondare la responsabilità, alla stregua dell’art. 2054 c.c., la regola cautelare violata dev’essere direttamente preordinata a prevenire il sinistro, sicché (come notato da Sez. 3, n. 22723/2022, Dell’Utri, Rv. 665398-01) tale caratteristica non compete all’art. 193 del codice della strada (contemplante l’obbligo di assicurazione del veicolo), posto che la messa in circolazione di un mezzo privo della necessaria copertura assicurativa non è causalmente collegabile al sinistro in cui tale mezzo sia rimasto coinvolto.

Con riferimento alle diversificate azioni apprestate in favore del danneggiato dal codice delle assicurazioni, merita anzitutto di essere segnalata, con riguardo all’annualità in esame, la presa di posizione delle Sezioni Unite in ordine alla tutela riconosciuta al terzo trasportato dall’art. 141 c.ass. Sez. U, n. 35318/2022, Sestini, Rv. 666369-01, -02 e -03, ha, in primis, puntualizzato che l’azione diretta prevista dall’art. 141 c.ass. è aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall’ordinamento e mira ad assicurare al danneggiato una tutela rafforzata, consentendogli di agire nei confronti dell’assicuratore del vettore e di ottenere il risarcimento del danno a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, fatta salva la sola ipotesi di sinistro causato da caso fortuito; che la tutela rafforzata così riconosciuta (realizzantesi mediante l’anticipazione del risarcimento da parte dell’assicuratore del vettore e la possibilità di successiva rivalsa di quest’ultimo nei confronti dell’impresa assicuratrice del responsabile civile) presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli, pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi (questo principio era già stato ribadito dalla precedente Sez. 6-3, n. 27263/2022, Scrima, Rv. 665721-01, occupatasi del caso in cui il danneggiato lamentava di aver subito lesioni fisiche a causa del malfunzionamento del sedile posteriore dell’autovettura nella quale stava prendendo posto, senza far riferimento alla movimentazione della stessa e alla presenza o meno del conducente); che, conseguentemente, nel caso in cui nel sinistro sia stato coinvolto un unico veicolo, l’azione diretta che compete al trasportato danneggiato è esclusivamente quella prevista dall’art. 144 c.ass., da esercitarsi nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile. Le Sezioni Unite hanno, poi, affermato, con specifico riguardo alla nozione di “caso fortuito” (prevista come limite all'applicabilità dell’azione diretta del terzo trasportato), che essa concerne l’incidenza causale di fattori naturali e umani estranei alla circolazione, risultando invece irrilevante la condotta colposa dell’altro conducente, tenuto conto che la finalità della norma è quella di impedire che il risarcimento del danno subito dal passeggero venga ritardato dalla necessità di compiere accertamenti sulla responsabilità del sinistro. Infine, hanno chiarito la portata applicativa della norma anche sotto il profilo della legittimazione attiva, sancendo che, in considerazione del suo carattere eccezionale (come tale, insuscettibile di applicazione analogica), l’azione non può essere estesa ai danni subiti iure proprio dai congiunti del trasportato deceduto in conseguenza del sinistro, risultando, invece, applicabile nell’ipotesi in cui i congiunti richiedano il risarcimento iure hereditatis del danno cd. terminale subito dallo stesso trasportato a causa del sinistro.

Peculiare la fattispecie esaminata (sempre nell’ottica della legittimazione ad agire ex art. 141 c.ass.) da Sez. 3, n. 30723/2022, Frasca, Rv. 666048-03, che, per l’eventualità in cui sia impossibile identificare quale, tra gli occupanti di un veicolo, ne fosse il conducente, ha sostenuto che la presenza, a bordo dello stesso, di colui che ne aveva la disponibilità giuridica o a cui il veicolo era stato affidato è circostanza suscettibile di fondare la prova presuntiva, ai sensi dell'art. 2729 c.c., che tali soggetti si trovassero alla guida del mezzo (purché provvisti della relativa idoneità legale e di fatto). Nel caso particolare in cui, a rivestire la qualità di trasportato, sia il proprietario assicurato del veicolo, secondo Sez. 3, n. 11246/2022, Vincenti, Rv. 664511-02, la previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per i danni cagionati dal conducente non abilitato alla guida non è idonea, di per sé, ad escludere l’operatività della polizza assicurativa in favore della vittima assicurata, indipendentemente dal fatto che questa fosse consapevole del fatto che la persona che egli aveva autorizzato a guidare il mezzo non era assicurata a tal fine o che fosse convinto che quella persona fosse assicurata, oppure, ancora, che non si fosse posto domande a tale riguardo.

Alla stregua di un’interpretazione dell’art. 144 c. ass. conforme al diritto euro-unitario, Sez. 3, n. 1179/2022, Graziosi, Rv. 663703-01, ha sottolineato come il conducente e il trasportato possano avvalersi dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazioni del veicolo antagonista, anche se quello sul quale viaggiavano al momento dello scontro fosse sprovvisto di assicurazione, non incidendo l’obbligo assicurativo imposto dall'art. 122 del medesimo d.lgs. sulla legittimazione all'esercizio della menzionata azione.

In un sinistro con pluralità di danneggiati, l’assicuratore del vettore che, dopo aver risarcito i trasportati ed i loro congiunti, agisca in rivalsa contro l’assicuratore del veicolo responsabile, si surroga nei diritti dei creditori indennizzati, partecipando al concorso con gli altri; pertanto, l’assicuratore del responsabile potrà essere condannato a pagare il credito in rivalsa nei limiti del massimale, ovvero anche oltre il medesimo, a seconda che abbia adempiuto o meno agli obblighi posti a suo carico dall'art. 140 c.ass., adoperandosi per assicurare la presenza in giudizio di tutti i potenziali danneggiati, restando l’onere di attivarsi nei confronti dei creditori già soddisfatti, per recuperare quanto pagato in eccesso, nel primo caso a carico dell’assicuratore del vettore, e nel secondo di quello del responsabile (Sez. 3, n. 27075/2022, Rubino, Rv. 665901-01).

Occorre, infine, dar conto di un’ulteriore pronuncia in tema di azione contro l’impresa designata dal Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, ai sensi dell’art. 292 c.ass., per il risarcimento del danno cagionato da veicolo non identificato o sprovvisto di copertura assicurativa. Sez. U, n. 21514/2022, Scrima, Rv. 665191-02 e -03, ha statuito, al riguardo, che l’impresa designata che abbia risarcito la vittima può agire con la speciale azione prevista dall'art. 292, comma 1, c.ass., nei confronti del (o dei) responsabile (o responsabili) per il recupero dell’intero importo versato (e non solo, quindi, per la quota gravante sul soggetto inadempiente all'obbligo assicurativo), non trovando applicazione né l’art. 1299 c.c. né l’art. 2055 c.c., con l’ulteriore conseguenza che ciascuno dei corresponsabili è tenuto per l’intero anche nell’eventualità che uno degli altri sia insolvente. L’accertamento della responsabilità del sinistro costituisce (non già l’oggetto, bensì) il mero presupposto di tale azione, che può essere contestato dal convenuto, sicché la competenza sull’azione di recupero non spetta ratione materiae al giudice di pace ex art. 7, comma 2, c.p.c., e va determinata, quanto al foro territorialmente competente, con riferimento al criterio dell'art. 1182, comma 3, c.c. e non già del luogo di verificazione del sinistro o di residenza o domicilio del responsabile.

9. I rapporti tra processo penale e giudizio civile risarcitorio.

9.1. Il giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p.

Nell’anno in rassegna si registrano una serie di pronunce in linea di continuità con l’orientamento inaugurato da Sez. 3, n. 15859/2019, Tatangelo, Rv. 654290 – 01, in ordine all’oggetto e alle modalità dell’accertamento demandato al giudice civile adito ai sensi dell’art. 622 c.p.c. , che ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite penali (Sez. U, n. 22065/2021, Cremonini, Rv. 281228 – 01). Anzitutto, con riferimento al termine ex art. 392 c.p.c. per la riassunzione della causa innanzi al giudice civile competente per valore in grado d'appello, Sez. 6 - 3, n. 23758/2022, Gorgoni, Rv. 665448-01, ha ritenuto che debba aversi riguardo al momento della costituzione della parte civile nel processo penale, con la conseguenza che il suddetto termine, nella durata ridotta a tre mesi dalla legge n. 69 del 2009, si applica solo se tale costituzione sia avvenuta successivamente all’entrata in vigore della legge appena richiamata.

La necessità di applicazione, nel richiamato giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., delle regole processuali e probatorie proprie del processo civile è stata ribadita da Sez. 3, n. 30496/2022, Spaziani, Rv. 666267-01. In tale ordinanza la Corte, rilevando la piena conformità dell’applicazione delle regole processuali e probatorie proprie del processo civile alla regola della presunzione di innocenza (nell’interpretazione datane dalla Corte EDU con riguardo all’art.6, par. 2, della Convenzione Europea dei Diritti Umani, e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con riguardo all’art.48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e agli artt. 3 e 4 della Direttiva 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016), ha collocato la questione nel più ampio ambito dell’ accertamento dell’illecito civile in presenza di una sentenza penale di proscioglimento (artt. 576 - alla luce della sentenza n. 176 del 2019 della Corte cost. -, 578, 622 c.p.p., cui si sono aggiunti gli artt. 578, comma 1-bis e 131-bis c.p.p., alla stregua della sentenza n. 173 del 2022 della Corte cost.), affermando che, “in tutte le ipotesi di scostamento dalla regola dell’accessorietà di cui all’art. 538, comma 1, c.p.p., l’accertamento condotto sull’illecito civile è completamente autonomo e non risente dell’esito del diverso accertamento già compiuto (e ormai definito) sull’illecito penale”. Pertanto, nell’ipotesi di cassazione della sentenza penale di assoluzione ai soli effetti civili, il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. è deputato all’accertamento dell’illecito civile quale fattispecie autonoma da quella penale, sicché in esso trovano applicazione le regole processuali e probatorie e i criteri di giudizio propri del processo civile, restando precluso l’accertamento, in via incidentale, della responsabilità penale del convenuto. Nello stesso ordine di idee Sez. 3, n. 8997/2022, Fiecconi, Rv. 664579-03, ha ritenuto che qualora la Corte di cassazione annulli la sentenza penale di assoluzione ai soli effetti civili, con rinvio ex art. 622 c.p.p. al giudice civile competente per valore in grado d'appello, e quest’ultimo accerti la responsabilità dell’agente, non è configurabile una violazione dell’art. 6, par. 2, CEDU con riguardo al “secondo aspetto della presunzione di innocenza” (considerato dalla Corte EDU nella sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini c. Repubblica di San Marino), in quanto con il predetto rinvio si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda civile, con la conseguenza che il giudice civile del rinvio deve procedere a un’autonoma valutazione delle prove raccolte nel processo penale, al fine di valutare la sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo dell’illecito civile, secondo i criteri di accertamento civilistici. A tanto consegue che, in ossequio al principio di cui all’art. 2697 c.c. e ai fini del riparto degli oneri probatori tra le parti, la parte civile assume la veste di attore-danneggiato e l’imputato quella di convenuto-danneggiante (così Sez. 6-3, n. 1754 /2022, Scoditti, Rv. 663856-01).

