PARTE QUARTA IMPRESA E MERCATO

  • concorrenza
  • legislazione antitrust
  • marchio commerciale
  • brevetto
  • diritto d'autore

CAPITOLO XVI

I DIRITTI DI PRIVATIVA E LA CONCORRENZA

(di Paolo Fraulini )

Sommario

1 Il marchio. - 2 Il brevetto. - 3 La concorrenza sleale. - 4 Il diritto d’autore. - 5 Antitrust.

1. Il marchio.

In tema di segni distintivi, Sez. 1, n. 00053/2022, Nazzicone, Rv. 663684-01, afferma che il cd. secondary meaning sussiste quando il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato. In tale ipotesi, il titolare del marchio può agire in contraffazione, fermo restando che, ai sensi dell’art. 121 del d.lgs. n. 30 del 2005, l’onere di provare la nullità del segno distintivo grava su chi lo contesta e, una volta fornita tale prova, spetta al titolare del marchio dismostrare l’acquisizione della rinomanza prima della registrazione.

Sul riparto della competenza tra giudici europei in tema di repressione della contraffazione di marchi, Sez. U, n. 13702/2022, Mercolino, Rv. 664574-01, afferma che in tema di azione avente a oggetto la repressione della contraffazione di marchi nazionali ed europei, qualora la domanda possa essere simultaneamente promossa innanzi a giudici di Stati diversi, ai sensi dell’art. 125 del Reg. UE n. 1001 del 2017 la competenza a conoscere della relativa azione spetta alternativamente al giudice del luogo in cui ha sede il convenuto o al giudice del luogo in cui l’attore sostiene che sia stata commessa la contraffazione, trovando anche in detta materia applicazione il criterio del petitum sostanziale, il quale esclude che la giurisdizione possa essere determinata secundum eventum litis, imponendo invece di avere riguardo ai fatti allegati dall’attore, e quindi di prescindere dalle eccezioni del convenuto, in ordine all’imputabilità della predetta attività, delle quali dovrà tenersi conto solo ai fini della decisione del merito della controversia.

In tema di tutela del cd. Made in Italy, Sez. 1, n. 20226/2022, Iofrida, Rv. 664979-01, statuisce che la disposizione di cui al comma 49-bis dell’art.4 della l. n. 350 del 2003 è rivolta non solo a tutelare il “made in Italy”, ma anche a promuovere una adeguata informazione del consumatore sul prodotto da acquistare, dovendo pertanto ritenersi illegittime tutte le condotte idonee ad ingenerare situazioni di incertezza sulla provenienza italiana dello stesso, eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera.

Sul tema della cessione di marchio patronimico, Sez. 1, n. 20269/2022, Terrusi, Rv. 665226-01, afferma che l’art. 14, comma 2, lett. a), del c.p.i., nel prevedere la generale decadenza del marchio che sia divenuto idoneo a indurre in inganno il pubblico circa la qualità o provenienza dei prodotti implica non semplicemente che si stabilisca l’eventualità di un peggioramento purchessia dei livelli qualitativi dei prodotti contraddistinti, ma che sia accertata una relazione eziologica col modo e col contesto in cui il marchio viene utilizzato dal nuovo titolare; l’accertamento di tali profili, e della stessa relazione eziologica, è questione di fatto e il relativo giudizio, se debitamente motivato, resta sottratto al sindacato di legittimità.

Quanto al procedimento avanti alla Commissione dei ricorsi di cui all’art. 135 c.p.i., Sez. 1, n. 23488/2022, Fraulini, Rv. 665365-01, ha affermato che in tema di procedimento di opposizione alla registrazione dei segni distintivi di impresa, il ricorso introduttivo deve, a pena di inammissibilità, contenere ab origine la chiara enunciazione del petitum e della causa petendi della domanda, non essendo consentito rinviare a eventuali successive memorie autorizzate la loro compiuta e definitiva identificazione

2. Il brevetto.

Sul tema della contraffazione per equivalenza, Sez. 1, n. 00120/2022, Iofrida, Rv. 663620-01, ritiene che in tema di brevetti per invenzioni industriali, ai fini della verifica della contraffazione per equivalenza, il giudice, in applicazione dell’art. 52, comma 3-bis, del d.lgs. n. 30 del 2005 deve preliminarmente determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, individuando analiticamente le singole caratteristiche del trovato, così come espressamente rivendicate nel testo brevettuale, interpretate anche sulla base della loro descrizione e dei disegni allegati, e successivamente accertare se ogni elemento così rivendicato si ritrovi nel prodotto accusato della contraffazione, anche solo per equivalenti, intendendosi come tali, secondo una delle possibili metodologie utilizzabili, quelle varianti del trovato che possano assolvere alla stessa funzione degli elementi propri del prodotto brevettato, seguendo sostanzialmente la stessa via dell’inventore e pervenendo al conseguimento dello stesso risultato.

In merito alla domanda di conversione di un modello in brevetto, Sez. 1, n. 20233/2022, Nazzicone, Rv. 664981-01, afferma che, in caso di domanda di conversione di un modello di utilità in brevetto, del quale siano presenti i necessari requisiti, il giudice del merito, ai sensi dell’art. 76, comma 3, del d.lgs. n. 30 del 2005, deve accertare se l’intento pratico perseguito dal richiedente possa essere realizzato dalla diversa privativa.

Sui criteri di liquidazione del danno connesso all’illecito sfruttamento di un brevetto, Sez. 1, n. 20236/2022, Terrusi, Rv. 665225-01, ricorda che il danno da lucro cessante coincide con il mancato profitto del titolare del diritto leso, che, per le controversie soggette alle norme generali anteriori al codice della proprietà industriale, va computato con valutazione su base equitativa, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., ai fini della quale è consentito al giudice del merito fare ricorso al criterio della royalty ragionevole, purché di tale scelta sia data congruente motivazione, tale essendo quella imperniata sulla necessità di considerare una minima proporzione rispetto al risultato contabile correlato alle caratteristiche tecnologiche dei trovati.

Per Sez. 1, n. 03339/2022, Falabella, Rv. 664159-01, la nullità parziale del brevetto prevista dall’art. 76, comma 2, c.p.i. provvede all’esigenza di conservare validità alle concorrenti rivendicazioni che si presentino fornite dei requisiti di legge per la brevettazione ed è, pertanto, suscettibile di essere dichiarata in presenza della nullità della rivendicazione indipendente (nella specie, per carenza di altezza inventiva), ove il brevetto consti di un’altra rivendicazione dipendente munita di validità, rispetto alla quale quanto oggetto della rivendicazione nulla possa rilevare come tecnica nota. Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 08584/2022, Scotti, Rv. 664367-02, ricorda che in tema di nullità del brevetto per invenzione industriale, la legittimazione ad agire di chiunque abbia interesse a far valere detta nullità ex art.118, comma 4, del d.lgs. n. 30 del 2005, deve sussistere ed essere verificata al momento della decisione della causa piuttosto che a quello della proposizione della domanda, trattandosi di condizione dell’azione che può sopravvenire anche in corso di giudizio.

Quanto alla natura della pubblicazione della sentenza di condanna, Sez. 1, n. 11362/2022, Lamorgese, Rv. 664575-01, rileva che la pubblicazione in uno o più giornali della sentenza che accerti la violazione dei diritti di proprietà industriale, ai sensi dell’art. 126, comma 1, c.p.i., costituisce una misura discrezionale non collegata all’accertamento del danno, trattandosi di una sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso, analogamente a quanto previsto dall’art. 2600 c.c. in materia di concorrenza sleale, con la conseguenza che la mancata adozione del relativo ordine da parte del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità.

In tema di invenzioni industriali, Sez. 1, n. 36140/2022, Catallozzi, Rv. 666256-01, afferma che, in ipotesi di invenzione del dipendente, l’elemento distintivo tra l’invenzione di servizio e l’invenzione di azienda – nella vigenza del r.d. n. 1127 del 1939 ratione temporis applicabile – risiede nel fatto che, pur presupponendo entrambe la realizzazione di un’invenzione industriale nell’adempimento di un contratto di lavoro, nel primo caso l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto, essendo prevista, attraverso un’esplicita previsione contrattuale, una speciale retribuzione costituente il suo corrispettivo, mentre nel caso dell’invenzione di azienda la prestazione del lavoratore non ha ad oggetto il conseguimento di un risultato inventivo, che alla prima è piuttosto collegata come frutto non dovuto, né previsto; conseguentemente, laddove l’invenzione sia oggetto della prestazione lavorativa, il risultato inventivo potrà esservi o meno, ma nel caso in cui si verifichi, la retribuzione stabilita vale già a compensarlo, mentre nel secondo caso, in quanto non è prevedibile che le ordinarie mansioni possano condurre ad un risultato inventivo, è dovuto il riconoscimento di un compenso ulteriore, costituito dall’equo premio.

3. La concorrenza sleale.

In tema di concorrenza sleale, Sez. 2, n. 18034/2022, Fortunato, Rv. 664985-01, ritiene che l’art. 2598, n. 3, c.c., costituisce una disposizione aperta che spetta al giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato ed alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l’appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente.

4. Il diritto d’autore.

Secondo Sez. 1, n. 08276/2022, Fraulini, Rv. 664363-01, la rivendicazione, ai sensi dell’art. 2, n. 4, della l. n. 633 del 1941 del diritto di privativa per intervenuta registrazione di un messaggio pubblicitario (cd. slogan o claim), postula che sia dimostrata l’originalità del creato, da escludersi quando il messaggio faccia riferimento a marchi già registrati o dotati di forte capacità evocativa, perché quel collegamento, per la sua forza evocativa autonoma, fa venir meno la parte creativa dello slogan e ne esclude il carattere innovativo.

In tema di diritti di utilizzazione del creato, Sez. 1, n. 19335/2022, Scotti, Rv. 664970-01, afferma che la titolarità esclusiva dei diritti di sfruttamento economico, per le opere dell’ingegno realizzate su commissione, spetta al committente solo laddove l’attività inventiva e la creazione.

Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 04038/2022, Falabella, Rv. 664162-01, ritiene che la riproduzione di opere d’arte, allorché sia integrale e non limitata a particolari delle opere medesime, non costituisce alcuna delle ipotesi di utilizzazione libera; per godere del regime delle libere utilizzazioni, inoltre, la riproduzione deve essere strumentale agli scopi di critica e discussione, oltre che al fine meramente illustrativo, correlato ad attività di insegnamento e di ricerca scientifica dell’utilizzatore, e non deve porsi in concorrenza con il diritto di sfruttamento economico dell’autore, che comprende la possibilità di effettuare la riproduzione di copie fisicamente identiche all’originale ed anche qualunque altra forma di replicazione in grado d’inserirsi nel relativo mercato, come la riproduzione fotografica in scala.

5. Antitrust.

Quanto all’abuso di posizione dominante, Sez. 1, n. 13073/2022, Falabella, Rv. 664759-01, stabilisce che l’abuso escludente, che si realizza mediante l’applicazione da parte del soggetto in posizione dominante nel mercato all’ingrosso (wholesale) di condizioni economiche più onerose nei confronti delle imprese concorrenti rispetto a quelle applicate alle proprie divisioni commerciali, provoca una contrazione degli utili (margin squeeze) nella impresa vittima di tale condotta, sicché il danno da quest’ultima subito è comprensivo del mancato guadagno che si determina per effetto dell’assorbimento del maggior costo sostenuto e, in assenza di altri elementi rappresentativi, può essere liquidato in tale misura.

  • costituzione di società
  • cooperativa
  • società privata professionale
  • società di capitali
  • società di persone
  • diritto delle società
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • amministratore

CAPITOLO XVII

IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ

(di Cecilia Bernardo )

Sommario

1 Le società in generale. - 1.1 Le vicende modificative ed estintive delle società. - 1.2 Cessione di partecipazioni societarie e intestazione fiduciaria. - 1.3 Amministratore di fatto. - 1.4 Abuso della personalità giuridica. - 1.5 Profili processuali. - 2 Le società di persone. - 2.1 La responsabilità solidale dei soci per le obbligazioni sociali. - 2.2 Diritti del socio di società di persone. - 2.3 Gli amministratori nelle società di persone. - 2.4 Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio. - 3 Le società di capitali. - 3.1 Finanziamenti e conferimenti a vario titolo. - 3.2 Le deliberazioni dell’assemblea. - 3.3 Gli amministratori. - 3.4 Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori. - 3.5 La responsabilità dei sindaci. - 3.6 Le operazioni sul capitale. - 3.7 Le operazioni straordinarie. - 3.8 Il recesso del socio. - 4 Particolari società di capitali. - 4.1 Le società cooperative. - 4.2 Le società tra professionisti.

1. Le società in generale.

Nel corso del 2022 la Suprema Corte ha adottato pronunce che hanno interessato la materia societaria, esaminando, in particolare, le caratteristiche delle vicende modificative ed estintive delle società e della cessione di partecipazioni sociali, la figura dell’amministratore di fatto e l’abuso della personalità giuridica.

Vengono di seguito riportate le decisioni che hanno approfondito le tematiche appena menzionate, unitamente a quelle adottate sulle medesime questioni, o su questioni connesse, ma riferite ai singoli tipi societari, in modo da evidenziarne gli aspetti comuni e le differenze.

1.1. Le vicende modificative ed estintive delle società.

È, ormai, consolidato il principio affermato da Sez. U, n. 06070/2013, Rordorf, Rv. 625323-01, secondo cui, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, con la cancellazione dal registro delle imprese la società si estingue, determinandosi un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale tutti i rapporti attivi e passivi ancora in essere si trasferiscono ai soci della società estinta.

Tale principio ha trovato, anche nell’anno in rassegna, varie applicazioni, soprattutto in ambito processuale.

Con riferimento alla legittimazione processuale nell’ambito delle società di persone, Sez. 2, n. 14859/2022, Massafra, Rv. 664794-01, ha affermato che l’appello proposto dalla società successivamente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, anziché dai soci, è inammissibile in quanto strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo, poiché la cancellazione comporta l’immediata estinzione della società e determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale la legittimazione processuale facente capo all’ente si trasferisce ai soci.

Quanto alla procura al difensore ed al principio di ultrattività della stessa, Sez. 2, n. 19272/2022, Falaschi, Rv. 664996-01, ha ritenuto che, in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, i cui effetti decorrono dalla estinzione, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, il difensore (al quale sia stata originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte estinta. Tuttavia, è stato precisato che a tale regola si sottrae il ricorso in cassazione, che necessita della procura speciale, non conferibile dal legale rappresentante della società estinta, privo di potere di rappresentanza, con conseguente inammissibilità del ricorso proposto.

Nello stesso senso, Sez. 3, n. 27847/2022, Fanticini, Rv. 665953-01, secondo cui la procura speciale necessaria per la proposizione del ricorso per cassazione è inesistente ove conferita al difensore da una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, in quanto essa presuppone un rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente che non può sussistere in mancanza del mandante. La pronuncia in esame ha, altresì, precisato che in tal caso l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua effettiva consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura, essendo compito dell’avvocato, che riceve un mandato e autentica la sottoscrizione in calce alla procura speciale, verificare, oltre che l’identità del sottoscrittore, la sussistenza, in capo allo stesso, di validi poteri rappresentativi dell’ente collettivo, al fine di assicurare gli effetti dell’atto, restando ferma, peraltro, l’eventuale corresponsabilità di quest’ultimo - da farsi valere dal difensore in un autonomo giudizio di rivalsa -, laddove abbia consapevolmente speso poteri rappresentativi della società già cancellata dal registro delle imprese.

Con riferimento alle conseguenze dell’attività difensiva svolta dal difensore, in virtù di una procura inesistente, la suesposta pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 5, n. 17360/2021, Fanticini, Rv. 661475-01, che consente di porre a carico dell’avvocato le spese di lite solo qualora risulti la sua consapevolezza circa la mancanza di qualità di legale rappresentante in capo alla persona fisica che ha attribuito il mandato. Per contro, Sez. 3, n. 16225/2022, Sestini, Rv. 664903-01, dopo aver ribadito che la procura speciale necessaria per la proposizione del ricorso per cassazione è inesistente ove conferita al difensore da una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese - in quanto essa presuppone un rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente che non può sussistere in mancanza del mandante - ha affermato che l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua concreta consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura.

Con riferimento alla notificazione del ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 00190/2022, Falabella, Rv. 663552-01, ha affermato che il principio di ultrattività del mandato alla lite, in forza del quale il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento estintivo non si fosse verificato, si applica anche quando, avvenuta la cancellazione della società dal registro delle imprese in data successiva alla pubblicazione della sentenza di appello ed in pendenza del termine per proporre ricorso per cassazione, non ne sia possibile, per tale ragione, la declaratoria, ed il procuratore della società estinta non abbia inteso notificare l’evento stesso alla controparte, sicché quest’ultima, legittimamente, può notificare alla società, pur cancellata ed estinta, il ricorso per cassazione presso il domicilio del suddetto difensore. Tale pronuncia è conforme alla precedente Sez. 3, n. 15724/2015, Scarano, Rv. 636189-01.

Nel caso in cui il ricorso per cassazione vada notificato ad una società straniera, cancellata e non ricostituita, Sez. 3, n. 11003/2022, Frasca, Rv. 664520-01, ha ritenuto non potersi procedere alla nomina, ai sensi dell’art. 78 c.p.c., di un curatore speciale per ricevere l’atto, in quanto la predetta curatela presuppone l’esistenza del soggetto rappresentato; è invece necessario individuare i successori della società estinta, nei cui confronti il processo deve proseguire, secondo la legge processuale italiana, applicabile ai sensi dell’art. 12 della l. n. 218 del 1995. In applicazione di tale principio, la S.C. ha rigettato l’istanza di nomina del curatore speciale ex art. 78 c.p.c., ritenendo che, con riferimento alla posizione della società di diritto inglese “dissolved and not restaurated”, la notifica del ricorso per cassazione dovesse essere effettuata nei confronti di coloro che ne erano soci al momento dell’estinzione.

Anche nell’ambito del giudizio tributario si è data attuazione al principio secondo cui la cancellazione dal registro delle imprese comporta l’estinzione della società e determina un fenomeno successorio, in forza del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci.

A tal riguardo, Sez. 5, n. 10354/2022, Castorina, Rv. 664273-01, ha affermato che la cancellazione dal registro delle imprese, con conseguente estinzione della società avvenuta prima della notifica dell’avviso di accertamento, priva il liquidatore della legittimazione a rappresentare la società in relazione alla pretesa tributaria rivolta esclusivamente nei confronti della società. Inoltre, con riferimento ad una fattispecie in tema di ricavi occultati, non rilevabili documentalmente, presuntivamente distribuiti a favore dei soci, Sez. 5, n. 00002/2022, D’Angiolella, Rv. 663593-01, ha statuito che, a seguito della cancellazione della società di capitali dal registro delle imprese, alla definitiva estinzione dell’ente consegue la successione degli ex soci nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, e ciò indipendentemente dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione. La S.C. ha, quindi, ritenuto sussistente l’interesse dell’Agenzia delle entrate a procurarsi un titolo nei confronti di questi ultimi, potendovi essere la possibilità di sopravvenienze attive o di beni e diritti non contemplati nel bilancio.

Analogo principio è stato espresso con riferimento alle società di capitali a ristretta base partecipativa da Sez. 5, n. 26758/2022, Pirari, Rv. 665852-01, secondo cui l’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, determinando un fenomeno di tipo successorio, non fa venir meno l’interesse dei creditori sociali (nella specie, l’Agenzia delle Entrate) ad agire ed a procurarsi un titolo nei confronti dei soci della società estinta, a prescindere dall’utile partecipazione di essi alla ripartizione finale, potendo comunque residuare beni e diritti (nella specie, utili extracontabili) che, ancorché non ricompresi nel bilancio finale di liquidazione, si sono trasferiti ai soci.

Infine, in caso di fusione per incorporazione, Sez. 5, n. 24579/2022, Nonno, Rv. 665736-01, ha affermato che la notificazione dell’avviso di accertamento effettuata nei confronti di una società, incorporata per fusione in altra società, in data successiva alla sua cancellazione dal registro delle imprese, è nulla, poiché dopo l’avvenuta fusione e la cancellazione dal registro delle imprese, la società incorporata si estingue e non può più vantare un’autonoma legittimazione processuale attiva o passiva. La pronuncia appare un’applicazione del principio statuito da Sez. U, n. 21970/2021, Nazzicone, Rv. 661864-01, secondo cui la fusione per incorporazione estingue la società incorporata, che non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, ferma restando la facoltà per la società incorporante di spiegare intervento volontario in corso di causa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 105 c.p.c.; nondimeno, ove la fusione intervenga in corso di causa, non si determina l’interruzione del processo, esclusa ex lege dall’art. 2504 bis c.c.

Non determina, invece, l’estinzione dell’ente il verificarsi di una causa di scioglimento, alla quale consegue unicamente l’instaurazione del procedimento di liquidazione, al cui esito potrà seguire l’estinzione. Al riguardo, Sez. 6-5, n. 32178/2022, Penta, Rv, 666355-01, ha affermato che la causa di scioglimento non determina il venir meno in capo alla società contribuente della soggettività passiva ai tributi ed alle sanzioni, continuando ad esistere con la stessa individualità, struttura e organizzazione, sia pure con un restringimento della capacità, derivante dalla modificazione dello scopo che non è più quello dell’esercizio dell’impresa, bensì quello della sua liquidazione, attraverso la definizione dei rapporti di credito e di debito con i terzi. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 16288/2009, Ceccherini, Rv. 608944-01, secondo cui il verificarsi di una causa di scioglimento della società - non comportando l’estinzione dell’ente, ma unicamente l’instaurazione del procedimento di liquidazione, al cui esito potrà seguire l’estinzione - non produce l’automatico trasferimento dei beni sociali in capo ai soci, i quali non ne divengono comproprietari. Pertanto, l’alienazione dei beni mobili ed immobili, compresi nel patrimonio della disciolta società, deve essere eseguita a cura dei liquidatori, nei compiti dei quali è incluso tipicamente tale incombente, senza necessità di alcuna autorizzazione assembleare (che, ove espressa, resta ininfluente al riguardo), al fine sia di soddisfare le ragioni di eventuali creditori sociali, sia di provvedere all’eventuale distribuzione tra i soci o alla devoluzione dell’attivo residuo, secondo le norme di legge o di statuto.

1.2. Cessione di partecipazioni societarie e intestazione fiduciaria.

Nell’anno in rassegna, la S.C. è intervenuta nuovamente sul problema del rapporto tra contratto preliminare e contratto definitivo avente ad oggetto la cessione di partecipazioni sociali, con particolare riguardo al caso in cui questi presentino contenuti non esattamente coincidenti. Secondo Sez. 1, n. 00662/2022, Fidanzia, Rv. 663556-01, l’omessa riproduzione, nel contratto definitivo di cessione di quote sociali, di una clausola già inserita nel preliminare non comporta, necessariamente, la rinunzia alla pattuizione ivi contenuta, che non resta assorbita ove sussistano elementi in senso contrario ricavabili dagli atti ovvero offerti dalle parti. La S.C. ha, quindi, ritenuto che spetti al giudice indagare sulla concreta intenzione delle parti, tanto più che il negozio di cessione richiede la forma scritta solo al fine dell’opponibilità del trasferimento delle quote alla società e non per la validità o la prova dell’accordo, per cui occorre verificare se, con la nuova scrittura, le parti si siano limitate, o meno, solo a “formalizzare” la cessione nei confronti della società, senza riprodurre tutti gli impegni negoziali in precedenza assunti. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 1, n. 22984/2014, Scaldaferri, Rv. 633247-01.

In tema di intestazione fiduciaria, le S.U. sono state chiamate a risolvere un contrasto interpretativo riguardante la domanda con cui l’investitore si sia insinuato al passivo della procedura concorsuale a carico della società fiduciaria di cui alla l. n. 1966 del 1939, onde ottenere la restituzione del capitale consegnatole per la relativa amministrazione. Era dubbio, infatti, se tale domanda producesse l’effetto interruttivo della prescrizione ai sensi degli artt. 2943, comma 2, e 2945, comma 2, c.c., nonché dell’art. 94 l.fall., per tutta la durata della procedura stessa, anche nei confronti dell’ente deputato alla vigilanza sulla predetta società, contro la quale l’investitore abbia separatamente e successivamente agito per ottenere il risarcimento del danno da perdita di capitale, e ciò in forza del disposto dell’art. 1310, comma 1, c.c. Nel rispondere a tale quesito, Sez. U, n. 13143/2022, Terrusi, Rv. 664654-02, ha ritenuto che, in caso di capitali conferiti a società fiduciarie di cui alla l. n. 1966 del 1939, lo strumento giuridico utilizzato per l’adempimento è quello del mandato fiduciario senza rappresentanza finalizzato alla mera amministrazione dei capitali medesimi, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti. Di conseguenza, la società fiduciaria che abbia mal gestito il capitale conferito, e che non sia quindi in grado di riversarlo ai mandanti perché divenuta insolvente, risponde sempre ed essenzialmente del danno correlato all’inadempimento del mandato e alla violazione del patto fiduciario, e la relativa obbligazione, quand’anche azionata mediante l’insinuazione concorsuale, e quand’anche parametrata all’ammontare del capitale conferito e perduto, è sempre un’obbligazione risarcitoria da inadempimento del mandato, la quale concorre ai sensi dell’art. 2055 c.c. con quella dell’organo chiamato ad esercitare l’attività di vigilanza (Ministero dello Sviluppo Economico).

1.3. Amministratore di fatto.

La figura dell’amministratore di fatto ricorre qualora un soggetto, non formalmente investito della carica, si ingerisca egualmente nell’amministrazione, esercitando - di fatto - i poteri propri inerenti alla gestione della società con sistematicità e completezza, in modo corrispondente agli amministratori di diritto. Quanto alla responsabilità penale e civile, ormai da tempo dottrina e giurisprudenza hanno totalmente equiparato la figura dell’amministratore di fatto a quella dell’amministratore di diritto. In continuità con tale orientamento si pone Sez. 5, n. 01546/2022, Nicastro, Rv. 663657-01, che ha confermato la decisione che aveva ritenuto amministratore di fatto colui che aveva aperto un conto corrente intestato alla società, aveva la disponibilità della documentazione riferibile alla stessa nonché delle password di accesso alla posta elettronica e dei recapiti dei fornitori. Tale pronuncia risulta pienamente conforme al precedente della Sez. 1, n. 04045/2016, Terrusi, Rv. 638756-01, secondo cui la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi ingerita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza.

1.4. Abuso della personalità giuridica.

Secondo l’orientamento della S.C., è configurabile l’abuso della personalità giuridica quando, nonostante l’adozione di uno schema societario, la gestione dell’impresa sia individuale, attesa la natura fittizia o fraudolenta delle partecipazioni di minoranza. In tali casi, si definisce “tiranno” il socio che abusa dello strumento societario, potendosi configurare nei suoi confronti una responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, (in tal senso Sez. 1, n. 00804/2000, Criscuolo, Rv. 533122-01). In linea di continuità con tale orientamento, si pone Sez. 1, n. 20181/2022, Scotti, Rv. 665224-01, secondo la quale, in tema di società di capitali, la nozione di abuso della personalità giuridica assume rilievo al fine di contrastare lo schermo dietro cui si cela il socio tiranno, in modo tale da accollargli la responsabilità illimitata per le obbligazioni contratte dalla società di capitali, da lui diretta e controllata, consentendo l’aggressione del suo patrimonio personale da parte dei creditori della società. La pronuncia in esame, tuttavia, precisa che l’abuso di personalità giuridica non consente comunque di eludere l’esistenza di un soggetto dotato di personalità giuridica e di patrimonio separato, in modo tale da consentire l’aggressione di tale patrimonio (e non della sola quota di pertinenza) da parte dei creditori personali del socio, poiché si finirebbe con il legittimare un’azione di nullità dell’atto costitutivo della società di capitali, in violazione dell’art. 2332 c.c., o con il consentire un accertamento della simulazione assoluta dello stesso, in contrasto con la ratio sottesa a tale disposizione.

1.5. Profili processuali.

Nell’anno in rassegna, varie sono le pronunce che hanno affrontato profili processuali nell’ambito della materia societaria.

Due pronunce affrontano il problema dell’ambito di competenza della sezione specializzata in materia di impresa. In particolare, Sez. 6-2, n. 00155/2022, Besso Marcheis, Rv. 663456-01, ha ritenuto che la competenza funzionale delle sezioni specializzate, prevista dall’art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 168 del 2003, nel richiamare tutti i rapporti societari, abbia portata generale, rientrandovi anche la controversia avente ad oggetto l’azione di regresso esercitata dalla società nei confronti dei destinatari di sanzione pecuniaria, per avere provveduto al suo pagamento in qualità di coobbligata solidale. Analogamente, Sez. 6-3, n. 34878/2022, Tatangelo, Rv 666348-01, ha ritenuto rientrante tra le controversie devolute alla competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa, la domanda di revoca ex art. 2901 c.c. dell’atto di rinuncia, da parte del socio debitore, al diritto di sottoscrizione, effettuata contestualmente all’aumento di capitale deliberato dalla società, in quanto tale domanda - da valutarsi ex ante ed a prescindere dalla sua fondatezza nel merito - finisce per incidere sull’assetto della società, sull’entità del suo capitale, oltre che sulla sua distribuzione tra i soci, comportando inevitabili conseguenze sulla titolarità delle quote del patrimonio sociale e sui diritti ad esse connessi.

In alcune pronunce, poi, la S.C. ha affrontato le problematiche relative al rapporto tra domande diverse proposte dalla stessa parte nel corso del medesimo giudizio, ovvero proposte in procedimenti diversi.

Con riferimento al primo aspetto, Sez. 1, n. 26133/2022, Amatore, Rv. 665688-01, ha affermato che la proposizione della domanda di riconoscimento della qualità di socio accomandante occulto rispetto a quella di riconoscimento della qualità di socio di fatto, originariamente proposta, non integra una inammissibile domanda nuova, poiché la causa petendi è costituita in entrambi i casi dall’accertamento del rapporto sociale, indipendentemente dalla sua esteriorizzazione nei confronti dei terzi. In applicazione di tale principio, quindi, la S.C. ha ritenuto non ricorrere il vizio di ultrapetizione nella sentenza di appello che aveva affermato la sussistenza di una società di fatto, laddove la parte attrice aveva, in primo grado, allegato l’esistenza di una società convenzionalmente occultata mediante la dissimulazione di una impresa individuale intestata ad uno dei soci. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 1, n. 07776/2017, Nappi, Rv. 644832-02.

Con riferimento al secondo aspetto, Sez. 6-1, n. 15875/2022, Campese, Rv. 664782-01, ha ritenuto che il socio di società di capitali possa proporre opposizione di terzo revocatoria, non nella qualità di socio, facendo valere il pregiudizio patrimoniale che il danno al patrimonio sociale abbia prodotto sul valore della sua quota di partecipazione, attesa la natura meramente riflessa e non autonomamente risarcibile di tale pregiudizio; bensì quale creditore della società, qualora abbia effettuato dazioni di denaro in favore dell’ente, che abbiano natura di vero e proprio finanziamento, riconducibile allo schema del mutuo, idoneo a far sorgere un credito restitutorio certo e non meramente eventuale. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito, che aveva ritenuto il socio non legittimato a proporre opposizione di terzo avverso un lodo arbitrale, non avendo accertato se egli fosse anche creditore della società, verificando se la dazione di denaro da lui erogata avesse natura di finanziamento, non imputabile a capitale di rischio, e non di conferimento. Sempre con riferimento al rapporto tra domande diverse, Sez. 6-2, n. 03804/2022, Giannaccari, Rv. 663936-01, ha affermato che la contemporanea pendenza di un’azione di responsabilità, instaurata dal curatore fallimentare nei confronti di un amministratore o di un sindaco della società fallita, e di una opposizione allo stato passivo, instaurata dal medesimo amministratore o sindaco per il riconoscimento del compenso per l’attività svolta, non giustifica né l’ammissione del credito con riserva, che è consentita solo nei casi tassativamente indicati nell’art. 96, comma 2, l.fall., né la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. del giudizio di opposizione al passivo, in quanto in sede di verifica del passivo il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere dal creditore.

In tema di invalidità della procura alle liti, Sez. 5, n. 02033/2022, Stalla, Rv. 663749-01, ha ritenuto inidonea la procura in calce al ricorso per cassazione - di cui deve quindi dichiararsi l’inammissibilità - qualora essa sia rilasciata, in nome e per conto di una società di capitali, da soggetto che, pur qualificandosi come legale rappresentante, specifichi di essere “procuratore” della persona giuridica, come da atto notarile di cui siano indicati gli estremi ma che non sia prodotto, con la conseguente impossibilità di verificare il potere rappresentativo del soggetto, in relazione anche all’esigenza che la rappresentanza processuale non sia conferita disgiuntamente da quella sostanziale. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. L, n. 03484/1999, Figurelli, Rv. 525139-01.

Per contro, Sez. U, n. 12445/2022, Crucitti, Rv. 664568-01, in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 3, n. 11144/2003, Durante, Rv. 565150-01, ha ritenuto che non incida sulla validità dell’atto giudiziario se, nell’intestazione, sia indicata una determinata persona quale rappresentante legale della società cui l’atto è riferibile e la procura alle liti rilasciata a margine o in calce all’atto stesso risulti invece sottoscritta da un soggetto diverso. Tale discordanza configura un mero errore materiale, qualora si accerti che la procura è stata rilasciata da colui che riveste la qualità di legale rappresentante della società.

In tema di legittimazione ad agire, Sez. 3, n. 16607/2022, Guizzi, Rv. 664906-01, ha affermato che il provvedimento di confisca della totalità delle partecipazioni societarie, disposto all’esito di un procedimento di prevenzione, determina il subentro dello Stato nella società, la quale, tuttavia, resta immutata nella sua soggettività giuridica e non perde la legittimazione a proseguire i giudizi precedentemente instaurati a tutela dei propri crediti, non potendosi configurare un acquisto a titolo originario del diritto controverso in capo all’autorità pubblica. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva revocato il decreto ingiuntivo emesso in favore di una società, ritenendo erroneamente che fosse sopravvenuto il difetto di legittimazione della creditrice ingiungente a seguito della confisca, ai sensi dell’art. 2 ter della l. n. 575 del 1965, della totalità delle quote sociali e della conseguente messa in liquidazione ai sensi dell’art. 48, comma 8, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011.

Infine, le S.U. sono tornate a pronunciarsi sulla nozione di conflitto di interessi tra avvocato e cliente che, come affermato da Sez. U, n. 07030/2021, Criscuolo, Rv. 660835-01, non va riferita, restrittivamente, alla sola ipotesi in cui l’avvocato si ponga in contrapposizione processuale con il suo assistito in assenza di un consenso da parte di quest’ultimo, ma comprende tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, il professionista si ponga processualmente in antitesi con il proprio assistito. Al riguardo, Sez. U, n. 08337/2022, Nazzicone, Rv. 664220-01, ha ritenuto che, tenuto conto della distinta autonomia e capacità di una società personale rispetto a quella dei singoli soci, non integri l’illecito, previsto dall’art. 24 del codice deontologico forense, la condotta dell’avvocato che ha dapprima svolto incarichi professionali in favore di una società in nome collettivo e, di seguito, ha difeso alcuni dei soci nel giudizio di accertamento della giusta causa di recesso, esercitato, ai sensi dell’art. 2285 c.c., da un socio receduto.

2. Le società di persone.

Le decisioni adottate dalla Corte di cassazione, nel corso del 2022, in tema di società di persone riguardano, in particolare, la responsabilità solidale dei soci per i debiti della società, il diritto del socio a conseguire gli utili della società, gli amministratori e la relativa responsabilità per i danni cagionati alla società amministrata e la cessazione del rapporto sociale limitatamente a un socio.

2.1. La responsabilità solidale dei soci per le obbligazioni sociali.

Anche nell’anno in rassegna, la S.C. ha affrontato le problematiche afferenti alle conseguenze della responsabilità solidale ed illimitata dei soci di società di persone per le obbligazioni sociali.

Va, innanzitutto, ricordato che, come affermato da Sez. 1, n. 07139/2018, Ambrosio, Rv. 648112-01, il socio di una società di persone, ancorché illimitatamente responsabile, può validamente prestare fideiussione in favore della società, giacché questa, pur se sprovvista di personalità giuridica, costituisce un distinto centro di interessi e d’imputazione di situazioni sostanziali e processuali, dotato di una propria autonomia e capacità rispetto ai soci stessi. Con riferimento al socio illimitatamente responsabile di una società di persone che abbia prestato, per un debito della società, una garanzia reale - che si aggiunge alla garanzia patrimoniale generica ex lege, ma non è assistita dal beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale - Sez. 3, n. 07184/2022, Fiecconi, Rv. 664393-01, ha riconosciuto il diritto del predetto, in caso di escussione di tale garanzia, al regresso per l’intero verso la società e pro quota nei confronti degli altri soci illimitatamente responsabili.

Sempre in tema di responsabilità illimitata dei soci di società di persone, Sez. 2, n. 11040/2022, Varrone, Rv. 664377-01, ha affermato due importanti principi. In primo luogo, ha ritenuto che la presunzione del consenso abdicativo del creditore alla liberazione dei soci illimitatamente responsabili, prevista dall’art. 2500 quinquies, comma 2, c.c., non è suscettibile di interpretazione analogica e non può essere estesa oltre le ipotesi ivi espressamente contemplate di trasformazione da società di persone a società di capitali, comportando un atto di rinuncia ad un diritto nei confronti di un condebitore solidale con conseguente diminuzione della garanzia patrimoniale sottostante il credito. La S.C., quindi, non ha ritenuto applicabile tale disposizione alla diversa ipotesi della trasformazione di una società di persone da società in nome collettivo a società in accomandita semplice.

In secondo luogo, con la medesima pronuncia, Sez. 2, n. 11040/2022, Varrone, Rv. 664377-02, ha evidenziato che, nelle società di persone, il debito di restituzione derivante da un contratto di mutuo stipulato senza il consenso di tutti i soci, in violazione della clausola statutaria - regolarmente iscritta nel registro delle imprese e, quindi, conoscibile dall’altro contraente - che, in deroga alla disciplina generale, preveda per gli atti di straordinaria amministrazione che il potere rappresentativo sia esercitato congiuntamente da tutti i soci, non è opponibile al socio rimasto estraneo all’accordo negoziale, risultando irrilevante che la società abbia utilizzato le somme mutuate, perché anche la eventuale ratifica tacita della società deve provenire dall’organo competente a provvedere su di essa e con le modalità richieste per l’atto da ratificare.

2.2. Diritti del socio di società di persone.

Nelle società di persone, l’art. 2262 c.c. subordina il diritto del socio a percepire gli utili alla approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio e non è surrogabile dalle dichiarazioni fiscali della società. Nel riaffermare questo principio, in linea di continuità con il precedente conforme Sez. 1, n. 28806/2013, Bisogni, Rv. 629467-01, Sez. 1, n. 06865/2022, Campese, Rv. 664107-01 ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la voce “prelevamento soci” idonea a formare l’attivo patrimoniale della società, in relazione alla soglia di fallibilità dell’art. 1, comma 2 lett. a), l.fall.

2.3. Gli amministratori nelle società di persone.

Come è noto, nella società in accomandita semplice, l’amministrazione della società può essere affidata solo ai soci accomandatari. Nell’anno in rassegna, la S.C. ha affrontato questioni relative alle conseguenze della revoca dalla carica di amministratore ovvero della esclusione dalla compagine sociale del socio accomandatario.

In particolare, in una fattispecie in tema di revoca dell’accomandatario dalla carica di amministratore, Sez. 1, n. 26071/2022, Amatore, Rv. 665536-01, ha affermato che la comunicazione dei bilanci ai soci accomandanti costituisce un adempimento imposto all’amministratore dall’art. 2320, comma 3, c.c. che prescinde da una richiesta avanzata dai soci, in quanto risponde al più generale dovere di diligenza nella conduzione della gestione sociale anche nei rapporti interorganici, consentendo, da un lato, l’esercizio del potere di controllo e di critica dei soci sull’operato dell’accomandatario, dall’altro, di ritenere consolidato l’esercizio, in mancanza di impugnazione.

Poi, in linea di continuità con il consolidato principio affermato da Sez. 1, n. 18844/2016, Scaldaferri, Rv. 641828-02, e già da Sez. 1, n. 05019/2009, Rordorf, Rv. 618178-01, Sez. 1, n. 26059/2022, D’Orazio, Rv. 665686-01, ha ribadito che l’esclusione del socio accomandatario dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo, ne comporta ipso iure anche la cessazione dalla carica di amministratore, poiché nelle società in accomandita semplice l’amministrazione può essere affidata solo ai soci accomandatari. Con la medesima pronuncia, Sez. 1, n. 26059/2022, D’Orazio, Rv. 665686-02, è stato altresì precisato che il cumulo delle qualifiche di socio e di amministratore non impedisce che le irregolarità o le illiceità commesse dall’amministratore determino non solo la revoca del mandato e l’esercizio dell’azione di responsabilità, ma anche l’esclusione da socio per violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi dell’ente.

2.4. Scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio.

Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte si è in vario modo occupata delle conseguenze dello scioglimento del rapporto sociale relativamente ad un socio.

In particolare, in tema di esclusione del socio dalla società di persone, Sez. 1, n. 25927/2022, D’Orazio, Rv. 665874-01, ha affermato che la presenza nello statuto di una clausola compromissoria, non comporta l’attribuzione agli arbitri del potere di decidere l’esclusione del socio, ma solo la devoluzione a questi ultimi della cognizione sulla controversia conseguente all’adozione della delibera di esclusione, poiché la previsione di tale clausola è cosa ben diversa dalla deroga alle disposizioni di legge che, come nel caso dell’art. 2287 c.c., attribuiscono alla maggioranza dei soci determinati poteri nei confronti della minoranza, regolandone l’esercizio. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 05019/2009, Rordorf, Rv. 618178-01, secondo cui, in tema di controversie tra soci di una società in accomandita semplice, per le quali l’atto costitutivo preveda, con clausola compromissoria, la conseguente devoluzione ad arbitri, sussiste la legittimazione in capo al socio escluso (nella specie con delibera, assunta dai soci accomandanti) a promuovere il procedimento arbitrale, volto a contestare la legittimità della privazione di tale qualità, giacché, trattandosi dell’esercizio di un potere che pur dipende dal citato status, esso non può essere negato al socio la cui qualifica sia venuta meno per diretta conseguenza proprio dell’atto che intende impugnare, posto che la legittimazione sta o cade a seconda che la delibera impugnata risulti o meno legittima e della quale il socio vorrebbe veder eliminati gli effetti tramite lo strumento di reazione apprestato dall’atto costitutivo.

Quanto ai presupposti del recesso per giusta causa del socio dalla società di persone, Sez. 1, n. 21731/2022, D’Orazio, Rv. 665518-01, ha richiesto che questo venga effettuato nel rispetto del principio di correttezza e buona fede e, pertanto, la legittimità del suo esercizio deve essere valutata nel complessivo contesto dei rapporti intercorsi tra le parti, dovendosi escludere che, in una società in nome collettivo composta da due soli soci, a fronte dell’inadempimento dell’altro socio ai propri obblighi gestori, seguito da un periodo di tolleranza, il socio uscente debba necessariamente mettere in mora il primo e richiedere il detto adempimento prima di poter validamente esercitare il proprio diritto di recesso. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 01602/2000, Gisotti, Rv. 533798-01, secondo cui l’indagine in tema di giusta causa di recesso va necessariamente ricondotta alla altrui violazione di obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante. Appare, altresì, opportuno ricordare Sez. 1, n. 18243/2004, Petitti, Rv. 578418-01, secondo cui il dissidio insanabile tra i soli due soci di una società di persone non può costituire una causa di scioglimento della società ai sensi dell’art. 2272, n. 2, c.c., ma, quando derivi dal comportamento di uno dei due gravemente inadempiente agli obblighi contrattuali ovvero ai doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto societario, rileva come giusta causa di recesso del socio adempiente o, in alternativa, di esclusione del socio inadempiente.

Nel caso di scioglimento del rapporto sociale relativamente ad un socio, come è noto, l’art. 2289, comma 2, c.c. riconosce al recedente il diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota da liquidarsi in base alla situazione patrimoniale della società con riferimento al giorno della cessazione del rapporto. Al riguardo, Sez. 6-1, n. 01200/2022, Falabella, Rv. 663542-01, dopo aver ricordato che, in base all’art. 2289 c.c., il pagamento della quota in favore del socio uscente è esigibile decorsi sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto, ha affermato che la prescrizione del relativo diritto di credito inizia a decorrere dalla scadenza di tale termine semestrale. Inoltre, Sez. 1, n. 26501/2022, Crolla, Rv. 665540-01, ha affermato che l’art. 2289, comma 3, c.c., nel porre a favore ed a carico del socio, rispettivamente, gli utili e le perdite inerenti ad “operazioni in corso” alla data del recesso, si riferisce alle sopravvenienze attive e passive che trovino la loro fonte in situazioni già esistenti a quella data. La S.C., quindi, non ha ritenuto applicabile tale disposizione alla situazione di fatto rappresentata dall’occupazione di un terreno di proprietà della società da parte di una porzione di fabbricato appartenente ai soci di essa, situazione che solo astrattamente è idonea a far sorgere un credito indennitario in capo all’ente, ma che non costituisce all’attualità una componente attiva. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 6-1, n. 08233/2016, Genovese, Rv. 639465-01, che, dopo aver affermato il citato principio, ha ritenuto applicabile l’art. 2289, comma 3, c.c., con riguardo alle somme versate dalla società in base a condono fiscale attinente a violazioni commesse prima del recesso, anche se richiesto in epoca successiva - sempre che non siano in discussione la sussistenza della violazione ed il carattere vantaggioso della definizione agevolata - in quanto la relativa istanza e gli ulteriori adempimenti connessi sono rivolti ad estinguere un debito già sorto.

La liquidazione della quota può aversi non solo in caso di recesso o esclusione, ma anche in caso di morte del socio. Infatti, l’art. 2284 c.c. attribuisce agli eredi del socio il diritto alla liquidazione della quota salvo che i soci superstiti non preferiscano sciogliere la società o continuarla con gli eredi stessi, qualora vi acconsentano. Alla luce di tale disposizione, Sez. 2, n. 13265/2022, Tedesco, Rv. 664617-01, ha ritenuto che la costituzione per testamento dell’usufrutto sulla quota del socio defunto incontri i limiti derivanti dal citato art. 2284 c.c., potendo aversi soltanto in caso di continuazione della società con gli eredi, mentre in caso di liquidazione della quota, il diritto si realizza sulle somme ricavate dalla liquidazione della partecipazione del socio defunto.

Infine, in ambito tributario, si è data applicazione al principio secondo cui la perdita della qualità di socio è opponibile solo dopo che sia stata iscritta nel registro delle imprese. Con riguardo ai redditi prodotti in forma associata, Sez. 6-5, n. 16871/2022, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 664727-01, ha affermato che il socio di società in nome collettivo che non provveda tempestivamente - in conseguenza di recesso, esclusione, cessione della quota - a richiedere l’iscrizione nel registro delle imprese della modifica dell’atto costitutivo, o non provi che l’amministrazione finanziaria ne fosse a conoscenza, non può opporre, ai fini dell’applicazione dell’Irpef sul suo reddito di partecipazione, la perdita della qualità di socio non iscritta e non comunicata. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 5, n. 02812/2002, Di Palma, Rv. 552566-01, secondo cui, qualora l’amministratore di società in nome collettivo non provveda tempestivamente alla richiesta di iscrizione nel registro delle imprese (ai sensi degli artt. 2295 e 2300 c.c.) della modificazione dell’atto costitutivo rappresentata dal recesso del socio dalla società, e quest’ultimo non comunichi il recesso all’amministrazione finanziaria, il socio medesimo non può opporre - ai fini dell’applicazione dell’IRPEF sul suo reddito di partecipazione - il recesso non iscritto e non comunicato, poiché egli ha il potere di sostituirsi all’amministratore inerte e, in ogni caso, è gravato, medio tempore, dell’onere di comunicare all’amministrazione l’intervenuto recesso.

3. Le società di capitali.

Vengono di seguito riportate le decisioni che nel corso del 2022, con specifico riferimento alle società di capitali, trattano di finanziamenti e conferimenti a vario titolo da parte dei soci, assemblea e delibere assembleari, amministrazione, azioni di responsabilità e recesso. In alcuni casi, la Corte di cassazione ha affrontato le singole questioni, riferendosi in generale alle società di capitali, mentre, in altri casi, come di volta in volta precisato, ha esaminato in particolare la disciplina propria delle s.p.a. o delle s.r.l.

3.1. Finanziamenti e conferimenti a vario titolo.

Nell’ambito delle erogazioni che possono garantire un beneficio finanziario alla società ricevente, i soci possono effettuare apporti fuori capitale (effettuati causa societatis e senza obbligo di rimborso), oppure veri e propri prestiti, da cui deriva un obbligo di rimborso a carico della società. Qualora il finanziamento sia stato erogato in una situazione di difficoltà finanziaria o di squilibrio patrimoniale della società, il diritto del socio al suo rimborso sorge postergato, ai sensi dell’art. 2467 c.c.. Come precisato da Sez. 1, n. 12994/2019, Nazzicone, Rv. 654252-01, la postergazione disposta dall’art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma. Di conseguenza, la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente non solo al momento della concessione del finanziamento, ma anche a quello della richiesta di rimborso, trattandosi di fatto impeditivo del diritto alla restituzione del finanziamento rilevabile dal giudice d’ufficio.

Nell’anno in rassegna, in tema di finanziamento dei soci in favore della società, Sez. 1, n. 21422/2022, Nazzicone, Rv. 665158-01, ha affermato che, ai sensi dell’art. 2467 c.c., il diritto al rimborso del finanziamento sorge postergato, qualora erogato in situazione di difficoltà finanziaria o di squilibrio patrimoniale della società, e tale carattere permane sia nel caso in cui il socio fuoriesca dalla società per mancato esercizio del diritto di opzione, sia allorché egli abbia ceduto la propria partecipazione comprensiva del diritto alla restituzione della somma mutuata, in considerazione della finalità di tutela dei creditori che la norma citata mira a perseguire. La S.C., quindi, ha ritenuto che, ove tale esigenza venga meno a seguito del superamento delle difficoltà patrimoniali e finanziarie della società, il credito restitutorio ritorna pienamente esigibile in via ordinaria, anche se in quel momento non siano stati ancora adempiuti gli altri debiti sociali.

3.2. Le deliberazioni dell’assemblea.

E’ orientamento consolidato che tutte le disposizioni codicistiche sul bilancio abbiano natura imperativa e che ciò valga non solo per quelle disposizioni che prescrivono la chiarezza nella redazione del bilancio ed impongono una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria della società e del risultato economico (art. 2423, comma 2, c.c.), ma addirittura per quelle che impongono, in casi eccezionali, di derogare la normativa codicistica (cfr., art. 2423, comma 4, c.c.). Ciò in quanto il bilancio ha la funzione non soltanto di misurare gli utili e le perdite dell’impresa al termine dell’esercizio, ma anche nel fornire ai soci ed al mercato tutte le informazioni che il legislatore ha ritenuto a tal fine di prescrivere.

A tal riguardo, Sez. 1, n. 15087/2022, Nazzicone, Rv. 664681-01, ha affermato che la riserva costituita, ai sensi dell’art. 2426, comma 1, n. 4, c.c., dalle plusvalenze, derivanti dalla valutazione delle partecipazioni in imprese controllate secondo il criterio del patrimonio netto, ha natura di riserva non distribuibile, basandosi su un valore solo stimato e non ancora realizzato, e può essere utilizzata per la copertura delle perdite solo dopo l’assorbimento di ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato, precisandone la motivazione, la sentenza di merito, che aveva dichiarato nulla la delibera di approvazione del bilancio e della distribuzione di dividendi ai soci, in quanto era stata imputata a copertura delle perdite la riserva non distribuibile, costituita ai sensi dell’art. 2426, comma 1, n. 4, c.c., sebbene fossero iscritte ulteriori riserve disponibili, che avrebbero dovuto essere assorbite prioritariamente.

In secondo luogo, la S.C. è intervenuta con riferimento alla delibera assembleare di trasformazione di una società di persone in società di capitali. A tal riguardo, Sez. 6-1, n. 10433/2022, Terrusi, Rv. 664564-01, ha ritenuto che la controversia avente ad oggetto una delibera di tal tipo sia compromettibile in arbitri, ai sensi dell’art. 34, comma 1, d.lgs. n. 5 del 2003, in quanto non attiene a diritti indisponibili, ma riguarda i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, essendo necessario distinguere la natura inderogabile delle norme, che gli arbitri devono applicare per risolvere la controversia, rispetto alla indisponibilità del diritto controverso. La pronuncia si pone in linea di continuità con quanto affermato dalla Sez. 6-1, n. 17283/2015, Cristiano, Rv. 636505-01, secondo cui le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari, tipicamente riguardanti i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, sono compromettibili in arbitri ai sensi dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2003, qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili. In particolare, la S.C. ha riconosciuto la competenza arbitrale in relazione ad una controversia avente ad oggetto l’impugnativa di una delibera assembleare di aumento di capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno.

3.3. Gli amministratori.

Le pronunce del periodo in rassegna hanno riguardato il rapporto intercorrente tra amministratore e società.

Giova ricordare che, nell’ambito della disciplina generale sulla rappresentanza, l’art. 1394 c.c. stabilisce che il contratto concluso dal rappresentante in conflitto d’interessi col rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Al riguardo, la S.C. ha precisato che il conflitto d’interessi idoneo a produrre l’annullabilità del contratto, richiede l’accertamento dell’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro (così, Sez. 3, n. 14481/2008, Urban, Rv. 603301-01). Poi, con particolare riferimento alle s.p.a., l’art. 2391 c.c. obbliga l’amministratore ad informare gli altri amministratori ed il collegio sindacale e, in caso di amministratore unico, l’assemblea, di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società.

La S.C. è intervenuta con due pronunce sul tema del conflitto di interessi tra amministratore e società amministrata. In particolare, Sez. 2, n. 00255/2022, Dongiacomo, Rv. 663952-01, ha chiarito i rapporti tra le due disposizioni suindicate, affermando che, quando un amministratore ponga in essere, in nome della società, un atto o un negozio nei confronti di un terzo, ancorché rientrante nella competenza del consiglio di amministrazione, il conflitto di interessi, in assenza di previa deliberazione collegiale, non può essere regolato dall’art. 2391 c.c., bensì dall’art. 1394 c.c. Ciò in quanto nelle fattispecie regolate dalla prima norma, il conflitto emerge in un momento anteriore in quanto afferente all’esercizio del potere di gestione, mentre la seconda disposizione impone di accertare l’esistenza di un rapporto di incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare in modo non astratto o ipotetico, ma tenendo conto dell’idoneità del singolo atto o negozio alla creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro. Inoltre, in una fattispecie nella quale l’amministratore aveva trascurato il contenuto della delibera, nella parte in cui disponeva che la vendita non potesse avvenire ad un prezzo inferiore ad una misura prestabilita, Sez. 1, n. 24156/2022, Falabella, Rv. 665530-01, ha precisato che il conflitto di interessi ex art. 1394 c.c., che si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, è suscettibile di comportare l’annullabilità del contratto, anche qualora l’amministratore disattenda le indicazioni contenute nella delibera autorizzativa adottata dal consiglio di amministrazione al fine di escluderlo. Tali pronunce appaiono in linea di continuità con Sez. 1, n. 23089/2013, Di Amato, Rv. 629149-01, secondo cui nella fattispecie prevista dall’art. 1394 c.c., il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli artt. 2373 e 2391 c.c. il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo.

Poi, con riferimento agli obblighi dell’amministratore di società di capitali, Sez. 2, n. 24068/2022, Grasso, Rv. 665554-01, ha precisato che l’amministratore di una società per azioni non può delegare a un terzo poteri che, per vastità dell’oggetto, entità economica, assenza di precise prescrizioni preventive e di procedure di verifiche in costanza di mandato, facciano assumere al delegato la gestione dell’impresa e/o il potere di compiere le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale, in quanto attività di esclusiva spettanza degli amministratori.

Sull’esternazione del potere rappresentativo è intervenuta Sez. 5, n. 24262/2022, Angarano, Rv. 665488-01, che, in un caso in cui il ricorso introduttivo del giudizio di merito era privo della esplicita spendita del nome, ha affermato che, in tema di rappresentanza delle persone giuridiche, affinché l’atto compiuto dal rappresentante legale possa essere imputato all’ente rappresentato, non è necessario che l’esternazione del potere rappresentativo avvenga in modo esplicito, poiché la spendita del nome non richiede l’uso di formule sacramentali e può evincersi anche dal contenuto dell’atto compiuto dal rappresentante, e non è rilevante che quest’ultimo sia cessato dalla carica, ove ciò non risulti dall’iscrizione nel registro delle imprese. La S.C. ha, quindi, confermato la pronuncia di merito, che aveva individuato il soggetto ricorrente nella società, e non nel suo legale rappresentante in proprio, in quanto quest’ultimo aveva proposto ricorso, appello e presentato memorie a sostegno della posizione dell’ente, ritenendo irrilevante la cessazione dalla carica non iscritta nel registro delle imprese. Tale pronuncia appare una precisazione del principio adottato dalla Sez. 3, n. 13978/2005, Segreto, Rv. 582750-01, secondo cui l’esternazione del potere rappresentativo può avvenire anche senza espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purché vi sia un comportamento del mandatario che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti del contratto sono destinati a prodursi direttamente. Viene, altresì, precisato che il relativo accertamento è compito devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e da errori di diritto.

Quanto al compenso, Sez. 5, n. 24471/2022, Nonno, Rv. 665800-01, con riferimento alla deducibilità dello stesso a fini fiscali, ha ritenuto necessario che lo stesso sia quantificato nello statuto, ovvero in una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita nella delibera di approvazione del bilancio contenente la posta relativa al compenso, salvo che l’assemblea, convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia anche discusso ed approvato espressamente la proposta di determinazione dello stesso. Ciò in quanto la disciplina sul funzionamento delle società, che, dettata anche nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, ha natura imperativa ed inderogabile, contiene una distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione del compenso. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 5, n. 10308/2021, Condello, Rv. 661219-02, secondo cui in tema di redditi d’impresa, ai fini della deducibilità della spesa sostenuta da una società di capitali per il compenso agli amministratori, ove questo non sia stabilito dallo statuto, è necessaria la preventiva ed esplicita delibera assembleare, non essendo sufficiente l’effettivo svolgimento dell’attività gestoria a conferire certezza alla spesa dedotta, stante la natura inderogabile della disciplina del funzionamento della società.

Infine, giova ricordare che, ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., gli amministratori delle società di capitali, anche se nominati nell’atto costitutivo, sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo. Tuttavia, qualora la revoca non sia assistita da giusta causa, il soggetto ingiustificatamente revocato ha diritto alla tutela risarcitoria, ma non a quella reale. Sul punto, Sez. 2, n. 22351/2022, Fortunato, Rv. 665178-01, prendendo in considerazione l’ipotesi della cessazione dalla carica di amministratore per messa in liquidazione della società, ha affermato che non sono dovuti i danni per revoca senza giusta causa, poiché la nomina dei liquidatori non dà luogo ad una revoca (tacita o implicita) riconducibile al disposto dell’art. 2383, comma 3, c.c., venendo meno l’organo gestorio e la continuità dell’amministrazione.

3.4. Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori.

Numerose sono le pronunce adottate dalla Suprema Corte in tema di azioni di responsabilità nei confronti degli organi di gestione di società di capitali.

Con riferimento alla ripartizione dell’onere della prova, Sez. 1, n. 00198/2022, Fidanzia, Rv. 663554-01, ha affermato che colui che agisce in giudizio con azione di risarcimento nei confronti degli amministratori di una società di capitali che abbiano compiuto, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria non avente finalità meramente conservativa del patrimonio sociale, ai sensi dell’art. 2486 c.c., ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuto a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Per contro, spetta agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari. Tale pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 1, n. 02156/2015, Lamorgese, Rv. 634155-01, in cui si precisa, altresì, che nella valutazione di tale prova occorre, peraltro, considerare che gli amministratori non sono solo tenuti all’ordinario (e non anomalo) adempimento delle obbligazioni assunte in epoca antecedente allo scioglimento della società (art. 2449, comma 2, testo previgente, e attuale art. 2486, comma 2, c.c.), ma hanno anche il potere-dovere di compiere, in epoca successiva al menzionato scioglimento, quegli atti negoziali di gestione della società necessari al fine di preservarne l’integrità del patrimonio (art. 2486, comma 1, c.c., nuovo testo).

Più volte, poi, la S.C. è intervenuta con riferimento alle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 l.fall., che, come è noto, consente al predetto, in via esclusiva e mediante un’unica azione dal carattere unitario ed inscindibile, di formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori ed i sindaci, tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità di questi verso la società, quanto a quelli della responsabilità verso i creditori sociali.

Quanto alla liquidazione del danno cagionato dall’amministratore, per aver proseguito l’attività dopo l’avvenuta riduzione per perdite del capitale sociale al di sotto del minimo legale (così come previsto dall’art. 2449 c.c. nel testo anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), Sez. 1, n. 04347/2022, Vannucci, Rv. 664310-02, ha ritenuto che il giudice possa avvalersi in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili, del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali, indicandone le ragioni ed a condizione che sia stato allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 15245/2022, Terrusi, Rv. 664771-01, secondo cui, in tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall., la mancanza di scritture contabili, ovvero la loro sommarietà o inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso eziologico rispetto ai fatti causativi del dissesto. La condanna, infatti, presuppone che sia comunque previamente assolto l’onere della prova circa l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale, restando perciò applicabile il criterio del deficit fallimentare soltanto come criterio equitativo, per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno in conseguenza dell’affermazione di esistenza della prova - almeno presuntiva - di condotte di tal genere. Sempre in ordine alla possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa in caso di carenza documentale, Sez. 1, n. 00198/2022, Fidanzia, Rv. 663554-02, ha affermato che, nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., ove la mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili renda difficile per la curatela una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, non trova applicazione il principio dell’inversione dell’onere della prova, ma il curatore può invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa.

Le suindicate pronunce appaiono tutte in applicazione del principio affermato dalle Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635451-01, secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare. Ed invero, tale criterio può essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

Quanto ai profili processuali, risulta affermato, da Sez. 1, n. 20180/2022, Catallozzi, Rv. 665223-01, in conformità al precedente della Sez. 1, n. 11264/2016, Didone, Rv. 639875-01, che nel caso di fallimento di una s.r.l., ai sensi dell’art. 146, comma 2, lett. a), l.fall., il curatore è l’unico soggetto legittimato a proseguire l’azione di responsabilità sociale già promossa dal socio nella qualità di sostituto processuale della società ex art. 2476, comma 3, c.c. Di conseguenza, ove, in pendenza del giudizio, il curatore non manifesti l’intento di proseguire l’azione originariamente promossa, la domanda deve essere dichiarata improcedibile per il sopravvenuto difetto di legittimazione attiva del socio.

Sempre in tema di esercizio dell’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. da parte del curatore, per fatti di mala gestio compiuti dall’amministratore, Sez. 1, n. 14592/2022, Nazzicone, Rv. 664767-01, ha precisato che la natura contrattuale della responsabilità nei confronti della società poi fallita richiede l’accertamento dell’accettazione dell’atto di nomina da parte dell’amministratore, tenendo conto che tale accettazione non richiede specifiche formalità, potendo risultare anche in modo tacito, dal compimento di atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare l’incarico ed il relativo accertamento costituisce una questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c.. La pronuncia appare una specificazione del principio affermato da Sez. 1, n. 06928/2001, Di Amato, Rv. 546854-01, secondo cui l’accettazione della nomina ad amministratore di una società è necessaria, poiché i poteri degli amministratori hanno fonte contrattuale, ma non richiede l’osservanza di specifiche formalità e può essere anche tacita, prescindendo dall’adempimento degli oneri pubblicitari di cui all’art. 2383, comma 4, c.c. In tal caso, l’accettazione può essere desunta da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina e il relativo accertamento, investendo una questione di fatto, è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato.

Con riferimento all’azione risarcitoria del curatore nei confronti della società controllante di quella fallita, Sez. 1, n. 14876/2022, Nazzicone, Rv. 664768-01, ha affermato che, nel contesto precedente all’introduzione dell’art. 2497 c.c., ad opera del d.lgs. n. 6 del 2003, la tutela del ceto creditorio della società eterodiretta, che abbia patito la diminuzione del patrimonio a causa dell’attività di abuso di direzione e coordinamento della capogruppo, poteva passare dall’art. 2043 c.c. e dalla clausola generale del neminem laedere. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto prescritta l’azione proposta dalla curatela, ritenendo non condivisibile che il termine di prescrizione dovesse farsi decorrere solo dal 1° gennaio 2004, momento di entrata in vigore del citato art. 2497 c.c., in quanto il curatore era legittimato ad esercitare il diritto anche in precedenza.

Infine, in tema di confisca in sede penale di quote di s.r.l. per reati di criminalità organizzata, Sez. 1, n. 00191/2022, Nazzicone, Rv. 663897-02, ha ritenuto che, ove il Ministero dell’economia e delle finanze, titolare dei beni confiscati, unitamente all’ANBSC, Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, promuova l’azione di responsabilità prevista dagli artt. 2476 e 2407 c.c. nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società e questi ultimi formulino domanda riconvenzionale di manleva contro gli attori, allegandone la corresponsabilità nella causazione del danno, la difesa in giudizio di questi ultimi è pienamente espletata dalla costituita Avvocatura dello Stato, sia a favore dell’azione di responsabilità sia contro l’avversa domanda riconvenzionale, senza che abbia rilievo la l’erronea dichiarazione di contumacia, riferita alla domanda di manleva, essendo essi presenti nel processo sin dall’inizio. Tale principio di diritto è stato enunciato nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c.

3.5. La responsabilità dei sindaci.

I sindaci di società di capitali sono chiamati a rispondere sia per aver posto in essere condotte attive in violazione dei doveri statuiti dal primo comma dell’art. 2407 c.c., ed in particolare in caso di attestazione di fatti non veri o di violazione del segreto d’ufficio, sia per condotte omissive, ai sensi del secondo comma dell’art. 2407 c.c. (la cui formulazione, peraltro, è rimasta invariata a seguito della riforma del diritto societario), per i comportamenti dolosi o colposi degli amministratori che essi avrebbero potuto e dovuto prevenire od impedire nell’espletamento della loro funzione di vigilanza.

Con riferimento a tale secondo tipo di responsabilità dei sindaci, concorrente con quella degli amministratori, Sez. 2, n. 24170/2022, Cosentino, Rv. 665556-02, è intervenuta in tema di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia, stabilendo che i sindaci delle società bancarie per andare esenti da responsabilità devono dare prova di aver esercitato i poteri di controllo loro spettanti, non essendo all’uopo sufficiente, in presenza di una condotta illecita posta in essere dagli amministratori, la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro. In tal caso, dal comportamento inerte dei sindaci consegue la mancata adeguata vigilanza sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori. La pronuncia appare una applicazione del principio affermato dalla Sez. 1, n. 18770/2019, Nazzicone, Rv. 654662-02, secondo cui, in presenza di una illecita condotta gestoria posta in essere dagli amministratori, non è sufficiente ad esonerare i sindaci della società da responsabilità la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, qualora i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori.

3.6. Le operazioni sul capitale.

Importante menzionare tre pronunce adottate dalla Suprema Corte in tema di riduzione del capitale sociale per perdite, prendendo in considerazione l’ipotesi in cui le stesse abbiano intaccato il capitale sociale, in modo tale da ridurlo al di sotto del minimo legale. In tal caso, l’assemblea ha l’obbligo di procedere alla riduzione del capitale ed alla sua contestuale ricostituzione fino al minimo legale, non potendo, al contrario, riportare a nuovo le perdite e rinviare così la decisione all’esercizio successivo. In difetto di tali deliberazioni, si verificherà la causa di scioglimento di cui all’art. 2484 n. 4 c.c.

Proprio con riferimento agli obblighi degli amministratori qualora si verifichino perdite che comportino la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, Sez. 6-1, n. 02984/2022, Campese, Rv. 663819-01, ha precisato che deve essere senza indugio convocata l’assemblea per deliberare l’azzeramento e la ricostituzione del capitale o la trasformazione della società, al fine di impedirne lo scioglimento, ma non è previsto alcun termine decadenziale per l’adozione di tali statuizioni, fermo restando che la mancanza di sollecitudine nella convocazione dell’assemblea può costituire causa di responsabilità degli amministratori nei confronti della società stessa.

Quanto alle conseguenze della mancata ricostituzione del capitale, Sez. 1, n. 04347/2022, Vannucci, Rv. 664310-01, ha affermato che lo scioglimento della società per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale ai sensi dell’art. 2448, comma 1, n. 4), c.c. (testo previgente al d.lgs. n. 6 del 2003) si verifica, ove non siano adottati i provvedimenti previsti dall’art. 2447 c.c., solo quando la perdita di esercizio sia di consistenza superiore al terzo del capitale della società e determini la riduzione di questo al di sotto del minimo stabilito dalla legge, mentre non si verifica quando la perdita, pur determinando la riduzione del capitale al di sotto del minimo stabilito dalla legge, sia pari o inferiore al terzo del capitale medesimo. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 1, n. 09619/2009, Panzani, Rv. 608228-01, secondo cui, nell’ipotesi di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, prevista dall’art. 2448 n. 4 c.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003), lo scioglimento della società si produce automaticamente ed immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o dalla trasformazione della società ai sensi dell’art. 2447 c.c., in quanto, con il verificarsi dell’anzidetta condizione risolutiva, viene meno ex tunc lo scioglimento della società. Di conseguenza, la mancata adozione da parte dell’assemblea dei provvedimenti di azzeramento e ripristino del capitale sociale o di trasformazione della società in altro tipo, compatibile con la situazione determinatasi, non esonera gli amministratori dalla responsabilità conseguente al proseguimento dell’attività d’impresa in violazione del divieto di nuove operazioni.

Infine, con riferimento alla delibera assembleare di azzeramento e ricostituzione del capitale sociale, Sez. 6-1, n. 11234/2022, Scotti, Rv. 664690-01, ha ritenuto valida la delibera assembleare che, a seguito di riduzione del capitale sociale per perdite, decida l’azzeramento e il contemporaneo aumento, anche ad una cifra superiore al minimo, del menzionato capitale sociale mediante la sottoscrizione immediata e per intero del socio presente, purché ai soci assenti o impossibilitati alla sottoscrizione immediata sia consentito di esercitare, nel termine stabilito dall’art. 2441 c.c., il diritto di opzione per l’acquisto delle partecipazioni sottoscritte in misura eccedente la quota di spettanza dell’originario sottoscrittore, dal momento che l’esercizio postumo del diritto di opzione opera come condizione risolutiva e rimuove pro quota e retroattivamente gli effetti dell’originaria sottoscrizione. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 1, n. 15614/2007, Giusti, Rv. 600416-01.

3.7. Le operazioni straordinarie.

Da menzionare due pronunce in tema di operazioni straordinarie, cioè quelle operazioni di riorganizzazione della società che si riflettono sul patrimonio sociale e sulla posizione dei soci. Tali operazioni possono incidere sulla garanzia patrimoniale dei creditori ex art. 2740 c.c., modificandola in senso sia quantitativo che qualitativo, e per questo motivo il legislatore ha disposto l’adozione di peculiari cautele, onde evitare di recare pregiudizio alle ragioni dei vari soggetti di volta in volta coinvolti e, in particolare, dei creditori anteriori all’operazione.

Una delle suddette cautele attiene alle conseguenze dell’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto relativo all’operazione straordinaria posta in essere. In particolare, l’art. 2504 quater c.c. (richiamato anche per le scissioni dall’art. 2506 ter c.c.), stabilisce che, una volta eseguita l’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese, l’invalidità dello stesso non può più essere dichiarata, ciò precludendo la possibilità di far valere tanto i vizi dell’atto medesimo, quanto quelli relativi al procedimento di formazione ed alla iscrizione. A tal riguardo, Sez. 1, n. 08120/2022, Falabella, Rv. 664358-01, ha affermato che tale preclusione, essendo finalizzata a preservare l’organizzazione societaria nascente dall’operazione, non impedisce che le parti dell’accordo assumano diverse determinazioni negoziali in presenza di una modificazione dei valori patrimoniali presi in considerazione nel progetto di fusione o di scissione.

Altra cautela è quella relativa alla responsabilità delle società coinvolte nell’operazione straordinaria. In particolare, con riferimento alla scissione, Sez. 5, n. 32469/2022, Cortesi, Rv 666390-01, ha ritenuto che la società beneficiaria sia solidalmente responsabile per i debiti erariali della società scissa relativi a periodi d’imposta anteriori alla data dalla quale l’operazione produce effetti, e che ad essa possa essere richiesto il pagamento di tali debiti senza oneri di avvisi o altri adempimenti da parte dell’Amministrazione. Al riguardo, appare interessante richiamare il principio espresso dalla Sez. 5, n. 03233/2021, Crucitti, Rv. 660646-01, secondo cui, quando sia realizzata un’operazione di scissione parziale, la responsabilità per i debiti fiscali riguardanti gli anni di imposta ad essa antecedenti, prevista dall’art. 173, comma 13, del d.P.R. n. 917 del 1986, e confermata, quanto alle somme dovute per violazioni tributarie, dall’art. 15, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, diverge da quella riguardante le obbligazioni civili, soggetta invece ai limiti di cui agli artt. 2506 bis, comma 2, e 2506 quater, comma 3, c.c.. Ciò in quanto, fermi gli obblighi erariali in capo alla scissa e alla designata, la responsabilità si estende non solo solidalmente, ma anche illimitatamente a tutte le società partecipanti all’operazione, indipendentemente dalle quote di patrimonio assegnato con detta operazione, senza che tale differente trattamento sia costituzionalmente illegittimo, siccome rispondente all’esigenza di un’agevole riscossione dei tributi nel rispetto del principio costituzionale di pareggio del bilancio e a criteri di adeguatezza e di proporzionalità, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 90 del 2018.

3.8. Il recesso del socio.

Una sola pronuncia riguarda l’istituto del recesso del socio di società per azioni. Al riguardo, occorre tener presente che, a differenza di quanto disposto per le società di persone dall’art. 2285 c.c., la natura capitalistica della società e l’esigenza di tutela dei creditori che, facendo affidamento sul patrimonio sociale, hanno interesse al mantenimento della sua integrità, escludono che il socio di società per azioni possa recedere ad nutum.

In tema Sez. 1, n. 20546/2022, Fidanzia, Rv. 665349-01, ha affermato che per il legittimo esercizio del diritto di recesso del socio di s.p.a., ai sensi dell’art. 2437, comma 2, lett. b), c.c., è sufficiente una qualsiasi modifica statutaria che comporti l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni, non essendo richiesta alcuna indagine in ordine alla rilevanza sostanziale di tale modifica rispetto alla disciplina precedente. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito, che aveva escluso la legittimità del recesso a seguito della modifica statutaria che aveva sottratto al diritto di prelazione dei soci i trasferimenti di azioni a società direttamente o indirettamente controllate, sul presupposto che tale modifica non aveva determinato un mutamento sostanziale della clausola di prelazione.

4. Particolari società di capitali.

Vengono di seguito riportate le pronunce della S.C. che hanno esaminato società regolate da una disciplina del tutto speciale, con particolare riferimento alle società cooperative e alle società tra professionisti. A tali figure devono essere affiancate le società a partecipazione pubblica, comprese le società in house, a cui, proprio per l’accentuata specificità, viene dedicato un autonomo capitolo, nella parte riservata ai rapporti con i pubblici poteri, cui si rinvia.

4.1. Le società cooperative.

La Suprema Corte si è innanzitutto occupata di questioni relative alla particolare natura del rapporto del socio lavoratore all’interno della cooperativa ed al recesso dello stesso dalla compagine sociale. Come è noto, infatti, con la partecipazione ad una società cooperativa, il singolo pone in essere due tipi di rapporti: quello mutualistico (che ha riflessi sul piano patrimoniale) e quello sociale (che attribuisce al socio dei poteri all’interno dell’organizzazione).

Ai fini della qualificazione in termini di autonomia o di subordinazione dell’ulteriore rapporto di lavoro che il socio lavoratore di una società cooperativa stabilisca con la propria adesione o successivamente, Sez. L, n. 29973/2022, Cerulo, Rv. 665778-01, ha affermato che il “nomen iuris” attribuito in linea generale ed astratta nel regolamento di organizzazione e la peculiarità del rapporto mutualistico connesso a quello di lavoro, pur configurandosi quali elementi necessari di valutazione, non rivestono portata dirimente, dovendosi piuttosto dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. In particolare, quando la prestazione lavorativa sia estremamente elementare e ripetitiva, così che l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel contesto, significativo, è possibile dare rilievo ad elementi sussidiari (ad es. modalità di erogazione del compenso, orario di lavoro, presenza di una sia pure minima organizzazione e assunzione di un rischio di impresa), da valutarsi nella loro vicendevole interazione. Al riguardo, può essere utile ricordare che già Sez. L, n. 16356/2016, Berrino, Rv. 640853-01, aveva ritenuto che il riconoscimento, in favore dei soci di cooperative, di una tutela previdenziale assimilabile a quella propria dei lavoratori subordinati, con il corrispondente obbligo della società, presuppone che venga accertato dal giudice di merito che il lavoro svolto dai soci sia prestato in maniera continuativa e non saltuaria e non si atteggi come prestazione di lavoro autonomo, non comportando l’assoggettamento a contribuzione della società l’automatica configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra questa e il socio.

Poi, con riferimento al recesso del socio dalla società cooperativa, Sez. 1, n. 17667/2022, Campese, Rv. 665096-01, ha statuito che la clausola statutaria che preveda la necessaria autorizzazione del consiglio di amministrazione, non vale a rendere quest’ultima una accettazione contrattuale, dovendo la stessa qualificarsi, piuttosto, come una condizione di efficacia della dichiarazione unilaterale recettizia del socio. Di conseguenza, in caso di inerzia dell’organo societario, risulta applicabile l’art. 1359 c.c., in virtù del quale la condizione si considera avverata, qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento. Al riguardo, già Sez. 1, n. 26190/2017, Campanile, Rv. 645939-01, aveva affermato che, nelle società cooperative, il recesso convenzionale può essere subordinato alla ricorrenza di determinati presupposti o condizioni, tra cui l’autorizzazione o l’approvazione del consiglio di amministrazione cui è attribuito il potere discrezionale di verificare la corrispondenza dei fatti specifici dedotti alle ipotesi statutariamente contemplate. Tale potere non può essere esercitato, neppure in caso di inerzia, da altri organi societari o da terzi estranei alla società, né rimesso all’autorità giudiziaria, perché riferito alla tutela dell’interesse della società cooperativa la cui valutazione è attribuita in via esclusiva all’organo ritenuto dal contratto sociale idoneo alle valutazioni necessarie.

Infine, Sez. 1, n. 23602/2022, Marulli, Rv. 665369-01, ha ritenuto che la perdita dei requisiti di mutualità prevalente da parte di una società cooperativa, conseguente alla modificazione o soppressione delle clausole antilucrative, non obbliga la società a devolvere al fondo mutualistico di appartenenza il patrimonio effettivo, dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi non ancora distribuiti, poiché l’art. 2545 undecies c.c. fa conseguire tale effetto alla delibera di trasformazione della società, mentre l’art. 2545 octies c.c. prevede che, nel diverso caso della perdita dei requisiti di mutualità prevalente, gli amministratori redigano apposito bilancio per determinare il valore effettivo dell’attivo patrimoniale da imputare alle riserve indivisibili, dovendosi pertanto ritenere implicitamente abrogato, dalla riforma societaria del 2003, l’art. 17 della l. n. 388 del 2000, né potendo trovare applicazione l’art. 111 decies disp. att. c.c., diretto unicamente ad agevolare l’adeguamento alla nuova normativa delle clausole antilucrative già presenti nello statuto di società cooperative a mutualità prevalente.

4.2. Le società tra professionisti.

La Suprema Corte, infine, è intervenuta con riferimento al contratto tra soggetti privati e società di ingegneria, costituite in forma di società di capitali di cui ai capi V, VI e VII del titolo V del libro quinto del codice civile, ovvero in forma di società cooperative di cui al capo I del titolo VI del medesimo libro quinto del codice civile. A tal riguardo, Sez. 2, n. 22534/2022, Casadonte, Rv. 665379-01, ha ritenuto che, a seguito dell’abrogazione dell’art. 2 della l. n. 1815 del 1939 per effetto del richiamo all’art. 24 della l. n. 266 del 1997 da parte dell’art. 1, commi 148 e 149, della l. n. 124 del 2017, i contratti in questione non sono affetti da nullità assoluta, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 c.c., per avere ad oggetto attività riservate al professionista (ingegnere o architetto) iscritto all’albo e vietate alle società di capitali od alle cooperative. Infatti, con riferimento ai contratti conclusi anteriormente all’11 agosto 1997, prima dell’abrogazione del citato art. 2 della l. n. 1815 del 1939, aventi ad oggetto l’affidamento di incarico professionale ad uno studio associato organizzato in forma societaria, Sez. 2, n. 03926/2016, Scarpa, Rv. 638874-01, ne aveva ritenuto la nullità per violazione del divieto, sancito dal suddetto art. 2, che vietava la costituzione di società aventi ad oggetto l’espletamento di professioni intellettuali protette. Tale pronuncia ha, altresì, precisato che tale nullità è rilevabile d’ufficio e non è sanata dalla successiva abrogazione del menzionato divieto, disposta dall’art. 24 della l. n. 266 del 1997 giacché, difettando una previsione che determini la retroattività di tale disposizione, l’illiceità del contratto va riferita alle norme vigenti al momento della sua conclusione.

  • istituti finanziari e di credito
  • intermediario commerciale
  • titolo di credito
  • diritto bancario
  • esercizio finanziario

CAPITOLO XVIII

IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 La vigilanza sull’operato di banche e intermediari finanziari. - 2 Il contratto di conto corrente. - 3 I contratti bancari regolati in conto corrente. - 4 Intermediazione finanziaria. - 5 La responsabilità della banca. - 6 Titoli di credito.

1. La vigilanza sull’operato di banche e intermediari finanziari.

Il tema della vigilanza sugli istituti di credito e della giurisdizione sulle sanzioni irrogate dalla Consob è stato affrontato, nell’anno in rassegna, da Sez. U, n. 33248/2022, Napolitano, Rv. 666189-01, secondo cui le controversie in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, ex art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, spettano alla giurisdizione del giudice ordinario, non solo quando riguardino il provvedimento finale sanzionatorio, ma anche laddove si faccia questione della legittimità degli atti presupposti, ivi compresi quelli di natura regolamentare relativi al procedimento, senza che al riguardo possa ritenersi fondata una questione di costituzionalità, che avrebbe al più motivo di porsi in senso inverso, ove vi fosse una norma derogatoria alla giurisdizione ordinaria, la cui cognizione verte sul rapporto e non sull’atto in sé ed a cui, pertanto, spetta di regola la giurisdizione sul potere sanzionatorio della pubblica amministrazione.

Tale insegnamento appare in linea con quanto aveva già affermato, con riguardo alla vigilanza esercitata dalla Banca d’Italia, Sez. U, n. 24609/2019, Scarano, Rv. 655499-01, per la quale anche le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993, per le violazioni commesse nell’esercizio dell’attività bancaria, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, i quali costituiscono la concreta e diretta ragione giustificativa della potestà sanzionatoria esercitata nel caso concreto ed incidono pertanto su posizioni di diritto soggettivo del destinatario.

A sua volta, ai fini della determinazione della competenza, Sez. 6-2, n. 31390/2022, Bertuzzi, Rv. 666016-01, ha ritenuto che la competenza a decidere sulle opposizioni proposte avverso le sanzioni applicate dalla CONSOB di cui al d.lgs. n. 231 del 2007 spetta, in forza dell’interpretazione teleologica e letterale dell’art. 195, comma 4, della l. n. 58 del 1998 alla Corte d’appello nel cui distretto ha sede la società nel momento in cui viene presentato il ricorso, senza che al riguardo rilevi il momento consumativo dell’illecito. La disposizione citata, infatti, prevede quale criterio principale e prioritario quello della sede della società al momento della presentazione del ricorso e quello del luogo della consumazione della violazione, utilizzabile solo in via subordinata, così esprimendosi un “favor” nei confronti della società sul presupposto che la prossimità del giudice alla sua sede renda quest’ultima in grado di difendersi in modo più agevole ed efficace.

Mentre in tema di bilanciamento dei diritti di difesa relativamente agli atti del procedimento sanzionatorio, la recente Sez. 2, n. 29745/2022, Falaschi, Rv. 665967-01, ha ritenuto che in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, ex art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, seppure gli atti del relativo procedimento non possano ritenersi sottoposti al segreto d’ufficio nei confronti dell’interessato, non viola il suo diritto di accesso il rifiuto all’ostensione di documenti secondari, acquisiti nel corso dell’ispezione e che non siano stati utilizzati dall’amministrazione per fondare gli addebiti, in quanto neppure astrattamente la loro messa a disposizione risulta funzionale a garantire il diritto di difesa del ricorrente.

Sempre a tale riguardo, ma con riferimento alla tempestività dell’iniziativa sanzionatoria, Sez. 2, n. 17673/2022, Cosentino, Rv. 664896-01, ha ritenuto che deve riconoscersi al giudice, che sia chiamato a pronunciarsi sulla tempestività della contestazione dell’illecito, la possibilità di sindacare la necessità o l’opportunità della protrazione dell’attività istruttoria, da parte dell’Amministrazione, con il compimento di atti di indagine collegati a quelli già effettuati, ove questi ultimi risultino già esaustivi ai fini dell’accertamento dell’illecito, con l’avvertenza che tale sindacato deve essere svolto “ex ante” - in relazione all’utilità potenziale delle ulteriori iniziative istruttorie e non già ai concreti esiti che tali iniziative abbiano effettivamente prodotto - e tenendo conto dell’interesse pubblico ad un accertamento unitario di vicende complesse e coinvolgenti plurime responsabilità, quando l’efficacia delle indagini dell’Autorità di vigilanza venga posta a repentaglio da una “discovery” prematura, che consegua alla parcellizzazione dei risultati dell’indagine stessa. La precedente Sez. 2, n. 04521/2022, Cosentino, Rv. 663829-02, ha inoltre ritenuto che in tale ambito la configurazione del giudizio di opposizione come giudizio sul rapporto e non sull’atto non autorizza la totale obliterazione del controllo di legittimità del provvedimento sanzionatorio sotto il profilo del rispetto delle garanzie endo-procedimentali fissate dagli artt. 187 septies e 195 del T.U.F.; in particolare, la violazione del nucleo irriducibile di garanzie del contraddittorio endo-procedimentale, rappresentato dalla contestazione dell’addebito e dalla valutazione delle controdeduzioni dell’interessato, impone di per sé l’annullamento del provvedimento sanzionatorio illegittimamente emesso.

Da considerare anche quanto affermato da Sez. 2, n. 04522/2022, Cosentino, Rv. 663830-01, per la quale ai sensi dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., quale risultante dalla sentenza della Corte cost. n. 84 del 2021, la condotta della persona fisica che, richiesta di fornire informazioni alla CONSOB nell’ambito dell’attività di vigilanza svolta da quest’ultima ovvero “a fortiori” nell’ambito di un procedimento sanzionatorio aperto nei suoi confronti, abbia dato risposte mendaci a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o penale, non è sanzionabile solo se tale mendacio si risolva nella mera negazione di circostanze vere di cui la CONSOB chieda conferma; in tal caso, infatti, il mendacio produce sull’indagine il medesimo effetto del rifiuto di rispondere, lasciando a carico della CONSOB l’onere di ricercare “aliunde” la prova delle circostanze oggetto della richiesta di conferma; senza, quindi, alcuna indebita causazione di ulteriori ostacoli o ritardi dell’attività di indagine.

La decisione “gemella” Sez. 2, n. 04521/2022, Cosentino, Rv. 663829-03, ha inoltre precisato che la medesima disposizione dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., nella parte non dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza della Corte cost. n. 84 del 2021, va interpretato nel senso che la condotta consistente nel rifiuto di presentarsi all’audizione fissata dalla CONSOB, ovvero nell’adozione di manovre dilatorie miranti a rinviarne lo svolgimento, è sanzionabile in ogni caso se posta in essere in epoca successiva alla pubblicazione della suddetta sentenza; per contro, se anteriore, la stessa - rappresentando l’unico modo per sottrarsi all’alternativa tra rendere dichiarazioni potenzialmente autoaccusatorie o rischiare la sanzione per il rifiuto di renderle - non può essere sanzionata di per sé, ma va considerata una forma di legittimo esercizio del diritto al silenzio costituzionalmente garantito, a meno che non si sia concretizzata in comportamenti ingannevoli, fraudolenti o decettivi ulteriori rispetto alla mera mancata presentazione o alla mera richiesta di differimento. La stessa decisione contiene un ulteriore principio di diritto (Rv. 663829-01), secondo cui, in linea di principio, è vero che la doglianza relativa alla violazione del diritto al contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo sanzionatorio svoltosi dinanzi alla CONSOB ed alla Banca d’Italia presuppone la deduzione di una lesione concreta ed effettiva del diritto di difesa specificamente conculcato o compresso, ma ciò non opera quando la lesione derivi dalla mancata identità tra fatto contestato e fatto sanzionato; infatti, la violazione della regola legale della previa contestazione dell’illecito per il quale sia stata emessa una sanzione amministrativa deve ritenersi di per sé lesiva del diritto di difesa, determinando l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio per violazione di legge.

Nella medesima pronuncia si è altresì rilevato (Rv. 663829-04) che le sanzioni amministrative irrogate dalla Consob per gli abusi di mercato, pur avendo natura sostanzialmente penale secondo i c.d. “criteri Engel”, sono prive dei meccanismi che consentono allo “ius superveniens” (derivante da nuova normativa o da pronuncia della Corte costituzionale) di infrangere il giudicato, non esistendo nel giudizio civile o amministrativo una figura analoga al giudice dell’esecuzione penale, avente la funzione di valutare gli incidenti processuali successivi al giudicato, e non potendosi utilizzare a tal fine lo strumento della revocazione della sentenza. (In applicazione di tale principio, nel caso concreto la S.C. ha ritenuto non rideterminabile, alla stregua della sentenza della Corte cost. n. 63 del 2019, la sanzione inflitta per l’illecito amministrativo di cui all’art. 187 bis, comma 1, lettera a) del T.U.F., in quanto ormai coperta da giudicato).

A sua volta, Sez. 2, n. 01740/2022, Criscuolo, Rv. 664171-01, ha piuttosto ritenuto che le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB per violazione delle norme sull’intermediazione finanziaria, diverse da quelle di cui all’art. 187 ter del d.lgs. n. 58 del 1998 (t.u.f.), non abbiano natura sostanzialmente penale; pertanto, il procedimento previsto per la loro irrogazione è sottratto all’applicazione del termine di cui all’art. 4 del regolamento CONSOB n. 12697/2000, dovendo il regime decadenziale e prescrizionale della potestà sanzionatoria desumersi dall’art. 14 della l. n. 689 del 1981, che prescrive un termine perentorio esclusivamente per la contestazione differita. La stessa decisione ha compiuto ulteriori importanti precisazioni. In primo luogo (Rv. 664171-03), quanto alla determinazione dell’ambito oggettivo di applicazione, si è rilevato che la vendita di azioni proprie della banca in contropartita diretta con la clientela rientra nella nozione di servizi ed attività di investimento di cui all’art. 1, comma 5, del d.lgs. n. 58 del 1998 (t.u.f.); conseguentemente, tale attività è sottoposta ai doveri previsti dall’art. 21, coma 1, lett. d) dello stesso decreto e dall’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob attuativo dell’art. 6, comma 2 bis, del t.u.f., ai fini dell’istituzione di procedure interne idonee a garantire gli obblighi di correttezza e trasparenza nella prestazione dei servizi, fra i quali rientra anche l’adozione di idonee ed oggettive procedure di fissazione del prezzo dello strumento finanziario (c.d. fair value del titolo), in quanto trattasi di operazione priva di mera valenza interna. Poi, si è altresì osservato (Rv. 664171-02), quanto al diritto di difesa dell’incolpato, che nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998 (t.u.f.), tale diritto di difesa è garantito dalla previsione di un congruo termine per il deposito di difese scritte, mentre la sua audizione personale non è un incombente imprescindibile, come risulta dal confronto con l’art. 196 dello stesso decreto legislativo, riguardante i promotori finanziari. Ancora, la stessa decisione ha sottolineato che (Rv. 664171-04) qualora la Consob sia assistita in giudizio da difensori iscritti nell’apposito albo, il diritto dell’amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., non è limitato alle sole spese vive ma comprende anche i relativi compensi, pur quando lo stesso difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico.

Sez. 2, n. 24010/2022, Cosentino, Rv. 665549-01, ha a sua volta ritenuto che le sanzioni amministrative previste dal T.U.F. sono disciplinate dagli stessi principi ordinatori fissati dalla l. n. 689 del 1981, in virtù dei quali gli illeciti amministrativi vanno ascritti alle persone fisiche che hanno realizzato le condotte che li integrano e non agli enti per cui esse hanno agito, senza che rilevi il disposto di cui all’art. 94, comma 8, T.U.F., nel testo applicabile “ratione temporis”, in quanto afferente alla responsabilità civile nei confronti dei danneggiati e non a quella per l’illecito amministrativo.

Sez. 2, n. 12031/2022, Casadonte, Rv. 664388-01, ha inoltre affermato che per le sanzioni Consob aventi carattere penale (nella specie, per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187 bis del TUF), l’applicazione retroattiva del trattamento sanzionatorio più favorevole introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015, conseguente alla sentenza della Corte cost. n. 63 del 2019, che ha dichiarato incostituzionale la deroga alla retroattività “in mitius” prevista dall’art. 6, comma 2, del citato d.lgs., è rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità e giustifica la rimessione al giudice del merito per rimodulare la sanzione, anche qualora quella in concreto irrogata si collochi, comunque, all’interno della cornice edittale stabilita dalla nuova normativa, stante il diritto dell’autore dell’illecito a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore.

Più in generale, Sez. U, n. 08472/2022, Lamorgese, Rv. 664221-01, ha ritenuto che in tema di attività di prestazione di garanzie ad opera di soggetti vigilati, la fideiussione prestata da un cd. Confidi “minore”, iscritto nell’elenco di cui all’art. 155, comma 4, T.u.b. (nel testo vigente “ratione temporis”), nell’interesse di un proprio associato ed a garanzia di un credito derivante da un contratto non bancario, non è nulla per violazione di norma imperativa, non essendo la nullità prevista in modo testuale, né ricavabile indirettamente dalla previsione secondo la quale detti soggetti svolgono esclusivamente l’attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali per favorire il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario, in quanto il rilascio di fideiussioni è attività non riservata a soggetti autorizzati (come gli intermediari finanziari ex art. 107 T.u.b.), né è preclusa alle società cooperative che operino in coerenza con l’oggetto sociale.

2. Il contratto di conto corrente.

Anche nel corso dell’anno in rassegna il contenzioso bancario è ripetutamente giunto all’esame del S.C. In tema di rapporti di conto corrente bancario, ogni qualvolta sia accertata la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista e si riscontri la mancanza di una parte degli estratti conto, la proposizione di contrapposte domande della banca e del correntista implica che ciascuna di esse sia onerata della prova della propria pretesa, sicché, in assenza di elementi di prova suscettibili di consentire l’accertamento del saldo del conto nel periodo non documentato, e in mancanza di allegazioni delle parti che permettano di ritenere pacifica l’esistenza di un credito o di un debito di un certo importo con riferimento a tale arco temporale, deve procedersi alla determinazione del rapporto di dare e avere, con riguardo al periodo successivo per il quale constano gli estratti conto, procedendosi all’azzeramento del saldo iniziale del primo di detti estratti conto (così, Sez. 1, n. 27362/2022, Campese, Rv. 665882-02).

Su tale tematica anche Sez. 1, n. 19812/2022, Amatore, Rv. 665218-01, per la quale ove al conto acceda un’apertura di credito, grava sul cliente che esperisce l’azione di ripetizione di interessi non dovuti l’onere di allegare e provare l’erronea applicazione del criterio di imputazione di cui all’art. 1194 c.c. (secondo cui ogni pagamento deve essere imputato prima agli interessi e poi al capitale) alle rimesse operate, in ragione della natura ripristinatoria delle stesse, trattandosi di fatto costitutivo della domanda di accertamento negativo del debito, con la conseguenza che non è configurabile un onere a carico della banca di dedurre e dimostrare quali rimesse abbiano carattere solutorio.

Sul finire dell’anno, Sez. 1, n. 35979/2022, Vannucci, Rv. 666249-01, è tornata ad occuparsi del tema dell’incompletezza della produzione degli estratti conto relativi al rapporto bancario, prendendo in particolare in esame il profilo delle conseguenze di ordine probatorio che ne derivano quando ad agire come attore, con l’ “actio de in rem verso”, sia il cliente “correntista”. La S.C. ha avuto modo di precisare, con principio di diritto testualmente formulato che “nei rapporti di conto corrente bancario, il correntista che agisce in giudizio per la ripetizione dalla banca di danaro che afferma essere stato a costei indebitamente dato nel corso dell’intera durata del rapporto sul presupposto di dedotte nullità di clausole del contratto di conto corrente relative alla misura degli interessi e al massimo scoperto, di applicazione di interessi in misura superiore a quella del tasso soglia dell’usura presunta, per come determinato in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, nonché di addebiti di danaro non previsti dal contratto, è onerato della prova degli avvenuti pagamenti e della mancanza di una valida “causa debendi” mediante deposito degli estratti periodici di tale conto corrente riferiti all’intera durata del rapporto; con la conseguenza che qualora egli depositi solo alcuni di tali estratti periodici di conto corrente egli da un lato non adempie a detto onere per la parte di rapporto non documentata e, dall’altro, l’omissione non costituisce fatto impediente il sollecitato accertamento giudiziale del dare e dell’avere fra le parti del cessato rapporto a partire dal primo saldo a debito dal cliente documentalmente riscontrato”.

Più in generale, Sez. 1, n. 01550/2022, Solaini, Rv. 663942-01, ha ritenuto che in materia di contratti bancari che prevedano il pagamento di interessi anatocistici o a tasso ultralegale, la prova dell’inesistenza di una giusta causa dell’attribuzione patrimoniale, compiuta in favore del convenuto, grava sull’attore in ripetizione dell’indebito, ancorché si tratti di prova di un fatto negativo; la produzione del contratto posto a base del rapporto bancario è a tal fine per un verso non indispensabile e per altro verso neppure sufficiente; non è sufficiente perché, anche qualora sia stato esibito il contratto, resta possibile che l’accordo sugli interessi sia stato stipulato con un atto diverso e successivo; e non è neppure indispensabile, perché anche altri mezzi di prova, quali le presunzioni, unitamente agli argomenti di prova ricavabili dal comportamento processuale della controparte, ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., nonché, al limite, il giuramento, possono valere allo scopo di dimostrare l’assenza dei fatti costitutivi del debito dell’attore.

Ha affrontato una problematica sempre ricorrente Sez. 2, n. 27069/2022, Criscuolo, Rv. 665947-01, per la quale la cointestazione di un conto corrente bancario attribuisce a ciascun intestatario, nei rapporti interni, ai sensi dell’art. 1298, comma 2, c.c., la contitolarità per parti uguali del saldo attivo del conto medesimo, salva la prova che le somme versate siano di esclusiva pertinenza di uno dei correntisti, che non può ritenersi raggiunta per il solo fatto che l’alimentazione del conto sia avvenuta da parte di uno soltanto tra essi.

Ponendosi sulla scia dell’insegnamento delle S.U. n. 15895/2019, Sez. 6-1, n. 21225/2022, Falabella, Rv. 665196-01, ha ritenuto che nel contratto di conto corrente assistito da apertura di credito, ove il cliente agisca per la ripetizione degli importi indebitamente versati, la banca che sollevi l’eccezione di prescrizione può limitarsi ad affermare l’inerzia del titolare del diritto, dichiarando di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte; al contrario il correntista, attore nell’azione di ripetizione, ha l’onere di produrre in giudizio gli estratti conto dai quali emerge la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti, di modo che ove non assolva a tale onere la domanda attrice deve essere respinta, senza necessità di esaminare l’eccezione di prescrizione.

Peraltro, Sez. 1, n. 15601/2022, Scotti, Rv. 664774-01, ha ritenuto che l’estratto conto che inizi con il saldo negativo di un rapporto precedente non può dirsi incompleto e solo a fronte di una specifica contestazione del correntista, in ordine alla veridicità ed effettiva debenza di quanto dovuto in forza del conto secondario o precedente, scatta l’obbligo della banca di fornire la prova della correttezza della posta negativa di cui trattasi, prova che consiste, di regola, nella produzione degli estratti conto da cui risulti quel saldo iniziale.

Affrontando una tematica di rilievo, inerente ai costi, anche occulti, del rapporto bancario, Sez. 1, n. 19825 /2022, Amatore, Rv. 665220-01, ha affermato che è nulla per indeterminatezza dell’oggetto la clausola negoziale che prevede la commissione di massimo scoperto indicandone semplicemente la misura percentuale, senza contenere alcun riferimento al valore sul quale tale percentuale deve essere calcolata.

Sez. 6-1, n. 04321/2022, Falabella, Rv. 664127-01, ha invece precisato che la previsione, nel contratto di conto corrente stipulato nella vigenza della delibera CICR 9 febbraio 2000, di un tasso di interesse creditore annuo nominale coincidente con quello effettivo non dà ragione della capitalizzazione infrannuale dell’interesse creditore, che è richiesta dall’art. 3 della delibera, e non soddisfa la condizione posta dall’art. 6 della delibera stessa, secondo cui, nei casi in cui è prevista una tale capitalizzazione infrannuale, deve essere indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione.

Ed ancora Sez. 6-1, n. 02855/2022, Falabella, Rv. 663801-01, ha ritenuto che la presenza di un piano di rientro concordato tra banca e cliente, che abbia natura meramente ricognitiva del debito, non preclude la contestazione della nullità delle clausole negoziali per difetto di forma scritta e pertanto non esonera la banca, attrice in giudizio per il pagamento del saldo, dal documentare le condizioni convenute nel contratto di conto corrente.

Sez. 1, n. 19298/2022, Vella, Rv. 664956-01, ha ritenuto che nei contratti bancari conclusi prima dell’entrata in vigore della l. n. 154 del 1992, il requisito della forma scritta richiesto dall’art. 1284 c.c. ai fini della valida pattuizione di interessi superiori rispetto alla misura legale, deve essere inteso in senso strutturale e non funzionale; pertanto, la sua violazione determina l’ordinaria forma di nullità assoluta, con conseguente necessità, ai fini della validità del patto, della sottoscrizione di entrambe le parti, sia pure con atti distinti, purché inscindibilmente connessi, senza poter integrare tale presupposto formale attraverso il c.d. contratto “monofirma”. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che un contratto bancario concluso nel 1991 e sottoscritto dal solo correntista fosse inidoneo ad integrare la forma scritta richiesta dall’art. 1284, comma 3, c.c., al fine di pattuire validamente interessi “ultralegali”, in quanto stipulato prima dell’entrata in vigore delle norme relative alle c.d. nullità di protezione).

3. I contratti bancari regolati in conto corrente.

Di grande rilievo l’affermazione compiuta da Sez. 3, n. 23149/2022, Rossetti, Rv. 665427-01, per la quale il cosiddetto “mutuo solutorio”, stipulato per ripianare la pregressa esposizione debitoria del mutuatario verso il mutuante, non è nullo - in quanto non contrario né alla legge, né all’ordine pubblico - e non può essere qualificato come una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente oppure quale “pactum de non petendo” in ragione della pretesa mancanza di un effettivo spostamento di denaro, poiché l’accredito in conto corrente delle somme erogate è sufficiente ad integrare la “datio rei” giuridica propria del mutuo e il loro impiego per l’estinzione del debito già esistente purga il patrimonio del mutuatario di una posta negativa. Con accenti diversi si era in precedenza osservato che l’utilizzo di somme da parte di un istituto di credito per ripianare la pregressa esposizione debitoria del correntista, con contestuale costituzione in favore della banca di una garanzia reale, costituisce un’operazione meramente contabile in dare ed avere sul conto corrente, non inquadrabile nel mutuo ipotecario, il quale presuppone sempre l’avvenuta consegna del denaro dal mutuante al mutuatario; tale operazione determina di regola gli effetti del “pactum de non petendo ad tempus”, restando modificato soltanto il termine per l’adempimento, senza alcuna novazione dell’originaria obbligazione del correntista (cfr. Sez. 1, n. 01517/2021, Dolmetta, Rv. 660370-01).