Sez. 1 , n. 7474/2022, Caradonna, Rv. 664524-01, ha ribadito il principio (già affermato da Sez. 3, n. 9129/2021, Guizzi, Rv. 661076 – 01 e da Sez. 3, n. 517/2020, Vincenti, Rv. 656811-01) secondo cui, determinando la decisione della Corte di cassazione ex art. 622 c.p.p. una sostanziale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, è legittima la modificazione della domanda, sia pure con il limite delle preclusioni fissato dall’art. 183 c.p.c. e ha, pertanto, cassato con rinvio la sentenza della Corte territoriale che aveva rigettato la domanda di risarcimento danni, in ragione della ritenuta insussistenza del reato di cui all'art. 640 bis c.p., omettendo di considerare che il petitum sostanziale, così come prospettato in sede di rinvio, era comunque riconducibile alla richiesta in restituzione delle somme indebitamente percepite.

In tema di prove, si segnala, invece, per la sua importanza, il principio affermato da Sez. 3, n. 27016/2022, Gorgoni, Rv. 665988-01, secondo cui le dichiarazioni testimoniali rese dalla parte civile nel processo penale, pur non potendo assumere il valore di prova, neppure atipica (stante il divieto di cui all'art. 246 c.p.c.), rivestono efficacia di argomento di prova ex artt. 116, comma 2, e 117 c.p.c., potendo conseguentemente essere poste dal giudice a fondamento della propria decisione, in ossequio al principio del suo libero convincimento. Sez. 6-3, n. 16169/2022, Guizzi, Rv. 665055-01, da parte sua, ha precisato che, in caso di accoglimento del ricorso proposto dalla sola parte civile contro la sentenza penale d’appello la quale, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, abbia assolto l’imputato, nessuna efficacia può spiegare, nel processo civile di rinvio, la sentenza penale di condanna di primo grado (insuscettibile di reviviscenza), costituendo il giudizio ex art. 622 c.p.p. una fase del tutto nuova ed autonoma, soggetta alle regole civilistiche.

In caso di domanda di condanna generica, il giudice civile di rinvio può condannare il responsabile al pagamento di una provvisionale, ai sensi dell'art. 278 c.p.c., nei limiti in cui ritiene raggiunta la prova (in tal senso si è espressa, nell’annualità in rassegna, Sez. U, n. 29862/2022, Rossetti, Rv. 665940-07). Secondo le Sezioni Unite, la tesi che nega la possibilità d’una condanna provvisionale nel giudizio limitato all’an debeatur non è sostenibile sul piano della logica formale, perché eleva il presupposto della norma (la richiesta di condanna generica) a fattore impeditivo dell’applicazione di essa. Invero, proprio perché la quantificazione del danno non forma oggetto del giudizio, è accordata al giudice la potestà di pronunciare una condanna sommaria, nei limiti in cui, anche a prescindere dall’attività assertiva delle parti, la prova del danno sia comunque rifluita nel giudizio. La formula che subordina la concessione della provvisionale alla circostanza che sia “ancora controversa la quantità della prestazione dovuta” – proseguono le Sezioni Unite - sta a significare che sul quantum debeatur è mancata una decisione, ma non che quella decisione dovrà emettersi nello stesso giudizio in cui si è chiesta o è stata pronunciata la condanna generica. Conclusivamente, il giudice, pronunciando in sede di rinvio ai sensi dell’art. 622 c.p.p., potrà pronunciare una condanna provvisionale anche se la domanda sia limitata all’an debeatur, fermo restando che, mentre per l’accoglimento della domanda generica di danno è sufficiente che l’esistenza di un danno sia probabile, per l’accoglimento dell’istanza di provvisionale ex art. 278 c.p.c. è necessario che l’esistenza d’un danno sia certa, almeno in parte.

9.2. L’efficacia del giudicato penale nel processo civile e di quello civile nel processo penale.

In materia di efficacia del giudicato penale nel giudizio civile autonomamente instaurato per il risarcimento del danno, Sez. 3, n. 21402/2022, Guizzi, Rv. 665209-01, ha ribadito il consolidato principio secondo cui la decisione con cui il giudice civile ravvisi un concorso del soggetto danneggiato nella causazione del pregiudizio dallo stesso lamentato non viola l’art. 651 c.p.p., a norma del quale, nel processo civile, ha efficacia di giudicato l’accertamento, contenuto nella sentenza penale di condanna, in ordine alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e alla commissione dello stesso da parte dell’imputato.

Quanto, invece, alla speculare questione dell’efficacia del giudicato civile nel processo penale, Sez. 3, n. 1169/2022, Iannello, Rv. 663771-01, ha avuto occasione di precisare che, qualora il giudicato civile di condanna sia l’effetto dell’attività processuale fraudolenta di una parte in danno dell’altra, posta in essere mediante la precostituzione e l’uso in giudizio di prove false, la parte danneggiata, oltre alla proposizione dell’impugnazione per revocazione, qualora la predetta attività integri gli estremi di un fatto-reato può costituirsi parte civile nel relativo procedimento penale, così provocando l'esercizio del potere-dovere del giudice penale di statuire ed attuare concretamente l'obbligazione risarcitoria discendente in via diretta dall’accertamento fatto-reato stesso (art. 185 c.p.), senza che l’azione esercitata in sede penale possa trovare ostacolo nel giudicato civile che rimane travolto dall'accertamento penale. Tuttavia, in caso di estinzione del reato per qualsiasi causa, l’azione civile di responsabilità si trasferisce, con identica ampiezza, e quindi senza preclusioni in dipendenza del precedente giudicato civile, al giudice civile adito dalla parte danneggiata per ottenere il risarcimento del danno causato dal fatto-reato. In applicazione di tale principio. la Corte ha cassato con rinvio la decisione di appello che aveva ritenuto non risarcibile il danno derivante dall’esecuzione di un decreto ingiuntivo, ottenuto in base a scritture la cui falsità era stata accertata in sede penale, affermando erroneamente che, decorso il termine per l’esperimento dell’impugnazione per revocazione ex art. 395, comma 1, n. 2 c.p.c., l’esecuzione intrapresa sulla base del monitorio costituisse atto lecito, sovrapponendo indebitamente la considerazione del decreto ingiuntivo come regiudicata rispetto a quella che, nella prospettiva aquiliana deve darsi dello stesso giudicato civile, quale “fatto storico”, frutto di un illecito, costitutivo del diritto al risarcimento del danno. La pronuncia in rassegna sembra porsi in linea di continuità con Sez. 3, n. 21255/2013, Travaglino, Rv. 628700 – 01, che aveva affermato che, “In virtù dei principi costituzionali del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale, la previsione di cui all’art. 395, n. 6), c.p.c. deve essere interpretata nel senso di non inibire alla parte, vittima di una sentenza pronunciata da giudice corrotto, la possibilità di agire direttamente per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., allorché ricorra una situazione di oggettiva carenza di interesse ad avvalersi dell’impugnazione straordinaria, in ragione sia dell’impossibilità di soddisfare, attraverso l’eventuale pronuncia resa all’esito della fase rescissoria della revocazione, le pretese già in precedenza azionate in giudizio, sia della sopravvenienza di un fatto - nella specie, la conclusione di un contratto di transazione, stipulato nell’ignoranza della vicenda corruttiva - che esplichi effetto preclusivo in ordine alla attitudine della sentenza, frutto di corruzione, ad assumere autorità di cosa giudicata”.

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  • reinserimento professionale
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CAPITOLO XV

LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità del medico. - 3 La responsabilità dell’avvocato. - 4 La responsabilità del notaio. - 5 Le responsabilità del direttore dei lavori e del costruttore nell’appalto. - 6 La responsabilità dell’intermediario finanziario. - 7 La responsabilità del mediatore immobiliare. - 8 La responsabilità dell’intermediario di viaggi vacanza e del tour operator.

1. Premessa.

Nel corso dell’anno 2022 il sindacato nomofilattico della Corte di cassazione in tema di responsabilità professionali si è appuntato, oltre che sui temi “classici” della colpa e del nesso causale, in particolar modo sul contenuto dell’obbligazione a carico del professionista e sull’ampiezza degli obblighi informativi posti a suo carico.

Seppur, come di consueto, il maggior numero di pronunce si sia registrato nel settore della responsabilità professionale sanitaria, numerose sono state le pronunce relative anche alla responsabilità del notaio. In generale si conferma, peraltro, il trend già riscontrato ad una stabile riduzione delle pronunce massimate conseguenziale al consolidarsi di princìpi espressi sulle questioni più spinose negli scorsi anni.

2. La responsabilità del medico.

Il tema classico, sul quale anche nel corso di quest’anno si è appuntato il sindacato nomofilattico della Corte di cassazione in tema di responsabilità medico-sanitaria, è quello che attiene agli oneri probatori gravanti rispettivamente sul professionista sanitario e sul paziente.

In particolare Sez. 3, n. 10050/2022, Spaziani, Rv. 664402-01, in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali (tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica, anteriormente alla l. n. 24 del 2017), ribadisce l’ormai consolidato orientamento (a partire da Sez. 3 Sentenza n. 28991/2019, Rv. 655828-01, e poi ribadito anche da Sez. 6-3, n. 26907/2020, Rv. 659901-01, secondo il quale è onere del creditore-danneggiato provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), il nesso di causalità, secondo il criterio del “più probabile che non”, tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al professionista dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua inimputabilità all’agente.

Sempre in tema di oneri probatori, la recentissima Sez. 6-3, n. 35024/2022, Iannello, Rv. 666349-01, è tornata ad affrontare il tema delle cd. complicanze, rilevabili nella statistica sanitaria, ribadendo quanto già affermato da Sez. 3, n. 13328/2015, Rv. 636015-01, ossia che, nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all’art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una “complicanza”, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione – indicativa nella letteratura medica di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile – priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale aveva escluso la responsabilità del medico per la paresi dei nervi laringei e per una transitoria ipocalcemia sofferte dal paziente in esito ad un intervento di tiroidectomia, perché dall’accertamento compiuto era emerso che i menzionati esiti peggiorativi, seppur prevedibili, non erano evitabili, a nulla rilevando la loro teorica classificazione clinica – irrilevante sotto il profilo giuridico – come “complicanze”).

Quanto, poi, ai criteri di accertamento del nesso causale nella responsabilità civile Sez. 3, n. 25884/2022, Pellecchia, Rv. 665948-01, in un caso di responsabilità di una struttura sanitaria, ha affermato che, qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”; pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente.

Consolidato può dirsi anche il principio espresso da Sez. 6-3, n. 27279/2022, Guizzi, Rv. 665722-01, in ordine all’obbligo informativo posto a carico del sanitario, che specifica che, in tema di responsabilità civile derivante dall’esercizio professionale dell’attività medico-chirurgica, a fronte dell’allegazione del relativo inadempimento da parte del paziente, il medico è tenuto a provare di avere adempiuto all’obbligazione di avergli fornito un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze.