Sez. 1, n. 14321/2022, Nazzicone, Rv. 665085-01, ha osservato che nella prassi bancaria, a seconda di come le parti abbiano deciso di regolare i loro rapporti, il “conto anticipi” può costituire un conto separato e a sé stante rispetto ai conti correnti di corrispondenza intestati allo stesso cliente, ovvero connotarsi come un conto transitorio, normalmente non operativo, collegato agli altri conti dello stesso cliente, avente la funzione di dare evidenza contabile alle anticipazioni su crediti concesse e riportate nei conti correnti di corrispondenza mediante operazioni di giroconto. Nel primo caso, il saldo a debito del “conto anticipi” rappresenta effettivamente il capitale anticipato e non rimborsato, quale posizione giuridicamente distinta rispetto al saldo (a credito o a debito) degli altri conti dello stesso cliente. Nel secondo caso, invece, il saldo a debito del “conto anticipi” è giuridicamente inscindibile dal saldo dei conti correnti di corrispondenza, cui è collegato, poiché necessita della ricostruzione dei rapporti dare-avere risultanti da questi ultimi. Ne consegue che, quando è presente un “conto anticipi”, il giudice di merito, per determinare correttamente le somme a debito o a credito del correntista, deve prima accertare la natura di tale conto, procedendo a conteggiare separatamente il saldo in esso riportato solo nel caso in cui ne riscontri l’autonomia dagli altri conti.

Occupandosi di forma dei contratti bancari, Sez. 1, n. 00926/2022, Di Marzio, Rv. 663900-01, ha ritenuto che l’apertura di credito debba essere stipulata per iscritto a pena di nullità - a meno che non sia già prevista e disciplinata nel contratto di conto corrente, stipulato per iscritto, come stabilito dalla delibera C.I.C.R. del 4 marzo 2003, in applicazione dell’art. 117, comma 2, d.lgs. n. 385 del 1993 - non essendo pertanto sufficiente a provarne l’esistenza la circostanza che l’affidamento risulti dal “libro fidi”, né che il suo contenuto possa essere ricostruito attraverso l’esame del “regolamento di portafoglio”, destinato solo a raccogliere l’insieme delle procedure tecnico-operative per la gestione dei titoli.

Di rilievo, anche se pronunciata negli ultimissimi giorni dell’anno precedente a quello in rassegna, per i suoi risvolti in ambito fallimentare, Sez. 1, n. 42008/2021, Vannucci, Rv. 663619-02, secondo cui in tema di conto corrente bancario, ove il correntista e la banca abbiano pattuito l’anticipazione su crediti per ricevute con clausola di compensazione, l’incasso da parte della banca, anche nell’interesse del cliente, del danaro incorporato nelle ricevute bancarie consegnatele costituisce adempimento di un’obbligazione già sorta e determina la sola esigibilità del relativo credito verso la banca da parte del cliente. Pertanto, in caso di successivo fallimento di quest’ultimo, tra le operazioni di anticipazione di danaro avvenute prima della dichiarazione di fallimento e la riscossione dei crediti portati dalle suddette ricevute bancarie avvenute in epoca successiva sussistono i presupposti richiesti dall’art. 56 l.fall., per effetto della perdurante efficacia della clausola di compensazione fra i reciproci debiti restitutori, giacché il debito della banca è solo divenuto esigibile (da parte della curatela fallimentare) dopo la stessa dichiarazione di fallimento del correntista.

In tema di verifica circa l’applicazione di interessi usurari, Sez. 3, n. 07352/2022, Porreca, Rv. 664250-01, ha stabilito che ai fini del superamento del “tasso soglia” previsto dalla disciplina antiusura, non è possibile procedere alla sommatoria degli interessi moratori con la commissione di estinzione anticipata del finanziamento, non costituendo quest’ultima una remunerazione, a favore della banca, dipendente dalla durata dell’effettiva utilizzazione del denaro da parte del cliente, bensì un corrispettivo previsto per lo scioglimento anticipato degli impegni a quella connessi. In questo ambito, va ricordato anche Sez. 1, n. 14214/2022, Zuliani, Rv. 664963-01, alla cui stregua la disciplina antiusura si applica sia agli interessi corrispettivi (e ai costi posti a carico del debitore per il caso di regolare adempimento del contratto), sia agli interessi moratori (e ai costi posti a carico del medesimo debitore per il caso, e come conseguenza dell’inadempimento), ma non consente di utilizzare il cd. criterio della sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora, poiché gli interessi corrispettivi e quelli moratori si fondano su presupposti diversi e antitetici, essendo i primi previsti per il caso di (e fino al) regolare adempimento del contratto e i secondi per il caso di (e in conseguenza dell’) inadempimento del contratto (nel caso di specie il giudice di merito aveva invece operato detta sommatoria ed illegittimamente escluso, di conseguenza, ogni pretesa della banca dallo stato passivo del fallimento, in un giudizio di opposizione ex art. 98 l.fall.).

In una fattispecie peculiare, Sez. 3, n. 00096/2022, Cricenti, Rv. 663501-02, ha affermato in un caso di mutuo fondiario che l’esercizio, da parte dell’istituto di credito mutuante, della condizione risolutiva prevista dall’art. 15 del d.P.R. n. 7 del 1976 (applicabile “ratione temporis” alla fattispecie) nell’ipotesi di inadempimento del mutuatario, determina la risoluzione del rapporto di mutuo, con la conseguenza che il mutuatario deve provvedere, oltre che al pagamento integrale delle rate già scadute (non travolte dalla risoluzione, che non opera retroattivamente nei contratti di durata), alla immediata restituzione della quota di capitale ancora dovuta, ma non al pagamento degli interessi conglobati nelle rate a scadere, dovendosi calcolare, sul credito così determinato, gli interessi di mora ad un tasso corrispondente a quello contrattualmente pattuito, se superiore al tasso legale, secondo quanto previsto dall’art. 1224, comma 1, c.c.

Di particolare interesse, nel corso dell’anno, sempre in tema di mutuo fondiario – i cui obblighi restitutori vengono quasi sempre regolati attraverso un collegato rapporto di conto corrente – l’intervento nomofilattico delle Sezioni unite che, a composizione di un contrasto riguardante gli effetti del superamento del limite di finanziabilità rispetto al valore dell’immobile in garanzia, ha finito per delineare un quadro ricostruttivo del fenomeno largamente in linea con l’orientamento che il S.C. aveva sposato per lungo tempo sino ad alcune più recenti pronunce di segno diverso.

In particolare, Sez. U, n. 33719 del 16/11/2022, Lamorgese, Rv. 666194-02 e ha ritenuto che in tema di finanziamenti bancari, qualora la volontà dei contraenti - incontestata o comunque accertata dal giudice a seguito di contestazione - sia stata diretta alla stipula di un finanziamento corrispondente al modello legale del mutuo fondiario, non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto per neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo negoziale prescelto, riconducendolo a quello generale del mutuo ordinario o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità del negozio sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità che, implicitamente, postula proprio la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario. Conseguentemente, la stessa decisione (Rv. 666194-01) ha stabilito che il limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, non costituisce un elemento essenziale del contenuto del contratto di mutuo fondiario, non essendo la predetta norma determinativa del contenuto medesimo, né posta a presidio della validità del negozio, bensì un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto contrattuale, fissato dall’Autorità di vigilanza sul sistema bancario nell’ambito della c.d. “vigilanza prudenziale”, in forza di una norma di natura non imperativa, la cui violazione è, dunque, insuscettibile di determinare la nullità del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), considerato che tale conseguenza potrebbe altresì condurre al pregiudizio proprio di quell’interesse alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito che la disposizione mira a proteggere.

4. Intermediazione finanziaria.

Anche le tematiche relative all’intermediazione finanziaria ed alle responsabilità connesse, sono state più volte affrontate dal S.C. nel corso dell’anno in rassegna. In tema di forma e contenuto del contratto e di successione delle leggi nel tempo, Sez. 1, n. 21993 /2022, Falabella, Rv. 665241-01, ha precisato che le modifiche legislative succedutesi negli anni in ordine ai presupposti ed ai requisiti formali prescritti per il contratto quadro, in applicazione dell’ordinaria disciplina della successione delle leggi nel tempo, non caducano i contratti regolarmente stipulati nel vigore delle leggi precedenti; ne consegue che gli ordini di acquisto impartiti in esecuzione del contratto quadro concluso nella vigenza del vecchio assetto regolativo non sono per tale sola ragione da considerarsi nulli. Pertanto, in attuazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto validi gli ordini di acquisto impartiti nella vigenza del testo unico della finanza, d.lgs. n. 58 del 1998, ma sulla base di contratti quadro stipulati, ai sensi del d.lgs. n. 415 del 1996 e del reg. Consob n. 1093 del 1997, nonché della l. n. 1 del 1991.

In tema di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 32631/2022, Catallozzi, Rv. 666128-01, ha ritenuto che l’obbligo di acquisizione da parte dell’intermediario delle informazioni richieste dall’art. 28 Reg. Consob n. 11522 del 1998, al fine di determinare la profilatura di rischio dell’investitore e la valutazione di adeguatezza delle singole operazioni, deve essere adempiuto al momento della conclusione del contratto quadro, non potendo essere sostituito da informazioni disponibili provenienti da altri rapporti contrattuali, salvo il caso in cui l’investitore stesso si sia rifiutato di fornire le notizie richieste e tale rifiuto risulti dal contratto quadro ovvero da apposita dichiarazione scritta.

In tema di “inadeguatezza” dell’operazione, Sez. 1, n. 29616/2022, Caprioli, Rv. 665959-01, ha precisato che la banca, qualora abbia informato il cliente in ordine alla non adeguatezza di una determinata operazione di investimento, ricevendo nondimeno conferma per iscritto dell’ordine di eseguirla, non è gravata dall’obbligo di astenersi dal darvi corso, recedendo dal rapporto. Peraltro, Sez. 6-1, n. 27378/2022, Fidanzia, Rv. 665710-01, ha ritenuto che in caso di risoluzione del contratto di negoziazione di obbligazioni argentine, la mancata adesione all’offerta pubblica di scambio del governo argentino - pur determinando per il risparmiatore il mantenimento di titoli privi di valore, anziché la consegna in concambio di titoli aventi valore superiore - non rappresenta una condotta rimproverabile ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., posto che tale adesione comporta la novazione del rapporto preesistente, con conseguente sopravvenuta carenza di interesse rispetto alla domanda risolutoria della pregressa operazione di investimento; inoltre, la disciplina del fatto colposo del danneggiato si applica solo alle fattispecie relative al risarcimento del danno e non alle obbligazioni restitutorie conseguenti alla declaratoria di risoluzione contrattuale.

Sempre in tema di intermediazione finanziaria, si è osservato che la nullità della delega ad operare per conto dell’investitore esclude la ratificabilità degli atti compiuti per suo conto dal “falsus procurator”, essendo la ratifica ex art. 1399 c.c. limitata alle sole ipotesi previste dall’art. 1398 c.c., non comprensive di quella in cui l’atto non avrebbe potuto essere compiuto a mezzo di quel soggetto, in virtù di un divieto posto dagli artt. 31 e 166 d.lgs. n. 58 del 1998 non a tutela del soggetto privato, ma dell’interesse generale al corretto funzionamento del mercato finanziario (così Sez. 1, n. 24149/2022, Mercolino, Rv. 665529-01, in un caso in cui gli attori avevano dedotto di aver appreso soltanto in seguito che il convenuto non era dipendente o collaboratore dello studio di agenti di cambio cui si erano rivolti, ma si trattava di soggetto che svolgeva abusivamente l’attività d’intermediazione finanziaria).

Più in generale, anche con riferimento al tema dell’onere della prova, Sez. 1, n. 19891/2022, Catallozzi, Rv. 664975-01, ha ritenuto che grava sull’intermediario, ai sensi dell’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 58 del 1998, provare di aver agito con la specifica diligenza richiesta e, dunque, dimostrare di avere correttamente informato i clienti sulla natura, i rischi e le implicazioni della specifica operazione relativa ai titoli mobiliari oggetto di investimento, risultando irrilevante, al fine di andare esente da responsabilità, una valutazione di adeguatezza dell’operazione, posto che l’inosservanza dei doveri informativi da parte dell’intermediario è fattore di disorientamento dell’investitore, che condiziona le sue scelte di investimento (affermando tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva rigettato le domande dell’investitore sul rilievo che, all’epoca, l’investimento in bond argentini non presentava una particolare rischiosità, in quanto gli obblighi informativi devono essere assolti dall’intermediario indipendentemente dalla rischiosità dell’investimento).

Nella stessa linea di pensiero, anche Sez. 1, n. 14208/2022, Falabella, Rv. 664868-01, ha ritenuto che l’obbligo informativo a carico dell’intermediario sussista, anche al di fuori di una negoziazione diretta in contropartita, nel caso di negoziazione diretta per conto del cliente, rientrando tale operazione a pieno titolo tra “i servizi e attività di investimento” di cui all’art. 1, comma 5, lett. b) T.U.F. La violazione di tale obbligo non può ritenersi esclusa neanche in presenza di una segnalazione di non adeguatezza e di non appropriatezza, gravando sull’intermediario anche un autonomo obbligo di prestare all’investitore il corredo informativo relativo allo specifico strumento finanziario, evidenziandone le caratteristiche ed i rischi specifici (in tal modo la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto adempiuto l’obbligo informativo da parte della banca per il servizio di consulenza finanziaria prestata al cliente per l’acquisto di obbligazioni Lehman Brothers, sulla base della sottoscrizione da parte di questo di un ordine di acquisto nel quale era evidenziata la non adeguatezza dell’investimento, ritenendo che nella specie, trattandosi di operazione autonomamente richiesta dal cliente, non fosse dovuta alcuna valutazione sull’appropriatezza dell’investimento, né alcuna informazione sullo specifico prodotto finanziario).

Quanto ai requisiti di forma, Sez. 1, n. 01250/2022, Solaini, Rv. 663622-01, ha precisato che il requisito della forma scritta del contratto-quadro, previsto dall’art. 6, lett. c), della l. n. 1 del 1991 (“ratione temporis” applicabile), va inteso in senso non strutturale ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta dalla norma, sicché tale requisito deve ritenersi rispettato, a pena di nullità (c.d. di protezione), ancorché non prevista espressamente, ove il contratto sia redatto per iscritto ed è sufficiente che vi sia la sottoscrizione del cliente e non anche quella dell’intermediario, il cui consenso ben può desumersi alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti.

Sul finire dell’anno si segnalano due ulteriori interventi della S.C. Il primo è rappresentato da Sez. 1, n. 35787/2022, Campese, Rv. 666245-01, che si è occupata del fenomeno della sottoscrizione di investimenti in strumenti finanziari presso i singoli promotori di cui l’intermediario si avvale come propria rete di soggetti affiliati. Il tema si intrecciava con quello relativo alla “offerta fuori sede”, sostenendo il soggetto intermediario che anche i singoli ed autonomi uffici dei singoli promotori, ai detti fini, dovessero intendersi “propria sede”. La decisione del S.C. ha invece ribadito quanto già recentemente affermato da Sez. 1, n. 23569/2020, Falabella, Rv. 659238-01, secondo cui, per poter escludere l’applicabilità della disciplina relativa all’offerta fuori sede di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. TUF), nella vigenza del Reg. Consob n. 16190 del 2007, non è sufficiente che la promozione e il collocamento di strumenti finanziari si attuino in luogo di pertinenza del promotore finanziario, ma è necessario che tali attività si perfezionino presso la sede legale dell’intermediario autorizzato, ovvero presso una dipendenza dello stesso, per tale dovendosi intendere l’unità locale costituita da una stabile organizzazione di mezzi e di persone, aperta al pubblico, dotata di autonomia tecnica e decisionale, che presta in via continuativa servizi e attività di investimento.

Anche Sez. 1, n. 35789/2022, Campese, Rv. 666136-01 ha dapprima ripreso sul piano processuale quanto già affermato da Sez. 1, n. 03254/2018, Genovese, Rv. 646882-01 (secondo cui la modifica in sede di memoria, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 5 del 2003, della domanda di nullità del contratto di acquisto degli strumenti finanziari, in quella di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, in conseguenza delle difese proposte dal convenuto, di ogni genere e tipo, non determina una inammissibile “mutatio libelli” se la domanda così modificata riguardi pur sempre la medesima vicenda sostanziale dedotta in lite o sia ad essa collegata, perché, in tal modo non si determina né la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né un sostanziale allungamento dei tempi processuali di definizione della lite). Quindi (Rv. 666136-02) ha ribadito il principio per cui i doveri informativi che gravano sull’intermediario non vengono meno anche ove il cliente, dal punto di vista del profilo di investitore, manifesti una forte propensione al rischio.

5. La responsabilità della banca.

In termini generali, Sez. 6-3, n. 31453/2022, Spaziani, Rv. 666074-01, ha precisato che la banca risponde dei danni arrecati a terzi dai propri incaricati nello svolgimento delle incombenze loro affidate, quando il fatto illecito commesso sia connesso per occasionalità necessaria all’esercizio delle mansioni; la responsabilità dell’intermediario per i danni arrecati dai propri promotori finanziari è, tuttavia, esclusa ove il danneggiato ponga in essere una condotta agevolatrice che presenti connotati di anomalia, vale a dire, se non di collusione, quantomeno di consapevole acquiescenza alla violazione delle regole gravanti sul promotore, tra cui quella che vieta la corresponsione quest’ultimo di denaro in contanti da parte dell’investitore. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, a fronte del versamento al promotore finanziario di somme in contanti, non tracciabili, si era limitata a rimarcare la non eccessività degli importi corrisposti, trascurando di apprezzare le modalità della condotta e di esporre le ragioni per cui la stessa, ancorché interdetta da specifiche previsioni normative, non dovesse considerarsi anomala).

In tema di responsabilità per indebita segnalazione alla centrale rischi, Sez. 3, n. 13515/2022, Graziosi, Rv. 664639-01, ha invece ritenuto che il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., costituisca espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c. ed il suo esercizio rientri perciò nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della richiesta di parte, dando luogo ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, con l’unico limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, dovendosi, peraltro, intendere l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo. Tale pronuncia ha precisato che, in tali casi, non è, invero, consentita al giudice del merito una decisione di “non liquet”, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria; pertanto, la S.C. ha cassato la decisione del giudice d’appello che, pur avendo ritenuto raggiunta la prova dell’esistenza del danno alla reputazione personale e commerciale derivante da indebita segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia, non aveva provveduto alla sua liquidazione equitativa.

Al fine di delimitare l’ambito soggettivo dell’azione di ripetizione di indebito, Sez. 2, n. 19936/2022, Tedesco, Rv. 665008-01, ha ritenuto che l’art. 1189 c.c., in tema di pagamento al creditore apparente, è applicabile anche nell’ipotesi di pagamento delle somme depositate in conto corrente, effettuato dalla banca dopo la morte del correntista in favore di un soggetto non legittimato a riceverlo; conseguentemente l’azione accordata all’erede per la restituzione è quella disciplinata dall’art. 2033 c.c., che è esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento e non anche nei confronti di colui al quale la somma sia stata trasferita dall’accipiens dopo che egli l’abbia indebitamente riscossa dalla banca debitrice.

6. Titoli di credito.

Il tema è stato affrontato nell’anno in oggetto da diverse decisioni, spesso relative alla negoziazione dei titoli ed alla connessa responsabilità. Sez. 1, n. 32706/2022, Mercolino, Rv. 666130-01, ha ritenuto che in tema di responsabilità della banca per l’avvenuto pagamento di assegni falsificati non rileva la procedura di c.d. “check truncation”, la quale attiene esclusivamente ai rapporti tra le banche e non comporta modificazioni dell’ordinaria disciplina dei titoli di credito e del contratto di conto corrente, il che rende di per sé irrilevante la mancata informazione in favore del cliente, da parte della banca mandataria, in ordine all’avvenuta presentazione all’incasso di assegni non sottoposti a controllo.

Sez. 1, n. 27449/2022, Campese, Rv. 665883-01, ha invece ritenuto che in tema di assegno circolare, la clausola “salvo buon fine” o “salvo incasso” costituisce condizione sospensiva del trasferimento di proprietà delle somme portate dal titolo, in attesa che l’incarico conferito alla banca per la realizzazione del credito sia adempiuto con l’effettivo pagamento dell’importo, sicché qualora per l’avvenuto fallimento degli ordinatari la banca emittente non dia seguito al pagamento, la banca negoziatrice, nel restituire il titolo di credito al correntista, ha il diritto di eseguire un’operazione di storno, per il cui tramite l’ammontare indicato dall’assegno viene posto contabilmente a debito del cliente.

Si è invece occupata della posizione dell’avallante della cambiale Sez. 3, n. 18846/2022, Valle, Rv. 665123-01, secondo cui in ragione della letteralità e astrattezza della sua obbligazione, l’avallante cambiario non può opporre eccezioni attinenti al rapporto fondamentale tra debitore principale e creditore, e pertanto non è liberato dall’obbligazione di garanzia neppure nel caso di estinzione dell’obbligazione principale.

Sez. 2, n. 15580/2022, Bertuzzi, Rv. 664882-01, ha invece ritenuto che l’art. 1993 c.c., successivo alla legge cambiaria, che ha sostituito l’avverbio “scientemente” contenuto nell’art. 21 della legge predetta, con l’avverbio “intenzionalmente”, va inteso nel senso che, affinché possano opporsi al giratario le eccezioni derivanti dai rapporti extracartolari opponibili al girante, se non occorre la prova di una vera e propria collusione fra girante e giratario, è necessaria almeno la dimostrazione che l’acquisto del titolo sia stato fatto con il programma di danneggiare il debitore, cioè con il sicuro proposito di impedire a quest’ultimo le difese, privandolo delle eccezioni che avrebbe potuto opporre al portatore precedente e di arrecargli così un danno. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito nella parte in cui aveva, invece, ritenuto necessaria la sussistenza, in capo al giratario del titolo e al precedente possessore, del proposito comune di agire in danno del debitore, laddove, invece, la norma incentrava l’attenzione sulla condotta del possessore del titolo).

Fattispecie peculiare, che interseca problematiche di diritto fallimentare, è quella affrontata da Sez. 1, n. 15240/2022, Campese, Rv. 664769-01, secondo cui in tema di cambiale garantita da ipoteca, fra i soggetti che cumulano la veste di parti del rapporto cartolare e di parti del rapporto sottostante, in particolare tra emittente e primo prenditore del titolo cambiario, stante la presunzione “iuris tantum” di esistenza di un negozio sottostante, devono ritenersi virtualmente esercitate, in via contestuale, l’azione cambiaria e quella cd. causale, atteso che entrambe presentano sia identità di “petitum” che di “causa petendi”, ricollegandosi entrambe ad una vicenda giuridica sostanzialmente unitaria, con conseguente possibilità di proposizione, da parte del debitore, delle eccezioni di cui all’art. 1993 c.c.; ne deriva che la restituzione quietanzata delle cambiali, comporta l’estinzione dell’obbligazione causale e quindi della garanzia ipotecaria che a quest’ultima è collegata per accessorietà, senza che la successiva riconsegna delle medesime cambiali, a fronte di un nuovo debito dell’originario emittente, possa far rivivere l’ipoteca concessa rispetto ad un credito ormai estinto. (Affermando tale principio, la S.C. ha confermato in parte qua la decisione di merito che in sede di opposizione allo stato passivo aveva riconosciuto il credito dell’opponente con il rango chirografario, ritenendo essersi verificata con la prima restituzione quietanzata dei titoli l’estinzione tanto del rapporto fondamentale, come pure dell’accessoria garanzia ipotecaria, senza che quest’ultima, potesse a quel punto estendersi ad un nuovo credito a garanzia del quale erano state nuovamente restituite le stesse cambiali).

Sez. 3, n. 15141/2022, Guizzi, Rv. 664826-02, ha invece statuito che in tema di azioni cambiarie, l’onere di cui all’art. 66, comma 3, l. camb. (offerta del titolo in restituzione), gravante sul portatore della cambiale che esperisca l’azione causale prima della prescrizione di quella cambiaria, attiene alla sfera dei requisiti per l’esame della domanda nel merito in relazione ad esigenze di natura disponibile del debitore (che divengono attuali solo con la conclusione del giudizio sull’azione causale), con la conseguenza che la sua inosservanza, da parte del creditore, non risulta di ostacolo all’esame della domanda ove sopravvenga, in corso di causa, la prescrizione dell’azione cambiaria, che esonera il creditore procedente dall’assolvimento dell’onere predetto, giacché tale circostanza implica il venire meno del pericolo che il debitore sia tenuto a pagare due volte per lo stesso titolo. La medesima decisione (Rv. 664826-01) ha altresì precisato che in ipotesi di cessione di cambiali in luogo dell’adempimento, la volontà di conferire ai titoli efficacia “pro soluto”, con conseguente immediata estinzione dell’obbligazione di pagamento, deve essere espressa in modo univoco ed inequivocabile, mentre nel caso più comune di cessione “pro solvendo” l’estinzione dell’obbligazione originaria si verifica solo con la riscossione del credito verso il debitore cedente, con conseguente onere di quest’ultimo, in applicazione dell’art. 2697, comma 2, c.c., di provare non solo la cessione, ma anche l’intervenuta estinzione del debito.

Sempre in tema di azione cambiaria, Sez. 3, n. 07351/2022, Porreca, Rv. 664505-01, ha ritenuto che l’azione cambiaria diretta, promossa contro l’emittente del titolo, non presupponga il protesto, il quale ha la funzione di garantire l’esercizio del regresso al portatore del titolo.

Sez. 2, n. 14194/2022, Abete, Rv. 664683-01, ha invece precisato che in tema di cambiale, l’inclusione del credito per interessi nel titolo non esime dall’onere di provare per iscritto la convenzione relativa alla loro misura ultralegale, non valendo tale forma di rilascio, di per sé sola, a soddisfare l’obbligo della forma scritta richiesto dall’art. 1284 c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva desunto il tasso di interesse ultralegale dalla misura degli interessi inglobati nel pagamento tramite vaglia postale della prima rata della restituzione del mutuo).

Mentre in tema di assegno bancario, Sez. 6-1, n. 01202/2022, Falabella, Rv. 663543-01, ha ritenuto che il possessore di un assegno bancario in cui non figuri l’indicazione del prenditore oppure cui l’assegno sia stato girato dal primo prenditore o da ulteriori giratari, sia con girata piena che con girata in bianco, ha diritto al pagamento dello stesso in base alla sola presentazione del titolo, senza che, se presentato per il pagamento direttamente all’emittente, quest’ultimo possa pretendere che il titolo contenga anche la firma di girata di colui che ne chiede il pagamento, applicandosi a tali ipotesi la disciplina dei titoli al portatore; da notare che in applicazione di questo principio la S.C. ha cassato la decisione con cui la Corte d’appello di Potenza aveva respinto la domanda di pagamento proposta dal possessore di due assegni bancari allo stesso consegnati, previa girata in bianco, dal debitore.

Circa l’utilizzo dell’assegno bancario quale titolo esecutivo, si veda infine Sez. 6-3, n. 35192/2022, Rossetti, Rv.666424-01, che in una fattispecie non infrequente ha osservato come l’assegno bancario recante data successiva a quella della sua emissione (c.d. postdatato) possa valere come titolo esecutivo soltanto se in regola sin dall’origine con l’imposta di bollo; a tal fine, avendo l’assegno postdatato il valore di una promessa di pagamento ed una funzione equivalente a quella del vaglia cambiario, tale imposta deve essere applicata non in misura fissa, ma proporzionale al valore, così come previsto dall’art. 6 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 647 del 1972.

  • liquidazione di società
  • imprenditore
  • attività dell'impresa
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • fallimento

CAPITOLO XIX

IL DIRITTO DELLE PROCEDURE CONCORSUALI

(di Salvatore Leuzzi, Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti. - 1.1 Le società cancellate e l’estensione del fallimento. - 1.2 Il procedimento prefallimentare. - 1.3 I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto. - 2 Gli organi delle procedure concorsuali. - 2.1 I reclami endoconcorsuali. - 3 I pagamenti in costanza di fallimento e le azioni di inefficacia. - 3.1 Le azioni ex art. 66 l.fall. - 3.2 Le revocatorie fallimentari. - 4 I rapporti pendenti. - 5 La formazione dello stato passivo. - 6 La liquidazione dell’attivo. - 7 La chiusura del fallimento e l’esdebitazione. - 8 Il concordato fallimentare. - 9 Il concordato preventivo in generale. - 9.1 L’ammissione alla procedura e la sua revoca. - 9.2 L’omologa, le impugnazioni e l’esecuzione. - 10 La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. - 11 Il sovraindebitamento.

1. Il fallimento dell’imprenditore: i presupposti.

Come è noto, il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, entrato in vigore lo scorso 15 luglio 2022, ha abrogato la legge fallimentare e sostituito il fallimento con una procedura che ne riprende l’archetipo, denominata liquidazione giudiziale. Peraltro, la norma transitoria contenuta nell’art. 390 c.c.i. dispone che i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le proposte di concordato fallimentare, i ricorsi per l’omologazione degli accordi di ristrutturazione, per l’apertura del concordato preventivo, per l’accertamento dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa e le domande di accesso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento depositati prima dell’entrata in vigore del presente decreto siano definiti secondo le disposizioni della legge fallimentare e della l. n. 3/2012 e succ. mod. L’art. 121 del c.c.i., dal canto suo, conferma la linea di continuità fra liquidazione giudiziale e fallimento, stabilendo che “le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d), e che siano in stato di insolvenza”.

In attesa che l’applicazione delle disposizioni di nuovo conio giunga al vaglio della S.C., negli anni a venire, numerose sono state le decisioni che nel corso di quest’anno si sono occupate del fallimento e dei suoi presupposti.

Con riferimento al presupposto oggettivo, caratterizzato dallo stato di insolvenza, va in primo luogo ricordato che l’art. 5, comma 2, l.fall. lo individua, stabilendo che “lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. La stessa definizione è stata testualmente ripresa e, quindi, confermata dall’art. 2, comma 1, lett. b) del nuovo Codice, sì che l’elaborazione giurisprudenziale relativa al precetto ormai abrogato sembra destinata a mantenere la sua attualità nel nuovo sistema.

Sez. 1, n. 30284/2022, Vannucci, Rv. 665923-01, ha osservato che ai fini della dichiarazione di fallimento di una società non in liquidazione, l’accertamento dello stato di insolvenza è desumibile, più che dal rapporto tra attivo e passivo, dalla possibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato fronteggiando con mezzi ordinari le proprie obbligazioni, sicché i beni e i crediti che compongono il patrimonio sociale vanno considerati non solo per il loro valore contabile e di mercato, ma anche in rapporto all’attitudine ad essere adoperati per estinguere tempestivamente i debiti, senza compromissione – di regola – dell’operatività dell’impresa. (Nella specie è stata, fra l’altro, ritenuta irrilevante, al fine di escludere lo stato di dissesto dell’impresa, la circostanza che la stessa avesse in precedenza concluso un piano attestato di risanamento contenente un programma di vendite immobiliari inadempiuto).

Seguendo un indirizzo ormai consolidato, Sez. 1, n. 05856/2022, Terrusi, Rv. 664038-01, ha ritenuto che lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività, mentre resta in proposito irrilevante ogni indagine sull’imputabilità o meno all’imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all’impresa, così come sull’effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valere nei suoi confronti, i quali sono oggetto di valutazione incidentale. Ne consegue che del tutto legittimamente l’autorità giudiziaria ordinaria adita per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore insolvente a fronte di un ingente debito tributario provvede a tale dichiarazione, senza entrare nel merito delle pretese impositive e senza, pertanto, violare alcun principio in tema di riparto di giurisdizione tra G.O. e Commissioni tributarie.

In termini non dissimili anche Sez. 1, n. 07087/2022, Vella, Rv. 664119-01, ha ritenuto che lo stato di insolvenza delle società che non siano in liquidazione va desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall’impossibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d’impotenza strutturale (e non soltanto transitoria) a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell’attività.

Più recentemente, anche Sez. 1, n. 32280/2022, Amatore, Rv. 666226-01, ha ritenuto che lo stato di insolvenza delle società che siano inattive per aver concesso in affitto l’azienda a terzi, non determinando tale operazione di per sé la messa in liquidazione, vada desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall’impossibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduce in una situazione d’impotenza strutturale e non transitoria a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell’attività.

In ordine al presupposto soggettivo della procedura concorsuale maggiore, rappresentato tradizionalmente la qualità di imprenditore commerciale “sopra soglia” del debitore, nel corso del 2022 è pervenuta per la prima volta in Cassazione la problematica della fallibilità delle start up innovative. Sez. 1, n. 21152/2022, Vella, Rv. 665156-01, ha ritenuto, in proposito, che l’iscrizione di una società quale “start-up” innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese, in base all’autocertificazione del legale rappresentante circa il possesso dei requisiti formali e sostanziali ed alla successiva attestazione del loro mantenimento, ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 179 del 2012, convertito dalla l. n. 221 del 2012, non preclude la verifica giudiziale dei requisiti medesimi in sede prefallimentare, in quanto la suddetta iscrizione costituisce presupposto necessario ma non sufficiente per riconoscere la non assoggettabilità a fallimento, a norma dell’art. 31 del d.l. citato, essendo richiesto anche l’effettivo e concreto possesso dei requisiti di legge per l’attribuzione della qualifica di “start-up” innovativa.

La successiva Sez. 1, n. 23980/2022, Vella, Rv. 665526-01, ha ulteriormente precisato che il termine quinquennale di non assoggettabilità della “start up” innovativa a procedure concorsuali diverse da quelle previste dal capo II della l. n. 3 del 2012 e succ. mod., ai sensi dell’art. 31 del d.l. n. 179 del 2012, conv. dalla l. n. 221 del 2012, decorre dalla data di costituzione della società, e non dalla data di deposito della domanda e della autocertificazione del legale rappresentante circa il possesso dei prescritti requisiti formali e sostanziali, cui consegue l’iscrizione nella sezione speciale delle start up innovative presso il Registro delle imprese, a norma dell’art. 25 del citato decreto.

1.1. Le società cancellate e l’estensione del fallimento.

In termini generali, sui profili relativi alla cancellazione della società, decorrenza del termine annuale di cui all’art. 10 l.fall. e riflessi sulla legittimazione processuale nei giudizi pendenti, Sez. 5, n. 01689/2022, Triscari, Rv. 663658-01, ha ritenuto che il sopravvenuto fallimento della società estinta (nella specie, una s.r.l.) entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese non comporta il venire meno della soggettività passiva del socio di detta società e, quindi, della sua legittimazione processuale, considerato che egli è la “giusta parte” del processo instaurato avverso l’avviso di accertamento allo stesso correttamente notificato quale successore e che la previsione dell’art. 10 l.fall. non comporta una reviviscenza della medesima società.

Una fattispecie peculiare è stata trattata da Sez. 1, n. 06771 /2022, Mercolino, Rv. 664104-01, secondo cui la dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile resta assoggettata esclusivamente al termine previsto dal secondo comma dell’art. 147 l.fall., decorrente dall’iscrizione nel registro delle imprese di una vicenda, personale o societaria, che abbia determinato il venir meno della responsabilità illimitata, e tale disciplina trova applicazione anche al fallimento in estensione del socio accomandante di una società in accomandita semplice che, in quanto ingeritosi nella gestione, sia tenuto a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali

1.2. Il procedimento prefallimentare.

In tema di procedimento prefallimentare, una questione frequentemente trattata riguarda l’accertamento della qualità di creditore del ricorrente che richieda il fallimento del proprio debitore, trattandosi di verifica che ne segna la legittimazione attiva e, al tempo stesso, caratterizza la peculiarità dell’accertamento in sede prefallimentare rispetto ad un giudizio di cognizione volto all’accertamento ed alla possibile condanna al pagamento del medesimo credito.

Al riguardo, Sez. 1, n. 19477/2022, Pazzi, Rv. 665071-01, ha sottolineato che l’esistenza del credito del ricorrente, necessario ai fini della sua legittimazione, deve essere oggetto di una valutazione incidentale da parte del giudice che, non richiedendo un accertamento giudiziale e neppure l’esecutorietà del titolo, può in sede di reclamo avverso la sentenza di fallimento fondarsi anche sulle risultanze del processo di verificazione dei crediti, quali elementi dimostrativi dell’esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Sez. 1, n. 16853/2022, Mercolino, Rv. 664955-01, ha quindi precisato che in tema di dichiarazione di fallimento su ricorso del creditore, il tribunale è chiamato a verificare, in via incidentale, e compatibilmente con la sommarietà del procedimento, la sussistenza del credito dedotto a sostegno della domanda, e a tale fine è tenuto a prendere in esame non solo le allegazioni e le produzioni del creditore, ma anche i fatti rappresentati dal debitore, che valgano a dimostrare l’insussistenza dell’obbligazione addotta o la sua intervenuta estinzione; ne deriva che l’eccezione di nullità del titolo da cui scaturisce il credito posto a fondamento del ricorso, anche se è sollevata in sede di gravame, deve essere esaminata dal giudice, potendo la stessa incidere sulla legittimazione del ricorrente. Peraltro, la già citata Sez. 1, n. 05856/2022, Terrusi, Rv. 664038-01, ha al riguardo evidenziato che la natura incidentale della verifica del credito in sede prefallimentare, giustifica il fatto che, laddove tale valutazione riguardi debiti tributari, poiché il Tribunale non entra nel merito delle pretese impositive, ma compie la propria disamina ai fini della legittimazione del ricorrente o della valutazione dello stato di insolvenza, non si realizza alcuna violazione dei principi in tema di riparto di giurisdizione tra G.O. e Commissioni tributarie. Si ricollega alla natura incidentale della verifica sul credito dell’istante anche Sez. 1, n. 21089/2022, Abete, Rv. 665232-01, secondo cui non può rivestire portata pregiudicante, ai fini della sospensione ex art. 295 c.p.c., un giudizio tributario pendente, eventualmente concernente l’ipotesi di interposizione fittizia ex art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973. La S.C. ha conseguentemente rigettato il ricorso della società fallita, mirato a far valere come pregiudiziale la causa diretta ad accertare l’esistenza di un’interposizione fittizia di persona fra essa e un notaio, al cui esclusivo vantaggio l’ente avrebbe indirizzato la propria attività).

In tema di legittimazione attiva del Pubblico ministero, nella linea di una interpretazione estensiva dell’art. 7 l.fall. si pone certamente Sez. 1, n. 27670/2022, Nazzicone, Rv. 665884-01, secondo cui in tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento da parte del pubblico ministero, quest’ultimo può richiedere il fallimento, ai sensi dell’art. 7 l.fall., quando abbia appreso la “notitia decoctionis” nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, attingendola dalla relazione prevista dall’art. 33 l.fall. o ricavandola dagli atti relativi ad un procedimento penale per bancarotta, i quali possono essere legittimamente depositati per la prima volta anche in sede di reclamo ex art. 18 l.fall.

Più recentemente, Sez. 1, n. 31999/2022, Campese, Rv. 666003-01, ha ulteriormente precisato che la legittimazione attiva del P.M alla domanda di fallimento sussiste in tutti i casi in cui abbia appreso istituzionalmente una “notitia decoctionis”, a prescindere dalla circostanza che il tribunale competente per la dichiarazione di fallimento sia diverso da quello presso cui svolge le sue funzioni nei procedimenti penali, sicché non è necessaria la rinnovazione della detta richiesta da parte del P.M. che sia intervenuto all’udienza davanti al giudice competente.

Una fattispecie particolare di legittimazione a richiedere in proprio il fallimento è stata affrontata da Sez. 1, n. 24123/2022, Catallozzi, Rv. 665528-01, la quale ha ritenuto che al liquidatore di società di capitali, in quanto investito ex art. 2489, comma 1, c.c. del potere di compiere ogni atto utile ai relativi fini, spetta la legittimazione a proporre istanza di fallimento in proprio ai sensi dell’art. 6 l.fall., senza che rilevino in senso contrario le sue eventuali dimissioni dalla carica, trovando applicazione l’istituto della “prorogatio” dei poteri, previsto con riferimento alla carica di amministratore per le società di persone (artt. 2274 e 2293 c.c.) e la società per azioni (art. 2385 c.c.), ma espressione di un principio generale anche in assenza di specifiche disposizioni.

Sulla questione della sussistenza di giurisdizione in tema di dichiarazione di fallimento, Sez. U, n. 10860/2022, Stalla, Rv. 664484-01, ha ritenuto che in tema di istanza di fallimento nei confronti di una società che abbia trasferito all’estero la propria sede, l’art. 3, par. 1, del Reg. (CE) n. 1346 del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza, applicabile “ratione temporis”, conformemente a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE – ordinanza 24 maggio 2016, causa C-353/15 – deve essere interpretato nel senso che, qualora la sede statutaria di una società sia stata trasferita da uno Stato membro ad un altro Stato membro, il giudice, investito successivamente a detto trasferimento di una domanda di apertura di una procedura di insolvenza nello Stato membro di origine, può superare la presunzione di coincidenza del centro degli interessi principali (cd. COMI) con la nuova sede statutaria posta in altro Stato, benché in quello di origine la stessa non abbia mantenuto alcuna dipendenza, solo se da una valutazione globale di altri elementi obiettivi e riconoscibili dai terzi, si evinca che il centro effettivo di direzione e di controllo della società, nonché la gestione dei suoi interessi, continua a trovarsi in tale Stato a tale data.

Sui profili più squisitamente processuali del procedimento per la dichiarazione di fallimento, Sez. 1, n. 31353/2022, Abete, Rv. 665978-01, ha chiarito che in detto procedimento, il mancato rispetto del termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell’udienza (come previsto dalla nuova formulazione dell’art. 15, comma 3, l.fall.) e la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal presidente del tribunale, previste dall’art. 15, comma 5, l.fall., costituiscono cause di nullità astrattamente integranti la violazione del diritto di difesa, ma non determinano - ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell’atto - la nullità del decreto di convocazione se, il debitore, pur eccependo la nullità della notifica, abbia attivamente partecipato all’udienza, rendendo dichiarazioni in merito alle istanze di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile.

Sempre in tema di notificazione, Sez. 1, n. 07083/2022, Vella, Rv. 664117-01, ha puntualizzato che deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 15, comma 3, l.fall. (come sostituito dal d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012), nella parte in cui prevede la notificazione del ricorso alla persona giuridica tramite posta elettronica certificata (PEC) e non nelle forme ordinarie di cui all’art. 145 c.p.c. Invero, come già affermato da Corte costituzionale 16 giugno 2016, n. 146, la diversità delle fattispecie a confronto giustifica, in termini di ragionevolezza, la differente disciplina, essendo l’art. 145 c.p.c. esclusivamente finalizzato ad assicurare alla persona giuridica l’effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati, mentre la contestata disposizione si propone di coniugare la stessa finalità di tutela del medesimo diritto dell’imprenditore collettivo con le esigenze di celerità e speditezza proprie del procedimento concorsuale, caratterizzato da speciali e complessi interessi, anche di natura pubblica, idonei a rendere ragionevole ed adeguato un diverso meccanismo di garanzia di quel diritto, che tenga conto della violazione, da parte dell’imprenditore collettivo, degli obblighi, previsti per legge, di munirsi di un indirizzo di PEC e di tenerlo attivo durante la vita dell’impresa.

Sez. 6-1, n. 04030//2022, Di Marzio, Rv. 664216-01, si è invece posta in continuità con quanto già affermato da Sez. 6-1, n. 05311/2020, Falabella, Rv. 657226-01, secondo cui l’art. 15, comma 3, l.fall. (nel testo novellato dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 221 del 2012), nel prevedere che la notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento alla società può essere eseguita tramite PEC all’indirizzo della stessa e, in caso di esito negativo, presso la sua sede legale come risultante dal registro delle imprese, oppure, qualora neppure questa modalità sia andata a buon fine, mediante deposito dell’atto nella casa comunale della sede iscritta nel registro, introduce una disciplina speciale semplificata che esclude l’applicabilità della disciplina ordinaria prevista dall’art. 145 c.p.c. per le ipotesi di irreperibilità del destinatario della notifica.

In tale ottica, Sez. 1, n. 07258/2022, Fidanzia, Rv. 664522-01, ha così affermato che l’art. 15, comma 3, l.fall., come novellato dall’art. 17, comma 1, lett. a), del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, nel prevedere tre distinte, e fra loro subordinate, modalità di notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del correlato decreto di convocazione, non richiede, nel caso in cui la notifica a mezzo PEC non vada a buon fine, che l’ufficiale giudiziario che si è recato personalmente presso la sede dell’impresa e che, per qualsiasi ragione, non ha potuto ivi eseguire la notificazione, effettui ulteriori ricerche, al fine di accertare l’irreperibilità del destinatario, sicché, una volta attestata l’impossibilità di compimento della notifica presso la sede, la notificazione deve ritenersi correttamente eseguita e perfezionata con il deposito dell’atto presso la casa comunale.

Sez. 1, n. 05858/2022, Terrusi, Rv. 664039-01, ha invece precisato che ai sensi dell’art. 15 l.fall., se la notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore sia risultata impossibile o non abbia avuto esito positivo, l’onere della notificazione ricade definitivamente sul solo ricorrente, e va assolto nello specifico modo previsto dalla legge; sicché la rinnovazione della notificazione, che sia stata disposta dal giudice, deve essere effettuata a cura del ricorrente senza che debba essere preceduta da un nuovo tentativo di notificazione (a cura della cancelleria o di altri) all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore.

Sui profili probatori, Sez. 6-1, n. 35381/2022, Vella, Rv. 666292-01, ha osservato che il debitore può fornire la prova della non fallibilità ex art. 1, comma 2, l.fall., anche con strumenti probatori alternativi ai bilanci degli ultimi tre esercizi previsti dall’art. 15, comma 4, l.fall. – i quali non assurgono infatti a prova legale – avvalendosi delle scritture contabili dell’impresa, come di qualunque altro documento, formato da terzi o dalla parte stessa, suscettibile di fornire la rappresentazione storica dei fatti e dei dati economici e patrimoniali dell’impresa. (Nella specie, la S.C., ha ritenuto erronea l’affermazione dei giudici del reclamo tesa ad escludere ogni attendibilità dei documenti prodotti dal debitore, imprenditore individuale, solo perché di formazione unilaterale, senza alcuno specifico rilievo in termini di inattendibilità, incompletezza o artificio).

1.3. I reclami avverso la sentenza di fallimento e il decreto di rigetto.

Di attualità, rispetto a modelli e prassi processuali che durante la pandemia da Coronavirus, al fine di limitare le occasioni di contagio, hanno previsto la sostituzione della trattazione in udienza, in presenza, con lo scambio di memorie scritte, la recentissima Sez. 1, n. 31960/2022, Fraulini, Rv. 665990-01, secondo cui qualora il giudizio di reclamo sulla pronuncia di fallimento si sia svolto con le modalità della c.d. “trattazione cartolare” ex art. 83 d.l. n. 18 del 2020, conv. con modif. con l. n. 27 del 2020, esaurendosi nello scambio di note conclusive senza comparizione delle parti in udienza, la revoca della declaratoria di insolvenza è nulla qualora la valutazione del difetto dell’insolvenza sia stata basata su documenti prodotti con le note in parola, senza che sugli stessi sia stata assicurata al reclamante la possibilità di controdedurre, in ossequio al principio del contraddittorio.

Sempre in tema di reclamo ex art. 18 l.fall., oltre alla già citata Sez. 1, n. 27670/2022, Nazzicone, Rv. 665884-01, sulla possibilità di produrre in tale grado di giudizio documenti da cui desumere l’insolvenza (nel caso atti relativi ad una indagine per bancarotta), va ricordato che anche la citata Sez. 1, n. 19477/2022, Pazzi, Rv. 665071-01, si è posta nello stesso senso, con riferimento alla produzione delle risultanze della verifica del passivo nel frattempo espletata.

L’accoglimento del reclamo e la revoca del fallimento pongono sovente un tema di spese, sul quale è intervenuta Sez. 1, n. 00121/2022, Pazzi, Rv. 663768-01, affermando che il provvedimento del giudice delegato con il quale, a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento, viene determinata l’entità delle spese da porre a carico del creditore istante costituisce un atto sostanzialmente ricognitivo, regolante la fase di chiusura del procedimento, che può essere assimilato ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, impugnabile con l’opposizione agli atti esecutivi, per cui il relativo reclamo deve ritenersi parimenti sottratto alla sospensione feriale dei termini processuali.

2. Gli organi delle procedure concorsuali.

Sulla terzietà del curatore rispetto al fallito e sulla indisponibilità dei diritti della massa da parte dell’organo della procedura concorsuale si fonda, tradizionalmente, l’idea che al curatore non possa essere deferito l’interrogatorio formale né il giuramento decisorio. Tale orientamento è stato innovato da Sez. 1, n. 20602/2022, Di Marzio, Rv. 665229-01, la quale ha ritenuto che a fronte dell’insinuazione di un credito maturato in forza di un rapporto riconducibile alla previsione dell’art. 2956, n. 2, c.c., ove il curatore eccepisca la prescrizione presuntiva del credito e il creditore gli deferisca giuramento decisorio, la dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno costituisce mancato giuramento, dovendo egli subire le conseguenze dell’affermazione dell’estinzione del debito implicita nella sollevata eccezione di prescrizione presuntiva. Sul punto si segnala che con l’ordinanza interlocutoria 11 novembre 2022, n. 33400, la Prima sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza relativa alle conseguenze derivanti dalla proposizione, da parte del curatore, dell’eccezione di prescrizione presuntiva del credito professionale del legale che abbia proposto domanda di insinuazione allo stato passivo e, in particolare, se allo stesso curatore possa essere deferito il giuramento decisorio e, ove si escluda che possa riguardare un fatto del terzo fallito, se lo stesso debba invece qualificarsi come giuramento “de scientia” oppure “de notitia”, con l’ulteriore necessità, in tal caso, di individuare come debba essere valutata l’eventuale risposta del giurante di non essere a conoscenza dell’avvenuta estinzione del debito.

Sez. 1, n. 05129/2022, Ceniccola, Rv. 664025-01, ha ritenuto che è giustificata la mancata approvazione del conto della gestione, reso dal curatore fallimentare, in presenza di condotte anche solo potenzialmente produttive di danno per la massa dei creditori, risultando irrilevante che tale danno potenziale sia stato in concreto evitato dall’esperimento, da parte di un curatore subentrato, dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore della società fallita, trascurata dal curatore originario a causa di omesse verifiche o controlli irregolari.

Sul tema della liquidazione del compenso di più curatori succedutisi nella carica relativa alla stessa procedura fallimentare, Sez. 6-1, n. 30069/2022, Ferro, Rv. 665925-01, ha precisato che è indispensabile che, nel rispetto del principio del contraddittorio, sia assicurata la partecipazione al procedimento camerale a tutti coloro che hanno ricoperto l’incarico, palesandosi, altresì, imprescindibile che nella determinazione degli importi rispettivamente loro riconosciuti sia svolta un’espressa e dettagliata enunciazione dei criteri di quantificazione e ripartizione, avuto riguardo alle attività espletate e ai risultati conseguiti da ciascuno, dovendosi pervenire ad una liquidazione avente carattere riconoscibilmente individualizzato. Mentre in tema di impugnazione del provvedimento di liquidazione, Sez. 1, n. 07070/2022, Vannucci, Rv. 664114-01, ha ritenuto che il curatore fallimentare, anche se cessato dall’incarico e sostituito da un nuovo professionista, ove intenda impugnare per cassazione il provvedimento di liquidazione del compenso, deve previamente richiedere, a pena di inammissibilità del ricorso, al primo presidente della corte di cassazione - e non al giudice delegato - la nomina del curatore speciale del fallimento, nei cui confronti sussiste comunque un potenziale conflitto di interessi, atteso che il compenso del curatore fallimentare, da liquidare in ogni caso al termine della procedura (salvo acconti), è unico anche nel caso in cui si siano succeduti più professionisti nell’incarico.

In una fattispecie peculiare, Sez. 6-1, 35382/2022, Vella, Rv. 666704-01, ha ritenuto che in caso di omessa pronuncia su una domanda, qualora non ricorrano gli estremi di un assorbimento della questione pretermessa ovvero di un rigetto implicito, la parte ha la facoltà alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in un separato giudizio, poiché la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. ha valore meramente processuale e non anche sostanziale, sicché, riproposta la domanda in diverso giudizio, non è in tale sede opponibile la formazione del giudicato esterno. (con tale affermazione la S.C. ha accolto la prospettazione di un curatore fallimentare tesa a far constare l’autonomia della domanda di compenso rispetto alla domanda di rimborso delle spese anticipate e a rimarcare la facoltà dell’organo concorsuale di riproporre separatamente quest’ultima anziché impugnare ex art. 26 l.fall. il provvedimento del giudice delegato che aveva trascurato di pronunciarsi su di essa).

Sez. 5, n. 02847/2022, D’Aquino, Rv. 663763-01, ha invece precisato che il curatore fallimentare, in quanto detentore delle scritture contabili dell’impresa assoggettata a fallimento, ha l’onere di fornire informazioni all’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 in risposta a questionari, ancorché precedentemente inviati all’imprenditore “in bonis”, traendo tale onere fondamento nella disponibilità da parte del curatore delle indicate scritture, nonché in quello più generale di esibizione di quest’ultime a chi ne abbia diritto, salvo che il curatore o l’imprenditore “in bonis” dimostrino di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici, nel termine concesso, per causa a loro non imputabile.

Più in generale, Sez. 6-1, n. 35820/2022, Campese, Rv. 666295-01, ha osservato, nel solco di un tradizionale indirizzo, che il decreto, di conferma o di riforma, emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo avverso il provvedimento di revoca del curatore fallimentare, non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, non venendo in rilievo in capo al curatore una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e connotandosi la revoca alla stregua di atto di amministrazione interno alla procedura, di natura meramente ordinatoria.

Nel sottolineare la tendenziale terzietà del curatore rispetto al debitore fallito, Sez. 1. n. 33728/2022, Pazzi, Rv. 666236-01, ha disposto che l’art. 2710 c.c., che conferisce efficacia probatoria tra imprenditori, per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, ai libri regolarmente tenuti, non trova applicazione nei confronti del curatore del fallimento il quale agisca non in via di successione di un rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione di gestione del patrimonio del medesimo, non potendo egli, in tale sua veste, essere annoverato tra i soggetti considerati dalla norma in questione, operante soltanto tra imprenditori che assumano la qualità di controparti nei rapporti d’impresa.

2.1. I reclami endoconcorsuali.

Il tema è stato affrontato da Sez. 1, n. 08008/2022, Vannucci, Rv. 664206-01, per la quale il provvedimento del tribunale che autorizza lo scioglimento di un contratto pendente, ai sensi dell’art. 169 bis l.fall. (nel testo vigente prima delle modifiche di cui al d.l. n. 83 del 2015, ratione temporis applicabile), anche se contenuto nel decreto con il quale ammette la società ricorrente alla procedura di concordato preventivo, è reclamabile alla Corte d’appello, ex art. 26 l.fall., non valendo in contrario quanto disposto dall’art. 164 l.fall., che nel fare riferimento al reclamo nei confronti dei decreti del giudice delegato, non esclude la generale reclamabilità dei decreti autorizzatori adottati dal tribunale.

La già citata Sez. 1, n. 00121/2022, Pazzi, Rv. 663768-01, occupandosi di questione peculiare, ha ritenuto che il provvedimento del giudice delegato con il quale, a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento, viene determinata l’entità delle spese da porre a carico del creditore istante costituisce un atto sostanzialmente ricognitivo, regolante la fase di chiusura del procedimento, che può essere assimilato ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, impugnabile con l’opposizione agli atti esecutivi; pertanto, anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 36 bis l.fall., il giudizio di reclamo contro la menzionata statuizione del giudice delegato, assumendo una funzione sostitutiva dell’opposizione ex art. 617 c.p.c., deve ritenersi sottratto, come quest’ultima, alla sospensione feriale dei termini processuali.

Si è inoltre riaffermato, nel corso dell’anno, la natura di rimedio generale del reclamo ex art. 26 l.fall., nei confronti dei provvedimenti del giudice delegato, stabilendosi che il provvedimento adottato dal giudice delegato ai sensi dell’art. 80, comma 3, l.fall. (nella versione successiva alla riforma ex d.lgs. n. 5 del 2006), al fine di determinare, nel dissenso tra le parti, la misura dell’equo indennizzo per l’anticipato recesso del curatore dal contratto di locazione, è impugnabile, in mancanza di una previsione “ad hoc”, con il reclamo ex art. 26 l.fall., in quanto mezzo ordinario di impugnazione dei decreti del giudice delegato quando “non sia diversamente disposto” (così, Sez. 1, n. 26574/2022, Rv. 665541-01).

Sez. 1, n. 19889/2022, Zuliani, Rv. 665221-01, ha invece precisato che non è ammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale di approvazione del rendiconto del curatore, perché avverso tale provvedimento è esperibile il reclamo alla corte d’appello ai sensi dell’art. 26 l.fall. Sempre su questa tematica, anche Sez. 1, n. 33878/2022, Vella, Rv. 666239-01, ha affermato che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione proposto ex art. 111 Cost. contro il decreto del tribunale fallimentare, emesso in sede di reclamo ex art. 26 l.fall., confermativo del diniego di autorizzazione al curatore a promuovere un’azione civile, in quanto tale provvedimento ha natura ordinatoria ed esaurisce i suoi effetti all’interno del fallimento (quale condizione per il successivo agire in contenzioso del curatore), risultando espressione di quei poteri amministrativi (di direzione, sorveglianza del procedimento ed autorizzazione) che l’art. 25, comma 1, l.fall. attribuisce al giudice.

Sulle interferenze fra reclamo endoconcorsuale e giudizio di omologazione del concordato fallimentare, Sez. 1, n. 19707/2022, Amatore, Rv. 664974-01, ha ritenuto che il creditore che abbia avanzato una propria proposta e che, avendo ricevuto il parere negativo del comitato dei creditori ed il diniego di ammissione al voto dal giudice delegato, non abbia immediatamente reclamato tali atti, difetta di interesse a proporre opposizione alla omologazione di una diversa proposta di concordato fallimentare, in quanto non riveste posizione di proponente concorrente, diversamente dal caso in cui anche la sua proposta fosse stata ammessa al voto e risultasse perciò concretamente pregiudicato dall’omologazione della proposta preferita, considerato altresì che la nozione di “qualsiasi altro interessato”, di cui all’art. 129, comma 2, l.fall., non può estendersi sino al punto da ricomprendere qualunque terzo contrario alla omologazione, ma privo di un interesse giuridicamente tutelato ad opporvisi.

3. I pagamenti in costanza di fallimento e le azioni di inefficacia.

Il tema dei pagamenti in costanza di fallimento viene generalmente ricondotto all’art. 44 l.fall. che, imponendo lo “spossessamento” del fallito, afferma che “tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori. Sono egualmente inefficaci i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento”.

Sulla scorta di tale principio, affrontando una fattispecie di una certa rilevanza, in tema di interferenze fra procedura fallimentare e procedure esecutive (in questo caso presso terzi), Sez. 1, n. 00621/2022, Mercolino, Rv. 663685-01, ha ritenuto che il soggetto pignorato che, in sede di espropriazione presso terzi, e dopo la dichiarazione di fallimento del debitore esecutato, in qualità di “debitor debitoris”, versi al creditore pignorante le somme a lui assegnate, ha diritto a ottenere da quest’ultimo la restituzione di quanto corrisposto, ma il termine di prescrizione della relativa azione decorre dalla data del pagamento, e non dal passaggio in giudicato della sentenza che, su domanda del curatore, pronunci l’inefficacia ex art. 44 l.fall. del pagamento stesso, avendo quest’ultima natura meramente dichiarativa.

3.1. Le azioni ex art. 66 l.fall.

Ponendosi in continuità con quanto affermato da Sez. U, n. 12476/2020, Terrusi, Rv. 658004-01, la recente Sez. 3, n. 34391/2022, Rossi, Rv. 666155-01 ha ritenuto che in presenza di un’azione revocatoria, promossa ai sensi dell’art. 66 l.fall. da una curatela fallimentare ed avente ad oggetto un atto dispositivo compiuto da un debitore del fallito, la dichiarazione di fallimento di detto debitore, convenuto in revocatoria, sopravvenuta “lite pendente” non incide “ex se” sull’ulteriore corso del processo, salvo che la curatela del convenuto fallito non subentri nell’azione revocatoria in forza della legittimazione riconosciutale dall’art. 66 l.fall. nell’interesse della massa creditoria; in tal caso la domanda revocatoria originariamente proposta diviene improcedibile per il venir meno della legittimazione e dell’interesse ad agire della originaria curatela attrice, le cui esigenze di tutela possono trovare soddisfazione soltanto per equivalente pecuniario, mediante insinuazione al passivo del debitore fallito.

Affrontando un profilo di competenza, Sez. 6-1, n. 35529/2022, Catallozzi, Rv. 666705-01, ha sostenuto che in tema di azione revocatoria ex art. 2901 c.c., a seguito del fallimento del debitore originariamente “in bonis”, il curatore è legittimato a proseguire il giudizio già intrapreso dal singolo creditore, subentrando nella posizione processuale di quest’ultimo, senza che l’iniziativa dell’organo concorsuale – quand’anche si verifichi nelle more della riassunzione del processo dinanzi al giudice di primo grado, a seguito di remissione in suo favore operata ex art. 354 c.p.c. in grado d’appello – dia luogo all’esercizio di una nuova azione e all’instaurazione di un diverso giudizio, non mutando, invero, le condizioni dell’azione e venendo assorbita alla massa l’esigenza di tutela della posizione del creditore individuale. Ne consegue l’insuscettibilità della vicenda a determinare lo spostamento della competenza sul giudizio in corso in capo al giudice fallimentare, operando il principio generale della “perpetuatio jurisdictionis” ex art. 5 c.p.c., non derogato dall’art. 66, comma 2, l.fall., norma riferibile alle sole cause promosse “ex novo” dal curatore.

3.2. Le revocatorie fallimentari.

Nel corso dell’anno in rassegna si deve in primo luogo menzionare l’intervento delle Sezioni unite che hanno ribadito la tesi secondo cui nella revocatoria fallimentare il presupposto dell’“eventus damni” deve considerarsi “in re ipsa”, consistendo nella lesione della “par condicio creditorum” ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, in virtù della natura distributiva ed anti-indennitaria di tale azione. Più in particolare, Sez. U, n. 05049/2022, Acierno, Rv. 663853-01, ha chiarito che il pagamento eseguito dal debitore successivamente fallito, nel periodo sospetto, così come determinato ex art. 67, comma 2, l.fall., ove si accerti la “scientia decoctionis” del creditore, è sempre revocabile anche se effettuato in adempimento di un credito assistito da garanzia reale ed anche se l’importo versato deriva dalla vendita del bene oggetto di pegno. La stessa decisione ha precisato (Rv. 663853-02) che la revoca ex art. 67 l.fall. del pagamento eseguito in favore del creditore pignoratizio, con il ricavato della vendita del bene oggetto del pegno, determina il diritto del creditore che ha subito la revocatoria ad insinuarsi al passivo del fallimento con il medesimo privilegio, nel rispetto delle regole distributive di cui agli artt. 111, 111-bis, 111-ter e 111-quater l.fall.

Sul tema della prova dell’elemento soggettivo del terzo attinto dall’azione revocatoria fallimentare, invece, Sez. 1, n. 27070/2022, Mercolino, Rv. 665879-01, ha ritenuto che in tema di azione revocatoria dei pagamenti ex art. 67, comma 2, l.fall., il curatore può offrire la prova della effettiva conoscenza dello stato d’insolvenza da parte del terzo anche mediante presunzioni, spettando al giudice selezionare analiticamente gli elementi indiziari provvisti di potenziale efficacia probatoria, per poi sottoporli a una valutazione complessiva che fornisca la certezza logica del menzionato stato soggettivo, da ritenersi sussistente non quando sia provata la conoscenza dello stato di decozione dell’impresa da parte di quello specifico creditore, né quando tale conoscenza possa ravvisarsi con riferimento ad una figura di contraente astratto, ma quando la probabilità della “scientia decoctionis” trovi il suo fondamento nei presupposti e nelle condizioni (economiche, sociali, organizzative, topografiche, culturali) nelle quali il terzo si sia concretamente trovato ad operare.

Sez. 1, n. 16914/2022, Amatore, Rv. 664946-01, ha precisato che in tema di revocatoria fallimentare della compravendita stipulata in adempimento di contratto preliminare, l’accertamento dei relativi presupposti va compiuto con riferimento alla data del contratto definitivo, in quanto l’art. 67 l.fall. ricollega la consapevolezza dell’insolvenza al momento in cui il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia dei creditori, rendendo irrilevante lo stato soggettivo al tempo del preliminare (salvo che ne sia provato il carattere fraudolento), tenuto anche conto che, qualora al momento della stipula del contratto definitivo si presenti il pericolo di revoca dell’acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore, il promissario acquirente ha comunque la facoltà di non concludere il contratto di compravendita, invocando il disposto dell’art. 1461 c.c.

In tema di legittimazione attiva, invece, Sez. 3, n. 03771/2022, Cirillo, Rv. 663777-01, ha ritenuto che la legittimazione all’esercizio dell’azione revocatoria di atti di disposizione patrimoniale compiuti a titolo personale dal socio illimitatamente responsabile compete anche al curatore del fallimento della società, poiché l’effetto recuperatorio utilmente perseguito va a vantaggio dell’intero ceto creditorio e non dei soli creditori personali di detto socio.

Quanto al presupposto oggettivo dell’eventus damni, la S.C. ha mantenuto l’orientamento tradizionale che ne semplifica la prova in materia di revocatoria fallimentare: oltre alla già citata decisione delle S.U. n. 5049/2022, anche Sez. 1, n. 02218/2022, Vella, Rv. 663950-01, in tema di revoca della vendita di propri beni effettuata dall’imprenditore, poi fallito entro un anno, ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.fall. (nel testo originario, applicabile “ratione temporis”), ha ritenuto che l’“eventus damni” debba ritenersi “in re ipsa”, consistendo nel fatto stesso della lesione della “par condicio creditorum”, ricollegabile, per presunzione legale assoluta, all’uscita del bene dalla massa conseguente all’atto di disposizione; la stessa decisione ha pertanto aggiunto che grava sul curatore il solo onere di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell’acquirente, mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia stato utilizzato dall’imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato (eventualmente anche garantito, come nella specie, da ipoteca fondiaria gravante sull’immobile compravenduto) non esclude la possibile lesione della “par condicio”, né fa venir meno l’interesse all’azione da parte del curatore, poiché è solo in seguito alla ripartizione dell’attivo che potrà verificarsi se quel pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che successivamente all’esercizio dell’azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi.

Sez. 1, n. 05495/2022, Pazzi, Rv. 664027-01, ha quindi ritenuto che in tema di fallimento, l’obbligazione accessoria di rimborso dei frutti indebitamente percepiti, che grava sull’accipiens rimasto soccombente rispetto alla domanda revocatoria ex art. 67 l.fall. svolta nei suoi confronti, ha natura di debito di valuta e non di valore.

Per Sez. 1, n. 27074/2022, Mercolino, Rv. 665880-01, secondo cui non è suscettibile di revoca la rimessa effettuata nel conto corrente del debitore, poi fallito, da parte del terzo datore di pegno con denaro proveniente dalla vendita di beni costituiti in garanzia, ove quest’ultimo non abbia esercitato la rivalsa prima dell’apertura del concorso, poiché - a differenza di quanto accade nel caso in cui la rimessa riguardi il ricavato della vendita di beni dati in pegno dallo stesso debitore - tale atto non lede la “par condicio creditorum”, trattandosi di un pagamento che, in quanto eseguito dal terzo in adempimento di una propria obbligazione e mediante l’utilizzazione di denaro proprio, non spiega alcuna incidenza sul patrimonio del fallito. Sez. 1, n. 23612/2022, Catallozzi, Rv. 665370-01, ha invece precisato che la deduzione del convenuto avente ad oggetto la non revocabilità delle rimesse effettuate da un terzo garante sul conto corrente bancario dell’imprenditore, poi fallito, risolvendosi nell’allegazione di un fatto modificativo dell’effetto giuridico postulato dall’attore, costituisce un’eccezione in senso proprio e non una mera difesa e, pertanto, può essere utilmente avanzata solo dalla parte, purché in epoca antecedente allo spirare del termine per la definizione del “thema decidendum”.

Sez. 6-1, n. 21585/2022, Terrusi, Rv. 665248-01, ha rilevato che deve ritenersi assoggettabile a revocatoria fallimentare ex art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., in quanto anomalo, il pagamento di un debito scaduto ed esigibile effettuato nel contesto di una delegazione in virtù della quale il delegato paghi con un proprio assegno al soggetto indicato dal proprio creditore, in tal guisa estinguendo anche il debito di questi verso il terzo.

Ancora sulla distinzione fra pagamenti normali ed “anormali” (sulla cui distinzione si innesta, come noto, il diverso regime dell’azione revocatoria prevista dal primo comma dell’art. 67 l.fall. rispetto al secondo comma della stessa disposizione) Sez. 1, n. 14316/2022, Mercolino, Rv. 664964-01, ha invece ritenuto che costituisce mezzo anomalo di pagamento, revocabile ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2), l.fall., il pagamento dei debiti del fallito eseguito dal delegato con denaro proprio a condizione che quest’ultimo abbia proceduto al recupero prima dell’apertura del fallimento, verificandosi ugualmente, come nel caso in cui la provvista sia anticipatamente fornita dal delegante, un depauperamento del patrimonio del fallito in violazione della regola della “par condicio creditorum”.

Sulle esenzioni da revocatoria, Sez. 1, n. 16773/2022, Terrusi, Rv. 664944-01, ha precisato che l’esenzione dalla revocatoria, disposta dall’art. 1, comma 3, d.l. n. 80 del 2008 (conv. con modif. in l. n. 11 del 2008), attiene a qualunque pagamento eseguito da Alitalia-Lai s.p.a. dall’entrata in vigore del menzionato d.l. fino al termine indicato nel secondo comma dello stesso articolo, e non riguarda i soli pagamenti che risultino funzionali alla continuità aziendale, poiché l’esenzione opera come se la compagnia aerea fosse soggetta a un piano attestato di risanamento (che però non esiste) e ogni pagamento, effettuato nell’arco di tempo indicato, è considerato equivalente a quelli che, nelle condizioni di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.fall., sarebbero esenti, perché posti in essere in attuazione di detto piano. Mentre la quasi coeva Sez. 1, n. 16652/2022, Terrusi, Rv. 664943-01, ha ritenuto che l’art. 1, comma 3, d.l. n. 80 del 2008 (conv. con modif. in l. n. 111 del 2008), nella parte in cui prevede l’esenzione dalla revocatoria fallimentare di qualunque pagamento eseguito da Alitalia-Lai s.p.a. a far data dall’entrata in vigore del menzionato d.l. e fino al termine indicato nel secondo comma dello stesso articolo, non presenta profili di incostituzionalità per arbitrarietà ed irragionevolezza, poiché tale esenzione si coniuga con l’esigenza di mantenere inalterato il contesto dell’intervento a sostegno del servizio pubblico di aerotrasporto nazionale, operato mediante l’erogazione di un consistente prestito-ponte nella dichiarata prospettiva della continuità aziendale, dal legislatore ritenuta in grado di realizzare l’obiettivo del risanamento, così giustificando in modo plausibile la disomogeneità di trattamento tra creditori, a seconda che abbiano, o meno, ricevuto i pagamenti nel periodo in cui detto intervento è ancora in corso.

Sez. 6-1, n. 13367/2022, Vella, Rv. 664779-01, ha inoltre affermato che ove vi sia stata ammissione al concordato preventivo seguita da revoca e dichiarazione di fallimento, rientrano nell’esenzione dalla revocatoria di cui all’art. 67, comma 3, lett. g), l.fall. anche i pagamenti di crediti liquidi ed esigibili eseguiti “dopo la scadenza” per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alla procedura concordataria, poiché l’espressione “alla scadenza”, contenuta nella norma, deve intendersi come un semplice rafforzativo del presupposto della liquidità ed esigibilità di tali crediti.

4. I rapporti pendenti.

La già citata – a proposito di reclami endofallimentari - Sez. 1, n. 26574/2022, Rv. 665541-01, ha ritenuto che in tema rapporti pendenti nel fallimento, il provvedimento adottato dal giudice delegato ai sensi dell’art. 80, comma 3, l.fall. (nella versione successiva alla riforma ex d.lgs. n. 5 del 2006), al fine di determinare, nel dissenso tra le parti, la misura dell’equo indennizzo per l’anticipato recesso del curatore dal contratto di locazione, è impugnabile, in mancanza di una previsione “ad hoc”, con il reclamo ex art. 26 l.fall., in quanto mezzo ordinario di impugnazione dei decreti del giudice delegato quando “non sia diversamente disposto”.

Sez. 1, n. 18289/2022, Catallozzi, Rv. 665299-01, ha invece precisato che la protrazione della detenzione del bene da parte della curatela, ancorché il contratto di affitto del complesso aziendale sia cessato in data antecedente alla dichiarazione di fallimento, costituisce fonte di responsabilità extracontrattuale verso la concedente e il relativo credito risarcitorio, commisurato all’entità dei canoni convenuti, va riconosciuto in prededuzione ex art. 111, n. 1, l.fall.

In tema di appalto pubblico e mandato, Sez. 1, n. 23522/2022, Vella, Rv. 665246-01, ha ritenuto che il pagamento diretto del subappaltatore ex art. 118, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006, attiene al solo appalto in corso con un’impresa “in bonis”, non essendo, di contro, compatibile con l’ipotesi in cui, a seguito della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, si realizza “ipso iure”, ai sensi degli artt. 81 l.fall. e 140, comma 1, del citato decreto, lo scioglimento del contratto, fattispecie idonea a travolgere anche l’eventuale patto successivo e accessorio mirato a rimodulare il programma negoziale, ancorché il patto in parola configuri un mandato in “rem propriam”. Nel medesimo senso anche Sez. 1, n. 23447/2022, Vella, Rv. 665245-01, secondo cui il pagamento diretto del subappaltatore ex art. 118, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006, attiene al solo appalto in corso con un’impresa “in bonis”, non essendo, di contro, compatibile con l’ipotesi in cui, a seguito della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, si realizza “ipso iure”, ai sensi degli artt. 81 l.fall., lo scioglimento del contratto, con il correlato venir meno della vincolatività delle clausole in esso contenute, compresa quella eventualmente pattuita proprio in funzione del pagamento anzidetto.

Sez. 1, n. 07260/2022, Lamorgese, Rv. 664541-01, ha ritenuto che nei procedimenti espropriativi per l’esecuzione di opere pubbliche demandate all’ente concessionario in regime di concessione traslativa (nella specie, ai sensi dell’art. 42 l.r. siciliana n. 21 del 1985, “ratione temporis” applicabile, in materia di esecuzione dei lavori pubblici in Sicilia), il fallimento del concessionario delegato al compimento delle espropriazioni e all’esecuzione dell’opera costituisce evento impeditivo alla prosecuzione del rapporto concessorio e determina – di regola – lo scioglimento del rapporto contrattuale con l’amministrazione committente, sulla quale si trasferiscono sia le obbligazioni inerenti al pagamento delle somme dovute dal concessionario, a titolo indennitario e risarcitorio, in favore dei proprietari espropriati, sia di conseguenza la relativa legittimazione passiva nelle controversie promosse da questi ultimi, essendo l’ente pubblico beneficiario dell’opera realizzata per finalità di interesse generale.

In tema di rapporto processuali pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, dopo le precisazioni compiute dalla nota Sez. U., n. 12154/2021, Ferro, Rv. 661210-01, secondo cui l’interruzione del processo è automatica ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l.fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario, Sez. 1, n. 07076/2022, Lamorgese, Rv. 664116-01, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento di una delle parti che si sia verificata dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni e la scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e le repliche non produce alcun effetto ai fini della interruzione del processo, sicché il giudizio prosegue tra le parti originarie e la sentenza pronunciata nei confronti della parte successivamente fallita non è nulla, né “inutiliter data”, bensì inopponibile alla massa dei creditori, rispetto ai quali costituisce “res inter alios acta”.

5. La formazione dello stato passivo.

La tematica della formazione dello stato passivo ha rappresentato, anche nel corso del corrente anno, un importante banco di prova per numerose pronunce della S.C.

In relazione ai profili processuali del rito disciplinato dal Capo V del Titolo II della legge fallimentare, Sez. 6-1, n. 27113/2022, Mercolino, Rv. 665707-01, ha affermato che qualora in sede di verificazione del passivo sia stata accolta dal giudice delegato un’eccezione in senso stretto, quale quella di prescrizione, della stessa non è precluso il riesame nel successivo giudizio di opposizione, quand’anche il curatore rimanga in esso contumace, non avendo quest’ultimo l’onere di riproporla in tale sede. Sez. 1, n. 32750/2022, Campese, Rv. 666131-01, a sua volta, ha precisato che il procedimento di opposizione allo stato passivo è un giudizio di carattere impugnatorio e, come tale, in difetto di una previsione espressa nell’art. 99 l.fall. che integralmente lo disciplina, non consente né l’introduzione di domande nuove, né la cd. “emendatio libelli”, le quali vanificherebbero, d’altronde, l’obiettivo di semplificazione e celerità perseguito dal procedimento in parola nel rispetto dell’art. 24 Cost. Sul tema anche Sez. 1, n. 06279/2022, M. Di Marzio, Rv. 664043-01, per la quale, invece, nell’ambito del procedimento di opposizione allo stato passivo, sono inammissibili domande dell’opponente nuove rispetto a quelle spiegate nella precedente fase, non applicandosi il principio, proprio del giudizio di primo grado, secondo cui entro il primo termine di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., è consentita la “mutatio” di uno o entrambi gli elementi oggettivi della domanda, petitum e causa petendi, sempre che essa, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio; il procedimento di opposizione allo stato passivo ha infatti natura impugnatoria, è disciplinato specificamente dall’art. 99 l.fall. e si coordina necessariamente con quanto previsto dall’art. 101 l.fall., non consentendo perciò l’applicazione, neppure analogica, dei principi espressi in tema di opposizione a decreto ingiuntivo. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato il decreto del tribunale che aveva ritenuto di ammettere il credito dell’opponente sulla base di una domanda subordinata di arricchimento indebito, ex art. 2041 c.c., proposta per la prima volta in sede di opposizione allo stato passivo.)

Ponendosi in consapevole dissenso rispetto al diverso e più risalente indirizzo, Sez. 1, n. 20602/2022, Di Marzio, Rv. 665229-01, ha precisato che in tema di accertamento del passivo fallimentare, a fronte dell’insinuazione di un credito maturato in forza di un rapporto riconducibile alla previsione dell’art. 2956, n. 2, c.c., ove il curatore eccepisca la prescrizione presuntiva del credito e il creditore gli deferisca giuramento decisorio, la dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno costituisce mancato giuramento, dovendo egli subire le conseguenze dell’affermazione dell’estinzione del debito implicita nella sollevata eccezione di prescrizione presuntiva. Proprio tale affermazione ha aperto la via della rimessione alle S.U. della questione, avvenuta con l’ordinanza interlocutoria n. 33400/2022, secondo cui il massimo organo di nomofilachia dovrà stabilire i) se, nell’ambito del giudizio di accertamento del passivo fallimentare, il curatore fallimentare sia legittimato a opporre la prescrizione presuntiva, tenuto conto della correlazione posta tra tale eccezione e la possibilità per la controparte di deferire giuramento “per accertare se si è verificata l’estinzione del debito”; ii) se l’art. 2739 c.c. e l’art. 2737 c.c. (che per la capacità di deferire o riferire il giuramento rinvia all’art. 2731 c.c. in tema di confessione) ostano alla prestazione del giuramento decisorio da parte del curatore fallimentare, in quanto terzo privo della capacità di disporre del diritto, oppure ostino solo al suo potere di deferire e riferire il giuramento, ma non di prestarlo; iii) se, in particolare, ove si escluda la deferibilità del giuramento su fatto non “proprio”, ma del fallito (cd. giuramento de veritate), al curatore fallimentare possa essere comunque deferito il giuramento sulla conoscenza che egli ne abbia e se, in tal caso, si tratti del cd. giuramento de scientia, ex art. 2739 c.c., comma 2, ovvero del cd. giuramento de notitia, ex art. 2960, comma 2, c.c.; iv) se, infine, una volta ammesso il giuramento de scientia o de notitia, la dichiarazione del curatore di non essere a conoscenza dell’avvenuta estinzione del debito equivalga a prestazione favorevole al giurante, lasciando in vita la presunzione di pagamento, o assuma invece gli effetti del rifiuto del giuramento, favorevole al creditore.

Sul tema ricorrente della insinuazione al passivo di crediti di lavoro, Sez. 1, n. 01649/2022, Falabella, Rv. 663560-01, ha sancito che le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di quest’ultimo, hanno piena efficacia probatoria del credito insinuato, alla stregua del loro contenuto, obbligatorio e penalmente sanzionato, ferma restando la facoltà del curatore di contestarne le risultanze con altri mezzi di prova, ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

In argomento anche Sez. L, n. 25838/2022, Patti, Rv. 665478-02, secondo cui il pagamento della Cassa integrazione in deroga (CIGD) spetta, qualora il lavoratore non sia rioccupato alla cessazione del periodo alle dipendenze del datore di lavoro, al Fondo sociale per l’occupazione e la formazione presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali; con la conseguenza che, in caso di fallimento del datore di lavoro, il dipendente non ha diritto all’ammissione allo stato passivo del credito per le quote di TFR maturate in tale periodo, ma di quelle del periodo anteriore trasferite nel Fondo di Tesoreria, di cui non sia provato il versamento da parte del datore di lavoro. Sullo stesso tema anche Sez. 1, n. 27302/2022, Abete, Rv. 665944-01, per cui nel caso di opposizione allo stato passivo proposta dal finanziatore del lavoratore dipendente, nei confronti del fallimento del datore di lavoro, quando il finanziamento sia assistito da cessione del quinto dello stipendio ed il datore di lavoro abbia ottenuto la concessione del trattamento straordinario di integrazione salariale (CIGS) per un determinato numero di lavoratori, quest’ultimo è tenuto al pagamento dell’importo oggetto della cessione se il dipendente finanziato non è ricompreso tra i lavoratori destinatari del trattamento di integrazione salariale, mentre in caso contrario la legittimazione spetta all’INPS, quale ente erogatore, per il tempo di durata della CIGS.

In un settore specifico, Sez. L, n. 22161/2022, Patti, Rv. 665212-01, ha invece osservato che in sede di ammissione allo stato passivo fallimentare dei lavoratori del settore del trasporto aereo, va escluso il credito per integrazione del trattamento di cassa integrazione del personale interessato da sospensioni temporanee dell’attività lavorativa o da processi di mobilità, non trattandosi di un credito retributivo nei confronti del datore di lavoro, bensì di somme integrative al cui pagamento è tenuto il cd “Fondo Volo”, istituito presso l’Inps a norma dell’art. 1 ter, comma 1, del d.l. n. 249 del 2004, conv. dalla l. n. 291 del 2004.

In tema di ammissione al passivo di crediti prededucibili, Sez. 1, n. 14181/2022, Amatore, Rv. 664967-01, ha rilevato che il credito del professionista che abbia predisposto la domanda di ammissione ad una procedura di concordato preventivo, svolgendo altresì attività di consulenza precedente e successiva, cui abbia fatto seguito il fallimento del debitore, va riconosciuto in prededuzione; tale privilegio processuale si estende al credito per IVA e contributo previdenziale (CPA), stante l’identità del titolare, del fatto generatore dei crediti e della comune funzione, giacché la valutazione di funzionalità prevista dall’art. 111, comma 2, l.fall., non può che condurre, rispetto a tali crediti, ad un unico e coincidente approdo. Tale decisione si pone nel solco della nota decisione resa alla fine dello scorso anno dalle S.U. che, per importanza e maggiore comodità di lettura, si riporta: in tema di concordato preventivo, il credito del professionista incaricato dal debitore per l’accesso alla procedura è considerato prededucibile, anche nel successivo e consecutivo fallimento, se la relativa prestazione, anteriore o posteriore alla domanda di cui all’art. 161 l.fall., sia stata funzionale, ai sensi dell’art. 111, comma 2, l.fall., alle finalità della prima procedura, contribuendo con inerenza necessaria, secondo un giudizio “ex ante” rimesso all’apprezzamento del giudice del merito, alla conservazione o all’incremento dei valori aziendali dell’impresa, sempre che il debitore sia stato poi ammesso al concordato ex art. 163 l.fall. Peraltro, il credito del professionista, incaricato dal debitore per l’accesso alla procedura di concordato preventivo, può essere escluso dal concorso nel successivo e consecutivo fallimento, ove si accerti l’inadempimento dell’istante alle obbligazioni assunte, ovvero la sua partecipazione ad attività fraudatorie poste in essere dal debitore (Sez. U, n. 42093/2021, Ferro, Rv. 663508-01 e 02).

Sulla “vexata quaestio” della prova della non imputabilità del ritardo, ai fini della possibilità di proporre domanda di insinuazione al passivo “ultratardiva” (cioè eccedente la scadenza del termine annuale previsto dall’art. 101 l.fall.), Sez. 1, n. 21760/2022, L. Tricomi, Rv. 665240-01, ha osservato che in tema di ammissione al passivo di una procedura concorsuale, nel caso di domanda cd “supertardiva” o “ultratardiva”, il mancato avviso al creditore dell’apertura della procedura concorsuale integra una causa non imputabile al creditore del ritardo; è, pertanto, onere del commissario dimostrare, ai fini dell’inammissibilità della domanda, che pur in difetto di prova della conoscenza legale, il creditore ha avuto conoscenza effettiva e tempestiva dell’emissione della sentenza dichiarativa e che, in tal modo, si sia realizzato il risultato pratico cui l’avviso era finalizzato “ex lege”, restando in conseguenza irrilevante il mero “fatto notorio” dell’apertura della procedura concorsuale.

Sez. 1, n. 20068/2022, M. Di Marzio, Rv. 664977-01, ha invece osservato che, ferma l’immediata impugnabilità del decreto di ammissione del credito con riserva, adottato ai sensi dell’articolo 96 l.fall., tanto da parte del creditore che abbia chiesto l’ammissione pura e semplice, quanto del curatore e degli altri creditori, il decreto di scioglimento della riserva ex art. 113 bis della stessa legge è soggetto, per tutto quanto non divenuto incontestabile in esito alla adozione dell’iniziale provvedimento di ammissione con riserva, all’impugnazione mediante l’opposizione allo stato passivo di cui all’art. 98 l.fall., in quanto momento terminale della fase di accertamento ed ammissione al passivo.

Sez. 1, n. 02217/2022, Vella, Rv. 663949-01, ha a sua volta ritenuto che in tema di cessione del credito, in caso di fallimento del debitore ceduto, ai fini dell’ammissione alla procedura fallimentare il cessionario è tenuto a dare la prova del credito e della sua anteriorità al fallimento, qualora venga in discussione la sua opponibilità, ma non anche la prova dell’anteriorità della cessione al fallimento, perché la legge prevede che il cessionario di un credito concorsuale sia tenuto a dare la prova che la cessione è stata stipulata anteriormente al fallimento soltanto ai fini di una eventuale compensazione, ovvero ai fini del voto in un eventuale concordato fallimentare, restando, altrimenti, la cessione opponibile al curatore anche se ha luogo nel corso della procedura.

Nell’anno in esame il tema dell’opposizione allo stato passivo si è ripetutamente intersecato con quello dell’applicabilità al curatore costituito del c.d. principio di non contestazione. Nel rinviare sul punto alla parte sulle prove, si noti che Sez. 1, n. 17731/2022, Terrusi, Rv. 665115-01, ha ritenuto che in tema di opposizione allo stato passivo, il principio di non contestazione si applica anche al curatore fallimentare, quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, risultando perciò irrilevante la sua posizione di terzietà. Tuttavia, tale principio deve necessariamente coordinarsi con i poteri del giudice delegato quanto al regime delle eccezioni rilevabili d’ufficio, sì che la non contestazione del curatore può non comportare l’automatica ammissione del credito allo stato passivo, attesa la competenza del giudice delegato a sollevare a sua volta, in via ufficiosa, eccezioni circa l’ammissibilità del credito pur se, comunque, la posizione assunta dal curatore, in ordine ai fatti incidenti sull’ammissione del credito allo stato passivo, resta rilevante, poiché non può essere disattesa dal giudice delegato in via astratta e generalizzata.

In un caso del tutto peculiare, Sez. 5, n. 12759/2022, Perrino, Rv. 664581-01, ha ritenuto che in pendenza di una procedura fallimentare tedesca, sussiste il diritto del creditore erariale di procedere all’iscrizione a ruolo ed emettere la conseguente cartella di pagamento, costituendo quest’ultima un titolo esecutivo idoneo al fine di procedere all’insinuazione al passivo e non un atto esecutivo; ne deriva che il curatore difetta di interesse ad ottenere la caducazione della cartella, posto che la rilevanza dell’iscrizione e della cartella stessa deve essere apprezzata in sede concorsuale, al fine di accertare l’esistenza del diritto ad una quota o ad una percentuale di quanto ricavato dalla liquidazione, spettando al giudice del concorso e non a quello tributario anche la valutazione della natura concorsuale o meno dell’aggio, in applicazione del principio di cristallizzazione del passivo.

Sez. 1, n. 09850/2022, Campese, Rv. 664530-01, ha invece ritenuto che in tema di accertamento del passivo fallimentare, ove il curatore ometta la comunicazione di cui all’art. 97 l.fall. al creditore che abbia chiesto l’insinuazione parzialmente o totalmente respinta, l’opposizione ex art. 98 l.fall. può essere proposta entro sei mesi dal deposito del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, in applicazione analogica dell’art. 327 c.p.c.

Sulle interferenze fra verifica del passivo ed azione di responsabilità connessa al dedotto inadempimento delle prestazioni del cui pagamento è avanzata richiesta di insinuazione allo stato passivo, Sez. 6-2, n. 03804/2022, Giannaccari, Rv. 663936-01, ha sostenuto che la contemporanea pendenza di un’azione di responsabilità, instaurata dal curatore fallimentare nei confronti di un amministratore o di un sindaco della società fallita, e di una opposizione allo stato passivo, instaurata dal medesimo amministratore o sindaco per il riconoscimento del compenso per l’attività svolta, non giustifica né l’ammissione del credito con riserva, che è consentita solo nei casi tassativamente indicati nell’art. 96, comma 2, l.fall., né la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. del giudizio di opposizione al passivo, in quanto in sede di verifica del passivo il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere dal creditore.

Da ricordare, per l’interferenza fra credito ipotecario e formazione dello stato passivo, anche Sez. 1, n. 05034/2022, Amatore, Rv. 664022-01, la quale ha ritenuto che l’inopponibilità al fallimento del mutuo fondiario per nullità, simulazione ovvero revoca esclude il cosiddetto beneficio del consolidamento, previsto dall’art. 39 comma 4, del d.lgs. n.385 del 1993; ne consegue che, laddove la fattispecie sia ricostruita come procedimento indiretto anormalmente solutorio (costituito dal mutuo e dall’utilizzazione della somma accreditata a quel titolo ad estinzione di preesistente credito del mutuante verso il mutuatario) e, quindi, il contratto di mutuo venga revocato, anche l’ipoteca perde la qualificazione, che deriva dal contratto, di ipoteca iscritta a garanzia del mutuo fondiario.

Sulle vicende della eventuale revoca del fallimento in pendenza di un’opposizione allo stato passivo, Sez. 1, n. 29670/2022, D’Orazio, Rv. 665919-01, ha ritenuto che nel regime successivo alla riforma operata dal d.lgs. n. 5 del 2006, la revoca del fallimento con provvedimento passato in giudicato rende improcedibile l’opposizione allo stato passivo ex art. 98 l.fall., che è procedimento strettamente connesso alla procedura fallimentare, in quanto teso ad accertare il credito con efficacia meramente endoconcorsuale, e tale conseguenza - che può essere rilevata anche d’ufficio - opera anche nel giudizio di legittimità, a differenza della chiusura del fallimento, che costituisce una mera causa di interruzione del processo non rilevante in sede di legittimità.

Sul tema più generale della formazione del passivo e dell’opponibilità del provvedimento monitorio ottenuto prima dell’apertura della procedura concorsuale, Sez. 6-1, n. 34474/2022, Amatore, Rv. 666290-01, ha ritenuto che debba ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 45 l.fall. e 647 c.p.c. – formulata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – nella parte in cui postulano la non opponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo privo di dichiarazione di esecutorietà anteriore alla dichiarazione di fallimento, essendo detta interpretazione coerente con il principio della cristallizzazione degli effetti del fallimento alla data della sua declaratoria e con un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici patrimoniali delle parti e valendo, comunque, il procedimento di verificazione del passivo a garantire, anche attraverso l’appendice oppositiva ex art. 98 l.fall., la pienezza del contraddittorio processuale e dell’esercizio del diritto di difesa in relazione al credito vantato.

Anche il tema della “data certa” e della forma contrattuale è stato affrontato da Sez. 1, n. 33724/2022, Pazzi, Rv. 666235-01, secondo cui in tema di ammissione allo stato passivo del fallimento della pretesa creditoria derivante dal saldo negativo del conto corrente bancario, la forma “ad substantiam” prevista per tale tipo contrattuale postula che la prova del credito non possa essere offerta attraverso gli estratti conto spediti al correntista in costanza di rapporto, ma debba essere necessariamente resa mediante la produzione in giudizio della scrittura negoziale provvista di data certa ex art. 2704 c.c. e come tale opponibile. La stessa decisione ha ulteriormente precisato (Rv. 666235-02) che ai fini dell’ammissione allo stato passivo degli interessi correlati al credito derivante da un contratto di mutuo è tuttavia sufficiente la produzione del titolo contrattuale che ne contenga la disciplina di calcolo, non essendo, viceversa, necessaria la produzione del piano di ammortamento.

6. La liquidazione dell’attivo.

La fase di monetizzazione del patrimonio oggetto di spossessamento fallimentare ex art. 42 l.fall. è stata interessata da significative pronunce.

Tra queste senz’altro si colloca Sez. 1, n. 26076/2022, D’Orazio, Rv. 665537-01, in tema di vendita competitiva deformalizzata fissata ai sensi dell’art. 107, comma 1, l.fall. Qualora il curatore opti per un modello dismissivo dei beni alternativo rispetto al paradigma dell’esecuzione forzata, pur fruibile ai sensi del comma 2 della norma richiamata, l’avviso di vendita costruito dall’organo concorsuale costituisce nondimeno la “lex specialis” dell’alienazione coattiva, venendo a fissare regole inderogabili di trasparenza e correttezza anche a salvaguardia della parità fra gli offerenti. Ciò postula che, ove lo stesso preveda la decadenza dell’aggiudicatario per mancato versamento del saldo prezzo nel termine indicato, non sia concedibile una proroga “ex post”, a richiesta dell’interessato, salvo che questi non dimostri di essere incorso nella decadenza per causa non imputabile, secondo quanto previsto dall’art. 153, comma 2, c.p.c.

Altra importante statuizione è oggetto di Sez. 1, n. 21007/2022, Mercolino, Rv. 665231-01, secondo cui, ancora in tema di liquidazione dei beni fallimentari tramite procedure competitive, deve ritenersi sussistente l’interesse ad impugnare l’atto finale del procedimento in capo al partecipante non aggiudicatario, che deduca l’irregolare svolgimento della gara, anche quando i beni siano ormai venduti. Infatti, l’ampia discrezionalità riconosciuta al curatore dall’art. 107 l.fall. non esonera dal rispetto delle regole minime di correttezza e trasparenza, normalmente consacrate nell’avviso di vendita, e la loro inosservanza, inficiando la validità delle operazioni, si traduce nell’illegittimità dell’aggiudicazione, la quale, a sua volta, determina l’invalidità derivata dell’atto conclusivo della procedura, consentendone l’impugnazione da parte di tutti gli interessati. Nell’occasione, la Suprema Corte ha cassato l’ordinanza che, in sede di reclamo, aveva escluso l’interesse a far valere, quando era ormai intervenuta la cessione dei beni fallimentari, l’illegittima aggiudicazione a favore di un soggetto che era stato ammesso alla gara nonostante la sua offerta non rispettasse tutti i requisiti richiesti nell’avviso di vendita.

Notevole anche il principio che si ritrova in Sez. 1, n. 19604/2022, Pazzi, Rv. 664973-01, secondo cui in tema di liquidazione fallimentare, il potere del giudice delegato di impedire il perfezionamento della vendita, previsto dall’art. 108, comma 1, l.fall., è subordinato ad una valutazione circa l’inadeguatezza, in termini di notevole inferiorità, del prezzo di aggiudicazione rispetto a quello “giusto”, avuto riguardo ai valori di mercato in un determinato ambito geografico, all’epoca in cui la procedura competitiva è stata espletata.

Altra statuizione degna di nota è rinvenibile in Sez. 1, n. 1882/2022, Vella, Rv. 665319-01, a tenore della quale il credito erariale per l’IMU maturata dopo la dichiarazione di fallimento rientra tra le spese sostenute per la conservazione, amministrazione e liquidazione dell’immobile ed integra una “uscita di carattere specifico”, a norma dell’art. 111 ter l.fall., che grava in prededuzione su quanto ricavato dalla liquidazione del bene, anche se oggetto di ipoteca, trovando tale soluzione conferma, altresì, nella formulazione contenuta nell’art. 222, comma secondo, del codice della crisi di impresa approvato con d.lgs. n. 14 del 2019.

7. La chiusura del fallimento e l’esdebitazione.

Di alcuni salienti riflessi della chiusura del fallimento si è occupata Sez. 2, n. 21174/2022, Cosentino, Rv. 665557-01, cui si deve il chiarimento in base al quale, in tema di irragionevole durata della procedura fallimentare, il termine di decadenza di cui all’art. 4, l. n. 89 del 2001, per la proposizione della domanda di equa riparazione, decorre, anche per il creditore rimasto soddisfatto per effetto di un riparto parziale, dalla data in cui il decreto di chiusura della procedura di concorso è divenuto inoppugnabile, avendo “il dies a quo” del predetto termine natura processuale, mentre la data di integrale soddisfacimento del creditore, avente natura sostanziale, segna la durata della procedura fallimentare indennizzabile.

Il tema dell’irragionevole durata del processo in rapporto alla chiusura del fallimento è al centro anche di Sez. 2, n. 17384/2022, Trapuzzano, Rv. 664890-01, ad avviso della quale, al fine di valutare il rispetto del termine di decadenza per la proposizione della domanda di indennizzo ex l. n. 89 del 2001 per l’eccessivo protrarsi di una procedura fallimentare iniziata prima delle modifiche normative introdotte con d.lgs. n. 5 del 2006 e con d.lgs. n. 169 del 2007, il decreto di chiusura non comunicato alle parti diventa definitivo decorso il termine lungo di un anno dal suo deposito, senza che lo svolgimento della fase di chiusura dopo l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 consenta di applicare il più breve termine di sei mesi, in quanto tale fase non è un procedimento autonomo occasionato dal fallimento, ma solo un subprocedimento nell’ambito della procedura fallimentare, con la conseguenza che, per stabilire se per il reclamo del decreto di chiusura non comunicato debba applicarsi il termine lungo di un anno o quello di sei mesi dal deposito, occorre verificare il tempo in cui sia stata aperta la procedura fallimentare rispetto all’entrata in vigore della disciplina di diritto intertemporale recata dalla legge n. 69 del 2009.

Nel medesimo alveo è situata Sez. 2, n. 9590/2022, Grasso, Rv. 664322-01, a parere della quale il termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di riparazione previsto dall’art. 4 della l. n. 89 del 2001 decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione del processo presupposto; ne deriva che, nel processo fallimentare, il predetto termine di decadenza decorre, per i creditori che siano stati integralmente soddisfatti, dalla definitività del riparto, quanto alla riforma del d.lgs. n. 5 del 2006 - che ha introdotto all’art. 114, comma 1, l.fall. l’irripetibilità dei pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto - perdendo essi da tale momento la qualità di parti, e dal provvedimento di chiusura del fallimento, quanto alla previgente disciplina, derivando da esso, in ragione della sua irrevocabilità, la definitiva stabilizzazione della relativa posizione.

Utile il chiarimento reso da Sez. 2, n. 15547/2022, Cosentino, Rv. 664879-01, alla luce della quale, ai sensi dell’articolo 119 l.fall., nel testo precedente le modifiche apportate dal d.lgs. n. 5 del 2006, quale risultante all’esito della sentenza della Corte cost. n. 279 del 2010, l’annotazione nel registro delle imprese del decreto di chiusura del fallimento non è idonea a far decorrere il termine di quindici giorni per il reclamo avverso tale decreto, nei confronti dei creditori ammessi al passivo fallimentare. È la medesima pronuncia - Rv. 664879-02 - a contenere la precisazione secondo cui in tema di impugnazione del decreto di chiusura del fallimento di cui all’art. 119 l.fall., nel testo precedente le modifiche apportate dal d.lgs. n. 5 del 2006, quale risultante all’esito della sentenza della Corte cost. n. 279 del 2010, ai fini della individuazione del termine lungo, di sei mesi o di un anno, deve aversi riguardo alla formulazione dell’art. 327 c.p.c. vigente alla data della sentenza di apertura del fallimento.

Il perimetro della tutela avverso il provvedimento di chiusura del fallimento è stato ben delineato da Sez. 1, n. 12666/2022, Di Marzio, Rv. 664680-01, per la quale la cognizione rimessa al giudice in sede di reclamo avverso il decreto emesso ai sensi dell’art. 119, comma 2, l.fall., è limitata alla verifica della sussistenza di uno dei casi di chiusura di cui ai numeri da 1) a 4) dell’art. 118 l.fall., potendo il fallito o chiunque altro ne abbia interesse far valere nelle sedi proprie, esterne alla procedura, tutte le doglianze riferite alla conduzione del fallimento da parte dei suoi organi. Nel caso di specie, portando a corollario il principio riassunto, la Suprema Corte ha cassato il decreto della Corte d’Appello che aveva revocato la chiusura del fallimento per avvenuta ripartizione dell’attivo in ragione della pendenza di un giudizio di opposizione avverso il decreto di trasferimento di un immobile appreso alla massa.

In tema di esdebitazione del fallito, Sez. 5, n. 18124/2022, Leuzzi, Rv. 664864-01, ha avuto modo di chiarire l’applicabilità, in precedenza revocata in dubbio, dell’istituto anche ai debiti IVA, escludendo un contrasto con l’art. 4, par. 3, T.U.E. e con gli artt. 2 e 22 della Direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977 (c.d. Sesta Direttiva), in materia di sistema comune di imposta sul valore aggiunto.

Sempre in ambito di esdebitazione ex art. 142 l.fall. un principio fondamentale è stato espresso da Sez. 1, n. 15246/2022, Terrusi, Rv. 664772-01, a lume della quale il termine di decadenza annuale dev’essere temporalmente parametrato alla sola circostanza dell’avvenuta chiusura dello specifico fallimento in relazione al quale è invocato il beneficio, dal momento che, valendo quest’ultimo a comportare la liberazione dai beni residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti in quello specifico fallimento, è escluso possa rilevare il parallelo coinvolgimento della persona fisica (quale socio illimitatamente responsabile di una società di persone) in altra procedura fallimentare. La medesima pronuncia - Rv. 664772-02 – ha, peraltro, sancito che la valutazione del presupposto oggettivo relativo al soddisfacimento “almeno parziale” dei creditori, pur rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, deve essere operata secondo un’interpretazione coerente con il “favor debitoris” che ispira la norma, sicché ove ricorrano gli altri presupposti, il beneficio dell’esdebitazione deve essere concesso a meno che i creditori siano rimasti totalmente insoddisfatti o siano stati soddisfatti in percentuale “affatto irrisoria”.

8. Il concordato fallimentare.

In tema di concordato fallimentare Sez. 1, n. 35298/2022, Mercolino, Rv. 666455-01, ha chiarito che l’immediatezza dell’effetto traslativo in favore dell’assuntore in concomitanza con l’omologazione non rappresenta una caratteristica imprescindibile della fattispecie, sicché spetta al giudice del merito individuare il momento in cui è destinato a prodursi l’effetto in parola, interpretando la proposta di concordato e il provvedimento che vi abbia dato seguito, con valutazione incensurabile in sede di legittimità se correttamente e adeguatamente motivata.

Non meno rilevante la puntualizzazione resa da Sez. 1, n. 29793/2022, Zuliani, Rv. 665920-01, secondo cui qualora sia accertata l’avvenuta esecuzione del concordato fallimentare omologato, il decreto del giudice delegato che disponga la cancellazione del pignoramento trascritto prima della dichiarazione di fallimento non è reclamabile, ai sensi dell’art. 26 l.fall., da parte del creditore che ha proceduto alla trascrizione del predetto vincolo, mancando in capo a costui l’interesse ad agire, stante l’obbligatorietà del concordato, ex art. 135 l.fall., per tutti i creditori anteriori all’apertura del concorso.

Importante pure il principio espresso da Sez. 3, n. 26806/2022, Guizzi, Rv. 665899-01, secondo cui nei confronti del debitore tornato “in bonis” all’esito di un concordato fallimentare è ammissibile la proposizione di un’azione esecutiva individuale anche per crediti sorti anteriormente al concordato medesimo, senza che sia necessaria la pregressa insinuazione al passivo, in quanto il divieto delle suddette azioni, di cui all’art. 51 l.fall., e l’obbligo di insinuazione al passivo ex art. 52 l.fall., sono volti unicamente a realizzare il concorso dei creditori e non comportano, quindi, che la mancata partecipazione a tale concorso determini l’estinzione del titolo esecutivo di cui il creditore sia munito nei confronti del fallito.

Considerevole la puntualizzazione di Sez. 1, n. 29924/2022, Vella, Rv. 665535-01, che alla proposta concordataria formulata dal terzo con liberazione immediata del fallito ai sensi dell’art. 137, comma 7, l.fall., ha ritenuto inapplicabile il divieto di accollo liberatorio del debito di imposta previsto dall’art. 8, comma 2, della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente).

In evidenza si pone anche Sez. 1, n. 19707/2022, Amatore, Rv. 664974-01, secondo cui, in tema di concordato fallimentare, il creditore che abbia avanzato una propria proposta e che, avendo ricevuto il parere negativo del comitato dei creditori ed il diniego di ammissione al voto dal giudice delegato, non abbia immediatamente reclamato tali atti, difetta di interesse a proporre opposizione alla omologazione di una diversa proposta di concordato fallimentare, in quanto non riveste posizione di proponente concorrente, diversamente dal caso in cui anche la sua proposta fosse stata ammessa al voto e risultasse perciò concretamente pregiudicato dall’omologazione della proposta preferita, considerato altresì che la nozione di “qualsiasi altro interessato”, di cui all’art. 129, comma 2, l.fall., non può estendersi sino al punto da ricomprendere qualunque terzo contrario alla omologazione, ma privo di un interesse giuridicamente tutelato ad opporvisi.

9. Il concordato preventivo in generale.

Il concordato preventivo ha confermato la propria centralità nel governo concorsuale delle crisi d’impresa, chiamando la Corte di cassazione ad importanti prese di posizione.

Sul tema sensibile del trattamento dei crediti erariali si colloca Sez. 5, n. 13471/2022, Leuzzi, Rv. 666515-01, ove è affermato il principio di diritto secondo cui, nel processo tributario, la transazione fiscale ex art. 182-1 ter l.fall. conclusa dalle parti ed omologata dal competente Tribunale, sopravvenuta alla sentenza impugnata con il ricorso per cassazione, impone di definire tale ricorso con la declaratoria della cessazione della materia del contendere per intervenuto accordo negoziale, con conseguente venir meno dell’efficacia della sentenza impugnata oltre che dell’originario avviso di accertamento, riespandendosi il potere impositivo erariale solo ove la transazione in parola venga meno in conseguenza dell’inadempimento del contribuente e della disposta risoluzione del concordato preventivo.

Su un crinale generale si registra il chiarimento reso da Sez. 1, n. 21758/2022, Campese, Rv. 665239-01, secondo cui l’art. 168, comma 3, l.fall., il quale sancisce l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni anteriori all’iscrizione nel registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo rispetto ai creditori anteriori al concordato, non si applica qualora, aperta la procedura concordataria, la stessa abbia avuto esito infausto e sia stato, contestualmente o in un momento successivo, dichiarato il fallimento dell’imprenditore, trovando l’inefficacia degli atti nell’ambito della procedura fallimentare la propria disciplina negli artt. 64 e segg. l.fall.

Importante affermazione è espressa da Sez. 1, n. 17391/2022, Crolla, Rv. 665092-01, a tenore della quale, nel caso in cui il fallimento sia dichiarato dopo l’ammissione al concordato preventivo, l’incarico professionale conferito a un avvocato, nel corso della procedura minore, non è di per sé un atto di straordinaria amministrazione, dovendo, ai fini della qualificazione dell’incarico e dell’opponibilità del corrispondente credito nella successiva procedura fallimentare, farsi applicazione dei seguenti principi: a) l’atto di ordinaria amministrazione è connotato dalla pertinenza e idoneità dell’incarico, anche se di costo elevato, allo scopo di conservare e/o risanare l’impresa; b) il criterio di proporzionalità deve essere riferito al merito della prestazione, secondo una valutazione “ex ante”, in termini di adeguatezza funzionale o non eccedenza rispetto alle necessità risanatorie dell’azienda; c) va comunque esclusa l’ammissione del credito tra le passività concorsuali, quando l’incarico sia affidato per esigenze personali e dilatorie, volte a rimandare nel tempo la dichiarazione di fallimento.

Non meno ragguardevole l’osservazione contenuta in Sez. 1, n. 16532/2022, Pazzi, Rv. 664966-01, tesa ad escludere che i provvedimenti assunti ex art. 169 bis l.fall., anche in sede di reclamo, sulla richiesta di autorizzazione alla sospensione o allo scioglimento dei contratti in corso, siano impugnabili ex art. 111, comma 7, Cost.; essi costituiscono, infatti, nella visuale nomofilattica atti di esercizio della funzione di direzione della procedura concorsuale, non deputati a risolvere controversie su diritti, ferma e impregiudicata l’opportunità della parte non soddisfatta di adire il giudice per far valere, nell’ambito di una cognizione piena, la ritenuta sussistenza (o insussistenza) dei presupposti per lo scioglimento o la sospensione dei contratti.

Interessante anche la statuizione veicolata da Sez. 1, n. 08008/2022, Vannucci, Rv. 664206-01, in base alla quale il provvedimento del tribunale che autorizza lo scioglimento di un contratto pendente, ai sensi dell’art. 169 bis l.fall. (nel testo vigente prima delle modifiche di cui al d.l. n. 83 del 2015, ratione temporis applicabile), anche se contenuto nel decreto con il quale ammette la società ricorrente alla procedura di concordato preventivo, è reclamabile alla Corte d’appello, ex art. 26 l.fall., non valendo in contrario quanto disposto dall’art. 164 l.fall., che nel fare riferimento al reclamo nei confronti dei decreti del giudice delegato, non esclude la generale reclamabilità dei decreti autorizzatori adottati dal tribunale. La medesima pronuncia – Rv. 664206-02 – illustra che il provvedimento di autorizzazione allo scioglimento di un contratto pendente, ex art. 169 bis l.fall., viene adottato all’esito di un procedimento camerale di carattere incidentale, come tale inidoneo ad incidere sui diritti soggettivi delle parti, con la conseguenza che è inammissibile in tale procedimento la domanda di liquidazione dell’indennizzo spettante alla parte “in bonis” che abbia subito lo scioglimento, dovendo tale accertamento, nel contrasto delle parti, svolgersi nelle forme della cognizione ordinaria. Nell’affermare detto principio, la Corte ha cassato senza rinvio il provvedimento impugnato, nella parte in cui il tribunale aveva liquidato l’indennizzo spettante ad una banca a fronte dell’autorizzazione concessa allo scioglimento di un contratto di cessione di credito.

Spicca nel complesso delle pronunce in ambito concordatario preventivo anche Sez. 6-L, n. 15553/2022, Patti, Rv. 664715-01, essenzialmente per l’osservazione in base alla quale il creditore anteriore ha diritto di esercitare, a propria tutela, l’azione esecutiva individuale, ai sensi dell’art. 184, comma 1, ultima parte, l.fall., nei confronti del garante dell’assuntore del concordato omologato del proprio debitore, per il trasferimento del suo patrimonio all’assuntore medesimo, avendone legittimazione quale titolare del relativo rapporto obbligatorio, in quanto beneficiario della garanzia che ad esso accede e dà origine ad un rapporto obbligatorio tra il garante e il creditore medesimo.

Fondamentale la precisazione esposta da Sez. 1, n. 06772/2022, Vella, Rv. 664105-01, che ha ritenuto la configurabilità del concordato con continuità aziendale ex art. 186 bis l.fall. quand’anche l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo, palesandosi irrilevante che, al momento della domanda di concordato, come pure all’atto della successiva ammissione, l’azienda sia esercitata da un terzo anziché dal debitore, posto che il contratto d’affitto - sia ove contempli l’obbligo del detentore di procedere al successivo acquisto dell’azienda (cd. affitto ponte), sia laddove non lo preveda (cd. affitto puro) - assurge a strumento funzionale alla cessione o al conferimento di un compendio aziendale suscettibile di conservare integri i propri valori intrinseci anche immateriali (cd. “intangibles”), primo tra tutti l’avviamento, mostrandosi in tal modo idoneo ad evitare il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe; resta comunque fermo il limite del c.d. abuso del concordato con continuità, da verificare in concreto, avuto riguardo agli artt. 160 ultimo comma e 173 l.fall.

In tema di concordato cd. “in bianco” o “con riserva” significativa Sez. 1, n. 06054/2022, Di Marzio, Rv. 664030-01, che si è peritata di chiarire come nel contesto c.d. “prenotativo” il deposito dei bilanci richiesto dall’art. 161, comma 6, l.fall. corre in parallelo alla previsione contenuta nell’art. 14 l.fall., in forza del quale l’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare le scritture contabili e fiscali obbligatorie relative ai tre esercizi precedenti, essendo parimenti finalizzata all’adempimento, da parte del debitore, dell’onere di provare la sussistenza delle soglie dimensionali necessarie ai fini dell’accesso alla procedura richiesta. Nel caso di specie, la Corte ha, peraltro, ritenuto che il deposito di una relazione patrimoniale aggiornata, in pendenza della proroga del termine di cui all’art. 2364, secondo comma, c.c. dovesse ritenersi documentazione equipollente all’ultimo bilancio mancante ed ha, pertanto, confermato la sentenza della Corte d’Appello che aveva revocato tanto il decreto di inammissibilità del ricorso del debitore, quanto la coeva sentenza di fallimento.

Sempre in ambito di concordato con riserva Sez. 1, n. 35959/2022, Amatore, Rv. 666246-01, ha osservato che il termine fissato dal giudice al debitore, ai sensi dell’art. 161, comma 6, l.fall., per la presentazione della proposta, del piano e dei documenti del cd. concordato “con riserva” ha natura perentoria e disciplina mutuata dall’art. 153 c.p.c., cosicché non è prorogabile a richiesta della parte o d’ufficio se non in presenza di giustificati motivi, che devono essere allegati dal richiedente e verificati dal giudice, la cui decisione è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata. Pertanto, in ragione della natura decadenziale del menzionato termine, alla sua inosservanza consegue l’inammissibilità della domanda concordataria.

Ancora nell’orizzonte del concordato “in bianco” si è collocata Sez. 1, n. 17164/2022, Mercolino, Rv. 665090-01, per osservare che qualora l’inidoneità della documentazione prodotta dal debitore faccia emergere “prima facie” l’intento dilatorio perseguito attraverso la presentazione della domanda di concordato, il tribunale può dichiararne l’inammissibilità, senza concedere il termine di cui all’art. 161, comma 6, l.fall., procedendo senz’altro all’esame dell’istanza di fallimento, in modo tale da evitare che la produzione di documenti assolutamente inidonei allo scopo possa costituire un espediente per ritardare artificiosamente la definizione del procedimento in pregiudizio degli interessi dei creditori.

Di notevole interesse è pure la precisazione di Sez. 6-5, n. 35715/2022, Penta, Rv. 666582-01, secondo cui l’apertura di una procedura di concordato preventivo non è ostativa né all’accertamento di crediti tributari pregressi mediante iscrizione a ruolo ed emissione della cartella, né all’irrogazione di sanzioni pecuniarie ed accessori, maturati fino a tale momento, poiché, per un verso, l’accertamento del credito da parte dell’Amministrazione finanziaria è condizione per la partecipazione della stessa alla procedura concorsuale e, per un altro, le sanzioni pecuniarie danno luogo ad un credito del Fisco per il fatto stesso che si sia verificata la violazione della legge tributaria, senza che assuma rilevanza l’assoggettamento dell’impresa ad una procedura concorsuale.

Di cruciale portata, infine, Sez. U, n. 04696/2022, Stalla, Rv. 663849-01, che ha confermato la possibilità del fallimento c.d. “omisso medio”, in ragione del quale il debitore ammesso al concordato preventivo omologato, che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari, può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del pubblico ministero o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato ex art. 186 l.fall.

9.1. L’ammissione alla procedura e la sua revoca.

Sul versante specifico dei presupposti di ammissione al concordato un intervento notevole è stato rappresentato da Sez. 1, n. 17155/2022, Vella, Rv. 665089-01. Ad avviso della Corte il trattamento dei crediti prelatizi di natura tributaria e contributiva, previsto dal vigente art. 182 ter l.fall., segue la regola della “relative priority rule”, in quanto contempla la possibilità – negata dall’art. 160, comma 2, l.fall. ai crediti di altra natura, muniti di privilegio, pegno o ipoteca – che essi siano soddisfatti parzialmente, purché in misura superiore o anche solo pari a quella riservata ai crediti prelatizi di grado inferiore, fermo restando il limite, previsto da entrambe le disposizioni, del soddisfacimento minimo nella misura che essi ritrarrebbero dalla liquidazione, a valori di mercato, dei beni gravati dalla prelazione. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda di concordato, seguita dal fallimento dell’impresa, per avere quest’ultima offerto ai crediti tributari e contributivi una soddisfazione in misura inferiore rispetto a quella ottenibile in sede di liquidazione fallimentare, mancando nella proposta concordataria la considerazione dei privilegi di cui agli artt. 2752 e 2753 c.c.).

Importante anche la statuizione contenuta in Sez. 6-1, n. 17145/2022, Amatore, Rv. 664913-01, a tenore della quale, in tema di ammissione al concordato preventivo in pendenza del giudizio per la dichiarazione di fallimento, ove sia avviato il subprocedimento per la revoca di tale ammissione e venga concesso il termine per la presentazione di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato ai sensi dell’art. 9, comma 2, d.l. n. 23 del 2020, conv. con modif. in l. n. 40 del 2020 (recante misure per contenere gli effetti dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), tale termine non è soggetto alla sospensione feriale, dovendosi applicare l’art. 3 l. n. 742 del 1969 che, richiamando l’art. 92 r.d. n. 12 del 1941, esclude la sospensione feriale nel procedimento relativo alla dichiarazione di fallimento, nel corso del quale il menzionato subprocedimento è comunque instaurato.

Il recinto della revoca dell’ammissione al concordato è stato occupato essenzialmente da Sez. 1, n. 12115/2022, Vella, Rv. 664678-01, individuando i fatti idonei a consentire la revoca prevista dall’art. 173 l.fall. in quelli accertati dal Commissario giudiziale e ritenendo che in tale categoria rientrino non solo quelli scoperti, perché prima del tutto ignoti nella loro materialità, ma anche quelli non adeguatamente e compiutamente esposti nella proposta concordataria e nei suoi allegati, che siano potenzialmente idonei a pregiudicare il cd. consenso informato sulle reali prospettive di soddisfacimento, per come prospettate nella proposta concordataria, dovendo il Giudice verificare, quale garante della regolarità della procedura, che siano forniti ai creditori tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della sua convenienza. Nella specie, la Corte ha ritenuto fatto idoneo ai fini della revoca dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo, la descrizione ellittica ed incompleta di un’operazione di “leveraged buy out” o fusione per indebitamento, mediante mutuo chirografario concesso alla società veicolo e poi consolidato in credito ipotecario a carico della “società-target”, tale da falsare la percezione dei creditori circa la reale convenienza della proposta.

9.2. L’omologa, le impugnazioni e l’esecuzione.

Sez. 1, n. 35960/2022, Falabella, Rv. 666247-01, contiene un’importante affermazione: poiché secondo l’art. 184, comma 1, l.fall. il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura, in base all’originaria versione della norma, e a quelli anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso ex art. 161 l.fall., in base al testo della disposizione risultante dal d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134/2012, deve ritenersi che, avendo riguardo alle due discipline applicabili ratione temporis, la prescrizione del credito che risulti essere anteriore al detto decreto e, rispettivamente, alla detta pubblicazione, non decorra fintanto che, divenuto definitivo il decreto di omologazione del concordato, la condizione di temporanea inesigibilità del medesimo venga meno: il che accade, in caso di completamento della fase esecutiva del concordato, con la predisposizione, da parte del liquidatore, del riparto che contempli tale credito. 

Del regime fiscale del provvedimento di omologazione si è occupata Sez. 5, n. 21113/2022, Picardi, Rv. 665142-01. Ad avviso della Corte, in tema di imposta di registro, il decreto di omologazione del concordato preventivo, alla stregua del criterio nominalistico, rientra nella dizione di cui all’art. 8, lett. g), della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, ed è, pertanto, assoggettato ad imposta in misura fissa e non proporzionale, salvo che da esso derivi un effetto traslativo o altro effetto considerato espressivo di ricchezza. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto soggetto a tassazione fissa l’impegno del terzo di conferire al concordato una somma di denaro per soddisfare, pur parzialmente, i creditori, non generando lo stesso, con l’omologa, una nuova ricchezza in loro favore, né una modifica dell’originaria situazione debitoria).

Del giudizio che si instaura a seguito dell’opposizione di omologa si è curata Sez. 1, n. 05127/2022, Amatore, Rv. 664083-01, ad avviso della quale qualora in detto giudizio il debitore ammesso al concordato insista per l’omologa rimanendo soccombente, è suscettibile di essere legittimamente condannato alle spese processuali, ancorché il diniego dell’omologazione sia reso per ragioni formali in adesione ad una sua deduzione subordinata, venga reso per ragioni formali (nella specie, invalidità della votazione dei creditori, con ordine di rinnovazione della medesima).

10. La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria.

In tema numerose pronunce:

Sez. 1, n. 22102/2022, Crolla, Rv. 665244-01, ha statuito che in tema di ammissione allo stato passivo della procedura, i crediti per versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare, possedendo natura previdenziale non pubblicistica, non sono assistiti dai privilegi rispettivamente previsti dagli artt. 2733, 2734 e 2751-bis, n. 1, c.c. e soggiacciono al regime di cui all’art. 55 l.fall., con riferimento agli interessi e alla rivalutazione monetaria, il cui corso, pertanto, si arresta alla data del provvedimento d’apertura della procedura concorsuale.

Sez. U, n. 13143/2022, Terrusi, Rv. 664654-03, ha stabilito che, nel caso di società fiduciaria posta in liquidazione coatta amministrativa, l’ammissione allo stato passivo determina, sia per i creditori ammessi direttamente a seguito della comunicazione inviata dal commissario liquidatore ex art. 207, comma 1, l.fall., sia per i creditori ammessi a domanda ex art. 208 l.fall., l’interruzione della prescrizione con effetto permanente per tutta la durata della procedura, a far data dal deposito dell’elenco dei creditori ammessi, ove si tratti di ammissione d’ufficio, o a far data dalla domanda rivolta al commissario liquidatore per l’inclusione del credito al passivo, nel caso previsto dall’art. 208 l.fall.; tale effetto, ai sensi dell’art. 1310, comma 1, c.c. si estende anche al Ministero dello Sviluppo Economico, ove coobbligato solidale per il risarcimento del danno da perdita dei capitali fiduciariamente conferiti nella società sottoposta a vigilanza e divenuta insolvente.

Sez. 1, n. 12119/2022, Vella, Rv. 664679-01, ha osservato che qualora la procedura di liquidazione coatta sia stata aperta successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, la domanda tardiva di ammissione del credito va proposta al commissario liquidatore, da questi valutata nell’ambito di un progetto di stato passivo da depositare nella cancelleria del tribunale, quindi decisa in udienza da un giudice istruttore, secondo le forme degli artt. 93-97 l.fall. con decreto impugnabile ai sensi degli artt. 98 e 99 l.fall.

Sez. 1, n. 08463/2022, Terrusi, Rv. 664364-01, ha osservato che in tema di liquidazione coatta amministrativa delle banche venete di cui al d.l. n. 99 del 2017, conv. con modif. in l. n. 212 del 2017, costituisce effetto del rinvio operato dall’art. 2 del medesimo d.l. alle norme del TUB, le quali a loro volta rinviano (art. 80 nel testo pro tempore) alle disposizioni della legge fallimentare per quanto non diversamente disposto, la configurabilità dell’ammissione dei crediti con riserva anche nello stato passivo della liquidazione coatta amministrativa delle banche suddette, entro i medesimi limiti operanti nella formazione dello stato passivo del fallimento. Ne consegue che il giudizio di condanna instaurato dai risparmiatori contro una delle banche venete indicate dal d.l. n. 99 del 2017 prima dell’apertura della l.c.a. non diventa improcedibile in esito alla detta apertura ove sia stata già pronunciata la sentenza di merito, in quanto, a norma dell’art. 96 l.fall., il creditore, sulla base della sentenza impugnata, deve essere ammesso al passivo con riserva, mentre il commissario, dal canto suo, può proseguire il giudizio nella fase di impugnazione.

Sez. 1, n. 08130/2022, Ceniccola, Rv. 664360-01, ha statuito che il commissario liquidatore della procedura di liquidazione coatta amministrativa non ha la capacità di disporre dei diritti dell’impresa, sicché, ai sensi dell’art. 2731 c.c., alle dichiarazioni da lui rese in sede giudiziale non può attribuirsi il valore di ammissione di fatti di natura confessoria. (Nel caso di specie, è stato confermato il decreto reiettivo di ammissione del credito allo stato passivo in conseguenza del mancato deposito degli atti di erogazione e quietanza, “deficit” probatorio non superabile dalla circostanza che il commissario, nelle sue conclusioni, pur dando atto della mancata produzione documentale, aveva rimesso al tribunale la decisione sull’effettiva debenza della somma).

Sez. 1, n. 21151/2022, Terrusi, Rv. 665233-01, ha osservato che l’art. 3, comma 1-ter, del d.l. n. 347 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 39 del 2004, prevede una specifica ipotesi di prededuzione in favore di determinati creditori e per particolari prestazioni collegate al contesto produttivo dell’ILVA, e in tal senso costituisce una previsione eccezionale e di stretta interpretazione, tesa a derogare al principio generale di cui all’art. 2740 c.c.; tuttavia, l’inciso della norma interpretativa di cui all’art. 8 del d.l. n. 91 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 123 del 2017, nel collegare la prededuzione dei crediti delle imprese di autotrasporto alla necessità di consentire “la funzionalità degli impianti produttivi dell’ILVA”, ha aggiunto alla proposizione relativa alle attività già considerate dall’originario art. 3, comma 1-ter, del d.l. n. 347 del 2003, una proposizione nuova, da intendere secondo il nesso di coordinazione insito nell’uso della particella copulativa “e”, avente eguale funzione sintattica evidenziata dal sottinteso dei verbi “rientrano” e “consentono”; ne consegue che in ordine alle imprese di autotrasporto è divenuto parimenti rilevante, ai fini della prededuzione, anche e solo il nesso tra la prestazione di autotrasporto e la situazione produttiva dell’ILVA in quanto tale, perché ritenuta di interesse strategico nazionale, a prescindere dal singolo stabilimento nel quale l’attività produttiva è svolta e dalla tipologia di fasi in cui la produzione si esplica.

Sez. 1, n. 21156/2022, Terrusi, Rv. 665665-01, sempre in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, ha ritenuto che l’art. 3, comma 1-ter, del d.l. n. 347 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 39 del 2004, prevedendo una specifica ipotesi di prededuzione in favore di determinati creditori e per particolari prestazioni collegate al contesto produttivo dell’ILVA, costituisce una previsione eccezionale e di stretta interpretazione, tesa a derogare al principio generale di cui all’art. 2740 c.c.; ne consegue che l’espressione che lega la prededuzione alle “prestazioni necessarie alla continuità dell’attività degli impianti produttivi essenziali”, da intendersi in senso restrittivo, non può andar disgiunta dalla ricostruzione del ciclo produttivo dell’acciaio propriamente inteso. Nel caso di specie, la corte ha ritenuto che, in un ciclo produttivo, concretizzato da un sistema meccanico che utilizza le materie prime prodotte in loco - il cd. Coke - o raffinate mediante processo di agglomerazione, convogliandole in altoforno per realizzare la ghisa liquida, l’impianto essenziale è solo quello relativo al cd. primo acciaio, e cioè diretto alla realizzazione della altrimenti inesistente bramma d’acciaio).

Sez. 1, n. 19146/2022, Crolla, Rv. 664951-01, ha puntualizzato che la funzione recuperatoria e conservativa dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza comporta, di regola, la continuità di esecuzione dei contratti pendenti - ex art. 50, comma 2, del d.lgs. n. 270 del 1999, come interpretato dall’art. 1 bis del d.l. n. 134 del 2008, convertito con l. n. 166 del 2008 - con la conseguenza che i crediti per i corrispettivi delle prestazioni effettivamente eseguite nel periodo fra l’apertura della procedura e la decisione di scioglimento dal contratto comunicata dal commissario devono essere riconosciuti in prededuzione anche nel successivo fallimento, in forza dell’art. 52 dello stesso d.lgs. e dell’art. 111, comma 1, n. 1, l.fall. Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto che l’esecuzione di un contratto di allibo - relativo alla erogazione dei servizi di alleggerimento del carico di navi per consentirne l’attracco portuale - fosse proseguita sino alla comunicazione della decisione di sciogliersi dallo stesso da parte del commissario, confermando la decisione di merito, di rigetto della richiesta di ammissione al passivo, in quanto non relativa ai corrispettivi dei servizi di trasporto effettivamente compiuti.

Sez. 1, n. 16650/2022, Terrusi, Rv. 664942-01, si è curata di precisare che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, in caso di subentro del commissario straordinario nel contratto di appalto di servizi in corso, avente carattere di continuità, è applicabile la disciplina di cui all’art. 74 l.fall., che prevede il pagamento integrale del prezzo anche delle prestazioni effettuate prima dell’inizio della procedura, perché tale disposizione, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 169 del 2007, si riferisce al subentro in tutti i contratti a esecuzione continuata o periodica, e non più soltanto nei contratti di somministrazione, compresi quelli che hanno ad oggetto prestazioni continuative o periodiche di fare.

Sez. 1, n. 16531/2022, Pazzi, Rv. 664952-01, di nuovo in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, ha osservato che, ove l’ammissione a tale procedura segua la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato con riserva, i crediti sorti dopo il deposito della domanda di concordato e prima della dichiarazione di insolvenza sono prededucibili, ma occorre verificare: i) che tali crediti discendano da un atto legalmente compiuto (e cioè da un atto di straordinaria amministrazione preventivamente autorizzato o da un atto di gestione che, seppur non autorizzato, risulti funzionale alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio); ii) che esista un rapporto di consecuzione tra le due procedure, per essere entrambe volte a regolare una coincidente situazione di dissesto.

Sez. 5, n. 11841/2022, Lo Sardo, Rv. 664494-01, ha chiarito che in tema di imposta di registro, la sentenza che, in sede di opposizione allo stato passivo di una procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, abbia accertato il definitivo mancato avveramento del “beneficium excussionis” rispetto ad un credito già ammesso in via condizionata al passivo dal commissario straordinario, come pure nel caso in cui ne riconosca la natura privilegiata a fronte di una iniziale ammissione chirografaria, costituisce una sentenza puramente dichiarativa di diritti a contenuto patrimoniale, ricognitiva dell’esistenza di un diritto già oggetto di accertamento, come tale assoggettabile ad imposta fissa ex art. 8, comma 1, lett. d), della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986.

Sez. 1, n. 08121/2022, Falabella, Rv. 664359-01, pronunciandosi in tema di amministrazione straordinaria, ma con principio applicabile anche al fallimento, ha osservato che la garanzia (nella specie, un diritto di pegno su azioni) costituita da un terzo in relazione ad obbligazioni contratte da una società successivamente assoggettata a procedura concorsuale, non può essere insinuata nel passivo di quest’ultima dal creditore garantito come causa di prelazione relativa al credito verso il debitore assoggettatovi, atteso che alla massa attiva dei beni del debitore non può essere acquisita la cosa oggetto del pegno, della quale il terzo costituente non ha perduto né la proprietà, né il diritto alla restituzione, in caso di integrale soddisfazione del creditore nell’ambito della procedura concorsuale.

Sez. 1, n. 04342/2022, Pazzi, Rv. 664163-01, ha specificato che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai fini della verifica del requisito dimensionale di cui all’art. 2, lett. a), d.lgs. n. 270 del 1999, devono considerarsi dipendenti solo coloro che, al momento della dichiarazione dello stato d’insolvenza, risultano titolari, da almeno un anno, di un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa, con esclusione di quelli che lavorano in aziende trasferite in affitto a terzi, il cui rapporto di lavoro continua, in applicazione dell’art. 2112, comma 1, c.c., con il cessionario.

Sez. 6-1, n. 02899/2022, Vella, Rv. 663802-01, ancora in tema di amministrazione straordinaria, ha osservato che l’allegazione - dopo il deposito del progetto di stato passivo ma prima dell’udienza di verifica - di una ragione di prededucibilità del credito già insinuato in via chirografaria integra una ammissibile precisazione (o “emendatio”) della domanda, e non già una inammissibile “mutatio libelli”, qualora i fatti costitutivi della prededuzione siano stati già tempestivamente dedotti con la richiesta di insinuazione.

Infine, in Sez. 1, n. 00192/2022, Nazzicone, Rv. 663553-01, si ritrova l’affermazione in base alla quale la regola della cessione “ex lege” dei contratti di azienda che non abbiano carattere personale, di cui all’art. 2558 c.c., vige solo se non è pattuito diversamente; tale diverso accordo è ravvisabile, come nella specie, nell’ipotesi di cessione di azienda da parte dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai sensi degli artt. 62 e 63 del d.lgs. n. 270 del 1999, allorché, secondo l’insindacabile accertamento del giudice del merito condotto ex artt. 1362 e ss. c.c., risulti che la volontà delle parti sia stata limitata alla cessione del compendio aziendale, nella consistenza risultante nel corso del procedimento previsto dalle norme menzionate, senza rilievo dei contratti successivamente conclusi.

11. Il sovraindebitamento.

Di ragguardevole incidenza nel plesso delle procedure da sovraindebitamento si è rivelata Sez. 1, n. 28013/2022, Abete, Rv. 665750-01, ad avviso della quale il decreto del tribunale in composizione collegiale, di rigetto del reclamo avverso il diniego del giudice monocratico di omologazione del piano del consumatore, proposto ai sensi dell’art. 12-bis della l. n. 3 del 2012, è impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di provvedimento avente carattere decisorio e definitivo, in quanto idoneo ad incidere su diritti soggettivi ed a regolamentare in modo incontrovertibile la dedotta situazione di sovraindebitamento.

La medesima pronuncia contiene altre due essenziali affermazioni. Innanzitutto, quella per cui l’omologazione del piano proposto dal consumatore presuppone che esso sia idoneo ad assolvere concretamente la sua funzione causale; a tal fine, il tribunale è tenuto a verificarne la giuridica fattibilità, esprimendo un giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Rv. 665750-02). Inoltre, il principio secondo cui la conversione della procedura di composizione in liquidazione del patrimonio non è consentita ove sia stata denegata l’omologazione del piano del consumatore, poiché tutte le ipotesi di conversione, contemplate dall’art. 14 quater della l. n. 3 del 2012, presuppongono che il piano sia stato omologato (Rv. 665750-03).

Altro importante arrêt in ambito di sovraindebitamento consumeristico è costituito da Sez. 6-1, n. 27843/2022, Di Marzio, Rv. 665711-01, in ragione della quale l’art. 12-bis, comma 3, della l. n. 3 del 2012, nella disciplina anteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 137 del 2000, conv. in l. n. 176 del 2020, richiede al giudice, in sede di omologazione del piano del consumatore, la valutazione della meritevolezza del sovraindebitato, al quale spetta l’onere di provare di aver assunto le proprie obbligazioni con la ragionevole prospettiva di poterle adempiere e di essere ricorso al credito in misura proporzionata alle proprie capacità patrimoniali, non riuscendo poi a fronteggiarle a causa di eventi sopravvenuti non imputabili. Nella medesima pronuncia spicca l’affermazione secondo cui il creditore privilegiato di cui, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 3 del 2012, il piano del consumatore preveda il pagamento parziale nei limiti di capienza del valore periziato del bene, non cessa di essere creditore per la parte degradata in chirografo, per cui su questa stessa parte gli spetta necessariamente un ulteriore soddisfacimento, nella misura prevista per gli altri creditori chirografari (Rv. 665711-02).

Sul lato processuale, Sez. 1, n. 27301/2022, Abete, Rv. 665943-01, prevede che in tema di procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento, non è proponibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto che, in sede di reclamo, abbia confermato la dichiarazione di inammissibilità della proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, trattandosi di provvedimento privo dei caratteri della decisorietà e della definitività e, pertanto, insuscettibile di passaggio in giudicato. Tale conclusione non determina alcun “vulnus” al diritto di difesa, dal momento che non è preclusa la riproposizione della medesima domanda, anche prima del decorso dei cinque anni di cui all’art. 7, comma 2, lett. b), l. n. 3 del 2012, operando tale termine preclusivo solo se il debitore abbia concretamente beneficiato degli effetti riconducibili a una procedura della medesima natura.

Ai rapporti fra esecuzioni e procedure di sovraindebitamento è dedicata la più rilevante delle affermazioni racchiuse in Sez. 3, n. 23343/2022, Saija, Rv. 665436-01, ove è chiarito che in tema di espropriazione forzata, l’avvertimento al debitore esecutato prescritto, quale contenuto del precetto, dall’art. 480, comma 2, secondo periodo, c.p.c. (e volto a renderlo edotto della possibilità di porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento mediante le procedure di composizione della crisi di cui alla l. n. 3 del 2012) ha la finalità, precipuamente “promozionale”, di stimolare o incentivare l’accesso a una delle citate procedure, il quale non è comunque precluso dall’inizio o dalla progressione dell’esecuzione; ne consegue che l’omissione del predetto avvertimento non determina la nullità, bensì una mera irregolarità, dell’atto di intimazione.

  • liquidazione di società
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • gestione delle crisi

DIALOGANDO CON IL MERITO

LE PRIME APPLICAZIONI DEL NUOVO CODICE DELLA CRISI

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Introduzione. - 2 L’accesso alla composizione negoziata: il presupposto oggettivo. - 2.1 Segue: in sede di accesso al concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. - 3 Prime pronunce in tema di procedimento unitario. - 4 Misure protettive e cautelari. - 5 Autorizzazioni al compimento di atti di straordinaria amministrazione.

1. Introduzione.

Lo scorso 15 luglio, dopo non pochi rinvii causati anche dalle conseguenze economiche della diffusione pandemica del Covid-19, è entrato in vigore il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, già approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 e più volte modificato, prima con uno strumento normativo “correttivo” (il d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147), poi da ultimo con il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, di attuazione della Direttiva UE 20 giugno 2019, n. 1023, relativa ai “quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, (nonché) le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione”.

Il Codice introduce nuovi istituti, rinomina la procedura fallimentare in “liquidazione giudiziale”, accorpa le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, prima disciplinate dalla legge n. 3 del 2012 e succ. mod., adotta un procedimento unitario destinato a regolare gli aspetti processuali delle diverse procedure o strumenti di regolazione della crisi, per quanto non specificamente previsto in relazione a ciascuna di esse, e codifica principi generali quali la buona fede del debitore e dei creditori nello svolgimento delle trattative e nel corso delle procedure, o la regola per cui queste ultime vanno trattate in via prioritaria, laddove consentano la ristrutturazione del debito e la prosecuzione dell’attività di impresa, anche in via indiretta, rispetto alla residuale apertura della liquidazione giudiziale.

Tali principi, al di là delle singole novità normative, sembrano l’espressione di una nuova filosofia di fondo del diritto concorsuale, che passa – forse non da oggi - da una concezione statica, di tutela esclusiva della par condicio creditorum e di massimizzazione del soddisfacimento dei creditori, ad una concezione dinamica, nella quale la conservazione dell’impresa in attività – pur se eventualmente in capo ad un soggetto terzo – costituisce un valore tutelato, che deve coordinarsi con i diritti dei creditori, con il limite per cui la ristrutturazione non risulti dannosa per i creditori rispetto ad una ipotetica alternativa liquidatoria. Del resto, già da tempo, si era in dottrina evidenziato come il diritto fallimentare avesse conosciuto uno sviluppo nel senso di un (parziale) oscuramento del “faro” costituito dalla par condicio creditorum sia attraverso il riconoscimento giurisprudenziale o normativo di casi di prededuzione (sulla cui evoluzione, peraltro, quanto ai crediti professionali, si ricorda la fondamentale Cass. 31 dicembre 2021 n. 42093 e, oggi, l’art. 6 del c.c.i.), sia attraverso l’idea che, quantomeno con il concordato preventivo in continuità, fosse possibile evitare l’integrale liquidazione del patrimonio del debitore a favore dei suoi creditori.

In questo contesto, l’attuazione dei principi della citata Direttiva Insolvency non è pertanto un fenomeno “rivoluzionario” dei principi del nostro ordinamento, ma rappresenta probabilmente l’evoluzione di esso nel segno – di portata eurounitaria – dell’idea che l’emersione tempestiva della crisi possa evitare fenomeni liquidatori inefficienti e la mortificazione del tessuto produttivo ed occupazionale, dovendo perciò avere portata prioritaria rispetto alle soluzioni della crisi e dell’insolvenza di impresa di portata puramente liquidatoria e disgregativa. Il tutto nel segno, peraltro, dell’idea che anche questi fenomeni possano poi portare – sia pure con i limiti dei comportamenti patologici o frodatori - alla esdebitazione ed alla c.d. second chance del debitore.

In attesa che le prime questioni interpretative poste dal nuovo Codice giungano al vaglio della S.C., questo sintetico contributo tematico si propone di analizzare le prime applicazioni che dello stesso sono state fornite dalla giurisprudenza di merito, per prima naturalmente chiamata a dare applicazione ai nuovi istituti ed a dipanare gli snodi interpretativi posti dalle norme di nuovo conio.

Il breve tempo trascorso dalla formale entrata in vigore del nuovo corpus normativo, in uno con una norma transitoria contenuta nell’art. 390, comma 2, c.c.i. (secondo cui “Le procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al medesimo comma sono definite secondo le disposizioni del r.d. n. 267del 1942, nonché dalla l. n. 3del 2012”), fanno sì, peraltro, che solo alcuni dei nuovi istituti siano stati sino ad ora affrontati da decisioni edite.

Le novità affrontate per prime dai giudici del merito riguardano, soprattutto, quelle di carattere per così dire prodromico rispetto alla risoluzione della crisi, in tema di composizione negoziata, procedimento unitario, misure protettive e cautelari. Segue pertanto una breve rassegna, necessariamente incompleta, avuto riguardo sia – come detto – al breve periodo di applicazione del Codice – sia alla difficoltà di reperimento delle più recenti decisioni di merito, per le quali ci si è fondamentalmente affidati ai principali portali e siti giuridici in materia (principalmente “ildirittodellacrisi.it” e “il caso.it; ristrutturazioni aziendali”).

2. L’accesso alla composizione negoziata: il presupposto oggettivo.

La composizione negoziata, con lievi modifiche rispetto a quanto già previsto nel d.l. n. 118 del 21, è stata inserita nel Titolo II del nuovo codice, sostituendo integralmente l’originaria composizione assistita davanti agli OCRI che, soprattutto per la macchinosità del loro intervento (organo collegiale di tre professionisti di nomina diversificata, scansione temporale particolarmente procedimentalizzata, assenza di misure volte ad incentivare una reale partecipazione dei creditori) non è mai entrata in vigore ed è stata ritenuta potesse essere sostituita dal percorso negoziato introdotto nel 2021, sotto l’egida di un esperto nominato fra i soggetti iscritti in appositi albi tenuti dalla Camera di commercio del capoluogo di regione (oltre che delle Province di Trento e Bolzano) in cui l’impresa ha la propria sede legale.

Come è dato leggere nella relazione illustrativa di accompagnamento al d.l. n. 118 del 21, la finalità perseguita dal nuovo percorso negoziato è stata quella di “fornire alle imprese in difficoltà nuovi strumenti per prevenire l’insorgenza di situazioni di crisi o per affrontare e risolvere tutte quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l’esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili”.

Quali sono gli spazi applicativi delle nuove norme (oggi confluite stabilmente nel nuovo Codice)?

Il presupposto oggettivo, che va da uno stato di pre-crisi fino ad una situazione prossima o addirittura di insolvenza, purché ancora reversibile, rappresenta certamente uno degli aspetti più interessanti e, al tempo stesso, critici, dei nuovi istituti della composizione negoziata e del concordato semplificato, che della prima può costituire un possibile sbocco, laddove le trattative abbiano esito negativo e, tuttavia, il debitore le abbia affrontate in buona fede illustrando delle soluzioni concrete da offrire ai creditori, ai quali, pertanto, in ultima istanza deve imputarsi il fallimento della fase di negoziazione.

Il presupposto soggettivo è, invece, costituito dalla qualità di imprenditore, di piccole o anche rilevanti dimensioni, anche se non commerciale (sono quindi compresi gli imprenditori agricoli ma anche le start up innovative), purché iscritto nel registro delle imprese, ed escluse le figure dei professionisti e dei consumatori, per i quali restano percorribili esclusivamente gli istituti del sovraindebitamento.

Il ruolo dell’esperto in questo percorso di composizione negoziata è certamente centrale, posto che allo stesso compete, fra l’altro, di incontrare senza indugio l’imprenditore e, come dispone l’art. 17, comma 5, c.c.i. “se non ravvisa concrete prospettive di risanamento, all’esito della convocazione o in un momento successivo […] ne dà notizia all’imprenditore e al segretario generale della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura che dispone l’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata”. A sua volta l’esperto è definito all’art. 2, comma 1, lett. o bis) come “il soggetto terzo e indipendente, iscritto nell’elenco di cui all’articolo 13, comma 3 e nominato dalla commissione di cui al comma 6 del medesimo articolo 13, che facilita le trattative nell’ambito della composizione negoziata”.

Si diceva che il presupposto oggettivo rappresenta certamente uno degli aspetti più innovativi e, come si vedrà, subito controversi del nuovo istituto. Infatti, seppure l’intervento del tribunale nella composizione negoziata è in astratto previsto come di tipo eventuale ed intermittente, di fatto chiamato in causa dallo stesso debitore che avanzi richiesta di misure protettive o cautelari o di particolari autorizzazioni, in realtà le prime applicazioni evidenziano come l’istituto sia stato affrontato da molte imprese già in una situazione di crisi evidente, se non di insolvenza, così necessitando dell’ “ombrello protettivo” delle misure (confermate o meno) dall’organo giudiziario per poter ingaggiare delle serie trattative con i creditori. Ed in tale sede, l’orientamento forse prevalente ha ammesso un vaglio incidentale sul presupposto oggettivo di accesso, formandosi alcuni indirizzi diversificati in ordine alla possibilità di utilizzo della composizione negoziata per l’impresa che non si trovi semplicemente in crisi, ma sia già in una situazione di vera e propria insolvenza; in tale ultimo caso, con tutte le difficoltà di individuare in concreto una c.d. “insolvenza reversibile” che rappresenta, apparentemente, il limite massimo per poter entrare in questo percorso stragiudiziale e non utilizzare, piuttosto, sin da subito, i più invasivi strumenti di risoluzione della crisi (principalmente accordi di ristrutturazione e concordato preventivo).

Da ultimo, si può ricordare Trib. Modena, 3 dicembre 2022, est. Bianconi, secondo cui le misure protettive intanto possono trovare conferma giudiziale laddove le stesse siano strumentalmente idonee a salvaguardare trattative effettivamente in corso, nell’ottica del raggiungimento di un risanamento che non appaia obiettivo “manifestamente implausibile”, in ragione della “palese inettitudine” del progetto di piano di risanamento imbastito dalla impresa. Aggiunge la decisione modenese che in astratto, elementi estrinseci indicativi, o quantomeno sintomatici, di tale idoneità, sono rappresentati da: i) la espressa manifestazione di disponibilità alle trattative da parte di una platea di creditori ampiamente rappresentativa dell’intero ceto; ii) l’attestato di fiducia dell’Esperto; iii) la mancanza di iniziative esecutive o liquidatorie in essere; invece, sempre in astratto ma su un piano intrinseco, meritano apprezzamento: i) la chiarezza della strategia di risanamento; ii) la ragionevolezza e la solidità delle assunzioni del progetto di piano di risanamento; iii) il fatto che la continuità non distrugga risorse, di modo da indurre a ritenere con un buon grado di tranquillità che l’eventuale stay non possa verosimilmente pregiudicare i creditori; iv) il fatto che la prospettiva liquidatoria possa immaginarsi esiziale per la gran parte dei creditori.

Ciò posto, secondo l’indirizzo che si va affermando, una situazione di insolvenza non è di ostacolo all’accesso alla composizione negoziata, purché appaia comunque percorribile una strategia di intervento e di soluzione dell’eccessivo indebitamento mediante un plausibile accordo con i creditori.

Così, ad es. Trib. Bologna, 30 novembre 2022, est. Atzori, ha ritenuto che sia meritevole di accoglimento l’istanza di proroga delle misure protettive e cautelari formulata dal debitore in circostanze tali da configurare il provvedimento come necessario al perfezionamento delle trattative con i creditori; a tale conclusione, in particolare, non si oppone lo stato di insolvenza in cui possa trovarsi l’impresa in quanto l’interesse dei creditori trova tutela sia nel dovere di gestione dell’impresa nel loro prevalente interesse sia nel dovere di vigilanza e di segnalazione in capo all’esperto in caso di compimento di atti di straordinaria amministrazione da parte del debitore. In precedenza, sempre Trib. Bologna, 8 novembre 2022, est. Atzori, aveva espressamente statuito che l’insolvenza non pregiudica l’accesso alla composizione negoziata per la soluzione della crisi né tanto meno preclude l’applicazione o la conferma delle misure protettive e cautelari richiesta dall’imprenditore, a condizione che tale condizione risulti coerente alle finalità recuperatorie dell’istituto e quindi reversibile mediante interventi di risanamento utili al ripristino della solvibilità.

Anche Trib. Roma, 10 ottobre 2022, Pres. est. La Malfa, sembra ammettere alla composizione negoziata l’impresa insolvente, purché tale condizione appaia in concreto “reversibile” ed idonea a mantenere la continuità dell’impresa: in materia di composizione negoziata, la conferma delle misure protettive e cautelari è subordinata, tra le altre cose, ad una valutazione delle possibilità di risanamento dell’impresa; a tal fine, la domanda di conferma delle misure protettive deve essere accompagnata da un piano che permetta al Giudice di effettuare una valutazione prognostica, o quantomeno realistica, circa la possibilità di un reale superamento della crisi finanziaria ed industriale che consenta di mantenere la continuità aziendale, non giustificandosi, in caso di soluzioni che comportino la liquidazione dell’impresa, l’adozione di siffatti strumenti fortemente incisivi dei diritti dei terzi e dei creditori.

Ha invece ritenuto che lo stato di insolvenza sia preclusivo dell’accesso alla composizione negoziata Trib. Siracusa, 14 settembre 2022, est. Maida, affermando che lo stato di insolvenza conclamata e risalente dell’impresa preclude l’accesso alla composizione negoziata della crisi, e le misure protettive vanno conseguentemente revocate, le esigenze dell’allerta precoce potendo essere appagate solo da una interpretazione dei presupposti di accesso volta a stimolare la tempestiva individuazione della situazione di crisi. Secondo il tribunale siculo l’apparente dicotomia tra le condizioni di accesso declamate dall’art. 2 (ora 12) – la probabilità di crisi o di insolvenza – e i riferimenti alle imprese in stato di insolvenza (seppur reversibile) sparsi nelle norme di legge (art. 9 d.l., ora 21 CCII), nel decreto dirigenziale e nella relazione illustrativa va risolta alla luce della distinzione tra condizioni di accesso alla composizione negoziata e presupposti per la prosecuzione delle trattative, nel senso che lo stato di insolvenza sussistente al momento dell’istanza di nomina dell’esperto e rilevato ex ante dall’imprenditore preclude l’accesso alla composizione negoziata mentre lo stato di insolvenza che sopravvenga e venga rilevato dall’esperto nel corso delle trattative, non preclude la prosecuzione del procedimento, laddove sussistano concrete prospettive di risanamento.

In precedenza, in questo senso, anche Trib. Ferrara, 21 marzo 2022, est. Ghedini, secondo cui quando l’imprenditore che chieda di accedere alla procedura di composizione negoziata della crisi e alle misure protettive previste dagli artt. 6 e 7 del d.l. n. 118 del 2021, convertito in l. n. 147 del 2021, non presenti, sulla base delle sue stesse affermazioni e prospettazioni, una seria e ragionevole possibilità di risanamento e quindi manchi lo stesso presupposto per accedere a quella procedura, il tribunale deve pronunciarsi nel senso dell’inammissibilità del ricorso come proposto per la conferma di dette misure (nel caso di specie si è dato particolare rilievo allo stato di liquidazione ed all’assenza di indicazioni, nel ricorso, circa i tempi e le modalità di revoca della causa di scioglimento).

2.1. Segue: in sede di accesso al concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio.

Una novità rilevante contenuta nel codice (per il vero già anticipata dal d.l. n. 118 del 2021) attiene alla possibilità di fare accesso, attraverso la composizione negoziata ed in caso di fallimento della stessa, ad un nuovo concordato semplificato per la liquidazione dei beni, caratterizzato dall’assenza di votazione dei creditori, ma comunque sottoposto ad un penetrante vaglio giudiziale in sede di omologazione della relativa proposta, detta semplificata anche perché priva di condizioni minime di soddisfacimento dei creditori. Tale proposta, peraltro, deve essere connotata dal necessario rispetto dell’ordine delle cause legittime di prelazione e, in sede giudiziale, può essere sottoposta alla valutazione di un semplice ausiliario, se dal caso nominato dal giudice, piuttosto che di un vero e proprio commissario giudiziale.

Al di là delle diverse ricostruzioni dottrinali che sono state date a questa forma di concordato, cui in questa sede appare ultroneo far riferimento, ciò che per primo ha interessato la giurisprudenza di merito, nelle applicazioni reperite, riguarda lo snodo del collegamento fra tale istituto e la necessaria precedente fase di composizione negoziata. L’art. 25 sexies c.c.i. prevede infatti che “quando l’esperto nella relazione finale dichiara che le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede, che non hanno avuto esito positivo e che le soluzioni individuate ai sensi dell’art. 23, commi 1 e 2, lett. b) non sono praticabili, l’imprenditore può presentare, nei sessanta giorni successivi alla comunicazione di cui all’art. 17, comma 8, una proposta di concordato per cessione dei beni unitamente al piano di liquidazione e ai documenti indicati nell’art. 39”.

Al riguardo si è notato da parte di Trib. Firenze, 31 agosto 2022, Pres. est. Legnaioli, che in tema di concordato semplificato, il requisito dello svolgimento in buona fede delle trattative postula, innanzitutto, che vi stata una effettiva e completa interlocuzione con i creditori interessati dal piano di risanamento, i quali devono aver ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’imprenditore e sulle misure per il risanamento proposte, e aver potuto esprimersi su di esse; inoltre, comporta che le trattative si siano sviluppate con la sottoposizione ai creditori di una (o più) proposte con le forme previste dall’art. 23, comma 1, CCII; infine, implica che sia stata fornita ai creditori una comparazione del soddisfacimento loro assicurato dalle predette soluzioni con quello che potrebbero ottenere dalla liquidazione giudiziale.

Mentre Trib. Bergamo, 23 settembre 2022, Pres. est. De Simone ha ritenuto che è inammissibile il ricorso al concordato semplificato, qualora in esito al relativo percorso si palesi praticabile il ricorso all’accordo di ristrutturazione dei debiti (ADR), anche con transazione fiscale, essendo l’istituto ex art. 25 sexies CCII utilizzabile solo in via residuale ove risulti impraticabile la soluzione di cui all’art.23, comma 2 lett. b), CCII (con decisione che, di fatto, accogliendo la tesi peraltro prevalente, ritiene che il concordato semplificato non sia compatibile con situazioni di forte indebitamento erariale, per la mancata previsione in esso della c.d. transazione fiscale, disciplinata dagli artt. 63 e 88 c.c.i., rispettivamente nell’ADR e nel concordato preventivo “ordinario”).

3. Prime pronunce in tema di procedimento unitario.

Il procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale rappresenta la stessa epigrafe con cui si apre la Sez. II del Capo IV, Titolo III del codice. Tale disciplina, contenuta negli artt. 40 – 53 del codice (ma a cui si devono necessariamente aggiungere anche le norme della Sez. I sulla iniziativa per l’accesso ai detti strumenti e procedure e della Sez. III, in tema di misure cautelari e protettive) costituisce attuazione del principio fondamentale di delega, già contenuto nella l. n. 155 del 2017, per cui il legislatore delegato era chiamato a (art. 2 lett. d) adottare un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, in conformità con l’articolo 15 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo, prevedendo la legittimazione ad agire dei soggetti con funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa, ammettendo l’iniziativa del pubblico ministero in ogni caso in cui egli abbia notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza, specificando la disciplina delle misure cautelari, con attribuzione della relativa competenza anche alla Corte di appello, e armonizzando il regime delle impugnazioni, con particolare riguardo all’efficacia delle pronunce rese avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale ovvero di omologazione del concordato; nonché (art. 2 lett. h) uniformare e semplificare, in raccordo con le disposizioni sul processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale.

Il tema si lega, peraltro, strettamente a quello del rito applicabile dal punto di vista intertemporale, come messo in evidenza, fra gli altri, da Trib. Bologna, 29 settembre 2022, Pres. Florini, est. Atzori, secondo cui in presenza di istanza per la dichiarazione di fallimento presentata sotto il vigore della legge fallimentare, il ricorso per la concessione del termine per il deposito del piano e della proposta di concordato depositato dopo il 15 luglio 2022 è regolato dall’art. 44 del Codice della crisi e dell’insolvenza in quanto deve darsi prevalenza al dato letterale di cui all’art. 390 CCII che prevede l’applicazione della legge fallimentare alle procedure “aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande” depositati prima dell’entrata in vigore del Codice e quindi a quelle che sono conseguenza dei medesimi; si deve dunque escludere che sia applicabile la disciplina che regola la domanda di fallimento alle procedure concorsuali che, rispetto al medesimo, sono del tutto autonome ed autosufficienti.

In senso contrario appare la decisione di Trib. Trento, 17 agosto 2022, Pres. Fermanelli, est. Sieff, secondo cui il procedimento di concordato preventivo introdotto successivamente all’entrata in vigore del CCII è retto dalla Legge Fallimentare se la domanda è presentata in pendenza di una procedura per la dichiarazione di fallimento iniziata precedentemente al 15 luglio 2022, poiché, in tal caso, l’insuccesso del concordato deve lasciare il posto alla dichiarazione di fallimento secondo le norme applicabili a quest’ultimo, e non si può, perciò, ammettere che il primo sia governato da un apparato normativo diverso; del resto, nella scelta se applicare, a entrambe le procedure, la Legge fallimentare o il CCII, l’art. 390, secondo comma, CCII tende ad attribuire prevalenza alla prima.

Mentre Trib. Bergamo, 13 settembre 2022, Pres. De Simone, est. Randazzo, ha invece ritenuto che nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito ha il potere - dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, desumibile anche dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Secondo tale decisione, infatti, la domanda di dichiarazione di fallimento e di apertura della liquidazione giudiziale sono sostanzialmente sovrapponibili, sol che si consideri la comunanza di causa petendi e di petitum. Di conseguenza, va rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’istanza, non risultando la domanda introduttiva affetta da un vizio insanabile o in concreto non sanato e potendo la stessa essere riqualificata d’ufficio come istanza di apertura della liquidazione giudiziale. In senso opposto si è invece ritenuto che debbano essere dichiarati inammissibili de plano i ricorsi per la dichiarazione di fallimento depositati in data successiva a quella di entrata in vigore del CCII (così, Trib. Verona, 27 luglio 2022, Pres. est. Attanasio).

Ancora Trib. Verona, 20 settembre 2022, Pres. Attanasio, est. Lanni, ha invece ritenuto che il procedimento c.d. unitario possa applicarsi anche alle procedure da sovraindebitamento, affermando che tale conclusione vale per il procedimento per l’apertura di una procedura di liquidazione controllata, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 65, comma 2, CCII. (in particolare si è ritenuta la necessità di produrre la documentazione di cui all’art. 39 c.c.i. da parte del debitore e che a tal fine sussiste un potere di interlocuzione del Tribunale finalizzato a superare eventuali carenze dell’istanza o della documentazione allegata, attraverso la concessione di un breve termine per operare l’integrazione della documentazione mancante o carente).

Affronta un tema indirettamente connesso a quello del procedimento unitario Trib. Arezzo, 7 novembre 2022, Pres. est. Pani, secondo cui l’istituto di cui all’art. 89 CCII, il quale dispone la sospensione per il debitore di taluni obblighi previsti dagli artt. 2246, 2447, 2482 bis e 2482 ter c.c. in materia di riduzione del capitale sociale per perdite, non trova applicazione al caso di concordato preventivo con riserva di deposito della documentazione prescritta dall’art. 44, comma primo, CCII, in costanza della fase cd. “prenotativa”. Il legislatore, infatti, ha ritenuto di tipizzare l’esenzione dagli obblighi suddetti da una parte, solo per quelle domande potenzialmente idonee a determinare la immediata apertura di strumenti di governo della crisi in forma “piena” - sul presupposto che solo in tal caso il ricorso presenti una serietà e consistenza tale da giustificare la deroga alla disciplina comune - e, dall’altra, nell’ambito della composizione negoziata della crisi, procedimento per sua natura destinato alle imprese che conservano una potenzialità di risanamento.

4. Misure protettive e cautelari.

L’importanza delle misure protettive e cautelari emerge con evidenza se si considera che, a differenza del regime previgente, non è stata accolta dal Codice – se non in modo molto più limitato - l’idea di un concordato “prenotativo” o “in bianco”, ossia un ricorso dal quale derivava la concessione – senza particolari valutazioni discrezionali del giudice – di un termine fino a 120 gg., ulteriormente prorogabile sino a 60 gg. in caso di giustificati motivi, durante il quale il debitore era, per così dire, al riparo da iniziative aggressive dei creditori e poteva, perciò predisporre con maggiore tranquillità ed efficienza complessiva una proposta di risoluzione della crisi, non necessariamente liquidatoria. Le misure protettive, quindi, finiscono per svolgere un ruolo insostituibile evitando, appunto, che le spinte “individuali” dei creditori possano minare in radice soluzioni concorsuali tali da consentire una prosecuzione dell’attività di impresa, in forma diretta o indiretta (vds. anche art. 84 c.c.i. per tale distinzione).

Le misure protettive possono essere confermate e poi prorogate già nel corso della composizione negoziata (artt. 18 e 19 c.c.i.), ma è nella fase della predisposizione di una soluzione concorsuale vera e propria e nel corso della relativa procedura che le stesse possono nuovamente giocare un ruolo di primo piano (vds. artt. 44, 54 e 55 c.c.i.).

Tra le più recenti pronunce al riguardo, si segnala Trib. Macerata, 2 dicembre 2022, est. Tellarini, secondo cui in tema di accesso “con riserva” ad uno strumento di regolazione della crisi, qualora venga prospettata ab initio la presentazione di una domanda completa di omologa di un accordo di ristrutturazione (ADR) e il debitore faccia contestuale richiesta di misure protettive, ai fini della conferma di queste ultime non occorre, ai sensi degli art. 55, comma 3, e art. 54, comma 2, primo e secondo periodo, CCII, (diversamente da quanto disposto dall’art. 19 CCI in ambito di composizione negoziata), né la fissazione di un’udienza, né che la domanda venga portata a conoscenza dei controinteressati. Nella medesima linea di pensiero, anche Trib. Lucca, 8 settembre 2022, est. Capozzi, ha stabilito che in caso di domanda di concordato con contestuale richiesta di misure protettive ex art. 54, comma 2, CCII, l’adozione del provvedimento di cui all’art. 55, comma 3, CCII non richiede la previa convocazione delle controparti. Il modello del c.d. automatic stay di cui all’art. 168 l.fall. appare sostituito da un modello in cui gli effetti protettivi continuano a prodursi dal momento della pubblicazione della domanda ex art. 40 CCII nel Registro delle Imprese, salva la necessaria conferma da parte dell’autorità giudiziaria, la quale svolge valutazioni nell’interesse della massa indistinta dei creditori.

Anche Trib. Modena, 1 dicembre 2022, est. Bianconi, ha ritenuto che la domanda di proroga delle misure protettive – diversamente da quanto avviene per il caso di conferma, di abbreviazione o di revoca – non impone, ai fini della decisione, di sentire i creditori. Ciò in forza del dato normativo, atteso che il comma 5 dell’art. 19 CCII diverge, in parte qua, dai commi 4 e 6. La mancata celebrazione della udienza, inoltre, consente di addivenire ad una decisione più snella e, per contro, il “sacrificio” dei creditori è da ritenersi de facto insussistente, dato che essi sono stati sentiti in sede di conferma, e che sono sempre ed in ogni momento legittimati a chiedere la abbreviazione o la revoca.

Dal punto di vista procedimentale, Trib. Verona, 25 novembre 2022, est. Pagliuca, ha invece osservato che lo scorretto avvio del procedimento di composizione negoziata della crisi, in esito ad un errore sul requisito soggettivo dell’impresa debitrice, giustifica la revoca de plano delle misure protettive medio tempore richieste (fattispecie nella quale l’impresa debitrice, oggettivamente “soprasoglia”, aveva fatto domanda di accesso alla composizione negoziata mediante lo speciale procedimento riservato alle imprese “sottosoglia”, instando per la nomina dell’esperto, non alla commissione di cui all’art. 13, comma 6 CCII, bensì direttamente al segretario della competente Camera di commercio territoriale).

Sulla finalità delle misure protettive rispetto alla composizione negoziata, cfr. Trib. Roma, 21 novembre 2022, est. Cottone, secondo cui vanno confermate le misure protettive, domandate con l’istanza di accesso alla composizione negoziata, che perseguano l’obiettivo di mettere la continuazione dell’attività d’impresa e le trattative fra il debitore e i suoi creditori al riparo da iniziative pregiudizievoli di alcuni di questi, bilanciando gli interessi del ceto creditorio e di quelli ordinamentali alla conservazione del valore e delle potenzialità reddituali dell’impresa in crisi (nel caso di specie, il Tribunale ha confermato le misure miranti, fra l’altro, a sospendere il rilascio forzato dei locali aziendali soltanto per il tempo concesso al debitore da un terzo per confermare l’acquisto di un nuovo plesso aziendale per la prosecuzione dell’attività).

Quanto agli effetti delle misure protettive rispetto alle eventuali esecuzioni individuali pendenti, Trib. Milano, 26 gennaio 2022, est. Bottiglieri, ha chiarito che la conferma giudiziale delle misure protettive richieste dal debitore con riferimento ad una esecuzione pendente (nel caso di specie, espropriazione presso terzi in precedenza promossa in suo danno, avente ad oggetto le somme dovutegli da una serie di istituti di credito) si deve ritenere che il relativo pignoramento non possa essere dichiarato inefficace, con conseguente liberazione dei conti correnti bloccati al fine di mettere a disposizione del nominato esperto i fondi necessari per soddisfare equamente tutti i creditori, ma che il procedimento esecutivo possa essere solo sospeso dal tribunale al fine di consentire che le trattative volte al superamento della crisi si possano svolgere proficuamente, ed entri, pertanto, in una fase di mera quiescenza, con il conseguente blocco dell’attività liquidatoria.

Invece, in tema di revoca di misure protettive già concesse, Trib. Modena, 29 ottobre 2022, est. Bianconi, ha osservato che deve inevitabilmente essere posto in capo ai soggetti che chiedono l’intervento del Giudice ai fini della revoca delle misure protettive, nelle ipotesi tipizzate, un onere di allegazione e prova più pervasivo; la decisione precisa ulteriormente che il codice non ha imposto l’arresto delle trattative o la revoca delle misure protettive per il caso di presunta violazione dei doveri previsti dall’art. 16; pertanto è comunque prevedibile un mantenimento in essere delle trattative, e con esse delle misure protettive, al ricorrere di un duplice ordine di condizioni: i) la effettività della resipiscenza del debitore che abbia compiuto violazioni, corroborata da una discontinuità nella gestione delle trattative, volta alla prosecuzione di esse rigorosamente improntata ai canoni di lealtà e trasparenza; ii) la perdurante disponibilità dei creditori a trattare.

Da richiamare, per la sua rilevanza, Trib. Milano, 16 settembre 2022, est. Agnese, che ha ritenuto applicabili le misure protettive anche al concordato semplificato. In precedenza, lo stesso Trib. Milano, 21 luglio 2022, Pres. est. Macchi, ha rilevato che quanto alle misure protettive richieste nell’ambito di una procedura di composizione negoziata della crisi come confermate dal giudice monocratico, si deve ritenere ammissibile il reclamo proposto da un creditore, ai sensi dell’art. 7, ultimo comma, d.l. n. 118 del 2021 (oggi vds. art. 19, comma 7, del c.c.i.), avverso l’ordinanza emessa da quel giudice anche laddove non abbia in precedenza fatto valere le sue difese in quella sede. Secondo la stessa decisione, con principio che può ritenersi ancora attuale rispetto alla norma codicistica indicata, il reclamo previsto dall’art. 7, settimo comma del D.l. 118/2021, convertito con l. 147 del 2021, come proponibile ai sensi dell’articolo 669 terdecies del codice di procedura civile avverso l’ordinanza del giudice monocratico emessa, nell’ambito di una procedura di composizione negoziata, in sede di decisione del ricorso per la modifica o conferma delle misure protettive, costituisce un rimedio avente carattere interamente devolutivo e sostitutivo, tanto che devono essere fatti valere in quella sede anche le circostanze e i motivi sopravvenuti ed il giudice può sempre assumere informazione ed acquisire nuovi documenti; ciò ovviamente deve avvenire nel rispetto del principio del contraddittorio.

Quanto alle misure cautelari si è recentemente osservato che le stesse devono consistere in provvedimenti ad effetti confermabili con il provvedimento che dispone l’apertura della liquidazione giudiziale o che omologa il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione, ovvero che si ricollegano al susseguente procedimento concorsuale, così richiedendone una stretta strumentalità (Trib. Barcellona Pozzo di Gotto, 10 ottobre 2022, est. Intravaia).

In termini restrittivi anche Trib. Catania, 25 luglio 2022, est. De Bernardin, secondo cui l’equo contemperamento degli interessi impone che con la misura cautelare l’imprenditore non possa ottenere risultati ulteriori e diversi rispetto alla propria ristrutturazione. Conseguentemente, sarà possibile imporre alla controparte delle trattative un pati legato a un provvedimento giurisdizionale di sospensione dei pagamenti delle rateizzazioni in corso che gli precluda, in via provvisoria, l’afflusso finanziario derivante dall’esecuzione del contratto sospeso, ma non un facere. (Nel caso di specie, sulla base dei suddetti principi, il giudice ha dichiarato l’inammissibilità della misura avente ad oggetto l’inibitoria alla decadenza dal beneficio della rateizzazione in caso di mancato pagamento delle rate in scadenza, nonché della richiesta di ordinare all’ INPS il rilascio del DURC).

Correttamente, Trib. Bergamo, 24 febbraio 2022, est. Conca, ha ritenuto che nel novero delle misure protettive e cautelari ex art. 6 e art. 7 d.l. n. 118 del 2021 (oggi art. 18 c.c.i.) non rientra quella mirata a constatare l’inefficacia dell’ipoteca giudiziale iscritta nei novanta giorni che precedono la data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese; si è infatti ritenuto che il riferimento alla sola impossibilità per i creditori di acquistare diritti di prelazione non concordati con l’imprenditore, dal giorno della pubblicazione dell’istanza di misure e fino alla conclusione delle trattative, non prevede l’inefficacia di garanzie anteriormente iscritte ed esclude il ricorso in via analogica alle previsioni di cui all’art. 168 l.fall., tenuto conto che in questo caso sussiste già una procedura concorsuale (sia pur in chiave prenotativa) mentre in sede di composizione negoziata non vi è ancora alcuna procedura concorsuale per stessa scelta dell’istante.

5. Autorizzazioni al compimento di atti di straordinaria amministrazione.

Il tema è stato affrontato nell’anno in oggetto da poche decisioni di merito, probabilmente anche per la diffidenza degli operatori rispetto al compimento di atti di straordinaria amministrazione da parte del debitore, che potrebbero potenzialmente ridurre o annullare la garanzia patrimoniale da questi offerta, in un momento quale quello delle trattative per la composizione negoziata, durante il quale l’imprenditore è sottratto a penetranti controlli da parte di organi di una procedura che, in quel momento, non può ancora dirsi sussistente.

Trib. Bologna, 8 novembre 2022, est. Atzori, ha così ritenuto di rigettare l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili proposta nell’ambito della composizione negoziata della crisi, qualora alla luce della complessiva operazione risulti il concreto pericolo di pregiudicare per il futuro la fattibilità della continuità aziendale tramite la procedura di concordato preventivo ovvero, in ragione dei meccanismi di segregazione patrimoniale previsti a garanzia del finanziatore, il rischio di una destinazione a suo esclusivo vantaggio di risorse altrimenti utilizzabili a beneficio dei creditori in linea con il canone di par condicio nello scenario della liquidazione giudiziale.

Trib. Parma, 4 novembre 2022, est. Vernizzi, ha invece autorizzato la cessione di rami d’azienda, ma circondando l’operazione di apprezzabili cautele per i creditori: posta la preliminare condizione che sia stato previsto od ipotizzato l’espletamento di una procedura competitiva oltre a pubblicità ed informative da rendere a potenziali interessati, che sia curata la salvaguardia dei rapporti con i principali partners commerciali ed il mantenimento dei livelli occupazionali, il tribunale può autorizzare la cessione dell’azienda o di suoi rami nel corso della composizione negoziale a condizione che la stessa risponda, in prima analisi, all’interesse del ceto creditorio attraverso un raffronto con la presumibile soddisfazione dei medesimi creditori avuto riguardo allo scenario liquidatorio di matrice concorsuale, all’esito di un giudizio di non inferiorità della provvista generata dalla cessione dell’azienda in continuità in fase di composizione negoziata con il risultato astrattamente atteso dalla vendita endofallimentare dell’azienda in esercizio; oltre al suddetto giudizio prognostico, incentrato sulla comparazione tra due scenari connotati dal compimento o dal mancato compimento dell’atto da autorizzare, è necessario che sia possibile verificare anche le stesse modalità di soddisfazione dei creditori con riguardo al progetto o al percorso di risanamento che il debitore intende intraprendere che deve pertanto essere delineato nelle concrete modalità operative (con indicazione dello stato di avanzamento delle trattative in atto, delle modalità della ristrutturazione dell’esposizione debitoria e del grado di consenso dei creditori su quest’ultima) e che la cessione dell’azienda o del ramo d’azienda risulti coerente con il piano di risanamento delineato o prospettato per il superamento delle condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario dell’imprenditore e con gli strumenti di cui questi intenda avvalersi all’esito delle trattative.

  • liquidazione di società
  • responsabilità sociale dell'impresa
  • impresa
  • gestione delle crisi

APPROFONDIMENTO TEMATICO

CRISI, INSOLVENZA E LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE NEL NUOVO CODICE

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Introduzione: il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. - 2 La nuova definizione di “crisi”. - 3 L’art. 121 del Codice. Il requisito soggettivo. - 3.1 Segue: il requisito oggettivo. - 4 La liquidazione giudiziale.

1. Introduzione: il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.

Il 15 luglio scorso, dopo oltre due anni di rinvii, è entrato in vigore il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 e più volte modificato, prima con il c.d. Correttivo (d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147), da ultimo con il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, di attuazione della Direttiva UE 20 giugno 2019, n. 1023.

Si tratta certamente di una novità importantissima per il nostro ordinamento, che si apre ai principi contenuti nella citata Direttiva, c.d. Insolvency, il cui Considerando n. 2 evidenzia programmaticamente come “… I quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l’insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane”.

Non è ovviamente possibile, in questa sede, ripercorrere l’intero articolato normativo, che si compone di circa 400 articoli e che sostituisce integralmente la legge fallimentare del 1942, peraltro anch’essa più volte rimaneggiata negli ultimi anni, con una norma di carattere transitorio contenuta nell’art. 390 c.c.i., secondo cui “I ricorsi per dichiarazione di fallimento e le proposte di concordato fallimentare, i ricorsi per l’omologazione degli accordi di ristrutturazione, per l’apertura del concordato preventivo, per l’accertamento dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa e le domande di accesso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento depositati prima dell’entrata in vigore del presente decreto sono definiti secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3. Le procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al medesimo comma sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3”.

L’ampiezza del nuovo corpus normativo, che si articola in ben dieci Titoli (1), deriva, altresì, con uno sforzo di reductio ad unitatem del legislatore, dal fatto che lo stesso comprende anche l’intera materia del sovraindebitamento, in precedenza regolata dalla legge extracodicistica n. 3 del 2012 e succ. mod.

2. La nuova definizione di “crisi”.

Prendendo esempio da una metodologia di legiferazione diffusa all’estero ed in ambito unionale, l’art. 2 del nuovo Codice contiene una lunga serie di definizioni. Fra queste spicca, indubbiamente, quella contenuta nella lettera a), con cui si apre tale elencazione, cioè il concetto di “crisi” definito come “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”.

Va subito detto che la liquidazione giudiziale, prendendo il posto del fallimento, continua a richiedere il presupposto oggettivo dello stato di insolvenza, che lo stesso art. 2 lett. b) afferma essere “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Viene quindi confermata la definizione di insolvenza già contenuta nell’art. 5 l.fall., con una scelta quanto mai opportuna, in quanto vale a semplificare l’individuazione del presupposto oggettivo della liquidazione giudiziale in linea con la nostra tradizione nazionale, facendo altresì salva tutta l’elaborazione giurisprudenziale che dell’insolvenza è stata data rispetto alla norma previgente .

Tale situazione viene però dal nuovo codice differenziata rispetto allo stato di crisi, ritenuto presupposto oggettivo sufficiente per accedere agli strumenti di soluzione appunto della crisi di impresa diversi dalla liquidazione giudiziale, come piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e nuovo piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione.

In particolare, la crisi viene definita nel nuovo Codice in funzione prospettica, come probabilità di futura insolvenza. Si deve al riguardo notare che in sede di modifiche derivanti dalla necessità di dare attuazione alla direttiva n. 1023/2019 (c.d. direttiva Insolvency) è stato abbandonato ogni riferimento allo “squilibrio economico-finanziario”, per incentrare la definizione sulla impossibilità di far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi. Rispetto alla precedente nozione di crisi viene meno il riferimento alle obbligazioni “pianificate”, sì che deve ritenersi rilevi l’impossibilità di far fronte a qualsiasi tipo di obbligazione, anche se inizialmente non prevista e dovuta all’insorgenza sopravvenuta di eventi di carattere straordinario (si pensi alle tante tensioni finanziarie dovute alle emergenze di questi ultimi anni, prima di carattere pandemico-sanitario, poi dovute ad eventi bellici o al rincaro non previsto di materie prime ed energetiche). Al contempo, si segnala la soppressione dell’aggettivo “regolarmente”, che tuttavia non pare di particolare momento, dovendosi ritenere che forme di adempimento irregolari, o caratterizzate da modalità pregiudizievoli (si pensi a casi di datio o cessio in solutum fortemente squilibrate) continuino ad essere apprezzabili ai fini di dimostrare il presupposto oggettivo della crisi, come pure dell’insolvenza.

Del tutto nuovo anche l’orizzonte temporale di dodici mesi che vale a rimarcare, da un lato, l’esigenza di pianificazione che l’imprenditore deve porre a base della gestione della sua attività economica, come pure l’idea di budget e l’esigenza di predisporre piani di tesoreria, secondo quella regola fondamentale di organizzazione mediante “adeguati assetti” di cui si dirà al paragrafo seguente. Dall’altro, il termine di 12 mesi (rispetto ad una prima versione incentrata su un orizzonte temporale semestrale) sembra andare nella direzione di un irrigidimento del presupposto della crisi, come concetto che “guarda più lontano”, rendendo irrilevanti meri scostamenti finanziari temporanei che l’impresa sia in grado di riassorbire entro l’esercizio annuale. Non da ultimo, dopo il d.lgs. 139 del 2015, che ha modificato gli artt. 2423 e 2423 bis c.c. in tema di bilancio, il nuovo orizzonte temporale appare allineato con quanto prevedono i principi contenuti nel documento n. 11 O.I.C. (Organismo italiano di contabilità), applicabile ai bilanci relativi agli esercizi successivi al 1° gennaio 2018, ove si afferma che il concetto di continuità aziendale, va inteso come “la capacità dell’impresa di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per un prevedibile arco temporale futuro, relativo ad un periodo di almeno 12 mesi dalla data di riferimento del bilancio”.

Tale modifica si collega, perciò, all’abbandono delle scelte che il Correttivo operava con la precedente versione dell’art. 13 c.c.i., laddove si individuavano i c.d. “indicatori” della crisi, facendo riferimento alla “non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi” ed “all’assenza di prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso” o, se minore, “nei sei mesi successivi”.

Sembra immediatamente intuibile che proprio sulla distinzione fra stato di crisi ed insolvenza si giocheranno, probabilmente, in ambito giudiziario, le principali contestazioni di fronte alle richieste di apertura della liquidazione stessa, così come, con riguardo alla composizione assistita, molto dipenderà dalla reale individuazione dei casi di insolvenza “reversibile” (v. art. 17 co. 5 c.c.i.). Pare abbandonata, quindi, la prospettiva contenuta nel documento che il CNDCEC – in data 20 ottobre 2019 – aveva trasmesso al MISE e nel quale gli indici selezionati al fine di intercettare precocemente la crisi sarebbero stati: 1) Patrimonio netto; 2) DSCR (Debt Service Coverage Ratio) a 6 mesi, che, se inferiore a 1, dimostrerebbe l’incapacità prospettica dell’impresa di sostenere i debiti per il periodo semestrale di riferimento; 3) Rapporto oneri finanziari/ricavi, al fine di valutare l’incidenza degli oneri finanziari rispetto ai ricavi di esercizio; 4) Rapporto patrimonio netto/debiti totali, al fine di far emergere l’equilibrio tra i mezzi propri e i capitali di terzi; 5) Rapporto attivo corrente/passivo corrente, o anche indice di liquidità primaria o current ratio, atto a valutare la solvibilità aziendale; 6) Rapporto cash flow/attivo, al fine di censire la capacità dell’impresa di produrre flussi di cassa in rapporto alle attività investite; 7) Rapporto indebitamento previdenziale e tributario/attivo.

Trattasi, infatti, di indici che, nella maggior parte dei casi, non risultavano idonei ad intercettare precocemente una situazione di crisi, quanto a certificare – nella loro gravità – una situazione di insolvenza vera e propria già raggiunta (si pensi al patrimonio netto negativo o agli indici di carattere finanziario adottati, sintomi evidenti della già verificatasi perdita del going concern).

Diversa, quindi, la scelta del legislatore del 2022, rivolta a dare rilievo, piuttosto, alla interoperabilità fra piattaforme informatiche e ad introdurre un diverso sistema di segnalazione da parte degli organi di controllo interni alla struttura societaria e da parte dei creditori pubblici tributari e previdenziali (v. artt. 14, 15 e 25 octies e ss.). In questo senso si segnala, altresì, il nuovo testo dell’art. 3, comma 4, c.c.i. che elenca i seguenti indici di “allarme” ai fini della rilevazione della crisi: a) esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno trenta giorni pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; b) esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno novanta giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; c) esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari che siano scadute da più di sessanta giorni o che abbiano superato da almeno sessanta giorni il limite degli affidamenti ottenuti in qualunque forma purché rappresentino complessivamente almeno il cinque per cento del totale delle esposizioni; d) esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’articolo 25 novies, comma 1.

Da notare, ancora, che il presupposto oggettivo per accedere alla composizione negoziata, in una chiave di emersione precoce della crisi di impresa e di sua auspicabile tempestiva soluzione, si allarga anche a situazioni per così dire borderline, di pre-crisi, in quanto il nuovo art. 12 comma 1, c.c.i., consente tale accesso all’imprenditore “quando si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”.

3. L’art. 121 del Codice. Il requisito soggettivo.

L’art. 121 è posto in apertura della Sezione I del Capo I del Titolo V del nuovo Codice della crisi, titolo che è dedicato alla liquidazione giudiziale, ossia alla procedura concorsuale destinata a sostituire, con alcune differenze, il precedente fallimento. La posizione di questa norma, che nella “vecchia” legge fallimentare era piuttosto rappresentata da alcune porzioni delle disposizioni iniziali, vale a rendere evidente come la soluzione liquidatoria assuma, con il nuovo Codice della crisi, una funzione di chiusura del sistema, quasi una extrema ratio di fronte al “fallimento” degli altri strumenti e delle procedure di composizione della crisi e dell’insolvenza che, come evidenzia l’art. 7, comma 2, dello stesso Codice, devono essere esaminate dall’organo giudiziario “in via prioritaria” rispetto alle domande intese ad ottenere l’apertura della liquidazione giudiziale.

La disposizione ha inoltre la funzione di riassumere i presupposti applicativi della liquidazione giudiziale e segnarne i confini applicativi. Nella relazione di accompagnamento si legge, infatti, che “la definizione della procedura muove dal presupposto che il fallimento ha perso negli anni la sua connotazione di strumento volto essenzialmente ad espellere dal mercato l’imprenditore insolvente, gravato anche dal marchio della colpevole incapacità di corretta gestione degli affari”. Si può perciò anche ritenere che l’espressione “liquidazione giudiziale” non rappresenti soltanto una modifica terminologica, ma segni l’intenzione del legislatore della riforma di costruire una nuova procedura nella quale - pur mantenendo come scopo principale quello della liquidazione dell’attivo dell’imprenditore insolvente e la sua destinazione ai creditori secondo le regole del concorso - è assente ogni connotazione moralistica dell’operato dell’imprenditore divenuto insolvente, fermo restando un corredo di prescrizioni di carattere penale sulle quali, per ragioni di tempo, il Codice non è intervenuto (nelle more dell’entrata in vigore del nuovo testo è stata incaricata una Commissione ministeriale, diretta dal Presidente Renato Bricchetti, che ha depositato una relazione il 10/06/2022, cui è seguita una nota integrativa, il successivo 5 agosto).

Quanto al profilo soggettivo, il presupposto continua ad essere individuato nella qualità di imprenditore commerciale, identificato in base all’art. 1 del Codice in chi esercita, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale o artigiana, operando quale persona fisica, persona giuridica o altro ente collettivo, gruppo di persone o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti qualificati pubblici dalla legge.

La relazione precisa, opportunamente, che resta esclusa dall’area di applicazione della procedura della liquidazione giudiziale anche l’impresa agricola, “per la specificità dell’attività che ne costituisce oggetto e per la necessità di tener conto del duplice rischio al quale essa è soggetta: quello che deriva dalle incertezze dell’ambiente naturale che si aggiunge a quello (comune anche alle altre tipologie di imprese) legato all’andamento del mercato”. Non vi è stata, quindi, per la procedura liquidatoria “maggiore”, quella equiparazione alle imprese commerciali che il d.l. 24 agosto 2021, n. 118, ha stabilito quanto alla possibilità di accesso, pur con alcune specificità, alla composizione negoziata, come si desume dagli artt. 12 e 25 quater. Sotto altro profilo, peraltro, il Codice estende l’utilizzabilità di taluni strumenti di composizione della crisi anche agli imprenditori non commerciali, come nel caso del piano attestato di risanamento (art. 56) o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 e ss.).

Nella giurisprudenza si è più volte affermato che lo scopo di lucro non è un elemento indefettibile dello svolgimento dell’attività commerciale, che può quindi sussistere (con conseguente applicazione della procedura della liquidazione giudiziale) anche in mancanza del primo. Secondo Cass. n. 25478/2019, infatti, lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro “oggettivo”), requisito quest’ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, ben può essere presente in una società cooperativa, la quale pertanto, ove svolga attività commerciale, in caso di insolvenza, può essere assoggettata a fallimento, in applicazione dell’art. 2545 terdecies c.c.

Per converso, per le società aventi ad oggetto un’attività commerciale, seguendo un consolidato orientamento si è ribadito che esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale (Cass. n. 3026/2020).

Con riguardo, invece, alla problematica tradizionale, ma sempre attuale, della distinzione fra attività agricola ed attività commerciale, la giurisprudenza sembra privilegiare una analisi in concreto della fattispecie e non la mera verifica astratta dell’oggetto sociale: l’esenzione dal fallimento dell’impresa societaria agricola viene meno quando quest’ultima, pure trovandosi in stato di liquidazione, assuma un nuovo rischio d’impresa esercitando un’attività tipicamente ausiliaria ai sensi dell’art. 2195, comma 1, c.c. (Cass. n. 28984/2019). Ancora, quando l’impresa provveda anche alla commercializzazione, spetta al debitore dimostrare, per il principio di vicinanza della prova, che la stessa attiene ai prodotti agricoli prodotti dal fondo (Cass. n. 1049/2021).

Resta esclusa dall’area applicativa della liquidazione giudiziale anche il fenomeno delle start up innovative, sulle quali si è verificato recentemente il primo intervento della S.C., la quale ha così precisato che “L’iscrizione di una società quale start-up innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese, in base all’autocertificazione del legale rappresentante circa il possesso dei requisiti formali e sostanziali, ed alla successiva attestazione del loro mantenimento, ai sensi dall’art. 25 del d.l. n. 179 del 2012, convertito dalla l. n. 221 del 2012, non preclude la verifica giudiziale dei requisiti medesimi in sede prefallimentare, né è assistita da una presunzione di veridicità, in quanto la suddetta iscrizione costituisce presupposto necessario ma non sufficiente per la non assoggettabilità a fallimento, i cui requisiti di legge devono essere posseduti e come tali verificati in sede giudiziale secondo principi di effettività e concretezza” (Cass. n. 32491/2022).

Resta infine esclusa dalla liquidazione giudiziale, per essere invece assoggettata ad una diversa procedura semplificata, chiamata liquidazione controllata, disciplinata al successivo capo IX dello stesso titolo V del Codice, l’impresa minore. Questa a sua volta è definita nell’art. 2 comma 1, lett. d), ed è caratterizzata dal mancato superamento delle soglie dimensionali ivi previste quanto all’attivo patrimoniale, ai ricavi e all’indebitamento. Tali limiti dimensionali riprendono esattamente quelli già contenuti nell’art. 1, comma 2, l.fall. ed attengono al necessario superamento dei valori di “euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore” per l’attivo patrimoniale; “euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore” per i ricavi complessivi annui “in qualunque modo essi risultino” ed un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

L’onere di dimostrare il mancato superamento congiunto di tali soglie minime spetta al debitore.

3.1. Segue: il requisito oggettivo.

Requisito oggettivo per l’apertura della liquidazione giudiziale è invece la sussistenza dello stato di insolvenza quale definito, in continuità con la precedente disciplina, nell’art. 2, comma 1 lett. b): “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Sia pure con la sintesi qui richiesta, vale la pena ribadire come il Codice non modifichi il concetto di insolvenza e come, pertanto, possano mantenere una loro attualità gli approdi giurisprudenziali al riguardo. Da ultimo, Cass. n. 7087/2022 ha affermato: “in tema di fallimento, lo stato di insolvenza delle società che non siano in liquidazione va desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall’impossibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d’impotenza strutturale (e non soltanto transitoria) a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell’attività”. In precedenza, fra le più recenti, Cass. n. 22444/2021, secondo cui “ai fini dell’accertamento dello stato d’insolvenza consistente nell’incapacità di adempiere regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni è irrilevante ogni indagine sull’imputabilità o meno all’imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all’impresa, così come sull’effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valere nei suoi confronti”; nonché Cass. n. 28193/2020, la quale ha precisato che “quando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice ai fini dell’accertamento dello stato d’insolvenza deve essere diretta unicamente ad accertare se il patrimonio sociale consenta di assicurare l’integrale soddisfacimento dei creditori, mentre la difficoltà di pronta liquidazione dell’attivo può rilevare in quanto sintomatica di un risultato di realizzo inferiore rispetto a quello contabilizzato dal debitore, così finendo per esprimere valori oggettivamente inidonei a soddisfare integralmente la massa creditoria”.

4. La liquidazione giudiziale.

Una delle modifiche senza dubbio più rilevanti del nuovo Codice è rappresentata dalla sostituzione della tradizionale procedura fallimentare con la liquidazione giudiziale. Si tratta di una idea che si riconduce alla volontà di evitare lo stigma – economico e sociale – legato alla qualità di fallito e che sottende, al di là della diversa qualificazione, una nuova filosofia di fondo che assegna alla liquidazione giudiziale il ruolo di extrema ratio rispetto a tutti gli altri strumenti di soluzione della crisi (che vantano infatti una trattazione prioritaria rispetto alla domanda di apertura della procedura concorsuale maggiore), così come l’idea che la liquidazione rappresenti un fenomeno non irreparabile, ma in qualche misura connaturato alle crisi sistemiche degli ultimi anni, auspicabilmente superabile attraverso una successiva esdebitazione (su cui infra) e la concessione di una c.d. second chance attraverso la quale rientrare nel sistema produttivo e nel mercato con effetti che il legislatore ha ritenuto complessivamente più favorevoli rispetto alla emarginazione forzosa dei debitori.

Tale sostituzione, peraltro, pur certamente in linea con i criteri fondamentali della più volte citata Direttiva UE n. 1083/2019, era già prevista nell’impianto originale della legge delega n. 155 del 2017.

Ferma tale diversa filosofia di fondo, è del pari innegabile che la liquidazione giudiziale è sostanzialmente modellata sulla disciplina del fallimento, di cui riprende – dagli art. 121 e ss. c.c.i. – in buona sostanza moltissime norme già contenute nella “vecchia” legge fallimentare, tanto è vero che l’art. 2 della già citata l. n. 155 del 2017 prevedeva che occorresse “sostituire il termine «fallimento» e i suoi derivati con l’espressione «liquidazione giudiziale», adeguando dal punto di vista lessicale anche le relative disposizioni penali, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose”.

Proprio in ragione di tale “continuità di disciplina” si ritiene utile in questa sede, più che un commento generale dell’istituto, semplicemente evidenziare le maggiori novità che caratterizzano la liquidazione giudiziale rispetto al fallimento, novità che vanno nella direzione – ove possibile – di incentivare l’efficienza della procedura e contenere i tempi, spesso assai dilatati, attraverso i quali è possibile pervenire alla soddisfazione dei creditori ed alla chiusura della procedura.

In sintesi, le modifiche rispetto alla precedente legge fallimentare riguardano:

1) nell’ambito della c.d. istruttoria prefallimentare, il Codice (cfr. art. 42) accoglie in norma di diritto positivo alcune delle migliori prassi già utilizzate dagli uffici giudiziari di merito in ordine all’acquisizione d’ufficio di dati ed elementi conoscitivi da enti pubblici o banche dati, in via telematica, come dichiarazioni fiscali, presenza di debiti contributivi, iscrizioni a ruolo, ecc., finalizzati sia ad evitare l’apertura di procedure inutili (relative ad esempio ad imprese di dimensione inferiore alle soglie di cui all’art. 2, comma 1 lett. d) c.c.i., identiche a quelle già previste dall’art. 1 l.fall.), che ad evidenziare situazioni di insolvenza “pericolose” per il mercato e la tutela del credito, anche in situazioni nelle quali il credito del soggetto ricorrente che insta per l’apertura della liquidazione giudiziale non appaia di per sé particolarmente rilevante;

2) la sentenza che dispone l’apertura della procedura liquidatoria contiene l’autorizzazione preventiva affinché il curatore possa accedere a banche dati ed acquisire documentazione contabile e bancaria, al fine di poter ricostruire in modo rapido e completo le vicende dell’impresa e le cause dell’insolvenza, nonché eventuali responsabilità (art. 49, comma 3 lett. f);

3) la relazione ex art. 33 l.fall. viene sostituita dall’art. 130 c.c.i. con una prima informativa sintetica che il curatore deve presentare al giudice delegato entro 30 gg. dall’apertura della procedura concorsuale, seguita da una successiva relazione particolareggiata da depositarsi entro 60 gg. dal decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo (e quindi, tenuto conto che l’udienza per la verifica dello stato passivo è destinata a tenersi di regola entro 120 gg. dalla sentenza che apre la liquidazione giudiziale, di norma la relazione particolareggiata dovrà depositarsi entro 180 gg. da tale momento);

4) a sua volta, l’art. 213 incide sul programma di liquidazione: i tempi per la sua redazione scendono a 150 gg. dalla pronuncia della sentenza (invece dei 180 gg. già previsti); si prevede inoltre che il primo esperimento di vendita dei beni ricompresi nell’attivo debba svolgersi entro 8 mesi dall’apertura della procedura, mentre sono stati mantenuti dal d.lgs. n. 83 del 2022 i termini massimi di 5 anni (in casi eccezionali 7 anni) per completare l’attività liquidatoria (qui si nota forse un incongruo allungamento rispetto ai 2 anni previsti dal precedente art. 104 ter l.fall., peraltro quasi mai rispettati nella pratica);

5) il nuovo art. 166 c.c.i. prevede che il computo del periodo “sospetto” entro il quale individuare atti, pagamenti e garanzie revocabili non decorra più – a ritroso – dalla pronuncia di fallimento, bensì dal “deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale”: si tratta di una novità importante che “sterilizza”, a favore del rispetto della par condicio creditorum, i tempi spesso non brevi dell’istruttoria prefallimentare che, a volte, finivano per rendere di fatto irrevocabili atti e garanzie concesse dal fallito (il c.d. consolidamento). Sarà quindi possibile ottenere la revocatoria di atti e pagamenti “anormali” compiuti dopo il deposito del ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale o nell’anno precedente, come pure di quelli “normali” fino ai sei mesi precedenti tale nuovo indicatore;

6) i nuovi artt. 184 e 185 c.c.i. dispongono che, in caso di recesso del curatore dai contratti di affitto d’azienda o di locazione immobiliare pendenti al momento dell’apertura della liquidazione, l’eventuale indennizzo dovuto alla controparte in bonis sia “insinuato al passivo come debito concorsuale”, mentre nella previgente legge fallimentare si attribuiva espressamente la qualità di credito prededuttivo;

7) l’art. 201 c.c.i. dispone che oltre domande di ammissione al passivo di un credito o di restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili compresi nella procedura, sia possibile, con le stesse forme della richiesta di ammissione al passivo, proporre domanda “di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione di beni compresi nella procedura ipotecati a garanzia di debiti altrui”: la norma intende così risolvere innovativamente – a seguito di una modifica apportata con il c.d. Correttivo rappresentato dal d.lgs. n. 147 del 2020 - una questione interpretativa che, sia pure con riguardo alle disposizioni della legge fallimentare, recentemente è stata portata all’attenzione delle S.U., con l’ordinanza interlocutoria della Sezione prima n. 18337/2022, del 7 giugno 2022;

8) in tema di liquidazione dell’attivo, l’art. 211 c.c.i. dispone che l’apertura della procedura non determina di per sé la cessazione dell’attività di impresa, ma il successivo rinvio alle medesime condizioni già previste dall’art. 104 l.fall. per il c.d. esercizio “provvisorio” (di cui la nuova norma però espunge l’aggettivazione) sembrerebbe togliere gran parte del carattere innovativo della disposizione; resta tuttavia un dato normativo inedito che probabilmente, a differenza del passato, comporterà che la sentenza di apertura della procedura dovrà contenere un passaggio motivazionale sul perché non sussistono i presupposti per proseguire l’attività di impresa;

9) il d.lgs. n. 83 del 2022 è intervenuto sull’art. 216 c.c.i. limitando il ruolo del giudice delegato nelle vendite e riportando al curatore ed al suo programma di liquidazione l’individuazione delle modalità più opportune con le quali svolgersi, comunque legate a procedure competitive o in alternativa alle forme del codice di procedura civile, confermando altresì la necessaria pubblicità sul portale delle vendite pubbliche (di regola con almeno 30 gg di preavviso, riducibili solo in caso di assoluta urgenza e previa autorizzazione del g.d.);

10) l’art. 234 c.c.i. è stato specificamente dedicato alla chiusura c.d. “anticipata” della procedura liquidatoria, quando vi siano liti pendenti; la norma costituisce l’evoluzione di quanto già previsto all’art. 118 l.fall. a seguito della novella disposta con d.l. 27 giugno 2015, n. 83 convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015 n. 132, ed intende agevolare l’utilizzo di questo istituto al fine di contrarre i tempi di quelle procedure che, dopo aver già terminato la fase di liquidazione, siano aperte in attesa della definizione di giudizi dai quali potrebbe provenire ulteriore attivo in favore dei creditori;

11) il concordato nella liquidazione giudiziale (già concordato fallimentare), qualora proposto dallo stesso debitore o da società a cui partecipi o sottoposte a comune controllo, dovrà necessariamente incrementare l’attivo destinato ai creditori di almeno il 10% (vds. art. 240 c.c.i.), anche in questo caso mostrandosi il disfavore del legislatore per le soluzioni liquidatorie provenienti dallo stesso debitore.

Come si può intuire da queste brevi considerazioni, certamente non esaustive, la linea di continuità fra fallimento e nuova liquidazione giudiziale è comunque caratterizzata da alcune novità significative che spetterà alla giurisprudenza, di merito e di legittimità, chiarire nei loro risvolti applicativi.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE PRIMA - IL RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO E DI LAVORO PUBBLICO CONTRATTUALIZZATO

  • contratto di lavoro
  • giornale
  • agenzia di lavoro temporaneo
  • cessazione d'attività
  • diritto del lavoro

CAPITOLO XVII

COORDINATE ERMENEUTICHE DI LEGITTIMITÀ IN MATERIA DI LAVORO PRIVATO

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Questioni in materia di subordinazione: il lavoro giornalistico; la prescrizione nei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato dopo la legge “Fornero” ed il “Jobs Act”. - 1.1 L’individuazione del datore in caso di collegamento economico funzionale tra imprese. - 2 I contratti a termine. - 3 La somministrazione. - 4 Il contratto di formazione e lavoro. - 5 L’appalto. - 6 Obblighi, diritti e poteri del datore. - 6.1 La concessione delle ferie. - 6.2 La retribuzione e il T.F.R. - 7 Lo svolgimento di mansioni superiori e il demansionamento. - 7.1 Sul dovere di presenza al lavoro dopo la malattia e sulla idoneità fisica. - 7.2 Del volantinaggio elettronico e dei suoi limiti. - 8 In tema di contratti collettivi. - 8.1 Nullità del contratto di lavoro e indennità sostitutiva del preavviso. - 9 Rinunzie e transazioni. - 10 Le dimissioni. - 11 Cessazione dell’impresa e accordo sindacale di ricollocazione. - 12 L’agenzia.

1. Questioni in materia di subordinazione: il lavoro giornalistico; la prescrizione nei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato dopo la legge “Fornero” ed il “Jobs Act”.

Già lo scorso anno il giudice della nomofilachia aveva affrontato il tema della linea di discrimine tra lavoro subordinato ed autonomo con specifico riferimento al lavoro giornalistico, affermando, in linea di continuità con Sez. L, n. 22785/2013, Marotta, Rv. 628530-01, che nella qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti deve tenersi conto che il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell’attività stessa, con la conseguenza che, ai fini dell’individuazione del vincolo, rileva specificamente l’inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nella organizzazione d’impresa (così Sez. L, n. 24078/2021, Cinque, Rv. 662157-02). Del pari, ai fini della connotazione del lavoro come subordinato, valorizza l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa, con le caratteristiche essenziali della subordinazione e della collaborazione, Sez. L, n. 22264/2021, Buffa, Rv. 662099-01, in conformità con quanto già affermato in Sez. L, n. 03647/2016, Cavallaro, Rv. 638950-01 (nello specifico, con riferimento alla posizione di direttore responsabile di una testata giornalistica).

L’attenzione della S.C. si è invece quest’anno incentrata sulla riconducibilità al lavoro giornalistico subordinato dell’attività svolta dai fotografi.

A tal riguardo si è precisato che costituisce lavoro giornalistico subordinato quello svolto da fotografi che, nel realizzare, pur con autonomia tecnica, foto a corredo informativo degli articoli, così da arricchire ed integrare il testo scritto, risultano stabilmente inseriti nell’assetto organizzativo del giornale poiché inviano il prodotto in redazione coprendo in via pressoché esclusiva specifici settori informativi, in modo da assicurare il servizio, tenendosi quotidianamente in contatto con la redazione, dalla quale ricevono indicazioni su cosa fotografare e sull’affiancamento al giornalista (così Sez. L, n. 24439/2022, Buffa, Rv. 665353-01).

Di grande interesse, con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la pronunzia che si è occupata di indagare il regime della prescrizione avuto riguardo ai rapporti rimodulati per effetto della legge “Fornero” e del “Jobs Act”.

Ha ritenuto la S.C. che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro (così Sez. L, n. 26246/2022, Patti, Rv. 665514-01).

In limine, va qui ricordata, con riferimento ai lavori formalmente autonomi di cui poi sia riconosciuta la natura subordinata, Sez. L, n. 29981/2022, Piccone, Rv. 665828-01, che, in conformità con un consolidato insegnamento del giudice di legittimità (cfr., fra le tante, l’ultima massimata Sez. L, n. 22172/2017, Patti, Rv. 645277-01), ha ribadito che la prescrizione dei crediti del lavoratore decorre, in assenza di un regime di stabilità reale, dalla cessazione del rapporto di lavoro e rimane sospesa in costanza dello stesso; detto principio si applica anche ai crediti del lavoratore formalmente autonomo, il cui rapporto sia successivamente riconosciuto come subordinato.

1.1. L’individuazione del datore in caso di collegamento economico funzionale tra imprese.

In conformità con l’orientamento già segnato da Sez. L, n. 19023/2017, Garri, Rv. 645256-01 e con la precedente Sez. L, n. 26346/2016, Blasutto, Rv. 642235-01, Sez. L, n. 02114/2022, De Marinis, Rv. 663669-01, ha ribadito che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è, di per sé solo, sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga rivelato dai seguenti requisiti, il cui accertamento, rimesso al giudice del merito, è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

2. I contratti a termine.

In tema di contratti con termine illegittimamente apposto, quanto alla prescrizione dell’indennità forfettizzata di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, in caso di pluralità di contratti, Sez. L, n. 27331/2022, Patti, Rv. 665484-01, ha ribadito, in conformità con Sez. L, n. 14996/2012, Nobile, Rv. 623966-01, che qualora i contratti a termine illegittimi siano plurimi, con la conseguente conversione in unico contratto a tempo indeterminato, il diritto al pagamento dell’indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva”, prevista dall’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, si distingue da quello imprescrittibile a far valere la nullità del termine ed è soggetto al termine di prescrizione ordinario, essendo inapplicabili i termini prescrizionali stabiliti dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c.

Avuto riguardo al rispetto del limite massimo di durata di trentasei mesi, Sez. L, n. 24847/2022, Esposito, Rv. 665470-01, ha puntualizzato che, ai fini della verifica dello stesso, vanno inclusi anche i contratti già conclusi, stipulati prima dell’aggiunta del comma 4-bis al testo dell’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, effettuata dall’art. 1, comma 40, della l. n. 247 del 2007, in quanto il comma 43 del medesimo art. 1 li attrae nel conteggio della durata complessiva, al fine della suddetta verifica, con la conseguenza che anche per tali contratti a termine non v’è necessità di indicare le ragioni di apposizione del termine.

Quanto alla decadenza di cui all’art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010, essa è applicabile anche all’azione di nullità del termine per violazione dell’art. 3, lett. d), del d.lgs. n. 368 del 2001, seppure non espressamente richiamata dall’art. 32, comma 4, della l. n. 183 del 2010, che fa riferimento alla stipula del contratto, rinviando quindi alle sole disposizioni che tale stipula regolano, in ragione della “ratio” della disposizione di assicurare, per tutti i casi in cui si intenda contestare la legittima apposizione del termine, tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte, restando invece irragionevole ogni altra interpretazione (in tal senso, Sez. L, n. 30975/2022, Garri, Rv. 665848-01).

Per la vicinanza con i temi trattati, va qui rammentata anche Sez. L, n. 24437/2022, Cinque, Rv. 665415-01, con la quale si è precisato che il termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. d), della l. n. 183 del 2010, non trova applicazione nel caso di azione tendente alla costituzione od all’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro nei confronti di un datore di lavoro “occulto”, diverso da quello formalmente apparente, pur se appartenente allo stesso gruppo societario, laddove non vi siano atti formali da impugnare riconducibili al primo.

Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva applicato il citato termine di decadenza nei confronti di un datore di lavoro “occulto”, diverso da quello apparente che aveva emesso l’atto formale di licenziamento, ritenendo sufficiente l’impugnazione di tale atto nei confronti del solo soggetto che appariva formalmente quale datore di lavoro.

3. La somministrazione.

In tema di contratti di somministrazione a termine, Sez. L, n. 27854/2022, Patti, Rv. 665668-01, ha statuito che essi sono regolati dalle norme del contratto di lavoro a tempo determinato, “nei limiti di compatibilità”, e dalla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a termine; quanto alla disciplina dei limiti di proroga del termine iniziale del contratto di lavoro, l’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 esclude espressamente l’applicazione dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 368 del 2001, e, nel secondo periodo del medesimo comma, opera un rinvio al c.c.n.l. applicato dal somministratore disponendo che il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato, con atto scritto ed il consenso del lavoratore, nelle ipotesi e per la durata prevista dalla contrattazione collettiva applicata dal somministratore.