Si è, inoltre, indagato il contenuto della prestazione cui il medico è obbligato chiarendo, in primo luogo, Sez. 3, n. 13510/2022, Porreca, Rv. 664845-01, che il cosiddetto “soft law” delle linee guida – pur non avendo la valenza di norma dell’ordinamento – costituisce espressione di parametri per l’accertamento della colpa medica, che contribuiscono alla corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella legale disciplinata da clausole generali, quali quelle contenute negli artt. 1218 e 2043 c.c. e, in secondo luogo, Sez. 3, n. 13509/2022, Porreca, Rv. 664818-01, che l’attività dovuta dal medico-chirurgo non è limitata all’intervento chirurgico di cui è incaricato, ma si estende, coerentemente alla compiutezza della sua prestazione ed in relazione al correlato interesse di tutela della salute del paziente, alle informazioni relative al doveroso “follow up” prescritto dai protocolli o comunque ritenuto corretto dalla comunità scientifica in relazione alla specifica diagnosi effettuata nel caso concreto. (In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato il ricorso con cui il medico-chirurgo aveva censurato la sentenza di condanna al risarcimento del danno, legato alla perdita delle possibilità di sopravvivenza di un paziente deceduto per un melanoma, in ragione dell’omessa informazione al paziente sulla necessità di eseguire, oltre i dieci anni dall’intervento chirurgico, un “follow up”, come previsto da studi scientifici in corso all’epoca dell’intervento).

Sul delicato versante del diritto alla autodeterminazione del paziente Sez. 3, n. 26209/2022, Porreca, Rv. 665650-01, ha precisato che, se da un lato, il medico può legittimamente rifiutare di eseguire un intervento a rischio emorragico ove il paziente, pur prestando il consenso all’intervento, abbia manifestato un inequivoco dissenso all’esecuzione di trasfusioni di sangue in caso di avveramento di tale rischio, perché il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, dall’altro, qualora il sanitario opti comunque per l’esecuzione dell’intervento, è tenuto a rispettare il dissenso opposto, diversamente integrandosi la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente.

Per quanto, invece, attiene sia ai rapporti interni tra medico e struttura che ai rapporti tra più strutture in termini di esonero di responsabilità o di responsabilità solidale, da un lato, Sez. 3, n. 25972/2022, Porreca, Rv. 665647-01, ha chiarito che la responsabilità contrattuale nei confronti del paziente propria della struttura sanitaria comprende anche l’assunzione del rischio per i danni che al creditore possano derivare dall’utilizzazione di terzi per l’adempimento dell’obbligazione negoziale, ma non è configurabile qualora il pregiudizio consegua alla condotta di un soggetto terzo riferibile ad altra struttura, la quale abbia posto in essere una successiva e distinta presa in carico del medesimo paziente, dall’altro Sez. 3, n. 26275/2022, Vincenti, Rv. 665623-01, ha affermato che ai fini dell’esonero dalla responsabilità contrattuale derivante da emotrasfusione, la struttura sanitaria inserita nella rete del SSN presso la quale è stato praticato il trattamento con sangue infetto – qualora non abbia provveduto con un proprio autonomo centro trasfusionale ed abbia utilizzato sacche acquisite tramite il servizio pubblico competente – è onerata di provare la propria condotta diligente e, cioè, di essersi concretamente accertata che il sangue trasfuso sia stato sottoposto a controlli preventivi ed effettivi da parte di quel servizio. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che aveva escluso la responsabilità contrattuale di un ospedale in base alla sola considerazione che le sacche di sangue non provenivano da un centro trasfusionale autonomo interno all’ospedale, bensì da un centro ad esso esterno).

Quanto al profilo inerente al rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, Sez. 3, n. 08116/2022, Porreca, Rv. 664550-01, riaffermando il principio – già espresso nel corso del 2019, in via generale, da Sez. 3, n. 28987/2019, Porreca, Rv. 655790-01, e ribadito nel 2021 da Sez. 3, n. 29001/2021, Porreca, Rv. 662914-01 – secondo cui la responsabilità della struttura sanitaria è autonoma da quella del medico del quale la stessa si sia avvalsa, configurandosi come responsabilità per fatto proprio e non per fatto altrui, ha chiarito che la rinuncia all’impugnazione principale da parte del medico non determina l’inefficacia dell’impugnazione incidentale proposta dalla struttura sanitaria, anche tenuto conto che alla fattispecie non è applicabile l’art. 334, comma 2, c.p.c. (che si riferisce alla sola declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione principale). Sotto il diverso profilo delle interferenze tra giudizio civile e penale e degli effetti del giudicato penale in sede civile Sez. 3, n. 26811/2022, Vincenti, Rv. 665705-01, ha affermato che nella controversia civile promossa dal danneggiato al fine di ottenere la condanna di una struttura sanitaria al risarcimento dei danni, a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1228 c.c., per il fatto colposo dei medici dei quali la stessa si sia avvalsa nell’adempimento della propria obbligazione di cura, la sentenza penale irrevocabile – pronunciata, all’esito di dibattimento, nel processo al quale abbia partecipato (o sia stato messo in condizione di partecipare) il solo danneggiato come parte civile – che abbia assolto i medici con la formula “perché il fatto non sussiste”, in virtù dell’accertamento dell’insussistenza del nesso causale tra la condotta dei sanitari e l’evento iatrogeno, sulla base dei medesimi fatti oggetto del giudizio civile risarcitorio, esplica, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., piena efficacia di giudicato, ostativo di un diverso accertamento di quegli stessi fatti, ed è opponibile all’attore danneggiato, ai sensi dell’art. 1306, comma 2, c.c., da parte della struttura sanitaria convenuta (debitrice solidale con i medici assolti in sede penale), ove la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata in primo grado e successivamente coltivata.

In tema di effetti protettivi del contratto, in sostanziale continuità con quanto affermato da Sez. 3, n. 14615/2020, Sestini, Rv. 658328-01, e da Sez. 6-3, n. 21404/2021, Guizzi, Rv. 662040-01, Sez. 3, n. 11320/2022, Spaziani, Rv. 664513-01, ha ribadito la natura extracontrattuale della autonoma pretesa risarcitoria vantata dai congiunti del paziente per i danni ad essi derivati dall’inadempimento dell’obbligazione sanitaria, posto che il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico non produce, di regola, effetti protettivi in favore dei terzi, perché, fatta eccezione per il circoscritto campo delle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione, trova applicazione il principio generale di cui all’art. 1372, comma 2, c.c.. In particolare la S.C. ha ribadito il principio escludendo la spettanza dell’azione contrattuale “iure proprio” alla moglie di un soggetto che, affetto da Morbo di Parkinson, si era allontanato dalla struttura sanitaria presso cui era ricoverato e non era stato mai più ritrovato, precisando che la stessa avrebbe potuto eventualmente beneficiare della tutela aquiliana, con le conseguenti regole in tema di ripartizione dell’onere della prova.

In tema di danno da perdita di “chance” in materia di responsabilità sanitaria, particolarmente rilevante risulta essere Sez. 3, n. 25886/2022, Pellecchia, Rv. 665403-01, sviluppando i concetti già espressi da Sez. 3, n. 21245/2012, Rv. 624449-01, e da Sez. L, n. 13491/2014, Rv. 631459-01, ha precisato che la domanda risarcitoria del danno per la perdita di “chance” è, per l’oggetto, ontologicamente diversa dalla pretesa di risarcimento del pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, il quale si sostanzia nell’impossibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale, ma) eventistica, posto che la “chance” non è una mera aspettativa di fatto, bensì la concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato (nella specie, dedotto come riduzione del rischio di recidiva di ictus) o un certo bene, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale. In applicazione del principio, la S.C. ha, così, confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto nuova e, dunque, inammissibile la domanda risarcitoria per perdita di “chance” avanzata per la prima volta in appello.

3. La responsabilità dell’avvocato.

Con riferimento al contratto di patrocinio legale, Sez. 2, n. 23077/2022, Criscuolo, Rv. 665381-01, ha chiarito che l’art. 85 c.p.c. e l’art. 7 della l. n. 794 del 1942 sono espressione di una disciplina derogatoria, per i professionisti intellettuali che svolgono la professione di avvocato, rispetto a quella generale dell’art. 2237 c.c., per effetto della quale è permesso all’avvocato di recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa – salvo in tal caso il risarcimento del danno del quale il cliente provi l’esistenza – riconoscendo al difensore gli onorari relativi all’attività svolta fino al momento del recesso.

Sempre in relazione alla professione forense, in tema di attività professionale pronosticabile come radicalmente inutile “ex ante”, (si trattava di intervento autonomo spiegato dal difensore in un giudizio pendente tra diverse parti dopo la scadenza dei termini ex art. 183, sesto comma, c.p.c., e come tale senza possibilità di accoglimento, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità) Sez. 6-2, n. 05440/2022, Oliva, Rv. 664064-01, ha precisato che il suo svolgimento non attribuisce all’Avvocato alcun diritto al compenso.

Quanto, poi, alla verifica dell’esistenza di un danno risarcibile, nel caso in cui l’avvocato abbia omesso di trascrivere la domanda giudiziale ex art. 2901 c.c., con conseguente impossibilità per il creditore di opporre gli effetti della sentenza al terzo che, in corso di causa, abbia acquistato un cespite del compendio oggetto dell’esperita azione revocatoria, Sez. 3, n. 02348/2022, Guizzi, Rv. 663711-01, ha escluso che l’esistenza di un’iscrizione ipotecaria su quello stesso bene sia, di per sé, ostativa alla possibilità di riconoscere l’esistenza di detto danno, occorrendo, invece, una verifica della residua consistenza del credito garantito da ipoteca.

In tema di responsabilità professionale del difensore in ambito processuale, sia Sez. 3, n. 16225/2022, Sestini, Rv. 664903-01, che Sez. 3, n. 27847/2022, Fanticini, Rv. 665953-01, in continuità con quanto già affermato da Sez. 5, n. 17360/2021, Fanticini, Rv. 661475-01, analizzano la questione della responsabilità personale del difensore in ipotesi di procura speciale per il ricorso in cassazione inesistente in quanto rilasciata al difensore da una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, ribadendo che, stante l’inesistenza del rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente, per mancanza del mandante, l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua effettiva consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura. La seconda delle pronunce sottolinea altresì come sia compito dell’avvocato che riceve un mandato e autentica la sottoscrizione in calce alla procura speciale, verificare, oltre che l’identità del sottoscrittore, la sussistenza, in capo allo stesso, di validi poteri rappresentativi dell’ente collettivo, al fine di assicurare gli effetti dell’atto, restando ferma, peraltro, l’eventuale corresponsabilità di quest’ultimo – da farsi valere dal difensore in un autonomo giudizio di rivalsa -, laddove abbia consapevolmente speso poteri rappresentativi della società già cancellata dal registro delle imprese.