Sez. L, n. 23495/2022, Amendola F., Rv. 665407-01, ha poi precisato, con riferimento ad una fattispecie ricadente sotto la disciplina anteriore alla l. n. 92 del 2012, che in tema di successione di contratti di somministrazione a tempo determinato, il carattere di temporaneità, pur nell’assenza di limiti legislativamente previsti, costituisce requisito immanente e strutturale del ricorso all’istituto, dovendo attribuirsi alla normativa in materia un significato conforme alla direttiva 2008/104/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18, sicché il giudice non può arrestarsi alla verifica della ricorrenza delle causali giustificative, dovendo, invece, controllare, anche sulla base degli indici rivelatori indicati dalla Corte di giustizia, se sia da ravvisare nel caso concreto un abusivo ricorso all’istituto della somministrazione.

Quanto alla impugnativa stragiudiziale dei contratti di somministrazione a termine, qualora essa venga rivolta solo all’ultimo dei contratti, Sez. L, n. 22861/2022, Piccone, Rv. n. 665357-01, ha ritenuto che il giudicato sull’intervenuta decadenza dall’impugnativa dei contratti precedenti non preclude l’accertamento dell’abusiva reiterazione, atteso che la vicenda contrattuale, pur insuscettibile di poter costituire fonte di azione diretta nei confronti dell’utilizzatore per la intervenuta decadenza, può rilevare come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti, valutabile, in via incidentale, dal giudice, al fine di verificare se la reiterazione delle missioni del lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea, sì da realizzare una elusione degli obiettivi della Direttiva 2008/104, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenze del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18 e del 17 marzo 2022 in causa C-232/20.

4. Il contratto di formazione e lavoro.

Del contratto di formazione e lavoro, con riguardo alla legittimazione alla presentazione del progetto in caso di gruppo di imprese, si è occupata Sez. L, n. 24544/2022, Gnani, Rv. 665420-01, enunciando il principio di diritto così massimato da questo ufficio: “la conclusione di un contratto di formazione e lavoro può avvenire anche da parte di un gruppo di imprese, legittimato a presentare un progetto formativo per l’approvazione all’apposita Commissione, pur se la titolarità del rapporto di lavoro deve essere individuata in capo alla singola impresa appartenente al gruppo; in tal caso gli obiettivi formativi possono essere perseguiti anche attraverso il meccanismo del comando del lavoratore presso altra impresa del gruppo, senza che muti la titolarità del rapporto in capo all’azienda comandante, su cui si impernia il progetto autorizzato, a differenza della cessione del contratto di lavoro che, comportando il mutamento soggettivo del datore di lavoro, richiede un nuovo progetto autorizzato ai sensi dell’art. 3 del d.l. n. 726 del 1984, conv. con modif. dalla l. n. 863 del 1984”.

In tema di apprendistato, soggiunge il giudice di legittimità, il principio secondo cui il periodo di formazione e lavoro, in caso di trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, è computato nell’anzianità di servizio, non è derogabile dalla contrattazione collettiva, in quanto l’equiparazione tra periodo di formazione e lavoro e periodo di lavoro ordinario è posta dalla legge in termini generali ed assoluti, sicché i contratti collettivi che prevedano l’istituto degli scatti di anzianità non possono escludere dal computo il pregresso periodo di formazione e lavoro (in tal senso, Sez. 6-L, n. 36380/2022, Boghetich, Rv. 666204-01).

In applicazione di detto principio, la S.C. ha quindi confermato la declaratoria di nullità dell’art. 18 del c.c.n.l. Attività ferroviarie del 16.4.2003 e dell’art. 7 dell’Accordo sindacale dell’1.3.2006 nella parte in cui non computavano l’intero periodo di lavoro svolto in regime di apprendistato ai fini degli aumenti periodici di anzianità.

5. L’appalto.

Quanto all’appalto, con riferimento al termine di decadenza biennale previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, la S.C. ha statuito che in tema di appalto, in ipotesi di successione senza soluzione di continuità di più contratti con il medesimo appaltatore, il termine di decadenza biennale - previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo ratione temporis applicabile - per far valere la responsabilità solidale del committente quanto ai trattamenti retributivi ed ai contributi previdenziali dovuti dall’appaltatore ai dipendenti, decorre dalla cessazione del rapporto contrattuale e non dalla data di scadenza dei singoli contratti intervenuti in relazione al medesimo appalto tra committente ed appaltatore, in quanto la data in questione potrebbe non essere conosciuta dal lavoratore, sicché, in coerenza con la “ratio” ispiratrice della norma - che è quella di assicurare un’ampia ed effettiva tutela del lavoratore medesimo - il predetto termine deve essere ancorato al dato fattuale, facilmente ed immediatamente percepibile dal beneficiario della garanzia, rappresentato dalla cessazione effettiva dell’appalto al quale egli era addetto (così Sez. L, n. 07815/2022, Pagetta, Rv. 664123-01).

In tema di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, va poi rammentata Sez. L, n. 02169/2022, Garri, Rv. 663670-01, che sottolinea come, ai sensi dell’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, va esclusa la configurabilità di un esonero in funzione della possibilità di conoscere o meno, da parte del committente, l’esistenza dei rapporti di lavoro dei quali è chiamato a rispondere, e ciò in ragione della “ratio” della disposizione, volta ad evitare che la dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione delle prestazioni vada a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto; tuttavia, la violazione dei principi di buona fede e legittimo affidamento da parte dell’appaltatore (che, nella specie, aveva simulato l’esistenza di un rapporto diverso da quello subordinato, attribuendo al dipendente la qualità di socio), ne può determinare la responsabilità risarcitoria a vantaggio del committente.

Da ultimo, va poi segnalata, Sez. L, n. 36944/2022, Piccone, Rv. 666203-01 che - quanto all’ipotesi di cambio di gestione dell’appalto con passaggio dei lavoratori all’impresa nuova aggiudicatrice - afferma, in linea di continuità con Sez. L, n. 13179/2017, Curcio, Rv. 644346-01, che la conseguente azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante non è assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 della l. n. 183 del 2010, non rientrando nella fattispecie di cui alla lett. c), riferita ai soli casi di trasferimento d’azienda, né in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo; tale norma presuppone, infatti, non un semplice avvicendamento nella gestione, ma l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale.

6. Obblighi, diritti e poteri del datore.

Sempre centrali nella giurisprudenza di legittimità le questioni che concernono la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., con riferimento alle quali Sez. L, n. 02403/2022, Pagetta, Rv. 663738-01, ha precisato che non costituisce fattore di esclusione della responsabilità datoriale il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare dal punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, residuando pur sempre in capo all’imprenditore di lavoro un obbligo di vigilanza del rispetto di misure atte a prevenire conseguenze dannose per la salute psicofisica del dipendente lavoratore, salva l’ipotesi che la condotta di questi si configuri come abnorme e del tutto imprevedibile.

In tema di tutela della salute del lavoratore nell’ambiente di lavoro, rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’art. 2087 c.c. la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo straining sia in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente, sia in caso di una condotta datoriale che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute (così Sez. L, n. 33428/2022, Michelini, Rv. 666015-01).

Il datore di lavoro deve predisporre a tutela della sicurezza del lavoro, afferma Sez. L, n. 33239/2022, Boghetich, Rv. 666022-01, non soltanto le misure prescritte dal legislatore che rappresentano lo “standard” minimale, ma anche tutte quelle che siano praticate normalmente o, in concreto, richieste dalla specificità del rischio connesso all’attività lavorativa. La prova liberatoria dell’adozione di dette misure, correlata alla diligenza esigibile, è a carico della parte datoriale che dovrà provare l’adozione di tutte quelle cautele che, benché non dettate dalla legge, siano consigliate dalle conoscenze sperimentali e tecniche o dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per non aver verificato se, all’epoca dei fatti, l’adozione di aghi retrattili per i prelievi di sangue fosse un dispositivo di protezione normalmente in uso nel settore ospedaliero, dunque un presidio di sicurezza esigibile dalla lavoratrice).

In tema va ricordata anche Sez. L, n. 33639/2022, Amendola F., Rv. 666180-02, che sottolinea, in tema di obbligo di protezione ex art. 2087 c.c., la rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori, atteso che l’art. 28 del T.U. n. 81 del 2008, ulteriore specificazione del più generale canone presidiato dall’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei prestatori, ivi compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato; ne consegue che, ove il datore di lavoro indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, per configurare la responsabilità datoriale è sufficiente che l’inadempimento, imputabile anche solo per colpa, si ponga in nesso causale con un danno alla salute. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, pur avendo accertato che il lavoratore versava “in condizioni di sostanziale inoperosità”, con progressivo “svuotamento” delle mansioni affidate, non aveva verificato se dalla condotta del datore di lavoro, anche se colposa, erano causalmente derivati danni alla persona del lavoratore a contenuto non patrimoniale).

La disciplina di prevenzione a tutela della salute e della sicurezza e la norma “di chiusura” dell’art. 2087 c.c., afferma Sez. L, n. 37019/2022, Ponterio, Rv. 666308-01, si applicano anche all’associato in partecipazione che svolge attività lavorativa, in quanto l’ordinamento individua i beneficiari degli obblighi di protezione prescindendo da una loro formale categoria contrattuale e dando rilievo, invece, alla prestazione di attività nell’ambito di un contesto professionale organizzato da un datore di lavoro, ancorché senza retribuzione.

Quanto al permanere dell’inadempimento datoriale ex art. 2087 c.c., successivamente all’eziopatogenesi della malattia, Sez. L, n. 33080/2022, Sarracino, Rv. 666018-01, ha sottolineato che esso configura un illecito permanente solo ove sia stato causalmente rilevante quale fattore di accelerazione o di aggravamento della patologia, così concretizzando una ipotesi di causalità correlata.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, accertato il permanere dell’inadempimento, esclusa la rilevanza dello stesso quale fattore di accelerazione/aggravamento, ha qualificato l’illecito come istantaneo ad effetti permanenti.

Del momento di decorrenza della prescrizione decennale in tema di violazione da parte del datore degli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c., si è poi occupata Sez. L, n. 31919/2022, Pagetta, Rv. 666011-01. In tema di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c., la prescrizione - decennale, ove il lavoratore esperisca l’azione contrattuale - decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo percepibile e riconoscibile dal danneggiato. In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva individuato il termine di decorrenza della prescrizione in epoca successiva a quella di cessazione del rapporto di lavoro, in coincidenza con la data degli accertamenti diagnostici che attestavano l’eziologia professionale della malattia, rilevando che anche in presenza del venir meno della permanenza dell’illecita condotta datoriale la decorrenza del termine prescrizionale esige comunque la conoscibilità dell’origine professionale della patologia.

La responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, sicché grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento dannoso e che questo sia stato determinato da fattori imprevisti ed imprevedibili; la sentenza penale ex art. 444 c.p.p., presupponendo una ammissione di colpevolezza, costituisce un importante elemento di prova da cui il giudice di merito può desumere la responsabilità del datore di lavoro. (Sez. L, n. 29769/2022, Solaini, Rv. 665755-02).

Vanno pure qui ricordati, in quanto attinenti alla valutazione dell’invalidità in caso di malattie ingravescenti con evoluzione sfavorevole, i due principi contenuti in Sez. L, n. 35416/2022, Cavallari, Rv. 666184-01 e Rv. 666184-02.

In tema di malattie ingravescenti con evoluzione sfavorevole (nella specie, una neoplasia polmonare causata da inalazione di amianto), precisa la S.C., l’invalidità temporanea perdura in relazione alla durata della patologia e viene a cessare o con la guarigione, con il pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo, o, al contrario, con la morte, ovvero ancora con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (cd. stabilizzazione); in tale ultimo caso, il danno biologico subito dalla vittima dev’essere liquidato alla stregua di invalidità permanente, utilizzando o il criterio equitativo puro o le apposite tabelle.

Sempre con riferimento alle malattie ingravescenti con evoluzione sfavorevole, sottolinea altresì il giudice di legittimità, la determinazione del danno biologico da invalidità permanente deve avvenire alla luce delle concrete condizioni di salute del soggetto e del periodo di sopravvivenza prevedibile in relazione alla patologia diagnosticata, di modo che, qualora il grado percentuale di invalidità del soggetto espresso dai barèmes medico-legali di riferimento non tenga conto della minore speranza di vita della vittima, ovvero non contempli il maggior rischio di subire, anche a distanza di tempo, una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, suscettibile di condurla al decesso, il giudice deve maggiorare la liquidazione in via equitativa.

Del riparto degli oneri di allegazione e prova, con riferimento alla azione risarcitoria ex art. 2087 c.c., in caso di danni conseguenti ad attività lavorativa eccedente la ragionevole tollerabilità, si occupa Sez. L, n. 34968/2022, Bellè, Rv. 666181-01, affermando che in tema di azione risarcitoria ex art. 2087 c.c. per i danni cagionati dallo svolgimento di un’attività eccedente la ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno, mentre al datore di lavoro, in ragione del suo dovere di assicurare che l’attività lavorativa non risulti pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente, spetta dimostrare che la prestazione si è, invece, svolta secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili. (Principio affermato dalla S.C. con riguardo alla domanda di risarcimento dei danni alla salute correlati ad una patologia depressiva, ed al successivo infarto, patiti da un dipendente pubblico in conseguenza del “superlavoro” derivante dallo svolgimento, con ritmi insostenibili e in ambiente disagiato, di mansioni inferiori e superiori, in assenza di qualsivoglia pianificazione e distribuzione dei relativi carichi).

Per la vicinanza ai temi trattati, va qui rammentata anche Sez. L, n. 22848/2022, Di Paola, Rv. 665325-01, in cui si afferma che l’omessa tenuta sul luogo di lavoro del registro infortuni di cui all’art. 4, comma 5, lett. o), del d.lgs. n. 626 del 1994, “ratione temporis” applicabile, può essere sanzionata solo dalla ASL territorialmente competente, e non anche dall’Ispettorato del lavoro, atteso che la sua tenuta costituisce una misura necessaria per la sicurezza e la salute dei lavoratori e che la vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro - cui consegue la relativa potestà sanzionatoria - è svolta, secondo quanto previsto dall’art. 23 del predetto d.lgs., dalla unità sanitaria locale, competente per il settore in via esclusiva.

Quanto ai poteri datoriali, nell’alveo di detta nozione rientra senza dubbio l’esercizio del potere disciplinare di cui la S.C. si è ampiamente occupata nel corso di quest’anno, con numerose pronunzie su cui si rinvia al capitolo dedicato al licenziamento.

6.1. La concessione delle ferie.

Numerose le pronunzie che si sono occupate delle ferie nel corso di quest’anno, sia con riferimento all’impiego privato che al pubblico impiego privatizzato, operando una complessiva rimeditazione della materia, con particolare riguardo agli oneri probatori.

Il mancato esercizio del diritto alle ferie ed ai riposi - precisa Sez. L, n. 06262/2022, Ponterio, Rv. 664002-01 - determina il riconoscimento del diritto all’indennità sostitutiva, ove sia dipeso dalla volontà del datore di lavoro o da eccezionali ed ostative necessità aziendali, sicché, nonostante la irrinunciabilità del diritto alle ferie, sancita dall’ultimo comma dell’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla Corte di giustizia UE (causa C-619/16 del 6.11.2018), essa non spetta al lavoratore che, avendo il potere di autodeterminare le proprie ferie, non ne abbia fatto richiesta.

Il docente a tempo determinato che non ha chiesto di fruire delle ferie durante il periodo di sospensione delle lezioni ha diritto all’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo inutilmente invitato a goderne, con espresso avviso della perdita, in caso diverso, del diritto alle ferie ed alla indennità sostitutiva, in quanto la normativa interna - ed in particolare l’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, come integrato dall’art. 1, comma 55, della l. n. 228 del 2012 - deve essere interpretata in senso conforme all’art. 7, par. 2, della direttiva 2003/88/CE, che, secondo quanto precisato dalla Corte di Giustizia, Grande Sezione (con sentenze del 6 novembre 2018 in cause riunite C-569/16 e C-570/16, e in cause C-619/16 e C-684/16), non consente la perdita automatica del diritto alle ferie retribuite e dell’indennità sostitutiva, senza la previa verifica che il lavoratore, mediante una informazione adeguata, sia stato posto dal datore di lavoro in condizione di esercitare effettivamente il proprio diritto alle ferie prima della cessazione del rapporto di lavoro (così Sez. L, n. 14268/2022, Spena, Rv. 664850-01).

Sez. L, n. 18140/2022, Bellè, Rv. 664916-01, precisa altresì che il potere del dirigente pubblico di organizzare autonomamente il godimento delle proprie ferie, pur se accompagnato da obblighi previsti dalla contrattazione collettiva di comunicazione al datore di lavoro della pianificazione delle attività e dei riposi, non comporta la perdita del diritto all’indennità sostitutiva, alla cessazione del rapporto, se il datore di lavoro non dimostra di avere, in esercizio dei propri doveri di vigilanza ed indirizzo sul punto, formalmente invitato il lavoratore a fruire delle ferie e di avere assicurato altresì che l’organizzazione del lavoro e le esigenze del servizio cui il dirigente era preposto non fossero tali da impedirne il godimento. Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso il diritto del dirigente di struttura complessa alla monetizzazione, pur a fronte di un accumulo esorbitante di ferie non godute ed un’accertata situazione di “endemica” insufficienza di organico, senza verificare la condotta del datore di lavoro ed i rapporti tra insufficienza di organico, non imputabile al lavoratore, e necessità di assicurare la prosecuzione del servizio.

Il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie, nella vigenza dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 2012, va riconosciuto alla lavoratrice che sia stata nell’impossibilità di fruirne essendo in astensione obbligatoria per maternità sino alla risoluzione del rapporto di lavoro, in quanto la norma deve essere interpretata in senso conforme ai principi di cui all’art. 7, comma 2, della direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla giurisprudenza della CGUE, restando irrilevante che il rapporto di lavoro sia cessato per dimissioni ove queste vengano rese all’esito del periodo di astensione obbligatoria, dovendosi dare rilievo prioritario, sia sul piano del bilanciamento degli interessi che di quello cronologico, all’impossibilità di fruirne sino alle dimissioni (così Sez. L, n. 19330/2022, Sarracino, Rv. 664928-01).

Nell’ipotesi di accertamento dell’illegittimo ricorso al contratto di collaborazione coordinata e continuativa, avuto riguardo alla disposizione di cui all’art. 7 della direttiva 2003/88/CE, come interpretata dalla Corte di giustizia UE (causa C-684/16 del 6.11.2018), spetta al datore di lavoro provare di aver previsto le garanzie in materie di ferie e quindi di aver garantito e messo a disposizione dei lavoratori, pur nella gestione del diverso schema negoziale di cui è stato accertato l’illegittimo utilizzo, tempi di riposo adeguati e compatibili per qualità e quantità con le previsioni del c.c.n.l. che viene a costituire parametro di riferimento in presenza dell’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato (in tal senso, si veda Sez. L, n. 21609/2022, Tricomi, Rv. 665134-01).

Sez. L, n. 21780/2022, Spena, Rv. 665135-01, ha affermato che le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore - a cui è intrinsecamente collegato il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro - e, correlativamente, un obbligo del datore di lavoro, che, pertanto, è tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concederle. Nella medesima pronunzia si è quindi precisato (cfr. Sez. L, n. 21780/2022, Spena, Rv. 665135-02) che la perdita del diritto alle ferie, ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie - se necessario formalmente - e di averlo nel contempo avvisato - in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire - che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.

Da ultimo si è ricordato che il potere attribuito all’imprenditore, a norma dell’art. 2109 c.c., di fissare il periodo di godimento delle ferie da parte dei dipendenti implica anche quello di modificarlo, pur in difetto di fatti sopravvenuti, in base soltanto a una riconsiderazione delle esigenze aziendali; tuttavia, sia la fissazione che le eventuali modifiche del periodo stabilito devono essere comunicate ai lavoratori con preavviso, e, a tal fine, la comunicazione inviata alla sola RSU non è equiparabile a quella dovuta singolarmente, completa dell’individuazione del lasso temporale nel quale ciascun lavoratore è collocato in ferie (così Sez. L, n. 24977/2022, Garri, Rv. 665475-01).

Nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato, Sez. 6-L, n. 29844/2022, Bellè, Rv. 665806-01, statuisce che il dirigente che, pur munito del potere di autorganizzarsi le ferie, non sia collocato all’apice dell’ente pubblico e sia, quindi, sottoposto a poteri autorizzatori o comunque gerarchici degli organi di vertice dello stesso, non perde il diritto alle ferie, ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove il mancato godimento dipenda dall’inadempimento degli obblighi organizzativi del datore di lavoro, sul quale, pertanto, grava l’onere di provare di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo da assicurare che le ferie fossero effettivamente godute.

6.2. La retribuzione e il T.F.R.

Altro obbligo incombente sul datore è senza dubbio il pagamento della retribuzione.

La Corte se ne è occupata in relazione alla retribuzione feriale, confermando la linea di pensiero già seguita da Sez. L, n. 1823/2004, Vidiri, Rv. 569816-01, riaffermando che ai fini del calcolo della retribuzione feriale dei lavoratori subordinati, la cui determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva in mancanza di apposite previsioni da parte delle fonti legali (art. 36 Cost. e 2109 c.c.), la mancata inclusione di tutte le voci della retribuzione corrisposta durante il periodo di attività non contrasta con i principi dettati dal predetto art. 36 Cost., il quale non risponde al criterio della “onnicomprensività”, ma demanda alla fonte contrattuale la garanzia di un trattamento “sufficiente”, peraltro sempre controllabile dal giudice riguardo alla sua congruità rispetto ai parametri costituzionali (così Sez. L, n. 20216/2022, Cinque, Rv. 665070-01).

In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha, quindi, cassato la sentenza impugnata che, in relazione ai giorni di ferie eccedenti il periodo minimo di quattro settimane, aveva ritenuto non conforme all’art. 36 Cost. una disposizione del c.c.n.l. Trasporto Aereo che escludeva l’indennità di volo integrativa dalla base di computo della retribuzione da corrispondere nel periodo feriale al personale navigante.

Nella medesima pronunzia - Sez. L, n. 20216/2022, Cinque, Rv. 665070-02 - si sono pure precisate le modalità di calcolo della retribuzione dovuta ai lavoratori naviganti nel periodo minimo di ferie annuali di quattro settimane, affermando che a tal uopo deve tenersi conto degli importi erogati a titolo di indennità di volo integrativa, stante la nullità dell’art. 10 del c.c.n.l. Trasporto Aereo - sezione personale navigante tecnico - limitatamente alla parte in cui esclude, per il predetto periodo minimo, l’indennità in questione dalla base di computo della retribuzione da corrispondere nel periodo feriale - per contrasto con l’art. 4 del d.lgs. n. 185 del 2005, norma imperativa che, interpretata alla luce del diritto europeo, impone di riconoscere al lavoratore navigante in ferie una retribuzione corrispondente alla nozione europea di remunerazione delle ferie, in misura tale da garantire al lavoratore medesimo condizioni economiche paragonabili a quelle di cui gode quando esercita l’attività lavorativa.

In tema di società cooperative, va ricordata Sez. L, n. 35796/2022, Leone, Rv. 666197-01, in cui si precisa che l’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, impone al datore di lavoro, in presenza di una pluralità di contratti collettivi, di corrispondere in favore dei soci lavoratori subordinati la retribuzione minima assicurata dal contratto collettivo di categoria concluso dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale; ne deriva che, in caso di contestazione, spetta alla cooperativa datrice di lavoro dimostrare che il trattamento economico accordato non è inferiore a quello riconosciuto dal contratto collettivo stipulato dall’associazione maggiormente rappresentativa, offrendo, altresì, la prova della maggiore rappresentatività dell’organizzazione sindacale stipulante.

Quanto al godimento a titolo gratuito dell’alloggio, Sez. L, n. 38169/2022, Patti, Rv. 666223-01, sottolinea che esso costituisce una componente in natura della retribuzione, da considerare ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, solo qualora vi sia connessione con la posizione lavorativa del dipendente che ne fruisce e costituisca, dunque, emolumento collegato alle qualità intrinseche delle sue mansioni e non piuttosto allo specifico disagio di una prestazione dell’attività lavorativa; in quanto condizione di miglior favore, quale componente aggiuntiva ai minimi tabellari, non è coperta dalla tutela dell’art. 36 Cost. né è in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione, previsto dall’art. 2103 c.c., non essendovi compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.

Delle maggiorazioni retributive e delle indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, si è interessata Sez. L, n. 38172/2022, Patti, Rv. 666301-01.

Viene qui ribadito, in consonanza con orientamento già espresso dalla S.C., che esse costituiscono parte integrante dell’ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, come tali, concorrono - ai sensi della nozione omnicomprensiva di retribuzione, recepita dagli art. 2120 e 2121 c.c., ed in assenza di deroghe introdotte successivamente all’entrata in vigore della legge n. 297 del 1982 - alla composizione della base di computo dell’indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto. Quanto agli altri istituti cd. indiretti (tredicesima, quattordicesima mensilità, indennità di ferie), viene del pari nuovamente affermato che la circostanza che il lavoro notturno sia prestato con regolarità secondo turni periodici - e cioè con modalità che, a norma dell’art. 2108, secondo comma c.c., escluderebbero la necessità di una maggiorazione retributiva - non comporta la necessaria incidenza della maggiorazione retributiva spettante per il lavoro notturno nel computo di quei trattamenti economici - quali le mensilità supplementari - per i quali la legge non impone il riferimento ad una nozione omnicomprensiva di retribuzione, salva diversa disposizione contrattuale collettiva od individuale.

7. Lo svolgimento di mansioni superiori e il demansionamento.

Dei rapporti tra lo svolgimento di mansioni superiori e la diligenza richiesta ha trattato Sez. L, n. 12038/2022, Spena, Rv. 664472-01.

La pronunzia, sebbene riferita al pubblico impiego contrattualizzato, va qui segnalata in quanto esprime un principio di portata generale: lo svolgimento di fatto di mansioni superiori non giustifica, di per sé, una diligenza inferiore a quella ordinaria, poiché il giudizio sulla diligenza esigibile deve tener conto dell’insieme di circostanze del fatto concreto, tra cui la complessiva esperienza maturata dal lavoratore, la formazione ricevuta ed i motivi che hanno determinato l’assegnazione delle mansioni superiori.

Del pari va ricordata Sez. L, n. 35421/2022, Di Paolantonio, Rv. 666305-01, che, con riferimento alla società a partecipazione pubblica, affermato il principio generale in virtù del quale il rapporto di lavoro alle dipendenze delle società a controllo pubblico non è disciplinato dal d.lgs. n. 165 del 2001, bensì dalle norme del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro alle dipendenze di privati, che trovano applicazione in assenza di una disciplina speciale derogatoria, precisa altresì che l’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008 e la legislazione della Regione Sicilia, che fa divieto alle società a partecipazione totale o maggioritaria della Regione di procedere all’assunzione di nuovo personale ed impone il contenimento della spesa per il personale, non comportano una deroga all’applicazione, quanto alla disciplina delle mansioni, dell’art 2103 c.c.

Quanto al demansionamento, Sez. L, n. 04410/2022, Amendola F., Rv. 663873-02, ha statuito che in tema di dequalificazione professionale, ove il lavoratore richieda l’accertamento della illegittimità della destinazione ad altre mansioni e del diritto alla conservazione di quelle in precedenza svolte, costituendo il suddetto accertamento la premessa logica e giuridica per ulteriori domande di tipo risarcitorio, l’interesse ad ottenere la pronunzia permane anche dopo l’estinzione del rapporto di lavoro, incidendo quest’ultimo evento soltanto sull’eventuale domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza, ma non sul diritto all’accertamento che tale obbligo sussisteva fino alla cessazione del rapporto.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. - con riferimento a vicenda in cui era intervenuta, nel corso del giudizio di primo grado, la cessazione del rapporto di lavoro in conseguenza della declaratoria giudiziale, emessa in altro procedimento, di legittimità del licenziamento irrogato al lavoratore - ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato il sopravvenuto difetto di interesse ad agire del lavoratore medesimo, nonostante quest’ultimo, sin dal ricorso introduttivo, avesse fatto espressa riserva di proporre azione per il risarcimento del danno da demansionamento.

La stessa pronunzia ha altresì affermato che il demansionamento del lavoratore, temporaneamente riammesso in servizio a seguito di pronuncia dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento, costituisce fatto illecito suscettibile di tutela risarcitoria anche quando la pronuncia venga successivamente riformata in sede di gravame, atteso che la fictio iuris, per la quale la declaratoria di legittimità del licenziamento a seguito della riforma della sentenza resa in prime cure determina l’effetto della risoluzione ex tunc del rapporto di lavoro, non può valere a porre nel nulla la condotta illecita tenuta dal datore di lavoro nell’arco temporale coincidente con il periodo in cui il rapporto di lavoro era stato riattivato (cfr. Sez. L, n. 04410/2022, Amendola F., Rv. 663873-02).

7.1. Sul dovere di presenza al lavoro dopo la malattia e sulla idoneità fisica.

Quanto al dovere del prestatore di ripresentarsi al lavoro dopo la malattia, va ricordata Sez. L, n. 29756/2022, Di Paola, Rv. 665777-01.

In tema di sorveglianza sanitaria, viene affermato, l’art. 41 del d.lgs. n. 81 del 2008 non autorizza il lavoratore a rimanere in attesa dell’iniziativa datoriale finalizzata alla effettuazione della visita medica di idoneità, che deve precedere l’assegnazione alle medesime mansioni svolte prima dell’assenza, essendo dovere del lavoratore medesimo presentarsi al lavoro una volta cessato lo stato di malattia, ben potendo il datore di lavoro disporre, nell’attesa della visita medica, l’eventuale e provvisoria diversa collocazione del lavoratore nell’impresa.

In tema di idoneità (rectius inidoneità fisica al lavoro) e mancanza di definitività di detto accertamento, Sez. L, n. 09158/2022, Garri, Rv. 664142-01 ha ritenuto che la dichiarazione di inidoneità fisica del dipendente, in esito alle procedure di cui all’art. 5 st.lav., non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia sull’illegittimità del licenziamento intimato a seguito di detto accertamento, pervenire a conclusioni diverse sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio di merito; rientra, pertanto, nel “rischio d’impresa” la scelta del datore di lavoro di optare per l’immediato licenziamento del dipendente, invece di agire, secondo le normali regole contrattuali, con la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, non potendo ridondare in danno del lavoratore l’errato accertamento da parte dell’organo amministrativo.

7.2. Del volantinaggio elettronico e dei suoi limiti.

La distribuzione di comunicati di contenuto sindacale nei luoghi di lavoro (nella specie, mediante invio di messaggi con posta elettronica aziendale, cd. “volantinaggio elettronico”), in quanto assimilabile all’attività di proselitismo, incontra i limiti previsti dall’art. 26, comma 1, della l. n. 300 del 1970, e pertanto si deve ritenere consentita soltanto se effettuata senza pregiudizio per il normale svolgimento dell’attività aziendale, alla luce delle concrete modalità organizzative dell’impresa e del tipo di lavoro cui sono addetti i destinatari delle comunicazioni (così Sez. L, n. 35643/2022, Leone, Rv. 666207-01).

8. In tema di contratti collettivi.

Il rapporto tra contratto collettivo nazionale e contratto collettivo di carattere territorialmente più circoscritto, evidenzia Sez. L, n. 17939/2022, Patti, Rv. 664854-01, non è regolato dai principi di gerarchia e di specialità propri delle fonti legislative, ma dalla effettiva volontà delle parti sociali e, pertanto, dalla maggiore prossimità, in ragione di una reciproca autonomia delle due discipline. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha affermato che la previsione di “transitorietà” della disciplina del pasto del personale navigante “sino alla definizione a livello c.c.n.l.”, contenuta nell’accordo collettivo territoriale del settore navigazione di R.F.I. del 3 aprile 2001, deve essere interpretata nel senso di cessazione della sua efficacia alla data di entrata in vigore della nuova disciplina speciale di cui all’accordo aziendale del 23 giugno 2004 e non di quella generale prevista dal c.c.n.l. del 16 aprile 2003).

Più in generale, quanto ai criteri di interpretazione del contratto e degli atti di autonomia negoziale, tra cui sono compresi i contratti aziendali, Sez. L, n. 02173/2022, Ponterio, Rv. 663736-01, puntualizza che il criterio letterale va integrato, nell’obiettivo normativamente imposto di ricostruire la volontà delle parti, con gli altri canoni ermeneutici idonei a dare rilievo alla “ragione pratica” del contratto, in conformità agli interessi che le parti medesime hanno inteso tutelare, nel momento storico di riferimento, mediante la stipulazione negoziale.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che - pur in presenza del riferimento nell’accordo aziendale al possesso della patente C, ai fini del riconoscimento di un incentivo professionale in favore di autisti aventi un determinato livello - aveva riconosciuto il beneficio anche ai conducenti di mezzi particolarmente complessi, ma privi di detta patente, sul rilievo che il requisito in questione fosse significativo della complessità di guida del veicolo, avuto riguardo alla portata e/o alle caratteristiche tecnologiche di utilizzo dello stesso.

Per la contiguità con le questioni trattate nel presente paragrafo, va qui rammentata anche Sez. L, n. 33982/2022, Ponterio, Rv. n. 666027-01, che sottolinea l’antisindacalità della condotta datoriale di violazione della clausola di ultravigenza di un contratto collettivo, specie se posta in essere nel periodo di rinnovo dello stesso, in quanto lesiva dell’autorevolezza del sindacato nel tutelare le condizioni economiche dei lavoratori, senza che la portata della violazione sia elisa dalla mera partecipazione dell’organizzazione sindacale alle trattative per la stipula del nuovo contratto.

8.1. Nullità del contratto di lavoro e indennità sostitutiva del preavviso.

Nell’ipotesi di contratto di lavoro nullo, sottolinea altresì il giudice di legittimità, al lavoratore non spetta l’indennità sostitutiva del preavviso che, per sua natura, presuppone la validità del rapporto e, salvo i casi eccezionali espressamente previsti dagli artt. 2118, comma 3, e 2122 c.c., la possibilità della sua continuazione oltre il periodo di recesso (così Sez. L, n. 28330/2022, Cinque, Rv. 665732-01).

9. Rinunzie e transazioni.

La disciplina dell’annullabilità degli atti contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, prevista dall’art. 2113 c.c. - statuisce Sez. L, n. 01887/2022, Tricomi, Rv. 663649-01 - riguarda le ipotesi di rinuncia a un diritto già acquisito, mentre non trova applicazione qualora il diritto sia ancora controverso e pertanto non possa dirsi già acquisito nel patrimonio del rinunciante.

Quanto alle transazioni, Sez. L, n. 12744/2022, Marchese, Rv. 664478-01, in conformità con Sez. L, n. 19023/2015, Tricomi, Rv. 636931-01, delimita l’ambito applicativo dell’annullamento su pretesa temeraria.

L’annullamento della transazione su pretesa temeraria, ai sensi dell’art. 1971 c.c., sottolinea la S.C., presuppone la presenza di due elementi, uno obiettivo e uno soggettivo, ossia che la pretesa fatta valere dalla parte nei cui confronti si chiede l’annullamento sia totalmente infondata e che la parte versi in mala fede, ovvero che, pur essendo consapevole della infondatezza della propria pretesa, l’abbia dolosamente sostenuta.

Ponendosi in scia con quanto già ritenuto da Sez. L, n. 19831/2013, Arienzo, Rv. 628642-01, il giudice di legittimità ha ribadito che l’accordo transattivo sottoscritto dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia, nella specie “all’eventuale risarcimento danni per qualsiasi titolo”, può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Il relativo accertamento costituisce giudizio di merito, censurabile, in sede di legittimità, soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione (in tal senso, cfr. Sez. L, n. 09160/2022, Pagetta, Rv. 664230-01).

10. Le dimissioni.

In tema di dimissioni, Sez. L, n. 24432/2022, Garri, Rv. 665460-01, sottolinea che anche il dirigente che voglia far valere la giusta causa ha l’onere di allegare e specificare quale incidenza pregiudizievole abbia avuto la condotta datoriale, dovendosi escludere che il ritardo del datore di lavoro nel pagamento della retribuzione possa giustificare la risoluzione immediata del rapporto, allorché il dipendente abbia tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di risolverlo immediatamente e si sia invece avvalso di rimedi alternativi, non risolutori, per sollecitare il pagamento delle retribuzioni scadute, sempre che il ritardo suddetto non assuma un significato di gravità per avere il lavoratore dovuto provvedere con mezzi sostitutivi della retribuzione non corrisposta alla scadenza contrattuale o consuetudinaria.

11. Cessazione dell’impresa e accordo sindacale di ricollocazione.

Sez. L, n. 21447/2022, Ponterio, Rv. 665128-01, ha evidenziato che in caso di cessazione dell’attività aziendale, l’accordo sindacale avente ad oggetto la ricollocazione del personale interessato dalla cessazione dell’attività di impresa e contenente l’impegno dell’azienda subentrante ad assumere alle sue dipendenze una determinata percentuale dei dipendenti messi in mobilità, va qualificato come contratto a favore di terzi, da cui derivano specifici diritti in capo ai beneficiari, ove questi siano individuati o individuabili; ne consegue che, qualora l’accordo non indichi nominativamente i dipendenti da assumere, ma si limiti a stabilire i criteri per la individuazione dei lavoratori che dovranno transitare alle dipendenze dell’imprenditore subentrante, è onere dei lavoratori, terzi estranei all’accordo medesimo, dimostrare il possesso dei requisiti condizionanti l’acquisito della qualità di terzi beneficiari.

12. L’agenzia.

Il tema della captazione dei clienti in materia di contratto di agenzia e dei conseguenti profili risarcitori è affrontato da Sez. L, n. 14763/2022, Ponterio, Rv. 664696-01.

Secondo il giudice di legittimità, l’agente, la cui esclusiva sia stata lesa dalla captazione dei clienti compiuta da agenti incaricati per una diversa zona dal medesimo preponente, ha il diritto al risarcimento dei danni di natura contrattuale nei confronti del preponente, venendo in rilievo una violazione degli obblighi inerenti l’esclusiva che derivano dal contratto e non dalla legge, potendo gli stessi essere esclusi pattiziamente, e dei danni di natura extracontrattuale verso gli agenti concorrenti.

  • OCCUPAZIONE E LAVORO
  • indennità di licenziamento
  • licenziamento
  • contratto di lavoro
  • cessazione d'impiego

CAPITOLO XVIII

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE E COLLETTIVO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Potere disciplinare. - 2 Licenziamento individuale. - 2.1 Onere di comunicazione per iscritto. - 2.2 Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. - 2.3 Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. - 2.4 L’impugnazione del licenziamento e le decadenze. - 2.5 Applicazioni della legge “Fornero”. - 2.6 Le conseguenze del licenziamento illegittimo. - 2.7 Il licenziamento del dirigente. - 3 Licenziamenti collettivi.

1. Potere disciplinare.

In una ipotesi particolare attinente ai presupposti per l’esercizio dell’azione disciplinare, Sez. L, n. 11365/2022, Ponterio, Rv. 664305-01, ha affermato che nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, il potere disciplinare del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori che aderiscono ad uno sciopero, proclamato dalle organizzazioni sindacali senza il rispetto delle modalità e delle procedure di erogazione e delle altre misure previste dall’art. 2, comma 2, della l. n. 146 del 1990, come modificata dalla l. n. 83 del 2000, è subordinato, ai sensi dell’art. 13, comma 1, lett. i) della legge citata, alla valutazione negativa del comportamento delle parti collettive ad opera della Commissione di garanzia, che non solo rende doverosa l’attivazione del procedimento disciplinare, ma costituisce anche il presupposto per l’esercizio del potere disciplinare.

Con riferimento all’atto di inizio del procedimento, è stato ribadito - da Sez. L, n. 03820/2022, Ponterio, Rv. 663869-01, in conformità a Sez. L, n. 22236/2007, Cuoco, Rv. 600052-01 - che la contestazione degli addebiti ha la funzione di indicare il fatto contestato al fine di consentire la difesa del lavoratore, mentre non ha per oggetto le relative prove, soprattutto per i fatti che, svolgendosi fuori dall’azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro; conseguentemente, è sufficiente che quest’ultimo indichi la fonte della sua conoscenza.

È stato poi puntualizzato, sulla premessa che la predetta contestazione e il relativo grado di precisione risponde alla richiamata esigenza di consentire concretamente all’incolpato di approntare la propria difesa, che spetta al lavoratore, che si dolga della genericità della contestazione e della violazione del principio di sua immodificabilità, chiarire in che modo ne sia risultato leso il suo diritto di difesa (così Sez. L, n. 30271/2022, Garri, Rv. 665933-01).

Con riguardo al delicato tema del termine, previsto dalla contrattazione collettiva, entro il quale deve essere comminata la sanzione, Sez. L, n. 30155/2022, Boghetich, Rv. 665760-02, ha precisato che l’art. 72, comma 3, del c.c.n.l. Agidae vigente nel 2014 va interpretato nel senso che la consumazione del potere disciplinare di irrogazione della sanzione si realizza con il decorso di sei giorni dallo spirare del termine minimo inderogabile di dieci giorni previsto a favore del lavoratore per fornire le proprie giustificazioni, oppure elasso il più ampio arco temporale previsto dal singolo datore di lavoro nella lettera di contestazione disciplinare.

Sul versante analogo della consumazione del potere disciplinare per avvenuto esercizio dell’azione, Sez. L, n. 12321/2022, Amendola F., Rv. 664347-01, ha puntualizzato che qualora il datore di lavoro abbia esercitato il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti, non può farlo una seconda volta, in relazione agli stessi fatti, nemmeno ove provveda ad una diversa valutazione o configurazione giuridica della fattispecie, e, avendo ormai consumato il potere disciplinare, gli è consentito solo di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva; la verifica in ordine alla identità o diversità dei fatti contestati, implica apprezzamenti di merito, concernenti l’interpretazione degli atti del procedimento disciplinare e la valutazione degli accadimenti in essi riportati, non suscettibili di riesame in sede di legittimità.

2. Licenziamento individuale.

Nel corrente anno si è registrata una ancor più marcata riduzione, rispetto al passato, delle pronunzie di rilievo concernenti la materia, giunta, a distanza di diversi anni dagli interventi riformatori della legge “Fornero” e del “Jobs Act”, ad un significativo assestamento determinato dal naturale consolidamento di orientamenti delineatisi nel corso del tempo, benché residuino, ancora, temi - in particolar modo quello della valenza, nell’ambito del sistema, del licenziamento disciplinare illegittimo per scarsa rilevanza del fatto contestato e di quello non tempestivo, in quanto intimato a lunga distanza di tempo dalla contestazione disciplinare o successivamente alla scadenza del termine fissato dalla contrattazione collettiva, o, ancora, quello delle conseguenze sanzionatorie, nell’ambito del regime del “Jobs Act”, del licenziamento intimato per superamento del comporto, ma prima dello spirare di questo - meritevoli, attesa la delicatezza delle questioni che vi si ricollegano, di un adeguato approfondimento.

Peraltro, con due rilevanti pronunzie (su cui v. “infra”), pare abbia trovato definizione la questione concernente la rilevanza da accordare, ai fini dell’applicabilità o meno della tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, st.lav., a fatti non direttamente rientranti tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, a seguito di una interpretazione di dette previsioni.

Sulla materia vanno infine segnalate due significative sentenze della Corte costituzionale.

Nella prima - sentenza 19 maggio 2022, n. 125 - è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della l. n. 300 del 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della l. n. 92 del 28 2012, limitatamente alla parola «manifesta».

Con la conseguenza che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la “insussistenza del fatto”, va sempre applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso.

Nella seconda - sentenza 22 luglio 2022, n. 183 - sono state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la l. n. 30 del 1999.

In particolare, il “giudice a quo” lamentava, nel caso specifico, l’inidoneità della misura dell’indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento ingiustificato di lavoratori assunti nelle piccole imprese nella vigenza del “Jobs Act” a soddisfare, attesa la esiguità della stessa, il “test” di adeguatezza.

Il Giudice delle leggi ha, al riguardo, riconosciuto l’effettiva sussistenza del “vulnus” denunciato dal rimettente, evidenziando tuttavia di non potervi porre rimedio, non ravvisandosi «una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l’intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci».

Sicché, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni, ha rivolto un monito al legislatore, segnalando «che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte».

2.1. Onere di comunicazione per iscritto.

Sez. L, n. 26532/2022, Michelini, Rv. 665480-01, ha ribadito, sulla scorta di Sez. L, n. 11479/2015, Manna A., Rv. 635717-01, che il licenziamento è un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, sicché non è ammissibile la prova per testi, salvo che il relativo documento sia andato perduto senza colpa, né tale divieto può essere superato con l’esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. e non sui requisiti di forma richiesti per l’atto.

Nella specie, la S.C. ha affermato l’inefficacia del licenziamento per difetto di forma in relazione ad una lettera di licenziamento, priva di data certa, escludendo che la forma scritta del recesso datoriale, e la modalità della sua comunicazione, potessero essere provate in via testimoniale.

2.2. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Con una rilevante pronuncia attinente al tema dell’onere della prova, è stato chiarito - da Sez. L, n. 13063/2022, Amendola F., Rv. 664597-01 - che in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato.

Quanto al profilo concernente il sindacato di legittimità, è stato precisato che l’art. 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto; l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare tale clausola generale, non sfugge pertanto al sindacato di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento (così Sez. L, n. 12789/2022, Boghetich, Rv. 664481-01).

Sul tema del vincolo derivante dalla statuizione della Corte di cassazione in materia di giudizio di sussunzione, Sez. L, n. 31908/2022, Di Paola, Rv. 665983-01, ha puntualizzato che in tema di licenziamento disciplinare, in caso di cassazione con rinvio per vizio di sussunzione della fattispecie concreta nella previsione della contrattazione collettiva, il giudice di rinvio, nel rinnovare il giudizio di sussunzione, è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di effettuare una nuova valutazione della condotta contestata.

Con riguardo alla problematica dell’incidenza del giudicato penale sul licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 32680/2022, Garri, Rv. 666217-01, ha affermato che nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore sulla base di un fatto di reato per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudice civile, nel caso di mancata partecipazione al giudizio penale del datore di lavoro che pure era stato posto in condizione di farlo, non è vincolato dal giudicato penale ed è, quindi, abilitato a procedere autonomamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito al processo; infatti l’art. 654 c.p.p., diversamente dall’art. 652 relativo ai giudizi civili di risarcimento del danno, esclude che possa avere efficacia in un successivo giudizio civile la sentenza penale di condanna o di assoluzione, con riferimento ai soggetti che non abbiano partecipato al giudizio penale, indipendentemente dalle ragioni di tale mancata partecipazione.

2.3. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

In tema di obbligo di “repechage”, è stato evidenziato - da Sez. L, n. 30950/2022, Garri, Rv. 665843-01 - che nella valutazione della legittimità del licenziamento per soppressione di una posizione lavorativa, l’impossibilità di ricollocare altrimenti il lavoratore va verificata anche in relazione alle mansioni superiori di fatto assegnate e svolte dallo stesso e ciò in quanto l’impossibilità di reimpiego del prestatore in mansioni diverse - elemento inespresso a livello normativo - trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, sia nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore.

2.4. L’impugnazione del licenziamento e le decadenze.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 02312/2022, Esposito, Rv. 663789-01, ha affermato che il ricorso proposto dal lavoratore ai sensi della l. n. 92 del 2012, ancorché dichiarato inammissibile per erroneità del rito, è idoneo ad impedire la decadenza prevista dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966 con riferimento al successivo ricorso presentato dal medesimo lavoratore contro il licenziamento ex art. 414 c.p.c., poiché con la prima impugnazione è tempestivamente emersa la sua volontà di ottenere una pronuncia giudiziale e, comunque, il citato art. 6, derogando alla disciplina generale delle impugnative negoziali, è disposizione eccezionale da interpretare restrittivamente, sicché non è consentito un ampliamento in via interpretativa delle ipotesi di decadenza da esso previste

2.5. Applicazioni della legge “Fornero”.

Nel corrente anno si registrano poche pronunzie, ma alcune di notevole rilievo.

In primo luogo, come sopra anticipato, Sez. L, n. 11665/2022, Garri, Rv. 664468-01 ha affermato, per lo più disallineandosi dal precedente orientamento di cui era espressione Sez. L, n. 12365/2019, Boghetich, Rv. 653758-01, che in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa; né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.

Nello stesso senso è Sez. L, n. 20780/2022, Marotta, Rv. 665124-01, che ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto inapplicabile la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, senza tuttavia verificare se le condotte contestate al lavoratore, pur non tipizzate dalla contrattazione collettiva, potessero o meno configurare, in relazione alle clausole generali del c.c.n.l. - gravità o recidività della mancanza o grado della colpa - un comportamento punibile con una sanzione conservativa.

Sempre in tema di licenziamento disciplinare, Sez. L, n. 07392/2022, Cinque, Rv. 664088-01, ha ribadito, in adesione a Sez. L, n. 25189/2016, Negri Della Torre, Rv. 642224-01, che la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell’eventuale provvedimento di recesso, integra una violazione della procedura di cui all’art. 7 st. lav. e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla l. n. 92 del 2012.

Con riguardo al regime di tutela avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pur prima dell’intervento operato dalla Corte costituzionale nel corrente anno (su cui v. “supra”), Sez. L, n. 16975/2022, Boghetich, Rv. 664739-01, ha specificato che ove sia stata accertata la “manifesta insussistenza del fatto”, a seguito della sentenza n. 59 del 2021 della Corte costituzionale - che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, nella parte in cui prevedeva un potere discrezionale del giudice in ordine all’applicazione della tutela reale - va sempre applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione sulla non eccessiva onerosità del rimedio.

In ordine al regime della tutela cd. “obbligatoria”, Sez. L, n. 19323/2022, Michelini, Rv. 664927-01, ha riaffermato, in linea con quanto statuito da Sez. L, n. 17589/2016, Patti, Rv. 641010-01, che in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1996, come modificato dall’art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, trova applicazione l’art. 8 della medesima legge, in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche l’art. 18 della l. n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria.

Infine, con una rilevante pronunzia, Sez. L, n. 27334/2022, Ponterio, Rv. 665485-01, ha precisato che nel sistema delineato dall’art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, comma 2, c.c., è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal comma 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo art. 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.

2.6. Le conseguenze del licenziamento illegittimo.

Con riferimento alla tutela reintegratoria, Sez. L, n. 08053/2022, Ponterio, Rv. 664125-01, ha affermato che, ai sensi dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012, il giudice che accerta l’inefficacia o l’illegittimità del licenziamento deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, anche in mancanza di una esplicita domanda in tal senso del lavoratore licenziato, atteso che la reintegrazione - salvo il caso di espressa rinuncia ad essa - è compresa, come effetto tipico della tutela reale prevista dalla norma suddetta, nella domanda avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità od inefficacia del recesso del datore di lavoro.

Sulla delicata problematica dell’individuazione delle situazioni ostative alla reintegra, Sez. L, n. 16201/2022, Di Paola, Rv. 664712-01, ha evidenziato che in tema di licenziamento illegittimo, intimato da parte di una società posta in liquidazione, incaricata dell’attività di raccolta dei rifiuti, l’inesistenza originaria di attività aziendale, analogamente alla sopravvenuta totale cessazione di ogni attività, impedisce la reintegra del lavoratore, a nulla rilevando la sussistenza di un obbligo legale di svolgimento dell’attività di spazzamento e di trasporto dei rifiuti e di smaltimento o recupero inerenti alla raccolta differenziata, normativamente imposto dall’art. 11 del d.l. n. 195 del 2009, atteso che l’impossibilità di disporre l’ordine di reintegra discende da una mera situazione di fatto.

Quanto alle conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 st.lav. (pur nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012), Sez. L, n. 06744/2022, Cinque, Rv. 664087-01, ha precisato che la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato - dovendosi ricomprendere nel suo complesso anche ogni compenso avente carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento -, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso dalla base di calcolo dell’indennità risarcitoria sia i premi ed incentivi che gli incrementi retributivi previsti da accordi sindacali posteriori all’impugnazione del licenziamento ma anteriori alla reintegra).

Sul tema dell’“aliunde perceptum” o “percipiendum”, Sez. L, n. 03824/2022, Ponterio, Rv. 663870-01, ha chiarito che in base all’art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, la determinazione dell’indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di “aliunde perceptum” o “percipiendum”, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all’importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l’indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo.

2.7. Il licenziamento del dirigente.

Sez. L, n. 17689/2022, Ponterio, Rv. 664853-01, ha precisato che non integra di per sé la giustificatezza del licenziamento la condotta del dirigente avente la qualifica di “direttore generale” che, anche al fine di non incorrere in responsabilità verso la società per atti e comportamenti degli amministratori, eserciti, in maniera non pretestuosa, il diritto al dissenso nelle sedi proprie, di cui all’art. 2392 c.c., con modalità non diffamatorie o offensive, atteso che il legame fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale non può determinare alcuna automatica compressione del diritto di critica, di denuncia e di dissenso spettante al lavoratore, secondo le norme di diritto ed i principi costituzionali posti a presidio della libertà di manifestazione del pensiero.

Nella specie, la S.C., cassando la sentenza impugnata, ha escluso la giustificatezza del licenziamento del dirigente che, in sede di adunanza del consiglio di amministrazione, aveva mosso critiche al bilancio della società prospettando le fattispecie di reato potenzialmente configurabili.

3. Licenziamenti collettivi.

Il tema di maggior rilievo affrontato nell’anno verte sulla questione della determinazione della platea dei lavoratori da licenziare e della delimitazione dei criteri di scelta.

Sez. L, n. 33889/2022, Pagetta, Rv. 666025-01, ha affermato che ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta dettati dall’art. 5 della l. n. 223 del 1991, la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità deve avvenire nell’ambito dell’intero complesso organizzativo e produttivo ed in modo che concorrano lavoratori di analoghe professionalità (ai fini della loro fungibilità) e di similare livello, rimanendo possibile una deroga a tale principio solo in riferimento a casi specifici, ove sussista una diversa e motivata esigenza aziendale, onde evitare che il datore di lavoro finalizzi surrettiziamente detti criteri, eventualmente in collegamento con preventivi spostamenti di personale, all’espulsione di elementi non graditi, senza che questi abbiano concrete possibilità di difesa; ne consegue l’illegittimità della scelta in ragione dell’impiego dei lavoratori da porre in mobilità in un reparto soppresso o ridotto, senza tener conto del possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altri settori aziendali.

È stato tuttavia precisato - da Sez. L, n. 06296/2022, Di Paola, Rv. 664005-01, sulla stessa linea di Sez. L, n. 18190/2016, Balestrieri, Rv. 641145-01 - che in tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l’individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l’idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti della azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l’onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.

Sempre in tema, Sez. L, n. 02390/2022, Amendola F., Rv. 663737-01, ha rilevato che la regola generale di cui all’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, secondo cui l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire avuto riguardo al complesso aziendale, può essere derogata se la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale è limitata agli addetti a un determinato reparto o settore o sede territoriale; in tal caso il datore di lavoro deve indicare nella comunicazione prevista dall’art. 4, comma 3, della legge citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento a unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti.

Resta fermo - e v., sul punto, Sez. L, n. 10119/2022, Ponterio, Rv. 664274-01 - che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, individuati dai contratti collettivi ai sensi dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991, devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili, in modo da consentire la formazione di una graduatoria rigida e da essere controllabili in fase applicativa, e non possono implicare valutazioni di carattere discrezionale, neanche sotto forma di possibile deroga all’applicazione di criteri in sé oggettivi; tali caratteristiche devono considerarsi immanenti ai criteri legali di scelta.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso che l’anzianità indicata al citato art. 5 potesse essere riferita anche all’anzianità convenzionale - riconosciuta dal datore in sede di accordo sindacale col dipendente -, essendo tale criterio privo di carattere oggettivo, non applicabile all’intera platea dei lavoratori e implicante valutazioni di carattere discrezionale.

È poi consolidato il principio secondo cui mentre grava sul datore di lavoro l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell’anzianità e delle mansioni, incombe al lavoratore dimostrare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata. Ne consegue che, ove il datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a consentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di comparare la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è ravvisabile in capo al lavoratore (così Sez. L, n. 15228/2022, Patti, Rv. 664698-01).

Infine, sul versante generale, Sez. L, n. 02010/2022, Pagetta, Rv. 663668-01, ha riaffermato, sulla scia di uno stabile orientamento, che la cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di ridimensionamento dell’impresa, qualificata dalla devoluzione alle parti sociali di un controllo preventivo sulla ricorrenza delle ragioni legittimanti la procedura di riduzione del personale, esclude che il giudice possa sindacare l’opportunità delle scelte datoriali (nella specie, di soppressione di un reparto), ma lascia impregiudicata la verifica della correttezza procedurale dell’operazione, ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso.

  • contratto di lavoro
  • conservazione del posto di lavoro
  • mobilità della manodopera
  • cessazione d'impiego
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO XIX

IL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO PRIVATIZZATO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione. - 2 I principi generali. - 3 La costituzione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato. - 3.1 Il reclutamento mediante procedure concorsuali: regole ed eccezioni. - 3.2 I contratti di lavoro flessibili. - 4 Retribuzione e altri trattamenti economici. - 5 Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni. - 6 Vicende del rapporto. - 7 Mobilità. - 8 Illeciti disciplinari. - 9 La cessazione del rapporto di lavoro. - 10 La dirigenza. - 11 Il personale scolastico. - 12 Le azioni di recupero della PA nei confronti del dipendente.

1. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni: introduzione.

Le pronunce rese dalla S.C. in materia di pubblico impiego privatizzato saranno analizzate, come in passato, seguendo gli sviluppi del rapporto lavorativo, dal momento costitutivo alla sua cessazione, passando per i diritti retributivi, le diverse vicende modificative, la materia disciplinare; un paragrafo ad hoc sarà dedicato alla dirigenza ed uno al personale scolastico.

2. I principi generali.

Nell’impiego pubblico contrattualizzato, gli atti di gestione del rapporto, in quanto espressione dei poteri propri del datore di lavoro privato, hanno natura privatistica, con la conseguenza che il rispetto dell’obbligo di motivazione imposto dalla legge o dalla contrattazione collettiva va parametrato, da un lato, alla natura dell’atto ed agli effetti che esso produce, dall’altro, ai principi di correttezza e buona fede ai quali, nello svolgimento del rapporto di lavoro, è obbligato ad attenersi il datore di lavoro pubblico, senza che trovi applicazione l’art. 3 della l. n. 241 del 1990 che disciplina la motivazione degli atti amministrativi (così Sez. L, n. 24122/2022, Di Paolantonio, Rv. 665351-01).

3. La costituzione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato.

Due sono i principi fondamentali che governano l’accesso al pubblico impiego nell’attuale assetto normativo. Il reclutamento del personale avviene di regola, secondo quanto stabilito dall’art. 97 Cost., mediante concorso pubblico e, almeno per far fronte al fabbisogno ordinario, implica la conclusione di contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).

La conclusione di contratti di lavoro flessibile costituisce, almeno in astratto, una eccezione.

Nei prossimi paragrafi saranno anzitutto passate in rassegna le pronunce della S.C. relative alle procedure selettive, per poi esaminare le decisioni in materia di lavoro flessibile.

3.1. Il reclutamento mediante procedure concorsuali: regole ed eccezioni.

Il lavoratore, nell’ipotesi di illegittima esclusione da una procedura selettiva o di erronea valutazione del medesimo, è titolare - secondo Sez. L, n. 22029/2022, Di Paolantonio, Rv. 665136-01 - di un diritto soggettivo all’effettivo e corretto svolgimento delle operazioni valutative e può esercitare l’azione di esatto adempimento, al fine di ottenere la ripetizione della valutazione, nonché agire per il risarcimento del danno anche da perdita di “chance”, ma non può domandare al giudice di sostituirsi al datore di lavoro quanto alle valutazioni discrezionali, con la conseguenza che l’attribuzione del bene al quale il dipendente aspira sarà possibile solo qualora la graduatoria da formare all’esito della procedura selettiva sia la risultante di criteri fissi e predeterminati ai quali il datore di lavoro, pubblico e privato, per autonoma iniziativa o pattiziamente, abbia vincolato la propria discrezionalità, rapportando il punteggio in maniera fissa al ricorrere di un titolo o, più in generale, di un determinato presupposto fattuale.

Sez. L, n. 37430/2022, Fedele, Rv. 666216-01, ha affermato che il procedimento di riconoscimento in Italia di un titolo di studio conseguito all’estero ai fini della partecipazione a concorso, ex art. 38, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, “ratione temporis” applicabile, ha efficacia meramente dichiarativa, mirando ad accertare stati o qualità già esistenti nella sfera giuridica soggettiva di colui il quale richiede l’equipollenza, con l’effetto giuridico, non già di creare “ex novo”, e quindi “ex nunc”, il titolo di studio dichiarato equivalente ad uno di quelli esistenti all’interno dell’ordinamento italiano, bensì d’imporre alla P.A. procedente di considerarne la perfetta equivalenza nell’ambito del procedimento concorsuale, assumendone per certi l’enunciato, la titolarità ed il “dies a quo” del conseguimento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza che aveva rigettato la domanda della lavoratrice di disapplicazione del provvedimento di decadenza e risoluzione contrattuale, in quanto il titolo di laurea conseguito presso una università di Malta, il cui decreto di riconoscimento del MIUR era stato emanato successivamente alle prove concorsuali, non aveva valore legale in Italia all’epoca della domanda, ed accolto il motivo di ricorso fondato sulla violazione ed errata applicazione dell’art. 45 T.F.U.E., come interpretato da Corte Giustizia UE 6 ottobre 2015, C-298-14, avendo vagliato l’amministrazione anche l’equipollenza del titolo ai fini della procedura concorsuale).

Sul tema dell’annullamento di un concorso pubblico in autotutela ai sensi dell’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990, per vizi di legittimità riscontrati dalla P.A. rispetto agli atti della selezione, Sez. L, n. 01307/2022, Bellè, Rv. 663601-01, ha precisato che il predetto annullamento determina la nullità originaria, rilevabile d’ufficio, sebbene accertata successivamente, del contratto di lavoro stipulato in esito alla conclusione del concorso stesso; nel giudizio instaurato dal lavoratore per la tutela del diritto soggettivo alla prosecuzione del rapporto conseguente a tale contratto il giudice ordinario ha il potere di disapplicare il provvedimento di annullamento solo se, ed in quanto, si ravvisino rispetto ad esso i vizi di legittimità propri degli atti amministrativi.

Quanto alla problematica del differimento dell’assunzione o del termine di accettazione, Sez. L, n. 23885/2022, Cavallari, Rv. 665350-01, ha ritenuto che il vincitore di concorso, inserito nella graduatoria di merito, non ha un diritto incondizionato al differimento in questione, spettando alla pubblica amministrazione il potere di valutare la sussistenza di ragioni gravi e obiettive che lo consentano, alla luce dell’interesse pubblico del quale è portatrice ex art. 97 Cost., nell’ottica dell’efficienza dell’azione amministrativa che richiede anche una tutela riflessa dei soggetti non vincitori collocati in graduatoria.

Nella specie, la S.C. ha negato al docente vincitore del concorso ordinario il diritto al differimento dell’assunzione, in ragione della titolarità di un assegno di ricerca presso l’Università.

L’avviamento al lavoro a mezzo di liste cd. di collocamento deve avvenire sulla base dei soli requisiti indicati dalla contrattazione collettiva, senza che possano essere richiesti titoli o esperienze professionali ulteriori; ne consegue che i candidati muniti del titolo scolastico della scuola dell’obbligo, da assumere presso la P.A. con le procedure di cui agli artt. 23 ss. del d.P.R. n. 487 del 1994, vanno inseriti nelle graduatorie di cui all’art. 24 del medesimo d.P.R., in coerenza con i requisiti di accesso dall’esterno previsti dalla contrattazione collettiva per le posizioni lavorative interessate, se in possesso del solo diploma di scuola dell’obbligo, restando illegittima la richiesta di altri e diversi titoli professionali o esperienze lavorative, come pure il ricorso ad altre graduatorie che prevedano requisiti ulteriori (così Sez. L, n. 24392/2022, Bellè, Rv. 665352-01).

In tema di reclutamento del personale delle società “in house”, Sez. L, n. 04571/2022, Boghetich, Rv. 663874-01, ha puntualizzato che l’art. 18, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., dalla l. n. 133 del 2008 - nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla l. n. 102 del 2009, di conversione del d.l. n. 78 del 2009 -, che ha disposto che, ai fini del reclutamento in questione, le predette società adottino, entro un preciso limite temporale - “id est”: sessanta giorni successivi all’entrata in vigore della legge di conversione -, criteri che impongono l’esperimento di procedure concorsuali o selettive, nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, è norma immediatamente precettiva, in quanto il successivo d.P.R. n. 168 del 2010, adottato sulla base dell’art. 23 bis, comma 10, lett. A), del citato d.l. n. 112 del 2008, non ha integrato il precetto dettato dalla fonte primaria, essendosi limitato a richiamare detto precetto senza aggiungervi alcun contenuto sostanziale.

Sempre in relazione al predetto reclutamento, Sez. L, n. 30235/2022, Leone, Rv. 665779-01, ha evidenziato che la violazione delle disposizioni che impongono l’adozione di procedure concorsuali e selettive determina una nullità originaria del contratto di lavoro, da cui consegue l’impossibilità di riconoscere al lavoratore le tutele previste per le lavoratrici madri, invece applicabili in contesti di lavoro legittimamente instaurato.

Con riguardo alle ipotesi di reclutamento costituenti deroga alla regola della necessità della procedura concorsuale, Sez. L, n. 18539/2022, Marotta, Rv. 664917-01, ha precisato che in tema di assunzione da parte delle pubbliche amministrazioni di appartenenti alla categoria delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata o loro congiunti, il fratello superstite, anche se convivente, non ha diritto alla assunzione per chiamata nominativa da parte dell’Ente locale, considerato che la deroga al pubblico concorso riguarda solo il coniuge superstite, e i figli delle predette vittime, non trovando poi applicazione, nella specie, l’art. 1, comma 2, della l. n. 407 del 1988 che contempla fra gli aventi diritto anche i fratelli conviventi, ma solo con riferimento all’assunzione del personale contrattualizzato dei Ministeri per i livelli retributivi dal VI all’VIII.

3.2. I contratti di lavoro flessibili.

Nel pubblico impiego privatizzato, l’art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede che il reclutamento del personale diretto a far fronte al fabbisogno ordinario avvenga attraverso contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La possibilità di far ricorso a contratti di lavoro flessibile è bensì contemplata dai commi 2 e ss. dello stesso art. 36, ma è circondata da molteplici cautele, allo scopo di contenerne gli abusi. Qualora questi si verifichino, è peraltro noto come la violazione di disposizioni imperative in materia di assunzioni non possa giustificare l’immissione in ruolo, ma, di regola, solo il risarcimento del danno (comma 5).

Quanto alla portata del principio di parità di trattamento, di rango sovranazionale, tra personale assunto a termine e personale impiegato a tempo indeterminato, Sez. L, n. 07584/2022, Di Paolantonio, Rv. 664122-01, ha specificato che la clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CEE impone al datore di lavoro di riservare all’assunto a tempo determinato il medesimo trattamento previsto per l’assunto a tempo indeterminato e, pertanto, in caso di progressione stipendiale connessa sia all’anzianità di servizio che alla valutazione positiva dell’attività prestata, il datore di lavoro sarà tenuto, da un lato, ad includere nel calcolo, ai fini dell’anzianità, anche il servizio prestato sulla base di rapporti a tempo determinato e, dall’altro, ad attivare, alla maturazione del periodo così calcolato, la procedura valutativa nei termini, con le forme e con gli effetti previsti per gli assunti a tempo indeterminato. La sola circostanza che la progressione stipendiale presupponga anche la valutazione positiva non costituisce, peraltro, ragione oggettiva idonea a giustificare la diversità di trattamento fra assunto a tempo determinato e assunto a tempo indeterminato, secondo i criteri indicati dalla Corte di giustizia UE (causa C-652/19 del 17.3.2021, punto 60), e ad escludere il diritto alla predetta progressione stipendiale se, alla maturazione dell’anzianità, il datore di lavoro, contrattualmente tenuto ad attivare la procedura valutativa, l’abbia omessa sull’erroneo presupposto della non computabilità dei periodi a tempo determinato; in tal caso, poiché il diritto all’attribuzione del maggiore trattamento retributivo sorge solo al concorrere di entrambe le condizioni, ossia l’anzianità di servizio e la valutazione positiva, potrà essere pronunciata condanna al pagamento delle differenze retributive con la decorrenza contrattualmente prevista solo se la valutazione positiva in questione sia già avvenuta, anche se ad altri fini; altrimenti il giudice dovrà limitarsi ad accertare l’avvenuta maturazione dell’anzianità ed il conseguente diritto del dipendente ad essere valutato.

Sempre in tema, Sez. L, n. 14959/2022, Negri Della Torre, Rv. 664708-01, ha precisato che al personale scolastico non di ruolo della Provincia di Trento, assunto a tempo determinato, come per i docenti a termine della scuola statale, spetta, in applicazione del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 99/70/CE, di diretta applicazione, il riconoscimento dell’anzianità maturata in forza della successione di contratti di lavoro a tempo determinato ed il conseguente trattamento retributivo secondo il sistema di progressione professionale per fasce di anzianità previsto per gli assunti a tempo indeterminato, non ravvisandosi nello speciale regime di reclutamento del personale scolastico e di conferimento delle supplenze nella Provincia Autonoma di Trento, alcuna ragione oggettiva idonea a giustificare il trattamento economico differenziato.

L’art. 11, comma 4, lett. a), del c.c.n.l. dell’8.6.2000 per la dirigenza non medica del SSN, avente ad oggetto la retribuzione di posizione, deve essere disapplicato - perché in contrasto con la clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CEE - nella parte in cui non valorizza, ai fini dell’anzianità di servizio, anche il servizio prestato presso lo stesso ente sulla base di contratti a tempo determinato; ne consegue - secondo Sez. L, n. 07584/2022, Di Paolantonio, Rv. 664122-02 - che il datore di lavoro è tenuto ad includere nel calcolo le prestazioni a termine rese nel rispetto degli intervalli temporali conformi a quelli richiesti dalla disciplina vigente “ratione temporis”. Il requisito dell’assenza di soluzione di continuità resta limitato, per l’assunto a tempo determinato così come per il dirigente a tempo indeterminato, alle anzianità maturate presso aziende o enti diversi del SSN.

Inoltre, l’art. 11, comma 4, lett. b), del predetto c.c.n.l. deve essere interpretato nel senso che, ai fini della maggiorazione dell’indennità di esclusività, va calcolato anche il servizio prestato presso lo stesso ente sulla base di rapporti a termine stipulati nel rispetto degli intervalli di legge. L’assenza di soluzione di continuità è richiesta, ai medesimi fini, per l’assunto a tempo determinato e per il dirigente a tempo indeterminato in caso di rapporti intercorsi con aziende o enti diversi del SSN (così Sez. L, n. 07584/2022, Di Paolantonio, Rv. 664122-03).

Con la rilevante pronunzia Sez. U, n. 22726/2022, Marotta, Rv. 665452-01 è stato chiarito che, ai fini della determinazione dell’anzianità di servizio del docente di materie curricolari, da computare all’atto dell’immissione in ruolo, anche nel passaggio dalla scuola materna alla scuola secondaria va considerato il servizio non di ruolo, prestato prima dell’immissione in ruolo, previa disapplicazione, ai fini di tale computo, dell’art. 485 del d.lgs. n. 297 del 1994, nei casi in cui l’anzianità risultante dall’applicazione dei criteri dallo stesso indicati, unitamente a quelli fissati dall’art. 489 dello stesso decreto, come integrato dall’art. 11, comma 14, della l. n. 124 del 1999, risulti essere inferiore a quella riconoscibile al docente comparabile assunto “ab origine” a tempo indeterminato; analogo criterio va applicato anche agli insegnanti di religione cattolica quanto al servizio svolto presso la scuola materna prima del passaggio in ruolo nella scuola secondaria.

Ed è stato inoltre precisato - v., ancora, Sez. U, n. 22726/2022, Marotta, Rv. 665452-02 - che ai fini del computo dell’anzianità di servizio all’atto dell’immissione in ruolo dei docenti non di ruolo, sia di materie curriculari che di religione cattolica, alla luce di una interpretazione sistematica complessiva del sistema scolastico, che consente una piena fungibilità tra i ruoli di ogni ordine e grado, e del diritto unionale, come interpretato dalla CGUE, nella parte in cui, nel rispetto della clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, vieta trattamenti discriminatori nel riconoscimento dell’anzianità di servizio tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato comparabili, l’art. 485 del d.lgs. n. 297 del 1994 va interpretato estensivamente così da prevedere il riconoscimento dei servizi pregressi non di ruolo, anche se prestati presso le scuole dell’infanzia, non solo in caso di immissione in ruolo nella scuola primaria ma anche in caso di immissione in ruolo nella scuola secondaria.

In materia di successione di contratti di somministrazione a tempo determinato, Sez. L, n. 13982/2022, Marotta, Rv. 664849-01, ha affermato che detta successione è legittima, ai sensi del combinato disposto dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 e della disciplina di cui al d.lgs. n. 81 del 2015 (già d.lgs. n. 273 del 2006), quando non sia tale da eludere la natura necessariamente temporanea del lavoro tramite agenzia, dovendo attribuirsi alla normativa in materia un significato conforme alla direttiva 2008/104/CE sulla somministrazione, come interpretata dalla Corte di Giustizia con sentenza del 14 ottobre 2020 in causa C-681/18.

Nella specie, la S.C., cassando la sentenza impugnata, ha ritenuto l’illegittimità di plurimi contratti di somministrazione a temine, in forza dei quali il lavoratore era stato assunto da varie agenzie di somministrazione per essere destinato a svolgere sempre le medesime mansioni in favore dell’INPDAP, come ente utilizzatore, in un arco temporale quasi ininterrotto di sei anni.

Quanto alla facoltà di rinnovo dei contratti a termine nell’ambito della dirigenza medica, Sez. L, n. 13066/2022, Di Paolantonio, Rv. 664602-01, ha rilevato che la facoltà in questione, con riguardo ai contratti stipulati per l’attribuzione di incarichi ex art. 15 septies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992, “ratione temporis” applicabile, può essere esercitata a condizione che persistano le esigenze temporanee e che venga comunque rispettato il limite massimo di durata del rapporto fissato dalla citata disposizione, la quale - benché insuscettibile, atteso il suo carattere di specialità, di essere integrata con la disciplina generale prevista per le assunzioni a termine - va comunque interpretata alla luce, da un lato, della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CEE sul lavoro a tempo determinato, nel rispetto delle precisazioni fornite dal giudice eurounitario sul tema della repressione degli abusi, e, dall’altro, del principio costituzionale dell’accesso all’impiego, anche temporaneo, solo a seguito di concorso pubblico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva accertato il carattere abusivo della reiterazione di un incarico biennale, prorogato per ben cinque volte fino a coprire l’arco temporale di un decennio, sempre per le stesse mansioni e presso la medesima struttura).

In senso analogo, Sez. L, n. 37752/2022, Casciaro, Rv. 666385-01, ha stabilito che, in tema di dirigenza medica, la facoltà di rinnovo dei contratti a tempo determinato stipulati per l’attribuzione di incarichi ex art. 15 octies, del d.lgs. n. 502 del 1992, “ratione temporis” applicabile - interpretata alla luce della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CEE sul lavoro a tempo determinato, nel rispetto delle precisazioni fornite dal giudice eurounitario sul tema della repressione degli abusi - può essere esercitata a condizione che persistano le esigenze temporanee, specificamente accertate, e che il rapporto non si protragga oltre il limite di durata massima dei 36 mesi complessivi. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva negato la conversione del rapporto a tempo indeterminato invocato da quattro medici assunti all’esito di una procedura selettiva ed addetti, per quasi dieci anni in forza di plurimi rinnovi di contratti a termine, alla segreteria dei programmi di prevenzione oncologica, classificati nei livelli essenziali di assistenza).

Il profilo dell’abuso è trattato da Sez. L, n. 18698/2022, Bellè, Rv. 664918-02, ove è puntualizzato che nel regime speciale di assunzione a tempo determinato dei docenti di religione cattolica nella scuola pubblica, di cui alla l. n. 186 del 2003, costituisce abuso nell’utilizzazione della contrattazione a termine sia il protrarsi di rapporti annuali a rinnovo automatico, o comunque senza soluzione di continuità per un periodo superiore a tre annualità scolastiche, in mancanza di indizione del concorso triennale, sia l’utilizzazione discontinua del docente, in talune annualità, per ragioni di eccedenza rispetto al fabbisogno, a condizione, in quest’ultimo caso, che si determini una durata complessiva di rapporti a termine superiore alle tre annualità, sorgendo, in tutte le menzionate ipotesi di abuso, il diritto dei docenti al risarcimento del danno c.d. eurounitario, con applicazione, anche in ragione della gravità del pregiudizio, dei parametri di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 (poi, art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015) oltre al ristoro, se provato, del maggior danno sofferto, non essendo invece riconoscibile la trasformazione di diritto in rapporti a tempo indeterminato.

Con la stessa pronunzia - Sez. L, n. 18698/2022, Bellè, Rv. 664918-03 - è stato altresì affermato che i contratti di assunzione dei docenti di religione non di ruolo nella scuola pubblica hanno durata annuale e sono soggetti a conferma automatica, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, al permanere delle condizioni e dei requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, ma è consentita altresì l’assunzione di durata infrannuale, sulla base di contratti motivati dalla necessità sostitutiva di docenti precedentemente incaricati, oppure nello stretto tempo necessario all’attuazione delle immissioni in ruolo in esito a procedure concorsuali già svolte o per concludere procedure concorsuali in essere, spettando in tali casi al Ministero, qualora sorga contestazione a fini risarcitori per abuso nella reiterazione del ricorso a contratti a termine, l’onere della prova della legittimità della causale, la quale, se accertata, esclude tali contratti dal computo per l’integrazione della fattispecie del predetto abuso.

Resta fermo che - rileva, ancora, Sez. L, n. 18698/2022, Bellè, Rv. 664918-01 -, stante l’impossibilità di conversione a tempo indeterminato dei contratti annuali dei docenti non di ruolo di religione cattolica in corso, per i quali la contrattazione collettiva stabilisce la conferma al permanere delle condizioni e dei requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, i medesimi rapporti proseguono, nonostante il reiterarsi di essi nel tempo e ciò in ragione dell’indirizzo della pronuncia della Corte di Giustizia in materia, secondo cui l’interpretazione del diritto interno in coerenza con i principi eurounitari non può tradursi in ragione di pregiudizio per i lavoratori, salvo il diritto al risarcimento del danno per la mancata indizione dei concorsi triennali quali previsti dalla legge per l’accesso ai ruoli.

Sul tema dell’indennità risarcitoria, Sez. L, n. 36659/2022, Bellè, Rv. 666200-01, ha ritenuto che la retribuzione globale di fatto da assumere, ai sensi dell’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 (ora art. 28, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015), quale parametro per la liquidazione del danno da cd. illecito eurounitario per reiterazione abusiva di contratti a termine, è quella corrispondente al livello formale di inquadramento cui il lavoratore aveva diritto al momento della maturazione della predetta fattispecie di illecito; tuttavia, in ragione della necessità del compiuto apprezzamento dell’illecito nella sua interezza, devono essere considerati eventuali livelli di inquadramento superiore, maturati nei successivi rapporti a termine coinvolti nella medesima fattispecie, come anche eventuali aumenti della retribuzione propria del livello di inquadramento esistente al momento del perfezionarsi dell’illecito, maturati in epoca successiva ma in pendenza di rapporti a termine coinvolti nella medesima reiterazione abusiva, ferma restando la necessità che il ristoro sia determinato, muovendo da tali basi, in modo da prescegliere, nell’ambito del margine stabilito dalle norme (da 2,5 a 12 mensilità), la misura più coerente rispetto al caso concreto, tenuti presenti tutti i parametri di cui all’art. 8 della l. n. 604 del 1966, richiamati dall’art. 32 citato.

In relazione alla delicata problematica della decadenza dalla impugnazione del contratto a termine, introdotta dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, Sez. L, n. 08038/2022, Spena, Rv. 664124-01, ha sottolineato che la decadenza in questione opera in virtù del generale richiamo alla disciplina privatistica contenuto negli artt. 2, comma 2, e 36 del d.lgs. n. 165 del 2001; ne consegue che, in caso di conclusione tra le stesse parti di più contratti a termine, la decadenza decorre dalla cessazione di ciascuno di essi, giacché il citato art. 32, in tutte le versioni succedutesi nel tempo, àncora il termine di impugnazione alla cessazione dello specifico contratto il cui termine è in discussione.

È stato infine sostenuto - da Sez. L, n. 15027/2022, Bellè, Rv. 664697-01 - che qualora sia stata chiesta la conversione o trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti a termine nulli per violazione delle regole che ne condizionano la legittimità, il giudice, a fronte della giuridica impossibilità di una tutela in forma specifica avverso l’illecito perpetrato, deve pronunciare sulla tutela per equivalente, secondo il regime del cd. danno eurounitario; ne consegue che la parte può far valere la mancata pronuncia sulla domanda di risarcimento come motivo di illegittimità in sede di impugnazione e che, la stessa, in quanto “minus” o “surrogato legale” della tutela in forma specifica, non costituisce domanda nuova se proposta per la prima volta in appello.

In tema di assunzioni a termine previste dalla contrattazione collettiva ex art. 23 della l. n. 56 del 19871987, la disciplina transitoria dettata dall’art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 si riferisce - secondo Sez. L, n. 36118/2022, Casciaro, Rv. 666209-02 - alle clausole già in essere alla data di entrata in vigore della norma, e non si applica ai contratti collettivi stipulati in data successiva benché l’efficacia degli stessi copra anche il periodo anteriore; diversamente, infatti, si lascerebbe alle parti sociali la libertà di ampliare le ipotesi di utilizzo della contrattazione a termine, in deroga al nuovo assetto normativo delineato dal d.lgs. n. 368 del 2001.

Con la stessa pronunzia - Sez. L, n. 36118/2022, Casciaro, Rv. 666209-01 - è stato precisato che ai contratti conclusi al di fuori delle ipotesi di legittima apposizione del termine, previste dalla contrattazione collettiva ex art. 23 della l. n. 56 del 1987, non si applica la disciplina transitoria ex art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, potendo essere oggetto di proroga i soli contratti cui risulti legittimamente apposto un termine, e non quelli con termine illegittimo.

4. Retribuzione e altri trattamenti economici.

Sul piano generale, Sez. L, n. 21316/2022, Cavallari, Rv. 665127-01, ha affermato che, nell’impiego pubblico contrattualizzato, la contrattazione integrativa a livello aziendale non può riconoscere ai dipendenti un trattamento economico ulteriore che non sia previsto dalla contrattazione collettiva nazionale, dovendo svolgersi nelle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti da quest’ultima, unica abilitata in materia; ne consegue che le clausole dei contratti collettivi integrativi che riconoscono un trattamento economico di migliore favore rispetto a quello contemplato in materia da un contratto collettivo nazionale sono nulle per violazione dell’art. 1419, comma 2, c.c.

Sempre in tema, Sez. L, n. 29137/2022, Bellè, Rv. 666107-01, ha sottolineato che in tema di rapporto di lavoro dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, l’art. 2-nonies del d.l. n. 81 del 2004, conv. dalla l. n. 138 del 2004, rimette agli accordi nazionali ivi previsti, anche attraverso il richiamo all’art. 4, comma 9, della l. n. 412 del 1991, e quindi al sistema comune del pubblico impiego contrattualizzato ivi contenuto, la disciplina della contrattazione di ambito regionale ed aziendale, sicché la contrattazione collettiva decentrata non può validamente disporre in senso contrastante rispetto a quanto stabilito in ambito nazionale; è pertanto nulla la previsione di cui all’art. 13 dell’accordo integrativo per la regione Abruzzo del 9.8.2006, con cui, a fronte di una disciplina dell’accordo collettivo nazionale del 20.1.2005, che consente di valorizzare, anche a fini incentivanti, specifiche condizioni di disagio e difficoltà di espletamento dell’attività, è stato previsto in modo generalizzato un compenso aggiuntivo orario (indennità di rischio) per tutti i medici di continuità assistenziale operanti sul territorio regionale.

Su profilo analogo, Sez. L, n. 05679/2022, Bellè, Rv. 663990-01, ha evidenziato che ai sensi del combinato disposto degli artt. 40, comma 3, 40 bis, comma 3, e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2009, sono nulle le clausole dei contratti collettivi integrativi riconosciute incompatibili con i vincoli di bilancio in base al controllo annualmente demandato al collegio dei revisori dei conti ovvero, laddove tale organo non sia previsto, dai nuclei di valutazione o dai servizi di controllo interno ai sensi del d.lgs. n. 286 del 1999. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non dovuti i buoni pasto previsti dal contratto integrativo del 3 luglio 2007 per il personale della polizia municipale destinato al lavoro per turni, essendo il contratto invalido in quanto non sottoposto a valutazione del Collegio dei Revisori).

Resta fermo che nel pubblico impiego privatizzato, non è configurabile un diritto quesito del dipendente a continuare a percepire un trattamento economico che non trova titolo nel contratto collettivo, nemmeno se di miglior favore, in quanto gli aspetti retributivi sono rimessi alla contrattazione collettiva, sicché, a differenza di quanto accade nel lavoro privato, resta del tutto irrilevante ad escludere l’indebito che la corresponsione da parte del datore pubblico sia avvenuta consapevolmente e volontariamente (così Sez. L, n. 14672/2022, Spena, Rv. 664701-01).

In tema di compensi incentivanti, è stato precisato - da Sez. L, n. 12268/2022, Spena, Rv. 664477-01 - che l’art. 57 del d.lgs. n. 150 del 2009, novellando l’art. 45, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha sostituito al concetto di produttività quello di “performance”, individuale ed organizzativa, con la finalità di introdurre strumenti di valorizzazione del merito e di incentivazione della produttività e della qualità della prestazione lavorativa, informati a principi di selettività nel riconoscimento degli incentivi, in quanto la produttività si riferisce all’aspetto oggettivo della quantità di lavoro svolto, mentre la “performance” rappresenta la rispondenza dei risultati raggiunti agli obiettivi programmati.

Sempre in argomento, è stato ritenuto che in tema di acconto di produttività, gli artt. 46 e 47 del c.c.n.l. sanità del 1995 e gli artt. 4 e 38 del c.c.n.l. sanità del 1999 non consentono l’erogazione di compensi legati esclusivamente alla verifica della mera presenza in servizio, perché, anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, il sistema della produttività collettiva del comparto sanità non era distribuito «a pioggia», ma in misura differenziata in relazione all’effettivo apporto di ciascun dipendente al raggiungimento dell’obiettivo, valutato dal dirigente. (Sez. L, n. 12268/2022, Spena, Rv. 664477-02).

Sul fronte della problematica dei vincoli derivanti dalle risorse finanziarie disponibili, Sez. L, n. 05138/2022, Di Paolantonio, Rv. 663890-01, ha puntualizzato che le disposizioni statali di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, di cui all’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010 e all’art. 5 del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 2012, si applicano a tutte le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, fra le quali rientrano le Autorità Portuali in ragione della loro natura di enti pubblici non economici, e costituiscono disposizioni inderogabili di finanza pubblica che prevalgono sulla diversa disciplina dettata dai contratti collettivi.

Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto del dipendente di Autorità portuale a percepire il trattamento economico e giuridico previsto dal c.c.n.l. per i lavoratori dei porti, nonché l’indennità sostitutiva di mensa nella misura contrattualmente prevista, anziché in quella, minore, risultante dall’applicazione della normativa di contenimento della spesa pubblica.

Molteplici sono le pronunzie aventi ad oggetto specifiche voci retributive.

Sez. 6-L, n. 30344/2022, Di Paolantonio, Rv. 665809-01, ha affermato che l’indennità per specifiche responsabilità, prevista dai c.c.n.l. per il personale del comparto degli enti locali in aggiunta a quelle per posizioni organizzative e per incarichi di elevata professionalità, non costituisce una componente fissa del trattamento retributivo fondamentale ed è sottratta all’applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione, essendo condizionata dalle scelte organizzative della Pubblica Amministrazione da coniugare con la disponibilità delle risorse, scelte che sono rivedibili nel tempo.

La retribuzione di posizione organizzativa costituisce un trattamento accessorio collegato al livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione; ne consegue - e v., sul punto, Sez. L, n. 19192/2022, Spena, Rv. 664926-01 - che in caso di assenza per malattia, è applicabile la decurtazione prevista dall’art. 71 del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008, fatto salvo, per le sole assenze per malattia dovute ad infortunio sul lavoro o a causa di servizio, il trattamento più favorevole eventualmente previsto dai contratti collettivi o dalle specifiche normative di settore.

In tema di compensi da liquidare agli avvocati interni agli enti locali, Sez. L, n. 14761/2022, Marotta, Rv. 664695-01, ha sostenuto che non è configurabile l’esistenza di un diritto al compenso per effetto diretto dell’art. 27 del c.c.n.l. Comparto delle Regioni e delle autonomie locali, atteso che la clausola pattizia si limita a demandare a tali enti l’emanazione di una disciplina specifica in materia di compensi professionali, da adottarsi secondo i principi stabiliti dal r.d. n. 1578 del 1933.

L’indennità di amministrazione spettante al personale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale per il periodo di servizio all’estero è cumulabile con l’indennità integrativa speciale prevista dall’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, relativamente alle fattispecie sorte prima della entrata in vigore dell’art. 1 bis del d.l. n. 138 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 148 del 2011, avendo la Corte costituzionale, con sentenza n. 145 del 2022, dichiarato costituzionalmente illegittima tale norma nella parte in cui disponeva che il trattamento economico complessivamente spettante a tale personale, anche con riferimento allo stipendio e agli assegni di carattere fisso e continuativo, non includesse l’indennità di amministrazione (così Sez. L, n. 36434/2022, Di Paolantonio, Rv. 666199-01).

In tema di trattamento economico spettante, in caso di assenza per malattia, al personale di nazionalità italiana assunto, con contratto a tempo indeterminato, dal Ministero degli affari esteri nelle sedi diplomatiche e consolari e negli istituti italiani di cultura all’estero, Sez. L, n. 02084/2022, Di Paolantonio, Rv. 663734-01, ha precisato che l’art. 7, comma 7, lett. b), dell’Accordo del 22 ottobre 1997 (come modificato dall’art. 34 del c.c.n.l. del 14 settembre 2007) dev’essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui il dipendente percepisca una retribuzione fissa mensile corrispondente a quella iniziale spettante nella stessa sede a parità di mansioni ai contrattisti regolati dalla legge locale, per il periodo successivo ai novanta giorni e sino al nono mese di assenza per malattia il trattamento economico dovrà essere pari alla quota sulla quale vengono pagati i contributi INPS e ciò in ragione della “ratio” della disposizione di graduare il “quantum” di conservazione del trattamento retributivo in rapporto alla durata dell’assenza, garantita l’intera retribuzione per i soli primi novanta giorni di malattia.

Sez. L, n. 02704/2022, Negri Della Torre, Rv. 663740-01, ha evidenziato che ai dipendenti dell’Agenzia delle entrate della Valle d’Aosta, che abbiano ottenuto l’esonero dal servizio ai sensi dell’art. 72, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 133 del 2008, compete il trattamento economico pari al cinquanta per cento di quello complessivamente in godimento, per competenze fisse ed accessorie, al momento del collocamento nella nuova posizione, inclusa l’indennità di bilinguismo che, quale competenza accessoria e non occasionale, va riconosciuta anche ove il dipendente, ottenuto l’esonero, non renda più la prestazione nel territorio in cui vige il bilinguismo e sia stato così reciso il sinallagma tra prestazione e trattamento economico, in quanto la norma innanzi citata individua solo la base reddituale su cui commisurare gli importi spettanti al dipendente esonerato dal servizio.

In tema di indennità di perequazione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 731 del 1979, spettante al personale universitario docente in servizio presso cliniche e negli istituti di ricovero e cura convenzionati con gli enti ospedalieri o gestiti direttamente dalle Università, Sez. L, n. 12952/2022, Di Paolantonio, Rv. 664482-01, ha puntualizzato che l’art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 517 del 1999 non fa salva solo la conservazione dei trattamenti economici in godimento ma assicura, nelle more dell’attuazione del nuovo regime, l’equiparazione fino a quel momento garantita dalla normativa previgente che, seppure pensata in relazione ad un diverso sistema di inquadramento, poteva essere attuata tenendo conto, da un lato, dell’evoluzione della disciplina legale e contrattuale, dall’altro, del criterio, di carattere generale, della necessaria parificazione a fronte di pari funzioni, mansioni ed anzianità.

Il personale universitario di categoria EP, addetto all’area dei servizi generali tecnici ed ausiliari degli ex ruoli tecnici in servizio presso le aziende universitarie ospedaliere, ha diritto, per il calcolo della cd. indennità De Maria, all’equiparazione, a soli fini retributivi e limitatamente al trattamento fondamentale, al personale dirigenziale del SSN, in base del disposto dell’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979 e di un’interpretazione evolutiva del decreto interministeriale 9 novembre 1982, nonché, per i rapporti successivi al c.c.n.l. 2002-2005 del comparto Università, in ragione del complessivo sistema di cui all’art. 28 del medesimo c.c.n.l. e della superiorità delle funzioni e mansioni della categoria EP rispetto a quelle del personale collocato in fasce secondo la tabella ivi prevista (così Sez. L, n. 28295/2022, Bellè, Rv. 665677-01).

In materia di limiti al compenso incentivante di cui all’art. 18 della l. n. 109 del 1994, l’art. 13 bis del d.l. n. 90 del 2014, conv. dalla l. n. 114 del 2014, che ha imposto l’obbligo di non superare la misura del 50% del trattamento economico annuo lordo complessivamente spettante al dipendente di amministrazione pubblica, destinatario di detto emolumento per la collaborazione alla progettazione, esecuzione e collaudo di opere, trova applicazione - secondo Sez. L, n. 04981/2022, Garri, Rv. 663888-01 - per le attività professionali espletate a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione, e non per quelle compiute in data antecedente ma non ancora liquidate, attenendo la fase di liquidazione a tempistiche di gestione della cassa estranee alla disponibilità del beneficiario.

Sulla questione della liquidazione dell’equo indennizzo, ex art. 22, comma 27, della l. n. 724 del 1994, Sez. L, n. 24378/2022, Bellè, Rv. 665419-01, ha ritenuto che la stessa non va effettuata con riferimento allo stipendio percepito dal dipendente all’atto della presentazione della relativa istanza, ma a quello in godimento al momento della domanda per la determinazione della causa di servizio o all’avvio a tal uopo del procedimento d’ufficio, perché il citato comma 27, fissa un unico “dies a quo” nell’inizio del procedimento per causa di servizio, nell’ottica del risparmio di spesa, in quanto, poiché la domanda di equo indennizzo può essere proposta anche successivamente rispetto a quella di accertamento della causa di servizio, ancorando ad essa la liquidazione verrebbe in rilievo un parametro variabile in positivo in funzione della minore celerità della parte nella presentazione della istanza di liquidazione del beneficio.

Quanto al compenso per lavoro straordinario, Sez. L, n. 23506/2022, Casciaro, Rv. 665408-01, ha affermato che il diritto al predetto compenso, che presuppone la previa autorizzazione dell’amministrazione, spetta al lavoratore anche laddove la richiesta autorizzazione risulti illegittima e/o contraria a disposizioni del contratto collettivo, atteso che l’art. 2108 c.c., applicabile anche al pubblico impiego contrattualizzato, interpretato alla luce degli artt. 2 e 40 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 97 Cost., prevede il diritto al compenso per lavoro straordinario se debitamente autorizzato e che, dunque, rispetto ai vincoli previsti dalla disciplina collettiva, la presenza dell’autorizzazione è il solo elemento che condiziona l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. (Nella specie, la S.C. ha riconosciuto il compenso per lavoro straordinario ad un autista di scuolabus, comandato ad effettuare il servizio di trasporto disabili, sebbene l’autorizzazione implicita allo svolgimento dello straordinario si ponesse in contrasto con l’art. 38 del c.c.n.l. del 14 settembre 2000 per il personale del comparto Regioni ed Autonomie locali).

Sullo stesso tema, Sez. L, n. 23509/2022, Casciaro, Rv. 665409-01, ha chiarito che nell’ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze di una azienda sanitaria locale, compete al lavoratore il diritto al compenso del lavoro straordinario espletato, per come disciplinato del c.c.n.l. di categoria, solo in presenza di preventiva autorizzazione del dirigente responsabile all’espletamento dello straordinario, restando escluso che possa qualificarsi quale autorizzazione in sanatoria la certificazione da parte della amministrazione circa lo straordinario già espletato dal dipendente.

All’ex lettore di lingua straniera, divenuto collaboratore ed esperto linguistico, in applicazione dell’art. 1 del d.l. n. 2 del 2004, conv. dalla l. n. 63 del 2004, va riconosciuto il diritto alla ricostruzione della carriera per l’intero periodo di lettorato, e non già a partire dal momento in cui il rapporto, a seguito di pronuncia giudiziale, è stato dichiarato a tempo indeterminato, nonché un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito, commisurato alla quantità del lavoro svolto, senza che assuma rilievo il superamento del limite delle 500 ore, posto dal legislatore al solo fine di individuare la retribuzione oraria spettante al lettore (così Sez. L, n. 16449/2022, Di Paolantonio, Rv. 664713-01).

Sez. L, n. 02085/2022, Spena, Rv. 663788-01, ha evidenziato che i pubblici dipendenti in regime di TFR non subiscono una ritenuta del 2,5% sulla retribuzione lorda, calcolata sull’80% di quella utile ai fini della buonuscita, bensì una riduzione, in pari misura, di detta retribuzione, in quanto al personale passato dal pregresso regime del trattamento di fine servizio, in qualunque modo denominato, al TFR deve essere garantita, ai sensi dell’art. 26, comma 19, della l. n. 448 del 1998, l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini pensionistici, mentre a coloro soggetti sin dall’inizio al regime del TFR deve essere comunque corrisposta una retribuzione pari a quella degli altri dipendenti.

L’opzione, da parte dei dipendenti pubblici, per il trattamento di fine rapporto, prevista dall’art. 59, comma 56, della l. n. 449 del 1997, non può essere esercitata - secondo Sez. L, n. 21936/2022, Fedele, Rv. 665321-01 - con atto anteriore alla data di entrata in vigore del d.P.C.M. del 20 dicembre 1999, che ne ha recepito le modalità di attuazione demandate alla contrattazione collettiva.

In tema di progressione di carriera dei dipendenti dell’Assemblea regionale siciliana, la regola del cd. riporto di anzianità, espressa nell’art. 51 del relativo Regolamento, ha una portata generale riferendosi a tutto il personale e non solo a quello con qualifica dirigenziale; essa, tuttavia, in quanto volta a salvaguardare le posizioni retributive maturate nella precedente posizione che possono essere pregiudicate nel passaggio di qualifica, trova applicazione solo quando all’atto della promozione il lavoratore godeva nella qualifica di provenienza di una posizione di stipendio superiore, uguale o immediatamente inferiore alla posizione stipendiale iniziale della nuova qualifica (così Sez. L, n. 01605/2022, Negri Della Torre, Rv. 663648-01).

In relazione a fattispecie peculiare, Sez. L, n. 32589/2022, Di Paolantonio, Rv. 666001-01, ha rilevato che il personale infermieristico del SSN non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per il pagamento della quota di iscrizione all’albo professionale, in quanto la disciplina della professione infermieristica succedutasi nel tempo, seppure improntata al rispetto del dovere di esclusività sancito dall’art. 98 Cost., non contiene un divieto assoluto di compimento degli atti tipici dell’attività infermieristica al di fuori del rapporto di impiego, con la conseguenza che l’iscrizione all’albo, che è condizione necessaria per l’esercizio di quell’attività, non si può ritenere imposta dal legislatore nel solo interesse del datore di lavoro pubblico.

Infine, Sez. L, n. 05980/2022, Marotta, Rv. 663995-01, ha precisato che ai fini del riconoscimento del diritto al rimborso delle spese legali relative a giudizi di responsabilità civile, penale o amministrativa a carico di dipendenti di amministrazioni statali, ai sensi dell’art. 18 del d.l. n. 67 del 1997, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 1997, non è sufficiente che il dipendente sia stato sottoposto a procedimento penale per fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni e che sia stata accertata l’assenza di responsabilità, essendo, altresì, necessario che sia fornita la prova dell’effettivo esborso delle somme di cui si chiede il rimborso.

5. Classificazione del personale: categorie, qualifiche e mansioni.

Sul tema generale dell’inquadramento del personale si registrano, nel corrente anno, poche pronunzie significative.

In tema di “ius variandi”, Sez. L, n. 23219/2022, Bellè, Rv. 665356-01, ha evidenziato che qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell’ufficio legale di un ente pubblico non economico, con costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall’art. 3, comma 4, lett. b), del r.d.l. n. 1578 del 1933 (conv. dalla l. n. 36 del 1934 e modif. dalla l. n. 1949 del 1939), in deroga alla regola generale dell’incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche quanto alle disposizioni di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, sicché è consentito al datore di lavoro, nel rispetto delle classificazioni e delle altre eventuali regole di cui alla contrattazione collettiva, un ampio esercizio dello “ius variandi” e quindi di assegnazione ad altri compiti, nei limiti in cui non si realizzi in concreto una sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego, o un intenzionale comportamento vessatorio, causativo di danni.

Il diritto al riconoscimento del livello DS, ai sensi dell’art. 19, lett. b), del c.c.n.l. del comparto sanità del 19 aprile 2004, spetta - secondo Sez. L, n. 05838/2022, Bellè, Rv. 663994-01 - anche ai dipendenti che, già inquadrati in categoria C al 31.8.2001, siano transitati di diritto in categoria D per effetto dell’art. 8, commi 1 e 2, del c.c.n.l. del 20.9.2001 e siano stati destinatari del riconoscimento, in base ad apposita valutazione aziendale ai sensi dell’art. 10, comma 7, di quest’ultimo c.c.n.l., dello svolgimento, al 31.8.2001, di reali funzioni di coordinamento, con riconoscimento a far data dall’1.9.2001 della conseguente indennità.

Sez. 6-L, n. 07641/2022, Bellè, Rv. 664091-01, ha affermato che il contratto collettivo nazionale di lavoro del pubblico impiego è conoscibile “ex officio” dal giudice, il quale procede con mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia”, al suo reperimento, a prescindere dall’iniziativa di parte, con la conseguenza che, in relazione ad una controversia riguardante lo svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego, una volta dedotte, dal lavoratore, le mansioni svolte, nonché il comparto ed il livello di inquadramento, è dovere del giudice porre a raffronto tali dati con la contrattazione applicabile al fine di verificare la fondatezza dell’assunto attoreo, non assumendo rilievo l’erronea indicazione di un contratto collettivo non più applicabile al periodo oggetto di causa.

Sulla questione del cd. “svuotamento” delle mansioni, Sez. L, n. 11499/2022, Sarracino, Rv. 664335-01, ha rimarcato che ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni ex art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego.

Con riferimento a vicenda particolare, Sez. L, n. 01884/2022, Tricomi I., Rv. 663644-01, ha chiarito che, in tema di pubblico impiego locale, l’illegittimo diniego di una posizione organizzativa comporta il diritto del dipendente al risarcimento del danno per perdita di “chance”, che va riconosciuto, come entità patrimoniale a sé stante, ove sussista la prova di una concreta ed effettiva occasione perduta; il danno, che non coincide con le retribuzioni perse, va liquidato in via equitativa utilizzando quale parametro le retribuzioni perse, tenuto conto del grado di probabilità e della natura di danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo.

6. Vicende del rapporto.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 15591/2022, Negri Della Torre, Rv. 664699-01, ha puntualizzato che l’art. 15 del c.c.n.l. comparto Ministeri 1998-2001, che disciplina i passaggi fra aree e all’interno dell’area, non impone l’obbligo di indire procedure selettive a tal fine, ma rimette la scelta alla valutazione discrezionale del datore di lavoro, da esercitare in relazione alle esigenze organizzative-funzionali dell’amministrazione, e ciò in ragione del carattere meramente programmatico di detta disposizione che non riconosce un diritto soggettivo dei dipendenti alla progressione professionale, né obbliga l’amministrazione ad offrire al personale una “chance” di sviluppo della carriera.

Sez. L, n. 35432/2022, Sarracino, Rv. 666383-01, ha quindi affermato che nel caso in cui un lavoratore venga illegittimamente escluso da una procedura selettiva, in quanto formalmente privo dei relativi requisiti di partecipazione, successivamente riconosciuti esistenti per via giudiziale, la mancata presentazione della domanda di partecipazione non rappresenta un fattore causale sopravvenuto, idoneo ad elidere il nesso eziologico tra l’inadempimento del datore di lavoro e il danno da perdita di “chance” invocato dal lavoratore. (Nella specie, in cui una lavoratrice - inizialmente estromessa da una procedura selettiva interna, perché erroneamente inquadrata in un livello inferiore a quello necessario per la relativa partecipazione - aveva agito per il risarcimento del danno da perdita di “chance” derivante dal ritardo con cui aveva successivamente conseguito il superiore inquadramento, a seguito di accertamento giudiziale del possesso dei requisiti richiesti, la S.C. ha escluso che la mancata, iniziale presentazione della domanda di partecipazione con riserva integrasse un fattore interruttivo del nesso causale con il danno lamentato, non potendosi configurare tale condotta come giuridicamente doverosa, al cospetto dell’obiettiva mancanza dei requisiti di partecipazioni fissati dal bando).