Sempre in relazione al giudizio di cassazione ma in tema di comunicazioni a mezzo posta elettronica certificata, Sez. 3, n. 30720/2022, Scarano, Rv. 666067-01, afferma che il difensore esercente il patrocinio non può indicare, per le comunicazioni, la P.E.C. di altro avvocato, senza specificare di volersi domiciliare presso di lui, in quanto l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria deve avvenire automaticamente attraverso la ricerca nell’apposito registro, a prescindere dall’indicazione espressa della P.E.C., di modo che non può attribuirsi rilievo all’indicazione di una P.E.C. diversa da quella riferibile al legale in base agli appositi registri e riconducibile ad altro professionista, senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa alla dichiarazione di domiciliazione. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione con il quale si censurava la pronuncia di legittimità per non essersi la medesima Corte avveduta, con riferimento alla notificazione della sentenza di secondo grado, che l’originaria l’indicazione dell’indirizzo P.E.C. dei due difensori del ricorrente, contenuta nella comparsa conclusionale, era stata modificata, nella successiva memoria di replica, mediante l’indicazione di uno solo di essi, in mancanza, però, di qualsivoglia corrispondente elezione di domicilio).

4. La responsabilità del notaio.

Anche quest’anno la Suprema Corte è tornata ad analizzare il contenuto del dovere di diligenza professionale gravante sul notaio, con particolare riferimento all’indagine sulla volontà delle parti che il notaio è tenuto a svolgere in relazione sia allo scopo tipico dell’atto da redigere che al risultato pratico perseguito dalle parti.

Proprio rispetto al contenuto di tale dovere la Suprema Corte in tre pronunce, in sostanziale continuità con Sez. 3, n. 07283/2021, Fiecconi, Rv. 660913-01, ha ribadito che il notaio incaricato della stipula di un contratto avente ad oggetto diritti reali su beni immobili non può limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a sovrintendere alla compilazione dell’atto, essendo tenuto a compiere l’attività necessaria ad assicurare la serietà e certezza dei relativi effetti tipici, e il risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti stesse, dal momento che contenuto essenziale della sua prestazione professionale è l’obbligo di informazione e consiglio (così Sez. 3, n. 04911/2022, Tatangelo, Rv. 663929-01) che ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la responsabilità professionale di un notaio il quale, in sede di stipulazione di un contratto di mutuo ipotecario, aveva omesso di accertare che l’immobile ipotecato era incommerciabile, in quanto gravato da usi civici non affrancati). Anche Sez. 3, n. 07185/2022, Guizzi, Rv. 664244-01, sulla stessa linea, premesso che l’obbligo di consiglio o dissuasione rientra tra i doveri del notaio incaricato, ha ulteriormente precisato che l’omissione di tali doveri è fonte di responsabilità per violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., quali criteri determinativi ed integrativi della prestazione contrattuale, che impongono il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della parte. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabile, per inadempimento del contratto d’opera professionale, il notaio, il quale aveva rogato quattro atti di compravendita – con previsione di pagamento rateale e clausola di rinuncia della venditrice all’iscrizione di ipoteca legale – e, lo stesso giorno e nei due giorni successivi, aveva rogato altri quattro atti di rivendita a terzi dei medesimi cespiti da parte dello stesso acquirente, spogliatosi così dei beni costituenti garanzia patrimoniale generica per il pagamento del prezzo). Con la conseguenza, evidenziata da Sez. 2, n. 10474/2022, Dongiacomo, Rv. 664373-01, che l’inosservanza di tali doveri, quand’anche non contemplati dalla legge professionale, determina l’insorgere di responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, trovando essi fondamento nella clausola generale di buona fede oggettiva, senza che possa configurarsi il concorso colposo del danneggiato ai sensi dell’art. 1227 c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per avere escluso la responsabilità contrattuale del notaio che aveva omesso di informare le parti dell’infrazionabilità del box parcheggio rispetto alla porzione pertinenziale, vincolo richiamato in precedenti atti notarili oltre che essere previsto dalla l. n. 112 del 1989)

Per altro verso Sez. 6-3, n. 21205/2022, Porreca, Rv. 665205-01, ha evidenziato che, mentre quando lo scopo pratico dell’atto è messo a rischio da mancate verifiche o dalle dinamiche tecniche proprie della negozialità, il notaio deve rispondere anche per omessa informazione, oltre che per difetto delle doverose attività di accertamento, quando, invece, le parti hanno assunto impegni negoziali espressi, soggetti ad apprezzamento di affidabilità e convenienza (come quello alla cancellazione delle riscontrate formalità, il notaio non è tenuto a rispondere del susseguente inadempimento della parte obbligata.

Degna di nota, infine, Sez. 2, n. 13857/2022, Besso Marcheis, Rv. 664626-01, che sottolinea come il notaio sia obbligato a svolgere di persona, in modo effettivo e sostanziale, tutte le attività necessarie per l’indagine sulla volontà delle parti, al fine di dirigere la compilazione dell’atto nel modo più congruente rispetto a tale accertamento, sicché è soggetto a sanzione disciplinare nel caso in cui, richiesto di stipulare un atto di liberalità, stipuli di fatto una compravendita con contestuale remissione del debito del prezzo da parte del venditore, senza avvertire le parti degli eventuali rischi in termini di stabilità dell’atto e di certezza giuridica degli effetti conseguiti.

5. Le responsabilità del direttore dei lavori e del costruttore nell’appalto.

In tema di responsabilità del direttore dei lavori per vizi costruttivi Sez. 1, n. 23858/2022, Parise, Rv. 665523-01, ha chiarito come la responsabilità possa configurarsi anche in corso d’opera, non presupponendo che la prestazione professionale sia stata resa, pur a fronte di revoca dall’incarico, fino all’ultimazione dei lavori e al relativo collaudo.

Sez. 3, n. 33465/2022, Condello, Rv. 666144-01, ha chiarito che, nel caso di intervento edilizio su un’opera preesistente, è richiesta al progettista e direttore dei lavori una diligenza particolarmente qualificata, in ragione della quale egli è tenuto, prima di procedere alla sopraelevazione, ad accertare l’idoneità statica delle strutture già esistenti.

In tema di riparto di responsabilità tra appaltatore e committente nei confronti del terzo danneggiato Sez. 2, n. 20840/2022, Oliva, Rv. 665172-01, ha escluso che la clausola di un contratto di appalto, nella quale si preveda che tutti i danni che i terzi dovessero subire dall’esecuzione delle opere siano a totale ed esclusivo carico dell’appaltatore, rimanendone indenne il committente, possa essere da quest’ultimo invocata quale ragione di esenzione dalla propria responsabilità risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato per effetto di quei lavori, atteso che tale clausola, operando esclusivamente nei rapporti fra i contraenti, alla stregua dei principi generali sull’efficacia del contratto fissati dall’art 1372 c.c., non può vincolare il terzo a dirigere verso l’una, anziché verso l’altra parte, la pretesa nascente dal fatto illecito occasionato dall’esecuzione del contratto.

Quanto, poi, al riparto di obblighi tra appaltatore e committente ai fini dell’azione di garanzia Sez. 2, n. 19343/2022, Rolfi, Rv. 664999-01, e Rv. 664999-02, ha, per un verso, precisato che per la piena e completa conoscenza dei vizi e delle loro cause non è necessario che, ai fini della denuncia, sia previamente espletato un accertamento peritale, qualora i vizi medesimi, anche in assenza o prima di esso, presentino caratteri tali da poter essere individuati nella loro esistenza ed eziologia. La valutazione della sussistenza di tali profili compete al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivata. Per altro verso, premesso che il semplice riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore se, da un lato, implica la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente, dall’altro, non determina automaticamente, in mancanza di un impegno in tal senso, l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, che, ove configurabile, è una nuova e distinta obbligazione soggetta al termine di prescrizione decennale, ha affermato che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto.

Con una interessante decisione in tema di responsabilità dell’appaltatore per difetti di costruzione di un immobile condominiale, ai sensi degli artt. 1667 e 1668 c.c., Sez. 2, n. 11606/2022, Carrato, Rv. 664386-01, ha affermato che l’azione di natura contrattuale spetta soltanto al committente, ossia ai singoli condòmini, nei cui confronti l’appaltatore si è obbligato, con esclusione della solidarietà attiva, sicché, se ad agire in giudizio è il singolo condòmino, egli, in difetto di un idoneo titolo negoziale preesistente legittimante la rappresentanza comune, può ottenere, con riferimento ai danni delle parti comuni, il risarcimento corrispondente alla sua quota parte sull’intero, spettando invece ai singoli proprietari la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni provocati agli immobili di proprietà esclusiva, con esclusione del litisconsorzio necessario.

6. La responsabilità dell’intermediario finanziario.

Anche quest’anno, la Corte di legittimità è tornata sul complesso problema che involge l’individuazione della responsabilità nell’ambito dei rapporti obbligatori di intermediazione bancaria e finanziaria sia dell’intermediario che dell’investitore ponendo in risalto la rilevanza degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario.

In termini generali Sez. 1, n. 32631/2022, Catallozzi, Rv. 666128-01, ha chiarito che l’obbligo di acquisizione da parte dell’intermediario delle informazioni richieste dall’art. 28 Reg. Consob n. 11522 del 1998, al fine di determinare la profilatura di rischio dell’investitore e la valutazione di adeguatezza delle singole operazioni, deve essere adempiuto al momento della conclusione del contratto quadro, non potendo essere sostituito da informazioni disponibili provenienti da altri rapporti contrattuali, salvo il caso in cui l’investitore stesso si sia rifiutato di fornire le notizie richieste e tale rifiuto risulti dal contratto quadro ovvero da apposita dichiarazione scritta.

Sempre in tema di obblighi informativi giova menzionare Sez. 1, n. 14208/2022, Falabella, Rv. 664868-01, che ha precisato che l’obbligo informativo a carico dell’intermediario sussiste, anche al di fuori di una negoziazione diretta in contropartita, nel caso di negoziazione diretta per conto del cliente, rientrando tale operazione a pieno titolo tra “i servizi e attività di investimento” di cui all’art. 1, comma 5, lett. b) T.U.F. La violazione di tale obbligo non può ritenersi esclusa neanche in presenza di una segnalazione di non adeguatezza e di non appropriatezza, gravando sull’intermediario anche un autonomo obbligo di prestare all’investitore il corredo informativo relativo allo specifico strumento finanziario, evidenziandone le caratteristiche ed i rischi specifici. In attuazione del predetto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto adempiuto l’obbligo informativo da parte della banca per il servizio di consulenza finanziaria prestata al cliente per l’acquisto di obbligazioni Lehman Brothers, sulla base della sottoscrizione da parte di questo di un ordine di acquisto nel quale era evidenziata la non adeguatezza dell’investimento, ritenendo che nella specie, trattandosi di operazione autonomamente richiesta dal cliente, non fosse dovuta alcuna valutazione sull’appropriatezza dell’investimento, né alcuna informazione sullo specifico prodotto finanziario.

Nello stesso senso anche Sez. 1, n. 19891/2022, Catallozzi, Rv. 664975-01, pone a carico dell’intermediario, ai sensi dell’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 58 del 1998, l’onere di provare di aver agito con la specifica diligenza richiesta e, dunque, dimostrare di avere correttamente informato i clienti sulla natura, i rischi e le implicazioni della specifica operazione relativa ai titoli mobiliari oggetto di investimento, risultando irrilevante, al fine di andare esente da responsabilità, una valutazione di adeguatezza dell’operazione, posto che l’inosservanza dei doveri informativi da parte dell’intermediario è fattore di disorientamento dell’investitore, che condiziona le sue scelte di investimento e, al contempo, condiziona la stessa valutazione di adeguatezza. Affermando tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva rigettato le domande dell’investitore sul rilievo che, all’epoca, l’investimento in bond argentini non presentava una particolare rischiosità, in quanto gli obblighi informativi devono essere assolti dall’intermediario indipendentemente dalla rischiosità dell’investimento.

Quanto alle conseguenze risarcitorie derivanti dalla violazione dei doveri informativi previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998 Sez. 1, n. 26202/2022, Vannucci, Rv. 665749-01, afferma che spettano al cliente danneggiato la rivalutazione monetaria del credito da danno emergente e gli interessi compensativi del lucro cessante, a decorrere dal giorno della sottoscrizione delle obbligazioni (giorno di verificazione dell’evento dannoso), poiché, in assenza di risoluzione del contratto, l’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale costituisce, al pari dell’obbligazione risarcitoria da responsabilità aquiliana, un debito di valore, e non di valuta, tenendo luogo della materiale utilità che il creditore avrebbe conseguito se avesse ricevuto la prestazione dovutagli.

In relazione alla responsabilità extracontrattuale dell’intermediario finanziario Sez. 1, n. 24149/2022, Mercolino, Rv. 665529-02, precisa che, ai fini della liquidazione del danno, non rileva lo sfavorevole andamento del mercato, quand’anche imprevedibile, pur se abbia contribuito a determinare il pregiudizio subito dall’investitore.

Sul requisito della forma scritta del contratto ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 415 del 1996 Sez. 1, n. 28377/2022, Vannucci, Rv. 665753-01, afferma che la domanda di accertamento della nullità di un contratto relativo alla prestazione di servizi di investimento in valori mobiliari per inosservanza della forma scritta proposta dal cliente per la prima volta in appello, nei confronti dell’intermediario in valori mobiliari, nell’ambito di un giudizio volto ad ottenere il risarcimento di danni che si assumono essere derivati dall’esecuzione del contratto medesimo, pur essendo inammissibile quale domanda nuova, ex art. 345, comma 1, c.p.c., deve essere convertita ed esaminata nel merito dal giudice del gravame, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, come eccezione di nullità rilevabile d’ufficio – estesa anche alle nullità negoziali c.d. di protezione – previa instaurazione del contraddittorio tra le parti ex art. 101, comma 2 c.p.c.

Infine, in relazione ai rapporti tra intermediario e promotore finanziario e sulla rilevanza della condotta dell’investitore danneggiato, Sez. 6-3, n. 31453/2022, Spaziani, Rv. 666074-01, ha affermato che la banca risponde dei danni arrecati a terzi dai propri incaricati nello svolgimento delle incombenze loro affidate, quando il fatto illecito commesso sia connesso per occasionalità necessaria all’esercizio delle mansioni; la responsabilità dell’intermediario per i danni arrecati dai propri promotori finanziari è, tuttavia, esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quantomeno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, tra cui quella che vieta la corresponsione quest’ultimo di denaro in contanti da parte dell’investitore. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, a fronte del versamento al promotore finanziario di somme in contanti, non tracciabili, si era limitata a rimarcare la non eccessività degli importi corrisposti, trascurando di apprezzare le modalità della condotta e di esporre le ragioni per cui la stessa, ancorché interdetta da specifiche previsioni normative, non dovesse considerarsi anomala).

7. La responsabilità del mediatore immobiliare.

Anche in relazione al mediatore immobiliare la S.C. è stata chiamata a pronunciarsi in ordine agli obblighi informativi posti a carico del professionista.

Così, Sez. 2, n. 15577/2022, Fortunato, Rv. 665164-01, ha compiutamente delineato gli obblighi del mediatore, il quale, sia quando agisca in modo autonomo (mediazione c.d. tipica), sia su incarico di una delle parti (mediazione c.d. atipica, costituente in realtà mandato), è tenuto a comportarsi secondo buona fede e correttezza e a riferire, perciò, alle parti le circostanze, da lui conosciute o conoscibili secondo la diligenza qualificata ex art. 1175 c.c. propria della sua categoria, idonee ad incidere sul buon esito dell’affare, senza che le eventuali più penetranti verifiche a ciò necessarie postulino il previo conferimento di specifico incarico, tali essendo, in caso di mediazione immobiliare, tutte quelle afferenti alla contitolarità del diritto di proprietà, all’insolvenza di una delle parti, all’esistenza di elementi atti a indurre le parti a modificare il contenuto del contratto, ad eventuali prelazioni ed opzioni, al rilascio di autorizzazioni amministrative, alla provenienza di beni da donazioni suscettibili di riduzione, alla solidità delle condizioni economiche dei contraenti, alle iscrizioni o trascrizioni sull’immobile e alla titolarità del bene in capo al venditore.

Sez. 2, n. 24534/2022, Tedesco, Rv. 665394-01, infatti, afferma che in caso di mediazione immobiliare, il mediatore è tenuto, secondo il criterio della media diligenza professionale, a rendere le informazioni sul rendimento energetico (cd. classe energetica) dell’immobile oggetto dell’affare intermediato fin dal momento in cui ne effettua la relativa pubblicità, con la possibilità di visionare la relativa documentazione, trattandosi di informazioni funzionali alla determinazione dell’acquirente in ordine all’acquisto dell’immobile.

8. La responsabilità dell’intermediario di viaggi vacanza e del tour operator.

In tema di responsabilità dell’intermediario di viaggi vacanza e del tour operator in ipotesi di pacchetto turistico “tutto compreso” Sez. 6-3, n. 03150/2022, Rossetti, Rv. 664069-01, ha chiarito che l’art. 43 comma 1, d. lgs. n. 79 del 2011 (nel testo applicabile “ratione temporis” e cioè anteriore alle modifiche introdotte dal d. lgs. n. 62 del 2018) stabiliva che “l’organizzatore e l’intermediario sono tenuti al risarcimento del danno, secondo le rispettive responsabilità”, ciò significando che l’intermediario di viaggi vacanza (anche detto venditore o agenzia di viaggi) risponde delle obbligazioni tipiche del mandatario o venditore, come ad esempio, della scelta dell’organizzatore, mentre quest’ultimo (anche detto “tour operator”) risponde della non corrispondenza dei servizi promessi e pubblicizzati rispetto a quelli offerti, salvo che il viaggiatore o il turista non dimostri che l’intermediario, tenuto conto degli inadempimenti lamentati, conosceva o avrebbe dovuto conoscere ex art. 1176 c.c. la non affidabilità dell’organizzatore prescelto.

  • liquidazione delle spese
  • responsabilità
  • danno

DIALOGANDO CON IL MERITO

LA LIQUIDAZIONE TABELLARE DEL DANNO NON PATRIMONIALE DA PERDITA DEL RAPPORTO PARENTALE

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 Il danno da perdita del rapporto parentale e la sua liquidazione con il sistema tabellare sino a Cass. Sez. 3, n. 10579/2021. - 2 La dottrina e la giurisprudenza di merito successiva. - 3 Le nuove tabelle milanesi. - 4 La dottrina e la giurisprudenza di merito successiva alla pubblicazione delle tabelle milanesi e l’avallo della Suprema Corte. - 5 Conclusioni.

1. Il danno da perdita del rapporto parentale e la sua liquidazione con il sistema tabellare sino a Cass. Sez. 3, n. 10579/2021.

Come noto, con l’espressione “danno da perdita del rapporto parentale” si indica il pregiudizio non patrimoniale risarcibile iure proprio conseguente alla morte di un proprio familiare scaturita dalla condotta illecita del terzo. Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, il danno derivante dalla perdita di un rapporto parentale va identificato “nell'insieme di quelle specifiche conseguenze dannose di natura non patrimoniale che discendono dalla definitiva cancellazione di una relazione personale caratterizzata dalla particolare pregnanza emotiva e implicazione affettiva destinato a tradursi, sul piano dei pregiudizi alla persona, nella duplice dimensione del c.d. danno morale - ossia della sofferenza puramente interiore patita per la perdita affettiva riscontrabile sul piano dell'afflizione e della compromissione dell'ordinario equilibrio emotivo (senza tuttavia alcuna degenerazione patologica suscettibile di accertamento medico-legale) - e, sotto altro profilo, del danno rappresentato dalla modificazione delle attività della vita quotidiana e degli eventuali aspetti dinamico-relazionali in conseguenza di tale perdita affettiva; si tratta, in relazione a questa duplice lettura del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale, sempre e comunque di conseguenze dannose riferibili alla compromissione di quello specifico interesse legato alla conservazione dell'integrità del proprio nucleo familiare e/o affettivo” (1).

La dottrina e la giurisprudenza, nell’assenza di previsioni normative, si interrogano da decenni su quali siano i criteri e le modalità per risarcire tale pregiudizio, nella consapevolezza della estrema difficoltà, se non impossibilità, di attribuire un (giusto) valore monetario alla perdita. In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo mostrato di essere “perfettamente consapevole del fatto che non è possibile compiere una sorta di graduazione del dolore secondo una scala misurabile con criteri oggettivi; ed inorridisce alla sola idea che un dolore così tragico quale quello della perdita di un figlio possa essere al centro di una discussione economica, poiché è evidente l'incommensurabile distanza che esiste tra la sofferenza ed il risarcimento. E tuttavia i giudici sono chiamati anche a questo difficile compito, che impone loro di assumere una decisione, liquidando una somma di denaro (2)”.

A tal fine si è chiarito che la liquidazione del risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale è il frutto di una inevitabile valutazione equitativa secondo criteri rimessi alla prudente discrezionalità del giudice, i quali “devono tener conto dell'irreparabilità della perdita della comunione di vita e di affetti e della integrità della famiglia. La relativa quantificazione va operata considerando tutti gli elementi della fattispecie e, in caso di ricorso a valori tabellari, che vanno in ogni caso esplicitati, effettuandone la necessaria personalizzazione”(3). In ogni caso i criteri prescelti “devono essere comunque idonei a consentire la cd. personalizzazione del danno, una liquidazione adeguata e proporzionata che, muovendo da una uniformità pecuniaria di base, riesca ad essere adeguata all'effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato nel caso concreto”(4).

Quanto alla giurisprudenza di merito, sin dalla fine degli anni’ 90, nell’intento di realizzare sia l’equità che l’uniformità richiesta dalla Suprema Corte, ha fatto normalmente ricorso, anche per la liquidazione del danno da uccisione del congiunto, a tabelle elaborate attraverso un procedimento di analisi e sintesi della casistica giurisprudenziale nei diversi tribunali, quale strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all'art. 1226 c.c. “Le tabelle, individuando parametri uniformi di quantificazione del danno, segnano infatti il passaggio da una “equità individuale” a una “equità collettiva”, consentendo al giudice di svolgere una valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., ex ante e non più ex post”. (5)

Le tabelle elaborate dai diversi tribunali italiani per la liquidazione del danno da perdita parentale, a differenza di quelle elaborate per la liquidazione del danno all’integrità psico- fisica, strutturate su un sistema a “punto variabile”, prevedevano, generalmente, un sistema per il quale veniva individuata, in relazione a tipologie di rapporti parentali, una “forbice” in cui veniva indicata l’entità del risarcimento tra un minimo ed un massimo monetario.