Sez. L, n. 15999/2022, Spena, Rv. 664711-01, ha precisato che il rapporto di lavoro trasformato in “part time”, secondo le modalità di cui al d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008, può essere ricondotto dal datore di lavoro pubblico all’orario pieno solo con il consenso del lavoratore, poiché, in assenza di una norma che attribuisca alla pubblica amministrazione la potestà di incidere in aumento sull’orario di lavoro, non può essere invocato il generale potere di revoca delle autorizzazioni amministrative per esigenze pubbliche sopravvenute, in quanto l’autorizzazione al “part time” non costituisce esercizio di un potere di natura amministrativa, ma di una discrezionalità di diritto privato, attenendo alla gestione del rapporto di lavoro.

Il diritto di precedenza alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno, previsto dall’art. 3, comma 101, della l. n. 244 del 2007, non è configurato come un diritto assoluto, ma nasce solo a condizione che sia stata avviata dalla P.A. una procedura di assunzione di personale a tempo pieno e che la trasformazione avvenga nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni (così Sez. L, n. 30840/2022, Tricomi I., Rv. 665846-01).

In tema di convenzionamento con il SSN dei medici di medicina generale, l’assunzione di un incarico medico-dirigenziale a tempo determinato presso un’Azienda ospedaliera, ai sensi dell’art. 15 septies, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992, rientra nei casi di sospensione del rapporto convenzionale previsti dall’art. 18, comma 2, lett. b), dell’accordo collettivo nazionale del 2005, poiché tale disposizione ha una portata ampia e, laddove fa riferimento all’accettazione di “altri incarichi organizzativi o di dirigenza”, va riferita non solo ai dirigenti con incarichi gestionali ed amministrativi, ma anche ai dirigenti medici (così Sez. L, n. 24763/2022, Cavallari, Rv. 665354-01).

Sez. L, n. 24817/2022, Cavallari, Rv. 665355-01, ha poi ritenuto che in tema di medici convenzionati con il s.s.n., l’art. 17, comma 4, dell’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, nel disporre che non è consentito ai medici convenzionati, ai sensi del medesimo accordo, di detenere più di due rapporti convenzionali tra quelli da esso previsti, non impone che tali rapporti attengano a due settori distinti.

Infine, con riguardo al tema della successione delle Aziende unità sanitarie locali (AUSL) nelle attribuzioni istituzionali delle soppresse USL, Sez. L, n. 24816/2022, Cavallari, Rv. 665417-01, ha rilevato che le predette Aziende, subentrando nella titolarità dei rapporti di lavoro destinati a continuare con esse, sono titolari, con riferimento ai rapporti negoziali posti in essere dalle citate USL e per il periodo fino al 31 dicembre 1994, della legittimazione passiva quanto alle controversie relative alla ricognizione di tali rapporti, al loro inquadramento ed alla ricostruzione della carriera ai fini economici, ma non con riferimento al pagamento dei debiti ad essi correlati.

7. Mobilità.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 35423/2022, Sarracino, Rv. 666185-01, ha affermato, disallineandosi dall’orientamento di cui è tra l’altro espressione Sez. L, n. 37291/2021, Ponterio, Rv. 663006-02, che in caso di trasferimento di personale ministeriale all’INPS, ai sensi dell’art. 10 del d.l. n. 203 del 2005, conv. dalla l. n. 248 del 2005, il ricorso alla facoltà concessa al cessionario di applicare le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione, non può determinare per i lavoratori trasferiti un peggioramento del trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio, poiché la normativa interna va interpretata in modo conforme a quella unionale - come interpretata dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 6 settembre 2011, C-108/10 -, il cui scopo è quello di impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento.

In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha ritenuto che l’assegno pensionabile percepito dal lavoratore alle dipendenze del Ministero andasse conservato anche successivamente al rinnovo del c.c.n.l. del personale del comparto enti pubblici non economici, non comportando l’applicazione d’un diverso contratto collettivo il venir meno del pregresso più favorevole “quantum” retributivo, quanto meno in via di assegno “ad personam”.

Su tema analogo, Sez. L, n. 23884/2022, Cavallari, Rv. 665410-02, ha precisato che il pubblico dipendente che benefici della cd. mobilità volontaria ex art. 33 del d.lgs. n. 29 del 1993, o ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, e si trasferisca presso un ente pubblico economico, mantiene i diritti maturati prima della cessione del contratto sulla base del precedente regime giuridico (come, ad es. qualifica, funzione, retribuzione ed altri diritti connessi all’anzianità) ma, una volta divenuto dipendente del detto ente, gli vanno applicati, con riferimento alle vicende successive, la disciplina di diritto privato e la relativa contrattazione collettiva e non, in presenza di una situazione di soprannumero o di eccedenza di personale, l’art. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001; per l’effetto, ove, dopo il trasferimento, il lavoratore abbia acquisito la qualifica di dirigente, il suo rapporto sarà disciplinato dalle disposizioni che regolano il lavoro dirigenziale, fra cui quelle che consentono al datore di lavoro la recedibilità ex art. 2118 c.c.

La disciplina speciale di cui ai commi 25 e 25 bis dell’art. 1 del d.l. n. 181 del 2006, conv. dalla l. n. 233 del 2006, che, nel regolare il rapporto di lavoro del personale trasferito, secondo quanto previsto dall’art. 31 del d.lgs. n. 165 del 2001, ha disposto la conservazione del trattamento economico in godimento, in quanto proporzionata ed adeguata alla complessità del disposto riordino delle funzioni, non è - secondo Sez. U, n. 11677/2022, Tricomi I., Rv. 664488-02 - né irragionevole né arbitraria, ma giustificata dalla diversa provenienza e dal peculiare percorso professionale dei gruppi di dipendenti in comparazione, nonché dal sovrapporsi di fonti contrattuali diverse per un periodo limitato necessario, da un lato, a realizzare la piena integrazione produttiva e organizzativa dell’attività trasferita e, dall’altro, a reperire le risorse finanziarie valevoli a garantire in futuro, anche ai dipendenti trasferiti, l’equiparazione di disciplina contrattuale.

Con la stessa pronunzia - Sez. U, n. 11677/2022, Tricomi I., Rv. 664488-01 - è stato sostenuto che in tema di trasferimento di personale nel pubblico impiego privatizzato, i commi 25 e 25 bis dell’art. 1 del d.l. n. 181 del 2006, conv. con modif. dalla l. n. 233 del 2006, non rimettono ad eventuali meccanismi di compensazione la copertura della possibile maggiore spesa per la revisione dei trattamenti economici in atto conseguente al riordino delle funzioni, ma la escludono, stabilendo che ai dipendenti trasferiti continua ad applicarsi la contrattazione del comparto di provenienza (o di quello di destinazione se ciò non comporta oneri maggiori); ciò per un periodo di tempo ragionevolmente limitato, al fine di riorganizzare le funzioni trasferite e di reperire le risorse finanziarie necessarie.

Con riferimento a questione peculiare, Sez. L, n. 21934/2022, Fedele, Rv. 665211-01, ha evidenziato che l’art. 6, comma 4, della l. n. 554 del 1988, nel disporre che per il computo del trattamento di fine rapporto deve considerarsi la complessiva anzianità utile facendo salvo il maggior trattamento eventualmente spettante all’atto del trasferimento, enuncia implicitamente la regola dell’applicabilità, all’intero rapporto, della disciplina dell’ente di destinazione, poiché solo in tal modo è ipotizzabile un’eccedenza quanto al trattamento calcolato, al momento del trasferimento, sulla base dell’anzianità determinata secondo l’ordinamento preesistente.

Su questione analoga, Sez. L, n. 24278/2022, Spena, Rv. 665413-01, ha specificato che in tema di personale dipendente di enti soppressi trasferiti alle Regioni, nella disciplina anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 87 del 1994, la determinazione, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della l. n. 482 del 1988, della cd. eccedenza-differenza tra l’indennità di anzianità, versata dagli enti di provenienza, e l’indennità premio di servizio, determinata in via teorica dall’INADEL, va effettuata inserendo nel sottraendo, ovvero nella indennità premio di servizio INADEL, l’indennità integrativa speciale (che già rientrava nel computo di detta indennità ai sensi dell’art. 3 del d.l. n. 157 del 1980, conv. dalla l. n. 299 del 1980), ma escludendola dal minuendo, cioè dalla indennità di anzianità maturata presso gli enti di provenienza (nella specie presso l’ERSAP), in quanto, nella vigenza della disciplina dell’art. 5, lett. e), della l. n. 386 del 1976, che rinvia al combinato disposto degli artt. 35, 26 e 13 della l. n. 70 del 1975, all’art. 1 della l. n. 324 del 1959 oltre che all’art. 41 della l.r. Puglia n. 12 del 1982, la stessa non rientrava nel calcolo della indennità di anzianità, sicché, ove se ne ammettesse il ricalcolo “ex post”, l’INADEL non restituirebbe al lavoratore una eccedenza, ma pagherebbe somme che non ha mai ricevuto dall’ente di provenienza.

Sez. L, n. 26935/2022, Spena, Rv. 665482-01, ha ritenuto che il rapporto di lavoro del personale trasferito, ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. n. 454 del 1999, alle dipendenze del CRA (Consiglio di ricerca e sperimentazione agricoltura), a seguito della soppressione del ruolo del personale degli istituti di ricerca e sperimentazione agraria del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, è unico, avendo la disciplina legislativa configurato la continuità del rapporto di lavoro ed il mantenimento della anzianità di servizio; ne consegue che anche il trattamento di fine servizio va liquidato unitariamente, ai sensi dell’art. 13 della l. n. 70 del 1975, senza frazionare il periodo di lavoro svolto presso il Ministero, per il quale liquidare l’indennità di buonuscita, da quello successivo alle dipendenze del CRA, per il quale liquidare l’indennità di anzianità.

In tema di procedure di mobilità ex art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’illegittimità per violazione di legge, della contrattazione collettiva o dei principi di correttezza o buona fede, di un avviso al pubblico che lasci alla P.A. un margine di discrezionalità nella definizione della procedura, consente - secondo Sez. L, n. 35108/2022, Cavallari, Rv. 666183-02 - al dipendente - che contesti gli esiti del suo giudizio di idoneità - di invocare una tutela risarcitoria, con richiesta di condanna alla riparazione per equivalente del pregiudizio sofferto quale danno da “perdita di chance”, ma non di ottenere l’assegnazione, in forma specifica, dell’incarico oggetto della procedura, a meno che non sia l’originario bando di selezione ad adottare meccanismi vincolanti di attribuzione dei punteggi, escludendo ogni sorta di discrezionalità dell’amministrazione.

Con la stessa pronunzia - Sez. L, n. 35108/2022, Cavallari, Rv. 666183-01 - è stato affermato che in tema di procedure di mobilità ex art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’amministrazione pubblica procedente, anche nell’ipotesi in cui vi sia un solo concorrente per il posto da coprire, deve comunque verificare, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, che il candidato possieda in concreto i requisiti e le competenze professionali previamente indicati nel bando. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva ritenuto indebita la valutazione attinente all’idoneità del candidato, precisando che il bando può subordinare il superamento della procedura all’attribuzione di un punteggio minimo e che questo sia assegnato tenendo conto sia del curriculum che dell’esito del colloquio dei concorrenti, pur in presenza di un unico candidato).

Infine, Sez. L, n. 36639/2022, Sarracino, Rv. 666306-01, ha rilevato che i segretari comunali transitati, per mobilità volontaria, nei ruoli di altra amministrazione (nella specie, alle dipendenze del Ministero del lavoro) hanno diritto al computo, nell’assegno “ad personam”, della maggiorazione di retribuzione prevista per la titolarità di una sede di segreteria convenzionata, in virtù dell’art. 18, comma 11, del d.P.R. n. 465 del 1997, rimasto applicabile per espressa volontà del legislatore, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 3 ter del d.l. n. 136 del 2004, conv. con modif. dalla l. n. 186 del 2004, atteso il rinvio all’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, che fa salve le previsioni contenute in leggi speciali, come il citato comma 11 dell’art. 18, relativo alla garanzia di conservazione del trattamento economico.

8. Illeciti disciplinari.

Sulla questione concernente l’individuazione della legge applicabile agli illeciti disciplinari, per effetto delle modifiche normative introdotte, in materia, dalla cd. legge “Madia”, Sez. L, n. 29142/2022, Bellè, Rv. 665769-01, ha affermato che ai sensi dell’art. 22, comma 13, del d.lgs. n. 75 del 2017, secondo cui le disposizioni di nuova introduzione si applicano agli illeciti commessi successivamente alla data di entrata in vigore del citato decreto, nel caso in cui l’addebito riguardi comportamenti tenuti in parte prima e in parte dopo quella data, deve farsi riferimento alla disciplina della legge sopravvenuta qualora gli stessi siano perseguiti in un unico procedimento sanzionatorio.

Con riferimento alla problematica relativa agli effetti dell’errata identificazione del titolare del potere disciplinare, a seguito dell’entrata in vigore della predetta legge “Madia”, Sez. L, n. 33619/2022, Di Paolantonio, Rv. 666024-01, ha precisato che per i procedimenti disciplinari instaurati in relazione ad illeciti commessi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 75 del 2017, l’erronea individuazione dell’organo interno alla P.A. titolare del potere disciplinare, nonché il mancato rispetto delle regole di costituzione e funzionamento dello stesso, incidono sulla legittimità della sanzione, espulsiva o conservativa, solo quando emerga che l’ufficio non sia terzo e specializzato, con concreta compromissione delle garanzie difensive dell’incolpato, in quanto l’introduzione dei commi 9 bis e 9 ter nell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 ha ristretto l’ambito di applicazione della nullità prevista dal primo comma dell’art. 55 del medesimo decreto, sicché il carattere imperativo della disciplina in esame non è più da sola idonea a determinare, ex art. 1418 c.c., la nullità della sanzione.

Sempre sul tema della titolarità del potere, Sez. L, n. 32123/2022, Casciaro, Rv. 666008-01, ha puntualizzato che il dipendente comunale, assegnato in comando presso l’Unione comunale, è assoggettato al potere disciplinare del Comune in relazione ad addebiti afferenti vicende pregresse al periodo di comando, ed in particolare a quelli attinenti al momento genetico del rapporto, poiché l’Amministrazione di appartenenza, in quanto parte del rapporto di impiego, mantiene la titolarità del rapporto di lavoro, e quindi la legittimazione, rispetto alle vicende che ne regolano lo stato giuridico.

Quanto alla fase “preliminare” all’avvio del procedimento disciplinare, Sez. 6-L, n. 07642/2022, Bellè, Rv. 664080-01, ha evidenziato, con riguardo agli illeciti di maggiore gravità imputabili al pubblico impiegato, che l’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, nel disciplinare i tempi della contestazione, mentre impone al dirigente della struttura amministrativa di trasmettere, “entro cinque giorni dalla notizia del fatto”, gli atti all’ufficio disciplinare, prescrive a quest’ultimo, a pena di decadenza, di contestare l’addebito entro il termine di quaranta giorni dalla ricezione degli atti, sicché va escluso che l’inosservanza del primo termine, che assolve ad una funzione sollecitatoria, comporti, di per sé, l’illegittimità della sanzione inflitta, assumendo rilievo la sua violazione solo allorché la trasmissione degli atti venga ritardata in misura tale da rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o tardiva la contestazione dell’illecito.

In senso analogo, a seguito della riforma “Madia”, Sez. L, n. 29142/2022, Bellè, Rv. 665769-02, ha specificato che anche dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017 (cd. legge “Madia”) all’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, la violazione del termine (ora di dieci giorni) per la trasmissione degli atti dal responsabile del servizio all’ufficio per i procedimenti disciplinari non comporta la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, a meno che ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente; ne consegue che il richiamo della norma al principio di tempestività va inteso nel senso che anche la rilevanza di eventuali violazioni del termine per la trasmissione degli atti va misurata in ragione della violazione del diritto di difesa, tenendosi conto che il pregiudizio rispetto a quest’ultimo è di regola più probabile quanto più ci si allontani nel tempo dal momento dei fatti.

Quanto al profilo della decorrenza del termine per la conclusione del procedimento, Sez. L, n. 20730/2022, Cavallari, Rv. 665119-01, ha ritenuto che qualora non sia possibile individuare un dirigente od un responsabile dell’Ufficio interessato competenti, il termine per concludere il procedimento disciplinare, di cui all’art. 55 bis, comma 4, secondo e terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2011, decorre dalla data in cui la notizia dell’illecito è pervenuta all’Ufficio per i procedimenti disciplinari.

Nella specie, in un caso in cui il responsabile dell’Ufficio comunale interessato dalla commissione dell’illecito era proprio la persona accusata dello stesso, la S.C. ha confermato, con diversa motivazione, la sentenza, che aveva fatto decorrere il termine dal momento in cui la notizia dell’illecito era stata appresa dal Segretario comunale e non, come sostenuto dalla difesa, dal Sindaco, precisando che, in una situazione in cui mancava una disposizione regolamentare o statutaria o altro specifico provvedimento che designasse un sostituto, le funzioni correlate all’azione disciplinare non potevano essere svolte né dal Segretario comunale, né dal Sindaco.

In tema di sospensione obbligatoria dal servizio, disposta ai sensi dell’art. 4 della l. n. 97 del 2001, Sez. L, n. 05813/2022, Spena, Rv. 663992-01, ha chiarito che il dipendente, sospeso in pendenza di un procedimento penale e successivamente assolto, con conseguente revoca della misura cautelare, non può essere considerato assente ingiustificato ove ometta di comunicare la sentenza di assoluzione al datore di lavoro e non riprenda a lavorare, gravando sull’amministrazione, e non sul dipendente, l’obbligo di attivarsi per consentirne la riammissione, con atto ricognitivo del venir meno della causa di sospensione o, alternativamente, di disporne la sospensione facoltativa dal servizio, ove ne ricorrano i presupposti, e ciò in quanto la riattivazione della funzionalità del rapporto presuppone - a tutela di una fondamentale esigenza di certezza giuridica e in applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. - il previo formale invito.

Quanto al termine previsto dall’art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001 per la ripresa del procedimento disciplinare sospeso in pendenza di procedimento penale, Sez. L, n. 24573/2022, Di Paolantonio, Rv. 665336-01, ha rilevato che il predetto termine ha natura perentoria e il suo mancato rispetto determina, pertanto, la decadenza dall’esercizio dell’azione disciplinare.

In argomento, Sez. L, n. 36456/2022, Casciaro, Rv. 666298-01, ha affermato che la riapertura del procedimento disciplinare ex art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, deve avvenire se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa, non essendo necessario che da detta sentenza emergano anche elementi nuovi, ulteriori o, comunque, diversi rispetto a quelli esaminati in sede disciplinare.

Con la stessa pronunzia - Sez. L, n. 36456/2022, Casciaro, Rv. 666298-02 - è stato rimarcato che la riapertura del procedimento disciplinare disposta ai sensi dell’art. 55 ter, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, non comporta una violazione del principio del “ne bis in idem”, poiché, qualora non venga sospeso, il procedimento disciplinare resta comunque unitario sin dall’inizio, seppur articolato in due fasi, e termina solo all’esito di quello penale, di talché la sanzione inflitta nella fase iniziale ha natura provvisoria e non esaurisce il potere della P.A. che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, in base agli identici fatti storici può infliggere una sanzione diversa e finale, che non si aggiunge alla prima, ma la sostituisce retroattivamente.

Sempre in tema di riattivazione del procedimento, Sez. L, n. 09637/2022, Negri Della Torre, Rv. 664231-01, ha sostenuto che l’art. 55 ter del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, non trova applicazione nei procedimenti disciplinari aperti e sospesi prima della sua entrata in vigore - anche ove ripresi o riaperti successivamente - e ciò in quanto nel lasso temporale intercorrente tra l’entrata in vigore della l. n. 97 del 2001 e il d.lgs. n. 150 del 2009, la regolamentazione dei termini relativi alla ripresa del procedimento disciplinare, sospeso in pendenza di procedimento penale, è rimessa e resta assoggettata alla contrattazione collettiva, ai sensi degli artt. 2, comma 3, 40, comma 1, 55, 72, comma 1, lett. f), comma 3 e comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.

In merito al profilo della prova circa la fondatezza degli addebiti, Sez. L, n. 33979/2022, Tricomi I., Rv. 666026-01, ha puntualizzato che né l’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 che ne disciplina le forme ed i termini, né l’art. 55-ter dello stesso decreto, che ne regola i rapporti con il procedimento penale, impongono alla Pubblica Amministrazione di procedere ad autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare; ne consegue che, venuta meno la regola assoluta della pregiudizialità del processo penale rispetto al procedimento disciplinare, e disciplinato per legge il possibile conflitto fra gli esiti dei procedimenti (art. 55 ter, ultimo comma, citato e artt. 653 e 654 c.p.p.), nulla impedisce alla P.A. di dimostrare la fondatezza della contestazione disciplinare avvalendosi degli atti del procedimento penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente.

Quanto, infine, all’assegno alimentare, Sez. L, n. 15799/2022, Bellè, Rv. 664709-01, ha rilevato che qualora sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio a seguito di procedimento penale, successivamente definito con giudicato di condanna, l’assegno in questione, concesso ai sensi dell’art. 82 del d.P.R. n. 3 del 1957, non è ripetibile, poiché non ha natura retributiva, ma assistenziale, trovando fondamento nell’assicurazione delle esigenze di vita di colui che risulta “medio tempore” dipendente.

9. La cessazione del rapporto di lavoro.

In materia di collocamento a riposo d’ufficio, Sez. 6-L, n. 14236/2022, Di Paolantonio, Rv. 664607-01, ha evidenziato che la cessazione del rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età, prevista per il lavoro pubblico sulla base di disposizioni di legge non derogabili dalla contrattazione collettiva, avviene in via automatica, non avendo la comunicazione di risoluzione del rapporto natura provvedimentale o negoziale, ma di mera notizia e ricognizione dell’effetto ricollegato dalla legge all’evento; ne consegue che, trattandosi di una causa di risoluzione diversa e distinta dal licenziamento, ad essa non è applicabile la disciplina della decadenza dettata dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966, che il legislatore, anche a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 183 del 2010, ha circoscritto a specifiche ipotesi normative non suscettibili di interpretazione estensiva o analogica.

Sul tema della dispensa relativamente al personale della scuola, Sez. L, n. 06742/2022, Di Paolantonio, Rv. 664055-01, ha affermato che la dispensa dal servizio per incapacità didattica, ex art. 512 del d.lgs. n. 297 del 1994, non ha natura disciplinare, trattandosi di atto che, all’esito di un giudizio che seppur valutativo è privo di natura discrezionale, si limita a constatare l’oggettiva inidoneità del docente a svolgere le mansioni inerenti all’insegnamento; ne consegue l’inapplicabilità delle norme specificamente dettate per i procedimenti disciplinari dal d.lgs. n. 165 del 2001, fatta salva l’esigenza che il procedimento adottato garantisca effettivamente il necessario contraddittorio.

Nella specie, la S.C., nel confermare la sentenza di merito, ha ritenuto che l’invio, da parte dell’amministrazione scolastica, della comunicazione di avvio del procedimento - cui aveva fatto seguito la presentazione, ad opera dell’interessato, di deduzioni scritte - fosse idoneo alla salvaguardia del principio del contraddittorio.

Con una interessante pronunzia, Sez. L, n. 37040/2022, De Marinis, Rv. 666213-01, ha precisato che la sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento recante la condanna dell’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, emessa ai sensi dell’art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, come novellato dal d.lgs. n. 75 del 2017 (cd. “decreto Madia”), è suscettibile di esecuzione coattiva, in quanto la predetta norma qualifica la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro quale “sanzione unica” a fronte del licenziamento illegittimo, la cui mancata attuazione configura inadempienza da parte del datore di lavoro pubblico ed inottemperanza all’ordine del giudice.

10. La dirigenza.

Quanto al profilo del conferimento dell’incarico, Sez. L, n. 27126/2022, Patti, Rv. 665483-01, ha affermato che, nel pubblico impiego privatizzato, l’atto di conferimento di incarichi dirigenziali integra una determinazione negoziale di natura privatistica, per la cui adozione l’amministrazione datrice non è assoggettata al rispetto della regola del concorso pubblico ma è tenuta ad osservare le norme di cui all’art. 19, comma 1, del d.lgs. 165 del 2001 (e ciò non vale nell’ambito delle società a partecipazione pubblica, atteso che l’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008, applicabile “ratione temporis”, ha esteso alle predette società le procedure concorsuali e selettive delle amministrazioni pubbliche, imponendo espressamente il rispetto dei principi stabiliti dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001, non solo per il reclutamento del personale ma anche per il conferimento degli incarichi).

La validità della clausola di rinnovo automatico di un contratto di conferimento di incarico dirigenziale è stata peraltro esclusa da Sez. L, n. 11376/2022, Bellè, Rv. 664306-01, in quanto il potere datoriale, afferendo ad ineludibili scelte che attengono alla struttura e ai fini dell’organizzazione pubblica, deve manifestarsi “ex novo” all’atto del possibile rinnovo, con l’osservanza dello stesso procedimento previsto per la prima stipulazione, valutando in quel momento, in modo combinato, risultati pregressi e piani ed obiettivi futuri.

Sez. L, n. 02316/2022, Tricomi I., Rv. 663671-01, ha puntualizzato che l’incarico di direttore di distretto sanitario, ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), del c.c.n.l. sanità 8 giugno 2000, è un incarico di struttura complessa, che deve essere conferito previa valutazione comparativa tra una rosa di candidati, ex art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992; tale previsione ha carattere di norma imperativa - atteso che la comparazione tra più aspiranti è funzionale ai principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione e concorre alla salvaguardia dell’interesse pubblico alla tutela della salute dei cittadini - con la conseguenza che, in mancanza del rispetto di tale procedura, l’atto negoziale di conferimento dell’incarico è nullo, e tale nullità può e deve essere rilevata d’ufficio dal giudice.

Con riferimento a vicenda particolare, Sez. L, n. 29206/2022, Cavallari, Rv. 665861-01, ha chiarito che la nomina del Segretario generale del Consiglio regionale del Lazio non costituisce atto politico, ma amministrativo, che, seppur caratterizzato da ampia discrezionalità, deve rispettare i principi di imparzialità, buon andamento, oggettività e trasparenza dell’azione della P.A., nonché le clausole generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono all’Amministrazione di indicare, in via preventiva, i requisiti professionali necessari per l’affidamento dell’incarico, di adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali, di comparare le posizioni dei vari candidati e di esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; la violazione di tali oneri procedimentali integra un inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile.

In caso di illegittimità dell’atto di conferimento di un incarico dirigenziale, il candidato escluso, al fine di conseguire il risarcimento del danni derivanti dalla perdita di “chance” - che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto, bensì un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione - ha l’onere di provare, benché solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, che la condotta illecita ha impedito la concreta realizzazione di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato, il quale non è limitato alla sola procedura concorsuale nella quale si è verificata l’illegittimità, ma può riguardare anche una successiva procedura collegata alla prima (così Sez. L, n. 37002/2022, Cavallari, Rv. 666307-01).

Quanto al meccanismo dello “spoils system”, Sez. L, n. 35235/2022, Casciaro, Rv. 666382-01, ha rilevato che il meccanismo in questione è applicabile agli incarichi dirigenziali solo ove ricorrano i requisiti della apicalità dell’incarico e della fiduciarietà della scelta del soggetto da nominare, da intendersi come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell’organo politico. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva ritenuto legittimo il provvedimento di rimozione dall’incarico dirigenziale, sebbene questo fosse di tipo tecnico-professionale, non comportando il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell’indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo, con conseguente inapplicabilità del meccanismo dello “spoils system”).

Per quanto riguarda il compenso per lavoro straordinario, Sez. L, n. 32617/2022, Bellè, Rv. 666009-01, ha precisato che, in forza del principio di onnicomprensività del trattamento economico dirigenziale, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, al dirigente cui siano attribuiti incarichi che possano impegnarlo anche oltre l’orario “normale” stabilito dalla contrattazione collettiva non spetta alcuna ulteriore remunerazione a titolo di compenso per lavoro straordinario, salva la diversa previsione espressa della stessa contrattazione collettiva.

Con riferimento alle indennità cd. “incentivanti”, Sez. L, n. 12106/2022, Di Paolantonio, Rv. 664470-01, ha ritenuto che un Comune, ai sensi degli artt. 109, comma 2, e 110 del d.lgs. n. 267 del 2000, può conferire le funzioni dirigenziali a personale con qualifica non dirigenziale, a cui vanno riconosciute, secondo i criteri dettati dalla contrattazione collettiva, ed in aggiunta al trattamento fondamentale previsto per la qualifica di inquadramento, una retribuzione di posizione, graduata in relazione alla natura dell’incarico attribuito, e una retribuzione di risultato, quantificata in misura percentuale rispetto a quella di posizione, e corrisposta all’esito della valutazione positiva annuale, senza che trovi applicazione l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, sia perché le funzioni direttive svolte non possono essere ritenute estranee al profilo di inquadramento, sia perché le maggiori responsabilità assunte vengono retribuite in virtù delle previsioni della contrattazione collettiva.

Sempre in tema, con particolare riferimento ad un aspetto processuale, Sez. 6-L, n. 29111/2022, Bellè, Rv. 665804-01, ha chiarito che in materia di dirigenza pubblica, il giudicato di rigetto della domanda volta ad ottenere il riconoscimento della parte variabile della retribuzione di posizione non impedisce la proposizione di un nuovo giudizio per il risarcimento del danno derivante dalla mancata graduazione delle funzioni, non essendo applicabile il principio della preclusione da cd. “dedotto e deducibile”, stante la diversità obiettiva dei fatti costitutivi tra l’azione - di adempimento - che ha per fondamento l’esistenza di una graduazione del valore della prestazione dirigenziale, in sé idonea a quantificare la quota variabile della retribuzione, e quella - di risarcimento del danno da inadempimento - che si basa sul non avere il datore di lavoro dato corso a quanto necessario, ed a suo carico, per la determinazione di quella graduazione.

Significative le pronunzie in materia di spettanze retributive nell’ambito della dirigenza sanitaria.

Sez. L, n. 22047/2022, Casciaro, Rv. 665323-01, ha evidenziato che al dirigente medico legale di primo livello, che abbia svolto le funzioni di dirigente medico legale di secondo livello, non spetta né la maggiorazione retributiva per l’esercizio di fatto di mansioni superiori - non essendo applicabili alla dirigenza gli artt. 2103 c.c. e 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 - né l’indennità cd. sostitutiva, non prevista dall’art. 94 del c.c.n.l. E.P.N.E. dell’11.10.1997 a differenza di quanto disposto dall’art. 18 del c.c.n.l. dell’8 giugno 2000 per l’area della dirigenza medica e veterinaria del servizio sanitario nazionale.

Il titolare dell’incarico di responsabile di dipartimento conferito da una ASL, al quale si applichi il c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza sanitaria, professionale, tecnica ed amministrativa del comparto sanità, non ha diritto alla maggiorazione della retribuzione di posizione prevista dall’Allegato 6 del c.c.n.l. per l’area della dirigenza medica e veterinaria del 5.12.1996, poiché il principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito oggi dall’art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 e, in precedenza, dall’art. 49, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993, impone al datore pubblico di conformarsi alle previsioni della contrattazione collettiva, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede, vigendo, nel nostro ordinamento, un generale divieto di commistione delle fonti collettive (così Sez. L, n. 29202/2022, Cavallari, Rv. 665770-01).

La previsione dell’art. 17, comma 4, del c.c.n.l., comparto sanità, del 2002/2005, secondo cui “di regola non potranno essere previsti per ciascun dirigente più di dieci turni di pronta disponibilità nel mese” va intesa come precetto di natura programmatica e non come limite temporale invalicabile, avuto riguardo al tenore letterale della norma, alla qualità dei destinatari ed alla natura del servizio reso, fermo restando il diritto alla retribuzione per i turni eccedentari e salvo il risarcimento del danno nel caso di pregiudizio per il recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore; pertanto, per i turni di pronta disponibilità resi oltre il numero di dieci mensili deve essere corrisposta la specifica indennità retributiva prevista dall’art. 17, comma 5, del medesimo c.c.n.l., senza che la stessa possa essere assorbita nella retribuzione di risultato (così Sez. L, n. 36839/2022, Tricomi I., Rv. 666201-01).

Inoltre, Sez. L, n. 06153/2022, Di Paolantonio, Rv. 664000-01, ha chiarito che l’Istituto per lo studio e la prevenzione oncologica, in quanto struttura pubblica inserita nel Servizio Sanitario Nazionale, è tenuto al rispetto delle disposizioni legislative che disciplinano le modalità di organizzazione del Servizio e, quanto ai rapporti di lavoro, all’applicazione della contrattazione collettiva di comparto, nonché dei principi che regolano il rapporto dirigenziale, primo fra tutti quello di omnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24 del d.lgs. n. 165 del 2001; ne consegue che al personale dirigente medico dell’ISPO compete un compenso ulteriore per l’attività libero-professionale svolta “intramoenia” solo ove questa sia stata preventivamente autorizzata ed esercitata nel rispetto delle prescrizioni e nei limiti imposti dalla legge e dalla contrattazione collettiva di settore e, nello specifico, dall’art. 15 quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, dall’art. 54 del c.c.n.l. dell’8 giugno 2000 e dall’art. 4 del c.c.n.l. del 3.11.2005 per l’area della dirigenza medica e veterinaria del SSN.

Sempre in tema di attività libero professionali rese dai dirigenti sanitari in regime di “intra moenia”, Sez. L, n. 20010/2022, Di Paolantonio, Rv. 665116-02, ha sottolineato che la determinazione delle tariffe e la ripartizione dei compensi che le Aziende Sanitarie stabiliscono in conformità alle previsioni della contrattazione nazionale (che a sua volta rinvia a quella integrativa decentrata), e non possono unilateralmente modificare, devono tener conto dei costi diretti ed indiretti sostenuti dalle Aziende stesse, ivi compreso il maggior esborso a titolo di IRAP derivante dall’aumento della base imponibile per effetto dell’attività libero professionale, importo che va detratto dal “quantum” ripartibile in quote fra le parti del rapporto.

11. Il personale scolastico.

Con riguardo alla fase preliminare alla costituzione del rapporto, Sez. L, n. 08259/2022, Bellè, Rv. 664139-01, ha affermato che i corsi abilitanti per l’insegnamento, previsti dall’art. 2 del d.l. n. 97 del 2004, conv. dalla l. n. 143 del 2004, costituiscono una forma agevolata di accesso alle graduatorie permanenti, poi divenute ad esaurimento, al fine della stipula dei contratti di insegnamento a tempo indeterminato, le cui regole procedurali - tra cui il rispetto del termine per la presentazione della domanda - sono integralmente previste dalla legge e costituiscono presupposti per il sorgere del diritto alla iscrizione nella graduatoria; ne consegue che la violazione di dette regole esclude la possibilità di stabilizzare non solo l’iscrizione in graduatoria, ma anche la conseguita abilitazione e ciò in ragione della natura agevolata di essa, sicché la P.A., con mero atto di gestione, potrà procedere al depennamento di chi è stato iscritto senza averne diritto.

Sempre in tema, Sez. L, n. 05242/2022, Marotta, Rv. 663891-01, ha precisato che il personale docente precario, inserito nelle graduatorie ad esaurimento della Provincia autonoma di Bolzano, non ha titolo ad essere ammesso al piano straordinario di assunzioni di cui alla l. n. 107 del 2015, atteso che le graduatorie di tale provincia autonoma, nel rispetto dell’autonomia attribuitale in materia scolastica dal d.P.R. n. 89 del 1983, come successivamente integrato e modificato dal d.lgs. n. 434 del 1996, sono gestite con criteri di aggiornamento e di valutazione del punteggio diversi da quelli adottati per le graduatorie ad esaurimento in ambito nazionale, previste dall’art. 1, comma 605, della l. n. 296 del 2006 - alle quali fa riferimento l’art. 1, comma 96, della l. n. 107 del 2015 per la delimitazione dell’ambito dei soggetti ammessi a beneficiare del suddetto piano straordinario - e tali da determinare una disomogeneità e incomparabilità delle situazioni soggettive tra gli insegnanti presenti nelle rispettive graduatorie nazionali e provinciali.

L’art. 436 del d.lgs. n. 297 del 1994, nel prevedere la decadenza dalla nomina per colui che, pur avendola accettata, non assume servizio senza giustificato motivo entro il termine stabilito, rimette alla pubblica amministrazione il potere di valutare la sussistenza o meno del giustificato motivo e non attribuisce, quindi, un diritto incondizionato al differimento della presa di servizio, atteso che il termine in questione è imposto a tutela di interessi pubblici, che possono divenire recessivi rispetto a quelli dell’assunto solo qualora quest’ultimo faccia valere ragioni gravi ed obiettive che impediscano la condotta doverosa (così Sez. L, n. 06743/2022, Di Paolantonio, Rv. 664086-01).

Con riferimento alla specifica tematica dell’assegnazione provvisoria di sede degli insegnanti di religione cattolica, Sez. L, n. 22438/2022, Di Paolantonio, Rv. 665138-01, ha evidenziato che la predetta assegnazione ha effetto per l’anno scolastico in relazione al quale è disposta e non incide sulla titolarità della sede, che resta quella di provenienza alla quale il docente ha diritto di rientrare alla scadenza dell’assegnazione; resta quindi escluso ogni potere dell’Ordinario Diocesano di destinare l’insegnante ad altra cattedra disponibile, e ciò anche in ragione del rilievo che al Vescovo non competono poteri organizzativi riservati, invece, alle autorità scolastiche.

Quanto al periodo di prova, Sez. L, n. 04148/2022, Spena, Rv. 663871-01, ha chiarito, in relazione a fattispecie particolare, che il personale docente della scuola statale non può svolgere il periodo di prova, ai sensi dell’art. 437 del d.lgs. n. 297 del 1994, presso la Scuola per l’Europa di Parma, in quanto quest’ultima è assoggettata dalla legge istitutiva n. 115 del 2009 ad un regime di impiego del personale diverso rispetto a quello del personale di ruolo della scuola statale.

In materia di orario, Sez. L, n. 22429/2022, Bellè, Rv. 665270-01, ha puntualizzato che il supplente che, al momento dell’attribuzione della cattedra, abbia scelto quella con orario settimanale inferiore alla ordinaria, ha comunque diritto di completare o elevare l’orario settimanale, qualora vi sia la disponibilità delle relative ore nella stessa provincia, atteso che l’art. 4, comma 1, del d.m. n. 131 del 2007, nella dizione descrittiva «assenza di posti interi», non contiene alcuna regola decadenziale derivante dalle scelte assunte “ab origine” dal docente, dovendosi rinvenire la portata precettiva della norma solo nell’esclusione del completamento nell’ambito di più province.

In tema di personale docente della scuola pubblica, ai fini dell’attribuzione del “part time” con contestuale accesso alla pensione anticipata, ex art. 1, comma 185, della l. n. 662 del 1996, accertati i requisiti per il collocamento in pensione e l’assenza di ragioni organizzative contrarie presso l’Istituto scolastico di riferimento, la valutazione della ricorrenza di situazioni di esubero, rispetto alla dotazione organica, che risultano ostative all’accoglimento delle relative domande, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del Regolamento di cui al d.m. della Funzione Pubblica n. 331 del 1997, va svolta - secondo Sez. L, n. 26231/2022, Bellè, Rv. 665479-01 - sulla base dell’organico di diritto, di cui all’art. 2 del d.P.R. n. 81 del 2009, senza che abbia rilievo l’eventuale assegnazione di personale di ruolo in esubero a posti dell’organico di fatto; inoltre, ai sensi dell’art. 6, comma 3, dell’ordinanza ministeriale n. 55 del 1998, richiamato dall’art. 39 del c.c.n.l. di comparto 2006-2009, l’esubero delle domande rispetto ai contingenti fissati dalla normativa vigente comporta la preferenza per le domande ordinarie di “part time”, rispetto a quelle presentate ai sensi del citato art. 1, comma 185.

Sul profilo del trasferimento, con la rilevante sentenza Sez. L, n. 35105/2022, Di Paolantonio, Rv. 666182-03, Rv. 666182-02, Rv. 666182-01, sono stati affermati i seguenti principi: a) non si pone in contrasto con l’art. 33 della l. n. 104 del 1992 la contrattazione collettiva che, nel disciplinare le modalità di attuazione della mobilità territoriale, definitiva o provvisoria, operi una graduazione in ragione del legame esistente con la persona affetta da disabilità, sulla base di valutazioni, espresse secondo un criterio di normalità, che tengano conto non soltanto della gravità delle condizioni di salute dell’assistito, ma anche del ruolo che l’aspirante al trasferimento svolge nel nucleo familiare; b) nelle operazioni di trasferimento del personale scolastico che coinvolgano una pluralità di dipendenti fra i quali anche i soggetti titolari del diritto di precedenza di cui all’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, l’Amministrazione - nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità, buon andamento e trasparenza, nonché dei canoni generali di correttezza e buona fede - è tenuta ad adottare criteri predeterminati e trasparenti, che ben possono essere oggetto di contrattazione collettiva, al fine di bilanciare gli interessi, tutti egualmente meritevoli di tutela, degli aspiranti alla mobilità; c) l’art. 601 del d.lgs. n. 297 del 1994, nel richiamare l’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, che riconosce il diritto di precedenza “ove possibile”, non attribuisce al docente che assiste persona con handicap in situazione di gravità un diritto incondizionato ad essere trasferito nella sede più vicina a quella dove risiede il soggetto assistito.

In materia di pretese retributive, Sez. L, n. 01888/2022, Tricomi I., Rv. 663650-01, ha specificato che il compenso ex art. 87, comma 3, del c.c.n.l. comparto scuola 2006-2009 non può essere riconosciuto al coordinatore provinciale per l’educazione fisica nel periodo delle ferie e ciò in ragione del suo carattere accessorio, connesso all’espletamento della prestazione lavorativa in misura eccedente le diciotto ore settimanali, che ne costituiscono il parametro legale.

Il compenso spettante al docente delegato per specifici compiti dal dirigente scolastico, ex art. 25, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va determinato ai sensi dell’art. 88, comma 2, lett. f) del c.c.n.l. personale scolastico, essendo inapplicabile la disciplina della contrattazione collettiva in tema di indennità connesse allo svolgimento di funzioni superiori, alla luce della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 14, comma 22, del d.l. n. 95 del 2012, conv. dalla l. n. 135 del 2012, secondo cui la delega di compiti ai docenti non costituisce affidamento di mansioni superiori o di funzioni vicarie, anche laddove tali insegnanti godano dell’esonero o semiesonero (così Sez. L, n. 09155/2022, Negri Della Torre, Rv. 664141-01).

La cd. carta elettronica del docente, prevista, al fine di sostenere la formazione continua dei docenti e di valorizzarne le competenze professionali, dall’art. 1, comma 121, della l. n. 107 del 2015, quale beneficio economico utilizzabile per l’acquisto di materiale o per la partecipazione ad iniziative utili all’aggiornamento professionale, spetta - v., al riguardo, Sez. L, n. 32104/2022, Casciaro, Rv. 666000-01 - anche al personale educativo, atteso che questo, seppur impegnato in una funzione differente rispetto a quella propriamente didattica e di istruzione, tipica del personale docente, partecipa al processo di formazione e di educazione degli allievi ed è soggetto a precisi oneri formativi.

In tema di illeciti disciplinari, Sez. L, n. 30955/2022, Spena, Rv. 665847-01, ha precisato che in caso di previsioni di fonte legale che correlano le sanzioni a condotte in parte assimilabili tra loro, salvo l’elemento della maggiore o minore gravità, e perfino in caso di previsione di condotte non conformi ai doveri specifici inerenti la funzione, e che quindi denotino l’incompatibilità a svolgere i compiti del proprio ufficio nell’esplicazione del rapporto educativo, il giudice di merito dovrà comunque formulare un giudizio valoriale di gravità delle condotte addebitate al docente e di proporzionalità della sanzione espulsiva, operando un giudizio di sussunzione della condotta in fatto ricostruita nell’ambito dell’uno o degli altri illeciti disciplinari.

Sez. L, n. 28976/2022, Bellè, Rv. 665768-02, ha puntualizzato che in base alle norme di cui agli artt. 494 e ss. del d.lgs. n. 297 del 1994, la cui persistente applicazione è stata prevista dalla successiva contrattazione collettiva, l’ipotesi di cui all’art. 496 del citato d.lgs. (sospensione per sei mesi con successivo spostamento a mansioni amministrative), costituisce fattispecie che consente al dipendente di evitare il licenziamento, a condizione tuttavia che i comportamenti accertati, per la loro concreta manifestazione, non siano tali da determinare, secondo il disposto del successivo art. 498, un grave contrasto con i doveri della funzione docente, da apprezzare sulla base di una completa valutazione di tutti i connotati concreti delle condotte contestate, in relazione alle caratteristiche proprie della funzione stessa, e a condizione, altresì, che le medesime condotte non siano tali da risultare parimenti incompatibili con la persistenza del vincolo fiduciario e, con esso, del rapporto di lavoro anche in altro settore.

Resta fermo che - e, sul punto, v. Sez. L, n. 28976/2022, Bellè, Rv. 665768-01 - costituisce dovere afferente alla funzione docente, intesa nella sua pienezza, anche quello di evitare comportamenti extralavorativi che si manifestino attraverso la commissione di reati e che, qualora diffusamente noti, si pongano in contrasto con il dovere, sancito dall’art. 395 del d.lgs. n. 297 del 1994, di contribuire alla formazione umana della personalità dei giovani.

Va infine segnalata Sez. L, n. 14270/2022, Spena, Rv. 664611-01, per aver affermato che la voce di una persona, registrata da un apparecchio elettronico, costituisce dato personale ex art. 4, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 196 del 2003, “ratione temporis” applicabile - secondo cui è tale qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione -, se ed in quanto la voce in questione consenta di identificare la persona interessata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto riconducibile alla nozione di “dato personale” la voce degli studenti contenuta nella registrazione di una lezione effettuata da un docente, essendo le persone interessate facilmente identificabili in quanto componenti di una comunità ristretta).

12. Le azioni di recupero della PA nei confronti del dipendente.

Sez. L, n. 24377/2022, Bellè, Rv. 665414-01, ha evidenziato che l’azione proposta dalla P.A. per la ripetizione delle somme indebitamente percepite dal dipendente pubblico per lo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata dall’amministrazione di appartenenza, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, rientra nell’alveo della responsabilità contrattuale da inadempimento agli obblighi di fedeltà ed ha una funzione riparatoria ed integralmente compensativa del danno; ne consegue che il recupero, pur assumendo tratti sanzionatori, regolando gli effetti della duplice violazione dell’avere accettato un incarico senza autorizzazione e di averne introitato le remunerazioni, non costituisce sanzione amministrativa e non è, pertanto, assoggettato alle regole di cui alla l. n. 689 del 1981.

PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA --- SEZIONE SECONDA - IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE

  • OCCUPAZIONE E LAVORO
  • cessazione d'impiego

CAPITOLO XX

LA PREVIDENZA SOCIALE

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’obbligazione contributiva ed i soggetti obbligati. - 3 La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo. - 4 Gli sgravi e i benefici contributivi. - 5 Totalizzazione e ricongiunzione dei periodi assicurativi a fini previdenziali. - 6 L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione. - 7 Omissione contributiva e posizione del lavoratore. - 8 Accertamento e riscossione. - 9 La prescrizione dei crediti contributivi.

1. Premessa.

Il diritto alla previdenza è un diritto sociale che trova il suo fondamento diretto nella Costituzione. È espressione della più ampia idea di sicurezza sociale avente come obiettivo quello di assicurare ai cittadini la possibilità di far fronte a particolari situazioni di necessità (infortunio, malattia, invalidità, disoccupazione involontaria ecc.), o i mezzi necessari di sussistenza al termine della vita lavorativa (pensioni di anzianità e di vecchiaia) al fine di garantire una condizione di liberazione dal bisogno necessaria per il pieno sviluppo della persona.

Numerose le decisioni che hanno affrontato i diversi aspetti della previdenza sociale nel corso del 2022.

2. L’obbligazione contributiva ed i soggetti obbligati.

Particolarmente controversa è la natura giuridica dei contributi previdenziali, anche in considerazione delle diverse tipologie e delle diverse forme di previdenza che caratterizzano il nostro ordinamento. Secondo la tesi più accreditata, essi possono essere equiparati ai tributi o ad imposte speciali stabiliti dalla legge a favore di enti pubblici o privati per la realizzazione di un interesse pubblico costituzionalmente protetto, quale è quello al quale risponde la tutela previdenziale. Quei contributi, infatti, perseguono la funzione di fornire agli enti previdenziali i mezzi necessari per soddisfare i compiti istituzionali loro assegnati dalla legge.

La natura dell’obbligazione contributiva era stata espressamente affrontata nell’anno passato da Sez. L, n. 5551/2021, Buffa, Rv. 660624-02, che ne ha evidenziato il carattere pubblicistico ed il contenuto determinato dalle norme per escluderne la disponibilità da parte degli enti gestori delle forme obbligatorie di previdenza e assistenza.

L’obbligo del pagamento dei contributi previdenziali sorge immediatamente al verificarsi delle condizioni previste dalla legge (solitamente, il divenire parte di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo) e si estingue quando quelle condizioni vengono meno. La sussistenza dell’obbligazione contributiva costituisce il presupposto per il riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali.

Obbligato al versamento dei contributi per i rapporti di lavoro subordinato è, in via generale, il datore di lavoro (art. 2115 c.c.). Anche nei casi in cui l’onere contributivo è ripartito tra il datore e il prestatore (ad esempio per la pensione di anzianità), la quota di competenza di quest’ultimo viene ugualmente versata dal datore, il quale trattiene la somma corrispondente dalla retribuzione del lavoratore, restando così l’unico responsabile nei confronti degli enti previdenziali. Sono invece interamente a carico del prestatore i contributi dovuti per le attività di lavoro autonomo. Per le collaborazioni coordinate e continuative, per il lavoro a progetto, per le collaborazioni occasionali (solo se il reddito supera un certo importo) e per gli associati in partecipazione, l’obbligo contributivo grava per una quota sui committenti (i quali restano comunque responsabili del versamento), e per la parte restante sugli stessi lavoratori. Sono tenute al versamento dei contributi per i soci lavoratori anche le società cooperative.

A tal proposito, Sez. L, n. 37246/2022, Cerulo, Rv. 666222-01, ha evidenziato che i contributi previdenziali versati da società cooperative di lavoro in favore dei propri soci lavoratori, nel periodo anteriore alla data di entrata in vigore della l. n. 196 del 1997, restano salvi e conservano la loro efficacia ai fini delle prestazioni di cui all’art. 2 della l. n. 297 del 1982 e agli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 80 del 1992, riguardanti l’erogazione del t.f.r. da parte del Fondo di garanzia gestito dall’INPS nei casi di insolvenza del datore di lavoro, anche quando i fatti costitutivi dei crediti si siano verificati anteriormente alla data suddetta. L’estensione retroattiva dell’intervento del citato Fondo di garanzia presuppone che siano stati pagati i contributi previdenziali per il periodo precedente all’entrata in vigore della disposizione; di tale presupposto deve offrire la prova chi rivendichi il diritto alle prestazioni del medesimo Fondo.

Per i lavoratori dell’Unione vale il principio della completa equiparazione rispetto a quelli residenti, essendo peraltro riconosciuta la possibilità di far valere in qualsiasi stato comunitario l’anzianità contributiva conseguita in uno degli stati membri.

I contributi devono essere pagati anche per i lavoratori stranieri, con la possibilità del cumulo dei periodi contributivi nei due stati, sulla base di apposite convenzioni internazionali. A favore dei lavoratori italiani all’estero, in paesi extracomunitari con i quali non sussistano apposite convenzioni, il legislatore italiano, in deroga al principio di territorialità, ha stabilito l’iscrizione obbligatoria alle gestioni previdenziali italiane, sulla base di importi retributivi annualmente fissati con decreto ministeriale e rapportati ai minimi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale (l. n. 398 del 1987).

Sotto il profilo dell’individuazione dei soggetti obbligati alla contribuzione Sez. L, n. 29528/2022, Cavallaro, Rv. 665818-01 ha chiarito che in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una obbligazione concorrente del datore di lavoro apparente per i contributi dovuti agli enti previdenziali, fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti eventualmente eseguiti da terzi, ai sensi dell’art. 1180, comma 1, c.c., ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, senza che assuma rilievo la consapevolezza dell’altruità del debito, atteso che, in caso di indebito soggettivo, anche il pagamento effettuato per errore è qualificabile, in forza del coordinamento tra gli artt. 1180 e 2036 c.c., come pagamento di debito altrui, con efficacia estintiva dell’obbligazione in presenza delle condizioni di cui all’art. 2036, comma 3, c.c..

Sempre in tema di accertamento in ordine alla sussistenza dell’obbligazione contributiva, in relazione al Fondo di solidarietà residuale di cui all’art. 3 della l. n. 92 del 2012, ed al preliminare accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, Sez. L, n. 29973/2022, Cerulo, Rv. 665778-01 ha chiarito che, ai fini della qualificazione in termini di autonomia o di subordinazione dell’ulteriore rapporto di lavoro che il socio lavoratore di una società cooperativa stabilisca con la propria adesione o successivamente, il “nomen iuris” attribuito in linea generale ed astratta nel regolamento di organizzazione e la peculiarità del rapporto mutualistico connesso a quello di lavoro, pur configurandosi quali elementi necessari di valutazione, non rivestono portata dirimente, dovendosi piuttosto dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro; al riguardo, quando la prestazione lavorativa sia estremamente elementare e ripetitiva, così che l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel contesto, significativo, è possibile dare rilievo ad elementi sussidiari (ad es. modalità di erogazione del compenso, orario di lavoro, presenza di una sia pure minima organizzazione e l’assunzione di un rischio di impresa), da valutarsi nella loro vicendevole interazione.

In ordine alla classificazione delle imprese a fini previdenziali, Sez. L, n. 06200/2022, Cavallaro, Rv. 664001-01 ha affermato che l’art. 8 della l. n. 335 del 1995, secondo cui i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento o della richiesta dell’interessato, opera nei casi in cui si provveda alla riclassificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali ed assistenziali, di cui all’art. 49 della l. n. 88 del 1989, al fine di renderla coerente con l’attività effettivamente svolta, e non invece nel diverso caso in cui non vi è stato mutamento di attività o erronea comunicazione iniziale delle caratteristiche della stessa, ma assoggettamento a contribuzione per effetto del mutamento di natura giuridica del datore di lavoro, con la trasformazione da azienda municipalizzata a società di capitali, rimanendo in tale caso la contribuzione dovuta sin dal momento in cui se ne sono verificati i presupposti.

In tema di indennità di congedo straordinario, prevista dall’art. 42, comma 5 ter, del d.lgs. n. 151 del 2001, per l’assistenza di un familiare disabile anche diverso dal figlio, Sez. L, n. 24694/2022, Gnani, Rv. 665462-01 ha affermato che le aziende speciali di cui all’art. 114 del d.lgs. n. 267 del 2000, rientrando nel novero delle imprese di enti locali privatizzate, sono tenute a versare all’Inps la relativa contribuzione, poiché l’art. 20, comma 2, lett. a), del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla l. n. 133 del 2008, allorché fa riferimento alla contribuzione per maternità, si pone nell’ottica di perseguire il sostegno della solidarietà familiare, nel cui ambito convergono la tutela della maternità e la tutela della disabilità a prescindere dal rapporto di filiazione.

Ancora, con riferimento ai contributi previdenziali in favore di lavoratori stranieri alle dipendenze di enti stranieri con sede in Italia, Sez. L, n. 17108/2022, Mancino, Rv. 664866-01 ha chiarito che, in materia di sicurezza sociale, sulla base dell’accordo di Washington del 23 maggio 1973 stipulato tra la Repubblica Italiana e gli Stati Uniti d’America, ratificato in Italia con la l. n. 86 del 1975 - il cui art. 7, comma 3, in deroga al principio di territorialità sancito in via generale dal precedente comma 1, prevede che il lavoro svolto negli Stati Uniti da un cittadino italiano alle dipendenze di un datore di lavoro italiano o di una impresa controllata da un’impresa italiana è disciplinato dalla legislazione italiana -, ai lavoratori italiani, anche in possesso della doppia cittadinanza, si applica la garanzia previdenziale approntata dall’ordinamento italiano, senza che sulla legislazione applicabile incida il disposto del comma 4 del citato art. 7, che, con previsione non avente portata generale, stabilisce che l’interessato opti per la legislazione applicabile nella sola specifica ipotesi in cui “periodi di lavoro” siano soggetti alla legislazione di entrambi gli Stati, come nel caso di spostamenti del lavoratore da un Paese all’altro, per trasferimento o distacco.

3. La retribuzione imponibile ed il minimale contributivo.

L’ammontare dei contributi viene calcolato in percentuale sull’importo della retribuzione imponibile (nel caso dei rapporti di lavoro subordinato) o del reddito di lavoro (nel caso del lavoro autonomo, in collaborazione o associato); l’entità della percentuale varia a seconda dei diversi enti assicuratori, delle prestazioni da questi erogate e delle differenti categorie di lavoratori.

Alla determinazione degli elementi della retribuzione da considerare ai fini previdenziali concorre altresì la contrattazione collettiva nazionale ed aziendale cui è rimessa la regolamentazione dell’efficacia sugli istituti indiretti delle voci contrattuali aggiuntive rispetto a quelle legislativamente disciplinate.

La legge n. 389 del 1989 fissa, peraltro, un minimale contributivo: la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ovvero da accordi collettivi anche aziendali o da contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.

In tema di retribuzione imponibile Sez. L, n. 17107/2022, Mancino, Rv. 664857-01 ha affermato che ai fini dell’individuazione della base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali ex art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, conv. dalla l. n. 389 del 1989, occorre fare riferimento alla contrattazione collettiva nazionale, che è maggiormente di garanzia per una parità di trattamento tra lavoratori di un medesimo settore; ne consegue che, ove per uno specifico settore non risulti stipulato un contratto collettivo, legittimamente l’Istituto previdenziale può ragguagliare la contribuzione dovuta alla retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva di un settore affine, restando a carico del datore di lavoro l’onere di dedurre l’esistenza di altro contratto affine che preveda retribuzioni tabellari inferiori rispetto a quello applicato dall’Istituto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, nell’individuare l’imponibile contributivo, aveva ritenuto applicabile non il c.c.n.l. del 2009 per í dipendenti di imprese e società esercenti servizi ambientali - sul presupposto che quest’ultimo, facendo riferimento alla “gestione integrata dei servizi urbani”, non contemplasse il trattamento dei rifiuti non urbani -, ma il c.c.n.l. trasporto merci, benché fosse stato accertato lo svolgimento, da parte dell’impresa, di attività di trasporto rifiuti in via residuale e in funzione strumentale ed ausiliaria all’attività di smaltimento).

Sempre in tema di imponibile contributivo, in relazione al lavoro agricolo, poi, Sez. L, n. 13185/2022, Cavallaro, Rv. 664603-01 ha stabilito che i contributi dovuti dal datore di lavoro agricolo sui corrispettivi corrisposti agli operai agricoli a tempo determinato vanno calcolati, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 338 del 1989, conv. dalla l. n. 389 del 1989, e dell’art. 40 del c.c.n.l. per gli operai agricoli e florovivaisti del 6.7.2006, esclusivamente sulla base delle ore effettivamente lavorate, salvo risulti in concreto che, in occasione di interruzioni dovute a causa di forza maggiore, il datore di lavoro abbia disposto la permanenza dell’operaio in azienda a sua disposizione.

Ancora in tema di imponibile contributivo, ma stavolta in relazione ai lavoratori dello spettacolo, Sez. L, n. 06134/2022, Buffa, Rv. 663996-01 ha precisato che i compensi pattuiti in forza di un patto di esclusiva vanno considerati quale reddito di lavoro, ed inclusi nella determinazione della base imponibile ai fini contributivi, trattandosi di compensi dovuti a titolo di corrispettivo di una obbligazione di non facere che inerisce al rapporto di lavoro e che, peraltro, non rientra in alcuna delle ipotesi di esclusione dalla base imponibile previste dall’art. 12, comma 4, della l. n. 153 del 1969.

In tema di contributi dovuti per i regimi assicurativi dei lavoratori operanti all’estero, in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale, Sez. L, n. 06294/2022, Buffa, Rv. 664004-01, ha affermato che, ai fini della individuazione della base imponibile contributiva, deve aversi riguardo alla retribuzione effettivamente corrisposta, e non alle retribuzioni convenzionali individuate con i d.m. richiamati dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 314 del 1987, conv. dalla l. n. 398 del 1987, restando inapplicabile il comma 8 bis dell’art. 48 del d.P.R. n. 917 del 1986 (poi divenuto 51 per effetto del d.lgs. n. 344 del 2003), che opera esclusivamente a fini fiscali; ne consegue che, ove l’indennità di trasferta corrisposta al lavoratore abbia natura retributiva, alla luce del suo carattere stabile e non contingente, va computata ai fini dell’individuazione della fascia di retribuzione convenzionale da applicare a fini contributivi.

Sez. L, n. 24814/2022, Calafiore, Rv. 665468-01 in materia di decontribuzione concernente la retribuzione di risultato ex art. 2 del d.l. n. 67 del 1997, conv. dalla l. n. 135 del 1997, applicabile “ratione temporis”, ha ritenuto che i premi di presenza previsti dai contratti collettivi aziendali, ovvero di secondo livello, rientrano nella nozione di premi aziendali di produzione e sono, pertanto, esclusi dalla contribuzione, trattandosi di meccanismi volti ad incrementare la retribuzione individuale perseguendo l’interesse alla crescita dell’azienda in termini di produttività e di qualità delle prestazioni lavorative.

Infine, Sez. L, n. 29967/2022, Buffa, Rv. 665826-03, in continuità con il recente precedente Sez. L, n. 26442/2021, Buffa, Rv. 662275-01, ha precisato che in tema di trattamenti pensionistici, l’esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell’anzianità contributiva minima, ai sensi dell’art. 3, comma 8, della l. n. 297 del 1982, è finalizzata ad evitare un depauperamento della prestazione previdenziale causato dallo svolgimento di un’attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio di lavoro; ne consegue che il principio di “neutralizzazione” può operare solo all’interno del periodo indicato dalla norma, e non anche in relazione a periodi diversi, restando inapplicabile al montante contributivo minore che non si riferisca al periodo finale del rapporto contributivo previdenziale e sia inoltre relativo a periodi precedenti l’ultimo quinquennio di contribuzione, il quale - in caso di versamenti in diverse gestioni - va individuato in relazione a ciascuna di esse, dato che i presupposti per la maturazione di ogni pensione afferiscono alle regole della gestione di riferimento.

La medesima pronuncia ha, inoltre, sottolineato (Rv. 665826-01) come la cd. “neutralizzazione” dei periodi a retribuzione ridotta - rimedio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale con la finalità di evitare un decremento della prestazione previdenziale in un assetto legislativo non più attuale e incentrato sulla valorizzazione del maggior livello retributivo tendenzialmente raggiunto negli ultimi anni di lavoro - può trovare applicazione solo nei limiti in cui la pensione sia ancora in tutto o in parte liquidata con il sistema cd. retributivo.

4. Gli sgravi e i benefici contributivi.

In tema di sgravi contributivi in favore dei datori di lavoro agricolo Sez. L, 05821/2022, Mancino, Rv. 663993-01 ha precisato che l’art. 9, comma 5, della l. n. 67 del 1988, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 375 del 1993 e dalla l. n. 537 del 1993, che stabilisce la spettanza di sgravi contributivi in favore dei datori di lavoro agricolo per il proprio personale dipendente occupato nei territori montani di cui all’art. 9 del d.P.R. n. 601 del 1973, ha portata generale e si applica a tutte le categorie di dipendenti, non trovando fondamento normativo la limitazione dell’ambito di applicazione ai soli operai, alla luce delle finalità della norma di attribuire un beneficio contributivo all’impresa agricola in quanto tale.

Per quanto, poi, attiene alle cooperative sociali Sez. L, n. 24892/2022, Marchese, Rv. 665474-01 ha affermato che l’azzeramento della contribuzione per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovuta in relazione alla retribuzione corrisposta alle persone svantaggiate, ex art. 4, comma 3, della l. n. 381 del 1991, ha natura di beneficio contributivo, per la cui fruizione - ai sensi dell’art. 1, comma 1175, della l. n. 296 del 2006 - è richiesto che le predette cooperative siano in possesso del documento unico di regolarità contributiva (cd. DURC).

In relazione ad agevolazioni contributive riconosciute, a seguito di calamità naturali, Sez. L, n. 33131/2022, Buffa, Rv. 666019-01, ha evidenziato che l’art. 2 del d.p.c.m. n. 3754 del 2009, che prevede la sospensione del versamento dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, in favore dei datori di lavoro operanti nei comuni interessati dal sisma del 2009 in Abruzzo alla data dell’evento sismico, trova applicazione per gli obblighi contributivi previdenziali dovuti in relazione ai soli lavoratori assunti prima della data del sisma e non a quelli assunti in data successiva. Il tenore testuale della disposizione risulta incentrato, infatti, oltre che sulla limitazione geografica, sull’effetto della sospensione dei versamenti dei crediti contributivi: poiché può essere sospeso solo un termine che è in corso, è evidente la stretta relazione logica e giuridica che esiste tra il riferimento a queste scansioni necessarie alla realizzazione dell’obbligo contributivo ed il necessario loro collegamento con la sussistenza del rapporto di lavoro da cui l’obbligazione contributiva trae origine quale fatto generatore dell’obbligo stesso. È, inoltre, evidente la differenza esistente tra la finalità di mera sospensione dell’adempimento di obblighi già esistenti al momento del sisma, e quella di eccettuazione dall’obbligo contributivo per imprese che, pur non trovandosi a dover affrontare le ovvie difficoltà derivanti dal verificarsi del sisma e dal dover adempiere agli obblighi contributivi per i propri dipendenti, decidono di procedere a nuove assunzioni, evidentemente previa positiva valutazione di economicità della medesima scelta.

In tema di benefici contributivi concessi ai lavoratori del settore dell’amianto, nella forma della rivalutazione contributiva, Sez. L, n. 02007/2022, Marchese, Rv. 663667-01, ha precisato che l’art. 3, comma 132, della l. n. 350 del 2003, - con riferimento alla nuova disciplina introdotta dall’art. 47, comma 1, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003 - ha esteso il previgente e più favorevole regime previsto dall’art. 13 della l. n. 257 del 1992 a tutti i lavoratori che, alla data del 2 ottobre 2003, avessero avanzato richiesta all’Inail per la certificazione dell’esposizione all’amianto, mentre Sez. L, n. 30264/2022, De Felice, Rv. 665836-01 ha chiarito che il disposto dell’art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992 va interpretato nel senso che anche per i lavoratori che siano stati esposti al rischio dell’amianto per un periodo ultradecennale sia rivalutabile il solo periodo di lavoro di effettiva e provata esposizione al rischio e non già l’intero periodo coperto da assicurazione obbligatoria contro l’amianto (cioè, in pratica, l’intero periodo di assicurazione all’INAIL, nel quale è ricompreso, fra i tanti, anche il rischio dell’amianto), atteso che, da un lato, tale estensione comporterebbe un’ingiustificata discriminazione nei confronti dei lavoratori delle cave e delle miniere di amianto e di quelli colpiti da malattie causate dallo stesso materiale, e, dall’altro, che la locuzione “intero periodo lavorativo” deve essere intesa - alla luce delle finalità della l. n. 257 del 1992, evidenziate anche da Corte cost, nella sentenza n. 5 del 12 gennaio 2000 - come periodo caratterizzato dal rischio di contrarre malattie, periodo, quindi, in cui vi sia stata esposizione qualificata al rischio di asbestosi.

Sempre in tema di benefici previdenziali per i lavoratori esposti all’amianto, Sez. L, n. 37045/2022, Calafiore, Rv. 666214-01, ha affermato che l’art. 13, comma 7, della l. n. 257 del 1992, laddove individua, quale presupposto per il riconoscimento del beneficio contributivo, una malattia di cui l’INAIL abbia documentato l’origine da esposizione all’amianto, non richiede anche che la stessa malattia sia indennizzabile.

5. Totalizzazione e ricongiunzione dei periodi assicurativi a fini previdenziali.

Diverse nel corso del 2022 le pronunce relative alla totalizzazione dei contributi ed alla ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali.

Sez. L, n. 29966/2022, Buffa, Rv. 665824-01, in relazione ad una domanda di totalizzazione della contribuzione versata quale promotore finanziario all’Enasarco, ha affermato che il regime del cumulo dei contributi versati presso diverse gestioni previdenziali, di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 42 del 2006, consente la totalizzazione a condizione che i periodi assicurativi non siano coincidenti sicché ne va esclusa l’applicabilità agli agenti e rappresentanti di commercio il cui trattamento pensionistico, gravante sul fondo di previdenza gestito dall’Enasarco, non sostituisce il regime generale con caratteri di esclusività ed autonomia ma lo integra, con persistente e contemporanea obbligatorietà dell’iscrizione all’INPS.

Quanto alla tematica della rinuncia alla ricongiunzione di periodi assicurativi, nella specie maturati nel fondo speciale elettrici e nell’AGO, Sez. L, n. 03576/2022, Calafiore, Rv. 663836-01 statuisce che la norma dell’art. 5, commi 2 e 3, della l. n. 29 del 1979, che disciplina la facoltà di ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali, nel contemplare che, ove l’interessato che si sia avvalso di tale facoltà, non versi, in tutto od almeno per la parte corrispondente alle prime tre rate, l’ammontare dell’onere a suo carico entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del provvedimento di ammissione al beneficio, si intende che egli abbia rinunciato alla facoltà medesima, configura un’ipotesi di presunzione assoluta, che non ammette prova contraria.

Sempre in tema di rinuncia e dei suoi effetti, in tema di ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali, di cui agli artt. 1 e 2 della l. n. 29 del 1979, relativi alla posizione assicurativa aperta presso l’INPDAP, Sez. L, n. 30031/2022, Calafiore, Rv. 665829-01, precisa che, in seguito alla cd. rinuncia ad una domanda accettata non può essere presentata una nuova domanda di ricongiunzione fuori dai limiti di cui all’art. 4 della citata legge, in quanto il procedimento di ricongiunzione si perfeziona con l’accettazione della domanda e, pertanto, la predetta rinuncia non è idonea a determinare l’annullamento del procedimento amministrativo.

Quanto alla ricongiunzione dei periodi assicurativi presso altri entri previdenziali, va segnalata la già citata Sez. L, n. 29767/2022, Mancino, Rv. 665776-01, che richiede, ai fini del conseguimento della pensione di anzianità con i più favorevoli requisiti prescritti dallo Statuto INARCASSA, ai sensi dell’art. 26, comma 3, dello Statuto dell’Ente anteriore al 2013, “ratione temporis” applicabile, il perfezionamento del negozio di ricongiunzione ed il tempestivo adempimento dello stesso.

6. L’incremento occupazionale e gli incentivi all’assunzione.

L’unica pronuncia del 2022 in tema di incentivi all’occupazione, ne affronta il profilo della revoca dell’erogazione di fondi concessi per il raggiungimento di obiettivi occupazionali. Sez. 1, n. 21060/2022, Marulli, Rv. 665362-01, infatti, afferma il principio della revocabilità dei fondi previsti dall’art. 1 ter d.l. n. 148 del 1993, conv. con modif. in l. n. 236 del 1993, in conseguenza del mancato raggiungimento degli obiettivi occupazionali da parte degli assegnatari dei fondi, atteso che, come si evince dall’intitolazione (“Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione”) e dal contenuto complessivo dell’intero testo normativo (cfr., tra gli altri, gli artt. 2, 4, 5, 7 d.l. cit.), il contributo alla crescita occupazionale costituisce l’obiettivo primario degli interventi programmati in attuazione degli obblighi assunti dagli assegnatari dei fondi, che devono essere volti ad incrementare i livelli occupazionali mediante la “creazione di nuove iniziative produttive e di riconversione dell’apparato produttivo esistente”.

7. Omissione contributiva e posizione del lavoratore.

Oggetto di particolare attenzione nel corso del 2022 risulta essere stata ancora una volta la linea di demarcazione tra la fattispecie di evasione contributiva e quella di omissione contributiva. In particolare, Sez. L, n. 20446/2022, Cavallaro, Rv. 665117-01, in tema di obblighi contributivi verso le gestioni previdenziali e assistenziali, ha affermato che l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS attraverso i modelli DM10, circa i rapporti di lavoro e le retribuzioni erogate, integra un’“evasione contributiva” ex art. 116, comma 8, lett. b), della l. n. 388 del 2000, e non la meno grave “omissione contributiva” di cui alla lettera a) della medesima norma, dovendosi presumere una finalità datoriale di occultamento dei dati, sicché grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’assenza d’intento fraudolento.

Ancora sul confine tra evasione ed omissione, Sez. L, n. 17970/2022, Calafiore, Rv. 664855-01 ha precisato che in tema di sanzioni per violazioni degli obblighi contributivi nei confronti della gestione separata INPS, lo stato di incertezza sulla sussistenza dell’obbligo contributivo, che consente di attribuire i connotati della buona fede alla posizione del contribuente, non assume rilevanza all’interno della possibile alternativa tra omissione ed evasione contributiva, ma esclusivamente nell’ambito delle specifiche disposizioni di cui all’art. 116, commi 10 e 15, lett. a), della l. n. 388 del 2000, che attenuano grandemente il carico sanzionatorio ma presuppongono l’avvenuto pagamento della contribuzione non versata. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha affermato l’irrilevanza della buona fede dell’avvocato che, negando l’obbligo contributivo, non aveva versato la contribuzione pretesa, dichiarando comunque non dovute le sanzioni, alla luce della pronunzia della Corte cost. n. 104 del 2022 di illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, nella parte in cui non prevede che gli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle soglie di reddito o di volume d’affari, di cui all’art. 22 della l. n. 576 del 1980, tenuti all’obbligo di iscrizione alla Gestione separata costituita presso l’INPS, siano esonerati dal pagamento delle sanzioni civili per l’omessa iscrizione con riguardo al periodo anteriore alla sua entrata in vigore).

Sez. 6-L, n. 32218/2022, Bellè, Rv. 665987-01, affronta, invece, la questione dell’efficacia probatoria del “ruolo di equipaggio” nel giudizio instaurato dall’ente previdenziale per ottenere dal proprietario di un natante il pagamento di contributi assicurativi in relazione ai marittimi imbarcati, affermando che le annotazioni del ruolo di equipaggio hanno efficacia di prova legale ex art. 178 c.n., trattandosi di annotazioni eseguite dall’autorità marittima, che dimostrano la sussistenza di un contratto di arruolamento, stipulato anch’esso, ai sensi dell’art. 328 c.n., per atto pubblico.

Sui rapporti tra controversie aventi ad oggetto il versamento dei contributi omessi e controversie aventi ad oggetto l’erogazione delle prestazioni assicurative Sez. L, n. 03422/2022, Calafiore, Rv. 663835-01 ha precisato che non sono litisconsorti necessari il lavoratore e il datore di lavoro, rispettivamente, nelle controversie fra il secondo e l’Ente previdenziale, aventi ad oggetto il versamento dei contributi, e in quelle, fra il primo e lo stesso Ente, aventi ad oggetto l’erogazione delle prestazioni assicurative, poiché, pur essendo il rapporto di lavoro e quello previdenziale connessi, rimangono, comunque, rapporti diversi e in siffatte controversie l’accertamento con forza di giudicato è chiesto solo con riferimento al rapporto previdenziale per le obbligazioni che ne derivano, di guisa che l’insorgere di una contestazione fra le parti circa la sussistenza del rapporto di lavoro non implica necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’uno o dell’altro soggetto di quello stesso rapporto, rimasto estraneo alla causa in corso, potendo la relativa questione essere risolta in via meramente incidentale, al limitato fine dell’accertamento dei presupposti suddetti, senza che tale soggetto subisca pregiudizio da una decisione “incidenter tantum”, inidonea a costituire giudicato nei suoi confronti.

8. Accertamento e riscossione.

Sul piano dell’accertamento e della riscossione, in relazione ad omissioni contributive, Sez. L, n. 00183/2022, Spaziani, Rv. 663504-01, precisa che l’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 46 del 1999, nel prevedere espressamente che la riscossione dei contributi o premi dovuti agli enti previdenziali non versati dal debitore nei termini di legge ovvero di quelli dovuti a seguito di accertamento d’ufficio, ivi comprese le sanzioni e le somme aggiuntive, avviene mediante iscrizione a ruolo da effettuarsi entro i termini di decadenza previsti dall’art. 25 del citato d.lgs., esclude l’applicabilità della procedura di cui alla l. n. 689 del 1981 e la necessità di atti prodromici per la validità della riscossione. Ne consegue che, ove sia stata proposta opposizione in sede amministrativa contro l’atto di accertamento ispettivo, l’ente previdenziale deve procedere all’iscrizione a ruolo anche se non sia intervenuta alcuna decisione in sede di gravame, senza che la mancata risposta dell’organo competente configuri un tacito accoglimento dell’opposizione o determini l’impossibilità di dare corso alla riscossione.

Sempre in tema di riscossione dei crediti previdenziali, ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, in ordine ai vizi attinenti al merito della pretesa contributiva, Sez. U, n. 07514/2022, Esposito, Rv. 664407-01 ha affermato che, nell’ipotesi di opposizione tardiva recuperatoria avverso l’iscrizione a ruolo, al fine di far valere l’inesistenza del credito portato dalle cartelle per omessa notificazione, anche per il maturare della prescrizione, la legittimazione a contraddire compete al solo ente impositore, quale unico titolare della situazione sostanziale dedotta in giudizio, sicché, in caso di proposizione nei confronti del solo concessionario, non trovando applicazione i meccanismi di cui agli artt. 107 o 102 c.p.c., il ricorso va rigettato per carenza di legittimazione passiva in capo al concessionario medesimo, quale mero destinatario del pagamento ex 1188 c.c.. Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi in ordine alla sussistenza o meno di un litisconsorzio necessario tra lo stesso agente della riscossione e l’ente creditore, e se, anche ove venisse escluso il litisconsorzio, fosse comunque ravvisabile una legittimazione passiva dell’agente della riscossione ai sensi dell’art. 39 del d.lgs. n. 112 del 1999, muovono dalla natura dell’azione, qualificando come opposizione all’esecuzione l’azione proposta tardivamente (ossia scaduto il termine previsto dall’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999) dal debitore che chieda l’accertamento negativo del credito iscritto a ruolo, sia per infondatezza della pretesa che per l’intervenuta prescrizione a causa della mancata notifica della cartella. Tale natura non è esclusa dalla circostanza che il ricorrente lamenti l’omessa notifica, poiché tale contestazione è funzionale al “recupero” della tempestività dell’opposizione altrimenti tardiva. Da tale premessa, e dalla specificità della normativa previdenziale rispetto a quella tributaria e relativa alle sanzioni amministrative, le Sezioni Unite fanno discendere che nell’ipotesi di opposizione tardiva avverso l’iscrizione a ruolo di crediti previdenziali, la legittimazione a contraddire - al fine di far valere l’inesistenza del credito portato dalle cartelle per omessa notificazione e/o per il maturare della prescrizione - compete al solo ente impositore. Infine, le Sezioni Unite rilevano come, nella riscossione mediante ruolo dei crediti previdenziali, non trova applicazione l’art. 29 del d.lgs. n. 112 del 1999, né le “soluzioni” adottate in altri settori, come la legittimazione passiva concorrente tra ente impositore e agente per la riscossione (in ambito tributario) o la legittimazione passiva congiunta nel caso di opposizione all’ordinanza-ingiunzione da illecito amministrativo.

In ordine alla ritualità della notifica della cartella esattoriale relativa a contributi previdenziali, eseguita direttamente mediante raccomandata con avviso di ricevimento ai sensi dell’art. 26, comma 1, seconda parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, Sez. L, n. 04160/2022, Mancino, Rv. 663872-01, ha affermato che, qualora la consegna del piego sia avvenuta a mani di un familiare dichiaratosi convivente con il destinatario, deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza del destinatario medesimo, restando a carico di quest’ultimo l’onere di provare il contrario, senza che a tal fine rilevino le sole certificazioni anagrafiche che indichino una diversa residenza del consegnatario dell’atto.

In relazione, invece, alla prova della ritualità della notifica stessa, Sez. L, n. 24813/2022, Marchese, Rv. 665467-01 ha escluso che la tardiva costituzione in giudizio del concessionario sia di ostacolo, “ex se”, all’acquisizione d’ufficio del documento indispensabile ai fini della decisione, specie nelle controversie in cui, venendo in considerazione la scissione oggettiva tra ente impositore e concessionario della riscossione, assume rilevanza l’acquisizione di ogni documento relativo ad atti della procedura di riscossione da cui derivino conseguenze nei rapporti tra creditore e debitore, con il solo limite dell’avvenuta allegazione dei fatti.

Sul piano dei rapporti fra la riscossione coattiva ed il procedimento giudiziario, Sez. 6-1, n. 06767/2022, Mercolino, Rv. 664062-01 in tema di riscossione dei crediti della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense a mezzo del ruolo, ha precisato che il suo annullamento per crediti inferiori ad euro 2.000,00, incidendo solo sulla procedura di riscossione, non coincide con l’annullamento del credito sottostante, che potrà essere successivamente azionato dall’ente secondo l’ordinaria procedura.

Quanto all’applicazione del regime di solidarietà previsto in tema di appalto di opere o di servizi, sotto il profilo dei soggetti obbligati, Sez. 6-L, n. 30100/2022, Ponterio, Rv. 665808-01 ha affermato che la responsabilità solidale del committente ex art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 opera nei confronti dei soggetti privati, anche se committenti di appalti pubblici (nella specie ANAS S.p.A.), senza che ad essi trovi applicazione l’esenzione prevista per le pubbliche amministrazioni dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto la tutela dei principi di evidenza pubblica del codice degli appalti incide su di un piano diverso da quello cui è rivolta la predetta responsabilità solidale, intesa piuttosto a rafforzare la protezione dei lavoratori, concedendo agli stessi un’azione diretta verso il committente per ottenere i trattamenti retributivi ed i contributi previdenziali dovuti in relazione allo svolgimento dell’appalto. Sez. L, n. 07815/2022, Pagetta, Rv. 664123-01, in ipotesi di successione senza soluzione di continuità di più contratti con il medesimo appaltatore, ha precisato che il termine di decadenza biennale - previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, nel testo “ratione temporis” applicabile - per far valere la responsabilità solidale del committente quanto ai trattamenti retributivi ed ai contributi previdenziali dovuti dall’appaltatore ai dipendenti, decorre dalla cessazione del rapporto contrattuale e non dalla data di scadenza dei singoli contratti intervenuti in relazione al medesimo appalto tra committente ed appaltatore, in quanto la data in questione potrebbe non essere conosciuta dal lavoratore, sicché, in coerenza con la “ratio” ispiratrice della norma - che è quella di assicurare un’ampia ed effettiva tutela del lavoratore medesimo - il predetto termine deve essere ancorato al dato fattuale, facilmente ed immediatamente percepibile dal beneficiario della garanzia, rappresentato dalla cessazione effettiva dell’appalto al quale egli era addetto.

9. La prescrizione dei crediti contributivi.

Quanto alla decorrenza della prescrizione Sez. L, n. 28565/2022, Calafiore, Rv. 665765-01 ha affermato che, a seguito dell’impugnazione della sentenza d’appello per violazione della disciplina sulla sospensione della prescrizione (nella specie, con riguardo all’occultamento doloso del debito contributivo, ai sensi dell’art. 2941, comma 1, n. 8, c.c.), l’intera fattispecie della prescrizione, anche con riguardo alla decorrenza del “dies a quo”, rimane “sub iudice” e rientra, pertanto, nei poteri del giudice di legittimità valutare d’ufficio, sulla scorta degli elementi ritualmente acquisiti, la corretta individuazione del termine iniziale di decorrenza, in quanto aspetto logicamente preliminare rispetto alla sospensione dedotta con il ricorso; inoltre, la mancata proposizione di specifiche censure non determina la formazione del giudicato interno su tale “dies a quo” (nella specie, in tema di contributi, differito dal d.P.C.M. 10 giugno 2010, in applicazione dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 241 del 1997), in quanto il giudicato, destinato a formarsi su un’unità minima di decisione che ricollega a un fatto, qualificato da una norma, un determinato effetto, investe la statuizione che dichiara prescritto un diritto e non le mere affermazioni, inidonee a costituire una decisione autonoma, sui singoli elementi della fattispecie estintiva, come la decorrenza del “dies a quo”.

In ordine alla decorrenza della prescrizione della maggiorazione contributiva prevista in conseguenza dell’esposizione all’amianto, per Sez. 6-L, n. 14599/2022, De Marinis, Rv. 664672-01, in conformità a Sez. 6-L, n. 2856/2017, Mancino, Rv. 642547-01 essa, incidendo su un autonomo diritto e non sulla rivendicazione di una componente del credito previdenziale, è definitiva e non limitata ai singoli ratei, e decorre dal momento in cui il lavoratore abbia la consapevolezza della suddetta esposizione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva fatto decorrere la prescrizione dal pensionamento del lavoratore, anziché dall’istanza amministrativa inoltrata all’INPS per il riconoscimento dell’esposizione).

Quanto alla prescrizione del credito per le sanzioni civili relative alle omissioni contributive, Sez. L, n. 29751/2022, Mancino, Rv. 665819-01, confermando principi già espressi da Sez. L, n. 31945/2019, De Marinis, Rv. 656004-01 e da Sez. L, n. 2620/2012, La Terza, Rv. 621124-01, precisa che il credito per le sanzioni civili relative alle omissioni contributive è assoggettato al medesimo termine di prescrizione di queste ultime, traendo origine da un’obbligazione accessoria “ex lege” che possiede la stessa natura giuridica di quella principale. (Fattispecie in tema di sanzioni civili connesse al pagamento di contributi dovuti alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza per Ingegneri ed Architetti soggetti, a far data dal 1° gennaio 1996, al termine di prescrizione quinquennale).

In tema di interruzione della prescrizione del credito contributivo, invece, Sez. L, n. 24858/2022, Gnani, Rv. 665472-01, in continuità con quanto già statuito da Sez. L, n. 18140/2020, Ghinoy, Rv. 658644-01, afferma che il verbale di accertamento relativo ad omissioni contributive, ritualmente notificato, vale a costituire in mora il contribuente e, ai sensi dell’art. 2943 c.c., interrompe il decorso del termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute.

In tema di contestazioni sull’ammontare del trattamento pensionistico, Sez. L, n. 31527/2022, Marchese, Rv. 665981-01 afferma che, in materia di previdenza obbligatoria (quale quella gestita dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994) la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2948, n. 4, c.c. - così come dall’art. 129 del r.d.l. n. 1827 del 1935 - richiede la liquidità ed esigibilità del credito, che deve essere posto a disposizione dell’assicurato, sicché, ove sia in contestazione l’ammontare del trattamento pensionistico, il diritto alla riliquidazione degli importi è soggetto alla ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. (Nella specie, la S.C. ha affermato che l’azione di restituzione delle trattenute operate sulla pensione dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei dottori commercialisti a titolo di contributo di solidarietà è soggetta al termine di prescrizione decennale, non essendo i ratei trattenuti liquidi ed esigibili).

  • indennità di licenziamento
  • assicurazione di disoccupazione
  • regime pensionistico
  • condizione di pensionamento
  • disoccupazione
  • indennità parentale

CAPITOLO XXI

LE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 La domanda amministrativa. - 2 La decadenza dall’azione giudiziaria. - 3 L’anzianità contributiva. - 4 La contribuzione figurativa e le maggiorazioni contributive. - 5 Le prestazioni pensionistiche. - 6 Gli assegni familiari. - 7 Indennità di maternità. - 8 Indennità di mobilità. - 9 Indennità di disoccupazione. - 10 L’indebito previdenziale.

1. La domanda amministrativa.

Per il riconoscimento delle prestazioni previdenziali è necessaria una preventiva presentazione di una domanda amministrativa con cui il soggetto interessato manifesti all’ente competente la volontà di ottenerne l’attribuzione.

La domanda amministrativa costituisce un presupposto indispensabile attraverso il quale si dà l’impulso all’inizio di un procedimento amministrativo a formazione progressiva e si determina il momento in cui sorgerà l’eventuale obbligazione di pagamento a carico dell’ente tenuto all’erogazione. La domanda amministrativa costituisce un presupposto dell’azione, la cui mancanza determina la radicale improponibilità della domanda giudiziale e può essere rilevata, anche d’ufficio, dal giudice in ogni stato e grado del giudizio, senza che tale difetto possa essere sanato dalla presentazione di una domanda amministrativa concernente prestazione previdenziale diversa, ancorché compatibile con quella poi richiesta in giudizio

Sul piano processuale, Sez. L, n. 10745/2022, Cavallaro, Rv. 664334-01, ha affermato che l’improponibilità della domanda giudiziaria derivante dalla mancata presentazione della domanda amministrativa all’ente previdenziale determina una temporanea carenza di giurisdizione, la quale, tuttavia, non è assimilabile al difetto assoluto di giurisdizione di cui agli artt. 37 e 382, comma 3, c.p.c., che si ha solo quando la situazione dedotta in giudizio resti al di fuori del campo giuridico per difetto di una norma o di un principio dell’ordinamento che la tuteli e non sia, quindi, neppure in astratto configurabile come diritto soggettivo o come interesse legittimo. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha ritenuto precluso l’esame della questione di giurisdizione, essendo intervenuto il giudicato implicito sulla statuizione del primo giudice che, dichiarando improponibile la domanda per difetto di presentazione della domanda amministrativa, aveva implicitamente affermato la propria cognizione sul merito).

Sez. L, n. 30032/2022, Calafiore, Rv. 665830-01, invece, dalla premessa che tra la domanda amministrativa di riconoscimento dell’assegno di invalidità ex art. 1 della l. n. 222 del 1984, previamente presentata, e quella di pensione di inabilità ex art. 2 della stessa legge, non sussiste un rapporto di continenza in quanto, a differenza che nell’ipotesi inversa, nella prima non può ritenersi contenuta la seconda, fa discendere che, ove l’interessato abbia chiesto in via amministrativa unicamente l’assegno di invalidità, la domanda di pensione di inabilità formulata nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado deve ritenersi improponibile per mancanza della preventiva domanda amministrativa ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970.

Sez. L, n. 31337/2022, Cavallaro, Rv. 666174-01 in tema di rendita vitalizia ex art. 13 della l. n. 1338 del 1962, afferma che qualora il lavoratore agisca giudizialmente per ottenerne la costituzione la preventiva presentazione della domanda amministrativa non è condizione di proponibilità della domanda giudiziale, poiché la rendita non integra una prestazione previdenziale, rappresentando la sua costituzione un modo per rimediare all’inadempimento datoriale dell’obbligazione contributiva e ai danni che ne siano potuti derivare al lavoratore.

Per quanto attiene ai termini di decadenza per la proposizione della domanda amministrativa, Sez. L, n. 10747/2022, Cavallaro, Rv. 664302-01 in tema di indennità di disoccupazione, precisa che, ai fini del riconoscimento dell’indennità di mobilità di cui all’art. 7, comma 12, della l. n. 223 del 1991, costituente un trattamento di disoccupazione di fonte legale, è necessaria la proposizione di specifica domanda amministrativa all’Istituto previdenziale, nel termine di decadenza di sessantotto giorni dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, essendo irrilevante che lo stesso sia regolare o irregolare e che la sua causa di estinzione si sia prodotta in modo formale o meno. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto decaduto dal diritto all’indennità di mobilità il lavoratore che aveva presentato la domanda amministrativa oltre il suddetto termine, non attribuendo rilevanza né alla mancata adozione, da parte dell’azienda, della procedura di collocamento in mobilità a causa dell’occupazione irregolare degli altri colleghi di lavoro, né all’avvenuto riconoscimento giudiziale, solo successivamente al licenziamento del lavoratore medesimo, dei presupposti per l’iscrizione nelle liste di mobilità).

Sullo stesso tema, Sez. L, n. 10744/2022, Cavallaro, Rv. 664345-01, chiarisce, altresì, che in materia di indennità di mobilità, il decorso dei sessanta giorni per la presentazione della domanda di ammissione al beneficio, previsti dall’art. 129, comma 5, del r.d.l. n. 1827 del 1935 - giusta il rinvio ad esso operato dall’art. 7, comma 12, della l. n. 223 del 1991 -, determina la decadenza dal diritto, trattandosi di termine stabilito nell’interesse alla certezza di una determinata situazione giuridica, la cui proroga, sospensione o interruzione è ammessa solo in casi eccezionali, tassativamente previsti dalla legge, sicché è irrilevante il mancato esercizio dovuto ad una situazione di mera difficoltà, non riconducibile al concetto normativo di “forza maggiore”.

2. La decadenza dall’azione giudiziaria.

L’art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639, così come sostituito dall’art. 4 del d.l. 19 settembre 1992 n. 384, convertito con modificazioni dalla l. 14 novembre 1992 n. 438, prevede tre diversi criteri di decorrenza dei termini (di tre anni o di un anno, a seconda del tipo di prestazione erogata dall’INPS) per la proposizione dell’azione in giudizio: 1) dalla data di comunicazione della decisione del ricorso; 2) dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronuncia di detta decisione; 3) dalla data di scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione.

In sostanza, quindi, una volta proposta la domanda amministrativa tesa a ottenere una prestazione previdenziale o assistenziale, in caso di diniego (tacito o espresso) da parte dell’INPS è necessario coltivare l’azione giudiziaria entro i termini suesposti, onde evitare di incorrere nella pronuncia di decadenza da parte del giudice adito.

In tema di prestazioni previdenziali riconosciute a favore dei lavoratori socialmente utili, Sez. L, n. 24750/2022, Cavallaro, Rv. 665464-01 afferma che la decadenza dal beneficio, prevista dall’art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 (nel testo modificato dall’art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, conv. con modif. dalla l. n. 438 del 1992), in ragione del decorso del termine annuale per la proposizione dell’azione giudiziaria, può essere sempre rilevata d’ufficio, ai sensi dell’art. 2969 c.c., in ogni stato e grado del processo e, qualora non si richiedano nuovi accertamenti di fatto, anche per la prima volta nel giudizio di cassazione, poiché la materia previdenziale è sottratta alla disponibilità delle parti.

In materia di decadenza ma in relazione all’impugnativa della cancellazione dagli elenchi dei lavoratori agricoli, prevista dall’art. 22 del d.l. n. 7 del 1970, conv., con modif., dalla l. n. 83 del 1970, Sez. L, n. 09165/2022, Buffa, Rv. 664143-01 ha limitato l’operatività della suddetta decadenza ai soli lavoratori agricoli non iscritti o cancellati dagli elenchi, con conseguente venir meno dell’accesso alle prestazioni previdenziali, e non anche nei confronti del datore di lavoro, in relazione ai contributi da questi dovuti (nella specie relativi a rapporti associativi agrari), e ciò in ragione del fatto che il provvedimento di esclusione o cancellazione, peraltro notificato al solo prestatore, non è costitutivo dell’obbligo contributivo previdenziale, che è invece connesso all’effettivo sorgere del rapporto, nonché della regola che pone la decadenza solo nei confronti del soggetto leso dal provvedimento.

Sempre in tema di lavoratori agricoli Sez. L, n. 37974/2022, Marchese, Rv. 666225-01, ha affermato che la notificazione al lavoratore del disconoscimento di giornate lavorative mediante la pubblicazione telematica da parte dell’INPS nel proprio sito internet, ai sensi dell’art. 38, comma 7, del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 43, comma 7, del d.l. n. 76 del 2020, conv. dalla l. n. 120 del 2020, può avere ad oggetto anche giornate lavorative relative all’iscrizione negli elenchi nominativi annuali antecedenti l’entrata in vigore della norma.

3. L’anzianità contributiva.

In relazione al requisito dell’anzianità contributiva per la determinazione dei trattamenti pensionistici, ed in particolare in tema di pensioni di anzianità, Sez. L, n. 29972/2022, De Felice, Rv. 665827-01 afferma che il requisito dei diciotto anni di anzianità contributiva “ante 1995”, previsto dalla l. n. 335 del 1995 al fine dell’integrale calcolo del trattamento col sistema retributivo, deve essere verificato con riferimento alla sola contribuzione non ancora tradottasi nel riconoscimento di una pensione, senza tener conto di eventuali periodi pregressi già liquidati; nel caso di svolgimento di un’attività lavorativa dopo un primo pensionamento sarebbe infatti contrastante con la finalità della riforma computare a tali fini gli stessi contributi che hanno già prodotto il riconoscimento del trattamento pensionistico in godimento, vanificando l’intento primario voluto dal legislatore, consistente nel garantire la sostenibilità del sistema, pur tutelando, in via residuale, coloro che per avere al loro attivo una lunga anzianità contributiva, si vedrebbero penalizzati dall’introduzione del sistema di calcolo contributivo.

In tema di prestazioni pensionistiche in favore del personale di volo, Sez. L, n. 30033/2022, Calafiore, Rv. 665834-01 precisa che ai fini della determinazione del limite massimo di retribuzione pensionabile di cui all’art. 8 della l. n. 29 del 1979 deve aversi riguardo agli anni di effettiva iscrizione al Fondo Volo, così come previsto dalla citata disposizione, senza che rilevino al riguardo la contribuzione derivante da riscatti o ricongiunzioni di periodi assicurativi.

4. La contribuzione figurativa e le maggiorazioni contributive.

Ai fini della determinazione dell’anzianità contributiva necessaria per il riconoscimento delle prestazioni previdenziali assume notevole importanza il riconoscimento “ex lege” di periodi di contribuzione figurativa.

Sul punto, Sez. L, n. 06346/2022, De Felice, Rv. 664007-01 in relazione ai lavoratori socialmente utili, ha chiarito che la contribuzione figurativa a carico dell’INPS sussiste indipendentemente dalla iscrizione nelle liste di mobilità, per tutti i periodi d’impegno nelle attività di pubblica utilità, senza alcun limite temporale, come si evince dall’interpretazione letterale del combinato disposto degli artt. 10, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2000, e 8, comma 19, del d.lgs. n. 468 del 1997; detto principio vale anche per i lavoratori di pubblica utilità e ciò in ragione del rilievo che il rapporto tra le due categorie (LSU e LPU) si pone in termini di specificazione all’interno di quella vasta tipologia di attività finalizzate alla tutela delle fasce deboli sul piano occupazionale e volte facilitarne l’ingresso nel mercato del lavoro.

Sez. L, n. 13767/2022, Mancino, Rv. 664609-01, invece, ha escluso che ai lavoratori stagionali spetti il beneficio della contribuzione figurativa per il collocamento in aspettativa sindacale non retribuita, di cui all’art. 31 della l. n. 300 del 1970, atteso che l’art. 3 del d.lgs. n. 564 del 1996 ha introdotto, quale condizione per il relativo accreditamento, il decorso di un periodo lavorativo effettivo non inferiore ai sei mesi, che vanifica, di fatto, la possibilità di beneficiare, nel periodo del collocamento in aspettativa, della contribuzione figurativa per lavoratori il cui rapporto a termine ha, per sua natura e per tipo di attività cui inerisce, una durata inferiore a un anno, anche di pochi mesi, senza che sia possibile ricondurre più contratti stagionali ad un unico rapporto; né tale esclusione viola gli artt. 4, 35 e 39 Cost., in relazione alla posizione dei lavoratori in part-time ciclico, trattandosi di situazioni non comparabili, né sussiste una compromissione del diritto dei lavoratori stagionali all’azione sindacale, ben potendo gli interessi della categoria essere rappresentati mediante l’ordinaria attività di promozione e proselitismo in ambito aziendale o mediante l’assunzione, con i relativi oneri contributivi, quali dipendenti dell’organizzazione.

In tema di maggiorazioni contributive Sez. L, n. 30636/2022, Marchese, Rv. 665842-01 ha, in via preliminare chiarito che il diritto alla maggiorazione contributiva, prevista ai sensi dell’art. 80, comma 3, della l. n. 388 del 2000 in favore di lavoratori svantaggiati dalle loro condizioni di salute (sordomuti, minorati sensoriali dell’udito, invalidi civili, con invalidità superiore al 74%, affetti da minorazioni congenite o acquisite, invalidi di guerra, civili di guerra e invalidi per cause di servizio nel rapporto di pubblico impiego con le Amministrazioni statali o gli enti locali) spetta all’interessato a prescindere dalla domanda di accertamento del diritto a pensione, atteso che la norma, al fine di riconoscere una particolare e preventiva tutela a determinate categorie di lavoratori, svantaggiate dalle loro condizioni di salute, attribuisce il beneficio dell’accredito di due mesi, per ogni anno di attività prestata come invalido con grado superiore al 74%, ancor prima del verificarsi degli ulteriori eventi condizionanti il diritto all’erogazione del trattamento pensionistico; ne consegue che sussiste l’interesse ad agire per il riconoscimento della maggiorazione contributiva, previo accertamento del requisito sanitario che lo legittima, quale diritto distinto ed autonomo rispetto al diritto a pensione e non mero elemento frazionato di esso. La pronuncia chiarisce, altresì, come tale affermazione non si pone in contrasto con i principi espressi da Sez. 6-3, n. 9877/2021, non massimata sul punto, per la diversità delle fattispecie esaminate. Nel caso oggetto della pronuncia n. 9877 del 2021, infatti, il ricorrente aveva chiesto, con la domanda originaria, (solo) l’accertamento dell’invalidità nella misura di almeno il 74%, o in subordine nella misura del 67%, a decorrere dalla data della domanda amministrativa. Correttamente, dunque, la Corte, in continuità con precedenti arresti (in particolare sulla scia del principio di Sez. U, n. 27187 del 2006 e con richiamo di Cass. n. 25395 del 2016; n. 9013 del 2016 e n. 9960 del 2005) ha osservato come, in assenza di un’espressa domanda amministrativa all’INPS per il riconoscimento dei relativi contributi figurativi ai fini pensionistici, non fosse proponibile un’azione di mero accertamento del grado di invalidità richiesto, che costituisce solo un elemento frazionistico del diritto alla maggiorazione da accertarsi, invece, nella sua interezza.

5. Le prestazioni pensionistiche.

In tema di pensione di inabilità ordinaria, di cui all’art. 2 della l. n. 222 del 1984, ed in relazione al momento di individuazione del coefficiente di trasformazione, Sez. L, n. 30812/2022, Marchese, Rv. 665845-01 ha affermato che va applicato il coefficiente di trasformazione vigente alla data di decorrenza della prestazione, e non quello applicabile alla data di perfezionamento dei requisiti costitutivi del diritto a pensione, e ciò in quanto il metodo di calcolo del contenuto della provvidenza deve essere quello applicabile al verificarsi delle condizioni dell’erogazione, come desumibile dall’art. 1, comma 14, della l. n. 335 del 1995, che, anche ai fini della individuazione del coefficiente applicabile alla pensione di invalidità, attribuisce rilievo all’età dell’assicurato al momento «dell’attribuzione» del beneficio.

In tema di regole di accesso ai trattamenti pensionistici, con quattro sentenze coeve (nn. 31334, 31335, 31336 e 31339 tutte del 24/10/2022) la Suprema Corte ha esaminato i rapporti tra il progressivo irrigidimento delle regole di accesso al trattamento pensionistico determinato dall’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 e le c.d. misure di salvaguardia, al fine di individuare la disciplina applicabile ai lavoratori cd. “salvaguardati”.

La Corte premette che sia l’art. 6, comma 2-ter, del d.l. n. 216 del 2011 (conv. con l. n. 14 del 2012), (sentenza n. 31335), che l’art. 22, del d.l. n. 95 del 2012 (conv. con l. n. 135 del 2012), (sentenze nn. 31334 e 31336) e l’art. 1, comma 265, lett. c), della l. n. 208 del 2015, (sentenza n. 31339) si inseriscono nel novero delle cd. misure di salvaguardia (ma trattasi propriamente di regimi derogatori), di cui già ai commi 14 e 15 dell’art. 24, d.l. n. 201 del 2011 (conv. con l. n. 214 del 2011), i quali, contemporaneamente all’introduzione delle nuove e più severe misure di accesso al trattamento pensionistico di cui all’art. 24, commi 1 ss., d.l. n. 201 del 2011 (emanate allo scopo di “garantire il rispetto degli impegni internazionali e con l’Unione europea, dei vincoli di bilancio, la stabilità economico-finanziaria e a rafforzare la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico in termini di incidenza della spesa previdenziale sul prodotto interno lordo”), hanno previsto che le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore di quest’ultimo continuassero ad applicarsi, rispettivamente, a coloro che li avessero maturati entro il 31.12.2011, alle lavoratrici (autonome e subordinate) che, ex art. 1, comma 9, l. n. 243 del 2004, avessero esercitato o esercitassero entro il 2015 l’opzione per la liquidazione integrale della propria pensione con il (meno favorevole) metodo contributivo e, da ultimo, e “nei limiti del numero di 50.000 lavoratori beneficiari, ancorché maturino i requisiti per l’accesso al pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011”, a tutta un’ulteriore platea di soggetti che, anteriormente all’entrata in vigore della riforma, avevano posto fine al rapporto di lavoro nella prospettiva di maturare il diritto alla pensione avvalendosi di istituti come la mobilità, l’integrazione al reddito a carico dei fondi di solidarietà, la prosecuzione volontaria della retribuzione, l’esonero, l’aspettativa speciale per l’assistenza ai figli disabili gravi o l’incentivo all’esodo (cfr. art. 24, comma 14, d.l. n. 201/2011, cit.).

Com’è stato puntualmente rilevato in dottrina, la riforma pensionistica attuata nel 2011 si è infatti profondamente distaccata dalle modalità con cui, negli anni precedenti, si era proceduto al progressivo inasprimento dei requisiti per l’accesso ai trattamenti pensionistici, avendo sostituito al tradizionale doppio canale di salvaguardia (costituito da un regime transitorio di carattere generale e da uno specifico per i lavoratori in esubero) un unico meccanismo, che non solo è riservato a determinate categorie di lavoratori, ma è da costoro accessibile nei limiti delle risorse finanziarie messe a disposizione.

Nella sua formulazione originaria, il comma 15 dell’art. 24, d.l. n. 201 del 2011, cit., predeterminava, infatti, in 50.000 il numero massimo di lavoratori e lavoratrici beneficiari della deroga e, nell’istituire un “monitoraggio” a carico degli enti previdenziali per ciò che concerneva le domande di pensione formulate in relazione ai requisiti previgenti, prevedeva che “qualora dal predetto monitoraggio risult[asse] il raggiungimento del numero di 50.000 domande di pensione”, gli enti non avrebbero più dovuto prendere “in esame ulteriori domande di pensionamento finalizzate ad usufruire dei benefici previsti dalla disposizione di cui al presente comma”.

Proprio per ciò, l’incidenza originaria della norma - rimasta inalterata nella sua previsione di fondo di circoscrivere il novero dei beneficiari della deroga entro un limite numerico predeterminato (adesso individuato con un decreto ministeriale: cfr. la modifica apportata all’art. 24, comma 15, cit., dall’art. 1, comma 1, l. n. 214 del 2011) - è stata successivamente rimaneggiata sia da disposizioni che hanno riguardato la sua formulazione originaria sia da altre ad essa esterne, che hanno perseguito il duplice scopo ora di ampliare il novero dei beneficiari della deroga, ora di prolungare il periodo della durata di essa: e ciò allo scopo di rimediare al grave problema sociale ingenerato dalla previsione del contingentamento forzoso dei beneficiari dell’ultrattività della precedente e più favorevole disciplina di accesso al trattamento pensionistico, molti dei quali, pur appartenendo alle categorie individuate dal legislatore come meritevoli di conservarla, venivano ad esserne esclusi in base al criterio meramente finanziario dell’esaurimento delle risorse stanziate.

La S.C. sottolinea, dunque, come tutte le norme sopra citate rientrino tra i “rimaneggiamenti” della disciplina originaria; in particolare l’art. 6, comma 2-ter, d.l. n. 216 del 2011, conv. con l. n. 14 del 2012, è finalizzato ad ampliare il novero dei beneficiari della deroga, includendovi anche i lavoratori il cui rapporto di lavoro si sia risolto entro il 31 dicembre 2011, in virtù di accordi collettivi o individuali; l’art. 22, d.l. n. 95/2012, è volto ad ampliare la durata della deroga rispetto a quanto originariamente previsto dall’art. 24, comma 14, d.l. n. 201/2011 e dalle successive modifiche, stabilendo che, “ferme restando le disposizioni di salvaguardia” [...] le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 201 del 2011 continuano ad applicarsi, nel limite di ulteriori 55.000 soggetti, ancorché maturino i requisiti per l’accesso al pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011 [...] ai lavoratori di cui all’articolo 6, comma 2-ter cit., che risultino in possesso dei requisiti anagrafici e contributivi che, in base alla disciplina pensionistica vigente prima della data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 201 del 2011 [...] avrebbero comportato la decorrenza del trattamento medesimo nel periodo compreso fra il ventiquattresimo e il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 201 del 2011; infine l’art. 1, comma 265, lett. c), l. n. 208 del 2015 amplia ulteriormente la durata della deroga medesima rispetto a quanto previsto dall’art. 1, comma 194, l. n. 147/2013, al fine di ricomprendervi anche coloro che, sulla scorta dei requisiti previgenti al d.l. n. 201/2011, avrebbero maturato il trattamento pensionistico entro il sessantesimo mese dall’entrata in vigore dell’art. 24, d.l. n. 201/2011.

Ciò premesso, nella prima delle tre sentenze, Sez. L, n. 31334/2022, Cavallaro, Rv. 665979-01, la S.C. esamina le regole di accesso al pensionamento applicabili ai lavoratori collocati in mobilità anche dopo il 4 dicembre 2011, ai quali l’art. 22, comma 1, lett. a) del d.l. n. 95 del 2012, conv. dalla l. n. 135 del 2012, riconosce la possibilità di beneficiare dell’accesso al pensionamento secondo le più favorevoli regole vigenti prima del d.l. n. 201 del 2011, conv. con l. n. 214 del 2011, chiarendo che ciò avviene a condizione che essi non abbiano conseguito, durante il periodo di fruizione della mobilità, i requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico anche secondo le previsioni dell’art. 24, comma 1 ss., del d.l. n. 201 del 2011, seppure in epoca successiva all’1 gennaio 2014.

Con la seconda, Sez. L, n. 31335/2022, Cavallaro, Rv. 666167-01, la Corte esamina la questione della rilevanza e portata della previsione di cui all’art. 2, comma 2, d.m. 1.6.2012, che – ai fini della concessione del beneficio della deroga - ha previsto che il lavoratore, che alla data del 31.12.2011 si trovasse in possesso dei requisiti dianzi elencati, debba essere rimasto “senza successiva rioccupazione in qualsiasi altra attività lavorativa” fino al conseguimento della pensione, ed afferma che, ai fini dell’applicabilità della clausola di salvaguardia di cui all’art. 24, comma 14, del d.l. n. 201 del 2011, conv. dalla l. n. 214 del 2011, ai lavoratori che hanno risolto il rapporto di lavoro anteriormente al 31.12.2011 in virtù di accordi collettivi o individuali ai sensi dell’art. 6, comma 2 ter, del d.l. n. 216 del 2011, conv. dalla l. n. 14 del 2012, non è necessaria la ricorrenza dell’ulteriore requisito dell’assenza di una “successiva rioccupazione in qualsiasi altra attività lavorativa”, previsto dall’art. 2, comma 2, del d.m. 1 giugno 2012, emanato in attuazione dell’art. 24, comma 15, del predetto d.l., posto che il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 4, comma 1, disp. prel. c.c., e il principio di legalità dell’azione amministrativa, ostano a che un atto normativo di rango secondario possa introdurre requisiti per l’accesso ad una prestazione previdenziale che non siano in alcun modo contemplati dalla fonte primaria che ad esso rinvii per la sua attuazione.

La terza decisione, Sez. L, n. 31336/2022, Cavallaro, Rv. 666168-01, esamina la diversa questione della legittimazione passiva nel giudizio di impugnazione del provvedimento emesso dalla Direzione territoriale del lavoro di diniego della richiesta di ammissione al beneficio della deroga di cui all’art. 22, comma 1, d.l. n. 95/2012, per avere egli prestato altra attività lavorativa in epoca successiva al 31.12.2011, chiarendo che, nel giudizio volto ad impugnare il provvedimento della DTL di diniego della domanda di ammissione al beneficio - ai sensi dell’art. 22, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, conv. dalla l. n. 135 del 2012 - della conservazione dei requisiti di accesso alla pensione vigenti anteriormente alle modifiche di cui all’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, conv. dalla l. n. 214 del 2011, l’unico legittimato passivo è l’INPS, con esclusione di qualsiasi legittimazione (anche concorrente) del Ministero del Lavoro e/o dei suoi organi periferici, atteso che, sebbene l’art. 4 del d.m. 8.10.2012, emanato sulla base della delega conferita dal comma 2 dell’art. 22, cit., preveda che l’istanza di accesso ai benefici vada presentata alla Direzione territoriale del lavoro e che contro l’eventuale diniego può essere proposto riesame alla medesima Direzione, l’oggetto del predetto giudizio è costituito dalla rivendicazione del diritto al trattamento pensionistico, la cui titolarità dal lato passivo fa capo all’INPS.

Infine, Sez. L, n. 31339/2022, Cavallaro, Rv. 666175-01 precisa che in materia di requisiti di accesso e regime delle decorrenze delle pensioni di anzianità, l’art. 1, comma 265, lett. c), della l. n. 208 del 2015 - secondo cui ai lavoratori beneficiari del regime derogatorio “continuano ad applicarsi” le disposizioni vigenti prima dell’entrata in vigore dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, conv. dalla l. n. 214 del 2011 - va interpretato nel senso che il richiamo alla disciplina previgente opera nella sua interezza, ivi compresa quella relativa al progressivo innalzamento dell’età pensionabile. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che tra le disposizioni legislative previgenti andassero incluse quelle della l. n. 247 del 2007, che, a decorrere dall’anno 2013, avevano disposto l’innalzamento alla superiore “quota 97” dei requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso alla pensione).

In ordine alle pensioni di vecchiaia anticipata concesse ai gravi invalidi Sez. L, n. 30791/2022, Cerulo, Rv. 665844-01 ha statuito che l’applicazione della disciplina delle cd. “finestre” - affermata in via generale già da Sez. 6-L, n. 2382/2020, Riverso, Rv. 656988-01 - non determina un trattamento deteriore rispetto ai titolari dell’assegno ordinario d’invalidità, in considerazione del trattamento di complessivo favore riservato ai beneficiari di tale pensione, con particolare riguardo ai requisiti anagrafici e contributivi per accedere alla prestazione in esame e alla facoltà di lavorare nel periodo di attesa del maturare del diritto a pensione; ne consegue la manifesta infondatezza delle eccezioni di illegittimità costituzionale della disciplina dettata dall’art. 12, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla l. n. 122 del 2010, non essendo ravvisabile né la denunciata disparità di trattamento per violazione dell’art. 3 Cost., in considerazione dell’eterogeneità delle fattispecie poste a raffronto, né il dedotto contrasto con l’art. 38 Cost., avendo il legislatore contemperato in maniera non manifestamente irragionevole i diritti tutelati da tale norma con la necessità di tenere conto delle risorse finanziarie disponibili.

In tema di pensione di vecchiaia a carico della gestione separata Sez. L, n. 30256/2022, Mancino, Rv. 665781-01 ha affermato che il momento di decorrenza del trattamento pensionistico, in caso di avvalimento da parte dell’assicurato della facoltà di vedersi computati, nella predetta gestione, anche i contributi versati nell’assicurazione generale obbligatoria, non va individuato nel primo giorno del mese successivo al compimento dell’età pensionabile, ma in quello di presentazione della domanda di opzione, ai sensi dell’art. 3 del d.m. n. 282 del 1996, oltre che dell’art. 6 della l. n. 155 del 1981, atteso che solo da tale data detta contribuzione può costituire parte dell’ammontare contributivo necessario per la liquidazione della pensione richiesta.

In materia di pensioni dei pubblici dipendenti, si segnala Sez. U, n. 28020/2022, Marotta, Rv. 665909-01 che ha affermato la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti in materia di pensioni dei pubblici dipendenti, ex artt. 13 e 62 del r.d. n. 1214 del 1934, in ordine alla controversia concernente l’accertamento della consistenza del monte contributivo, in quanto funzionale al riconoscimento del diritto alla pensione.

Infine, Sez. L, n. 33013/2022, Gnani, Rv. 666032-01 sancisce che in tema di liquidazione della pensione di vecchiaia, l’integrazione al trattamento minimo nei confronti dell’assicurato, prevista dall’art. 21 della Convenzione italo jugoslava del 14 novembre 1957, ratificata con l. n. 885 del 1960, è oggetto di un obbligo sia del Paese di residenza che di quello non residenza, ciascuno tenuto “pro rata” nei confronti del pensionato, in quanto l’art. 22 dell’Accordo amministrativo concluso per dare esecuzione alla Convenzione dispone espressamente che l’ente del Paese di non residenza corrisponde l’integrazione al minimo, per la parte di sua competenza, “unitamente alla pensione da esso dovuta”. Non osta a tale interpretazione l’art. 8, comma 2, l. n. 153 del 1969, sia perché la norma di diritto internazionale pattizio ratificata dall’Italia prevale sul diritto interno, sia perché il citato comma 2 non dispone che l’integrazione al minimo sia a totale carico dello Stato italiano.

6. Gli assegni familiari.

In tema di assegni familiari, Sez. 6-L, n. 16710/2022, Calafiore, Rv. 664743-01, esamina la tematica degli oneri probatori in tema di assegno per il nucleo familiare affermando che l’erogazione dell’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 2 del d.l. n. 69 del 1988, conv. in l. n. 153 del 1988, presuppone la duplice condizione - la cui ricorrenza deve essere provata dall’interessato - dell’effettivo svolgimento di attività lavorativa, nonché della sussistenza del requisito reddituale di cui al comma 10 dello stesso art. 2, per cui l’assegno non spetta se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente è inferiore al settanta per cento del reddito complessivo del nucleo familiare.

Sempre in tema di assegni per il nucleo familiare, ma in relazione a stranieri extra comunitari, Sez. L, n. 33016/2022, Gnani, Rv. 666017-01 afferma che l’assegno per il nucleo familiare in favore dei cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo in Italia non è subordinato al fatto che i familiari siano ivi residenti, in quanto l’efficacia diretta dell’art. 11, paragrafo 1, lett. d), della direttiva 2003/109/CE, come interpretato dalla CGUE nella sentenza del 25.11.2020, in causa C-303/19, impone la parità di trattamento riservata ai cittadini italiani per i quali la residenza dei familiari in Italia non costituisce condizione per l’erogazione del beneficio; ne consegue la disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, della l. n. 153 del 1988, nella sua formulazione vigente “ratione temporis”, laddove subordina a questa condizione il diritto alla prestazione suddetta.

Sez. L, n. 22091/2022, Cavallaro, Rv. 665137-01, invece, evidenzia che la dichiarazione mendace dell’interessato (nella specie, circa il reddito della moglie) comporta, ai sensi dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la perdita - a titolo di sanzione - dell’intero beneficio, dovendo escludersi l’interpretazione secondo cui chi ha dichiarato il falso vada privato solo di quella parte che avrebbe ottenuto con detta dichiarazione, che finirebbe per incentivare le dichiarazioni non veritiere, consentendo al dichiarante infedele, se scoperto, di rischiare di perdere soltanto ciò a cui non aveva diritto e, se non scoperto, di lucrare benefici indebiti.

7. Indennità di maternità.

In tema di indennità di maternità per le lavoratrici madri iscritte alla gestione separata dei collaboratori coordinati e continuativi Sez. L, n. 24754/2022, De Felice, Rv. 665465-01, specifica che, nel caso di successione di due periodi di astensione obbligatoria, l’indennità di maternità relativa al secondo periodo va computata tenendo conto sia dei contributi connessi ai redditi prodotti nei dodici mesi anteriori al periodo indennizzabile, sia dell’ammontare della prima indennità di maternità corrisposta nel medesimo periodo, poiché, ai sensi dell’art. 64 del d.lgs. n. 151 del 2001 e dell’art. 4 del d.m. 4 aprile 2002, per le lavoratrici soggette alla gestione separata la tutela della maternità avviene nelle forme e con le modalità previste per il lavoro dipendente ed eventuali differenziazioni rischierebbero di compromettere diritti tutelati dagli artt. 3, 31 e 37 Cost.

8. Indennità di mobilità.

In tema di indennità di mobilità Sez. L, n. 10744/2022, Cavallaro, Rv. 664345-02 ha affermato che il diritto al conseguimento dell’indennità di mobilità - come di ogni altra prestazione previdenziale per la cui maturazione sia richiesta l’iscrizione in speciali liste o elenchi - può essere accertato “incidenter tantum” dal giudice di merito, indipendentemente dalla previa iscrizione del lavoratore nelle liste o elenchi, o dall’avvenuta cancellazione dagli stessi, mediante verifica della ricorrenza dei relativi presupposti di fatto.

Sez. L, n. 22154/2022, Patti, Rv. 665269-01, poi, elaborando principi espressi da Sez. L, n. 17606/2021, Buffa, Rv. 661518-01 - che aveva ritenuto che in caso di recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il periodo di preavviso non lavorato, per il quale sia corrisposta l’indennità sostitutiva del preavviso assume rilevanza in ambito previdenziale e va computato ai fini del raggiungimento del requisito dei due anni d’iscrizione nell’AGO contro la disoccupazione involontaria per la corresponsione dell’indennità ordinaria di disoccupazione -, ha affermato che l’istituto previdenziale non è esonerato dall’erogazione dell’indennità di mobilità per il periodo coperto dall’indennità di mancato preavviso qualora non sia provato che quest’ultima sia stata effettivamente corrisposta, posto che l’art. 7, comma 12, della l. n. 223 del 1991 rinvia alla normativa che disciplina l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e, quindi, all’art. 73 del r.d.l. n. 1827 del 1935, conv. dalla l. n. 1155 del 1936, che differisce la decorrenza dell’indennità di disoccupazione alla fine del periodo di preavviso solo se l’indennità sostitutiva del preavviso sia stata “pagata” dal datore.

9. Indennità di disoccupazione.

In tema di indennità di disoccupazione Sez. L, n. 30553/2022, De Felice, Rv. 665850-01 ha dato continuità al recente orientamento espresso da Sez. L, n. 28295/2019, Ghinoy, Rv. 655604-01, seguita da Sez. L, n. 17793/2020 e da Sez. L, n. 24950/2021, entrambe non massimate, secondo il quale è legittima l’erogazione dell’indennità di disoccupazione qualora alla pronuncia di illegittimità del licenziamento non faccia seguito la reintegra del lavoratore; ha rilevato che in tal caso, essendo lo stato di disoccupazione, pur sempre frutto dell’atto datoriale di risoluzione e non già della mancata esecuzione del provvedimento giudiziale, esso non perde la propria caratteristica di involontarietà, e, pertanto, l’erogazione della prestazione mantiene la medesima finalità di sostegno al reddito a cui è ordinariamente finalizzata.

10. L’indebito previdenziale.

In tema di indebito previdenziale l’art. 52, comma 2, della l. n. 88 del 1989 stabilisce che le somme erogate indebitamente a titolo previdenziale non sono ripetibili, se non in presenza di dolo dell’interessato.

L’art. 13, comma 1, della l. n. 412 del 1991, norma di interpretazione autentica ma dal contenuto innovativo (Corte cost. sentenza 10 febbraio 1993, n. 39), ha integrato tale regola, stabilendo che la ripetibilità di cui all’art. 52, comma 2, riguarda le somme indebitamente corrisposte per «errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore» e che la ripetibilità sussiste non solo in caso di comprovato dolo nella percezione, ma anche se l’errore sia dovuto ad «omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato» di fatti che egli fosse tenuto a comunicare, salvo risulti che l’ente fosse già a conoscenza di essi.

Dalla combinazione delle predette disposizioni ne deriva che l’indebito pensionistico I.N.P.S., per essere ripetibile, deve derivare da errore imputabile all’ente, oppure occorre che il percettore sia in dolo o abbia omesso la trasmissione di comunicazioni dovute rispetto a dati non noti all’I.N.P.S.

Secondo poi quanto stabilito dal comma 2 dello stesso art. 13, l’I.N.P.S. «procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche e provvede, entro l’anno successivo, al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza».

In applicazione delle predette norme, Sez. L, n. 05984/2022, Cavallaro, Rv. 663999-01 ha precisato che l’irripetibilità dell’indebito previdenziale è subordinata al ricorrere di quattro condizioni: a) il pagamento delle somme in base a formale e definitivo provvedimento; b) la comunicazione del provvedimento all’interessato; c) l’errore, di qualsiasi natura, imputabile all’ente erogatore; d) la insussistenza del dolo dell’interessato, cui è parificata “quoad effectum” la omessa o incompleta segnalazione di fatti incidenti sul diritto, o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall’ente competente, difettando anche una sola delle quali opera la regola della ripetibilità di cui all’art. 2033 c.c. (Nella specie, la S.C. ha escluso la ricorrenza della quarta delle sopraindicate condizioni, essendo l’ente pervenuto a conoscenza di fatti rilevanti non per iniziativa del pensionato, seppure obbligato a comunicarli, ma di un terzo organo di vigilanza, quale l’Ispettorato del Lavoro).

Sez. L, n. 21879/2022, Calafiore, Rv. 665268-01 ha poi affermato che, in caso di annullamento del licenziamento di un dipendente postale, con conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno in misura pari alla differenza fra la retribuzione dovuta e l’importo dei ratei percepiti dopo il licenziamento a titolo di pensione, i ratei di pensione corrisposti devono considerarsi “sine titulo”, per effetto del sopravvenuto venir meno del presupposto (collocamento a riposo) della loro erogazione; ne discende che è il datore di lavoro, che ha ottenuto un indebito arricchimento in ragione della commisurazione del risarcimento del danno al dipendente al trattamento economico differenziale, a dovere restituire all’ente previdenziale le somme corrisposte a titolo di ratei pensionistici, e non il lavoratore, senza che assuma rilievo l’estraneità del primo al rapporto previdenziale, discendendo l’effetto restitutorio dal licenziamento illegittimo.

  • assistenza sociale
  • assicurazione per invalidità
  • assistenza agli invalidi
  • Stato assistenziale

CAPITOLO XXII

LE PRESTAZIONI ASSISTENZIALI

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 Le prestazioni assistenziali. - 2 L’invalidità civile. - 2.1 Le prestazioni di invalidità civile. - 2.2 Altre prestazioni assistenziali. - 3 Le prestazioni a beneficio delle vittime del dovere e di soggetti assimilati. - 4 Le prestazioni ai soggetti danneggiati da emotrasfusioni. - 5 Il rapporto speciale degli LSU. - 6 L’indebito assistenziale.

1. Le prestazioni assistenziali.

In ossequio al dettato costituzionale, le prestazioni assistenziali sono tese a fornire protezione a coloro che sono affetti da inabilita` al lavoro, intesa come incapacità psico-fisica e culturale al lavoro, e da mancanza dei mezzi di sostentamento, in ragione del basso livello reddituale oltre una certa soglia predeterminata per legge; ai sensi dell’art. 38, 1° comma, Cost. la funzione dell’assistenza sociale è quella di assicurare il mantenimento e l’assistenza ai cittadini inabili e bisognosi, attraverso misure di sostegno finanziate esclusivamente dallo Stato.

Le forme di assistenza sociale differiscono da quelle previdenziali per l’assenza del criterio organizzativo-mutualistico e per il finanziamento della spesa interamente posto a carico dello Stato, che vi provvede con le normali entrate fiscali; esse sono realizzate attraverso pubblici servizi - gestiti direttamente dallo Stato o da questi affidati a enti pubblici preesistenti o appositamente creati - che garantiscono prestazioni individuali ai singoli beneficiari, che vanno individuati nella generalità dei cittadini che si vengano a trovare nelle condizioni di cui al primo comma dell’art. 38 Cost.; per fruire delle prestazioni assistenziali non è necessaria alcuna iscrizione a gestioni previdenziali ma è lo Stato, a seconda della sua discrezionalità legislativa, a stanziare determinate somme del bilancio pubblico per i bisogni dei destinatari.

2. L’invalidità civile.

L’art. 38, comma 1, Cost. ha trovato applicazione nell’ordinamento positivo attraverso una serie di leggi ordinarie che riconoscono particolari benefici a carattere economico e non, ai soggetti che si trovano in condizioni fisiche tali da determinare uno stato di invalidità; l’invalidità in questione si definisce invalidità civile perché la sua esistenza non è legata al verificarsi di altra condizione che non quella strettamente fisica e le relative prestazioni vengono riconosciute a prescindere dallo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, e pertanto, dalla sussistenza di un rapporto assicurativo con un ente previdenziale, differenziandosi per questo dalle prestazioni di invalidità previdenziale che invece necessitano dell’iscrizione e del versamento di contribuzione in un fondo pensione gestito dalla previdenza pubblica obbligatoria.

Anche il diritto alle prestazioni assistenziali dovute agli invalidi civili nasce sulla base della domanda amministrativa.

Sul punto merita particolare attenzione Sez. U, n. 14561/2022, Garri, Rv. 664659-01 che, decidendo su questione di massima di particolare importanza ha affermato che, in tema di invalidità civile, ai fini della proponibilità dell’azione giudiziaria con la quale, in caso di revoca di una prestazione assistenziale, si intenda accertare la persistenza dei requisiti costitutivi del diritto alla prestazione di invalidità, non è necessario presentare una nuova domanda amministrativa.

Le Sezioni Unite, condividendo le perplessità manifestate dall’ordinanza interlocutoria in ordine all’orientamento di legittimità, di recente rielaborato, nel senso della necessità di una nuova domanda amministrativa in caso di domanda di ripristino di una prestazione di invalidità civile revocata in sede amministrativa per la carenza dei requisiti, hanno affermato che il complesso sistema di verifica della persistenza dei requisiti per beneficiare della prestazione assistenziale già in godimento, da un canto, e la previsione di rigorosi termini di decadenza per la proposizione dell’azione giudiziaria, dall’altro, mal si coordinano con la necessità di anteporre alla proposizione del ricorso al giudice una nuova domanda amministrativa, in quanto imporre all’invalido, che si sia visto revocare la prestazione, l’obbligo di presentare una nuova domanda amministrativa finisce per precludergli, in contrasto con i principi dettati dagli artt. 24 e 113 Cost., la possibilità di ottenere una piena tutela giurisdizionale del diritto inciso dal provvedimento adottato dall’amministrazione senza alcuna valida giustificazione.

La domanda amministrativa trova, infatti, la sua ragione d’essere nell’esigenza di provocare una verifica anticipata, in sede amministrativa, dell’esistenza dei requisiti per ottenere la prestazione, laddove, nel caso in cui si contesti il venir meno dei requisiti sanitari e socioeconomici della prestazione già in godimento e se ne affermi la persistenza senza soluzione di continuità, un nuovo accertamento in sede amministrativa risulterebbe un duplicato di un’azione amministrativa appena conclusa; inoltre, influendo la previsione di una domanda amministrativa quale condizione di proponibilità della domanda giudiziaria sulla decorrenza della prestazione, che non potrebbe mai essere “ripristinata”, dovendo decorrere, a norma dell’art. 12 della l. n. 118 del 1971 e dell’art. 3 comma 4 della l. n. 18 del 1980, dal primo giorno del mese successivo alla data della sua presentazione, si determinerebbe una intangibilità della revoca anche da parte del giudice, il quale non potrebbe mai riconoscere il diritto in continuità dal pur accertato ingiusto annullamento, con conseguente pregiudizio per l’invalido sul quale andrebbero a gravare, ingiustificatamente, le conseguenze di un’attività amministrativa che, in esito alla verifica giudiziaria, sia risultata non corretta.

Conclude, quindi, la Corte, che, pur dovendosi confermare che in caso di impugnazione di una revoca amministrativa l’oggetto della controversia sia la verifica della permanenza di tutti i requisiti “ex lege” richiesti, non già soltanto di quelli la cui sopravvenuta insussistenza sia posta a fondamento della revoca, la previsione a pena di improponibilità dell’azione della presentazione di una domanda amministrativa non ne costituisce uno sviluppo necessario in quanto il diritto alla prestazione promana dalla norma, nel concorso dei requisiti legali, mentre la revoca è atto dell’ente gestore che ne accerta la sopravvenuta insussistenza, sicché l’intervento del giudice verifica la persistenza o meno dei presupposti di legge per beneficiarne, restando irragionevole che si possa determinare una irrimediabile cesura laddove il giudice accerti l’esistenza ab initio e senza soluzione di continuità dei requisiti di legge per beneficiarne, ancor più in quanto l’impronta solidaristica della sicurezza sociale non legittima, da parte dell’interprete, scostamenti da un assetto sistematico costituzionalmente teso ad arginare l’eventuale (progressivo) svuotamento della funzione di sostegno delle categorie più fragili affidata allo Stato.

Con una significativa pronunzia, Sez. L, n. 37244/2022, Buffa, Rv. 666215-01, ha puntualizzato che in tema di assegno mensile di invalidità, l’assistito che abbia presentato domanda amministrativa antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 509 del 1988, ha diritto, anche per le azioni volte al ripristino di una prestazione revocata, ad una valutazione delle proprie condizioni secondo il grado di invalidità richiesto in base alla precedente normativa, senza che assumano rilevanza i sopravvenuti mutamenti normativi del requisito sanitario, atteso che non si tratta di un nuovo diritto, diverso da quello estinto per revoca, ancorché identico nel contenuto, ma proprio dell’originario diritto di cui all’unica domanda amministrativa.

Rilevante, sul tema delle competenze relative alle prestazioni assistenziali, risulta anche Sez. 1, n. 05869/2022, Campese, Rv. 664040-01 ove si afferma che in tema di interventi sociali, assistenziali e sociosanitari volti a garantire un aiuto concreto alle persone ed alle famiglie in difficoltà, spetta al comune territorialmente competente, nell’esercizio dei compiti e delle funzioni normativamente attribuitegli in materia dall’art. 6, commi 2 e 3, della l. n. 328 del 2000, la definizione dei parametri per la valutazione delle condizioni di povertà, di limitato reddito e di incapacità totale o parziale per inabilità fisica e psichica, e delle relative condizioni per usufruire delle prestazioni. L’ente, inoltre, può assumere obblighi diversi, anche di impegno economico meramente temporaneo, rispetto a quello per cui lo stesso è già tenuto, ove previamente informato, laddove si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali del soggetto avente diritto alla corrispondente prestazione. In tal caso, però, atteso il limite della disponibilità delle risorse comunali in base ai piani nazionali, regionali e di zona degli interventi e dei servizi sociali, quell’impegno più circoscritto delimita in concreto l’entità dell’obbligazione assunta dal comune medesimo nei riguardi di chi esegue la prestazione assistenziale dopo averne accettato la corrispondente richiesta del primo.

Dal luglio 2011 il legislatore, al dichiarato scopo di deflazionare e accelerare il contenzioso in materia previdenziale e assistenziale, ha inserito nel codice di procedura civile l’art. 445 bis rubricato «Accertamento tecnico preventivo obbligatorio»; in virtù di tale disposizione chi intende agire in giudizio per il riconoscimento dei propri diritti «in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222», deve preliminarmente proporre con ricorso al tribunale competente «istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere».

In relazione all’accertamento tecnico preventivo in materia previdenziale, quanto all’aspetto soggettivo, Sez. L, n. 20862/2022, Buffa, Rv. 665126-01 ha precisato che la legittimazione passiva spetta in via esclusiva all’INPS, avendo l’art. 20 del d.l. n. 78 del 2009 trasferito all’Istituto sia la responsabilità ultima degli accertamenti sanitari in materia di invalidità civile, sordità civile, handicap e disabilità, sia la legittimazione esclusiva a resistere alle domande aventi ad oggetto lo “status” di invalidità non riconosciuto in sede amministrativa. (Nella specie, la S.C., nel confermare sul punto la sentenza impugnata, ha ritenuto che in un procedimento per ATP volto all’accertamento dell’handicap non andasse disposta la chiamata in causa della ASL, essendo di conseguenza corretta, in ragione della fondatezza della domanda, la statuizione sulle spese processuali nei confronti dell’INPS). Nello stesso senso Sez. L, n. 32695/2022, Solaini, Rv. 666012-01, che fa discendere da tale legittimazione esclusiva la conseguenza che il decreto di omologa del requisito sanitario pronunziato nei confronti di un resistente diverso è impugnabile per il capo relativo alle spese di lite, in quanto la immodificabilità e non impugnabilità del decreto si correlano al presupposto, meramente certificativo, dell’accordo sulle conclusioni del c.t.u. intervenuto tra le “giuste” parti del procedimento; detto presupposto, invece, difetta in caso di erronea individuazione del soggetto legittimato passivo, sicché, in caso di condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese di lite, va ammessa l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 111 Cost., comma 7, da parte del soggetto non legittimato che altrimenti resterebbe in via definitiva privo di qualsivoglia tutela giurisdizionale.

Sotto altro profilo, Sez. L, n. 31147/2022, Cavallaro, Rv. 666010-01 ha chiarito che la sentenza avente ad oggetto l’accertamento del requisito sanitario funzionale alla concessione di prestazioni assistenziali, pronunciata, nei confronti dell’INPS, all’esito del giudizio ex art. 445-bis, comma 6, c.p.c., ha efficacia di giudicato nei confronti degli enti preposti alla concessione delle suddette prestazioni, in qualità di “aventi causa” ex art. 2909 c.c., dovendo tale qualità predicarsi anche nei confronti dei soggetti la cui posizione giuridica sia strettamente dipendente da quella facente capo alla parte titolare della statuizione passata in giudicato, a meno che essi non siano titolari di una situazione incompatibile con quella decisa (ad esempio, perché già convenuti per il pagamento in un precedente giudizio relativo allo stesso periodo, conclusosi negativamente per il ricorrente) ovvero il giudicato non sia frutto di collusione o dolo delle parti in loro danno.

Quanto alla posizione del ricorrente Sez. 6-L, n. 24664/2022, Buffa, Rv. 665683-01 ha affermato che nelle controversie disciplinate dall’art. 445 bis c.p.c., le conclusioni rese dalle parti all’esito dell’accertamento tecnico preventivo non sono autonome rispetto a quelle formulate nella domanda introduttiva, destinata a spiegare effetti fino al momento della decisione, con la conseguenza che, ove in tali conclusioni la parte chieda il riconoscimento della prestazione con decorrenza “come da consulenza” (nella specie, a partire dalla data della visita peritale), non può ritenersi rinunciata la richiesta formulata in origine, volta ad ottenere l’accertamento dell’invalidità dalla data della domanda amministrativa, sicché il giudice può decidere in tal senso, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione.

Quanto, infine, al regime di revocabilità e impugnabilità del provvedimento, Sez. L, n. 04731/2022, Calafiore, Rv. 663887-01 ha precisato che il regime espresso di non impugnabilità del decreto di omologa emesso ai sensi dell’art. 445-bis c.p.c. ne impedisce la revoca e ciò sia in applicazione del principio processuale generale di cui all’art. 177, comma 3, c.p.c., che in ragione del suo carattere meramente certificativo dell’accordo delle parti sulle conclusioni formulate dal c.t.u.; deve, pertanto, ritenersi affetto da nullità il provvedimento di revoca del suddetto decreto, con conseguente estensione del vizio al procedimento intrapreso ai sensi dell’art. 445 bis, comma 6, c.p.c. ed alla sentenza emessa a conclusione del medesimo, mentre Sez. L, n. 10753/2022, Spaziani, Rv. 664423-01 ha affermato che il provvedimento di diniego (rigetto o inammissibilità) dell’istanza, emesso senza espletare la consulenza tecnica, non è ricorribile ex art. 111, comma 7, Cost., in quanto il provvedimento in questione non incide con effetto di giudicato sulla situazione giuridica soggettiva sostanziale - attesa la possibilità per l’interessato di proporre una nuova istanza, al sopravvenire di nuovi elementi di fatto o di diritto - ed è comunque idoneo a soddisfare la condizione di procedibilità di cui all’art. 445 bis, comma 2, c.p.c., sicché il ricorrente è legittimato a procedere secondo le forme ordinarie per l’accertamento del diritto.

2.1. Le prestazioni di invalidità civile.

Altre pronunce fanno riferimento alle singole prestazioni di invalidità civile. In particolare, Sez. L, n. 24849/2022, De Felice, Rv. 665473-01, in tema di prestazioni di invalidità civile ex artt. 12 e 13 della l. n. 118 del 1971, afferma che né la pensione d’inabilità né l’assegno d’invalidità civile, di cui agli artt. 12 e 13 della l. n. 118 del 1971, possono essere riconosciuti a favore di soggetti il cui stato di invalidità si sia perfezionato con decorrenza successiva al compimento dei sessantacinque anni (o che, comunque, ne abbiano fatto domanda dopo il raggiungimento di tale età), come si evince dal complessivo sistema normativo, che, per gli ultrasessantacinquenni, prevede l’alternativo beneficio della pensione sociale, anche in sostituzione delle provvidenze per inabilità già in godimento, ed è espressamente confermato dall’art. 8 del d.lgs. n. 509 del 1988.

Sez. L, n. 30250/2022, Buffa, Rv. 665835-01, in materia di pensione d’inabilità o di assegno d’invalidità, rispettivamente previsti, a favore degli invalidi civili (totali o parziali) dagli artt. 12 e 13 della l. n. 118 del 1971, afferma che il cosiddetto requisito economico ed il requisito dell’incollocazione integrano (diversamente da quello reddituale per le prestazioni pensionistiche dell’I.N.P.S.) un elemento costitutivo della pretesa, la mancanza del quale è deducibile o rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio. Tale deducibilità o rilevabilità d’ufficio è, peraltro, da rapportare alle preclusioni determinatesi nel processo e, in particolare, a quella derivante dal giudicato interno formatosi - ove il giudice di primo grado abbia accolto la domanda all’esito della verifica del solo requisito sanitario - per effetto della mancata impugnazione della decisione implicita (siccome relativa ad un indispensabile premessa o presupposto logico-giuridico della pronuncia) in ordine all’esistenza del requisito economico; per converso, ove il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda (senza alcuna pronuncia sul requisito economico) e l’interessato abbia appellato in ordine all’esclusione della sussistenza del requisito sanitario, la carenza del requisito economico è deducibile o rilevabile per la prima volta anche in appello ed è censurabile con ricorso per cassazione, la decisione - espressa o implicita - in ordine alla sussistenza dello stesso requisito economico o dell’incollocazione, deducendo, con riguardo al caso di decisione implicita, il vizio di omesso esame di un punto decisivo.

Quanto, poi, all’indennità di accompagnamento, se da un lato, Sez. L, n. 24980/2022, Calafiore, Rv. 665477-01 chiarisce che ai fini della verifica della ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 1 della l. n. 18 del 1980 per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento, ossia, alternativamente, l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita senza continua assistenza, il giudice deve procedere alla effettiva e concreta valutazione del livello di perdita di autonomia complessiva, tenendo presente, da un lato, che la capacità di attendere agli atti della vita quotidiana deve intendersi non solo in senso fisico, cioè come mera idoneità ad eseguire in senso materiale detti atti, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata, la loro importanza anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psicofisica e, dall’altro, che l’incapacità richiesta per il riconoscimento dell’indennità non deve parametrarsi sul numero degli elementari atti giornalieri, ma sulle loro ricadute in termini di incidenza sulla salute del malato e sulla sua dignità come persona, dall’altro, Sez. L, n. 31682/2022, Buffa, Rv. 665982-01 precisa che il beneficio può spettare all’invalido grave anche durante il ricovero in ospedale pubblico ove si dimostri che le prestazioni assicurate dall’ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana.

Sempre in tema di indennità di accompagnamento, ma il principio ha valenza più ampia in relazione a tutti i casi di accertamento dello stato di invalidità, Sez. 6-L, n. 35899/2022, Buffa, Rv. 666196-01 afferma che, sebbene il momento di insorgenza dello stato invalidante - che rileva ai fini della decorrenza della prestazione previdenziale - non coincida di norma con quello degli accertamenti tecnici, né con quello del deposito della relazione del consulente tecnico, poiché, in presenza di uno stato o processo esteso nel tempo, è improbabile che l’accertamento intervenga nella fase iniziale, è, tuttavia, onere della parte che richiede la prestazione dimostrare che l’evoluzione del quadro clinico nella misura rilevante si sia verificata prima dell’accertamento peritale, fornendo elementi di valutazione minimi per ritenere che a tale data fossero già integrati i requisiti costitutivi della prestazione.

2.2. Altre prestazioni assistenziali.

In ordine ad altre prestazioni assistenziali Sez. L, n. 32606/2022, Cavallaro, Rv. 666002-01, in sostanziale continuità con quanto affermato da Sez. 6-L, n. 28141/2021, Buffa, Rv. 662533-01, in conformità a Sez. L, n. 23763/2018, Riverso, Rv. 650547-01, riconosce al cittadino extracomunitario, privo di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, la spettanza della indennità di natalità ex art. 1, comma 125, della l. n. 190 del 2014, a seguito della sentenza n. 54 del 2022 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta norma (nella formulazione vigente “ratione temporis” e dunque antecedente alle modificazioni introdotte dall’art. 3, comma 4, l. n. 238 del 2021), nella parte in cui esclude dalla concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del Regolamento UE n. 1030 del 2002.

In relazione al diritto al rimborso dei costi per ricoveri e cure mediche Sez. L, n. 24631/2022, Gnani, Rv. 665416-01 ha affermato che, in caso di ricovero stabile del disabile presso strutture residenziali, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della l. n. 328 del 2000, al pagamento delle spese è tenuto il Comune della residenza effettiva del soggetto prima del ricovero e non quello della residenza anagrafica, in quanto, essendo più prossimo ai bisogni della persona, se previamente informato dell’intenzione di ricovero, è in condizione di valutare meglio le modalità della presa in carico da parte della struttura.

In relazione alla indennità di comunicazione Sez. 6-L, n. 19256/2022, Buffa, Rv. 664941-01 ritiene che essa spetti anche ai soggetti che non hanno imparato a parlare a causa di sordità centrale derivante da patologie organiche, in quanto il fatto costitutivo del diritto al beneficio è che la suddetta condizione patologica abbia impedito il normale apprendimento nel linguaggio parlato, risultando, peraltro, irrilevanti i limiti di decibel stabiliti dal d.m. del Ministero della sanità del 5 febbraio 1992 che sono previsti solo per casi di sordità periferica.

3. Le prestazioni a beneficio delle vittime del dovere e di soggetti assimilati.

Sono molteplici le speciali elargizioni previste a favore di dipendenti pubblici o di cittadini che siano rimasti vittime del dovere o di azioni terroristiche, che, introdotte dalla l. 27 ottobre 1973 n. 629, sono state implementate dalla l. 13 agosto 1980 n. 466 ed estese a fenomeni analoghi quali la criminalità organizzata e di stampo mafioso o le richieste estorsive e di usura.

In materia di trattamenti previdenziali e assistenziali in favore delle vittime di atti terroristici, della criminalità organizzata, del dovere, e dei soggetti ad essi equiparati, va segnalata Sez. U, n. 06214/2022, Marotta, Rv. 664036-01 che afferma che la rivalutazione monetaria delle indennità, in conseguenza dell’eventuale intercorso aggravamento fisico e del riconoscimento del danno biologico e morale, prevista dall’art. 6 della l. n. 206 del 2004, svolge anche una funzione selettivo-regolativa, con la conseguenza che il criterio ivi previsto è applicabile anche alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della citata legge, di talché i benefici dovuti alle vittime devono essere parametrati alla percentuale di invalidità complessiva, da quantificarsi con i criteri medico-legali previsti dagli art. 3 e 4 del d.P.R. n. 181 del 2009.

Quanto alle vittime del dovere, Sez. L, n. 17440/2022, Cavallaro, Rv. 664852-01 chiarisce che la condizione di vittima del dovere, tipizzata dall’art. 1, commi 563 e 564, della l. n. 266 del 2005, ha natura di “status”, cui consegue l’imprescrittibilità dell’azione volta al suo accertamento, ma non dei benefici economici che in tale “status” trovano il loro presupposto, quali i ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge. Mentre Sez. L, n. 12749/2022, Buffa, Rv. 664517-01 afferma che la liquidazione dell’assegno vitalizio di cui all’art. 2 della l. n. 407 del 1998 va perequata, ex art. 11 del d.lgs. n. 503 del 1992, nella misura prevista dall’art. 4, comma 238, della l. n. 350 del 2003, non avendo la disciplina regolamentare di attuazione dell’art. 1, comma 565, della l. n. 266 del 2005 alcun potere di modificare quantitativamente l’emolumento previsto dalla citata l. n. 350, vieppiù in presenza di una esigenza di parità di trattamento tra i diversi soggetti tutelati, testimoniato dall’estensione delle tutele alle vittime del dovere, ed assumendo rilievo il limite di spesa, imposto dal comma 562 dell’art. 1 della l. n. 266 del 2005, solo su un piano autocompensativo, nel senso che, una volta raggiunto il tetto di spesa annuale, il beneficio viene a far carico alla graduatoria dell’anno successivo, restando escluso che l’assistenza venga meno del tutto.

Sez. L, n. 17435/2022, Marchese, Rv. 664851-01, invece, stabilisce che il beneficio previdenziale spettante, ai sensi dell’art. 1, comma 563, lett. f), della l. n. 266 del 2005, alle vittime del dovere che abbiano subito un’invalidità permanente a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale, non aventi, necessariamente, caratteristiche di ostilità, non compete all’atleta militare che abbia riportato un’infermità causata da un contatto fisico tra i giocatori, correlato esclusivamente al corretto svolgimento di una disciplina sportiva a violenza necessaria o indispensabile. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto difettare il presupposto dell’«azione recata» - di cui alla citata disposizione normativa - nella condotta dell’atleta, che aveva leso l’incolumità del competitore nel rispetto delle regole della disciplina sportiva del “judo”, poiché ciò rientrava nel cd. “rischio consentito”).

Quanto, poi, ai superstiti delle vittime del dovere Sez. L, n. 11181/2022, De Felice, Rv. 664304-01 ha previsto che i superstiti delle vittime del dovere, aventi titolo - in virtù di quanto disposto dall’art. 2, comma 105, della l. n. 244 del 2007 - al beneficio di cui all’art. 5, commi 3 e 4, della l. n. 206 del 2004, come modificato dal comma 106 del citato art. 2, sono quelli individuati dall’art. 6 della l. n. 466 del 1980, ai sensi del quale il beneficio non compete ai figli non a carico fiscale della vittima all’epoca del decesso ove il coniuge avente diritto sia vivente, in coerenza con la finalità assistenziale delle provvidenze, dirette ad indennizzare i familiari colpiti, in ragione del pregiudizio subito in conseguenza del traumatico mutamento delle proprie condizioni di vita.

In materia di trattamenti previdenziali ed assistenziali in favore delle vittime di atti terroristici, Sez. L, n. 11180/2022, Calafiore, Rv. 664303-01 afferma che il diritto all’assegno vitalizio previsto dall’art. 5, comma 3 bis, della l. n. 206 del 2004, introdotto dalla l. n. 147 del 2013, in favore del coniuge e dei figli dell’invalido portatore di una invalidità permanente non inferiore al 50 per cento a causa dell’atto terroristico subìto, non è condizionato all’esistenza in vita della vittima del terrorismo alla data di entrata in vigore della citata l. n. 147, atteso che tale presupposto non è richiesto dal disposto normativo, che attribuisce a tali soggetti un nuovo diritto spettante “iure proprio”, con la esplicita esclusione del caso in cui il coniuge, poi deceduto, o l’ex coniuge divorziato o i figli nati da precedente matrimonio, e viventi al momento dell’evento, abbiano già percepito le prestazioni previste dalla predetta l. n. 206 del 2004.

Quanto ai benefici a favore delle vittime di reati di criminalità organizzata e dei loro familiari, Sez. 1, n. 16844/2022, Iofrida, Rv. 664876-01 precisa che, ai fini dell’esclusione dal riconoscimento dei benefici, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. b) della legge n. 302 del 1990, come modificata dalla legge n. 407 del 1998, applicabile “ratione temporis”, i dubbi in ordine alla non totale estraneità della vittima “ad ambienti e rapporti delinquenziali” devono essere comunque ragionevoli e “vestiti” o “qualificati”, in modo da consentire ai familiari, sui quali incombe l’onere di provare tale estraneità, di dimostrare, a fronte delle allegazioni dell’amministrazione, che il congiunto era una vittima innocente. (In attuazione del predetto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia del giudice di merito che aveva ritenuto non provata la totale estraneità della vittima, uccisa nel 1982, limitandosi ad affermare che lo stesso risultava indiziato di associazione a delinquere e spaccio di sostanze stupefacenti sulla base di informative della Questura risalenti agli anni 2004-2005, in cui si riferiva esclusivamente che la vittima era stata “indiziata di delitto e/o pregiudicata per atti osceni”, senza alcuna indicazione ulteriore per identificare l’Autorità e gli atti di indagine ai quali si faceva riferimento).

4. Le prestazioni ai soggetti danneggiati da emotrasfusioni.

Quanto all’indennizzo spettante ai soggetti danneggiati da emotrasfusioni infette, Sez. L, n. 04986/2022, Calafiore, Rv. 663889-01 evidenzia che l’art. 1, comma 3, della l. n. 210 del 1992, a seguito della declaratoria di cui alla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 28 del 2009, deve essere interpretato, alla luce del complessivo significato che la norma ha assunto, anche per effetto della combinazione della nuova additiva con la precedente sentenza della stessa Corte n. 476 del 2002, ed alla stregua del criterio di esegesi che impone di intendere le norme in modo conforme a Costituzione, nel senso che il rischio per cui prevede l’indennizzo comprende anche l’ipotesi in cui il contagio sia derivato dalla contaminazione del sangue del paziente dializzato a causa di una scarsa pulizia del macchinario utilizzato per la dialisi, con conseguente persistenza di sostanza ematica infetta di altro paziente.

Interessante considerare, poi, che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, da un lato, Sez. 3, n. 32916/2022, Scarano, Rv. 666113-01, afferma che in caso di morte del danneggiato, l’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (“compensatio lucri cum damno”) in favore degli eredi solo in relazione a quanto già percepito dal “de cuius” alla data del decesso e non anche in relazione ai ratei da percepire in futuro, giacché con il decesso del beneficiario cessa l’obbligo di relativa corresponsione, e il danneggiante verrebbe altrimenti a trarre inammissibilmente vantaggio dal proprio illecito; dall’altro, Sez. 6-3, n. 08773/2022, Rossetti, Rv. 664448-02, che l’indennizzo “una tantum”, previsto dall’art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992 in favore dei congiunti del danneggiato che sia deceduto a causa del contagio, dev’essere scomputato - in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno” - dalle somme liquidabili in loro favore a titolo di risarcimento del danno parentale, spettandogli tale beneficio “iure proprio” e non “iure hereditario”, e dunque anche quando la persona contagiata, prima di morire, abbia ottenuto il riconoscimento dell’indennizzo di cui all’art. 1 della medesima legge.

5. Il rapporto speciale degli LSU.

In materia di lavoratori socialmente utili Sez. L, n. 21747/2022, Calafiore, Rv. 665131-01 ha escluso l’applicabilità della sanatoria prevista dall’art. 44 della l. n. 289 del 2002, per ipotesi di cumulo tra pensione di anzianità e reddito da lavoro, al trattamento di cui all’art. 12, comma 5, lett. a) del d.lgs. n. 468 del 1997, il quale non costituisce un trattamento pensionistico anticipato, ma una misura indennitaria eccezionale, in senso lato assistenziale, destinata ad accompagnare il lavoratore socialmente utile nel transito alla pensione.

6. L’indebito assistenziale.

In materia di prestazioni assistenziali indebite, ed in continuità con quanto affermato da Sez. 6-L, n. 04600/2021, Ponterio, Rv. 660639-01, Sez. L, n. 29034/2022, Calafiore, Rv. 665774-01 ha affermato che l’indennità di accompagnamento erogata sulla base di sentenza provvisoriamente esecutiva non passata in giudicato, poi riformata in sede di impugnazione, è ripetibile alla stregua delle disposizioni generali sull’indebito civile, poiché, stante il definitivo accertamento dell’insussistenza del diritto ad ottenere la somma originaria, l’obbligo di restituzione è fondato sull’art. 336, comma 2, c.p.c., con correlativo assoggettamento del percettore dell’indebito all’obbligo di sopportare il rischio dell’attuazione della tutela giurisdizionale invocata, sicché, ricorrendo un’ipotesi di mancanza radicale “ab origine” di tutti i requisiti per il riconoscimento della predetta indennità, non è possibile ipotizzare una sua ignoranza incolpevole.

Allo stesso modo, va assoggettato alla disciplina generale dell’art. 2033 c.c. sia l’indebito derivante dalla contemporanea fruizione di due prestazioni incompatibili “ex lege”, atteso che l’incompatibilità non costituisce un requisito ostativo all’insorgenza del diritto, ma solo un impedimento all’erogazione della prestazione che comporta la facoltà dell’interessato di optare per il trattamento economico più favorevole (Sez. L, n. 30516/2022, Cavallaro, Rv. 665837-01), sia l’indebito in cui si sia in presenza di un comportamento intenzionale del percipiente e dell’assenza di una condizione di affidamento. (Sez. L, n. 24617/2022, De Felice, Rv. 665337-01, in fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto la ripetibilità dei ratei della indennità di frequenza percepiti contestualmente alla indennità di comunicazione in violazione dell’art. 3 l. n. 289 del 1990).

  • malattia professionale
  • assicurazione infortuni sul lavoro
  • assicurazione per invalidità
  • infortunio sul lavoro

CAPITOLO XXIII

LA TUTELA INAIL

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 L’ambito di applicazione: la selettività soggettiva ed oggettiva. - 2 I contributi assicurativi INAIL. - 3 L’infortunio sul lavoro e la malattia professionale. - 4 Il regresso.

1. L’ambito di applicazione: la selettività soggettiva ed oggettiva.

L’assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL trova il suo fondamento nell’art. 38 della Cost. con la finalità di garantire al lavoratore che si infortuni sul lavoro, o che abbia contratto una malattia professionale, un sostegno adeguato di tipo economico e sanitario per liberarlo dal bisogno in un momento in cui è impossibilitato a rendere la prestazione lavorativa. La gestione da parte dell’INAIL costituisce una forma di tutela sociale, fondata sul principio di solidarietà.

L’intervento dell’assicurazione esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, fatto salvo il caso in cui una sentenza, penale o civile, accerti che l’evento lesivo si è verificato per fatto costituente reato perseguibile d’ufficio, imputabile al datore di lavoro o ai suoi preposti. In tal caso l’INAIL può agire nei confronti del soggetto responsabile dell’infortunio con l’azione di regresso, nei limiti della prestazione erogata.

Benché l’art. 38, comma 2, Cost., nel sancire il diritto dei lavoratori a che “siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio”, non operi alcuna distinzione tra tipologie di lavoro o tra lavoratori più o meno esposti al rischio di infortunio, il sistema pubblico dell’assicurazione INAIL non garantisce tuttavia una protezione universale. Nonostante gli ampliamenti dell’ambito applicativo iniziale, determinati da interventi legislativi e giurisprudenziali, sia costituzionali che di legittimità, la tutela resta, dunque, di tipo selettivo.

La selezione opera sul piano soggettivo, in quanto l’assicurazione sociale è riconosciuta solo a determinate categorie di lavoratori, e sul piano oggettivo, sia perché è limitata a determinate attività ritenute protette o pericolose, sia perché garantisce la copertura di limitate voci di danno rispetto a quelle potenzialmente risarcibili in ambito civilistico.

All’assicurazione sono tenuti tutti i datori di lavoro che occupano lavoratori dipendenti e lavoratori parasubordinati nelle attività che la legge individua come rischiose. Gli artigiani e i lavoratori autonomi dell’agricoltura sono tenuti ad assicurare anche se stessi. Vi è obbligo assicurativo se sono compresenti due requisiti: oggettivi, ossia le attività rischiose previste dall’art. 1 del testo unico (d.P.R. n. 1124 del 1965); soggettivi, ossia i soggetti assicurati richiamati nell’art. 4 dello stesso testo unico. Sono tutelati dall’Inail tutti coloro che, addetti ad attività rischiose, svolgono un lavoro comunque retribuito alle dipendenze di un datore di lavoro, nonché gli artigiani e i lavoratori autonomi dell’agricoltura e i lavoratori parasubordinati che svolgono attività di collaborazione coordinata e continuativa.

Sotto il profilo soggettivo Sez. 6-L, n. 29083/2022, Amendola F. , Rv. 665803-01, in tema di rendita da infortunio sul lavoro prevista dall’art. 85 del T.U. n. 1124 del 1965 in favore dei figli ultradiciottenni superstiti, afferma che il requisito della “inabilità”, cui è subordinato dalla norma citata il relativo diritto dei figli superstiti, deve intendersi come incapacità totale ed assoluta del soggetto, per le sue condizioni biopsichiche, di esercitare un lavoro economicamente remunerativo, atteso che il legislatore quando ha voluto prendere in considerazione l’inabilità meramente ridotta, sia pure per graduare proporzionalmente l’indennità al danno subito, ha avuto sempre cura di specificarne il grado.

Quanto al piano oggettivo delle voci di danno oggetto di tutela e, più in generale, in ordine alla reciproca interferenza delle regole che presiedono il sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali con le azioni di risarcimento del danno promosse dal lavoratore colpito da eventi cagionati dall’espletamento dell’attività lavorativa, degna di nota è Sez. L, n. 33639/2022, Amendola F., Rv. 666180-01 che, oltre ad affermare che la liquidazione dell’indennizzo a carico dell’INAIL non costituisce “condicio iuris” per la proposizione della domanda risarcitoria nei confronti del datore di lavoro, richiama alcuni principi affermati dalla Suprema Corte che costituiscono oramai “ius receptum”.

In particolare ribadisce che:

- “ai sensi dell’art. 10, comma 1, D.P.R. n. 1124 del 1965, l’assicurazione obbligatoria prevista dal decreto citato esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nell’ambito dei rischi coperti dall’assicurazione, con i suoi limiti oggettivi e soggettivi, per cui laddove la copertura assicurativa non interviene per mancanza di presupposti, l’esonero non opera;”

- “in tali casi, per il risarcimento dei danni convenzionalmente definiti “complementari”, vigono le regole generali del diritto comune previste in caso di inadempimento contrattuale;”

- “l’esonero del datore di lavoro non opera anche quando ricorre il meccanismo previsto dai commi dell’art. 10 citato successivi al primo, allorquando venga accertato che i fatti da cui deriva l’infortunio o la malattia “costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo e oggettivo”, per cui la responsabilità permane “per la parte che eccede le indennità liquidate” dall’INAIL ed il risarcimento è dovuto dal datore di lavoro;”

- da ciò ne deriva “la nozione di danno cd. “differenziale”, inteso come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo coperto dall’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove il fatto sia riconducibile ad un reato perseguibile d’ufficio;”

- “parallelamente l’art. 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965, nella ricorrenza del medesimo presupposto, consente all’INAIL di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro per le somme pagate a titolo di indennità;”

- va “escluso che le prestazioni eventualmente erogate dall’INAIL esauriscano di per sé e a priori il ristoro del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato. Con la conseguenza che il lavoratore potrà richiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno cd. differenziale, allegando in fatto circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, ed il giudice, accertata in via incidentale autonoma l’illecito di rilievo penale, potrà liquidare la somma dovuta dal datore, detraendo dal complessivo valore monetario del danno civilistico, calcolato secondo i criteri comuni, quanto indennizzabile dall’INAIL, con una operazione di scomputo che deve essere effettuata ex officio ed anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo;”

-”il giudice di merito, dopo aver calcolato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l’indennizzo erogato dall’Inail secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo, oltre al danno patrimoniale, ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale. Pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest’ultimo alla quota INAIL rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall’importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita INAIL destinata a ristorare il danno biologico permanente”.

Sempre sul tema delle voci di danno oggetto di tutela e sulle interferenze tra danno civilistico ed indennizzo Sez. L, n. 22021/2022, Marotta, Rv. 665322-01, richiamata sul punto da Sez. L n. 33639 del 2022, ribadisce che la liquidazione del danno alla salute conseguente ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale va effettuata secondo i criteri civilistici e non sulla base delle tabelle di cui al d.m. del 12 luglio 2000, deputate alla liquidazione dell’indennizzo INAIL ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, in ragione della differenza strutturale e funzionale tra tale indennizzo e il risarcimento del danno civilistico, salvo, poi, detrarre d’ufficio quanto indennizzabile dall’Inail, anche indipendentemente dalla effettiva erogazione.

2. I contributi assicurativi INAIL.

Sulla questione della classificazione delle imprese ai fini del versamento dei premi assicurativi INAIL, Sez. L, n. 29771/2022, Marchese, Rv. 665821-01 precisa che a decorrere dall’entrata in vigore della l. n. 88 del 1989 la classificazione dei datori di lavoro operata dall’INPS, sulla scorta dei criteri dettati dall’art. 49 della stessa legge, ha effetto a tutti i fini previdenziali ed assistenziali, ad eccezione della materia degli sgravi, e, quindi, anche ai fini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

3. L’infortunio sul lavoro e la malattia professionale.

Dal punto di vista oggettivo, la tutela garantita dall’Inail comprende tutti gli infortuni avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte, l’inabilità al lavoro, permanente o temporanea, oppure la lesione all’integrità psico-fisica suscettibile di valutazione medico legale, nonché le malattie professionali (o tecnopatie) ossia patologie che si sviluppano a causa della presenza di stimoli nocivi nell’ambiente di lavoro. La malattia professionale si distingue in maniera netta dall’infortunio che, pur essendo analogamente connesso ad una occasione di lavoro, è definito come un evento verificatosi per causa violenta ed esterna (ossia da un fattore che opera dall’esterno con azione intensa e concentrata nel tempo, rapida).

Secondo una giurisprudenza da tempo consolidata vanno ricondotte ad “occasione di lavoro”, rilevante ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio sul lavoro, tutte le circostanze e le modalità in cui il lavoro si svolge, per cui il lavoro è occasione del fatto quando consente alla causa violenta di operare.

Nelle applicazioni pratiche viene utilizzato un concetto ampio di occasione di lavoro, facendo riferimento a situazioni ed attività distinte dalla prestazione di lavoro in senso stretto, ma con essa strettamente connessa, che include tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine, alle persone, al comportamento colposo dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione, ivi compresi gli spostamenti spaziali funzionali allo svolgimento della prestazione, con l’unico limite del rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non riguardante l’attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore. In tal senso Sez. L, n. 32257/2021, De Felice, Rv. 662694-01, aveva già precisato che costituisce occasione di lavoro in senso tecnico ogni attività che abbia concretizzato un rischio tale da determinare la situazione di bisogno cui è rivolto l’operare della tutela assicurativa, incluse le attività prodromiche e strumentali allo svolgimento delle mansioni lavorative, purché ad esse connesse. Rientra nella tutela in oggetto anche il cd infortunio “in itinere” ossia quello occorso durante il normale percorso di andata e ritorno da luogo di abitazione a quello di lavoro.

In sostanziale continuità con Sez. L, n. 22180/2021, Calafiore, Rv. 662028-01, Sez. L, n. 05814/2022, Marchese, Rv. 663991-01 chiarisce che per infortunio “in itinere”, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 38 del 2000, va inteso qualsiasi infortunio verificatosi lungo il percorso da casa al luogo di lavoro, dovendosi dare rilevanza ad ogni esposizione al rischio ricollegabile finalisticamente allo svolgimento dell’attività lavorativa in modo diretto o indiretto, restando irrilevante l’entità del rischio e la tipologia della specifica attività cui l’infortunato sia addetto, con il solo limite del “rischio elettivo”, da intendersi per tale quello che sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.

Il requisito dell’occasione di lavoro è escluso quando l’infortunio consegue ad un comportamento del soggetto protetto che, per ragioni personali non inerenti alle modalità ed esigenze di svolgimento della prestazione lavorativa, affronti un rischio diverso da quello cui sarebbe assoggettato se a tali modalità si fosse attenuto (cd rischio elettivo). Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull’occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. (Sez. L, n. 07649/2019, Ghinoy, Rv. 653410-01).

Sul punto Sez. L, n. 31511/2022, Cavallaro, Rv. 665999-01 evidenzia che il giudizio concernente la sussistenza o meno del nesso di causalità tra l’attività lavorativa svolta e l’insorgenza di una malattia professionale costituisce un tipico apprezzamento di fatto rimesso alla discrezionalità valutativa del giudice di merito.

Con riferimento invece all’azione violenta idonea a determinare, ex art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, una patologia riconducibile all’infortunio protetto, Sez. 6-L, n. 29435/2022, Bellè, Rv. 666178-01 ha ribadito quanto già affermato in passato da Sez. L, n. 09968/2005, Vigolo, Rv. 582782-01) ossia che nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione. La relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di una infermiera professionale, volta a farsi riconoscere la copertura INAIL in ragione della contrazione sul luogo di lavoro di una infezione da virus HCV sull’assunto che mancasse la prova dell’evento infettante in occasione di lavoro).

In tema di prestazioni erogate dall’Istituto, Sez. L, n. 29532/2022, Cerulo, Rv. 665832-01 ha affermato che il termine di prescrizione triennale dell’azione per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali, di cui all’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, resta sospeso, ex art. 111, comma 2, dello stesso decreto, per tutta la durata del procedimento amministrativo di liquidazione delle indennità e fino all’adozione di un provvedimento di accoglimento o di diniego da parte dell’istituto assicuratore; tale termine di prescrizione riprende a decorrere dalla comunicazione del provvedimento espresso dell’Istituto e, in particolare, dal momento in cui tale provvedimento, di accoglimento o di diniego, perviene nella sfera di conoscibilità dell’assicurato. Tuttavia, come chiarito da Sez. 6-L, n. 29090/2022, Ponterio, Rv. 665771-01, qualora il titolare di una rendita per infortunio sul lavoro proponga domanda giudiziale volta ad ottenere una rendita unificata che tenga conto di un ulteriore evento infortunistico, il termine triennale di prescrizione del diritto al riconoscimento della rendita unica di cui all’art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965 inizia a decorrere dall’evento infortunistico e non dall’accertamento giudiziale dell’indennizzabilità dei postumi, atteso che il processo, salvi casi eccezionali predeterminati dalla legge, può essere utilizzato solo come fondamento del diritto fatto valere in giudizio e non per perseguire ulteriori effetti, soltanto possibili e futuri, non essendo proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti, che costituiscano elementi frazionistici della fattispecie costitutiva di un diritto, che può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella funzione genetica del diritto azionato.

4. Il regresso.

In tema di azione di regresso dell’INAIL, essendo venuta meno la correlazione sistematica fra gli artt. 10 e 11 e l’art. 112 del T.U. n. 1124 del 1965, sia per effetto di pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 102 del 1981 e n. 118 del 1996) che per i mutamenti del regime processuale penale (artt. 75 e 651 ss. c.p.p. del 1988) e civile (art. 295 c.p.c., come novellato dalla l. 26 novembre 1990, n. 353, art. 35), con la definitiva abolizione della cosiddetta pregiudiziale penale, secondo Sez. L, n. 29769/2022, Solaini, Rv. 665755-01 ai fini del sorgere del credito dell’INAIL nei confronti della persona civilmente obbligata, è necessario che il fatto costituisca reato perseguibile d’ufficio, ma l’accertamento giudiziale, sempre che si renda necessario in mancanza di adempimento spontaneo del soggetto debitore o di bonario componimento della lite, può avvenire sia in sede penale che in sede civile.

Sempre in tema di rapporti tra azione di regresso ed azione penale, Sez. L, n. 29755/2022, Solaini, Rv. 665814-01 afferma che in caso di infortunio sul lavoro per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il termine di prescrizione triennale dell’azione di regresso, da parte dell’ente assicuratore, decorre da quello d’irrevocabilità della sentenza penale, che, nel caso di ricorso per cassazione, coincide con la pronuncia dell’ordinanza o della sentenza che definisce il giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 648 c.p.p.

  • OCCUPAZIONE E LAVORO
  • arti dello spettacolo
  • assicurazione infortuni sul lavoro

CAPITOLO XXIV

LA PREVIDENZA DI CATEGORIA

(di Vittoria Amirante )

Sommario

1 Le Casse professionali. - 2 Fondo lavoratori dello spettacolo. - 3 Fondo volo. - 4 La previdenza integrativa.

1. Le Casse professionali.

Le casse professionali sono gli enti gestori della previdenza obbligatoria per i liberi professionisti (soggetti iscritti ad un ordine o che svolgono attività libero professionale). Come l’Inps per i lavoratori dipendenti e per artigiani, commercianti, coltivatori diretti e collaboratori, il loro compito fondamentale è il pagamento di prestazioni pensionistiche finanziate dalla raccolta di contributi dei lavoratori iscritti. La trasformazione in enti privati dei soggetti pubblici che gestivano le assicurazioni obbligatorie dei professionisti, ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994, non ne ha modificato la funzione di soggetti preposti a svolgere le attività previdenziali ed assistenziali in atto, posto che all’autonomia organizzativa, amministrativa e contabile che gli è stata riconosciuta in ragione della loro mutata veste giuridica fa ancora da riscontro un articolato sistema di poteri ministeriali di controllo sui bilanci e d’intervento sugli organi di amministrazione, nonché una generale funzione di controllo sulla gestione da parte della Corte dei Conti. Posto, peraltro, che, benché privatizzate, le Casse perseguono una finalità di interesse pubblico tramite attività istituzionale di previdenza ed assistenza avente carattere pubblicistico, la S.C. ha più volte evidenziato (ex multis Sez. L, n. 03461/2018, Calafiore, Rv. 647412-01; Sez. L, n. 05375/2019, Fernandes, Rv. 652778-01) che l’esercizio degli ampi poteri regolamentari che sono stati loro attribuiti resta retto dal rispetto sia del principio di autonomia riconosciuto agli enti previdenziali privati che dalla natura obbligatoria del regime assicurativo che gli stessi gestiscono e tale legame comporta necessariamente una relazione con la fonte legislativa nei cui confronti esiste un obbligo di conformazione.

La realizzazione del fine pubblico, imposto dall’art. 38 Cost., è mediata dalla legge ed è, dunque, la legge che di volta in volta fissa i corretti parametri di riferimento dei poteri regolamentari imponendo ai medesimi poteri i limiti al cui interno la detta potestà può estendersi. La legge prevede, infatti, che ciascuna Cassa possa, sotto la stretta vigilanza dei Ministeri competenti, beneficiare di una propria autonomia gestionale e organizzativa tale da poter declinare le proprie misure previdenziali, assistenziali e di welfare a seconda delle peculiarità proprie della propria platea di iscritti e della loro professione.

Nell’ambito di tale quadro normativo si muovono tutte le pronunce che, per le diverse Casse dei professionisti, affrontano le varie questioni attinenti alla gestione dei rispettivi sistemi previdenziali.

Oggetto di particolare attenzione nel corso del 2022 è stata la questione dell’obbligo dell’iscrizione alla gestione separata presso l’INPS delle diverse categorie di professionisti ed i conseguenti obblighi contributivi, con rilevanti riflessi anche in termine di legittimità delle sanzioni elevate per le omissioni.

Così, in tema di trattamento pensionistico degli avvocati iscritti alla Cassa nazionale di assistenza e previdenza forense, le pronunce si sono incentrate sugli obblighi contributivi, sulle conseguenti sanzioni per omissioni contributive e sul discrimine tra evasione ed omissione contributiva, in particolare all’esito della pronuncia di Corte cost. n. 104 del 2022 di illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, nella parte in cui non prevede che gli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle soglie di reddito o di volume d’affari, di cui all’art. 22 della l. n. 576 del 1980, tenuti all’obbligo di iscrizione alla Gestione separata costituita presso l’INPS, siano esonerati dal pagamento delle sanzioni civili per l’omessa iscrizione con riguardo al periodo anteriore alla sua entrata in vigore.

Sul punto Sez. L, n. 24047/2022, Marchese, Rv. 665411-01 ha affermato che gli avvocati iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie che, svolgendo attività libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno - secondo la disciplina vigente “ratione temporis”, antecedente l’introduzione dell’automatismo della iscrizione - l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico in quanto iscritti all’albo professionale, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, secondo cui l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione di merito che aveva escluso la sussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso l’INPS a carico dell’avvocato che, pur esercitando la libera professione, non risultava iscritto alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, in ragione del mancato conseguimento del limite di reddito per il sorgere del relativo obbligo).

Quanto alle prestazioni pensionistiche erogate dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti, ed in tema di poteri di accertamento delle Casse, Sez. L, n. 06299/2022, Mancino, Rv. 663997-01 ha affermato che la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti è titolare del potere di accertare, sia all’atto dell’iscrizione ad essa, sia periodicamente, e comunque prima dell’erogazione di qualsiasi trattamento previdenziale, ed a tale limitato fine, che l’esercizio della corrispondente professione non sia stato svolto nelle situazioni di incompatibilità di cui all’art. 3 del d.P.R. n 1067 del 1953 (ora art. 4 del d.lgs. n 139 del 2005), ancorché quest’ultima non sia stata accertata dal Consiglio dell’Ordine competente. In particolare, detto autonomo potere di accertamento sussiste nel momento della verifica dei presupposti per l’erogazione del trattamento previdenziale, al quale si associa naturalmente la cessazione dell’iscrizione all’Ordine, non potendosi ravvisare ostacolo alcuno nella carenza di una procedura specifica per l’esercizio di esso, risultando le garanzie procedimentali suscettibili di essere in ogni caso assicurate dall’osservanza delle norme generali di cui alla l. n. 241 del 1990.

Sez. L, n. 31527/2022, Marchese, Rv. 665981-01 ha invece affermato che l’azione di restituzione delle trattenute operate sulla pensione dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei dottori commercialisti a titolo di contributo di solidarietà è soggetta al termine di prescrizione decennale, non essendo i ratei trattenuti liquidi ed esigibili atteso che la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2948, n. 4, c.c. - così come dall’art. 129 del r.d.l. n. 1827 del 1935 - richiede la liquidità ed esigibilità del credito, che deve essere posto a disposizione dell’assicurato, sicché, ove sia in contestazione l’ammontare del trattamento pensionistico, il diritto alla riliquidazione degli importi è soggetto alla ordinaria prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c.

Quanto alla Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti, sempre in ordine alla questione dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata presso l’INPS, Sez. L, n. 28188/2022, Buffa, Rv. 665731-01, in sostanziale continuità con Sez. L, n. 4568/2021, Buffa, Rv. 660620-01, afferma che ai fini dell’obbligatorietà dell’iscrizione alla Cassa dei geometri liberi professionisti e del pagamento della contribuzione minima, è condizione sufficiente l’iscrizione all’albo professionale, essendo, invece, irrilevante la natura occasionale dell’esercizio della professione e la mancata produzione di reddito, dovendo peraltro escludersi che la mera iscrizione ad altra gestione INPS sia di per sé ostativa all’insorgere degli obblighi nei confronti della previdenza di categoria; dall’obbligo di iscrizione consegue, inoltre, l’applicazione delle norme regolamentari della predetta Cassa che stabiliscono le condizioni per le quali è possibile derogare alla presunzione di svolgimento di attività professionale da parte degli iscritti all’albo.

Quanto agli ingegneri e agli architetti iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie, per i quali è preclusa l’iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti (Inarcassa), alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere solidaristico in quanto iscritti agli albi, cui non segue la costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, Sez. 6-L, n. 20288/2022, Fedele, Rv. 665069-01 ha ribadito, in continuità con Sez. L, n. 05826/2021, Cavallaro, Rv. 660626-01, Sez. L, n. 32166/2018, Calafiore, Rv. 652029-01 e Sez. L, n. 30344/2017, Cavallaro, Rv. 646559-01, che per essi permane comunque l’obbligo di iscrizione alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui all’art. 2, comma 26, della l. n. 335 del 1995, secondo la quale l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale dovendosi porre il rapporto tra il sistema previdenziale categoriale e quello della Gestione separata in termini non già di alternatività, bensì di complementarità. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva affermato tale obbligo di iscrizione per l’attività libero-professionale svolta da un ingegnere, evidenziando che la Corte cost., con sentenza n. 104 del 2022, ha ritenuto la norma censurata, nell’esegesi prevalsa nella giurisprudenza di legittimità, esente da profili di irragionevolezza, illogicità e incoerenza nel sistema normativo, di cui, al contrario, assume una funzione di chiusura, rinvenendo il suo fondamento costituzionale nell’obbligo dello Stato di dare concretezza al principio della universalità delle tutele assicurative obbligatorie per tutti i lavoratori).

Sempre in tema Sez. L, n. 29767/2022, Mancino, Rv. 665776-01 precisa che ai fini del conseguimento della pensione di anzianità con i più favorevoli requisiti prescritti dallo Statuto INARCASSA, ai sensi dell’art. 26, comma 3, dello Statuto dell’Ente anteriore al 2013, “ratione temporis” applicabile, non basta la proposizione, in qualunque momento antecedente l’attribuzione della pensione, della domanda di ricongiunzione dei pregressi periodi di assicurazione, occorrendo, invece, il perfezionamento del negozio di ricongiunzione ed il tempestivo adempimento dello stesso.

2. Fondo lavoratori dello spettacolo.

In tema di obblighi contributivi per i lavoratori dello spettacolo Sez. L, n. 06134/2022, Buffa, Rv. 663996-01 ha affermato che i compensi pattuiti in forza di un patto di esclusiva vanno considerati quale reddito di lavoro, ed inclusi nella determinazione della base imponibile ai fini contributivi, trattandosi di compensi dovuti a titolo di corrispettivo di una obbligazione di non facere che inerisce al rapporto di lavoro e che, peraltro, non rientra in alcuna delle ipotesi di esclusione dalla base imponibile previste dall’art. 12, comma 4, della l. n. 153 del 1969.

Sez. L, n. 30267/2022, Gnani, Rv. 665915-01, in tema di diritto alla pensione di vecchiaia di ballerini e tersicorei, ha, poi, affermato che, ai fini del computo del periodo almeno ventennale di iscrizione all’E.N.P.A.L.S., l’art. 45, comma 1, del Reg. CEE n. 1408 del 1971, consente a coloro che hanno svolto la propria prestazione lavorativa in vari Stati membri, di cumulare i periodi assicurativi maturati presso di essi, come se si trattasse di un unico periodo maturato interamente nello Stato cui viene richiesta la prestazione, purché, trattandosi di professione soggetta ad un regime speciale, il periodo di assicurazione presso lo Stato membro sia compiuto sotto un regime corrispondente. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento ad una ballerina romena, che aveva lavorato anche in Italia, aveva esteso la regola della totalizzazione dei contributi versati in paesi diversi, prevista dall’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 182 del 1997, al requisito dell’anzianità di iscrizione assicurativa all’E.N.P.A.L.S.).

Infine, Sez. L, n. 36056/2022, Cerulo, Rv. 666198-01, sempre in tema di pensioni di anzianità in favore dei lavoratori dello spettacolo, ha affermato la perdurante vigenza, anche in relazione alla quota B della pensione, del limite massimo alla retribuzione giornaliera pensionabile stabilito dall’art. 12, comma 7, del d.P.R. n. 1420 del 1971, non abrogato, neppure implicitamente o per incompatibilità, dall’art. 4 del d.lgs. n. 182 del 1997, evidenziando come la fissazione di un tetto alla retribuzione giornaliera pensionabile contribuisca a comporre i diversi interessi di rilievo costituzionale, collocandosi in un sistema ampiamente favorevole per gli iscritti, quanto all’entità delle prestazioni ed alle condizioni di accesso, rispetto a quello della generalità dei lavoratori assicurati presso l’INPS e come l’abolizione del limite, o l’introduzione di un limite meno rigoroso, in relazione alla sola quota B, determinerebbe irragionevoli disparità di trattamento tra il calcolo della quota A, cui il tetto è pacificamente applicabile, e della quota B, caratterizzati da limiti sensibilmente diversi.

3. Fondo volo.

Affrontano il tema delle prestazioni previdenziali in favore del personale di volo, a carico del cd. Fondo volo, sia Sez. L, n. 30033/2022, Calafiore, Rv. 665834-01, che afferma che, ai fini della determinazione del limite massimo di retribuzione pensionabile di cui all’art. 8 della l. n. 29 del 1979, deve aversi riguardo agli anni di effettiva iscrizione al Fondo Volo, così come previsto dalla citata disposizione, senza che rilevino al riguardo la contribuzione derivante da riscatti o ricongiunzioni di periodi assicurativi, che Sez. L, n. 29970/2022, De Felice, Rv. 665825-01, che, in tema di pensione di vecchiaia erogata dal cd. “Fondo volo”, chiarisce che pur a seguito dell’introduzione del sistema di calcolo cd. misto, la riduzione del trattamento pensionistico (cd. tetto) va calcolata sull’ammontare del trattamento considerato nella sua unitarietà e non soltanto sulla quota computata con il sistema retributivo.

Sempre in tema di iscritti al “Fondo Volo”, infine, Sez. L, n. 30254/2022, De Felice, Rv. 665780-01, in continuità con Sez. L, n. 7357/2021, Mancino, Rv. 660863-01, precisa che il contributo di solidarietà di cui all’art. 24, comma 21, del d.l. n. 201 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 214 del 2011, istituito per il quinquennio 2012-2017, è finalizzato al riequilibrio dei fondi pensionistici nei quali sono confluite le soppresse gestioni speciali, sicché è posto dal legislatore a carico dell’intera quota del trattamento pensionistico maturato nelle gestioni soppresse anteriormente all’introduzione della normativa di armonizzazione.

Dalla natura previdenziale la S.C. trae il corollario dell’impossibilità di accordare alla contribuzione il privilegio che l’art. 2751 bis, n. 1, c.c. espressamente riserva, da rubrica, ai “Crediti per “retribuzioni e provvigioni, crediti dei coltivatori diretti, delle società o enti cooperativi e delle imprese artigiane”, e che possa operare il regime del privilegio previsto dagli artt. 2753 e 2754 c.c., indirizzati ai distinti crediti per contributi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti e per contributi relativi ad altre forme di assicurazione.

Sez. L, n. 22161/2022, Patti, Rv. 665212-01, infine, esclude, in sede di ammissione allo stato passivo fallimentare dei lavoratori del settore del trasporto aereo, il credito per integrazione del trattamento di cassa integrazione del personale interessato da sospensioni temporanee dell’attività lavorativa o da processi di mobilità, non trattandosi di un credito retributivo nei confronti del datore di lavoro, bensì di somme integrative al cui pagamento è tenuto il cd “Fondo Volo”, istituito presso l’Inps a norma dell’art. 1 ter, comma 1, del d.l. n. 249 del 2004, conv. dalla l. n. 291 del 2004.

4. La previdenza integrativa.

Al fine di compensare e rendere socialmente tollerabile il progressivo ridimensionamento delle pensioni pubbliche, il legislatore ha regolato e promosso forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari, affiancando alla previdenza obbligatoria di base una componente volontaria gestita sulla base di criteri di corrispettività. Ne è derivato un sistema previdenziale articolato in due sottosistemi che, benché distinti quanto a struttura, caratteristiche e disciplina, svolgono una funzione sociale comune da ricondurre all’alveo dell’art. 38, comma 2, della Costituzione in ragione del concorso alla realizzazione dell’obiettivo dell’adeguatezza dei mezzi al soddisfacimento delle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione volontaria.

Particolarmente rilevante in tema di previdenza complementare è Sez. U, n. 12209/2022, Mancino, Rv. 664415-01 che, sulla via tracciata da Sez. U, n. 477/2015, Curzio, Rv. 633755-01, e da Sez. U, n. 16084/2021, Torrice, Rv. 661389-02, estende il diritto alla portabilità della posizione previdenziale individuale, previsto originariamente dall’art. 10 del d.lgs. n. 124 del 1993 ed oggi dall’art. 14 del d.lgs. n. 252 del 2005, comportante il trasferimento dei contributi maturati da un dipendente, cessato prima di aver conseguito il diritto alla pensione complementare, verso un fondo cui il medesimo acceda in relazione ad una nuova attività, a tutti i fondi complementari preesistenti all’entrata in vigore della l. n. 421 del 1992, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, ivi compresi quelli funzionanti secondo il sistema cd. a ripartizione o a capitalizzazione collettiva e a prestazione definita, essendo comunque ravvisabile una posizione individuale di valore determinabile, la cui consistenza va parametrata ai contributi versati al fondo, compresi quelli datoriali, ed ai rendimenti provenienti dal loro impiego produttivo.

Le Sezioni Unite in tale pronuncia hanno sottolineato che lo scopo perseguito dal legislatore con la legge delega n. 421 del 1992 è quello di istituire un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, riconducendo alla previsione del secondo comma dell’art. 38 Cost. la funzione della previdenza complementare, che deve concorrere alla realizzazione dell’obiettivo di consentire all’assicurato un adeguato tenore di vita, consono al soddisfacimento delle sue esigenze in caso di infortunio, di malattia, di invalidità, vecchiaia e disoccupazione volontaria. Il Collegio ha, dunque, rilevato che la crescente mobilità e flessibilità dei rapporti di lavoro impone di predisporre strumenti atti a consentire ai lavoratori di non subire i contraccolpi sul versante previdenziale, con la conseguenza che “l’impronta solidaristica nel sistema pensionistico di secondo livello dei fondi a prestazione definita e la libera circolazione delle posizioni individuali come stimolo alla libera circolazione dei lavoratori non si elidono, ma coesistono nel riconoscimento dell’assenza di limiti alla portabilità con riferimento a tutti i fondi pensionistici preesistenti, a prescindere dal relativo regime e sistema di gestione, garantendo maggior protezione per il lavoratore che, cessato il rapporto lavorativo, può giovarsi della portabilità o riscattabilità della propria posizione anche prima di aver maturato il diritto a pensione. In altri termini, la portabilità è intrinseca alla posizione soggettiva del lavoratore partecipante al fondo”. Quanto alla consistenza della posizione destinata ad essere portata, le Sezioni Unite, ribadito che la posizione individuale è senza dubbio il frutto della somma dei contributi versati sia dal lavoratore che dal datore, pongono l’attenzione alla ulteriore questione “se nei fondi a ripartizione la posizione individuale da portare o riscattare possa essere implementata in relazione ai rendimenti effettivi o conseguibili, in virtù di investimenti non effettuati”, aspetto questo mai scrutinato in precedenza dalla Corte. Sul punto, premessa la distinzione tra: 1) fondi cd. a capitalizzazione a contribuzione definita e a prestazione indefinita, in cui il valore dei contributi è eroso dal valore della svalutazione, tant’è che il legislatore ha previsto l’investimento delle somme accreditate sui conti individuali, con successivo riaccredito dei rendimenti sugli stessi conti; 2) fondi cd. a ripartizione, a prestazioni definite, nei quali manca la contabilizzazione degli apporti sui conti individuali, non essendo rilevante quanto alla posizione individuale, già determinata, si sostiene da taluni, la svalutazione della moneta, ritiene il giudice di legittimità che “salvo diverse disposizioni contrattuali, i proventi degli atti di disposizione del patrimonio di destinazione entrano a far parte della posizione individuale del lavoratore in caso di cessazione anticipata dall’iscrizione ad un fondo a ripartizione e a prestazione definita”. La matematica attuariale sarà lo strumento da utilizzare per la determinazione della consistenza della posizione individuale.

Sempre in tema di fondi pensione complementari Sez. L, n. 02406/2022, Garri, Rv. 663739-01 chiarisce che le regole civilistiche dettate in tema di delegazione di pagamento e di sua revoca sono incompatibili con la disciplina speciale di cui al d.lgs. n. 252 del 2005, essendo demandata agli statuti dei fondi, ex art. 14 della legge citata, l’individuazione delle modalità di trasferimento ad altre forme pensionistiche, nonché di riscatto totale e parziale; ne consegue che, prestata l’adesione al fondo, non ne è consentita la revoca, ma solo la cessazione per il venir meno dei presupposti ed il trasferimento ad altra previdenza complementare, salvo, in ogni caso, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte i contributi, qualora detto inadempimento si riverberi sulla prestazione da godere, ovvero, in caso di insolvenza del datore di lavoro, salva la possibilità di sollecitare l’intervento del Fondo di garanzia ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 80 del 1992.

Così Sez. 1, n. 22102/2022, Crolla, Rv. 665244-01, in tema di ammissione allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa, afferma che i crediti per versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare, possedendo natura previdenziale non pubblicistica, non sono assistiti dai privilegi rispettivamente previsti dagli artt. 2733, 2734 e 2751-bis, n. 1, c.c. e soggiacciono al regime di cui all’art. 55 l.fall., con riferimento agli interessi e alla rivalutazione monetaria, il cui corso, pertanto, si arresta alla data del provvedimento d’apertura della procedura concorsuale.

Sez. 5, n. 22665/2022, Guida, Rv. 665283-01 in tema di fondi previdenziali integrativi, afferma che, ai sensi dell’art. 23, comma 7, del d.lgs. n. 252 del 2005, per i lavoratori assunti antecedentemente al 29 aprile 1993, e che entro tale data risultino iscritti a forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore dalla l. n. 421 del 1992, ai montanti delle prestazioni maturate entro il 31 dicembre 2006 si applica il regime tributario vigente alla predetta data; ne consegue che il nuovo sistema di tassazione agevolata, introdotto dall’art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, ed in vigore dal 1° gennaio 2007, è inapplicabile “ratione temporis” ai cd. “vecchi iscritti” a “vecchi fondi”.

Infine, in riferimento al Fondo di previdenza per il personale del Ministero delle finanze, Sez. L, n. 31480/2022, Cavallaro, Rv. 665980-01 chiarisce che l’indennità di buonuscita corrisposta, all’atto della cessazione dal servizio, dal Fondo di previdenza del personale del Ministero delle finanze, va commisurata al periodo di effettivo servizio prestato, trattandosi di retribuzione differita con funzione previdenziale; ne consegue che il periodo di congedo fruito per motivi di studio può costituire periodo utile ai fini del calcolo della misura della indennità nei limiti in cui è previsto il diritto del dipendente a mantenere la retribuzione corrisposta durante il periodo di congedo per lo svolgimento di corsi di dottorato, ossia solo se il rapporto di impiego non cessa per volontà del dipendente medesimo nei due anni successivi al conseguimento del dottorato.

  • OCCUPAZIONE E LAVORO
  • assicurazione contro gli infortuni

DIALOGANDO CON IL MERITO

IL LITISCONSORZIO NECESSARIO DELL’ENTE PREVIDENZIALE NELLE AZIONI A TUTELA DELLA REGOLARITÀ CONTRIBUTIVA

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Sicurezza sociale e tutela previdenziale del lavoratore. - 2 Il diritto del lavoratore alla regolarità della posizione contributiva. - 3 Tutela della posizione assicurativa e litisconsorzio necessario. - 4 Il nuovo orientamento di legittimità sul litisconsorzio necessario. - 5 Le criticità del nuovo orientamento. - 6 La potenziale inutilità dell’integrazione del contraddittorio. - 7 Le difficoltà applicative nella giurisprudenza di merito. - 8 Osservazioni conclusive.

1. Sicurezza sociale e tutela previdenziale del lavoratore.

La tutela della sicurezza sociale è assicurata dall’art. 38 della Costituzione che garantisce il diritto di tutti alla liberazione dal bisogno; il sistema che si fonda su tale norma, in cui rileva non solo il rapporto tra Stato e individuo ma anche quello tra singolo, formazioni sociali e Stato, costituisce espressione immediata del principio del pluralismo sociale e della sussidiarietà sociale.

I diritti previdenziali ed assistenziali vanno annoverati tra i diritti sociali, e quindi tra i diritti fondamentali del cittadino, costituzionalmente garantiti, inalienabili ed indisponibili, teleologicamente orientati all’eliminazione delle disparità sociali, per consentire a tutti il pieno ed effettivo esercizio delle libertà civili e politiche.

I primi due commi della norma costituzionale delineano, secondo la classica distinzione assistenza e previdenza, due canali di attuazione della legislazione sociale che si differenziano nell’individuazione dei destinatari, della natura e dell’entità delle prestazioni offerte.

Tra le due, la previdenza è finalizzata a proteggere la categoria dei lavoratori che, al verificarsi di determinati eventi, che riducono o eliminino del tutto la capacita` lavorativa, necessitano di adeguati mezzi di sostentamento.

La funzione tradizionale della previdenza sociale è quella di prevedere e assicurare ai lavoratori, mediante le gestioni previdenziali, finanziate dalle categorie interessate e sussidiariamente dallo Stato, i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita al verificarsi dei cd. rischi sociali provocatori di bisogno.

Gli istituti che comunemente vengono ricondotti alla previdenza sociale sono organizzati su base mutualistica, nel senso che a ciascuna forma di tutela partecipano, con una propria capacità finanziaria, i soggetti esposti o già sottoposti all’evento che ha determinato la condizione di bisogno; condizione che porta a qualificare la natura soggettiva della pretesa dei beneficiari come di diritto soggettivo, ma che non esclude l’impegno dello Stato ad intervenire con adeguate misure di sostegno, in via sussidiaria, quando le categorie interessate non abbiano le necessarie risorse per provvedervi autonomamente e non siano quindi autonomamente capaci di garantire il conseguimento delle finalità per le quali sono state istituite.

Che il fondamento della previdenza sociale vada individuato anche nel principio di solidarietà è riconosciuto da tempo dalla giurisprudenza; in numerose sentenze si evidenzia come il concetto di sinallagma, ossia di equilibrio corrispettivo tra la contribuzione e le prestazioni, risulti spesso insufficiente all’efficienza del sistema sicché all’apporto contributivo delle categorie interessate si deve accompagnare necessariamente il costante intervento finanziario dello Stato e quindi della solidarietà generale.

La mancanza del legame tra contributi o prestazioni è evidente per i contributi di mera solidarietà (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 26 del 2003), per la contribuzione figurativa o, ancora, quando debba operare il principio di automaticità delle prestazioni, di cui all’art. 2116 c.c.; l’ammontare dei contributi non è poi necessariamente proporzionale a quello delle prestazioni, dipendendo piuttosto dalla retribuzione imponibile, dalla varietà delle aliquote di computo, dall’età dell’assicurato e nel lungo periodo anche dalle risorse finanziarie disponibili nel momento storico.

In particolare, il principio generale di automatismo delle prestazioni sancito dall’art. 2116 c.c. - secondo cui le prestazioni previdenziali spettano al lavoratore anche quando i contributi dovuti non siano stati effettivamente versati - costituisce una indispensabile garanzia per il lavoratore assicurato, che trova il suo fondamento nella Costituzione in quanto risponde all’esigenza di non far ricadere sul lavoratore il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi.

In tale contesto l’obbligazione contributiva a carico del datore di lavoro assume un ruolo centrale nel sistema costituzionale della sicurezza sociale, ed infatti partecipa della natura delle obbligazioni di natura pubblicistica, equiparabili a quelle tributarie a causa della origine legale e della destinazione ad enti pubblici e quindi all’espletamento di funzioni sociali.

Premesso che è obbligo del datore di lavoro assolvere al pagamento dei contributi, e che il lavoratore ha un diritto costituzionalmente tutelato alla protezione dal bisogno, poiché tutti gli inadempimenti datoriali ricadono in un’ottica solidaristica sulla fiscalità generale, è onere del legislatore e dei soggetti tenuti a dare applicazione alla legislazione in materia, anche in sede giurisdizionale, favorire ed incentivare l’adempimento degli obblighi contributivi nell’interesse del singolo e della collettività.

Il corretto pagamento dei contributi non costituisce solo un vantaggio per il lavoratore ma, al pari dell’adempimento degli obblighi tributari, assolve una funzione di sostegno sociale di cui si avvantaggia anche la generalità dei consociati, chiamati in mancanza a far fronte, a mezzo delle risorse collettive, alle sue condizioni di bisogno.

Destano quindi particolare apprensione tutte quelle ricostruzioni esegetiche e dogmatiche che optano, anche solo nella scelta tra le più interpretazioni possibili, per soluzioni che al contrario finiscono per ostacolare e disincentivare il corretto adempimento dell’obbligo contributivo o addirittura favorirne l’inadempimento.

2. Il diritto del lavoratore alla regolarità della posizione contributiva.

I contributi previdenziali, costituendo oggetto di un’obbligazione pubblica e, quindi, di un rapporto nato dalla legge e da essa esclusivamente regolato, si distinguono dalle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro di natura privatistica, né il regime legale della contribuzione può essere alterato da statuizioni dell’autonomia privata ex art. 2115, ultimo comma, c.c.

Per questa ragione i crediti degli enti previdenziali per contributi assicurativi sono indisponibili ai sensi dell’art. 1246, n. 5, c.c. , e quindi non compensabili con i crediti vantati verso i medesimi datori di lavoro; sono insensibili alla qualificazione del rapporto data dalle parti, alla retribuzione effettivamente corrisposta - rilevando quella dovuta ed operando il minimale contributivo , ed alle sospensioni concordate del rapporto; sono soggetti ad un diverso regime della prescrizione, per cui è possibile che la contribuzione si estingua autonomamente a prescindere dall’esistenza dell’obbligazione retributiva.

Dall’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello lavorativo, che del primo costituisce solo il presupposto costitutivo, la giurisprudenza ne ha tratto una ricostruzione che esclude la configurabilità di un unico rapporto, cosiddetto trilatero, fra il soggetto assicurante, ossia il datore di lavoro, l’assicurato, ossia il prestatore di lavoro, e l’assicuratore, ossia l’ente previdenziale, ed afferma la presenza di una pluralità di rapporti bilaterali, quali il rapporto lavorativo tra lavoratore e datore di lavoro, avente ad oggetto le obbligazioni contrattuali, il rapporto contributivo fra datore di lavoro e istituto previdenziale che ha ad oggetto il pagamento dei contributi, il rapporto previdenziale tra l’istituto assicuratore ed il lavoratore, finalizzato all’erogazione delle prestazioni di tutela dal bisogno cui l’intero sistema è strumentale.

Ne consegue che: 1) sul fronte contributivo il lavoratore, in quanto non è titolare né creditore dei contributi, non è legittimato a pretenderne il pagamento dal datore di lavoro né può sostituirsi all’Istituto previdenziale nella riscossione o costringerlo all’azione di recupero; 2) sul fronte del rapporto lavorativo ogni accertamento tra datore di lavoro e lavoratore, pur se contenuto in una sentenza definitiva, non esplica efficacia riflessa di giudicato nel rapporto fra datore di lavoro ed ente previdenziale e lavoratore ed ente previdenziale, in quanto i rapporti contributivo e previdenziale sono “res inter alios acta” rispetto al rapporto privatistico di lavoro; 3) sul fronte previdenziale l’integrità della posizione contributiva del lavoratore prescinde, per il principio dell’automaticità delle prestazioni di cui all’art. 2116, comma 1, c.c., dal pagamento effettivo dei contributi, rilevando solo che gli stessi siano dovuti, sicché l’attivazione di una procedura di recupero coattivo della contribuzione a carico del datore inadempiente non è determinante ai fini della tutela del lavoratore a cui l’ente previdenziale è tenuto ad erogare le prestazioni solo prendendo atto, incidentalmente, dell’esistenza del rapporto contrattuale lavorativo.

La funzionalità del sistema, creato con la chiara finalità di offrire al lavoratore una maggiore tutela a fronte della lesione della sua posizione contributiva, trova, tuttavia, un limite laddove il diritto al pagamento dei contributi sia prescritto in quanto, in questo caso, l’obbligo, gravante sull’Istituto, di erogazione delle prestazioni pur in difetto di contribuzione, nel rispetto del principio di automaticità delle prestazioni, non sopravvive.

Posto che maturata la prescrizione l’omessa contribuzione produce un pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, perché da un lato i contributi divengono addirittura irricevibili per l’Istituto e dall’altro lo stesso perde la possibilità di giovarsi del meccanismo dell’automaticità, l’ordinamento gli riconosce la facoltà di esperire, al momento del prodursi dell’evento dannoso, coincidente con il raggiungimento dell’età pensionabile, o l’azione risarcitoria ex art. 2116, comma 2, c.c., o quella in forma specifica ex art. 13 della l. n. 1338 del 1962.

Ne consegue che l’affermata autonomia del diritto del lavoratore alla sua posizione previdenziale non si traduce mai in una indifferenza rispetto al diritto di credito contributivo dell’ente previdenziale nei confronti del datore di lavoro, in quanto il presupposto genetico imprescindibile di entrambi i diritti è rappresentato dal medesimo rapporto di lavoro da cui trae origine l’obbligazione contributiva.

Il lavoratore ha sempre un interesse a proteggere la sua posizione assicurativa quale bene strumentale rispetto al suo diritto, costituzionalmente tutelato dall’art. 38, comma 2, Cost., al soddisfacimento delle esigenze di vita in caso di avveramento di un rischio protetto dalla legge.

La tutela immediata della posizione assicurativa si realizza per il lavoratore con le azioni nei confronti dell’ente previdenziale che resta l’unico soggetto titolare dei contributi; il lavoratore ha, rispetto a tali azioni, anche un onere di diligenza che gli impone di attivarsi entro i ristretti ambiti temporali fissati dai termini di prescrizione.

L’interesse del lavoratore al versamento dei contributi si traduce in un diritto soggettivo alla posizione assicurativa perché solo questo diritto si trasforma nel diritto alla prestazione previdenziale al verificarsi dell’evento protetto o nel diritto al risarcimento dei danni per il mancato conseguimento di tale prestazione.

Di tale interesse si è fatta carico, da sempre, la giurisprudenza di legittimità riconoscendo, con orientamento risalente e consolidato, il diritto del lavoratore alla tutela della regolarità della sua posizione contributiva, anche nei confronti del datore di lavoro, pur nel rispetto dell’autonomia dei rapporti, attraverso il meccanismo dell’accertamento incidentale.

Posto che l’omissione della contribuzione produce un duplice pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, consistente, da un lato, dalla perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l’età pensionabile, e, dall’altro, dalla necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui all’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, se ne è desunto che le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il lavoratore, nei confronti del datore di lavoro, consistono, una volta raggiunta l’età pensionabile, nella perdita totale o parziale della pensione che dà luogo al danno risarcibile ex art. 2116 c.c., mentre, prima del raggiungimento dell’età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., ovvero di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso.(Così Sez. L, n. 5825/1995, e in senso conforme Sez. L n. 10528/1997, n. 22751/2004; Sez. L, n. 26990/2005, Balletti, Rv. 586051-01; n. 13997/2007, n. 2630/2014, n. 21300/2014; Sez. L, n. 01179/2015, De Marinis, Rv. 634853-01, n. 22660/2016)

Nella controversia instaurata dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro per far valere il proprio “diritto alla posizione contributiva” anche prima del verificarsi del danno, la questione circa l’esistenza dell’obbligazione contributiva, che attiene al diverso rapporto bilaterale tra il datore di lavoro e l’Istituto previdenziale, viene ritenuta risolvibile con l’applicazione dei principi processuali in materia di accertamento incidentale (art. 34 c.p.c.), dando origine, in caso di contestazione, ad una questione pregiudiziale, che il giudice può decidere “incidenter tantum” , senza alcuna efficacia autonoma di giudicato al di fuori della causa in cui l’accertamento avviene, e quindi senza la necessità di estendere il contraddittorio ai soggetti interessati ( nella specie l’ente previdenziale), salvo il caso in cui non siano le stesse parti a chiedere espressamente che sulla questione pregiudiziale sia emessa una pronuncia con autorità di cosa giudicata.

Specularmente, nelle controversie relative al pagamento di contributi previdenziali, reclamati dall’istituto gestore nei confronti del datore di lavoro, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in quanto imprescindibile presupposto del rapporto previdenziale, costituisce un punto pregiudiziale, risolvibile incidenter tantum dal giudice, senza efficacia di giudicato al di fuori della causa in cui l’accertamento avviene ; analogamente, gli stessi principi sono applicabili nel caso in cui la domanda è proposta dal lavoratore contro l’istituto previdenziale, dovendosi escludere che sia richiesto il contraddittorio con il datore di lavoro, stante l’autonomia dei due rapporti e il carattere solo incidentale dell’accertamento concernente il rapporto di lavoro.

3. Tutela della posizione assicurativa e litisconsorzio necessario.

In coerenza con il riconoscimento al lavoratore del diritto di agire direttamente nei confronti del datore di lavoro in presenza di una inadempienza contributiva con una domanda di accertamento e di condanna generica al risarcimento del danno potenzialmente derivante da tale irregolarità, con un orientamento granitico, sostenuto anche da pronunce a Sezioni Unite che a diverso titolo hanno lambito la questione, è stata tradizionalmente esclusa per queste controversie la sussistenza di un litisconsorzio necessario con l’ente previdenziale. (1)

La S.C. ha così ritenuto non sussistente la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’ente di previdenza nel giudizio promosso dal lavoratore contro il datore di lavoro per la regolarizzazione della posizione assicurativa, qualora venga in contestazione soltanto il rapporto di lavoro o qualche elemento del medesimo o ancora quando, instaurati validamente fra i soggetti interessati il rapporto di lavoro e il rapporto previdenziale, la contestazione risulti limitata al conseguimento di prestazioni derivanti dall’uno o dall’altro, sul rilievo che in controversie del genere, l’esistenza e/o l’atteggiarsi del rapporto di lavoro subordinato, quale imprescindibile presupposto del rapporto contributivo, costituisce un punto pregiudiziale, risolvibile incidenter tantum senza efficacia di giudicato al di fuori della causa in cui l’accertamento medesimo ha luogo.