Il tribunale di Roma, nel 2007, ha, invece, elaborato una innovativa tabella “a punti” che attribuiva un valore di risarcimento tenendo presenti vari parametri e attribuendo così un valore numerico in una scala di graduazione. La tabella “romana” dal 2007, dunque, prevede per tale tipo di danno non patrimoniale un sistema a punti basato sulla attribuzione al danno di un punteggio numerico a seconda della sua presumibile entità e nella moltiplicazione di tale punteggio per una somma di denaro, che costituisce il valore ideale di ogni punto. “Tale sistema muove dalla enucleazione - pur consapevole della molteplicità dei fattori che devono essere considerati nella determinazione del danno da morte - di una serie di essi che avevano la caratteristica di essere presenti in tutti i casi. Più precisamente sono individuati cinque fattori di influenza del risarcimento - una volta ritenuta provata la esistenza di una seria relazione affettiva -vale a dire: a. il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, potendosi presumere che il danno sia maggiore quanto più stretto il rapporto; b. l'età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l'età del congiunto superstite; c. l'età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all'età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita; d. la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite; e. presenza all'interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi: infatti il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell'assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un'altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi. Per consentire una adeguata valutazione di tale sistema di variabili, si è, dunque, ritenuto opportuno adottare un sistema a punti basato sulla determinazione del corrispettivo economico del danno mediante l’attribuzione di un punteggio numerico che tenesse conto della sua entità, così come emergente sulla base dei criteri enucleati, e la moltiplicazione di tale punteggio per una somma di denaro ché costituisse il valore ideale del singolo punto di danno non patrimoniale. Il risarcimento totale, quindi, risulta pari al punteggio dato dalla sommatoria dei punti previsti per ciascuna delle ipotesi ricorrenti nel caso concreto in esame, moltiplicato per il valore del punto determinato sulla base dei concreti importi già liquidati dal Tribunale di Roma. Sull’importo finale possono essere, poi, applicati dei correttivi per adeguare ulteriormente il risarcimento alla fattispecie concreta in esame. Si è infatti previsto che la circostanza della non convivenza con la vittima possa essere apprezzata con una riduzione del punteggio complessivamente conseguito fino ad un terzo, mentre la situazione della inesistenza di altri familiari possa comportare un aumento da un terzo alla metà del punteggio complessivamente conseguito.”(6)

La nuova modalità di liquidazione “a punti”, tuttavia, ebbe limitato successo venendo adottata quasi esclusivamente dai tribunali laziali che adottavano le tabelle romane anche per la liquidazione del danno non patrimoniale biologico.

D’altra parte, la Corte di cassazione nel 2011 con sentenza n. 12408 del 7/06/2011 (Rv. 618048-01) cd. sentenza “Amatucci”, dopo aver premesso che l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti uffici giudiziari, individuando nelle tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione dell’integrità psico-fisica in uso presso il Tribunale di Milano quelle maggiormente idonee a garantire uniformità di trattamento, essendo già ampiamente diffuse sul territorio nazionale e riconoscendo la loro valenza “di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.”, sembrava aver attribuito la medesima valenza “para normativa” anche alle tabelle di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale adottate presso il tribunale di Milano e strutturate, come evidenziato, secondo una “forbice” di valori monetari (7).

Tale orientamento è rimasto invariato fino al 2019 quando la stessa Suprema Corte lo ha posto in discussione. I giudici di legittimità, infatti, dapprima si sono limitati a precisare che i principi affermati nel 2011 riguardavano specificamente il danno non patrimoniale alla persona da lesione dell'integrità psico-fisica e non anche il danno da lesione del rapporto parentale, affermando che “Nella liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale - diversamente da quanto statuito per il pregiudizio arrecato all'integrità psico-fisica - le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscono concretizzazione paritaria dell'equità su tutto il territorio nazionale” (8), lasciando, tuttavia, liberi i giudici di merito di adottare le tabelle milanesi, purchè la valutazione equitativa fosse sorretta da adeguata motivazione. In un secondo momento, i giudici di legittimità hanno contestato in radice la metodologia alla base delle tabelle milanesi, affermando che una tabella non sviluppata secondo il sistema del punto variabile “non garantisce la funzione per la quale è stata concepita, che è quella dell'uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza”.

La Sez. 3 della Corte con la ormai nota sentenza n. 10579 del 21/04/2021, Scoditti, (Rv. 661075-01), in primo luogo ha ricordato, infatti, come “l'utilizzo da parte del giudice delle tabelle redatte dall'ufficio giudiziario per la liquidazione del danno non patrimoniale trova fondamento nel potere del giudice di valutazione equitativa del danno previsto dall'art. 1226 cod. civ. Quest'ultima norma, prefigurante l'equità giudiziale c.d. integrativa o correttiva e dunque ancora un giudizio di diritto e non di equità, per una parte risponde alla tecnica della fattispecie, quale collegamento di conseguenze giuridiche a determinati presupposti di fatto, per l'altra ha natura di clausola generale, cioè di formulazione elastica del comando giuridico che richiede di essere concretizzato in una norma individuale aderente alle circostanze del caso. Quale fattispecie, l'art. 1226 richiede sia che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, la prova del danno nel suo ammontare, sia che risulti assolto l'onere della parte di dimostrare la sussistenza e l'entità materiale del danno medesimo. Quale clausola generale, l'art. 1226 definisce il contenuto del potere del giudice nei termini di "valutazione equitativa"”. In secondo luogo, ha sottolineato che la tabella meneghina - che con riferimento al danno da perdita parentale, non segue la tecnica del punto, ma si limita ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre peraltro una assai significativa differenza - “costituisce esclusivamente una perimetrazione della clausola generale di valutazione equitativa del danno e non una forma di concretizzazione tipizzata quale è la tabella basata sul sistema del punto variabile. Resta ancora aperto il compito di concretizzazione giudiziale della clausola, della quale, nell'ambito di un range assai elevato, viene indicato soltanto un minimo ed un massimo. In definitiva si tratta ancora di una sorta di clausola generale, di cui si è soltanto ridotto, sia pure in modo relativamente significativo, il margine di generalità. La tabella, così concepita, non realizza in conclusione l'effetto di fattispecie che ad essa dovrebbe invece essere connaturato”.

La S.C., quindi, ha affermato che “In tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul "sistema a punti", che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella” (9) . Anche in tale pronuncia, peraltro, la S.C. si è premurata di precisare che le liquidazioni già operate dai giudici di merito con riferimento alla tabella milanese non sono, per ciò solo, suscettibili di cassazione, dovendosi “guardare al profilo dell'effettiva quantificazione del danno, a prescindere da quale sia la tabella adottata, e, nel caso di quantificazione non conforme al risultato che si sarebbe conseguito seguendo una tabella basata sul sistema a punti secondo i criteri sopra indicati, a quale sia la motivazione della decisione”.

2. La dottrina e la giurisprudenza di merito successiva.

All’indomani della pubblicazione della sentenza n. 10579/21 la dottrina e la giurisprudenza di merito si sono divise sull’interpretazione della sua reale portata, alimentando il preesistente conflitto tra “Tabelle Romane” e “Tabelle Milanesi” (10).

Alcuni autori (11), infatti, hanno ritenuto che con tale pronuncia la cassazione avesse “riportato in auge” la tabella romana, che adotta un sistema a punti, con l’obiettivo di depotenziare la tabella milanese, restando solo da verificare se “la cassazione abbia indicato soltanto la sua preferenza per il metodo a punti connotante la tabella romana od anche per i suoi livelli risarcitori” (12), In tale prospettiva, dunque, la sentenza n. 10579/21 avrebbe determinato “il superamento della “vocazione nazionale” della tabella milanese a vantaggio di quella romana poiché il favor riconosciuto dalla Suprema Corte ai criteri di calcolo sui quali si fonda la tabella capitolina e l'onere di motivare il discostamento da questa quando il quantum risarcitorio riconosciuto risulti inferiore a quanto sarebbe stato liquidato in caso di adozione di una tabella con un sistema a punto variabile, indurrà – o quantomeno dovrebbe indurre - la prassi giudiziaria ad accogliere la tabella elaborata del Tribunale di Roma per evitare contestazioni o il rischio di riforma per “inadeguata motivazione” (13).

Sul fronte opposto, altri autori (14), pur dando atto che “il principio di diritto enucleato dalla Corte rievochi quasi pedissequamente i criteri elaborati dal Tribunale di Roma ai fini della liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale” hanno evidenziato come “la Corte di cassazione abbia sì espresso il proprio favore per il metodo di calcolo che è stato appunto concepito dal tribunale capitolino, ma non sia giunta ad eleggere formalmente le tabelle romane quale parametro di equità su scala nazionale”.

Secondo tale parte della dottrina, dunque, la pronuncia non avrebbe inteso adottare la tabella capitolina, quanto piuttosto, sollecitare la redazione di nuove tabelle milanesi più rispondenti ai criteri indicati dalla Corte nell'ottica di assicurare quella prevedibilità della decisione e parità di trattamento imposta dall'art. 3 Cost. A sostegno di tale tesi sono stati invocati tre argomenti: letterale, storico e sistematico (15). L'argomento letterale, come già evidenziato, sottolinea come la Suprema Corte, pur criticando il criterio di calcolo adottato dalle tabelle milanesi per liquidare il danno da perdita del rapporto parentale, non ha mai fatto esplicita menzione delle tabelle romane. “L'argomento storico, invece, trova fondamento nel mancato superamento di tutti i tre criteri che hanno spinto, esattamente un decennio fa, la c.d. “sentenza Amatucci” ad elevare la tabella elaborata dal Tribunale di Milano a tabella avente vocazione nazionale: impossibilità di calcolare una media nazionale dei valori tabellari; utilizzazione di tali tabelle da parte dei giudici di merito di sessanta tribunali e maggiore aderenza ai dettami delle San Martino del 2008. I fautori della tesi favorevole a considerare la perdurante vocazione nazionale della tabella meneghina rilevano come tra i sopra menzionati criteri il solo ad essere stato inciso nel corso di tale decennio sia stato quello relativo alla maggiore aderenza, da parte delle tabelle milanesi, ai dettami delle “prime San Martino”” (16). Resterebbe, invece, ancora vigente, in questa prospettiva, il criterio della maggiore diffusione delle tabelle milanesi, il quale peraltro, nel tempo ha assunto dimensioni sempre maggiori proprio in ragione della valenza para normativa loro attribuita dalla sentenza “Amatucci”. Infine, la dottrina critica verso l’adozione delle tabelle romane sottolinea come, sebbene le tabelle capitoline, a differenza di quelle meneghine, siano ispirate al criterio del sistema a punti, esse in ogni caso non soddisfano tutti i criteri richiesti nella sentenza in commento per liquidare il danno da perdita del rapporto parentale, non essendo stato il valore del punto medio ricavato attraverso una valutazione dei precedenti ed in ogni caso non essendo noti né il criterio e né gli elementi in base ai quali tale dato è stato ricavato.