Si è così affermato che “Nel giudizio promosso dal lavoratore subordinato contro il datore di lavoro per la regolarizzazione del rapporto assicurativo, l’istituto assicuratore non è contraddittore necessario, quantunque si controverta sulla esistenza del rapporto di lavoro come presupposto di quello previdenziale.” (Sez. L, n. 3941/2004, Curcuruto, Rv. 570600-01; conforme Sez. L, n. 72/1998, Casciaro, Rv. 511347-01; principio analogo massimato per Sez. L, n. 12213/2004, Roselli, Rv. 574085-01; Sez. L, n. 1013/2003, Di Lella, Rv. 559931-01; Sez. L, n. 10377/2000, De Matteis, Rv. 539286-01).

Sez. U, n. 683/2003, Roselli, Rv. 559855-01 (nello stesso senso Sez. U, n. 14086/2004, Miani Canevari, Rv. 575683-01; Sez. U, n. 3339/2004, Roselli, Rv. 570311-01), pronunciandosi in tema di giurisdizione in una controversia in cui il lavoratore subordinato agiva spiegando intervento adesivo nel giudizio promosso dall’INPS nei confronti di un ente pubblico non economico per il pagamento dei contributi previdenziali non versati in relazione a detto rapporto allo scopo di ottenere dal giudice la tutela della propria posizione previdenziale nei confronti del datore di lavoro (la cui cognizione è stata attribuita al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 7, legge 6 dicembre 1971, n. 1034 trovando applicazione al rapporto di pubblico impiego il regime vigente anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 ex art. 45, comma diciassettesimo, ora, art. 69, 7, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) ha ribadito testualmente «che nel processo vertente fra le due parti del rapporto di lavoro subordinato non è contraddittore necessario l’ente previdenziale (Cass. 19 maggio 1990 n. 4557, 10 gennaio 1994 n. 169, 23 gennaio 1998 n. 1640, 7 agosto 2000 n. 10377). Infatti, la suddetta non configurabilità di un unico rapporto giuridico trilatero, di cui siano contitolari assicurante, assicurato e assicuratore (cfr. Cass. 12 febbraio 1987 n. 1557, 23 novembre 1988 n. 6299), impedisce di ravvisare una fattispecie di litisconsorzio necessario (art. 102 cod. proc. civ., con l’ulteriore conseguenza che, salvo domanda di parte, il giudice ben può pronunciarsi su questioni attinenti a rapporti di cui sia titolare l’ente previdenziale, ma soltanto in via incidentale, vale a dire senza che su quelle questioni sì formi la cosa giudicata (art. 34 c. p.c.) ».

Né può sostenersi che tale orientamento sia stato contraddetto da altre pronunce chiamate ad affrontare il tema del litisconsorzio in una fattispecie peculiare e diversa quale è quella della costituzione di rendita vitalizia ex art. 13 della l. n. 1338 del 1962, che tra l’altro presuppone la maturazione del danno contributivo in conseguenza dell’avvenuta prescrizione.

Sez. U, n. 3678 /2009, Balletti, Rv. 607443-01 (conforme Sez. L, n. 4691/2012, Stile, Rv. 622165-01), esaminando il caso in cui il lavoratore agiva giudizialmente per ottenere la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 citato, per essersi il datore di lavoro sottratto al versamento all’INPS della relativa riserva matematica e per il cui versamento lo stesso datore resta obbligato, ha affermato la sussistenza del litisconsorzio necessario nei confronti dell’anzidetto datore di lavoro e dell’INPS, solo in conseguenza del riflesso che, sotto il profilo processuale, assumono gli aspetti sostanziali rappresentati: dall’interesse, giuridicamente protetto, del lavoratore alla realizzazione dei presupposti della tutela assicurativa (con la condanna dell’INPS alla costituzione della rendita vitalizia e del datore di lavoro inadempiente al versamento della riserva matematica); dall’interesse dell’INPS a limitare il riconoscimento della rendita vitalizia ai casi di esistenza certa e non fittizia di rapporti di lavoro; dall’interesse del datore di lavoro a non trovarsi esposto, ove il giudizio si svolga in sua assenza, agli effetti pregiudizievoli di un giudicato ai suoi danni a causa del riconoscimento di un inesistente rapporto lavorativo, lontano nel tempo.

In tale arresto le Sezioni Unite circoscrivono testualmente la configurabilità del litisconsorzio necessario, e la necessità dell’integrazione, ai giudizi, come quello sottoposto al loro esame, aventi ad oggetto la richiesta di costituzione presso l’INPS di una rendita vitalizia il cui peculiare «procedimento, previsto dalla l. n. 1338 del 1962, art. 13, - precisano espressamente - non deve confondersi con ( = essere assimilato a) quello avente ad oggetto esclusivamente la sussistenza, o meno, del rapporto di assicurazione obbligatoria – affermato dal lavoratore e negato dall’INPS – in cui si è ritenuto che non vi sia necessità di integrare il contraddittorio nonostante il carattere trilaterale del rapporto assicurativo (così, originariamente, Cass. n. 12248/1991)».

In tale chiaro passaggio motivazionale si legge piuttosto una conferma dell’orientamento tradizionale che esclude la necessità di integrazione del contraddittorio in tutte le altre ipotesi, come ad esempio nell’azione di regolarizzazione nei confronti dell’INPS e in quella di danno ex art 2116, comma 2, c.c., imponendolo nella sola ipotesi in cui si controverta della fattispecie particolare prevista dall’art.13, comma 5, della l. n. 1338 del 1962 e degli interessi ivi coinvolti.

Egualmente la necessità dell’integrazione del contraddittorio non risulta affermata, ma anzi smentita da Sez. L, n. 19398/2014, Buffa, Rv. 632322-01; Sez. L n. 32880/2018, Arienzo, non massimata; Sez. 6-L, n. 14853/2019, De Felice, Rv. 654024-01, secondo cui “L’interesse del lavoratore al versamento dei contributi previdenziali di cui sia stato omesso il pagamento integra un diritto soggettivo alla posizione assicurativa, che non si identifica con il diritto spettante all’Istituto previdenziale di riscuotere il proprio credito, ma è tutelabile mediante la regolarizzazione della propria posizione. Ne consegue che il lavoratore ha la facoltà di chiedere in giudizio l’accertamento dell’obbligo contributivo del datore di lavoro e sentirlo condannare al versamento dei contributi (che sia ancora possibile giuridicamente versare) nei confronti dell’ente previdenziale, purché entrambi siano stati convenuti in giudizio, atteso il carattere eccezionale della condanna a favore di terzo, che postula una espressa previsione, restando altrimenti preclusa la possibilità della condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali a favore dell’ente previdenziale che non sia stato chiamato in causa”.

In tali pronunce, infatti, la S.C., pur riconoscendo l’interesse del lavoratore alla regolarizzazione della posizione contributiva, in presenza di una domanda di condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi, e non di mero accertamento o di condanna generica, ha correttamente ritenuto che sul piano processuale tale condanna non potesse essere emessa in difetto del contraddittorio con l’INPS e, senza disporne d’ufficio l’integrazione sul presupposto della configurabilità di un litisconsorzio, ha definito il giudizio cassando la sola pronuncia sui contributi, con pronuncia di sostanziale inammissibilità di tale domanda per difetto del soggetto titolare del diritto fatto valere.

4. Il nuovo orientamento di legittimità sul litisconsorzio necessario.

In tale quadro, indubbiamente variegato per la complessità degli interessi coinvolti, ma tutto sommato stabile, si è innestato dal 2020 un nuovo filone interpretativo (2) secondo cui l’accertamento di una omissione contributiva e la dichiarazione che il datore di lavoro sia obbligato alla sua regolarizzazione, imporrebbero la chiamata in causa dell’ente previdenziale quale presunto litisconsorte necessario, con tutte le conseguenze che la necessità del litisconsorzio comporta in termini di rilevabilità d’ufficio della nullità della sentenza, con caducazione di ogni statuizione e rimessione del giudizio in primo grado, sino all’estinzione del giudizio nell’ipotesi di inottemperanza all’ordine giudiziale di integrazione.

In particolare secondo tali pronunce, sostanzialmente sovrapponibili nella parte motiva che qui interessa, si afferma che “In tema di omissioni contributive, nel giudizio promosso dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi, sussiste un litisconsorzio necessario con l’Istituto previdenziale, sicché, alla mancata evocazione in giudizio dell’ente non consegue l’inammissibilità della domanda, bensì la nullità del giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo, salvo il limite del giudicato, con necessità di rimessione al giudice di primo grado ai fini dell’integrazione del contraddittorio in difetto, estinzione del complessivo ricorso” (Sez. L, n. 8956/2020, Cavallaro, Rv. 657651- 01; conforme Sez. L, n. 24924/2020, Amendola F., Rv. 659267-01) e che tale litisconsorzio necessario è “giustificato dal fatto che l’obbligo di versamento dei contributi si configura, nell’ambito del rapporto di lavoro, come un obbligo di “facere” del datore di lavoro in favore dell’ente previdenziale che, dando luogo a una situazione sostanziale unitaria, deve trovare riflesso processuale nella partecipazione al giudizio di tutti i soggetti nei cui confronti la decisione del giudizio stesso è idonea a produrre effetti.” (Sez. L, n. 17320/2020, Calafiore, Rv. 658831-01).

Il nuovo orientamento ha suscitato perplessità in dottrina (3) e disorientamento nella giurisprudenza di merito, sia per le argomentazioni poste a fondamento di quello che è stato definito un vero e proprio “overruling” sostanziale e processuale sia per le ricadute sui giudizi in corso e più in generale sull’effettività della tutela della posizione assicurativa del lavoratore.

Si è in particolare osservato che, contrariamente a quanto affermato in queste pronunce, e così come innanzi ricostruito:

- non sussisteva in materia alcun contrasto di giurisprudenza, bensì un unico e consolidato orientamento nel senso di escludere la sussistenza del litisconsorzio necessario nelle controversie in cui il lavoratore fa valere il suo diritto alla regolarizzazione contributiva nei confronti del datore di lavoro.

Al più si sarebbe potuto evidenziare che in tale contenzioso si poneva di frequente un problema di merito circa la qualificazione dell’azione in quanto in alcune pronunce, in cui correttamente il lavoratore si era limitato a chiedere l’accertamento della sua posizione assicurativa e una eventuale condanna generica al risarcimento del danno in caso di mancata regolarizzazione, o in cui la domanda seppur imprecisa era suscettibile di una qualificazione in tale senso, la Corte aveva proceduto mediante l’accertamento in via incidentale senza ritenere necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente previdenziale, mentre in altre, in cui la domanda era stata irrimediabilmente qualificata come richiesta di condanna del datore di lavoro a pagare i contributi nei confronti dell’ente previdenziale tale domanda, sempre senza ritenere necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente previdenziale, la stessa era stata dichiarata inammissibile;

- non è corretto affermare che la soluzione del litisconsorzio necessario si fondi sulle stesse “ragioni di ordine logico e sistematico esaminate da Cass. S.U. n. 3678 del 2009” in quanto tale pronuncia esamina una fattispecie completamente diversa, quella della domanda di costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, comma 5, della legge 12 agosto 1962, n. 1338, in cui l’integrazione del contraddittorio è imposta dal fatto che la realizzazione dei presupposti della tutela assicurativa richiede sia la condanna dell’INPS alla costituzione della rendita vitalizia sia quella del datore di lavoro inadempiente al versamento della riserva matematica;

- non giova all’individuazione del litisconsorzio necessario come regola generale qualificare come ipotesi eccezionale di condanna a favore del terzo, che non richiede la partecipazione al giudizio dell’ente previdenziale, e nemmeno una specifica domanda del lavoratore, la previsione di cui agli artt. 18, commi 2 e 4, St. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, e 2, comma 2 e 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, di condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali prevista in caso di applicazione della tutela reale in materia di licenziamento. (Sez. L n. 6722/2021, Cavallaro, Rv. 660964-01)

Per pacifica giurisprudenza durante il periodo compreso tra la data dell’illegittimo licenziamento e quella della pronuncia giudiziale contenente l’ordine di reintegra del lavoratore, il rapporto di lavoro resta quiescente ma non estinto, sicché rimangono in vita il rapporto assicurativo previdenziale ed il corrispondente obbligo del datore di lavoro di versamento all’ente previdenziale quale ordinaria conseguenza derivanti dalla ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro con correlati obblighi, anche contributivi, laddove l’espressa previsione inserita in tale norma ha avuto storicamente solo la funzione di prevenire il dubbio circa la permanente soggezione a contribuzione nonostante la dichiarata natura risarcitoria di quanto dovuto dal datore di lavoro in dipendenza della illegittimità del licenziamento.

Ciò è confermato da Sez. U, n. 15143/2007, Miani Canevari, Rv. 597883-01, secondo cui «il limite posto al diritto del lavoratore alle retribuzioni dalla ricordata disposizione derogatoria alla disciplina comune opera solo sul piano del rapporto tra datore di lavoro e dipendente, ma non impedisce che la retribuzione sia da considerare dovuta ai fini della normale funzionalità del rapporto previdenziale» e che «l’obbligo contributivo – commisurato alla retribuzione contrattuale dovuta – esiste perché esiste la obbligazione retributiva, e non viene meno se a causa del suo inadempimento la prestazione originariamente pattuita si trasforma in altra di natura risarcitoria».

Ne consegue che l’art. 18 cit, può essere legittimamente letto, non tanto come previsione eccezionale, quanto, al contrario, quale ipotesi tipizzata dal legislatore di applicazione del principio generale della possibilità riconosciuta al lavoratore di vedere accertato il suo diritto alla regolarizzazione contributiva, pur in assenza di un contraddittorio con l’ente previdenziale, ove la previsione espressa ha solo la funzione di rendere superflua una domanda in tale senso.

5. Le criticità del nuovo orientamento.

La soluzione di nuovo conio è risultata da subito problematica sia se confrontata con i principi generali che regolano l’istituto del litisconsorzio necessario, sia sotto il profilo della sua utilità ai fini della tutela della posizione contributiva del lavoratore.

Costituisce approdo acquisito che il litisconsorzio necessario, la cui violazione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ricorre, oltre che per motivi processuali e nei casi espressamente previsti dalla legge, solo allorquando l’azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico, oppure all’adempimento di una prestazione inscindibile, incidente su una situazione inscindibilmente comune a più soggetti, di modo che la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere decisa in maniera unitaria nei confronti di tutti coloro che ne siano partecipi, onde non privare la pronuncia dell’utilità connessa con l’esperimento dell’azione proposta. (Sez. 3, n. 3692/2020, Guizzi, Rv. 656899-01; Sez. 3, n. 3281/2006, Trifone, Rv. 587632-01; Sez. 1, n. 14102/2003, Salvago, Rv. 567084-01.)

Non sussiste, pertanto, litisconsorzio necessario allorché il giudice possa procedere, in via meramente incidentale, ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche un terzo, dal momento che gli effetti di tale accertamento non si estendono a quest’ultimo, ma restano limitati alle parti in causa dal momento che tale accertamento può ben compiersi e produrre i suoi effetti tra dette parti del processo, senza chiamare in giudizio l’altra, la quale, in quanto pretermessa, non subisce alcun pregiudizio dall’accertamento incidentale, inidoneo a costituire giudicato nei suoi confronti.

È di palmare evidenza che tale plurisoggettività non sussiste in materia contributiva, per le ragioni, già innanzi esposte, che hanno portato a configurare nella specie non un rapporto trilatere, bensì più rapporti bilaterali autonomi, ragioni ribadite del resto dalla stessa giurisprudenza che qui si analizza che da un lato evidenzia l’autonomia dei rapporti in gioco e dall’altra si esprime inspiegabilmente a favore della necessarietà del litisconsorzio.

Ad escludere la presenza di un rapporto plurisoggettivo unico basterebbe la sola considerazione che il lavoratore, proposto un ricorso in merito al rapporto di lavoro, ha piena facoltà di scelta se formulare o meno una domanda di accertamento della posizione contributiva nei confronti del datore di lavoro, potendo lo stesso anche valutare l’opportunità di non presentarla senza con questo pregiudicare in alcun modo la sussistenza dell’obbligazione contributiva e la facoltà dell’ente previdenziale di accertarla un autonomo giudizio.

Non si comprende poi perché questa plurisoggettività, che se fosse effettivamente tale imporrebbe sempre una decisione in maniera unitaria nei confronti di tutti coloro che ne sono partecipi, debba e possa operare solo a senso unico - quando cioè il lavoratore convenga in giudizio il datore di lavoro facendo valere l’omissione contributiva con obbligo di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente previdenziale, e non anche quando convenga in giudizio l’ente previdenziale con obbligo di integrazione del contraddittorio nei confronti del datore di lavoro - continuandosi ad affermare dalla stessa S.C. che “in caso di omissione contributiva, il lavoratore, pur se abbia dato comunicazione all’ente previdenziale dell’inadempimento e quest’ultimo non si sia attivato per il recupero, non può agire nei confronti dell’istituto per l’accertamento dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, né chiedere all’ente di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi, atteso che l’obbligazione contributiva vede quale soggetto attivo l’ente assicuratore e quale soggetto passivo il datore” (Sez. L, n. 2164/2021, Calafiore, Rv. 660330-01, conforme a Sez. L, n. 3491/2014, Ghinoy, Rv. 630041-01).

Ulteriore disorientamento crea altra decisione che, pur richiamando i principi affermati da Sez. L n. 8956/2020 cit., in un giudizio di accertamento della natura subordinata delle prestazioni svolte nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, per l’illegittima stipula di contratti di collaborazione autonoma, a fronte di una domanda del lavoratore di condanna dell’amministrazione alla regolarizzazione contributiva, accede a soluzioni del tutto eccentriche rispetto a quanto ricostruito.

Sez. L n. 20697 del 28 giugno 2022, infatti, dopo aver escluso che il lavoratore fosse legittimato ad esercitare nei confronti del datore di lavoro pubblico il diritto alla regolarizzazione contributiva spettante soltanto all’ente previdenziale, si è limitata a cassare la decisione di merito, traendo quindi dalla mancata partecipazione al processo dell’ente previdenziale conseguenze diametralmente opposte, con una pronuncia di sostanziale inammissibilità di tale domanda per difetto del soggetto titolare del diritto fatto valere, in adesione ad un orientamento che invece si era ritenuto di superare, in luogo di disporre, come ci si sarebbe aspettato, l’integrazione del contraddittorio con rimessione delle parti avanti al primo giudice affinché provvedesse alla sua instaurazione ex novo.

6. La potenziale inutilità dell’integrazione del contraddittorio.

L’inesistenza in fatto e in diritto di un rapporto plurisoggettivo si ripercuote sulla effettiva utilità dell’integrazione del contraddittorio, laddove disposta, nelle ipotesi in cui l’istituto previdenziale, benché evocato in giudizio, non si costituisca oppure, ipotesi molto frequente, si costituisca limitandosi ad aderire alle conclusioni del lavoratore senza formulare a sua volta una domanda di condanna del datore del lavoro al pagamento dei contributi.

Pacifico che il lavoratore non sia titolare del diritto di credito ai contributi, in quanto l’unico soggetto legittimato a riceverli resta l’ente previdenziale, è evidente che l’integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo soggetto titolare del diritto non basta da sola a sanare il difetto di legittimazione del lavoratore, né a rendere una eventuale decisione utile perché opponibile dal lavoratore all’ente, dovendo piuttosto conseguire alla mancanza della titolarità della posizione soggettiva fatta valere il rigetto della domanda per originaria infondatezza.

Al fine di superare tale “impasse” si è affermato che il lavoratore che agendo nei confronti del datore di lavoro per far valere pretese attinenti al rapporto formuli anche una domanda a tutela della sua posizione contributiva, pur non potendo ottenere una condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi perché non è legittimato a richiederli, riceverebbe comunque una utilità dalla integrazione del contraddittorio nei confronti dell’istituto previdenziale con la condanna del datore di lavoro ad un “facere”, che, presumibilmente, dovrebbe consistere nell’adempimento dei contributi.

Sul punto non si può non convenire con quanti hanno già osservato che risulti oltremodo difficile configurare nel rapporto di lavoro un obbligo di “facere” rispetto ai contributi che abbia un contenuto diverso dal pagamento dei contributi; sembra quasi banale osservare che i contributi non si “fanno” ma si “versano” e che tutti gli adempimenti collaterali quali, ad esempio, l’apertura della posizione assicurativa presso l’Istituto, a nulla valgono se non supportati dal versamento effettivo della contribuzione.

Non si vede, quindi, quale utilità possa derivare al lavoratore da una condanna ad un “facere”, per giunta indefinito, che non potrebbe mai essere messo in esecuzione se non mediante la coazione al pagamento di un credito altrui, rispetto al quale egli resta, anche in sede esecutiva, privo della relativa titolarità.

In effetti, posto che la scelta di azionare un diritto di credito resta opzione di chi ne è titolare, sia che venga integrato il contraddittorio sia che ciò non avvenga, il lavoratore non potrà mai ottenere l’accredito dei contributi se tale richiesta non provenga dall’Istituto previdenziale che certamente non può essere coartato ad azionare il suo credito se non lo ritenga opportuno.

Ogni tentativo di imporre l’esistenza di un litisconsorzio necessario quando il lavoratore agisca nei confronti del datore di lavoro a tutela della sua posizione contributiva, a garanzia dello stesso lavoratore che ha proposto la domanda e che non potrebbe giuridicamente conseguire alcun diretto e concreto beneficio contributivo se non da una pronuncia giudiziale che faccia stato anche nei confronti dell’istituto previdenziale (4), si infrange sulla semplice constatazione che non basta convenire in giudizio un terzo per rendergli opponibile una condanna che abbia ad oggetto un diritto di cui egli è e resta unico titolare; motivo per il quale, per granitica giurisprudenza, il litisconsorzio necessario opera solo in presenza di situazioni soggettive plurime o di prestazioni inscindibili, condizioni che per le ragioni già evidenziate non sussistono nella materia contributiva.

7. Le difficoltà applicative nella giurisprudenza di merito.

La configurazione del litisconsorzio come necessario impone al giudice di primo grado di ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Istituto previdenziale ai sensi dell’art. 102 c.p.c.; se il contraddittorio non viene integrato in primo grado, il giudice dell’impugnazione, sia esso di appello che di legittimità, cui non è consentito sanare un contraddittorio rimasto non integro in prime cure, dovrà anche d’ufficio, previo sollecito del relativo contraddittorio fra le parti ai sensi dell’art. 101, c. 2 c.p.c., dichiarare la nullità della sentenza con rimessione della causa al primo giudice, ex art. 354, comma 1, c.p.c., o 383, comma 3, c.p.c. se viene disposto in sede di legittimità.

La statuizione, si è sostenuto, previa separazione delle cause, dovrebbe riguardare in ogni caso soltanto il capo della sentenza relativo alla condanna al pagamento dei contributi, e non anche quello di accertamento della natura del rapporto o di condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni.

Se l’ordine di integrazione del contraddittorio non viene adempiuto ne consegue l’estinzione del processo, ex art. 307, comma 3, c.p.c.

Su tali premesse, diversi sono i problemi processuali determinati dall’obbligo di integrazione, alcuni tipici di ogni “overrulling” ma che nella specie divengono difficili da giustificare data la potenziale inutilità dell’integrazione.

Innanzitutto, il mutamento di orientamento espone alla dichiarazione di nullità, anche in sede di legittimità, numerosissime sentenze conformi all’indirizzo processuale che univocamente aveva escluso il contraddittorio necessario.

Ne consegue un inevitabile allungamento dei tempi di definizione dei giudizi, un aggravamento dei costi in termini di maggiori spese processuali ed il rischio di un’estensione dell’oggetto del giudizio a questioni estranee al singolo rapporto di lavoro qualora il litisconsorte ente previdenziale ritenga di formulare domande autonome nei confronti del datore di lavoro.

Ripercussioni potrebbero aversi anche sulla individuazione della competenza, operando in materia contributiva il foro inderogabile di cui all’art. 444 c.p.c., sulla definizione rapida del giudizio, sulla incapacità a testimoniare del lavoratore.

Una eventuale separazione dei giudizi, infine, finisce per vanificare ex ante l’utilità di un accertamento contestuale, utile sia ai fini contrattuali che previdenziali, esponendo tutte le parti in causa nei rispettivi giudizi separati al rischio della formazione di giudicati contrastanti, anche in conseguenza del verificarsi di possibili vicende anomale di definizione delle due controversie.

8. Osservazioni conclusive.

Il tema della tutela del diritto del lavoratore alla regolarizzazione contributiva richiedeva indubbiamente un intervento sistematico in quanto affrontato da sempre con approccio casistico.

La complessità della materia impone, tuttavia, all’interprete da un lato di prestare molta attenzione alla corretta qualificazione della domanda del lavoratore, dall’altro di evitare appesantimenti processuali che finiscono per ostacolare più che favorire la tutela degli interessi coinvolti di rilevanza costituzionale.

Posta la condivisa configurazione in termini di autonomia dei diversi rapporti in gioco, gli scenari possibili potrebbero essere così ricostruiti:

1) il litisconsorzio necessario va certamente escluso quando il lavoratore agisce nei confronti del datore di lavoro solo per l’accertamento della natura del rapporto e di pretese retributive; sebbene la relativa decisione non sarà mai opponibile all’Istituto previdenziale, da tale accertamento discende per previsione legislativa l’obbligazione contributiva che tuttavia spetterà solo all’ente previdenziale, se notiziato anche ad iniziativa dello stesso lavoratore, far valere in giudizio;

2) il litisconsorzio necessario parimenti non sussiste quando il lavoratore conviene in giudizio il datore di lavoro per ottenere la condanna al risarcimento del danno derivante dal mancato versamento dei contributi, ormai prescritti; risarcimento, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante, che il lavoratore può parametrare alla riserva matematica necessaria per costituire la rendita vitalizia di cui all’art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338 e presuppone che siano maturati i requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale nonché l’intervenuta prescrizione del credito contributivo. (Sez. L, n. 15947 /2021, Piccone, Rv. 661459-01; Sez. L, n. 27660/2018, Ponterio, Rv. 651058-01).

In tal caso siamo in presenza di un’azione risarcitoria ex art. 2116 cpv. c.c. che ha come unico soggetto obbligato il datore di lavoro, senza alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’Istituto, sul presupposto, tuttavia, che sia accertata l’omissione contributiva, accertamento che può essere richiesto nel medesimo giudizio o derivare da altro giudizio intercorso tra le stesse parti;

3) il litisconsorzio necessario sussiste invece nei casi in cui il lavoratore agisca giudizialmente per ottenere la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, comma 5, della l. n. 1338 del 1962 per essersi il datore di lavoro sottratto al versamento all’INPS della relativa riserva matematica e per il cui versamento lo stesso datore resta obbligato, per il riflesso, sotto il profilo processuale, che assumono gli aspetti sostanziali individuati da Sez. U, n. 3678/2009 cit. e successive conformi;

4) casi controversi restano quelli in cui, in un giudizio promosso nei confronti del solo datore di lavoro, il lavoratore faccia valere il suo diritto alla cd. regolarizzazione contributiva, ove occorre procedere ad un’attenta qualificazione della domanda, senza accedere ad inutili formalismi definitori ma verificando in concerto, con un giudizio riservato al merito ed insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti del vizio di motivazione secondo la nuova formulazione, se la richiesta sia di mero accertamento e/o condanna generica quanto piuttosto di condanna del datore di lavoro al versamento di contributi non prescritti.

Sul punto giova ricordare che secondo costante e risalente giurisprudenza della S.C., l’interpretazione della domanda non è legata a formule sacramentali, ma deve essere operata in base alla lettura complessiva dell’atto nella sua interezza, considerati il contenuto sostanziale dell’atto medesimo, la natura della vicenda descritta e, soprattutto, la finalità che la parte intende perseguire col provvedimento chiesto in concreto;

4.1) in condivisione con l’orientamento più risalente, non può negarsi che sussista un interesse del lavoratore ad agire a tutela dell’integrità della sua posizione contributiva che è quello di ottenere, anche solo in via incidentale nel giudizio promosso nei confronti del datore di lavoro, una pronuncia che accerti l’inadempimento e la debenza dei contributi in vista di una successiva azione di risarcimento del danno nei confronti dello stesso datore di lavoro, realizzando una tutela preventiva, azionabile prima che si realizzi il danno rappresentato dalla perdita delle prestazioni, conseguente alla prescrizione dei contributi che, in quanto non titolare del relativo diritto, non è legittimato da interrompere.

Il diritto alla integrità della posizione contributiva costituisce quindi una autonoma posizione soggettiva che non presuppone alcun danno ma mira solo a preservare e cristallizzare la posizione con i contributi effettivamente maturati e non prescritti, e che il lavoratore può far valere anche solo nei confronti del datore di lavoro.

È evidente che, costituendo il rapporto di lavoro il presupposto imprescindibile dell’obbligazione contributiva, per il lavoratore rappresenta un indubbio vantaggio in termini processuali richiedere tale accertamento nello stesso giudizio promosso in ambito contrattuale.

Da non trascurare, poi, il potenziale effetto deterrente che lo stesso accertamento può esercitare nei confronti del datore di lavoro che potrebbe essere compulsato ad un adempimento spontaneo, e sanare l’irregolarità contributiva anticipando l’azione dell’Istituto e quindi la comminatoria di consistenti sanzioni.

Ebbene tale diritto alla regolarità contributiva ben può realizzarsi grazie ad un accertamento che prescinde dalla presenza in giudizio dell’ente previdenziale, e quindi senza la necessità di integrazione del contraddittorio, ma con legittimato passivo il solo datore di lavoro inadempiente, grazie ad una obbligazione contributiva, che presupporrebbe la presenza in giudizio dell’ente titolare dei contributi, che resta sullo sfondo in quanto attinta solo da un accertamento di tipo incidentale;

4.2) ultima ipotesi, infine, è quella in cui il lavoratore, senza convenire in giudizio l’Istituto previdenziale, chieda in maniera espressa la condanna del datore di lavoro al versamento di contributi non prescritti; in tale ultima evenienza, fatta salva la possibilità di pronunciarsi comunque sull’accertamento, presupposto di ogni domanda di condanna, il giudice dovrebbe limitarsi a rilevare il difetto di legittimazione del lavoratore rispetto ai contributi dovuti all’ente terzo, concludendo per il rigetto di questa parte della domanda, come nei confronti di chiunque agisca in giudizio per far valere un diritto altrui, senza che tale possibilità gli sia stata riconosciuta convenzionalmente o da espressa previsione legislativa.

L’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Istituto previdenziale in questi casi sembra costituire, invece, un aggravio in termini di costi e di durata del processo - che si pone in contrasto con i principi del giusto processo di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, che impongono di contemperare il principio del contraddittorio con quello della ragionevole durata dell’attività giurisdizionale che verrebbe irrimediabilmente pregiudicata se fosse consentito di rallentare ingiustificatamente lo sviluppo del processo ritardandone la sua definizione, - oltre che, e soprattutto, un adempimento dissonante rispetto ai principi generali in tema di litisconsorzio necessario nonché potenzialmente inutile per la tutela della posizione contributiva, che resterebbe comunque condizionata alla condotta processuale dell’Istituto chiamato in giudizio.

Quanto al mutato orientamento di legittimità, alla luce delle suindicate considerazioni, non resta che sollecitarne una rimeditazione, anche mediante una rimessione alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c., auspicando un ritorno alla precedente nomofilachia che escludeva l’obbligo per il giudice di procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente previdenziale nelle azioni promosse dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro a tutela della regolarità della sua posizione contributiva.

  • indennità di licenziamento
  • licenziamento
  • credito
  • prescrizione dell'azione

APPROFONDIMENTI TEMATICI

SEZIONE PRIMA - LA DECORRENZA DELLA PRESCRIZIONE DEI CREDITI RETRIBUTIVI

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le linee del dibattito. - 2.1 Segue: tutela avverso il licenziamento ritorsivo e “metus”. - 3 La sentenza n. 26246/2022. - 4 L’area di incidenza della pronunzia. - 5 L’azzeramento della prescrizione al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012.

1. Premessa.

All’indomani dell’entrata in vigore della cd. “legge Fornero”, che, come noto, ha ridisegnato la disciplina dei licenziamenti individuali - diversificando la tipologia dei vizi afferenti l’atto espulsivo e rimodulando in vario modo l’apparato sanzionatorio, mediante una contrazione del rimedio della reintegra -, è venuta immediatamente all’attenzione dell’interprete la delicata questione della sopravvivenza, o meno, con riguardo ai rapporti di lavoro intercorrenti con aziende medio-grandi, del regime di decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, giustificato dalla “stabilità” che il diritto vivente aveva ritenuto antidoto idoneo a scongiurare quel “metus” ipoteticamente preclusivo - secondo una nota sentenza della Corte costituzionale del 1966 (su cui v. subito “infra”) - di iniziative del lavoratore volte a rivendicare spettanze economiche derivanti dall’espletamento del rapporto.

Si è quindi assistito ad una divaricazione di posizioni - sviluppatasi in egual misura e sul fronte dottrinario e su quello della giurisprudenza di merito - tra chi era dell’idea che il mantenimento del rimedio ripristinatorio nell’ipotesi di licenziamento “ritorsivo” costituisse adeguato argine al sorgere del “metus” e chi, viceversa, riteneva che la residualità della sanzione reintegratoria (sia nel sistema della “legge Fornero” e, ancor più, in quello del “Jobs Act”) avesse oramai determinato una erosione del requisito della “stabilità” anche nelle aziende medio-grandi e, per conseguenza, una unificazione di regime nell’ambito del rapporto di lavoro nel segno della “non decorrenza” della prescrizione nel corso del rapporto stesso.

A porre fine al dibattito è intervenuta Sez. L, n. 26246/2022, Patti, Rv. 665514-01, seguita da un’altra pronunzia di identico segno (Sez. L, n. 30958/2022, Garri, non massimata), che ha preso posizione per il secondo orientamento, sulla base di un complesso di argomentazioni che si andranno di seguito ad illustrare, non prima di aver dato rapidamente conto, nei passaggi centrali, delle tesi sviluppatesi, in precedenza, sul tema.

2. Le linee del dibattito.

Sul tema si era, in particolare, ritenuto che, a seguito della riforma “Fornero”, non potesse valere l’orientamento imperniato sulla non decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in corso di rapporto, rilevandosi, sostanzialmente, come la pronunzia della Corte costituzionale n. 63 del 10 giugno 1966 (con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c., limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro) fosse intervenuta in un sistema - che non conosceva la tutela reintegratoria - diverso da quello delineato con gli ultimi interventi legislativi, in virtù del quale la garanzia della stabilità era da soppesarsi sulla base di una interpretazione adeguatrice dell’art. 2948, n. 4, c.c., in rapporto ai concreti strumenti di cui il lavoratore può disporre per reagire ad un licenziamento intimato in conseguenza di rivendicazioni retributive.

In tale prospettiva, si evidenziava che l’apparato normativo volto a sanzionare il licenziamento cd. “ritorsivo” offre al lavoratore medesimo un meccanismo di tutela idoneo ad escludere quel “metus” posto dalla Corte costituzionale a fondamento della pronuncia additiva.

A tale tesi si obiettava che l’interpretazione adeguatrice del citato articolo, come già modificato a seguito della citata sentenza della Corte, non poteva che muovere dal diritto vivente, come consolidatosi negli anni a seguito delle successive sentenze della Corte costituzionale (nn. 143 del 20 novembre 1969 - ove è affermato che il beneficio della non decorrenza della prescrizione in corso di rapporto non può essere riconosciuto al lavoratore pubblico, il cui rapporto è caratterizzato da una forza di resistenza che è data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto -, e 174 del 12 dicembre 1972 - nella cui motivazione è precisato che è escluso dal beneficio il lavoratore privato titolare di un rapporto garantito da stabilità, la quale, comunque, non è assicurata «se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare» -) e della S.C. (cfr. SU, n. 1268/1976, Vela, Rv. 379956-01: «Premesso che il principio della non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro opera solo per quei rapporti che non sono assistiti dalla garanzia della stabilità - come risulta dalla evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia - deve ritenersi stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate, e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide attualmente con l’ambito di operatività della legge 20 maggio 1970, n 300 - dati gli effetti attribuiti dall’art 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’art 8 della legge 15 luglio 1966, n 604 -, può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità»), dal quale promanava la regola che la prescrizione non decorre in corso di rapporto, a meno che non vi sia stabilità.

In tale ottica, occorreva solo verificare se, a seguito delle modifiche normative in tema di licenziamento, la predetta stabilità fosse ancora ravvisabile, non potendo ignorarsi il peso del diritto vivente ed accordare esclusivo riguardo alla richiamata pronunzia del 1966 (nella quale il nucleo della motivazione era incentrato sul concetto di “metus” e non su quello di stabilità); infatti, una valutazione isolata della predetta pronunzia non era mai stata effettuata in passato e il mutato panorama normativo non giustificava un approccio interpretativo di tipo diverso. In buona sostanza - si sottolineava - la stabilità era sempre stata per lo più intesa come sussistenza, nel sistema, della reintegra generalizzata (la quale esclude il “metus” derivante dalla prospettiva di una intimazione di un licenziamento dalla cui ravvisata eventuale illegittimità non potrebbe in alcun modo discendere la ricostituzione del rapporto), non quindi correlata al solo caso del licenziamento ritorsivo, del resto da sempre ritenuto nullo, attesa la illiceità del motivo ex art. 1345 c.c., punibile, quindi, per principi generali, e in ogni caso, con la misura ripristinatoria.

Il tema si presentava, pertanto, non poco complesso, perché il dibattito traeva origine da due punti di vista non convergenti.

Secondo il primo, l’attenzione andava concentrata sulle ragioni del “metus”, da ritenersi “qualificate” e, quindi, rilevanti solo in quanto il licenziamento fosse conseguenza della pretesa retributiva, divenendo “ritorsivo”; sicché, nella valutazione del predetto “metus”, avrebbe dovuto guardarsi solo alla tutela specifica che l’ordinamento appresta per tale forma di licenziamento.

Secondo l’altro, invece, occorreva attribuire rilievo al mero timore derivante dalla eventualità di un licenziamento che, in astratto ed “ex ante”, avrebbe potuto essere idoneo, benché dichiarato illegittimo, ad interrompere un rapporto il cui ripristino non era in alcun modo realizzabile.

2.1. Segue: tutela avverso il licenziamento ritorsivo e “metus”.

In realtà, sullo sfondo, dominava un aspetto, non completamente messo a fuoco dai fautori dell’una e dell’altra tesi, in grado di rendere chiara la portata e, soprattutto, la rilevanza del “metus”.

Infatti, nella formazione del diritto vivente, si è verosimilmente tenuto conto, sia pur in via implicita, della strutturazione del sistema, che pone l’onere della prova delle “causali” classiche del licenziamento in capo al datore di lavoro, mentre la dimostrazione del licenziamento ritorsivo (pur agevolata in ragione dell’operatività delle presunzioni), gravante sul lavoratore, costituendo un appesantimento (evidentemente preso in considerazione al fine di escludere che la prescrizione decorresse in regime di tutela obbligatoria) della sua posizione, non esclude il “metus” (insito, tanto per fare un esempio, nella prospettiva di una intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato dalla generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, suscettibile di essere dichiarato illegittimo per mancata osservanza dei criteri di scelta, non comportante la reintegra, ove il lavoratore non riesca a provare l’intento ritorsivo).

In buona sostanza, potrebbe plausibilmente ritenersi che anche la tutela avverso il licenziamento ritorsivo non esclude il “metus”, che è dato dalla consapevolezza che la mancata prova, ad opera del datore di lavoro, della legittimità del licenziamento, non basterebbe a condurre alla ricostituzione del rapporto (non potendo dalla mancata dimostrazione del giustificato motivo oggettivo trarsi in via meramente automatica quella della ritorsione).

3. La sentenza n. 26246/2022.

In tale scenario è intervenuta la citata sentenza n. 26246/2022 della S.C., la quale ha statuito che «Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro».

La motivazione è incentrata - sulla scorta delle sopra citate pronunzie della Corte costituzionale nonché delle Sezioni Unite, per effetto delle quali, come visto, la regola della decorrenza della prescrizione in corso di rapporto vale solo ove sia garantita la “stabilità” - sui seguenti principi: a) il criterio di individuazione del “dies a quo” di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara, predeterminata e di semplice identificazione, sicché occorre, a tal fine, verificare se, a seguito della riforma sulla disciplina dei licenziamenti, sia configurabile, nelle aziende medio-grandi, un regime di stabilità; b) la tutela reintegratoria, nel nuovo panorama normativo, ha un carattere recessivo, nel senso che non costituisce la forma ordinaria di tutela contro ogni forma illegittima di risoluzione, sicché: c) l’attuale quadro normativo non pare assicurare una adeguata stabilità del rapporto di lavoro; infatti: d) la prescrizione decorre in corso di rapporto solo ove la reintegrazione non solo sia, ma appaia la sanzione contro ogni illegittima risoluzione nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto di lavoro, perché a questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di “metus” del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso; e) la stabilità non è garantita dalla previsione della reintegra per l’ipotesi di licenziamento ritorsivo (ipotizzabile ove il lavoratore si rendesse autore di rivendicazioni retributive nel corso del rapporto di lavoro), poiché l’individuazione della natura di un tale licenziamento sarebbe opera del giudice, con accertamento “ex post”, «così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato … per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema)»; ne consegue che: f) per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto, non operando il regime della sospensione della prescrizione, che riguarda ipotesi tassative e, comunque, presuppone la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione.

4. L’area di incidenza della pronunzia.

La pronuncia della Suprema Corte non pare possa avere implicazioni in relazione a crediti risarcitori, in quanto il principio della non decorrenza della prescrizione in corso di rapporto è correlata, in via esclusiva, alla retribuzione di cui all’art. 36 Cost., essendo solo quest’ultima che, per la sua funzione di soddisfacimento delle fondamentali esigenze di vita del dipendente, sfugge alla regola generale.

Diviene, pertanto, a questo punto rilevante stabilire se una determinata posta sia dovuta a titolo retributivo o risarcitorio; dovendo qui sottolinearsi che se, in precedenza, il lavoratore poteva avere interesse alla qualificazione di una posta come risarcitoria, in ragione del più lungo termine di prescrizione rispetto a quello quinquennale entro cui far valere il credito retributivo, oggi avrà interesse contrario, per effetto della non decorrenza della prescrizione.

Ed è probabile che, in tale scenario, si approfondirà il tema della plausibilità della conversione della retribuzione in risarcimento in quelle ipotesi - ove la somma a titolo risarcitorio viene liquidata sulla base delle retribuzioni non corrisposte - in cui la prima non sia stata erogata per effetto di una “apparente” fattispecie ostativa (il cd. “schermo”) poi venuta meno a seguito di pronuncia giudiziale.

5. L’azzeramento della prescrizione al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012.

Secondo la S.C., per tutti i crediti non prescritti al momento di entrata in vigore della legge “Fornero” la prescrizione decorre dalla data di cessazione del rapporto di lavoro; pertanto, anche ove il giorno prima della predetta entrata in vigore fossero trascorsi quattro anni, undici mesi e 29 giorni, dalla maturazione del diritto, il lavoratore potrà beneficiare di altri cinque anni dalla cessazione del rapporto per far valere la sua pretesa, senza dover sommare il periodo già trascorso a quello successivo alla data della predetta cessazione.

La Cassazione sostiene, al riguardo, che non può applicarsi la regola sulla sospensione della prescrizione perché, da un lato, essa prevede ipotesi tassative e, dall’altro, presuppone un originario termine di decorrenza.

Tuttavia - benché la complessità del tema richieda ben più ampie riflessioni - potrebbe anche ritenersi che, qui, in effetti, per i crediti retributivi sorti in data anteriore a quella di entrata in vigore della legge “Fornero”, l’originario termine di decorrenza sussisteva, solo che, poi, il decorso della prescrizione si è arrestato per effetto della perdita della garanzia di “stabilità”; e, inoltre, che la sospensione della prescrizione è il derivato della pronuncia della Corte costituzionale del 1966 e del diritto vivente successivamente formatosi, sicché essa può dirsi normativamente contemplata, come del resto sembrano attestare le pronunce della S.C. in cui si parla di “principio della sospensione della decorrenza della prescrizione di cui all’art. 2948 n. 4 c.c.” (v., tra le altre, Sez. L, n. 5492/1988, Ciciretti S., Rv. 460094-01).

D’altra parte, in passato, il regime di stabilità era, per così dire, mobile, nel senso che esso poteva variare a seconda del numero degli occupati (o nelle ipotesi in cui, ad esempio, ad un dipendente venisse in corso di rapporto attribuita la qualifica dirigenziale); e sembra potersi ritenere che ove, nel tempo, tale numero fosse sceso, ad esempio, da 20 a 10, dovesse arrestarsi il decorso della prescrizione, per poi, ove il numero fosse risalito a 20, riprendere a decorrere dalla cessazione del rapporto, ove il numero fosse poi definitivamente rimasto inferiore alle 16 unità, ma solo per il periodo non prescritto.

Non sembra pertanto del tutto chiara la ragione per cui l’inerzia del lavoratore nel periodo in cui vigeva la garanzia della stabilità non debba essere considerata.

Peraltro, una tale ipotesi non sembra possa essere equiparata a quella esaminata dalla S.C. con riferimento all’impatto della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 1966 sui rapporti pendenti (cfr. Sez. L, n. 2627/1985, Mollica F., Rv. 440431-01, ove è affermato che «La sentenza n. 63 del 1966 della Corte costituzionale - che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il n. 4 dell’art. 2948 c.c. limitatamente alla parte in cui consente che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro - ha fatto venir meno “ab origine” tale disposizione così che - non potendo essa esser più opposta in via di eccezione dal datore di lavoro per resistere alla pretesa del lavoratore fino a quando il rapporto non è stato caratterizzato dal requisito della stabilità reale, introdotta solo con l’art. 18 dello statuto dei lavoratori - il periodo di prescrizione eventualmente maturato prima della pubblicazione della citata sentenza è irrilevante e non è possibile cumularlo con il periodo di prescrizione maturato successivamente all’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori»).

Nel nostro caso, infatti, non si ha una nuova norma che modifica il regime della prescrizione, ma solo una disciplina che incide in negativo sulla garanzia della stabilità.

  • terrorismo
  • criminalità organizzata
  • aiuto alle vittime

APPROFONDIMENTI TEMATICI

SEZIONE SECONDA - DEI BENEFICI IN FAVORE DELLE VITTIME DI ATTI TERRORISTICI, DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, DEL DOVERE E SOGGETTI EQUIPARATI.

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 Lo status di vittima del dovere, condizioni di esclusione e delimitazione dei beneficiari. - 2 La natura selettivo-regolativa dell’art. 6, comma 3, della l. n. 206 del 2004 e la conseguente applicabilità anche alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore. - 3 Sulla liquidazione dell’assegno vitalizio di cui all’art. 2 della l. n. 407 del 1998 e sui presupposti per il riconoscimento dei benefici di cui all’art. 1, comma 563, lett. f) della l. n. 266 del 2005.

1. Lo status di vittima del dovere, condizioni di esclusione e delimitazione dei beneficiari.

Il giudice di legittimità ha precisato che la condizione di vittima del dovere - tipizzata dall’art. 1, commi 563 e 564, della l. n. 266 del 2005 - ha natura di status e da tale affermazione ha desunto l’imprescrittibilità dell’azione volta a detto accertamento, sottolineando, per converso, che si prescrivono, invece, tutti i benefici economici, previdenziali ed assistenziali, che trovano origine e presupposto in detta condizione, come, per esempio, i ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge (cfr. Sez. L, n. 17440/2022, Cavallaro, Rv. 664852-01).

Benché il principio di cui innanzi sia stato espresso in relazione alle sole vittime del dovere, è da ritenere che il fondamento che lo sorregge valga anche con riguardo alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

Sez. 1, n. 16844/2022, Iofrida, Rv. 664876-01, si è, invece, occupata di delimitare le ipotesi di esclusione del riconoscimento di detto status con riferimento all’art. 1, comma 2, lett. b), della l. n. 302 del 1990, come modificata dalla l. n. 407 del 1998, applicabile ratione temporis.

Il giudice di legittimità ha sul punto ritenuto che ai fini dell’esclusione delle provvidenze in favore delle vittime dei reati di criminalità organizzata e dei loro familiari, ai sensi dell’art. 1, comma 2 lett. b) della legge n. 302 del 1990, i dubbi in ordine alla non totale estraneità della vittima “ad ambienti e rapporti delinquenziali” devono essere comunque ragionevoli e “vestiti” o “qualificati”, in modo da consentire ai familiari, sui quali incombe l’onere di provare tale estraneità, di dimostrare, a fronte delle allegazioni dell’amministrazione, che il congiunto era del tutto estraneo a detti ambienti e quindi “vittima innocente”.

In attuazione del predetto principio, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia del giudice di merito che aveva ritenuto non provata la totale estraneità della vittima, uccisa nel 1982, limitandosi ad affermare che lo stesso risultava indiziato di associazione a delinquere e spaccio di sostanze stupefacenti sulla base di informative della Questura risalenti agli anni 2004-2005, in cui si riferiva esclusivamente che la vittima era stata “indiziata di delitto e/o pregiudicata per atti osceni”, senza alcuna indicazione ulteriore per identificare l’Autorità e gli atti di indagine ai quali si faceva riferimento.

La questione delle condizioni di esclusione dallo status di vittime, peraltro, era stata già indagata in termini più generali da Sez. L, n. 31136/2019, Tria, Rv. 655903-01.

In tema di benefici a favore delle vittime della criminalità organizzata e dei loro familiari, il requisito dell’estraneità all’ambiente mafioso - aveva puntualizzato il giudice di legittimità - è necessario per “tutti i soggetti destinatari”, dovendosi comprendere nell’espressione anche i familiari delle vittime e i loro superstiti, per effetto del richiamo congiunto compiuto dagli artt. 9 bis e 4 della l. n. 302 del 1990 all’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge, al fine di impedire l’attribuzione di strumenti di solidarietà previsti per le vittime di atti criminosi in favore dei loro autori o di persone ad essi contigue, e risultando in contrasto con l’art. 3 Cost. una richiesta del requisito per le vittime e non anche per i loro familiari o aventi causa

Rispetto a detta affermazione di principio Sez. 1, n. 16844/2022, Iofrida, Rv. 664876-01, innanzi ricordata, costituisce una importante delimitazione degli oneri di allegazione e prova incombenti sulle parti processuali, al fine di evitare che i meri dubbi si possano tradurre in pregiudizio delle vittime, cui deve essere consentito, rispetto a specifiche contestazioni, provare essere “innocenti” ed estranee alla criminalità.

Quanto invece alla delimitazione dei beneficiari, va rammentata Sez. L, n. 11181/2022, De Felice, Rv. 664304-01, in cui si afferma che i superstiti delle vittime del dovere, aventi titolo - in virtù di quanto disposto dall’art. 2, comma 105, della l. n. 244 del 2007 - al beneficio di cui all’art. 5, commi 3 e 4, della l. n. 206 del 2004, come modificato dal comma 106 del citato art. 2, sono quelli individuati dall’art. 6 della l. n. 466 del 1980, ai sensi del quale la provvidenza non compete ai figli non a carico fiscale della vittima all’epoca del decesso ove il coniuge avente diritto sia vivente, in coerenza con la finalità assistenziale delle erogazioni, dirette ad indennizzare i familiari colpiti, in ragione del pregiudizio subito in conseguenza del traumatico mutamento delle proprie condizioni di vita. L’affermazione contenuta in detta pronunzia si pone in tendenziale linea di continuità con Sez. U, n. 22753/2018, D’Antonio, Rv. 650606-01, in cui, operandosi una oculata distinzione, tra vittime del dovere e della criminalità organizzata, già si affermava che i superstiti delle vittime del dovere sono quelli individuati dall’art. 6 della l. n. 466 del 1980 che, per la categoria dei fratelli e delle sorelle, richiede il requisito della convivenza, al fine dell’erogazione dei benefici, in ragione della natura assistenziale di questi ultimi; la l. n. 266 del 2005 non ha provveduto, infatti, all’unificazione della categoria delle vittime del dovere con quella delle vittime della criminalità organizzata, avendo solo fissato l’obiettivo di un progressivo raggiungimento di tale fine; né tale interpretazione si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., trattandosi di erogazioni speciali previste per categorie portatrici di diritti posti a presidio di differenti valori, sia pure tutti di rilevanza costituzionale.

Nella specie, la S.C. ha respinto la domanda delle sorelle né conviventi, né a carico, di un militare deceduto a causa di una sciagura aerea, volta al riconoscimento del loro inserimento, quali superstiti di vittima del dovere, nell’apposito elenco di cui all’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 243 del 2006, al fine di fruire dei benefici previsti dalla normativa vigente.

Emerge dunque dalla fattispecie all’esame della S.C., nella sua massima composizione, il principio generale secondo il quale i superstiti delle vittime del dovere, per beneficiare delle provvidenze di cui innanzi debbono essere “a carico” del defunto.

Sempre con riferimento alla individuazione dei soggetti, titolari dei trattamenti, va ricordata Sez. L, n. 18539/2022, Marotta, Rv. n. 664917-01 che si occupa del peculiare tema della assunzione delle categorie protette da parte degli enti locali.

Sul punto, che involge il tema delicato della deroga ai principi costituzionali al pubblico concorso, in modo attento ed oculato, la S.C. nega la possibilità di una interpretazione estensiva o analogica della normativa, con riguardo alla individuazione dei beneficiari. Il giudice di legittimità statuisce, infatti, che in tema di assunzione da parte delle pubbliche amministrazioni di appartenenti alla categoria delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata o loro congiunti, il fratello superstite, anche se convivente, non ha diritto alla assunzione per chiamata nominativa da parte dell’Ente locale, considerato che la deroga al pubblico concorso riguarda solo il coniuge superstite, e i figli delle predette vittime, non trovando poi applicazione, nella specie, l’art. 1, comma 2, della l. n. 407 del 1988 che contempla fra gli aventi diritto anche i fratelli conviventi, ma solo con riferimento all’assunzione del personale contrattualizzato dei Ministeri per i livelli retributivi dal VI all’VIII.

In materia di trattamenti previdenziali ed assistenziali in favore delle vittime di atti terroristici, il diritto all’assegno vitalizio previsto dall’art. 5, comma 3 bis, della l. n. 206 del 2004, introdotto dalla l. n. 147 del 2013, in favore del coniuge e dei figli dell’invalido portatore di una invalidità permanente non inferiore al 50 per cento a causa dell’atto terroristico subìto, evidenzia inoltre Sez. L, n. 11180/2022, Calafiore, Rv. 664303-01, non è condizionato all’esistenza in vita della vittima del terrorismo alla data di entrata in vigore della citata l. n. 147, atteso che tale presupposto non è richiesto dal disposto normativo, che attribuisce a tali soggetti un nuovo diritto spettante iure proprio, con la esplicita esclusione del caso in cui il coniuge, poi deceduto, o l’ex coniuge divorziato o i figli nati da precedente matrimonio, e viventi al momento dell’evento, abbiano già percepito le prestazioni previste dalla predetta l. n. 206 del 2004.

2. La natura selettivo-regolativa dell’art. 6, comma 3, della l. n. 206 del 2004 e la conseguente applicabilità anche alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore.

Nel corso dell’anno 2022 le Sezioni Unite hanno altresì affrontato la seguente questione di massima di particolare importanza, sollevata nell’ordinanza Sez. L, n. 6931/2021, Mancino, cui hanno fatto seguito Sez. L, n. 6932/2021, Cavallaro, Sez. L, n. 8004/2021, Calafiore, Sez. L, n. 9312/2022, Buffa: “Se alle liquidazioni delle provvidenze per le vittime del dovere effettuate successivamente alla data di entrata in vigore dell’art. 6, comma 1, della l. n. 206 del 2004 si applichino i criteri di calcolo di cui all’art. 3 d.P.R. n. 181 del 2009 o piuttosto quelli contenuti nell’art. 5 d.P.R. n. 243 del 2006, in relazione al disposto degli artt. 5 e 6 della l. n. 206 del 2004”.

Il tema sottoposto alle S.U. investiva la metodologia di calcolo della percentuale di invalidità e la valutazione se sia corretto l’utilizzo dei criteri previsti dal d.P.R. n. 181 del 2009, anche per le liquidazioni effettuate dopo l’entrata in vigore della l. n. 204 del 2006, o se piuttosto tale normativa, in armonia con il criterio della interpretazione letterale, fornisca un parametro per la sola riliquidazione delle indennità già riconosciute e non di quelle ancora da riconoscere.

L’interrogativo cui la S.C. ha fornito risposta è quindi il seguente: se il comma 1 dell’art. 6 della l. n. 206 del 2004 che, in buona sostanza, prevede una valutazione unica dell’invalidità complessiva (comprensiva di menomazione della capacità di lavoro, del danno biologico e di quello morale), riferito letteralmente alle rivalutazioni delle percentuali di invalidità già riconosciute ed indennizzate - sia applicabile o meno alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della legge.

Le conseguenze scaturenti da tale seconda opzione porterebbero quale conseguenza l’abrogazione implicita di ogni altro anteriore sistema di calcolo della percentuale e quindi anche di quelli previsti dal d.P.R. n. 243 del 2006 all’art. 5.

Sul tema, Sez. U, n. 6214/2022, Marotta, Rv. n. 664036-01, all’esito di un’amplissima ed argomentata motivazione, hanno affermato che in materia di trattamenti in favore delle vittime di atti terroristici, della criminalità organizzata, del dovere e dei soggetti ad essi equiparati, l’art. 6, comma 1, della l. n. 206 del 2004 svolge una funzione, non meramente rivalutativa, ma selettivo regolativa, con la conseguenza che il criterio ivi previsto è applicabile anche alle liquidazioni effettuate successivamente alla sua entrata in vigore, sicché i benefici dovuti alle vittime innanzi indicate devono essere parametrati alla percentuale di invalidità complessiva, da quantificarsi con criteri medico legali previsti dagli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 181 del 2009.

Il giudice di legittimità, nella sua massima composizione, nel percorso argomentativo seguito, effettuata la ricostruzione storica della complessa e variegata evoluzione normativa sul tema, in relazione alla questione sul tappeto, prende le mosse dalla l. n. 206 del 3 agosto 2004, dando atto che anteriormente alla sua emanazione si era in presenza, quanto alla materia delle liquidazioni delle provvidenze, di un vuoto normativo, ovviato in concreto con l’applicazione delle tabelle militari o di quelle dell’Inail.

Nel dettaglio, viene evidenziato come la l. n. 206 del 2004 abbia sistematizzato provvidenze e i benefici per le vittime del terrorismo, provvedendo ad un ampliamento della platea dei beneficiari e delle misure.

Quanto alla valutazione percentuale cui commisurare i trattamenti, con il corpus normativo da ultimo indicato, il legislatore, osserva la S.C., ha prefigurato una nuova modalità di parametrazione “in rapporto alle invalidità permanenti conseguenti ad atti terroristici. Così ha sancito, all’art. 5, il diritto ad una elargizione proporzionata al grado di invalidità (…) e, per quanto, si vedrà rileva nel presente giudizio, ha disposto, all’art. 6, comma 1, che : “Le percentuali di invalidità già riconosciute ed indennizzate in base ai criteri e alle disposizioni della normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge sono rivalutate tenendo conto dell’eventuale intercorso aggravamento fisico e del riconoscimento del danno biologico e morale. Per le finalità è autorizzata la spesa di 300.000 euro per l’anno 2004”.

Si evidenzia nella sentenza in commento che la disposizione da ultimo richiamata, prevedendo che la rivalutazione delle percentuali già riconosciute ed indennizzate debba tener conto del danno morale, quindi di una voce di danno integrativa rispetto a quelle già liquidate, non ha solo lo scopo di fronteggiare il fenomeno dell’inflazione, ma è piuttosto rivolta a dettare un criterio innovativo, in virtù del quale effettuare anche le nuove liquidazioni.

In tale contesto, la l. n. 266 del 23 dicembre 2005, con il comma 563, opera ai fini delle liquidazioni l’equiparazione tra le diverse vittime di cui all’art. 82 della legge finanziaria del 2001, riconducendo ad unità il sistema, rimettendo ad un regolamento ad emanarsi la disciplina dei termini e delle modalità per la corresponsione delle provvidenze.

Il vuoto normativo sui criteri di liquidazione, non colmato dal d.P.R. n. 243/2006, viene regolamentato, sottolineano le S.U., dal d.P.R. n. 181 del 2009, con il quale il danno morale viene ritenuto categoria autonoma all’interno del più ampio paradigma del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c.

Del resto, sottolinea il giudice di legittimità, nemmeno è in discussione la portata “oggettiva” del d.P.R. n. 181 del 2009 - le modalità attraverso le quali effettuare la rivalutazione - essendo pacifico che il testo regolamentare innanzi richiamato abbia previsto una liquidazione autonoma del danno morale secondo i criteri ivi indicati.

Il tema a decidersi, viene evidenziato, riguarda, invece, la portata “soggettiva” delle disposizioni.

Tanto premesso, la S.C. ha dunque osservato che il d.P.R. n. 181 del 2009, che si applica alle vittime del terrorismo, della criminalità e del dovere e ai soggetti equiparati (cfr. punto 8.19), ponendosi come momento di puntuale e testuale attuazione della normativa primaria, si riferisce e detta criteri non solo per le riliquidazioni, ma anche (anzi principalmente) per le nuove liquidazioni, nelle quali deve essere valorizzato all’interno del danno non patrimoniale anche quello morale.

A tale esito perviene rilevando che dall’esame della Premessa del d.P.R. n. 181 del 2009 emerge che l’emanazione dello stesso è frutto della notazione che sia le disposizioni di cui al d.P.R. n. 243 del 2006 che quelle del d.P.R. n. 510 del 1999 in materia di riconoscimento delle invalidità hanno bisogno di integrazioni anche ai fini dell’applicazione dell’art. 6, comma 1, della l. n. 206 del 2004, sicché occorre “disciplinare i criteri medico-legali con disposizioni di carattere generale cui debbono attenersi le commissioni mediche di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 520 del 1999”.

In estrema sintesi, si ritiene che il d.P.R. n. 181 del 2009 abbia lo scopo di riempire il vuoto normativo e dettare criteri non solo per la riliquidazione, ma più in generale per la liquidazione delle provvidenze in esame.

Viene, quindi, esaminato e delineato il contenuto - e dunque delimitato l’ambito di applicativo - del d.P.R. n. 181 del 2009, evidenziando che:

- all’art. 1 sono contenute sia la definizione di danno biologico che quella di danno morale;

- all’art. 2, viene previsto che la valutazione della percentuale di invalidità di cui all’art. 6, comma 1, della l. n. 206 del 2004 debba essere espressa in una percentuale unica che ricomprenda sia il danno biologico che quello morale;

- all’art. 3 (Criteri medico legali per la valutazione dell’invalidità permanente) si dispone che la percentuale di invalidità permanente (IP), riferita alla capacità lavorativa, è attribuita scegliendo il valore più favorevole tra quello determinato in base alle tabelle di cui al decreto del Ministro della sanità del 5.2.1992 e quello di cui alle tabelle allegate al d.P.R. n. 915 del 1978 (nello specifico il riferimento è alle tabelle A, B, E ed F1 del suddetto decreto);

- all’art. 4 (Criteri medico legali per la rivalutazione dell’invalidità permanete e la determinazione del danno biologico e morale) vengono, invece, dettati i criteri medico legali per la rivalutazione delle indennità già riconosciute ed indennizzate, disponendo che: a) l’invalidità permanente venga determinata ai sensi del precedente art. 3 (con riferimento quindi alla capacità lavorativa); b) il danno biologico (rectius la percentuale del) sia valutato in base alla tabella delle menomazioni di cui agli artt. 138, comma 1, e 139, comma 4, del d.lgs. n. 209 del 2005; c) il danno morale venga commisurato caso per caso, utilizzando i parametri previsti nella medesimo art. 4, fino ad un massimo di 2/3 del biologico; d) l’invalidità complessiva, di cui all’art. 6 della l. n. 206 del 2004 sia pari alla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e della differenza, se positiva, tra l’invalidità riferita alla capacità lavorativa e il danno biologico, secondo la formula IC = DB+DM+(IP-DB).

La disamina delle innanzi ricordate disposizioni, osservano le Sezioni Unite, rende palese l’infondatezza della tesi secondo la quale la liquidazione effettuata ai sensi dell’art. 3 sarebbe già comprensiva del danno morale; l’art. 3, infatti, come si evince dal dato testuale, si riferisce alla sola diminuzione della capacità lavorativa, mentre al danno biologico e morale fa riferimento il successivo art. 4, in aggiunta alla capacità lavorativa valutata ex art. 3 (come visto, infatti, nel computo finale il danno morale si aggiunge al danno biologico ed all’eventuale differenziale in aumento alla riduzione della capacità lavorativa, di modo che - si precisa - l’art. 4 è la norma che si preoccupa di individuare i criteri attraverso i quali l’invalidità permanente va integrata con il danno biologico e quello morale).

Ebbene, soggiunge la S.C., se è vero che sia l’art. 2 che l’art. 4 del d.P.R. n. 181 del 2009 riferiscono testualmente la commisurazione della invalidità complessiva alla rivalutazione delle percentuali di invalidità già riconosciute ed indennizzate (conseguentemente in adesione al mero dato letterale l’art. 4 del d.P.R. del 2009 non si applicherebbe alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della l. n. 206 del 2004, cui andrebbe per converso applicato l’art. 5 del d.P.R. n. 243 del 2006 quanto alla commisurazione del solo danno biologico e l’art. 3 del d.P.R. n. 181 del 2009, in ordine alla determinazione, invece della invalidità permanente), la mera valorizzazione del solo dato letterale, non è appagante, negligendo il profilo sistematico, trascurando non solo la Premessa del d.P.R. cui già innanzi si fatto riferimento, ma anche l’art. 6 del d.P.R. 181 del 2009.

Il primo comma della disposizione innanzi citata prevede, invece, una applicazione generalizzata delle regole di liquidazione di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 181 del 2009 a tutte le provvidenze anche se liquidate successivamente all’entrata in vigore della l. n. 206 del 2004, mentre il secondo comma della disposizione ribadisce l’applicazione dei suddetti criteri alle ipotesi di rivalutazione e quindi agli indennizzi già liquidate. “La norma, dunque, così intesa - conclude la S.C. - si riferisce anche (anzi principalmente) alle nuove liquidazioni, che devono essere fatte con il computo del danno non patrimoniale”.

Tale conclusione, scrivono le Sezioni Unite, è del resto l’unica possibile in quanto si pone in armonia sia con l’obiettivo che il legislatore ha perseguito con la legge n. 206 del 2004 - come già anticipato - di ampliamento dei benefici sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, sia con i principi costituzionali e, in particolare, con l’art. 3 della nostra Carta, atteso che non è predicabile sostenere che il legislatore abbia creato una disparità di trattamento, quanto ai parametri delle liquidazioni delle misure di tipo indennitario-assistenziale che vengono qui in rilievo, in funzione del momento in cui la liquidazione viene effettuata, riconoscendo o meno il danno morale ai fini della liquidazione, in funzione del solo parametro temporale.

La portata del d.P.R. n. 181 del 2009 - afferma il giudice di legittimità - è allora chiara nel senso che in virtù di detto corpus normativo “le vittime del dovere e quelle a queste equiparate, frattanto valutate con i criteri di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 243 del 2006 (norma che richiamava al fine della percentualizzazione dell’invalidità permanente e del danno biologico il D.M. 5 febbraio 1992 ed il D.M. 12 luglio 2000, pur senza ulteriori specificazioni) avrebbero dovuto, poi, essere valutate con i nuovi (definendi) criteri che, come già prefigurato dalla l. n. 206 del 2004, avrebbero dovuto valorizzare anche il danno morale.

Detta interpretazione è confermata - si legge nel percorso motivazionale della sentenza - dall’art. 4, comma 2 bis, della l. n. 206 del 2004, inserito dall’art. 1, comma 792, della l. n. 296 del 2006 del 27 dicembre che riconduce nell’alveo, oltre ai casi di “revisione” anche quelli di “prima valutazione”.

Alla normativa di cui al d.P.R. n. 181 del 2009, conclusivamente, va attribuita la funzione di integrare ab origine la previsione dell’art. 6 della l. n. 206 del 2004 oltre che portata interpretativa della sua applicazione.

Non può quindi essere seguita l’opzione ermeneutica (in tal senso, Sez. 3, n. 11101/2020, Olivieri, Rv. 658077-01) - soggiunge la S.C. - secondo la quale l’art. 6 della l. n. 206 del 2004 si rivolge solo ad una ristretta platea di destinatari, in ragione del fatto di essere intesa alla rideterminazione delle invalidità riportate dalle vittime del terrorismo ed equiparate riconosciute tali in epoca antecedente all’entrata in vigore della l. n. 206 del 2004, allo scopo di porle al riparo dal fenomeno inflattivo, come sarebbe comprovato dal rilievo che il legislatore ha previsto esclusivamente l’accantonamento di spesa necessaria per il solo anno 2004 e non “a decorrere” dall’anno 2004, ai sensi degli artt. 5, comma 2, e 6, comma 1, della legge citata.

L’anzidetta via interpretativa è infatti contraddetta, si osserva, dall’art. 8, comma 2, della l. n. 308 del 1990 che già prevedeva un meccanismo di indicizzazione e rivalutazione.

Né risolutive in senso preclusivo le disposizioni finanziarie innanzi richiamate, ben potendo opinarsi che l’art. 16 della l. n. 206 del 2004, con la previsione degli impegni di spesa pluriennali, si riferisca alle nuove liquidazioni, mentre l’innanzi ricordato art. 6 alle riliquidazioni.

Logica conseguenza di tali rilievi è, come anticipato, che la previsione dell’art. 6, comma 1, della l. n. 206 del 2004 non abbia solo una funzione meramente rivalutativa rispetto alle indennità già liquidate, ma piuttosto una funzione selettivo-regolativa, con la conseguenza che il criterio previsto è applicabile anche alle liquidazioni successive all’entrata in vigore della legge.

A testimonianza della correttezza della ricostruzione operata, la S.C. nella sua massima composizione, richiama anche il disposto normativo di cui all’art. 5, comma 2, della l. n. 206 del 2004 che prevede che la speciale elargizione di cui al comma 1 del medesimo art. 5, venga liquidata nella misura di euro 2.000 per punto percentuale di invalidità, disponendo espressamente che detto nuovo criterio di liquidazione trovi applicazione anche (e non solo) ai benefici già liquidati prima della entrata della legge n. 206 del 2004. Sotto tal profilo viene anche evidenziato che solo detta interpretazione è congruente con la previsione di spesa di cui all’art. 6 che viene fissata per l’anno 2004 in euro 12.070.000, spesa che sarebbe sproporzionata se il legislatore negli art. 3 e 4 della l. n. 206 del 2004, avesse inteso riferirsi alla mera rideterminazione delle invalidità per le vittime già riconosciute ed indennizzate.

Conclusivamente, si legge nella sentenza, “il d.P.R. n. 181 del 2009 non solo indica i criteri medico-legali per la rivalutazione delle indennità, ma specifica altresì che le valutazioni delle indennità, operate in difformità rispetto ai suoi criteri, possono essere riviste e modificate dalle commissioni sanitarie competenti, su istanza dell’interessato. Ciò significa che i parametri medico-legali di cui al d.P.R. n. 181 del 2009 vanno applicati anche alle domande di rivalutazione presentate a partire dall’entrata in vigore della l. n. 206 del 2004. Tale possibilità trae fondamento dal dato letterale delle disposizioni finali del decreto ed è coerente con la funzione di integrazione ab origine della l. n. 206/2004 da riconoscersi allo stesso”.

Del resto, come già in parte ricordato, se l’interpretazione letterale dell’art. 6 cit. condurrebbe ad una ingiustificata disparità di trattamento e a risultati irragionevoli la strada percorribile non può che essere quella tracciata dalle Sezioni Unite, della interpretazione logico-sistematica e costituzionalmente orientata come sopra illustrata, che pone al centro un concetto di invalidità complessiva del danno non patrimoniale subito (IC = DB+DM+ (IP-DB), peraltro armonico rispetto ai più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno non patrimoniale che ne sottolineano la natura unitaria ed omnicomprensiva.

A tal riguardo, osserva la scrivente, la ricostruzione operata nella sentenza delle Sezioni Unite in commento e la lettura del tessuto normativo (cfr. art. 1 del d.P.R. n. 181 del 2009) si pongono perfettamente in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità in tema di danno non patrimoniale.

Successivamente alle cd. sentenze di S. Martino (cfr. S.U. n. 27972/2008, Preden, Rv. 60549301), la S.C. ha ricostruito, infatti, un nuovo volto del danno non patrimoniale.

Il nuovo corso, inaugurato da Sez. 3, n. 22585/2013, Travaglino, Rv. 62815301 è stato portato a compimento da Sez. 3, n. 901/2018, Travaglino, Rv. 64712502, Rv. 64712503, Rv. 64712504 e dalla successiva Sez. 3, n 7513/2018, Rossetti, Rv. 64830301.

La via imboccata dalle suindicate pronunzie, sottolineata la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale, è nel senso di un assorbimento del danno biologico nel cd. danno dinamico relazionale (nella sostanza tende a far coincidere i due concetti ed a negare che la lesione biologica sia ex se risarcibile). Viene quindi ridefinito il danno alla salute non più inteso come lesione dell’integrità psicofisica del soggetto, ma appunto come danno dinamico relazionale.

Non deve più dirsi, quindi, che il danno biologico differisce dal danno relazionale ovvero comprende quest’ultimo, ma piuttosto che il danno biologico è il danno dinamico relazionale.

In sintesi, viene risarcita non più l’invalidità, ma i riflessi che quell’invalidità ha sull’attività relazionale dell’individuo.

Accanto al danno dinamico relazionale vi è poi il danno morale che va considerato separatamente dal primo, sicché in questa prospettiva il danno non patrimoniale ricomprende le categorie del danno relazionale e di quello morale.

Nella sentenza n. 7513/2018, Rossetti, in particolare, si precisa che il danno derivante dalla lesione della salute è liquidato assumendo sempre a base di calcolo il grado percentuale di invalidità permanente in base ad una tabella predisposta con criteri medico legali (barèmes) che assegna a ciascun tipo di invalidità subita per effetto di un illecito un numero percentuale che non è altro che l’espressione numerica delle attività comuni di ogni individuo che, in conseguenza di quell’invalidità, non possono essere più compiute (si parte dal presupposto che la persona sana possa svolgere il 100% delle attività, sicché ogni tipo di invalidità sottrae a quel soggetto un certo numero di attività di relazione).

Non si risarcisce quindi la lesione, ma piuttosto le conseguenze che quella lesione ha cagionato all’attività relazionale del soggetto; quindi, il danno biologico non è altro che il danno alla vita di relazione.

La seconda conseguenza che deriva da questa impostazione è che quando i barèmes fissano una percentuale di attività relazionali compromesse, in realtà tengono conto solo delle conseguenze ordinarie di una certa invalidità (cioè le menomazioni relazionali che qualsiasi individuo soffre per effetto dell’illecito), ma è chiaro che accanto alle conseguenze ordinarie possono esservi anche conseguenze specifiche che valgono solo per quel soggetto (pensiamo al danno estetico per il soggetto che vive nel paesino dove prova più vergogna di una persona normale) ed allora mentre le conseguenze ordinarie sono automaticamente ricomprese nel punto di invalidità assegnato dal barème, e quindi nel risarcimento del danno fissato nelle tabelle, predisposte in sede giurisprudenziale o dal legislatore, a seconda che si tratti di macropermanenti o micropermanenti (senza che il danneggiato debba dimostrare nulla), invece, le conseguenze peculiari del caso concreto giustificano un aumento di quella somma standard, attraverso un giudizio di personalizzazione del risarcimento del danno alle conseguenze particolari dell’illecito.

A parte va sempre liquidato il danno morale: i barèmes possono considerare solo le ordinarie conseguenze derivanti, sul piano relazionale, da un certo grado di invalidità, ma non possono mai prendere in considerazione la sofferenza, il dolore, causata dall’illecito, trattandosi di un aspetto talmente soggettivo ed interno che ovviamente non può essere mai preveduto attraverso uno standard: il danno morale va pertanto sempre liquidato separatamente dal danno dinamico relazionale; il danno alla persona ha quindi una duplice essenza e cioè la sofferenza interiore (il dolore e cioè il danno morale) e le dinamiche relazionali di una vita che cambia, restando scolpiti i due aspetti essenziali della sofferenza e cioè il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana.

In tal modo tutto il sistema viene ricondotto ad unità, perché il danno non patrimoniale ha una struttura interna simile, a livello di danni conseguenza, rispetto al danno patrimoniale: mentre quest’ultimo è risarcibile in ragione della perdita (danno emergente) e di un mancato incremento (lucro cessante), allo stesso modo il danno non patrimoniale è risarcibile in ragione di due conseguenze e cioè il dolore interno (che assomiglia molto al danno emergente, indicando il momento statico del dolore) e del danno dinamico relazionale (che assomiglia al lucro cessante, indicando che il soggetto ha perduto la possibilità di fare qualcosa, di compiere attività future).

In maniera, simmetrica l’invalidità complessiva (IC) come prevista nel d.P.R. n. 181 del 2009 è data dalla somma del danno biologico (che ex art. 1 del d.P.R. in esame viene valorizzato nei suoi tratti dinamico relazionali), del danno morale e del danno differenziale (costituito appunto dalla differenza, se positiva, tra IP (invalidità permanente della capacità lavorativa) - DB.

3. Sulla liquidazione dell’assegno vitalizio di cui all’art. 2 della l. n. 407 del 1998 e sui presupposti per il riconoscimento dei benefici di cui all’art. 1, comma 563, lett. f) della l. n. 266 del 2005.

Del tema si occupa Sez. L, n. 12749/2022, Buffa, Rv. 664517-01.

Nella sentenza si afferma il seguente principio così massimato dall’Ufficio: “in materia di benefici in favore delle vittime del dovere, la liquidazione dell’assegno vitalizio di cui all’art. 2 della l. n. 407 del 1998 va perequata, ex art. 11 del d.lgs. n. 503 del 1992, nella misura prevista dall’art. 4, comma 238, della l. n. 350 del 2003, non avendo la disciplina regolamentare di attuazione dell’art. 1, comma 565, della l. n. 266 del 2005 alcun potere di modificare quantitativamente l’emolumento previsto dalla citata l. n. 350, vieppiù in presenza di una esigenza di parità di trattamento tra i diversi soggetti tutelati, testimoniato dall’estensione delle tutele alle vittime del dovere, ed assumendo rilievo il limite di spesa, imposto dal comma 562 dell’art. 1 della l. n. 266 del 2005, solo su un piano autocompensativo, nel senso che, una volta raggiunto il tetto di spesa annuale, il beneficio viene a far carico alla graduatoria dell’anno successivo, restando escluso che l’assistenza venga meno del tutto”.

Emerge patente anche in detta pronunzia, la necessità, evidenziata e posta anche al centro del percorso motivazionale delle Sezioni Unite n. 6214/2022 (cfr. innanzi par. 2), che siano rispettate le esigenze di parità di trattamento tra i beneficiari, linea interpretativa tendenziale del giudice di legittimità sul tema.

Già Sez. U, n. 7761/2017, Tria, Rv. 664517-01, infatti, avevano affermato che in tema di benefici in favore delle vittime del dovere e dei soggetti ad essi equiparati, l’ammontare dell’assegno vitalizio mensile è uguale a quello dell’analogo assegno attribuito alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, sia perché la legislazione primaria in materia è permeata da un intento perequativo, sia in conformità al principio di razionalità-equità di cui all’art. 3 Cost., come risulta dal diritto vivente, rappresentato dalla costante giurisprudenza amministrativa ed ordinaria.

Vanno da ultimo ricordate le precisazioni operate da Sez. L, n. 17435/2022, Marchese, Rv. 664851-01, che ha sottolineato che il beneficio previdenziale spettante, ai sensi dell’art. 1, comma 563, lett. f), della l. n. 266 del 2005, alle vittime del dovere che abbiano subito un’invalidità permanente a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale, non aventi, necessariamente, caratteristiche di ostilità, non compete all’atleta militare che abbia riportato un’infermità causata da un contatto fisico tra i giocatori, correlato esclusivamente al corretto svolgimento di una disciplina sportiva a violenza necessaria o indispensabile. Nella specie, la S.C. ha infatti confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto difettare il presupposto dell’«azione recata» - di cui alla citata disposizione normativa - nella condotta dell’atleta, che aveva leso l’incolumità del competitore nel rispetto delle regole della disciplina sportiva del “judo”, poiché ciò rientrava nel cd. “rischio consentito”.

Del resto, il giudice di legittimità aveva già avuto modo di evidenziare, interpretando la clausola di chiusura di cui all’art. 1, comma 564, della l. n. 266 del 2005, che la categoria delle vittime del dovere aventi diritto ai benefici non è definita attraverso la tipizzazione di singole attività, delineando la previsione normativa una fattispecie aperta, presidio di tutela contro la morte ed i fatti lesivi che attingano il personale militare in occasione di missioni di qualunque natura, specificando, tuttavia, che dette missioni devono essere state poste in essere in condizioni ambientali od operative “particolari”, per tali dovendosi intendere quelle che abbiano comportato l’esposizione a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto (così Sez. l, n. 24592/2018, Mancino, Rv. 24592-01).

Tale principio generale non può che valere, si osserva, anche nella interpretazione dell’art. 1, comma 563, lett. f) che nel riferirsi ad “azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi necessariamente, caratteristiche di ostilità”, così portando all’esclusione dall’alveo dei beneficiari dei soggetti che abbiano riportato l’invalidità a cagione dell’espletamento di una attività sportiva cd. a contatto e violenza necessarie.

PARTE SESTA I RAPPORTI CON I PUBBLICI POTERI

  • indennizzo
  • indennità e spese
  • espropriazione

CAPITOLO XXV

ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisdizione. - 3 La determinazione dell’indennità di espropriazione. - 4 Qualificazione delle aree e natura dei vincoli. - 5 L’opposizione alla stima. - 6 L’espropriazione parziale. - 7 La retrocessione. - 8 Delega dei poteri espropriativi.

1. Premessa.

L’analisi delle pronunce in tema di espropriazione per pubblica utilità evidenzia il consolidamento e la sistemazione dei principi desumibili dalla Costituzione e dal d.P.R. n. 327 del 2001 (T.U. espropriazioni), con particolare riguardo agli aspetti della giurisdizione, della garanzia del serio ristoro all’espropriato e dell’incidenza dei vincoli urbanistici.

2. La giurisdizione.

La ricognizione delle decisioni della Suprema Corte non può non cominciare con l’esame delle questioni afferenti al riparto di giurisdizione.

Sez. U, n. 00759/2022, Lamorgese, Rv. 663583-01, ha affermato che la controversia avente ad oggetto l’individuazione dell’avente diritto al pagamento della indennità di espropriazione (corrisposta, nella specie, a soggetti diversi dall’intestatario risultante nei registri catastali, per effetto di un titolo instabile di proprietà, consistente in una sentenza di primo grado, poi riformata, dichiarativa dell’usucapione), rientra nella giurisdizione del G.O. giacché, da un lato, non sono contestate la scelta dell’Amministrazione di procedere ad espropriazione su determinati beni né, tantomeno, le modalità di esercizio, in concreto, di siffatto potere e, dall’altro, la determinazione di detta indennità, come l’individuazione dei soggetti aventi diritto al relativo pagamento avvengono, rispettivamente, sulla base di precisi criteri fissati dalla legge e di regole proprietarie estranee a valutazioni espressive di discrezionalità amministrativa. Tale affermazione si fonda, dunque, sulla verifica del petitum sostanziale proposto dai ricorrenti privati, verifica che induceva ad escludere che l’oggetto della controversia dagli stessi proposta ineriva alla contestazione, neppure in via indiretta o mediata, della legittimità amministrativa dell’esercizio del potere espropriativo.

Sez. U, n. 26033/2022, Terrusi, Rv. 665659-01 ha ribadito il principio secondo cui, dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e 191 del 2006, la giurisdizione esclusiva non trova giustificazione nell’idoneità della dichiarazione di pubblica utilità a determinare l’affievolimento del diritto di proprietà, e quindi nella configurabilità della posizione giuridica del proprietario come interesse legittimo, ma nella riconducibilità della fattispecie alla materia (urbanistico-edilizia) in se´ considerata, come definita dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000. In altre parole, spettano alla cognizione del giudice amministrativo tutte le controversie aventi a oggetto comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere da parte della pubblica amministrazione, con estensione alle ipotesi in cui l’esercizio di quel potere si è manifestato con l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, a prescindere dal fatto che poi l’apprensione o l’irreversibile trasformazione del fondo abbiano avuto luogo in mancanza di titolo o in virtù di un titolo a sua volta nullo o caducato.

Sez. U, n. 32324/2022, Iofrida, Rv 666361-01 ha precisato che «In tema di riparto di giurisdizione, spetta al giudice ordinario - e non al giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 104 del 2010 - la cognizione sulle domande risarcitoria e di riduzione in pristino, formulate dal privato che abbia ottenuto in restituzione l’immobile assoggettato alla procedura espropriativa, divenuta inefficace per decorso dei termini di validità della dichiarazione di pubblica utilità, prospettando il danneggiamento del bene e la violazione delle distanze a seguito dell’esecuzione delle opere di demolizione e di ricostruzione in attuazione di un accordo di permuta sostitutivo dell’indennità di esproprio, poiché la controversia non attiene alla formazione di tale accordo ma alla dedotta illiceità delle menzionate opere».

3. La determinazione dell’indennità di espropriazione.

Numerose le pronunce riguardanti la determinazione dell’indennità di espropriazione. Sez. U, n. 25294/2022, Lamorgese, Rv. 665657-01 ha cassato la sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche con cui si era ritenuto che nessuno dei soggetti chiamati nel giudizio di determinazione dell’indennità di esproprio fosse titolare passivo dell’obbligazione, erroneamente assumendo tale titolarità esclusivamente in capo all’ente beneficiario della procedura, come risultante dal decreto, e omettendo di considerare che, tra i convenuti, un consorzio di bonifica aveva esercitato poteri espropriativi ed era accollatario degli oneri di pagamento delle indennità e che l’impresa incaricata dei lavori aveva curato vari adempimenti e assunto così il ruolo di promotrice dell’espropriazione. In proposito il Collegio ha affermato che «In tema di espropriazione per pubblica utilità, la titolarità effettiva del rapporto sostanziale - e, in particolare, l’obbligazione di pagamento dell’indennità di esproprio - spetta generalmente all’ente beneficiario dell’espropriazione risultante dal decreto ablativo, salvo che nei procedimenti “pluripartecipati”, nei quali l’esercizio del potere espropriativo di acquisizione delle aree e di cura delle procedure è condiviso, in relazione a fasi e momenti diversi, tra più soggetti; conseguentemente, ai fini dell’accertamento della titolarità passiva, il giudice è tenuto ad analizzare il ruolo specifico assunto e i poteri esercitati in concreto da ciascun ente convenuto nel giudizio».

Sez. 1, n. 04369/2022, Tricomi L., Rv. 664102-01 ha affermato che nei giudizi per la determinazione dell’indennità di esproprio, il giudice deve procedere alla determinazione del quantum dell’indennità sulla base dei parametri normativi vigenti e ritenuti applicabili, indipendentemente, non solo dalle deduzioni delle parti al riguardo, ma anche dai criteri seguiti dall’espropriante nella formulazione dell’offerta dell’indennità provvisoria, nonché da quelli adottati dalla Commissione provinciale nel compiere la stima; ne consegue che, ove tale stima intervenga nel corso del giudizio, essa è inidonea ad influenzare l’azione giudiziaria già intrapresa e non può acquistare carattere definitivo (per cui è necessaria la proposizione di alcuna opposizione), né incidere sulle determinazioni del giudice, il quale può liquidare l’indennità in misura inferiore a quella pretesa (o con criteri meno favorevoli) senza incorrere nel vizio di ultrapetizione. Nella specie, con ricorso ex art.702 bis c.p.c. veniva richiesta pronuncia per la determinazione dell’indennità di esproprio a seguito del rifiuto di quella offerta dal Comune con richiesta di nomina della terna di arbitri ex art.21 del d.lgs. n.327/2001. La parte privava, a seguito della comparsa di costituzione del Comune, veniva a conoscenza della stima di indennità di esproprio formulata dalla Commissione Provinciale che raddoppiava l’indennità offerta inizialmente dal Comune oggetto di altro procedimento ex art 702 bis c.p.c. riunito al precedente per connessione oggettiva e soggettiva. La Corte di appello, a seguito di ctu, procedeva alla determinazione dell’indennità richiesta.

Allorché si tratti di determinare l’indennità di esproprio di aree situate in fascia di rispetto stradale o autostradale Sez. 1, n. 02127/2022, Reggiani, Rv. 663946-01 ha affermato che il vincolo di inedificabilità ricadente su tali aree non deriva dalla pianificazione e dalla programmazione urbanistica, ma è sancito nell’interesse pubblico da apposite leggi che rendono il suolo ad esso soggetto legalmente inedificabile, trattandosi di vincolo dettato per favorire la circolazione e offrire idonee garanzie di sicurezza a quanti transitano sulle strade o passano nelle immediate vicinanze, o in queste abitano ed operano, sicché tale vincolo non ha né un contenuto propriamente espropriativo, né può qualificarsi come preordinato all’espropriazione; dunque di esso deve tenersi conto nella determinazione dell’indennità di esproprio, non essendo l’area in questione suscettibile di edificazione in nessun caso, dato che vige il divieto assoluto di costruire su di essa.

Sempre con riferimento alla liquidazione dell’indennità di espropriazione Sez. 1, n. 24744/2022, Reggiani, Rv. 665630-01 - con riferimento a fattispecie relativa all’espropriazione di aree destinate a “servizi sovracomunali”, per le quali le norme tecniche di attuazione escludevano l’attività edificatoria ad iniziativa privata, riservandola al Comune, in maniera diretta o attraverso un soggetto convenzionato, - ha affermato che affinché possano considerarsi edificabili le aree ricomprese nella “zona F” di cui al d.m. n. 1444 del 1968 (destinate ad attrezzature e impianti di interesse generale), non è sufficiente che l’intervento pubblico sia realizzabile in linea astratta, anche ad iniziativa privata, essendo necessaria la specifica previsione di tale possibilità da parte dello strumento urbanistico, quale espressione di una scelta di programmazione politica finalizzata a dotare il territorio di attrezzature e servizi ritenuti realizzabili secondo tali modalità.

Con riferimento, poi, alle fattispecie generative dell’indennità aggiuntiva, Sez. 1,

n. 21058/2022, Conti, Rv. 665361-01 ha statuito che ai fini del suo riconoscimento a favore del coltivatore diretto - indirettamente pregiudicato dalla procedura espropriativa - è irrilevante la natura edificatoria o agricola del suolo espropriato, stante la necessità di compensare il sacrificio sopportato a causa della definitiva perdita del terreno su cui egli ha esercitato l’attività agricola, traendo i propri mezzi di sussistenza dalla coltivazione del fondo.

Sez. 1, n. 17564/2022, Marulli, Rv. 665093-01 ha poi confermato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (a partire da Sez. 1, n. 11782/2007, Salvago, Rv. 597761-01) secondo cui l’indennità di espropriazione e` unica, ed essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione, ed il termine di riferimento per la sua determinazione e` rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle, e non anche dal reale pregiudizio che il proprietario od altro titolare di minore diritto di godimento risentono come effetto dal non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente attività. Ne consegue che, estinto il diritto di proprietà, ove risulti impedito, sul luogo, l’ulteriore svolgimento dell’impresa, che utilizzava l’immobile per fornire i propri servizi, l’espropriazione non si estende al diritto dell’imprenditore su di essi, né all’azienda da quest’ultimo organizzata.

In tema di indennizzo spettante per la reiterazione del vincolo espropriativo, secondo Sez. 1, n. 18142/2022, Lamorgese, Rv. 665298-01 nei casi di occupazione usurpativa o acquisitiva, il proprietario ha diritto al risarcimento del danno, non solo per la perdita del godimento del bene nel periodo di occupazione illegittima, ma anche per la perdita commisurata all’integrale valore dello stesso, alla cui titolarità egli ha implicitamente rinunciato, proponendo la domanda risarcitoria per equivalente, poiché nell’inerzia della P.A., che non emetta il provvedimento acquisitivo né provveda alla restituzione del bene, non può configurarsi una implicita conformazione della proprietà privata, non desumibile dall’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, che, fino a quando non venga esercitato il potere acquisitivo, non è idoneo a paralizzare i comuni rimedi civilistici attribuiti dall’ordinamento al proprietario.

Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 13390/2022, Caprioli, Rv. 664760-01 ha affermato che l’indennizzo dovuto per la reiterazione dei vincoli espropriativi prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 si prescrive nel termine ordinario decennale, decorrente dalla reiterazione di ciascun vincolo, che costituisce la prima manifestazione del danno, non rilevando che l’azione non fosse esercitabile prima della sentenza della Corte costituzionale 20 maggio 1999, n. 179, trattandosi di mero ostacolo di fatto alla proposizione della domanda, privo di effetti interruttivi o sospensivi della durata della prescrizione. Il suindicato principio si fonda su quello consolidato secondo cui gli ostacoli “di fatto”, l’esercizio del diritto, a differenza di quelli “di natura giuridica”, non impediscono il decorrere della prescrizione (tra le altre Sez. 1, n. 20642/2019, Federico, Rv. 654669-01).

4. Qualificazione delle aree e natura dei vincoli.

Ad avviso di Sez. 1, n. 11360/2022, D’Orazio, Rv. 664737-01 rientra tra le aree cd. bianche, prive di regolamentazione urbanistica, l’area ricompresa in una zona destinata a verde pubblico “con caratteristiche speciali”, in relazione alla quale, per la definizione delle opere compatibili con il contesto e per l’entità della relativa edificabilità, sia rimandato ad uno specifico accordo di programma ex art. 34 d.P.R. n. 267 del 2000, mai adottato. Consegue da tale principio che l’indennità di esproprio ad essa riferita va determinata sulla base del criterio dell’edificabilità di fatto, tenuto conto delle misure di salvaguardia previste per i comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali. In applicazione del principio enunciato, la S.C. ha confermato la sentenza d’appello che, dando applicazione al menzionato criterio, aveva escluso l’edificabilità del terreno, perché ad esso era contigua una fascia di rispetto stradale all’interno della quale era vietata ogni tipo di edificazione ad eccezione di piste ciclabili, passaggi pedonali, fermate dei mezzi pubblici o soste di emergenza finalizzate al miglioramento della sicurezza stradale.

5. L’opposizione alla stima.

Sez. 6-1, n. 24355/2022, Marulli, Rv. 665706-01 ha affermato che il giudizio di opposizione alla stima non ha carattere impugnatorio, ma introduce un ordinario giudizio di cognizione sul rapporto, volto all’accertamento del quantum effettivamente dovuto, sicché, in ossequio al principio della domanda, in presenza di una stima definitiva, non può procedersi ad una determinazione dell’indennità in peius per l’espropriato, a meno che l’espropriante non formuli domanda riconvenzionale; ne consegue che, ove quest’ultima sia oggetto di rinuncia, il giudice non può condannare l’espropriato alla restituzione delle somme che, in base alla stima giudiziale, abbia incassato in eccesso, incorrendo altrimenti nella violazione dell’art. 112 c.p.c.

Circa il soggetto obbligato al pagamento dell’indennità di occupazione e di esproprio nell’ambito del giudizio di opposizione alla stima, Sez. 1, n. 17058/2022, Iofrida, Rv. 665088-01, ha chiarito che in tema di espropriazione per pubblica utilità, il soggetto legittimato al pagamento dell’indennità di occupazione e di esproprio va generalmente individuato nell’ente beneficiario dell’espropriazione, risultante dal decreto ablativo, salvo che dallo stesso decreto non emerga che il compito di procedere all’acquisizione delle aree e di curare le procedure espropriative, agendo in nome proprio, sia stato affidato ad altri enti, con accollo dei relativi oneri, senza che a tal fine risulti sufficiente un mero accordo interno, occorrendo, invece, una norma di legge o un provvedimento amministrativo a rilevanza esterna. Ne deriva che, ove sia stipulata una convenzione che comporti la mera delega del concessionario al compimento di atti della procedura ablativa in nome e per conto del delegante, non sussiste alcuna solidarietà passiva del delegato, restando il beneficiario l’unico soggetto obbligato al pagamento delle indennità e legittimato a resistere in caso di opposizione alla stima.

Sez. 1, n. 13405/2022, Caradonna, Rv. 664762-01 ha ribadito il principio (Sez. 1, n. 10720/2016, Sambito, Rv. 639814-01) secondo cui ove si proceda all’esproprio nei modi previsti dall’art. 22 del d.P.R. n. 327/2001 ed insieme al decreto si comunichi la misura dell’indennità provvisoria, i soggetti che ne siano destinatari possono adire fin da subito la Corte d’Appello ai sensi dell’art. 54 del d.P.R. n. 327/2001 onde sentir dichiarare giudizialmente l’indennità loro dovuta per il provvedimento patito, senza dunque dover attenderne la determinazione in via definitiva della stessa. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la pronuncia della Corte d’Appello che aveva dichiarato inammissibile la domanda di determinazione dell’indennità in assenza della perizia di stima. Sul punto la S.C. ha posto in rilievo che l’art. 22, comma 4, d.P.R. n. 327/2001 si esprime in termini meramente facoltativi «Se non condivide la determinazione della misura della indennità di espropriazione, entro il termine previsto dal comma 1, l’espropriato può chiedere la nomina dei tecnici, ai sensi dell’art. 21 e, se non condivide la relazione finale, può proporre l’opposizione alla stima»; di talché esso amplia il quadro delle tutele che l’ordinamento accorda all’espropriato senza rendere obbligato il ricorso all’attivazione del procedimento di cui all’art. 21 citato, che si porrebbe in aperta contrapposizione con il divieto della giurisdizione condizionata.

Sez. 1, n. 10843/2022, Tricomi, Rv. 664545-01 è intervenuta sul ricorso proposto da un ente locale a seguito di procedimento di opposizione alla stima. In particolare, il ricorrente deduceva la nullità dell’ordinanza impugnata, assumendo che la Corte di appello di Messina avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio la cessazione della materia del contendere, rilevando che le controparti non avevano interesse ad agire nel giudizio atteso che il loro bene immobile - come evincibile da documentazione acquisita agli atti del giudizio – era stato escluso dalla procedura espropriativa con apposito atto deliberativo. La S.C. ha rigettato il ricorso sul rilievo che, una volta concluso il procedimento ablativo, la legge non consente lo ius poenitenti dell’espropriante, mediante la revoca del decreto di esproprio per sopravvenuti motivi d’interesse pubblico e la restituzione del bene acquisito, potendo quest’ultima intervenire solo previo esercizio, da parte del soggetto espropriato, del diritto alla retrocessione, che non dà luogo alla caducazione del decreto di esproprio, ma attua un nuovo trasferimento a titolo derivativo con effetto ex nunc.

6. L’espropriazione parziale.

Sez. 1, n. 16528/2022, Parise, Rv. 664965-01, ha chiarito che, una volta accertata l’unità funzionale tra la parte espropriata e quella rimasta in proprietà del privato e la negativa incidenza del distacco della prima dalla seconda, l’indennità di occupazione legittima è correttamente determinata in misura percentuale rispetto alle somme astrattamente dovute a titolo di indennità di esproprio, ivi comprese quelle imputabili al deprezzamento delle porzioni residue dell’immobile rimaste nella giuridica disponibilità del proprietario, anche se non sono divenute di fatto inutilizzabili a causa della realizzazione dell’opera pubblica.

7. La retrocessione.

Sez. 1, n. 17017/2022, Iofrida, Rv. 665087-01, in tema occupazione di terreno per finalità di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata e convenzionata, ha affermato che l’art. 3 l. 458 del 1988 (ancora applicabile alle fattispecie anteriori all’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001), nella parte in cui prevede solo il risarcimento del danno, e non la restituzione del fondo, in caso di decreto di esproprio dichiarato illegittimo o di procedimento ablativo concluso in violazione dei termini e delle forme di legge, deve essere reinterpretato alla luce dei principi enunciati dalla Corte EDU sull’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione, oltre che dell’art. 42 Cost., sicché, a fronte della impossibilità di configurare un potere di acquisizione “indiretta”, non può ritenersi ancora operante il divieto di restituzione del bene al privato che lo richieda.

8. Delega dei poteri espropriativi.

Sez. 1, n. 7260/2022, Lamorgese, Rv. 664541-01 si è occupata del tema dei procedimenti espropriativi per l’esecuzione di opere pubbliche demandate all’ente concessionario in regime di concessione traslativa (nella specie, ai sensi dell’art. 42 l.r. siciliana n. 21 del 1985, ratione temporis applicabile, in materia di esecuzione dei lavori pubblici in Sicilia. In tale ipotesi, la S.C. ha affermato che il fallimento del concessionario delegato al compimento delle espropriazioni e all’esecuzione dell’opera costituisce evento impeditivo alla prosecuzione del rapporto concessorio e determina – di regola – lo scioglimento del rapporto contrattuale con l’amministrazione committente, sulla quale si trasferiscono sia le obbligazioni inerenti al pagamento delle somme dovute dal concessionario, a titolo indennitario e risarcitorio, in favore dei proprietari espropriati, sia di conseguenza la relativa legittimazione passiva nelle controversie promosse da questi ultimi, essendo l’ente pubblico beneficiario dell’opera realizzata per finalità di interesse generale. Quanto sopra tiene conto del principio secondo cui, nei procedimenti espropriativi per l’esecuzione di opere pubbliche demandate all’ente concessionario, l’esigenza di assicurare il serio ristoro delle situazioni soggettive e l’effettività dei rimedi giurisdizionali comporta, ove il concessionario sia insolvente rispetto al proprio obbligo indennitario, il sorgere di un autonomo obbligo di garanzia della P.A. concedente, beneficiaria dell’espropriazione, per il pagamento del ristoro dovuto dal concessionario, onde assicurare, ex art. 42, comma 3, Cost., l’effettivo bilanciamento di interessi tra il titolare del bene ablato e la P.A. che persegue, attraverso l’espropriazione, finalità di interesse generale (Sez. 1, n. 30442/2019, Di Marzio Rv. 655953-01). A questo approdo ermeneutico la Corte e` pervenuta alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (sentenza Arnaboldi c. Italia del 14 marzo 2019, par. 39 ss.), la quale ha osservato che «se e` vero che l’insolvenza di una società privata non può comportare una responsabilità dello Stato riguardo alla Convenzione e ai suoi Protocolli [...], lo Stato non può sottrarsi alla sua responsabilità delegando i propri obblighi ad enti privati o a persone fisiche. In altre parole, il fatto che lo Stato scelga una forma di delega in base alla quale alcuni dei suoi poteri sono esercitati da un altro organo non e` sufficiente a risolvere la questione della sua responsabilità. Secondo la Corte, l’esercizio di poteri statali che hanno un’influenza sui diritti e sulle liberta` sanciti dalla Convenzione può far sorgere la responsabilità dello Stato, indipendentemente dalla forma in cui tali poteri si trovano ad essere esercitati, fosse anche da parte di un ente di diritto privato [...]. Nel caso di specie, la Corte ritiene che non vi sia alcun dubbio che la società [...] sia stata incaricata di una missione di servizio pubblico essendo delegata di tutti i poteri connessi all’espropriazione di un terreno ai fini della sua acquisizione al patrimonio pubblico e della costruzione di un’opera pubblica. Secondo la Corte, la scelta di avvalersi della delega [dei poteri connessi all’espropriazione di un terreno ai fini della sua acquisizione al patrimonio pubblico e della costruzione di un’opera pubblica] non può sollevare lo Stato italiano da quelle che sarebbero state le sue responsabilità se avesse preferito adempiere lui stesso a tali obblighi, come sarebbe stato in suo potere fare [...] Ne consegue - prosegue ancora la Cedu - che lo Stato italiano rimane tenuto ad esercitare una vigilanza e un controllo per tutta la durata della procedura di espropriazione, fino al pagamento del relativo indennizzo, cosicché e` responsabile per non aver adottato le misure necessarie a garantire che le somme accordate a titolo di indennità per l’espropriazione fossero effettivamente versate al ricorrente.

  • appalto pubblico
  • arbitraggio

CAPITOLO XXVI

APPALTI PUBBLICI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 Premessa: il quadro normativo. - 2 La giurisdizione: cenni. - 3 L’esecuzione del contratto; patologie e rimedi. - 4 Appalto e raggruppamento temporaneo di imprese. - 5 L’arbitrato negli appalti pubblici.

1. Premessa: il quadro normativo.

Prima di esaminare i principi affermati dalla Corte di cassazione nel corso dell’anno 2022 in materia di appalti pubblici, in ragione della particolarità e complessità della materia non può non tenersi conto, da un lato, delle successive e articolate modificazioni del quadro normativo e, dall’altro, dei limiti entro i quali opera la giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quella del giudice amministrativo.

Quanto al primo aspetto, va osservato che alla prima legge sulle opere pubbliche, l. n. 2248 del 1865, all. F, ha fatto seguito la legge quadro sui lavori pubblici, l. n. 109 del 1994, che aveva lo scopo di creare una disciplina omogenea in materia di lavori pubblici. A seguito di tale legge, il d.m. n. 145 del 2000 ha introdotto il nuovo capitolato generale d’appalto e il d.P.R. n. 34 del 2000 ha definito il sistema di qualificazione delle imprese e altre normative di carattere tecnico.