Più in generale, poi, si è (17) contestata la stessa adeguatezza del sistema di liquidazione “a punti”, sollecitato dalla Suprema Corte, evidenziando come la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale sia determinata dal concorso di alcune variabili, “la cui interazione non pare possa essere sintetizzata mediante una mera moltiplicazione del “punto base” per coefficienti “fissi”. Si sottolinea dunque, come “il “peso” effettivo di ciascun elemento istruttorio raccolto ben potrebbe variare a seconda dell'effettivo atteggiarsi degli altri e che l'impiego di coefficienti “fissi” (così come suggerito dalla Corte di cassazione), se da un lato garantisce maggiore certezza, dall'altro si risolve in un'acritica automatizzazione della liquidazione, tantomeno accettabile ove solo si consideri come ci si trovi al cospetto di un danno di natura soggettiva (la sofferenza interiore determinata dalla perdita), la cui valutazione sconta - per definizione - un inevitabile margine di approssimazione e per l'effetto richiede un ben più attento e complessivo esame di tutte le circostanze di fatto da cui possa inferirsi – anche solo presuntivamente – l'effettiva consistenza del pregiudizio.

Il medesimo contrasto di orientamenti si rinviene anche nella giurisprudenza di merito successiva alla sentenza della Suprema Corte.

Così numerose pronunce, richiamando esplicitamente il mutamento nella giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto doversi applicare nella (18), affermando che, stante la necessità di una tabella basata su di un sistema a punti per la liquidazione del danno non patrimoniale, l’unica tabella elaborata secondo tale sistema è quella romana, e che pertanto debba essere questa a trovare applicazione (19).

In senso contrario, a parte i casi in cui si è ritenuto di proseguire con l’applicazione della tabella milanese dell’edizione del 2021, senza motivare espressamente sul punto (20), altre pronunce (21) hanno ritenuto che le tabelle milanesi siano pur sempre da preferire nonostante non siano strutturate secondo un sistema a punti. Ciò, in primo luogo, in quanto le tabelle romane, non prevedendo correttivi in ragione della particolarità della situazione, “non assicurano nel caso di specie la necessaria proporzione al danno del suo equivalente monetario”. In secondo luogo, perché il “tetto minimo” delle tabelle milanesi (denominato “valore monetario base”) esprimerebbe ancora l’uniformità pecuniaria di base che impedisce una valutazione del tutto diversa da persona a persona di una lesione identica ed è stato determinato all’esito di un monitoraggio nazionale della giurisprudenza di merito. In altre pronunce (22), si è sottolineata la circostanza che la Suprema Corte, nel richiedere l’applicazione di una tabella basata sul punto variabile, non ha individuato nella tabella in uso presso il Tribunale di Roma quella che senz’altro soddisfa la uniformità e prevedibilità delle liquidazioni né ha individuato il “regime transitorio” che disciplini le modalità di determinazione del danno parentale in attesa della nuova tabella, e si è ritenuta tale soluzione “non è affatto appagante, in quanto presuppone l’esistenza di una tabella a punto variabile allo stato inesistente”. Secondo altri giudici, sono comunque pur sempre da preferire le tabelle meneghine perché quelle romane “considerano soltanto cinque fondamentali fattori che certamente influenzano l’entità del danno non patrimoniale e la conseguente misura del risarcimento ma che tuttavia non esauriscono la varietà e variabilità delle possibili situazioni e standardizzano in maniera eccessiva la misura del ristoro economico” (23).

Tale essendo il panorama “liquidatorio” taluno (24) ha sottolineato, come “nonostante la cassazione si sia espressa in maniera inequivocabile per la preferenza delle tabelle romane relativamente al risarcimento del danno non patrimoniale da perdita parentale, nonostante una buona parte dei tribunali e delle corti di merito abbiano già accordato fiducia alle dette tabelle, ad oggi nessuna compagnia assicurativa è disposta a transigere un danno da morte con le tabelle adottate dal tribunale di Roma e tutte quante, nessuna esclusa, sono in spasmodica attesa delle emanande ad horas “nuove tabelle a punti” del tribunale di Milano che salveranno la “tenuta del sistema” dei bilanci assicurativi”.

3. Le nuove tabelle milanesi.

Il Tribunale di Milano, come preannunciato con la sentenza 7 luglio 2021, n. 5947 (25), infatti, il 29 giugno 2022, dopo lunga gestazione, ha depositato i “nuovi Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da perdita del rapporto parentale” con i quali, al fine di conformarsi ai principi espressi dalla Suprema Corte e di superare i limiti del pregresso criterio a “forchetta”, ritenuto dalla Corte, come detto, caratterizzato da eccessiva discrezionalità, vengono adottate “Tabelle integrate a punti” (26).

Come emerge anche da successive pronunce dello stesso Tribunale di Milano (27), l’Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano “valutò se aderire alla tabella romana, che era l'unica tabella a punti già esistente, ma questa ipotesi fu scartata” ritenendo che la tabella romana fosse inadeguata in quanto: non aveva estratto il valore del punto dai precedenti, a differenza di quanto indicato da Cass. 10579/2021; non era il frutto del confronto tra le componenti dei giudici e degli avvocati (delle vittime e delle compagnie assicuratrici); appariva per un verso troppo “ingessata”, perché con il semplice certificato anagrafico si potevano ottenere liquidazioni vicino al massimo di oltre € 300.000,00, senza una specifica allegazione ed indagine sulle concrete relazioni affettive tra vittima primaria e secondaria e, per altro verso, lasciava troppa discrezionalità al giudice di diminuire fino ad un terzo i valori monetari in assenza di convivenza; mentre, in assenza di altri familiari entro il secondo grado, prevedeva un aumento da 1/3 a ½, risultando quindi addirittura meno predittiva di quella milanese edizione 2021; i valori monetari finali non risultavano allineati al monitoraggio effettuato dall'Osservatorio milanese.

Respinta, dunque, l’adozione della tabella romana, l’Osservatorio milanese ha ritenuto necessario porre alla base dell'adeguamento delle tabelle i valori monetari previsti dalla “forbice” individuata nelle precedenti edizioni, “trattandosi di criteri liquidatori adottati da almeno l'80% degli uffici giudiziari sull'intero territorio nazionale e, ad ogni modo, non essendo stati detti valori oggetto di censura da parte della Suprema Corte”. È stata mantenuta, come in passato, la distinzione tra le due tabelle per la liquidazione del danno a seconda del tipo di rapporto parentale perduto. È stato quindi ricavato il “valore punto” per le ipotesi (a) di perdita di genitori/figli/coniuge/assimilati, pari a € 3.365,00 e (b) di perdita di fratelli/nipoti, pari a € 1.461,20, dividendo per 100 il valore monetario massimo previsto dalle precedenti tabelle milanesi - Edizione 2021 (ovvero, € 336.500,00 per i primi ed € 146.120,00 per i secondi). Si è, dunque, elaborata una curva per “somma di punti partendo da zero”, prevedendosi così un punteggio per ciascuno dei parametri individuati e il totale dei punti è determinato in rapporto alle circostanze caratterizzanti il caso di specie, per poi moltiplicare il totale dei punti per il “valore punto” sopra indicato, giungendo così a determinare il quantum risarcibile. Come precisato nella nota esplicativa delle tabelle, è stata proposta una distribuzione dei punti: secondo i parametri di fatto indicati dalla Corte di cassazione, corrispondenti (1) all'età della vittima primaria e della vittima secondaria, (2) alla convivenza tra le due, (3) alla sopravvivenza di altri congiunti, (4) alla qualità e intensità della specifica relazione affettiva perduta (circostanze oggettive, che è dato evincere dalla documentazione anagrafica) (28); tenendo conto delle risultanze di un amplissimo monitoraggio delle decisioni di merito in tema di rapporto parentale (circa 600); prevedendo poi, sempre per adeguarsi ai risultati del monitoraggio nel rispetto dei valori monetari delle precedenti tabelle, che i punti astrattamente attribuibili siano maggiori di 100 (rispettivamente, 118 per genitori/figli/coniuge/assimilati e 116 per fratelli/nipoti), con un “cap” (ovvero un “tetto” massimo non superabile) pari al valore monetario massimo della “forbice” delle precedenti tabelle (rispettivamente, “cap” di € 336.500,00 e di € 146.120,00), in modo da permettere “la liquidazione del massimo valore risarcitorio in diverse ipotesi e non in un solo caso”, ferma restando l'esistenza di eccezionali circostanze di fatto, “che risultino effettivamente specifiche e individualizzanti”. In continuità con il passato, le tabelle si applicano solo alle ipotesi integranti fatti illeciti colposi. Se, invece, il fatto illecito è doloso il giudice, valutate ancora una volta tutte le peculiarità del caso concreto, potrà liquidare importi superiori a quelli massimi previsti, in considerazione dell'intensità delle sofferenze patite dal danneggiato, di regola maggiore in casi consimili. Inoltre, la presenza di contrasti tra le vittime (primaria e secondaria), o controversie giudiziarie o ancora violenze o reati commessi da una verso l’altra possono ridurre, fino ad azzerare, l’importo del risarcimento riconosciuto in base a tutti i punti della tabella (29). Per quanto attiene al parametro e): qualità e intensità della relazione affettiva, il quale prevede l’attribuzione di punti più alta (sino a 30), andrà valutato tenendo conto della qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava lo specifico rapporto parentale perduto, sia in termini di sofferenza interiore patita (da provare anche in via presuntiva) sia in termini di stravolgimento della vita della vittima secondaria (dimensione dinamico-relazionale) (30). Viene, invece, rimesso al singolo giudice la scelta se procedere alla liquidazione dei valori monetari riconducibili al parametro e) con un unico importo monetario o con somme distinte per ciascuna delle menzionate voci/componenti del danno non patrimoniale (31).

4. La dottrina e la giurisprudenza di merito successiva alla pubblicazione delle tabelle milanesi e l’avallo della Suprema Corte.

All’esito della pubblicazione dei nuovi criteri di liquidazione da parte del Tribunale di Milano, la dottrina si è, nuovamente, divisa tra favorevoli e contrari.

Se, infatti, alcuni autori (32) hanno ritenuto che le tabelle del 2022 “non sono delle tabelle diverse, ma le medesime, aggiornate ed integrate con un sistema a punti”, come confermato dal mantenimento sia delle forbici di valori contemplate in relazione ai gradi di parentela, con l’unica differenza “data dall’integrazione con il sistema a punti” e che (33) il nuovo modello liquidatorio, in sostanziale continuità con il passato, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, sia idoneo “a perseguire il massimo livello di uniformità e, con essa, la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni future” e che (34), dunque, “il metodo seguito dall’osservatorio è sicuramente quello che si avvicina maggiormente alle aspettative degli operatori. Fra l’altro è perfettamente aderente alle richieste della cassazione formulate in una sorta di dialogo fra le corti, sempre più attuale nel nostro tempo”.

Altri (35), in aperta critica sia con il metodo che i risultati ottenuti, osservano come “l'operazione meneghina non è consistita nell'osservare, razionalizzare e precisare meglio il “diritto vivente”, ossia la tabella tradizionale; al contrario, si è assistito alla formulazione para-normativa non già di una sola tabella, bensì, a seconda del rapporto famigliare, di due distinte tabelle in concorrenza con la “tabella romana” (…) il risultato finale è quello di un inedito set di tabelle, lungi dal costituire un affinamento/aggiornamento/restyling della precedente tabella, viceversa annoverandosi importanti modifiche strutturali tali da sovvertire del tutto l'impianto e le logiche del precedente modello “a forbice”. Anzi, più che di stravolgimento della precedente “tabella” occorre disquisire di uno scenario in tutto e per tutto nuovo sul piano della tecnica giuridica: il passaggio dal metodo “a forbice” al metodo “a punti per sommatoria” (secondo l'impostazione romana, ancorché con diverse valorizzazioni delle variabili in giuoco) impedisce– nonostante intenti e declamazioni – di attribuire una qualsivoglia continuità sostanziale rispetto al passato, come del resto dimostrato dalla prospettiva di liquidazioni divergenti. Il nuovo paradigma per il danno parentale tradisce sul piano metodologico e giuridico la tradizione ambrosiana sotto almeno tre profili: 1) non si assumono più a riferimento di base i range milanesi tra minimi e massimi indicativi (ciò vale soprattutto per i minimi); 2) le variabili (convivenza, relazioni parentali, età di vittime e congiunti, ecc.) rilevano per sommatoria (esattamente come avviene in seno alla “tabella romana”) e non già più per media (logica quest'ultima che, come si è innanzi riferito, da sempre ha connotato nella sostanza l'applicazione della tabella tradizionale); 3) vincono automatismi e presunzioni, che, invece, sarebbero stati da attenuarsi.”

Alcuni Autori (36), poi, rilevano come “La scala di sviluppo, in assenza della rete di protezione dei barèmes medico legali, è data dalla costruzione dei moltiplicatori. Un po’ artificiosa perché condizionata dalla necessità di mantenere una coerenza con il monitoraggio dei precedenti (37), che - come anticipato - permette di arrivare fino a 118 punti (nel primo gruppo) e fino a 116 (per il secondo), ma con fissazione di un cap rappresentato dai valori massimi delle tabelle precedenti. L’ordito concettuale, sia detto con il dovuto rispetto per l’infaticabile lavoro svolto, è un po’ posticcio e sa tanto di espediente costruito a tavolino per fare altrimenti quello che già si faceva prima”.

Altri (38), dopo una approfondita analisi sia delle questioni risolte che degli aspetti critici delle nuove tabelle milanesi, concludono nel senso che “può tranquillamente pervenirsi alla conclusione che le nuove tabelle integrate a punti elaborate dall'Osservatorio di Milano siano coerenti con i principi di diritto enunciati nella sentenza Cass. 10579/2021 e possano essere utilizzati dal giudice per determinare una liquidazione equa, uniforme e prevedibile del danno da perdita del rapporto parentale, soprattutto in considerazione del fatto che rappresentano lo sviluppo dei precedenti giurisprudenziali esaminati in numero congruo dal gruppo di studio. Del resto, l’alternativa offerta dalle tabelle romane non sembra percorribile, se solo si considera che non traggono origine dall’estrazione del valore del punto dai precedenti, a differenza di quanto prescritto da Cass. 10579/2021”.

Parte della dottrina (39), poi, pur rilevando l’apprezzabilità del lavoro svolto sottolinea, in una prospettiva di critica costruttiva, alcuni profili problematici. In particolare, ad essere criticati maggiormente sono, da un lato, la rilevanza attribuita al parametro e), relativo “alla qualità ed intensità della relazione” (pari al 30% dei punti complessivamente attribuibili) - il quale rimane ampiamente discrezionale così riproponendo il problema di base lamentato dalla cassazione del 2021 (40) – e, dall’altro, il cd. cap, ossia il tetto massimo al risarcimento liquidabile. Se, infatti, il tetto ai risarcimenti può ritenersi adeguato a calmierare i costi, esso pone un tema “che per definizione è più consono ad un sistema di indennizzo che ad uno di r.c., tanto più che le tabelle in commento, salvo errori, non sono limitate al danno da circolazione stradale e quindi, in qualche modo, sotto il cappello di Corte cost. n. 235/2014 ed avrebbero una valenza generale, oltre il perimetro della r.c. obbligatoriamente assicurata”.

Ulteriore problematica, che, per vero, accomunerebbe entrambe le tabelle a punti attualmente adottate, è quello della liquidazione del danno complessivo ove al danno da perdita del rapporto parentale si aggiunga quella del danno biologico di natura psichica, risarcibile laddove la sofferenza da perdita assuma le caratteristiche del lutto patologico. In tal caso, infatti, andrebbero verificate le interferenze tra danno da perdita del rapporto parentale e danno morale da lesione dell’integrità psico-fisica e componente dinamico- relazionale del danno biologico (41).

Quanto alla giurisprudenza, alle prime applicazioni (42) dei nuovi criteri di liquidazione, sono seguite numerose altre sentenze che liquidano il danno da perdita del rapporto parentale secondo le nuove tabelle milanesi, ritenendone la conformità ai principi enucleati dalla cassazione, tuttavia, a sei mesi dalla pubblicazione, il panorama giurisprudenziale risulta essere estremamente variegato.

Si rinvengono, infatti, sentenze che fanno applicazione dei nuovi criteri di liquidazione elaborati dal Tribunale di Milano nel 2022, sentenze che applicano le tabelle romane e, infine, sentenze che applicano le “vecchie” tabelle milanesi (43).

In questo contesto si inserisce la recentissima pronuncia di legittimità – Cass. Sez. 3, n. 37009 del 16/12/2022 (Rv. 666288-01) - con la quale il Supremo Collegio, ribaditi i requisiti di una “valida” tabella per la liquidazione del danno parentale idonea a garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio in casi analoghi, rileva che “le ultime tabelle milanesi, rielaborate e rese pubbliche nel mese di giugno del corrente anno, si conformano tout court ai suddetti requisiti. In particolare, l'assegnazione dei punti è stata ripartita in funzione dei cinque parametri corrispondenti all'età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti e della qualità intensità della specifica relazione affettiva perduta”. La Corte mostra apprezzamento anche per la pubblicazione di due tabelle con una differente distribuzione di punti che “consente altresì di diversificare i criteri relativi alla perdita del parente di primo grado e coniuge/assimilati e quelli previsti per i parenti di secondo grado” e valorizza la circostanza che “dei cinque parametri considerati ai fini della distribuzione a punti, quattro hanno natura oggettiva - e sono quindi dimostrabili - in guisa, va peraltro specificato, di presunzioni semplici, che consentono sempre la prova contraria - anche con documenti anagrafici, mentre il quinto ha natura soggettiva e riguarda sia gli aspetti dinamico relazionali (stravolgimento della vita della vittima secondaria in conseguenza della perdita) sia quelli da sofferenza interiore - entrambi, va ancora precisato, da allegare e provare, anche con presunzioni, non essendo predicabile, nel sistema della responsabilità civile, l'esistenza di una fattispecie di danno in re ipsa.

La Suprema Corte, tuttavia, in tale rilevante pronuncia, al contrario di quanto fatto con la sentenza n. 12408 del 2011, non si spinge sino ad una valutazione di prevalenza delle nuove tabelle milanesi, affermando, al contrario, che “le nuove tabelle milanesi consentono - al pari di quelle romane - una liquidazione rispettosa dei criteri indicati da questa Corte con le citate pronunce 10579 e 26300 del 2021” e premurandosi di sottolineare come “non è mai stato, e non è a tutt'oggi compito di questa Corte - in tema di distinzione, che allarma autorevole dottrina, tra "merito" e "controllo della motivazione" - procedere a qualsivoglia valutazione (e men che meno a qualunque intervento di merito) sui singoli criteri di quantificazione del danno, rimessi tout court ai Tribunali e alle Corti territoriali, potendosi, al più, formulare l'auspicio - nel perdurante quanto assordante silenzio del legislatore - della costruzione di una tabella unica nazionale, all'esito di un lavoro congiunto tra gli osservatori impegnati nello studio ed alla elaborazione delle tabelle relative al danno da perdita del rapporto parentale”.

Resta ferma la possibilità - immanente ad un diritto che resta radicato nella inevitabile approssimazione di tabelle di origine pretoria e non legislativa - di una liquidazione che non si conformi ai parametri tabellari, volta che l'assoluta ed evidente eccezionalità del caso si sottragga ad una meccanica, arida e pur sempre inappagante operazione aritmetica, a condizione che la valutazione equitativa "pura" adottata dal giudice di merito si sostanzi e tragga linfa da un complesso di argomenti, chiaramente enunciati, nella logica della conformazione e del superamento della regola tabellare nel caso specifico.

5. Conclusioni.

Dopo poco più di un anno da Cass. n. 10579 del 2021 ci si ritrova, dunque, dinanzi a due tabelle “a punti” entrambe idonee, secondo i giudici di legittimità, a garantire una corretta liquidazione del danno da perdita parentale. Sembra, così, arrivato il momento, di “sdrammatizzare” la scelta tra l’una e l’altra (44) e di valorizzare, invece, gli aspetti motivazionali della liquidazione.

Come più volte di recente ribadito dalla Suprema Corte (45) “la liquidazione equitativa non esonera il giudice dalla necessità di rendere trasparente il percorso liquidatorio utilizzato, chiarendo la logica, i presupposti, i parametri della quantificazione del danno”, la liquidazione equitativa, dunque, non può trasformarsi in una valutazione arbitraria, perché il giudice deve compiere un ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze che abbiano inciso sull’ammontare del pregiudizio, dando conto del peso di ciascuna di esse in modo da esplicitare il percorso logico seguito nel rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità della riparazione. In definitiva, nella liquidazione equitativa del danno la motivazione non è solo forma ma anche sostanza; infatti, “la valutazione equitativa, nella sua componente valutativa, si identifica con gli argomenti che il giudice espone” (46).

In conclusione “bisogna guardare al profilo dell'effettiva quantificazione del danno, a prescindere da quale sia la tabella adottata e (…) a quale sia la motivazione della decisione”.

In altri termini non conta “quale” tabella si usa ma “come” la si usa, ricordando, dunque, che è sempre necessario “che il giudice di merito che procede alla liquidazione del danno derivante dalla perdita di un rapporto parentale provveda a valutare analiticamente - senza ricorrere ad apodittiche affermazioni che riducono la motivazione ad una sostanziale dimensione di apparenza - tutte le singole circostanze di fatto che risultino effettivamente specifiche e individualizzanti, allo scopo di non ricadere nel vizio consistente in quella surrettizia liquidazione del danno non patrimoniale in un danno forfettario o (peggio) in re ipsa che caratterizza ta (47).