Nel 2004 l’Unione Europea ha, poi, adottato la direttiva 2004/18/CE (abrogata dalla nuova direttiva 2014/24/UE) che riunisce le procedure per l’aggiudicazione degli appalti nei tre settori dei lavori, dei servizi e delle forniture quale obiettivo di semplificazione e snellimento delle procedure; direttive che il d.lgs. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture) ha recepito nel nostro ordinamento. Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 207 del 2010, di esecuzione e attuazione del d.lgs. n. 163 del 2006, si è abrogato il d.P.R. n. 554 del 1999 e il d.P.R. 34 del 2000 di attuazione della l. n. 109 del 1994, e gran parte del d.m. 145 del 2000. In ultimo, è stato approvato il d.lgs. n. 50 del 2016, che costituisce la fonte normativa di riferimento per quanto riguarda la disciplina di qualsiasi tipo di contratto pubblico di lavori, servizi e forniture.

In particolare, il nuovo codice dei contratti si compone di 220 articoli e XXV allegati ed e` diviso in sei parti - la prima dedicata all’ambito di applicazione, principi, disposizioni comuni ed esclusioni (artt. 1-34); la seconda ai contratti di appalto per lavori, servizi e forniture, comprensiva sia della disciplina degli appalti nei settori ordinari sia di quella degli appalti nei settori speciali, oltre che della disciplina di appalti in specifici settori, quali gli appalti relativi a beni culturali, gli appalti della protezione civile, gli appalti nei servizi sociali, i concorsi di progettazione, gli appalti relativi a difesa e sicurezza (artt. 35-163); la terza alle concessioni (artt. 164-178); la quarta al partenariato pubblico e privato e al contraente generale (artt. 179-199); la quinta a infrastrutture e insediamenti prioritari (artt. 200-203); la sesta recante disposizioni finali e transitorie, dove sono collocate pure le disposizioni sul contenzioso (rito appalti, transazione, accordo bonario, arbitrato, altri rimedi paragiurisdizionali) (artt. 204-220).

Il d.lgs. n. 50 del 2016 è stato, poi, oggetto di modifica ad opera del d.lgs. n. 56 del 2017 e, in ultimo, del d.l. n. 77 del 2021 (pubblicato nella G.U. n. 129 del 31 maggio 2021), cd. Decreto Semplificazioni 2021, in vigore dal 1° giugno 2021, convertito dalla l n. 108 del 2021, il quale detta le regole per la governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza (PNRR) e le prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure. In particolare, in materia di contratti pubblici e appalti, il Decreto Semplificazioni prevede: l’inserimento, ad opera delle stazioni appaltanti, nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, di specifiche clausole dirette all’inserimento, come requisiti necessari e come ulteriori requisiti premiali dell’offerta, di criteri orientati a promuovere l’imprenditoria giovanile, la parità di genere e l’assunzione di giovani, con età inferiore a 36 anni, e donne (art. 47); semplificazioni in materia di affidamento ed esecuzione dei contratti pubblici PNRR e PNC (artt. 48 e 50); il divieto, dal 1° giugno 2021 (data di entrata in vigore) fino al 31 ottobre 2021, in caso di subappalto, di superamento della quota del 50% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture (art. 49); modifiche al d.l. n. 76 del 2020.

In particolare, fino al 30 giugno 2023, si alza la soglia per la possibilità di affidamento diretto che diventa utilizzabile per servizi e forniture, compresi i servizi di ingegneria e architettura e l’attività di progettazione, di importo inferiore a 139.000 euro (art. 51) e si prevede il rafforzamento della centralità della Banca dati gestita dall’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) e l’istituzione del fascicolo virtuale dell’operatore economico (art. 53).

Discende come logica conseguenza da quanto sopra che le sentenze di seguito riportate, seppur riferite a fattispecie in cui risultano applicabili norme formalmente non più attuali, in quanto abrogate dal d.lgs. n. 50 del 2016, assumono, comunque, valore di piena attualità, nei casi nei quali il loro contenuto è stato sostanzialmente riprodotto in tale ultimo testo normativo.

2. La giurisdizione: cenni.

Sez. U, n. 15236/2022, Giusti, Rv. 664662-01 si è occupata dell’impugnazione, avvenuto innanzi al TAR, del provvedimento di esclusione di una concorrente da una gara di appalto di servizi indetta dalla Camera dei deputati. Con l’atto di costituzione l’Amministrazione della Camera dei deputati ha formulato in via pregiudiziale eccezione di inammissibilità del ricorso, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e di ogni altro giudice esterno alla Camera dei deputati, sostenendo l’esclusiva competenza dell’organo di autodichia - il Consiglio di giurisdizione - della medesima Camera.

Con sentenza n. 4150/2021, il Consiglio di Stato, in riforma della pronuncia del TAR, ha accolto il ricorso introduttivo e ha annullato il verbale del 1° ottobre 2019 con cui il seggio di gara costituito presso il Servizio Amministrazione della Camera dei deputati aveva disposto l’esclusione della concorrente. In particolare, per quanto qui rileva, il Consiglio di Stato, nel disattendere la questione di giurisdizione sollevata dall’Amministrazione della Camera, ha osservato che il principio di autodichia - che si traduce nella possibilità per gli organi costituzionali di decidere attraverso propri apparati interni le controversie che concernono l’applicazione della disciplina normativa che gli stessi organi costituzionali si sono dati in una determinata materia - trova fondamento nell’autonomia normativa che la Costituzione riconosce agli organi costituzionali. In ragione di ciò, la materia dell’affidamento a terzi dei contratti di lavori, servizi e forniture, pur involgendo l’acquisizione, da parte dell’Amministrazione della Camera, di beni e servizi per lo svolgimento delle sue funzioni, non rientra nella sfera di autonomia normativa costituzionalmente riconosciuta. Le relative controversie sono, dunque, sottratte alla giurisdizione domestica.

La Camera dei deputati ha impugnato la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost. Ad avviso della ricorrente, il Consiglio di Stato avrebbe dovuto prendere atto della giurisdizione domestica della Camera e dichiarare l’inammissibilità del ricorso introduttivo, erroneamente proposto dinanzi agli organi di giustizia amministrativa; in astratta alternativa, avrebbe solo potuto sollevare il conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale.

Le Sezioni unite hanno rigettato il ricorso affermando che il giudice non era tenuto a sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale, avendo il potere-dovere di stabilire se la situazione soggettiva oggetto della controversia ricadeva nell’ambito della giurisdizione domestica della Camera, involgendone profili di autonomia o di indipendenza, o spettava a lui apprestare la richiesta tutela, secondo il regime giurisdizionale di diritto comune; resta ferma, in quest’ultimo caso, la possibilità per la Camera dei Deputati di promuovere il suddetto conflitto ove lamenti che il giudice adito, decidendo il merito della controversia, o la Corte di cassazione, pronunciando sul ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, abbiano concretamente interferito con le sue prerogative.

In particolare, le Sezioni unite hanno rilevato che l’individuazione del conflitto come la sede preposta al riequilibrio delle competenze costituzionali tra poteri dello Stato che prescinde dall’aspetto relativo alla costituzionalità dell’atto impugnato, non implica, tuttavia, che il giudice comune, (ordinario o) amministrativo, debba in limine arrestarsi, ed abbia l’onere di promuovere il conflitto di attribuzione, per il solo fatto che, nel corso del processo, riguardante la legittimità dell’esclusione di un concorrente da una procedura di affidamento di un appalto pubblico bandito dalla Camera, si ponga il dubbio se la controversia su cui e` chiamato a pronunciare sia o meno attratta alla giurisdizione domestica.

Nella specie, i giudici amministrativi avevano, pertanto, il potere-dovere di verificare se il caso ricade nell’ambito dell’autodichia o se rientra nel loro potere giurisdizionale. Soltanto ove avessero ritenuto di trovarsi di fronte ad un’ipotesi di giustizia domestica della Camera, il giudice aveva l’onere, in alternativa alla chiusura in rito del processo, di sollevare conflitto dinanzi alla Corte costituzionale, per lamentare la lesione concreta dell’attribuzione costituzionale di apprestare tutela alle situazioni soggettive davanti a lui azionate. Diversamente, se il giudice esclude che la fattispecie controversa sia sussumibile nel perimetro della norma regolamentare che prevede l’autodichia, incombe alla Camera dei deputati l’iniziativa di promuovere il conflitto costituzionale di attribuzione.

Essendo l’autodichia il precipitato di una prerogativa costituzionale, come tale derogatoria della giurisdizione, la questione se ci si trovi al cospetto di un caso per il quale opera la riserva o di una posizione soggettiva tutelabile dinanzi alla giurisdizione comune, rientra a pieno titolo tra quelle che il giudice investito della controversia e` chiamato a risolvere di volta in volta, procedendo alla interpretazione della fonte che pone la autodichia secondo i criteri che sono stati indicati dal Giudice delle leggi e dei conflitti. Posto davanti all’eccezione di autodichia in ragione dell’applicabilità del regolamento parlamentare, certamente il giudice non e` autorizzato a darne un’interpretazione abrogante o a procedere ad una sostanziale disapplicazione della fonte di autonomia, ma neppure e` obbligato a chiudere il processo in rito declinando la giurisdizione o a promuovere il conflitto di attribuzioni quando la controversia dinanzi a lui promossa non rientra nel perimetro della giustizia domestica.

Nel merito le Sezioni unite hanno, poi, affermato che la procedura di gara indetta dalla Camera dei Deputati, sulla scorta della normativa nazionale ed europea, per l’affidamento ad un operatore economico privato di un appalto di servizi (nella specie, di monitoraggio dei contratti relativi ai servizi informatici e alla loro gestione), non ricade nella sfera di autonomia normativa costituzionalmente riconosciuta a tale organo, pertanto, la controversia relativa all’esclusione di un concorrente da tale gara non spetta alla cognizione degli organi di autodichia, ma alla giurisdizione comune.

Sul punto assume rilievo lo stretto radicamento dell’autodichia nell’autonomia normativa consente di stabilire che la` dove le Camere non sono abilitate a ricorrere alla propria potestà normativa per disciplinare i rapporti con i soggetti terzi, allo stesso modo la fonte regolamentare non e` capace di attrarre le relative controversie alla cognizione della giustizia domestica.

Con altra pronuncia le Sezioni Unite hanno affermato che «Integra eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera riservata al potere discrezionale della P.A., la pronuncia che non si limiti ad annullare il provvedimento impugnato, rimettendo all’Amministrazione ogni valutazione in ordine al prosieguo della procedura, ma si spinga fino a prefigurare il possibile esito di tale valutazione, individuando un’unica corretta modalità di esercizio della discrezionalità amministrativa». Nella specie, la S.C. ha cassato una pronuncia del Consiglio di Stato che, annullato il provvedimento di aggiudicazione di un appalto di servizi emesso all’esito di gara, aveva affermato l’irragionevolezza della scelta della stazione appaltante di procedere ugualmente all’aggiudicazione, anziché soprassedere in attesa degli esiti del procedimento sanzionatorio avviato dall’AGCOM sulla propria segnalazione, così individuando nel differimento dell’aggiudicazione l’unica alternativa ammissibile alla conclusione della procedura di gara (Sez. U, n. 05365/2022, Mercolino, Rv. 664032-01).

Sez. U, n. 11257/2022, Terrusi, Rv. 664486-01 ha, poi, sancito il principio secondo cui nei contratti di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell’attività di una società mista, con l’avvenuta cessione delle quote e la conclusione della procedura di selezione, indicata dall’art. 17 del d.lgs. n. 175 del 2016 per l’ingresso del socio privato nella compagine originaria, si attua la fattispecie della società mista pubblico-privata e, contemporaneamente, si chiude la fase involgente la giurisdizione esclusiva; dopo di che niente altro rileva che l’esercizio dei conseguenti comuni poteri di natura privatistica, tali da assoggettare la controversia agli ordinari criteri di riparto in base alla posizione che la domanda, sotto il profilo del “petitum” sostanziale, è diretta a tutelare.

Infine, Sez. U, n. 32148/2022, Stalla, Rv. 666065-01 ha affermato che in tema d’appalto di opera pubblica, la controversia relativa alla risoluzione del contratto per inadempimento del subappaltatore, afferendo esclusivamente alla fase esecutiva del rapporto, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, sul presupposto che, intervenuta la stipulazione del contratto, la pubblica amministrazione non può più spendere alcun potere d’imperio, neppure in via di autotutela.

3. L’esecuzione del contratto; patologie e rimedi.

Il contratto di appalto trova nella sua esecuzione la causa di molteplici controversie afferenti a sopravvenienze che in corso d’opera incidono sull’assetto di interessi regolato con il suddetto contratto e che, in alcuni casi, determinano il venir meno del vincolo contrattuale. Di seguito, sono esaminate le pronunce di maggior rilievo che nel corso del 2022 si sono occupate di diverse tematiche relative alla fase esecutiva del contratto di appalto.

Con riferimento alle riserve e, in particolare, alla questione afferente alla tempestività della loro proposizione, Sez. 1, n. 00113/2022, Pazzi, Rv. 663484-01 ha precisato che occorre distinguere dal caso in cui la sospensione dei lavori sia ritenuta illegittima sin dall’inizio - l’appaltatore deve inserire la sua riserva nello stesso verbale di sospensione, iscrivere regolare riserva o domanda nel registro di contabilità, quando egli successivamente lo sottoscriva, e ripetere poi la stessa riserva nel verbale di ripresa e nel registro di contabilità successivamente firmato – dal caso in cui la sospensione dei lavori non presenti immediata rilevanza onerosa, giacche´ l’idoneità del fatto a produrre il conseguente pregiudizio o esborso emerga soltanto all’atto della cessazione della sospensione medesima, vuoi nel caso in cui quest’ultima, originariamente legittima, diventi solo successivamente illegittima, la relativa riserva non può che essere apposta nel verbale di ripresa dei lavori.

Passando ora al tema delle varianti in corso d’opera è stato affermato il principio secondo cui, la scelta se disporre o meno varianti in corso d’opera, eccedenti il limite del quinto d’obbligo, compete al committente, che non può essere obbligato a far eseguire opere significativamente diverse da quelle progettate, neanche qualora il responsabile unico del procedimento abbia rilasciato parere favorevole e l’appaltatore, pur potendo opporre un legittimo rifiuto, vi abbia consentito. Tuttavia, stante la natura privatistica del rapporto, tale facoltà discrezionale deve essere esercitata nel rispetto dei principi generali di correttezza, lealtà e buona fede e del dovere di cooperare all’adempimento dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1206 c.c. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto la Stazione appaltante responsabile della risoluzione del contratto non già per non aver dato corso alle varianti, ma per aver ritardato indebitamente nella relativa decisione (Sez. 1, n. 05848/2022, Scotti, Rv. 664029-01).

Con riferimento alla responsabilità del direttore dei lavori Sez. 1, n. 23858/2022, Parise, Rv. 665523-01 nell’ambito di un giudizio in cui la ricorrente assumeva che non poteva esservi responsabilità del direttore lavori per vizi costruttivi in corso d’opera ma solo a lavori ultimati, asserendo che la responsabilità per la vigilanza nell’esecuzione possa configurarsi solo se la prestazione professionale sia resa fino all’ultimazione dei lavori, ha affermato che la responsabilità del direttore dei lavori per vizi costruttivi può configurarsi anche in corso d’opera, non presupponendo che la prestazione professionale sia stata resa, pur a fronte di revoca dall’incarico, fino all’ultimazione dei lavori e al relativo collaudo. Tale principio tiene conto del consolidato orientamento secondo cui il direttore dei lavori, dinanzi a situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, e` tenuto, in adempimento dei propri obblighi di diligenza, ad intraprendere le opportune iniziative per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi.

Per quanto più genericamente attiene ai diversi presupposti per la domanda di risoluzione ex art 1453 c.c. Sez. 1, n. 22065/2022, Caiazzo, Rv. 665160-01 si è occupata della fattispecie in cui la Corte territoriale aveva ritenuto che l’esecuzione integrale del contratto si poneva in rapporto di incompatibilità con l’effetto derivante dalla pronuncia di risoluzione ex art. 1458 c.c., ossia il ripristino dello status quo ante. In altri termini, i giudici di merito avevano affermato che il soggetto che invoca la risoluzione del contratto non otterrebbe alcuna utilità dall’accoglimento della domanda in esame e, pertanto, aveva rigettato quest’ultima in ragione dell’esecuzione integrale del contratto. Diversamente, con la pronuncia in esame, si è affermato che l’appalto, anche nei casi in cui la sua esecuzione si protragga nel tempo, e fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche, non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica e, pertanto, non si sottrae alla regola generale, dettata dall’art. 1458 c.c., della piena retroattività di tutti gli effetti della risoluzione, anche in ordine alle prestazioni già eseguite; ne consegue che il prezzo delle opere già eseguite può essere liquidato, a seguito della risoluzione del contratto, a titolo di equivalente pecuniario della dovuta restitutio in integrum. In conclusione, a secondo la Corte, l’affermazione secondo cui la risoluzione per inadempimento non sarebbe possibile a causa della ultimazione dei lavori non trova alcun riscontro positivo: al contrario, va considerato che nell’appalto pubblico momento che assume rilievo il collaudo fino al quale la domanda è proponibile.

Nel corso del 2022 la Corte ha esaminato anche il tema della esigibilità dei crediti dell’appaltatore in assenza di collaudo.

In particolare si è affermato che le domande relative all’esecuzione dell’appalto possono essere proposte anche in difetto di approvazione del collaudo, ove la Pubblica amministrazione abbia fatto decorrere per il compimento del collaudo stesso un tempo cosi` lungo da rendere l’inerzia sostanzialmente equivalente ad un rifiuto, non potendo la medesima, tenuta ad eseguire il contratto nel rispetto delle regole generali dettate dagli artt. 1374 e 1375 cod. civ., ritardare sine die le sue determinazioni in ordine al collaudo, paralizzando i diritti dell’altro contraente. In tali casi i crediti dell’appaltatore di opera pubblica sono esigibili anche in mancanza di collaudo e, una volta accertata la scadenza dei termini contrattuali, l’appaltatore deve considerarsi dispensato dalla prova dell’imputabilità del ritardo all’amministrazione, incombendo a quest’ultima l’onere di dimostrare che la mancata approvazione del collaudo sia stata determinata dalla condotta dell’impresa (Sez. 1, n. 05744/2022, Caradonna, Rv. 664028-01).

Sez. 1, n. 12483/2022, Lamorgese, Rv. 664692-01 ha, poi, affrontato il tema del diritto di ritenzione ex art 1152 c.c.

In particolare, la S.C. si è occupata dell’operatività di tale istituto nell’ipotesi in cui il vincolo contrattuale tra committente ed appaltatore è venuto meno per effetto della rescissione ad opera del committente. In proposito si è affermato che, in tali ipotesi, al diritto di credito dell’appaltatore non corrisponde un diritto di ritenzione del cantiere, essendo l’obbligo della riconsegna dello stesso configurabile non come una prestazione in relazione sinallagmatica con l’obbligo del committente al pagamento del corrispettivo, ma solo come un effetto del venir meno del rapporto contrattuale tra le parti. In particolare, il diritto di ritenzione di cui all’art. 1152 c.c., deve essere inteso quale mezzo di autotutela di natura eccezionale, ed in quanto tale non è applicabile in via analogica a casi che non siano contemplati dalla legge e non può essere esercitato dall’appaltatore rispetto alle opere da lui costruite sul suolo del committente.

Sez. 1, n. 03260/2022, Parise, Rv. 664101-02 ha, invece, affermato che “il premio di accelerazione” non si configura propriamente come corrispettivo di lavori, ma attiene a compensi che stanno a se` ed hanno una propria autonoma causa, come si evince, in particolare, dalla circostanza che non sono sottoposti alla disciplina dei prezzi contrattuali, non sono soggetti a ribasso d’asta, non sono suscettibili di revisione per variazioni del mercato e non entrano nel computo dei lavori. Tali compensi costituiscono oggetto di un’obbligazione contrattuale della committente del tutto eventuale e meramente accessoria rispetto all’obbligazione principale avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo dell’opera, essendo previsti non già come una particolare modalità di determinazione di un corrispettivo variabile in funzione del tempo impiegato nell’esecuzione dei lavori, bensì come un compenso ulteriore che si aggiunge a quello pattuito, e che viene corrisposto solo se ed in quanto l’opera risulti ultimata in un momento anteriore rispetto alla data fissata nel contratto. Dunque, il premio, in quanto collegato ad una ultimazione anticipata rispetto al termine fissato dal contratto, non e` dovuto in tutti i casi in cui il termine finale sia posticipato, e tanto sia se ciò avvenga a seguito di proroga anche concordata, quanto nell’ipotesi di sospensioni e varianti, ancorché disposte dalla stazione appaltante, quanto, infine, per fatti dovuti a slittamento o differimento per forza maggiore. Infatti, l’interesse all’esecuzione dell’opera prima del tempo inizialmente fissato, valutato positivamente in relazione ai tempi iniziali, può non sussistere rispetto ai diversi tempi sopravvenuti nel corso dell’esecuzione, essendo irrilevante la causa del differimento. In altri termini, la connotazione strutturale e funzionale del premio di accelerazione nel senso precisato ne determina, nel suo nucleo essenziale ai fini del perfezionamento della fattispecie, la dipendenza da un dato oggettivamente verificabile, quale per l’appunto e` l’ultimazione dei lavori anticipata rispetto al termine convenzionalmente fissato, e ciò in coerenza con l’autonomia della causa su cui si fonda quell’obbligazione accessoria, eventuale ed aggiuntiva rispetto al restante regolamento contrattuale. Si richiede, dunque, all’appaltatore, il quale preventivamente accetta l’alea collegata al verificarsi di eventi impeditivi di ogni tipo a fronte di un incentivo quantificato di norma, come nella specie, in misura ragguardevole, un maggior sforzo produttivo profuso per l’accelerazione dei tempi di esecuzione dei lavori, all’evidenza non disgiunto dall’impiego della diligenza qualificata prescritta dall’art. 1176 c.c., comma 2, cosi` configurandosi la sua obbligazione come avente ad oggetto la realizzazione dell’opera non solo a regola d’arte, ma anche e soprattutto anticipatamente rispetto al termine stabilito, determinando, cosi`, la consegna anticipata il perfezionamento della fattispecie. La S.C. precisa che l’avvenuta ultimazione dei lavori in data anteriore al termine fissato nel contratto di appalto non può essere, di per se` sola, sufficiente a far sorgere in favore dell’appaltatore il diritto al riconoscimento del premio d’incentivazione, occorrendo che all’anticipato conseguimento della disponibilità dell’opera da parte della committente faccia riscontro, in sede di collaudo, l’accertamento dell’immunità della stessa da vizi o difetti idonei a comprometterne l’immediata destinazione all’uso per il quale e` stata progettata.

In continuità con tale ultima affermazione si pone il principio affermato da Sez. 1, n. 02075/2022, Caiazzo, Rv. 663790-01 secondo cui in tema di appalto pubblico, il collaudo non costituisce il termine finale per contestare all’appaltatore i ritardi nell’adempimento, poiché tali ritardi esulano dalle questioni tecnico-contabili, che ne sono l’ambito tradizionale, ma attengono all’esatto adempimento, disciplinato delle norme generali, né il buon esito del collaudo può ingenerare alcun affidamento in capo all’appaltatore, non trattandosi di un atto proveniente dalla P.A., ma da un organo indipendente, quale è il collaudatore, mentre solo l’approvazione del committente determina il consolidamento delle obbligazioni a carico di quest’ultimo.

In ultimo, Sez. 1, n. 23447/2022, Vella, Rv. 665245-01 ha affrontato la questione inerente al pagamento diretto al subappaltatore in presenza della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore. La Corte ha richiamato i principi di stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte, in base ai quali, in caso di fallimento dell’appaltatore di opera pubblica, il meccanismo delineato dall’art.118, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 – che consente alla stazione appaltante di sospendere i pagamenti in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti effettuati da quest’ultimo al subappaltatore – deve ritenersi riferito all’ipotesi in cui il rapporto di appalto sia in corso con un’impresa in bonis e, dunque, non e` applicabile nel caso in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie; di conseguenza, il corrispettivo delle prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento del contratto e` dovuto dalla stazione appaltante al curatore fallimentare dell’appaltatore, mentre il subappaltatore deve essere considerato un creditore concorsuale dell’appaltatore come gli altri, da soddisfare nel rispetto della par condicio creditorum e dell’ordine delle cause di prelazione, senza che rilevi a suo vantaggio l’istituto della prededuzione ex art. 111, comma 2, l.fall. (Sez. U, n. 5685/2020, Lamorgese, Rv. 657207-01). Da tale principio la sentenza ha desunto che anche il pagamento diretto del subappaltatore -parimenti contemplato dall’art.118, comma 3, d.lgs.n.163/06- e` compatibile solo con l’ipotesi in cui il rapporto di appalto sia in corso con l’impresa in bonis, e non lo e` quando il contratto di appalto si sciolga ipso iure a seguito della dichiarazione di fallimento dell’appaltatore, ai sensi dell’art. 81 l.fall. e dell’art.140, comma 1, Codice appalti 2006, come e` avvenuto nel caso di specie.

4. Appalto e raggruppamento temporaneo di imprese.

Sez. 1, n. 11802/2022, Terrusi, Rv. 664668-01 - dopo aver affermato che in virtù del rapporto esistente tra le imprese mandanti e la mandataria- capogruppo, che e` considerato come mandato con rappresentanza, gratuito e irrevocabile, la mandataria e` legittimata a compiere, nei soli rapporti con la stazione appaltante, ogni attività giuridica connessa o dipendente dall’appalto – ha precisato che ciò non esclude che il contratto, che lega la capogruppo alle mandanti, possa a sua volta contenere, sempre nell’alveo della rappresentanza, previsioni circa le modalità di gestione del mandato collettivo nei rapporti con i terzi, in vista della migliore realizzazione dell’opera per la quale l’associazione temporanea è stata costituita. Ciò invero dipende essenzialmente dalla volontà delle parti, come manifestata nello specifico contratto dal quale l’associazione e` regolata.

Sulla base di tali principi la Corte ha così affermato che «L’impresa mandataria di un’associazione temporanea di imprese può ricevere dalle imprese associate, in forza del sottostante mandato con rappresentanza, il potere di rappresentarle non soltanto nei rapporti con la stazione appaltante ma anche nei rapporti con i terzi, in vista della migliore realizzazione dell’opera per la quale l’associazione è stata costituita; in tal caso, ex art. 808, comma 2 c.p.c., il potere di concludere i contratti esecutivi e di subappalto, comprende quello di pattuire la clausola compromissoria, la cui efficacia soggettiva è estesa anche alle imprese mandanti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto una impresa mandante inclusa nel perimetro di efficacia soggettiva della clausola compromissoria contenuta nel contratto di subappalto concluso con un terzo dalla mandataria dell’a.t.i. con cui la prima era riunita in associazione per la realizzazione di lavori pubblici)».

5. L’arbitrato negli appalti pubblici.

L’arbitrato in materia di contratti pubblici di lavori è stato oggetto di continui interventi da parte del legislatore che, con gli artt. 241, 242 e 243 del d.lgs. n. 163 del 2006, ha provveduto a unificarne la disciplina prima di allora contenuta in diverse disposizioni (art. 32, l. n. 109 del 1994, e successive modificazioni; artt. 149, 150 e 151 del regolamento generale di attuazione della suddetta legge, approvato con d.P.R. n. 554 del 1999; artt. 1-12, d.m. Grazia e Giustizia n. 398 del 2000; artt. 32, 33 e 34, d.m. Lavori Pubblici n. 145 del 2000).

Per effetto dell’art. 217, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 50 del 2016, a decorrere dal 19 aprile 2016, il d.lgs. n. 163 è stato abrogato, ai sensi di quanto disposto dall’art. 220, risultando, ora, l’arbitrato disciplinato dall’art. 209 del cit. d.lgs. n. 50.

Per quanto rileva in tale sede, l’originario art. 241 cit. stabiliva che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri».

A fronte di questa iniziale previsione che consentiva il ricorso all’arbitrato, l’art 3, comma 19, della l. n. 244 del 2007 ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, di inserire clausole compromissorie «in tutti i loro contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimi contratti, di sottoscrivere compromessi. Le clausole compromissorie ovvero i compromessi comunque sottoscritti sono nulli e la loro sottoscrizione costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale per i responsabili dei relativi procedimenti».

Successivamente, il d.lgs. n. 53 del 2010, nel dare attuazione alla direttiva 2007/66/CE, che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici, ha, con l’art. 15, abrogato il cennato art. 3 della l. n. 244 del 2007 e, all’art. 5, comma 1, lett. b), inserito il comma 1 bis all’art. 241 cit. Con tale ultima disposizione il legislatore prevedeva che «La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà, o meno, la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso».

Per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, commi 19-24, l. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), l’art. 241, nel testo in vigore dal 28 novembre 2012 al 18 aprile 2016, sanciva che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione. L’inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli».

Il medesimo art. 1 della l. n. 190 del 2012 prevedeva, al comma 25, che «le disposizioni di cui ai commi da 19 a 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge».

Infine, oggi, per effetto dell’art. 209 del d.lgs. n. 50 del 2016, è previsto che «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario di cui agli articoli 205 e 206 possono essere deferite ad arbitri. L’arbitrato, ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 6 novembre 2012, n. 190, si applica anche alle controversie relative a concessioni e appalti pubblici di opere, servizi e forniture in cui sia parte una società a partecipazione pubblica ovvero una società controllata o collegata a una società a partecipazione pubblica, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, o che comunque abbiano ad oggetto opere o forniture finanziate con risorse a carico dei bilanci pubblici. 2. La stazione appaltante indica nel bando o nell’avviso con cui indice la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria. L’aggiudicatario può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione. È vietato in ogni caso il compromesso. 3. È nulla la clausola compromissoria inserita senza autorizzazione nel bando o nell’avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito. La clausola è inserita previa autorizzazione motivata dell’organo di governo della amministrazione aggiudicatrice (…)».

Il quadro normativo sopra riportato pone in luce il difficile bilanciamento perseguito dal legislatore tra le diverse esigenze che sono alla base del ricorso all’arbitrato nei contratti della pubblica amministrazione. Da un lato, infatti, l’istituto in esame risponde all’esigenza avvertita non solo in ambito nazionale, ma, più in generale, in quello europeo, di rendere più efficaci le procedure di risoluzione delle controversie relative agli appalti pubblici, con conseguente anche contenimento dei relativi costi rispetto ai contenziosi ordinari. Dall’altro lato, il legislatore, proprio in ragione della portata dell’arbitrato quale strumento di risoluzione delle controversie diverso da quello rimesso alla giurisdizione ordinaria, ne ha previsto l’operatività previo rispetto di specifici presupposti tra i quali l’autorizzazione da parte dell’organo di governo della singola pubblica amministrazione.

Alla luce del riportato quadro normativo di riferimento, Sez. 1, n. 10845/2022, Scalia, Rv. 664733-01 ha precisato che in tema di tema di appalto di opere pubbliche non statali, in presenza di una clausola compromissoria che preveda un collegio arbitrale composto da cinque membri mediante rinvio all’art. 43 d.P.R. n. 1063 del 1962, la successiva abrogazione di tale norma, sostituita dall’art. 32 d.P.R. n. 109 del 1994, che regolamenta un collegio arbitrale composto da tre membri, spiega influenza sul rapporto solo se le parti manifestino, anche indirettamente, la concorde volontà di nominare tre arbitri, come accade nel caso in cui procedano alla loro scelta secondo la nuova disciplina, precludendosi la facoltà di denunciare l’invalidità del lodo per irregolare composizione del collegio (rispetto a quanto stabilito in contratto) e rendendo tale invalidità insuscettibile di rilievo officioso in conseguenza del silenzio serbato nel corso del procedimento arbitrale.

Con altra successiva pronuncia la Corte si è occupata della specifica disciplina da applicare in materia di arbitrario alla luce del susseguirsi della disciplina normativa sopra richiamata, affermando che «In tema di appalti pubblici, ove la costituzione del collegio arbitrale previsto da clausola compromissoria abbia avuto luogo successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 163 del 2006, in caso di mancato accordo per la nomina del terzo arbitro, a quest’ultima deve provvedere la camera arbitrale, ai sensi dell’art. 241 dello stesso decreto, nel testo vigente “ratione temporis”; ne deriva che la nomina del terzo arbitro compiuta dal Presidente del tribunale è illegittima, con conseguente irregolare costituzione del collegio, denunciabile in sede di impugnazione del lodo ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c..» (Sez. 1, n. 27613/2022, Tricomi, Rv. 665642-01).

  • diritto delle società

CAPITOLO XXVII

LE SOCIETÀ IN HOUSE PROVIDING

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Le società in house providing e la giurisprudenza di legittimità. - 2 L’azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo delle società in house e delle società a partecipazione pubblica.

1. Le società in house providing e la giurisprudenza di legittimità.

Negli anni precedenti a quello in rassegna la S.C. ha adottato importanti pronunce in tema di società in house e, in generale, di società a partecipazione pubblica, svolgendo un ruolo centrale nell’individuazione delle caratteristiche di tali figure e della disciplina ad esse applicabile, in presenza di un quadro normativo per molti anni estremamente frammentato e da raccordare a fonti di diritto unionale in continua evoluzione.

Con il d.lgs. n. 175 del 2016, modificato dal d.lgs. n. 100 del 2017, è stato finalmente adottato il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica (di seguito T.U.S.P.) in attuazione della delega conferita al governo dagli artt. 16 e 18 della l. n. 124 del 2015.

Lo scopo dell’intervento è stato quello di semplificare e razionalizzare le regole vigenti in materia, attraverso il riordino delle disposizioni nazionali e di creare una disciplina generale organica, senza mutare totalmente il quadro di riferimento, ma favorendo fenomeni già in atto che, in certi casi, avevano trovato ostacoli proprio nella mancanza di norme adeguate o non adeguatamente coordinate.

Molte disposizioni del T.U.S.P. hanno fatto proprie le soluzioni interpretative adottate dalla giurisprudenza e altre hanno solo spostato i termini delle questioni che sono comunque rimaste affidate all’interpretazione dei giudici.

In tale quadro, è opportuno richiamare le statuizioni adottate dalla Corte di cassazione, e riportate nelle Rassegne degli anni precedenti, riguardanti, in particolare, l’individuazione dei caratteri distintivi delle società in house, la verifica della giurisdizione in ordine a delicate controversie (come l’azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo di tali società o l’impugnazione della nomina e della revoca dei componenti di tali organi), il riconoscimento della fallibilità di tali società e le infinite ulteriori problematiche connesse, solo in parte risolte dal menzionato Testo Unico.

Nel corso del 2022, alcune pronunce della S.C. hanno trattato il tema del reclutamento del personale delle società in house, per il cui esame si rinvia al corrispondente capitolo di questa Rassegna.

In questa sede vengono, invece, richiamate le statuizioni riguardanti le azioni di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo delle società a partecipazione pubblica, ove la qualificazione in termini di società in house ha assunto rilievo ai fini dell’affermazione della giurisdizione contabile, in aggiunta ai criteri comuni di attribuzione di tale giurisdizione.

2. L’azione di responsabilità nei confronti degli organi di gestione e di controllo delle società in house e delle società a partecipazione pubblica.

In argomento, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 20632/2022, Graziosi, Rv. 665079-02) hanno affermato che sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nel caso in cui le società a partecipazione pubblica abbiano, al momento in cui sono tenute le condotte ritenute illecite, tutti i requisiti per essere definite in house providing, i quali possono risultare dalle disposizioni statutarie in vigore all’epoca dei fatti, ma anche derivare dall’esterno, ove l’esistenza di un controllo analogo - che (diverso da quello gerarchico) è posto in essere da un soggetto distinto da quello controllato - sia ricavabile da disposizioni normative, che consentono all’ente pubblico partecipante di dettare le linee strategiche e le scelte operative, con il presidio a monte di un adeguato flusso di informazioni in grado di incidere sulla complessiva governance della società, preservando le finalità pubbliche che comunque la permeano e che costituiscono la stella polare del controllo, quale elemento dinamico in grado di connettere concretamente la stessa società con l’ente pubblico partecipante (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice contabile, che aveva ritenuto sussistente la propria giurisdizione, qualificando come società in house la società di gestione di un acquedotto, il cui statuto riservava alla preventiva approvazione dell’assemblea dei soci - il cui maggiore azionista era un ente locale – l’autorizzazione del programma annuale e triennale della gestione e degli investimenti, come pure la sottoscrizione di convenzioni pubbliche e la realizzazione di investimenti eccedenti un predeterminato limite di valore).

Le stesse Sezioni Unite hanno, comunque, precisato che la responsabilità degli amministratori degli enti partecipanti per danno erariale diretto all’ente pubblico socio è configurabile anche quando la società partecipata non abbia natura di società in house providing, poiché la previsione dell’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 175 del 2016 non riveste una portata delimitatrice o abrogatrice della comune responsabilità contabile (Sez. U, n. 15979/2022, Ferro, Rv. 664909-03).

In tale ottica, le menzionate Sezioni Unite hanno evidenziato che, in caso di azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali di società a partecipazione pubblica, la sussistenza della giurisdizione contabile presuppone l’accertamento di un rapporto di servizio tra gli enti pubblici soci e gli amministratori della partecipata, che rappresenta l’elemento di collegamento, ai fini della configurabilità di un danno erariale, con la conseguenza che tale giurisdizione deve essere esclusa, ove risulti impossibile imputare personalmente agli amministratori, o ad altri soggetti investiti di cariche sociali, la titolarità del rapporto di servizio intercorrente tra l’ente pubblico e la società, cui sia stato affidato l’espletamento di compiti riguardanti un pubblico servizio (Sez. U, n. 15979/2022, Ferro, Rv. 664909-02).

  • mercato finanziario
  • attività bancaria
  • codice della strada
  • infrazione al codice della strada
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XXVIII

LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

(di Francesco Agnino )

Sommario

1 Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio di opposizione e regole processuali. - 2 Giurisdizione. - 3 Competenza ed incompetenza. - 4 Altri vizi procedurali e procedimentali. - 5 Cumulo materiale e concorso di persone. - 6 Intrasmissibilità dell’obbligazione e responsabilità solidale. - 7 Prescrizione. - 8 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali e processuali. - 9 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta. - 10 Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione. - 11 Abuso di informazioni privilegiate. - 12 Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario. - 13 Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada: modalità di accertamento. - 14 Il verbale di constatazione delle violazioni al codice della strada: natura, requisiti e notificazione. - 15 L’opposizione: il rito, la competenza, l’oggetto e gli effetti. - 16 Le violazioni sanzionate dal codice della strada. - 17 Le altre sanzioni.

1. Principi generali, struttura impugnatoria del giudizio di opposizione e regole processuali.

La struttura del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, regolato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 689 del 1981, ha natura impugnatoria su ricorso e di annullamento di un atto amministrativo, mutuata dal processo amministrativo, rappresentando una delle rare eccezioni ai principi-cardine posti dagli artt. 4 e 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (Sez. 6-2, n. 18158/2020, Tedesco, Rv. 659212-01).

Detto giudizio riguarda, come ricorda Sez. 6-2, n. 21146/2019, Carrato, Rv. 655278-01, in continuità con l’indirizzo nomofilattico (Sez. U, n. 01786/2010, Goldoni, Rv. 611243-01), il rapporto giuridico sotteso, avente fonte legale in un’obbligazione di tipo sanzionatorio (così già Sez. 2, n. 12503/2018, Carrato, Rv. 648753-01; Sez. 2, n. 09286/2018, Criscuolo, Rv. 648150-01).

Al descritto paradigma impugnatorio è annesso un rigido sistema preclusivo (Sez. 2, n. 27909/2018, Picaroni, Rv. 651033-01), valevole per ogni soggetto coinvolto nel giudizio di opposizione, sicché tutte le ragioni poste alla base dell’istanza demolitoria di nullità (o di annullamento) dell’atto (causae petendi) devono essere prospettate nel ricorso introduttivo entro i termini di legge.

Neppure il giudice può rilevare d’ufficio, fuori dei limiti dell’oggetto dello stesso giudizio così delimitato, eccezioni relative a vizi o ragioni di nullità del provvedimento opposto o del procedimento che ne ha preceduto l’emanazione distinti da quelli dedotti dal ricorrente, salvo che essi incidano sull’esistenza dell’atto impugnato. Rientra in quest’ultima eccezione, l’illegittimità del provvedimento opposto per violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 della l. n. 689 del 1981, che è rilevabile d’ufficio, trattandosi di principio-cardine dell’intero sistema normativo di settore ed ha valore ed efficacia assoluti, essendo direttamente riferibile alla tutela di valori costituzionalmente garantiti (artt. 23 e 25 Cost.), sicché la sua attuazione non può rimanere, sul piano giudiziario, affidata alla mera iniziativa dell’interessato, ma deve essere garantita dall’esercizio della funzione giurisdizionale (Sez. 2, n. 04962/2020, Varrone, Rv. 657117-01).

Non sono mancati arresti che hanno precisato che in tema di sanzioni amministrative, l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione non configura un’impugnazione dell’atto, ed introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, con l’ulteriore conseguenza che, in virtù della l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 23 (applicabile “ratione temporis”), il giudice ha il potere-dovere di esaminare l’intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa - nell’ambito delle deduzioni delle parti - all’esame completo nel merito della fondatezza dell’ingiunzione (Sez. 2, n. 14861/2022, Abete, non massimata).

Sez. U, n. 20263/2022, Perrino, non massimata, ha delineato i poteri esercitabili dal giudice nel procedimento di opposizione avverso un’ordinanza-ingiunzione irrogativa di sanzione pecuniaria, disciplinato dalla l. n. 689 del 1981, riconoscendo al giudice ordinario la competenza giurisdizionale a tutela del diritto soggettivo dell’opponente di non essere sottoposto al pagamento di somme all’infuori dei casi espressamente previsti, in ciò eventualmente restando ricompreso anche il potere di sindacare incidentalmente, ai fini della disapplicazione, gli atti amministrativi che costituiscono presupposto di quell’ordinanza. Pertanto, la cognizione del giudice ordinario si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, i quali costituiscono la concreta e diretta ragione giustificativa della potestà sanzionatoria esercitata nel caso concreto ed incidono pertanto su posizioni di diritto soggettivo del destinatario.

Come precisato da Sez. U, n. 02145/2021, Doronzo, Rv. 660222-01, nel regime introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, le controversie, regolate dal processo del lavoro, di opposizione ad ordinanza ingiunzione che abbiano ad oggetto violazioni concernenti le disposizioni in materia antinfortunistica, di tutela e di igiene sui luoghi di lavoro nonché di previdenza ed assistenza obbligatoria, diverse da quelle consistenti nell’omissione totale o parziale di contributi o da cui deriva un’omissione contributiva, non rientrano tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c. per le quali l’art. 3 della l. n. 742 del 1969 dispone l’inapplicabilità della sospensione dei termini in periodo feriale; ne consegue che, ai fini della tempestività dell’impugnazione, avverso la sentenza resa in tema di opposizione a ordinanza ingiuntiva del pagamento di una sanzione amministrativa per violazioni inerenti al rapporto di lavoro o al rapporto previdenziale, deve tenersi conto di detta sospensione.

Quanto al termine per la produzione degli atti e documenti, nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione la produzione di documenti da parte dell’Autorità opposta può intervenire anche nel corso del giudizio, in assenza di un termine espressamente definito come perentorio dall’ordinamento, e ciò indipendentemente dalla costituzione della predetta autorità o dalla comparizione della medesima (Sez. 6, n. 07715/2022, Oliva, Rv. 664191-01).

Peraltro, ai fini dell’accertamento della sussistenza o meno delle cause di esclusione della responsabilità, previste dall’art. 4 della l. n. 689 del 1981, occorre, in mancanza di ulteriori precisazioni, fare riferimento alle disposizioni che disciplinano i medesimi istituti nel diritto penale e segnatamente, per quanto concerne lo stato di necessità, all’art. 54 c.p.

Con particolare riferimento allo stato di necessità, occorre dimostrare che la condotta sia necessitata dall’imminente (ancorché supposto per errore di fatto) pericolo per la vita o l’integrità fisica della persona oggetto del salvataggio: ove tale prova non sia raggiunta, secondo l’apprezzamento di merito del giudice, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato, non potrà essere riconosciuta l’esimente.

A tale riguardo, Sez. 2, n. 22020/2022, Criscuolo, non massimata, ha precisato che qualora sia invocato uno stato di necessità di carattere medico - sanitario la situazione di pericolo deve avere un carattere di indilazionabilità e cogenza tale da non lasciare all’agente alternativa diversa dalla violazione della legge; ciò perché la moderna organizzazione sociale, venendo incontro, con i mezzi più disparati a coloro che possono trovarsi in pericolo di vita, per il non soddisfacimento dei predetti bisogni, ha modo di evitare il possibile, irreparabile danno alla persona.

Quanto alla notifica degli atti, Sez. 5, n. 25315/2022, De Rosa, Rv. 665572-01, ha precisato che, in tema di notificazioni di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva ed il regime introdotto dalla l. 4 agosto 2017, n. 124. Sempre in tema di notifica, Sez. 2, n. 33765/2022, Giannaccari, Rv. 666141-01, ha statuito che in tema di sanzioni amministrative, l’ordinanza ingiunzione emessa dall’ENAC nei confronti di impresa aerea con sede in uno Stato membro dell’UE è espressione dell’esercizio di un potere autoritativo, pertanto la relativa notifica non deve avvenire ai sensi del regolamento UE n. 1393 del 2007 (essendo escluso dal suo ambito di applicazione la materia fiscale, doganale e amministrativa), né della Convenzione dell’Aja del 1965 (siccome dettata per la notificazione o comunicazione di atti giudiziari in materia civile e commerciale e non anche per gli atti amministrativi), ma ai sensi dell’art. 142 c.p.c. e, dunque, alla stregua della legge consolare ex d.lgs. n. 71 del 2011, in virtù della quale operano le modalità descritte dalla Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, ratificata in Italia con l. n. 149 del 1983, quando il destinatario risieda in Stato che l’abbia ratificata, oppure, in caso contrario, mediante spedizione diretta con raccomandata con ricevuta di ritorno o, infine, tramite Ambasciata o Consolato. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la notifica dell’ordinanza ingiunzione alla compagnia Ryan Air potesse essere eseguita, alla stregua della legge consolare, mediante invio diretto a mezzo posta, in quanto l’Irlanda pur non avendo ratificato la Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, ammetteva tale forma di notifica).

Sez. 6-3, n. 28509/2022, Rossetti, Rv. 665956-01, ha evidenziato che l’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo introduce un ordinario giudizio di accertamento negativo del credito, e non un’opposizione all’esecuzione, con la conseguenza che il giudizio è soggetto alla sospensione feriale dei termini processuali.

2. Giurisdizione.

In tema di opposizione a sanzioni amministrative per escavazione abusiva che, ai sensi dell’art. 29 della l.r. Sicilia n. 127 del 1980, la quale richiama “le procedure della l. 24 novembre 1981, n. 689, e successive modifiche e integrazioni”, sono irrogate ai “soggetti resisi responsabili delle trasgressioni di cui al presente articolo”, per cui si discute unicamente di provvedimenti sanzionatori emessi dalla P.A. come reazione a comportamenti del privato assunti come illegittimi, incidenti su posizioni soggettive aventi natura di diritto (nel caso delle pene pecuniarie, l’interesse soggettivo all’integrità della propria sfera patrimoniale), Sez. U, n. 08187/2022, De Masi, Rv. 664218-01, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del G.O. In particolare, il giudice della nomofilachia ha osservato che la sanzione, a ben vedere, assolve un ruolo meramente punitivo, solo indirettamente preordinato alla tutela degli interessi pubblici rientranti all’area funzionale (uso e governo del territorio) sussidiata dalla sanzione, e si risolve nella compressione della sfera di libertà del cittadino: tanto vale anche per le sanzioni amministrative accessorie (l’esclusione per un periodo di dieci anni dal diritto al provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività di cava, previsto dall0art. 29 della l.r. Sicilia n. 127 del 1980), che l’autorità amministrativa applica con l’ordinanza ingiunzione, “quando esse consistono nella privazione o sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell’amministrazione” (art. 20 della l. n. 689 del 1981).

3. Competenza ed incompetenza.

Con riguardo alla competenza per territorio, Sez. 6-2, n. 08030/2022, Grasso, non massimata, ha chiarito che la competenza inderogabile si radica in capo al giudice del circondario nel quale risulta essere stata accertata l’infrazione al codice della strada. Tale principio che evoca, all’evidenza, il rapporto col territorio nel quale l’infrazione è stata commessa (il che, di norma, corrisponde con il luogo di elevazione del verbale), deve essere puntualizzato: nel caso in cui si abbia scissione dei due momenti, perché l’infrazione perpetrata in un certo luogo viene rilevata da un’autorità sita altrove, impone attribuirsi la competenza al giudice del locus commissi delicti; l’opposta soluzione, infatti, per un verso lederebbe la natura inderogabile e funzionale del discrimine sulla competenza, che cadrebbe, così, nella soggettiva disponibilità dell’amministrazione sanzionante e, per altro verso, darebbe vita a un’artificiosa competenza di un giudice estraneo alla prossimità.

In tema di competenza per materia, in fattispecie relativa a sanzioni elevate per violazione degli artt. 3 e 16 del d.lgs. n. 109 del 1992 relative all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari, Sez. 6-2, n. 05242/2018, Orilia, Rv. 648217-01, ha riconosciuto la competenza del giudice di pace, avuto riguardo alla disciplina commerciale finalizzata ad assicurare la correttezza e la completezza delle indicazioni riportate dai produttori e, con esse, a tutelare l’affidamento dei consumatori, escludendo, quindi, la riconducibilità della materia all’igiene degli alimenti e bevande, riservata ex art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 alla competenza del tribunale.

Relativamente, poi, alla competenza per valore, un principio di portata generale resta quello espresso da Sez. 6-3, n. 20191/2018, Cirillo F.M., Rv. 650293-01, secondo cui - come già affermato in passato - ai fini dell’attribuzione al giudice di pace delle opposizioni alle sanzioni amministrative pecuniarie di valore fino ad euro 15.493,00 ai sensi dell’art. 6, comma 5, lett. a), del d.lgs. n. 150 del 2011, occorre avere riguardo al massimo edittale della sanzione prevista per ciascuna violazione, non rilevando che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di contestazioni e che, per effetto della sommatoria dei relativi importi, venga superato il suddetto limite di valore.

Sul fronte patologico del vizio di incompetenza, la sedimentata giurisprudenza di legittimità in tema di opposizione a sanzioni amministrative - compendiata da ultimo da Sez. 6-2, n. 17569/2021, Fortunato, Rv. 661487-01 (conf. Sez. 2, n. 28108/2018, Picaroni, Rv. 651188-01) - ravvisa l’incompetenza assoluta dell’Amministrazione, con conseguente inesistenza del provvedimento sanzionatorio, quando l’atto emesso concerne una materia del tutto estranea alla sfera degli interessi pubblici attribuiti alla cura dell’Amministrazione cui l’organo emittente appartiene, mentre si ha incompetenza relativa nel rapporto interno tra organi od enti nelle attribuzioni dei quali rientra, sia pure a fini ed in casi diversi, una determinata materia; soltanto il primo vizio è rilevabile d’ufficio mentre il secondo deve essere dedotto dalla parte esclusivamente con l’atto di opposizione.

Sul correlato fronte giurisdizionale, Sez. 2, n. 15043/2020, Oliva, Rv. 658119-01, specifica che nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa il giudice è tenuto a rilevare ex officio solo l’incompetenza assoluta dell’autorità amministrativa che abbia emesso, senza averne alcun potere, l’ordinanza-ingiuntiva opposta, poiché solo in tal caso difetta in radice il potere sanzionatorio in concreto esercitato dall’autorità predetta e l’incompetenza si risolve nel difetto di uno degli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria. In ogni altro caso di incompetenza, spetta, invece, alla parte sollevare la relativa eccezione nel ricorso introduttivo, unitamente alle ragioni poste alla base dello stesso, e fornirne la dimostrazione puntuale, in ottemperanza ai normali criteri di ripartizione dell’onere della prova, poiché il vizio non attiene alla titolarità in astratto del potere sanzionatorio, ma soltanto al suo corretto esercizio in concreto.

4. Altri vizi procedurali e procedimentali.

Quanto agli altri possibili vizi dell’ordinanza-ingiunzione, va premesso che il procedimento preordinato all’irrogazione delle sanzioni amministrative sfugge all’ambito applicativo della l. n. 241 del 1990 perché, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi autonomamente sanciti dalla l. n. 689 del 1981 e dal d.P.R. n. 495 del 1992, che non prescrivono, quanto al contenuto del verbale di accertamento, la necessità di indicare il nominativo del responsabile del procedimento ovvero l’autorità territorialmente competente a conoscere dell’impugnativa (Sez. 6-2, n. 17088/2019, Falaschi, Rv. 654616-01). Pertanto - come rammenta Sez. 2, n. 01740/2020, Criscuolo, Rv. 656852-01 - l’omessa o erronea indicazione, nell’ordinanza-ingiunzione (o, in sua mancanza, nella cartella di pagamento), del termine per proporre l’opposizione e dell’autorità competente a decidere sulla stessa, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della l. n. 241 del 1990, non determinano, ex se, invalidità dell’atto ma, possono, al più, dar luogo ad errore scusabile, impedendo la decadenza dal diritto di proporre opposizione, qualora tali indicazioni mancanti o sbagliate non consentano l’adeguata identificazione dell’Autorità a cui ricorrere e la conoscenza dei termini relativi.

Tale conclusione muove dalla premessa che nei procedimenti per la irrogazione di sanzioni amministrative, disciplinati dalla l. 24 novembre 1981, n. 689, non trovano applicazione le disposizioni sulla partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo di cui alla l. 7 agosto 1990, n. 241, artt. 7 e 8 le quali configurano una normativa generale su cui prevale la legge speciale, in quanto idonea ad assicurare garanzie di partecipazione non inferiori al “minimum” prescritto dall’anzidetta normativa generale (Sez. 2, n. 14862/2022, Abate, non massimata).

Sez. 6-2, n. 15828/2022, Dongiacomo, non massimata, ha rilevato che, in tema di sanzioni amministrative, l’autore dell’illecito ha il diritto di pagare in misura ridotta, con effetto estintivo dell’obbligazione, entro il termine di sessanta giorni (decorrente, dall’art. 16 della l. n. 689 del 1981 dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione) senza che operi, in via generale, la necessità di un avviso espresso in tal senso da parte dell’amministrazione secondo la previsione di cui all’art. 3, ultimo comma, della l. n. 241 del 1990, (la quale riguarda la diversa ipotesi dell’indicazione al destinatario del termine e dell’autorità cui è possibile ricorrere contro il provvedimento amministrativo), con la conseguenza che non determina lesione del diritto dell’interessato di definire immediatamente il procedimento sanzionatorio il mancato avviso della facoltà di pagare in misura ridotta, in quanto l’onere di effettuare il tempestivo pagamento in misura ridotta permane anche in caso di mancato avviso e di mancata indicazione delle modalità del pagamento.

Sez. 2, n. 26959/2022, Dongiacomo, Rv. 665841-01, ha ribadito che in tema di sanzioni amministrative conseguenti al superamento dei limiti di velocità accertato mediante autovelox, la mancata indicazione degli estremi del decreto prefettizio nella contestazione differita integra, un vizio di motivazione del provvedimento sanzionatorio che pregiudica il diritto di difesa e non è rimediabile nella fase eventuale di opposizione, potendo essere desumibili le ragioni che hanno reso impossibile la contestazione immediata solo dal detto decreto, cui è rimesso, ma solo se si tratta di strade diverse dalle autostrade o dalle strade extraurbane principali, individuare, a norma dell’art. 4, commi 1 (in fine) e 2 della l. n. 168 del 2002, i tratti ove questa è ammissibile; principio non applicabile se si tratta di “autostrade o strade extraurbane principali, di cui al comma 1, ovvero singoli tratti di esse”, dal momento che i “motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata” sono direttamente evincibili dalle disposizioni di legge che li reputano in via generale sussistenti in base alle caratteristiche della circolazione.

Sempre in tema di circolazione stradale, Sez. 2, n. 28719/2022, Falaschi, non massimata, ha precisato che nel caso di rilevamento di velocità di veicoli a mezzo apparecchiature noleggiate, il contratto intercorso tra il Comune e la società di noleggio non si inserisce nella sequenza procedimentale che sfocia nella rilevazione dell’infrazione rilevata e contestata all’utente della strada e non condiziona la sussistenza della violazione accertata tramite tali apparecchi di rilevazione.

In caso di multa per eccesso di velocità mediante autovelox, il verbale di contravvenzione non deve riportare gli estremi del certificato relativo alla taratura periodica dell’apparecchio. Tale indicazione non è funzionale alla prova dell’effettuazione della taratura stessa, che, invece, va fornita dall’amministrazione mediante la produzione delle relative certificazioni. In tema di sanzioni amministrative irrogate a seguito di accertamento della violazione dei limiti di velocità mediante autovelox, le apparecchiature di misurazione della velocità devono essere periodicamente tarate e verificate, indipendentemente dal fatto che funzionino automaticamente o alla presenza di operatori ovvero, ancora, tramite sistemi di autodiagnosi; in presenza di contestazione da parte del soggetto sanzionato, peraltro, spetta all’Amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione e della periodica taratura dello strumento (Sez. 6-2, n. 21327/2022, Dongiacomo, non massimata). Tuttavia, la prova dell’esecuzione delle verifiche non è ricavabile dal verbale di contravvenzione, il quale non riveste fede privilegiata - e quindi non fa fede fino a querela di falso - in ordine all’attestazione, frutto di mera percezione sensoriale, degli agenti circa il corretto funzionamento dell’apparecchiatura. L’effettuazione dei controlli dev’essere, dunque, dimostrata con apposite certificazioni e non può essere provata con altri mezzi. Non è, invece, necessario che il verbale di contestazione contenga una specifica menzione, indicandone gli estremi, del certificato di taratura periodica (nella specie, il giudice di merito, correttamente, aveva accertato che l’apparecchiatura era stata sottoposta alle verifiche periodiche di taratura e funzionalità pochi mesi prima dell’accertamento della violazione contestata all’opponente).

Inoltre, quando l’opponente ad ordinanza-ingiunzione di pagamento di somme a titolo di sanzione amministrativa, che ne deduca l’illegittimità per insussistenza della delega di firma in capo al funzionario che, in sostituzione del prefetto o del vice-prefetto vicario, abbia emesso il provvedimento, è onerato della prova della carenza di delega, sicché, ove non riesca a procurarsi la relativa attestazione da parte dell’Amministrazione, è tenuto a sollecitare il giudice ad acquisire informazioni ex art. 213 c.p.c., o ad avvalersi dei poteri istruttori di cui all’art. 7, comma 7, del d.lgs. n. 150 del 2011 (Sez. 2, n. 24012/2022, Carrato, Rv. 665550-01). Se invece l’opponente non si sia attivato in tal senso, il giudice non è tenuto ad accertare d’ufficio la legittimità del provvedimento sanzionatorio: il potere di assume informazioni ai sensi dell’art. 213 c.p.c., non può essere esercitato per acquisire atti o documenti che la parte è in condizioni di produrre, inclusi quelli relativi al procedimento sanzionatorio. Qualora l’ordinanza sia stata redatta con sistemi meccanizzati, la sottoscrizione è sostituita dall’indicazione di cui alla l. n. 39 del 1993, art. 3, comma 2, secondo cui “nell’ambito delle pubbliche amministrazioni l’immissione, la riproduzione su qualunque supporto e la trasmissione di dati, informazioni e documenti mediante sistemi informatici o telematici, nonché l’emanazione di atti amministrativi attraverso i medesimi sistemi, devono essere accompagnati dall’indicazione della fonte e del responsabile dell’immissione, riproduzione, trasmissione o emanazione. Inoltre, qualora per la validità degli atti adottati sia prevista l’apposizione di firma autografa, quest’ultima è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile”. Pertanto, ove l’ordinanza risulti essere redatta con sistema meccanizzato, è sufficiente per la validità del provvedimento l’indicazione a stampa del nominativo del funzionario quale formalità sostitutiva della sottoscrizione.

Sez. 2, n. 03696/2022, Oliva, non massimata, ha statuito che l’identificazione del trasgressore non è un requisito di legittimità dell’ordinanza - ingiunzione emessa nei confronti dell’obbligato solidale, ancorché necessaria ai fini dell’eventuale esperimento dell’azione di regresso della l. n. 689 del 1981, ex art. 6, ovvero ai fini della prova dell’illecito o dei presupposti della solidarietà o ancora della valutazione della motivazione del provvedimento sanzionatorio nel giudizio di opposizione. In funzione dell’autonomia della posizione dell’obbligato solidale, rispetto a quella del trasgressore, l’amministrazione conserva quindi la possibilità di agire nei confronti di uno soltanto di detti soggetti, e non inevitabilmente nei confronti di entrambi.

5. Cumulo materiale e concorso di persone.

L’istituto del cumulo giuridico tra sanzioni è applicabile alla sola ipotesi di concorso formale (omogeneo o eterogeneo) tra le violazioni contestate - nei soli casi, quindi, di violazioni plurime commesse con un’unica azione od omissione - non essendo per converso invocabile in caso di concorso materiale (violazioni commesse con più azioni od omissioni), ed è inoltre esclusa la possibilità di invocare l’art. 81 c.p., in tema di continuazione tra reati, sia perché l’art. 8 della l . n. 689 del 1981 prevede espressamente tale possibilità soltanto per le violazioni in materia di previdenza e assistenza, sia perché la differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo non consente che, attraverso un procedimento di integrazione analogica, le norme di favore previste in materia penale vengano “tout court” estese alla materia degli illeciti amministrativi (Sez. 6, n. 07704/2022, Fortunato, non massimata).

Si è precisato che in tema di sanzioni amministrative, allorché siano poste in essere più condotte realizzatrici della medesima violazione, l’unificazione ai fini della applicazione della sanzione, con applicazione del cumulo giuridico, presuppone l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni, non operando nel caso di condotte distinte, sebbene collegate sul piano della identità di una stessa intenzione plurioffensiva, né è applicabile in via analogica l’istituto della continuazione di cui all’art. 81, comma 2, c.p., applicabile solo per le violazioni in materia di previdenza ed assistenza tenuto conto, altresì, delle differenze tra reato ed illecito amministrativo (Sez. 2, n. 20129/2022, Fortunato, Rv. 665011-01).

In relazione all’illecito amministrativo di gestione di allevamenti di equini in mancanza della prescritta autorizzazione, della violazione risponde l’imprenditore che, nella disciplina specifica, si identifica con il titolare dell’azienda e, quindi, nel caso in cui l’attività sia esercitata in forma societaria, con il legale rappresentante dell’ente, ferma restando - ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981 - la responsabilità solidale della società. In ogni caso, di detta violazione non può mai essere ritenuto responsabile il dipendente o il collaboratore dell’impresa, trattandosi di illecito che, inerendo alle condizioni di svolgimento di una attività imprenditoriale, deve essere qualificato come “proprio” e che può essere commesso soltanto dal titolare dell’azienda (Sez. 2, n. 20776/2022, Giannoccari, non massimata, che ha precisato come in materia di sanzioni amministrative, la responsabilità dell’illecito amministrativo compiuto da soggetto che abbia la qualità di rappresentante legale della persona giuridica grava sull’autore medesimo e non sull’ente rappresentato, che è solo solidalmente obbligato al pagamento del corrispondenti alle sanzioni irrogate).

In caso di pluralità di illeciti, Sez. 2, n. 11481/2020, Varrone, Rv. 658267-01, ha affermato che nel giudizio di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie, il giudice, nel caso di contestazione della misure delle stesse, è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e può reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse; egli, inoltre, non è chiamato a controllare la motivazione dell’ordinanza-ingiunzione, ma a determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981.

6. Intrasmissibilità dell’obbligazione e responsabilità solidale.

La morte dell’autore della violazione comporta l’estinzione dell’obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall’Amministrazione, la quale, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi; ne discende - come da ultimo precisato da Sez. 2, n. 29577/2021, Grasso Giuseppe, Rv. 662564-01 - la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione alla conseguente ordinanza-ingiunzione, declaratoria che può intervenire anche in sede di legittimità, ove il decesso sia documentato ex art. 372 c.p.c., senza alcuna regolazione delle spese, non trovando applicazione il principio della soccombenza virtuale, per effetto del mancato vaglio dei motivi di doglianza. È poi consolidato l’indirizzo secondo il quale in tema di sanzioni amministrative, la morte dell’autore della violazione determina non solo l’intrasmissibilità ai suoi eredi dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per la sanzione della l. n. 689 del 1981, ex art. 7, ma altresì l’estinzione dell’obbligazione a carico dell’obbligato solidale ex art. 6 della stessa legge e l’impossibilità per quest’ultimo, ove abbia pagato la sanzione, di esercitare nei confronti degli eredi del trasgressore il regresso). Detto principio di intrasmissibilità dell’obbligazione sanzionatoria si rende applicabile a tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale, e trova la sua ragione giustificativa nel carattere afflittivo di tali sanzioni che le riconduce all’ambito del diritto punitivo, accentuandone quindi la stretta inerenza alla persona del trasgressore (Sez. U, n. 22082/2017, Manna, Rv. 645324-01).

Tale conclusione muove dalla constatazione che dal diverso regime successorio delle sanzioni civili rispetto a quelle amministrative, mentre le sanzioni civili sono sanzioni aggiuntive, destinate a risarcire il danno ed a rafforzare l’obbligazione con funzione di deterrente per scoraggiare l’inadempimento, le sanzioni amministrative (di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689) e quelle tributarie (di cui alla l. n. 472 del 1997) hanno un carattere afflittivo ed una destinazione di carattere generale e non settoriale, sicché rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, nei limiti della ragionevolezza, quando la violazione debba essere colpita da un tipo di sanzione piuttosto che da un altro. A tale scelta si ricollega il regime applicabile, anche con riferimento alla trasmissibilità agli eredi, prevista solo per le sanzioni civili, quale principio generale in materia di obbligazioni, e non per le altre, per le quali opera il diverso principio dell’intrasmissibilità, quale corollario del carattere personale della responsabilità (Sez. 5, n. 25315/2022, De Rosa, Rv. 665572-01). Muovendo dalla constatazione che la morte dell’autore della violazione comporta, quale espressione del principio di personalità della sanzione amministrativa, l’inefficacia dell’ordinanza ingiuntiva e l’estinzione dell’obbligazione di pagare la sanzione pecuniaria irrogata; la quale, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi, con la conseguente inefficacia dell’ordinanza di ingiunzione e cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione, Sez. 2, n. 16747/2022, Manna, Rv. 664888-01, ritiene che dall’estinzione della sanzione per la morte dell’opponente consegua come logica conseguenza, che l’erede, sebbene parte processuale nei cui confronti legittimamente è stata emessa la pronuncia in rito, non può rispondere delle spese del giudizio, poiché egli non è succeduto nel lato passivo del rapporto giuridico sanzionatorio: è inapplicabile l’art. 91 c.p.c., per difetto sia di soccombenza sia di responsabilità preprocessuale, il carico delle spese resta regolato dall’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, in base al quale ciascuna parte anticipa e sostiene le proprie.

Nell’ipotesi di responsabilità del proprietario di un bene per il pagamento della somma dovuta a titolo di sanzione amministrativa, prevista dall’art. 6, comma 1, della l. n. 689 del 1981, il suddetto principio di intrasmissibilità dell’obbligazione conosce un’eccezione, essendo prevista una sua presunzione di responsabilità qualora non fornisca la prova precisa che il medesimo bene sia stato utilizzato per il compimento dell’illecito contro la sua volontà (v. già Sez. 2, n. 16798/2006, Bognanni, Rv. 591529-01). Pertanto - ha precisato Sez. 2, n. 20522/2020, De Marzo, Rv. 659197-01 - la responsabilità solidale del proprietario non viene meno in conseguenza del decesso dell’autore dell’illecito.

In caso di solidarietà ai sensi dell’art. 6 della l. n. 689 del 1981, ad avviso di Sez. 2, n. 00303/2019, Tedesco, Rv. 652052-01, il limite apportato dal comma 2 dell’art. 1306 c.c. al principio enunciato nel comma 1 è applicabile pure alle obbligazioni basate su rapporti giuridici pubblicistici, con l’effetto che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei debitori solidali è opponibile al creditore da parte degli altri, ove ad essi favorevole e non fondata su ragioni personali al condebitore nei cui confronti è stata emessa, purché essi abbiano partecipato al relativo giudizio. In precedenza, se l’oggetto dell’unico provvedimento sanzionatorio era costituito da più condotte poste in essere da più soggetti, Sez. 2, n. 21347/2018, Gorjan, Rv. 650036-01, aveva escluso che il giudicato relativo all’accoglimento dell’opposizione proposta da taluni di essi potesse spiegare i suoi effetti verso dei concorrenti rimasti estranei al giudizio, stante la diversità delle parti e delle condotte addebitate.

In tema di sanzioni amministrative, allorché una società commerciale di notevoli dimensioni sia articolata in molteplici punti vendita, diffusi sul territorio, dell’illecito amministrativo consumato in uno di essi (consistente, nel caso di specie, nel non consentire la tracciabilità di uno più prodotti alimentari) non può essere chiamato a rispondere il legale rappresentante della società, ma il responsabile preposto alla singola unità ove è stato commesso il fatto, il quale ne risponderà in solido con la società medesima, potendo la responsabilità del legale rappresentante della società essere affermata non solo quando sia accertata una specifica inadeguatezza sia dei responsabili della singola unità ove è stato commesso il fatto sia della struttura appositamente costituita per il controllo, ma anche quando questa inadeguatezza, specificamente constatata, sia riconducibile a specifiche azioni od omissioni del legale rappresentante della società, in violazione di altrettanto specifici obblighi di garanzia, sempre che tali azioni o omissioni abbiano fornito un contributo – pur sempre specifico - alla causazione dell’illecito (Sez. 2, n. 35685/2022, Rolfi, Rv. 666332-01).

7. Prescrizione.

La prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa decorre, in ossequio all’art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.

In particolare, in tema di sanzioni amministrative, la notifica al trasgressore del processo verbale di accertamento della infrazione è idonea a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., atteso che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria e costituisce esercizio della pretesa sanzionatoria (Sez. 2, n. 14861/2022, Abete, non massimata). In altri termini, ogni atto del procedimento amministrativo previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per la irrogazione della sanzione è idoneo ad interrompere il corso della prescrizione.

Al riguardo, Sez. 5, n. 05577/2019, D’Orazio, Rv. 652721-02, in vicenda relativa a cartella di pagamento per sanzioni fondata su sentenza passata in giudicato, ha chiarito che il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie è assoggettato al termine di prescrizione decennale previsto dal succitato art. 2935 c.c. per l’actio iudicati solo ove si fondi su un accertamento divenuto definitivo contenuto in una sentenza coperta da giudicato; se, invece, la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile, opera il termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 727 del 1997.

Sez. 6-2, n. 15694/2020, Tedesco, Rv. 658783-01, ha chiarito che la revoca della patente di guida, quale sanzione accessoria che consegue alla violazione di determinate norme del codice della strada, costituisce adempimento per il quale la legge non prevede alcun termine, sicché la sanzione può essere irrogata nel termine generale di prescrizione quinquennale.

Nella particolare ipotesi di fatti già sanzionati penalmente e successivamente depenalizzati, Sez. 6-2, n. 19897/2018, Falaschi, Rv. 650067-01, ha escluso che il dies a quo rilevante a fini prescrizionali possa identificarsi nella data dell’infrazione, dovendosi avere riguardo a quando pervengono alla competente Autorità amministrativa gli atti inviati dall’Autorità giudiziaria, poiché esclusivamente da tale momento l’Amministrazione è in grado di esercitare il diritto di riscuotere la somma stabilita dalla legge a titolo di sanzione amministrativa.

Sez. 2, n. 06310/2020, Fortunato, Rv. 657130-01, annette carattere permanente alla violazione del divieto di impianto di nuovi vigneti o di reimpianto di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 260 del 2000 (applicabile ratione temporis) sicché il relativo termine di prescrizione, sia riguardo alla violazione che alla sanzione, decorre dal momento della cessazione della permanenza, che coincide con la rimozione materiale dell’impianto o con il momento della contestazione dell’illecito che, valendo anche come atto interruttivo, conferisce all’eventuale protrazione della violazione il carattere di autonomo illecito amministrativo, ulteriormente sanzionabile.

8. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: profili procedimentali e processuali.

Con riferimento ai profili attinenti alla giurisdizione in caso di opposizione, Sez. U, n. 25476/2021, Napolitano L., Rv. 662251-02, ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB, ai sensi del d.lgs. n. 58 del 1998, per le violazioni commesse in materia finanziaria, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, i quali costituiscono la concreta e diretta ragione giustificativa della potestà sanzionatoria esercitata nel caso concreto ed incidono, pertanto, su posizioni di diritto soggettivo del destinatario.

Inoltre, con riguardo agli aspetti procedimentali, secondo Sez. 2, n. 31239/2021, Dongiacomo, Rv. 662708-01, il procedimento preordinato alla irrogazione di sanzioni amministrative sfugge all’ambito di applicazione della l. n. 241 del 1990, in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla l. n. 689 del 1981; ne consegue che non assume alcuna rilevanza il termine di trecentosessanta giorni per la conclusione del procedimento di cui all’art. 4 del regolamento CONSOB n. 12697 del 2 agosto 2000, attesa l’inidoneità di un regolamento interno, emesso nell’erroneo convincimento di dovere regolare i tempi del procedimento ai sensi della l. n. 241 del 1990, a modificare le disposizioni della citata l. n. 689 del 1981.

In tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, alla cui stregua la ricostruzione e la valutazione delle circostanze di fatto inerenti ai tempi occorrenti per la contestazione e alla congruità del tempo utilizzato in relazione alla difficoltà del caso sono rimesse al giudice del merito, il quale deve limitarsi a rilevare se vi sia stata un’ingiustificata e protratta inerzia durante o dopo la raccolta dei dati di indagine, tenendo altresì conto della sussistenza di esigenze di economia che inducano a raccogliere ulteriori elementi a dimostrazione di altre violazioni rispetto a quelle accertate, mentre la valutazione della superfluità degli atti di indagine deve essere svolta con giudizio ex ante, restando irrilevante la loro inutilità “ex post”.

Da tale premessa, Sez. 2, n. 17673/2002, Cosentino, Rv. 664896-01, ha precisato che in tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata dell’illecito, il momento dell’accertamento - in relazione al quale va collocato il dies a quo del termine previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981, per la notifica degli estremi della violazione - non coincide con quello di acquisizione del fatto nella sua materialità da parte dell’autorità che ha ricevuto il rapporto, ma va individuato nella data in cui detta autorità ha completato l’attività intesa a verificare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi dell’infrazione; compete al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per tale attività, in rapporto alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato).

Sotto il profilo probatorio, Sez. 2, n. 04006/2022, Cosentino, Rv. 663823-01, ha chiarito che nel giudizio di opposizione a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia, l’onere della prova dell’illecito, gravante sull’organo di vigilanza, può essere soddisfatto con la produzione dei verbali ispettivi che, con riferimento agli aspetti non coperti da efficacia probatoria privilegiata, costituiscono comunque elemento di prova, che il giudice deve valutare in concorso con gli altri elementi e che può disattendere solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio.

Con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia, si è precisato che il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suità” della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981 l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Ne consegue che sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’Amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della “suità” della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento: non è quindi necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa (Sez. 2, n. 15585/2022, Criscuolo, non massimata).

Pertanto, nel caso di illecito omissivo di pura condotta, per mancata o insufficiente vigilanza, per affermare la responsabilità del consigliere di amministrazione in mancanza di specifiche deleghe ad alcuni consiglieri, essendo obbligo di tutti vigilare sul comportamento dell’Istituto, è sufficiente la dimostrazione del comportamento omissivo, mentre resta a carico del sanzionato la prova di aver agito in assenza di colpevolezza. Al riguardo, Sez. 2, n. 05344/2022, Varrone, non massimata, ha ricordato che gli amministratori di società per azioni devono agire in modo informato, pur quando non siano titolari di deleghe. Questo comporta il loro dovere di attivarsi per prevenire o eliminare o comunque attenuare le situazioni di criticità aziendale e di informarsi attivamente sulle operazioni in corso e sullo svolgimento dell’attività societaria, a maggior ragione se la società opera sul mercato del credito. Tale obbligo, infatti, diventa particolarmente incisivo, secondo la Suprema Corte, per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, data la loro responsabilità non solo nei confronti dei clienti e dei soci della società, ma anche quella di natura pubblicistica nei confronti dell’autorità di vigilanza. Proprio le caratteristiche particolari del settore bancario portano ad affermare il principio per cui sussistono doveri di particolare importanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e quindi anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e ad ostacolare l’eventuale evento dannoso, e quindi rispondono automaticamente in caso di mancata utile attivazione, salvo prova contraria che rimane a loro carico. Ne consegue che in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, l’autorità di vigilanza ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori anche se non esecutivi ad attivarsi, e spetta sempre a quest’ultimi provare di aver tenuto la condotta attiva dovuta o comunque tesa a scongiurare il danno.

La Corte di legittimità, d’altro canto, ha avuto modo di affermare che, in tema di sanzioni amministrative previste dall’art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo di istituti bancari, il rispetto dei principi del contraddittorio e della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie, previsti dall’art. 24 della l. n. 262 del 2005 non comporta la necessità che gli incolpati siano ascoltati durante la discussione orale innanzi all’organo decidente (nella specie, Direttorio della Banca d’Italia), essendo sufficiente che a quest’ultimo siano rimesse le difese scritte degli incolpati e i verbali delle dichiarazioni rilasciate, quando gli stessi chiedano di essere sentiti personalmente (Sez. 2, n. 15366/2022, Trapuzzano, non massimata).

Sez. 2, n. 04521/2022, Cosentino, Rv. 663829-04, ha evidenziato che in materia di sanzioni amministrative previste dal d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (T.U.F.), il principio che la doglianza relativa alla violazione del diritto al contraddittorio nell’ambito del procedimento amministrativo sanzionatorio svoltosi dinanzi alla CONSOB ed alla Banca d’Italia presuppone la deduzione di una lesione concreta ed effettiva del diritto di difesa specificamente conculcato o compresso non opera quando la lesione del diritto al contraddittorio derivi dalla mancata identità tra fatto contestato e fatto sanzionato; la violazione della regola legale della previa contestazione dell’illecito per il quale sia stata emessa una sanzione amministrativa è, infatti, di per sé stessa lesiva del diritto di difesa e determina ex se l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, per violazione di legge (art. 187 septies, comma 1 e art. 195, comma 1, del T.U.F.).

Nel giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative previste dalla T.U.F. deve riconoscersi al giudice - ove sia chiamato a pronunciarsi sulla tempestività della contestazione dell’illecito e, quindi, sulla individuazione del momento in cui il medesimo è stato o poteva essere accertato - la possibilità di sindacare la necessità o l’opportunità della protrazione dell’attività istruttoria, da parte dell’Amministrazione, con il compimento di atti di indagine collegati a quelli già effettuati, ove questi ultimi risultino già esaustivi ai fini dell’accertamento dell’illecito; e, quindi, di apprezzare la irragionevolezza della prosecuzione di una istruttoria inutile o divagante. Resta fermo, tuttavia, che il suddetto sindacato giudiziale sulle scelte istruttorie dell’Amministrazione deve comunque: --a) essere svolto “ex ante”, ossia prendendo in considerazione l’utilità potenziale delle ulteriori iniziative istruttorie e non già i concreti esiti che tali iniziative abbiano effettivamente prodotto; --b) tener conto dell’interesse dell’Amministrazione a pervenire all’accertamento complessivo di tutti gli aspetti di vicende che possono essere anche molto complesse e svilupparsi in periodi temporali non brevi (e delle responsabilità di tutti coloro che in tali vicende possano essere a diverso titolo coinvolti) mediante un’attività istruttoria unitaria, tesa a cogliere la portata complessiva di un abuso di mercato, pur quando esso si articoli in condotte diverse, riferibili a soggetti diversi, e non contigue nel tempo e nello spazio; interesse che va salvaguardato dal rischio che l’efficacia delle indagini dell’Autorità di vigilanza venga posta a repentaglio da una “discovery” prematura, che consegua alla parcellizzazione dei risultati dell’indagine in una pluralità di contestazioni relative alle singole posizioni, atomisticamente considerate, dei soggetti coinvolti (Sez. 2, n. 16747/2022, Manna, Rv. 664888-01).

Quanto al riparto di giurisdizione, Sez. U, n. 33248/2022, Napolitano, Rv. 666189-01, ha statuito che e controversie in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, ex art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, spettano alla giurisdizione del giudice ordinario, non solo quando riguardino il provvedimento finale sanzionatorio, ma anche laddove si faccia questione della legittimità degli atti presupposti, ivi compresi quelli di natura regolamentare relativi al procedimento, senza che al riguardo possa ritenersi fondata una questione di costituzionalità, che avrebbe al più motivo di porsi in senso inverso, ove vi fosse una norma derogatoria alla giurisdizione ordinaria, la cui cognizione verte sul rapporto e non sull’atto in sé ed a cui, pertanto, spetta di regola la giurisdizione sul potere sanzionatorio della pubblica amministrazione.

9. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: soggetti responsabili e contenuto della condotta loro imposta.

Le peculiarità del settore bancario hanno indotto ad affermare il principio per cui sussistono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi. Ne deriva che a prescindere dalla qualità di consigliere esecutivo o meno, tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, devono svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente (Sez. 2, n. 15585/2022, Criscuolo, non massimata).

Si è così precisato che in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functionem, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza - in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori - e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia ed alla Consob (Sez. 2, n. 24170/2022, Cosentino, Rv. 665556-02). Da ciò consegue che non è sufficiente ad esonerare i sindaci della società da responsabilità, in presenza di una illecita condotta gestoria posta in essere dagli amministratori, la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro (...), qualora i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori.

Pertanto, la responsabilità individuale dei singoli componenti degli organi collegiali degli istituti di credito, lungi dal porsi in contrasto con la ratio, i principi regolatori (tra cui il carattere personale della responsabilità) e le norme vigenti in materia di sanzioni amministrative, discende dall’applicazione della disciplina del concorso di persone nell’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 5 della l. n. 689 del 1981, secondo cui quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla sanzione di legge, salvo che sia diversamente stabilito. La pena pecuniaria è applicabile a tutti coloro che abbiano offerto un contributo alla realizzazione dell’illecito, concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei quali l’evento punito costituisce il risultato (Sez. 2, n. 14145/2022, Criscuolo, non massimata).

10. Sanzioni in ambito bancario e finanziario: il giudizio di opposizione.

La citata Sez. 2, n. 04521/2022, Cosentino, Rv. 663829-03, ha affermato che in materia di sanzioni amministrative previste dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.), la configurazione del giudizio di opposizione come giudizio sul rapporto e non sull’atto non autorizza la totale obliterazione del controllo di legittimità del provvedimento sanzionatorio sotto il profilo del rispetto delle garanzie endo-procedimentali fissate dagli artt. 187 septies e 195 T.U.F.; in particolare, la violazione del nucleo irriducibile di garanzie del contraddittorio endo-procedimentale rappresentato dalla contestazione dell’addebito e dalla valutazione delle controdeduzioni dell’interessato impone di per se stessa l’annullamento del provvedimento sanzionatorio illegittimamente emesso.

Infine, Sez. 6-2, n. 31390/2022, Bertuzzi, Rv. 666016-01, ha evidenziato che la competenza a decidere sulle opposizioni proposte avverso le sanzioni applicate dalla CONSOB di cui al d.lgs. n. 231 del 2007 spetta, in forza dell’interpretazione teleologica e letterale dell’art. 195, comma 4, della l. n. 58 del 1998 alla Corte d’appello nel cui distretto ha sede la società nel momento in cui viene presentato il ricorso, senza che al riguardo rilevi il momento consumativo dell’illecito. La disposizione citata, infatti, prevede quale criterio principale e prioritario quello della sede della società al momento della presentazione del ricorso e quello del luogo della consumazione della violazione, utilizzabile solo in via subordinata, così esprimendosi un “favor” nei confronti della società sul presupposto che la prossimità del giudice alla sua sede renda quest’ultima in grado di difendersi in modo più agevole ed efficace.

11. Abuso di informazioni privilegiate.

In tema di sanzioni Consob aventi carattere penale (nella specie, per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187 bis del TUF), l’applicazione retroattiva del trattamento sanzionatorio più favorevole introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015, conseguente alla sentenza della Corte cost. n. 63 del 2019, che ha dichiarato incostituzionale la deroga alla retroattività in mitius prevista dall’art. 6, comma 2, del citato d.lgs., è rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità e giustifica la rimessione al giudice del merito per rimodulare la sanzione, anche qualora quella in concreto irrogata si collochi, comunque, all’interno della cornice edittale stabilita dalla nuova normativa, stante il diritto dell’autore dell’illecito a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore (Sez. 2, n. 12031/2022, Casadonte, Rv. 665841-01).

12. Ulteriori pronunce riguardanti le sanzioni in ambito bancario e finanziario.

In tema illecito trasferimento di denaro contante, nell’individuazione, ex art. 69 del d.lgs. n. 231 del 2007, del trattamento sanzionatorio più favorevole - tra la disciplina di cui al d. l. n. 143 del 1991 e al d.lgs. n. 231 del 2007, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 90 del 2017 e quella derivante da tali modifiche - non è sufficiente prendere in considerazione i minimi e i massimi edittali contemplati dalle diverse normative occorrendo, al contrario, un apprezzamento di fatto delle circostanze di commissione dell’illecito, ex art. 67 del d.lgs. n. 231 del 2007, dovendo la comparazione fondarsi sull’individuazione in concreto del regime complessivamente più favorevole per la persona, avuto riguardo a tutte le caratteristiche del caso specifico (Sez. 2, n. 24209/2022, Grasso, non massimata).

Inoltre, per Sez. 2, n. 30779/2021, Oliva, Rv. 662572-01, in tema di giudizio di opposizione ad ordinanze ingiunzione adottate per aver emesso assegni privi di provvista, colui contro il quale la prova dell’illecito valutario è addotta può disconoscere la propria sottoscrizione e porre in discussione l’autenticità del titolo di credito, ma il conseguente accertamento istruttorio non va compiuto nelle forme del giudizio di verificazione ex art. 216 c.p.c., ben potendo l’amministrazione dimostrare l’elemento materiale dell’illecito con altri mezzi di prova ed eventualmente pure con presunzioni.

Infine, Sez. 2, n. 17821/2021, Carrato, Rv. 661596-01, ha confermato l’indirizzo di Sez. 2, n. 18345/2006, Oddo, Rv. 592678-01, in base al quale, in materia di sanzioni amministrative connesse all’emissione di assegni senza provvista (fattispecie sanzionata come illecito amministrativo a seguito delle depenalizzazione, operata dall’art. 29 del d.lgs. n. 507 del 1999, che ha novellato l’art. 2 della l. n. 386 del 1990, del corrispondente delitto), viola il dovere di diligenza media, con conseguente impossibilità di invocare il fatto scusabile, l’emittente il quale, non solo non si attenga al dovere di controllare l’andamento del proprio conto bancario, al fine di assicurare che in ogni momento vi sia disponibilità del denaro necessario al pagamento degli assegni emessi nei termini per la presentazione di essi all’incasso ma, oltre a fare affidamento sulla tolleranza da parte della banca di una situazione di scoperto, assuma consapevolmente con la post-datazione degli assegni - indicativa, di per sé, di scarsa liquidità - il rischio della sopravvenienza di un difetto di provvista al momento della loro presentazione.

13. Le sanzioni amministrative previste dal codice della strada: modalità di accertamento.

Numerose sono state le pronunce nel corso dell’anno in tema di sanzioni amministrative previste per la violazione di disposizioni del codice della strada.

Sez. 6-2, n. 26959/2022, Dongiacomo, Rv. 665841-01, ha precisato che la legittimità delle sanzioni amministrative irrogate per eccesso di velocità, accertato mediante autovelox è subordinata alla circostanza che la presenza della postazione fissa di rilevazione della velocità sia stata preventivamente segnalata. In materia di accertamento di violazione delle norme sui limiti di velocità, compiuta a mezzo di autovelox, infatti, l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 121 del 2002, conv. in l. n. 168 del 2002, secondo cui dell’installazione dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo deve essere data preventiva “informazione agli automobilisti”, non prevede un obbligo rilevante esclusivamente nell’ambito dei servizi organizzativi interni della pubblica amministrazione, ma è finalizzato ad informare gli automobilisti della presenza dei dispositivi di controllo medesimi, onde orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di infrazioni, con la conseguente nullità della sanzioni eventualmente irrogata in violazione di tale previsione. Pertanto, nel caso di dispositivi completamente automatici, tali elementi si sostanziano unicamente nell’apposizione del cartello segnalatore della velocità, onde si profila congruo imporre una determinata ed ampia distanza tra il segnale e la postazione di rilevamento (pari, per l’appunto, ad almeno un chilometro). Viceversa, nell’ipotesi di accertamento eseguito con modalità manuale mediante apparecchi elettronici nella diretta disponibilità della polizia stradale e dagli stessi agenti gestiti con la presenza “in loco”, quest’ultima predisposizione rappresenta un elemento ulteriore, rispetto al punto in cui risulta apposto il cartello indicatore del limite di velocità, per effetto del quale l’utente è messo nelle condizioni di avvistare, con maggiore anticipo, la stessa posizione di rilevamento, così rimanendo giustificata l’esclusione dell’osservanza del predetto limite di un chilometro previsto dall’art. 25, comma 2, della l. n. 120 del 2002.

L’art. 201, comma 1 bis, c.d.s., ammette la possibilità di procedere alla contestazione non immediata dell’infrazione mediante rilevatori elettronici di velocità esclusivamente su determinate tipologie di strade, tra cui quelle urbane di scorrimento, rispetto alle quali costituisce elemento strutturale indefettibile, ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.d.s., la banchina che, quale spazio della sede stradale, esterno rispetto alla carreggiata e destinato al passaggio dei pedoni o alla sosta di emergenza, deve restare libero da ingombri e avere una larghezza tale da consentire l’assolvimento effettivo delle predette funzioni. (Sez. 2, n. 12864/2022, Carrato, Rv. 664613-01, nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva escluso potesse qualificarsi “strada urbana di scorrimento” quella in cui si trovava l’autovelox, in quanto lo spazio esterno alla carreggiata non era riconducibile alle funzioni di banchina in ragione delle sue esigue dimensioni).

Inoltre, è stato ribadito il principio secondo cui qualora il ricorrente contesti l’inesistenza della segnaletica, orizzontale o verticale, prescrittiva di un determinato comportamento o impositiva di un divieto, che la prova contraria spetta alla P.A., posto che l’esistenza del segnale di preavviso o di divieto è elemento costitutivo della fattispecie sanzionata; diversamente, quando l’opponente deduca l’inadeguatezza della segnaletica, la relativa prova incombe su di lui (Sez. 2, n. 28719/2022, Falaschi, non massimata).

La S.C. si è interrogata se sia o meno obbligatoria l’apposizione del segnale di preavviso del rilevamento elettronico della velocità su entrambi i lati in presenza di una strada a doppia corsia, ancorché il rilevamento sia stato organizzato per il controllo dei veicoli circolanti su una sola corsia (nel caso di specie, quella di destra percorsa dal motociclo del ricorrente, come attestato nel verbale di accertamento). La risposta data è stata negativa non imponendo l’art. 142 C.d.S., comma 6 bis, una tale modalità (né prescrivendola i decreti ministeriali attuativi sulle modalità di impiego delle varie tipologie di “autovelox”), così dovendosi ritenere sufficiente che il segnale di preavviso sia posizionato lungo la corsia destinata all’attività di rilevamento elettronico della velocità, purché idoneamente visibile (Sez. 2, n. 24016/2022, Carrato, Rv. 665552-01).

Si segnala Sez. 2, n. 19928/2022, Bertuzzi, Rv. 664897-01, che si è occupata dell’eccesso di velocità dei natanti accertato con apparecchiature elettroniche, escludendo l’applicazione analogica delle disposizioni del codice della strada: l’art. 1, comma 2, del codice della navigazione, che è legislazione di carattere speciale, nel prevedere che, se il caso non è regolato dalle disposizioni del diritto della navigazione e, ove non ve ne siano di applicabili, il diritto civile, da intendersi come il complesso delle norme e dei principi di diritto che costituiscono la normativa generale nella quale si inquadra la disciplina particolare del diritto della navigazione, esclude l’applicabilità in via analogica alla materia della navigazione delle disposizioni che disciplinano la circolazione stradale, in particolare quelle relative alla rilevazione della velocità mediante apparecchi elettronici e conseguente previsione di una percentuale di riduzione, che costituiscono una normativa di carattere speciale in quanto dirette a regolare la singola materia, la cui “ratio” è diretta ad assicurare la sicurezza della circolazione stradale (stesso principio è applicato da Sez. 2, n. 17679/2022, Caponi, Rv. 664897-01).

14. Il verbale di constatazione delle violazioni al codice della strada: natura, requisiti e notificazione.

Per quanto attiene al verbale di contestazione dell’infrazione al codice della strada e alla sua notifica, deve, innanzitutto, essere richiamata Sez. U, n. 02866/2021, Oricchio, Rv. 660403-01, che ha affrontato la questione delle modalità di notifica a persona residente in altro Stato membro dell’Unione europea e, in particolare, quella della idoneità della notifica effettuata a mezzo posta. Discostandosi da una precedente pronuncia del 2018 (Sez. 6-2, n. 22000/2018, Carrato, Rv. 650355-01), le Sezioni unite hanno affermato che, in tale ipotesi, non è applicabile il Regolamento n. 1393 del 2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, dal momento che esso esclude espressamente dal suo ambito di applicazione la materia “fiscale, doganale ed amministrativa” (nella quale rientra il verbale di accertamento in quanto atto amministrativo rientrante nell’esercizio di pubblici poteri). Hanno ritenuto, inoltre, che, nei confronti di un cittadino tedesco, non può procedersi ai sensi dell’art. 11 della Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977 (ratificata con la l. n. 149 del 1983) - che consente la notificazione diretta a mezzo del servizio postale dei documenti in materia amministrativa - poiché la Germania ha apposto specifica riserva volta ad escludere la facoltà di notifica per posta di detti atti. In tali ipotesi, pertanto, si deve dunque ricorrere - per la notificazione e a pena di nullità (suscettibile di sanatoria) - all’assistenza dell’autorità centrale dello Stato di residenza e destinazione a norma dell’art. 2 della citata Convenzione.

Sez. 2, n. 01106/2022, Varrone, non massimata, sul rilievo che nel giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa, il verbale di accertamento dell’infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti ed alle valutazioni del verbalizzante né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone, ovvero ai fatti della cui verità si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto provata la velocità di 160 km/h contestata al ricorrente perché nel verbale risultava accertato che l’auto degli agenti accertatori postasi all’inseguimento del ricorrente aveva raggiunto tale velocità, evidenziando che se era documentato - perché attestato nel verbale con fede privilegiata - che l’auto dei Carabinieri si fosse spinta all’inseguimento alla velocità di 160 km orari, da ciò non poteva desumersi con altrettanta certezza che l’auto del ricorrente andasse alla medesima velocità.

L’efficacia probatoria del verbale se da un lato concerne tutti gli accadimenti e le circostanze di fatto pertinenti alla violazione menzionati nell’atto indipendentemente dalle modalità statica o dinamica della loro percezione, implica, dall’altro lato, che il pubblico ufficiale adempia all’obbligo di descrivere, con la dovuta accuratezza, tutte le circostanze soggettive e oggettive rilevanti ai fini dell’accertamento dell’illecito. Da tale premessa, Sez. 6-2, n. 15828/2022, Dongiacomo, non massimata, ha affermato che la questione relativa all’ammissibilità della contestazione e della conseguente prova nel giudizio di opposizione alla sanzione amministrativa non può essere esaminata con esclusivo riferimento alle circostanze di fatto della violazione attestate nel verbale come percepite direttamente ed immediatamente dal pubblico ufficiale ed alla possibilità o probabilità di un errore nella loro percezione ma può essere, al contrario, liberamente sottoposta al giudice dell’opposizione, che deve deciderla a prescindere dalla proposizione sul punto della querela di falso, con riguardo a tutte le circostanze rilevanti ai fini della sussistenza dell’illecito che, però, non essendo state adeguatamente rappresentate nel verbale, non sono state, in realtà, oggetto di accertamento da parte del pubblico ufficiale e sono, quindi, prive di copertura probatoria privilegiata.

Sez. U, n. 11550/2022, Scarpa, Rv. 664424-01, ha statuito che la nullità della notificazione del verbale di accertamento di infrazione del C.d.S., può dirsi sanata per il raggiungimento del relativo scopo - che è quello della conoscenza legale dell’atto volta all’utile predisposizione delle proprie difese da parte del destinatario della contestazione - soltanto ove sia proposta una tempestiva e rituale opposizione, avendosi così per realizzato nel processo il risultato pratico cui la valida notificazione è ex lege finalizzata, con conseguente venir meno dell’interesse del destinatario a denunciare lo specifico vizio. Viceversa, se, a fronte della nullità della notificazione della violazione, la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avvenga oltre il termine di legge decorrente dalla data della medesima notifica, non operando la sanatoria, l’opposizione al verbale di accertamento può essere proposta per dedurre unicamente l’invalida notificazione del verbale di accertamento, dovendo l’amministrazione dimostrare che non sia intervenuta la decadenza per l’esercizio del potere sanzionatorio.

Sez. 2, n. 21899/2022, Criscuolo, Rv. 665258-01, si è occupata della notifica del verbale, in caso di successiva identificazione dei trasgressori, nel caso di mancato aggiornamento dei pubblici registri o dell’archivio nazionale dei veicoli, precisando che deve ritenersi corretta la notifica effettuata all’indirizzo che emergeva dalla MCTC e che coincide con quello ancora risultante dal PRA, qualora il mancato aggiornamento del PRA e dell’archivio nazionale dei veicoli sia imputabile alla condotta dell’opponente che, allorché comunichi all’anagrafe il cambio di residenza, ometta anche di indicare correttamente il numero di targa del veicolo oggetto dell’accertamento; tale omissione impedisce al Comune, presso cui è denunciato il cambio di residenza di procedere all’aggiornamento delle variazioni anche presso i registri deputati a permettere l’identificazione del soggetto cui effettuare la notifica dei verbali di accertamento. Pertanto, al fine di ravvisare un esonero da responsabilità del privato, con l’addebito alla PA del ritardo nelle annotazioni, è pur sempre necessario che all’atto della comunicazione del cambio di residenza presso gli uffici comunali, vi sia stata anche una corretta indicazione del numero di targa dei veicoli appartenenti al privato, poiché solo tale indicazione consente di ritenere imputabile alla PA il ritardo, dovendo quindi rispondere del difetto di collaborazione tra le varie amministrazioni tenute alla gestione delle banche dati. Diviene quindi fondamentale, e non già irrilevante, verificare se all’atto della richiesta del cambio di residenza, l’opponente avesse anche indicato correttamente il numero di targa del veicolo oggetto dell’infrazione per cui è causa, poiché solo a tale condizione è dato ravvisare quel colpevole difetto di collaborazione che rende imputabile alla PA l’erronea notificazione del verbale di accertamento presso l’indirizzo, almeno anagraficamente, non più attuale.

Per Sez. 2, n. 28724/2022, Trapuzzano, Rv. 665961-02, in tema di violazioni del codice della strada, l’omessa informazione da parte dell’organo accertatore circa la possibilità e il termine del pagamento, da parte del trasgressore, della sanzione pecuniaria in misura ridotta non inficia la legittimità del verbale di contestazione.

Infine, per Sez. 3, n. 32920/2022, Guizzi, Rv. 666115-01 in tema di violazioni del codice della strada, il difetto di legittimazione passiva - derivante dall’inapplicabilità, alle società di noleggio di veicoli senza conducente, dell’art. 196 c.d.s. - deve farsi valere sin dalla notificazione dei verbali di contestazione di infrazione stradale, mediante impugnazione al prefetto o al giudice di pace, ai sensi degli artt. 203 e 204-bis c.d.s., per impedire che essi diventino definitivi, e non già nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., atteso che la notificazione del verbale di accertamento non integra presupposto di esistenza del titolo esecutivo, ma fatto costitutivo del diritto dell’amministrazione ad ottenere il pagamento della sanzione, sicché l’omessa notificazione non attiene al rapporto, ma all’agire dell’amministrazione stessa, impedendo il completamento della fattispecie sostanziale che dà luogo alla pretesa sanzionatoria posta a base della riscossione coattiva.

15. L’opposizione: il rito, la competenza, l’oggetto e gli effetti.

In forza del d.lgs. n. 150 del 2011, sia ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione sia a quelli di opposizione al verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, introdotti dopo il 6 ottobre 2011, si applica il rito del lavoro e, in particolare, l’art. 434 c.p.c.

Per tale ragione, nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, così come disciplinato dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, la produzione di documenti da parte dell’Amministrazione convenuta è soggetta ad un doppio regime preclusivo: la copia del rapporto, con gli atti relativi all’accertamento nonché alla contestazione o alla notificazione della violazione, può essere depositata senza limitazioni temporali (non avendo natura perentoria il termine contemplato dal comma 8 del medesimo articolo), mentre per il deposito degli altri documenti opera il comma 3 dell’art. 416 c.p.c., con la conseguenza che la produzione è preclusa oltre il decimo giorno precedente l’udienza di discussione (Sez. 2, n. 32226/2022, Dongiacomo, non massimata).

Sez. 2, n. 07364/2022, Cavallari, Rv. 664208-01, ha precisato che il giudizio di opposizione a verbale di accertamento di violazione di norme del codice della strada (ma il principio deve ritenersi esteso a tutte le sanzioni amministrative, salvo non vi sia una diversa disciplina di legge), instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, è soggetto al rito del lavoro, sicché l’appello avverso la sentenza di primo grado, da proporsi con ricorso, è inammissibile ove l’atto sia stato depositato in cancelleria oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica della sentenza o, in caso di mancata notifica, oltre il termine c.d. lungo di cui all’art. 327 c.p.c., senza che incida, a tal fine, che l’appello sia stato irritualmente proposto con citazione, assumendo comunque rilievo solo la data di deposito di quest’ultima. Inoltre, deve rilevarsi che il termine cd. lungo di impugnazione della sentenza, previsto dall’art. 327 c.p.c., decorre dalla pubblicazione della sentenza stessa, vale a dire, nel rito del lavoro, non dalla data di lettura del dispositivo in udienza, ma da quella del deposito in cancelleria del testo completo della sentenza, a seguito del quale soltanto può proporsi l’impugnazione, salvo il caso particolare dell’appello con riserva di motivi, di cui all’art. 433 c.p.c., comma 2.

In tema di criteri di competenza per materia stabiliti dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, la cognizione dell’opposizione all’intimazione di pagamento relativa alla riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie riconducibili a violazioni del codice della strada, configurata come opposizione all’esecuzione, che spetta alla competenza del giudice di pace, deve essere decisa secondo diritto e non secondo equità (Sez. 6-2, n. 14304/2022, Varrone, Rv. 664915-01).

Nel procedimento di opposizione alle ingiunzioni di pagamento di sanzioni amministrative, di cui all’art. 22 della l. n. 689 del 1981, la tardività della contestazione dell’illecito, cui consegue, ex art. 14 stessa legge, l’effetto estintivo dell’obbligo di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione, non può essere rilevata d’ufficio, ma costituisce oggetto di eccezione in senso stretto che deve essere dedotta come motivo specifico di opposizione, atteso che nel predetto procedimento, strutturato in conformità al modello del processo civile, trovano applicazione le regole della domanda (art. 99 c.p.c.), della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e del divieto della pronuncia d’ufficio su eccezioni rimesse esclusivamente all’iniziativa della parte ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Sez. 2, n. 01056/2022, Besso Marcheis, Rv. 663569-01).

Per Sez. 6-2, n. 00922/2022, Dongiacomo, Rv. 663809-01, la sentenza che definisce il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, compresa quella del giudice di pace, è impugnabile con l’appello non sottoposto alle limitazioni di cui all’art. 339, comma 3, c.p.c., in quanto, per espressa disposizione dell’art. 6, comma 12, del d.lgs. n. 150 del 2011, non è applicabile l’art. 113, comma 2, c.p.c., sicché non è possibile una pronuncia secondo equità.

Infine per Sez. 6-3, n. 03582/2022, Rossetti, Rv. 664072-01, l’opposizione con cui sono dedotti vizi formali della cartella di pagamento emessa per la riscossione di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada va qualificata come opposizione agli atti esecutivi, con la conseguenza che la competenza spetta, per materia, al tribunale (e non al giudice di pace) e, per territorio, al giudice del luogo di notifica della cartella ex artt. 617, comma 1, e 480, comma 3, c.p.c. (Nella fattispecie, la S.C. - qualificata come opposizione agli atti esecutivi la contestazione riguardante l’irregolare notificazione della cartella, in quanto eseguita da un indirizzo p.e.c. non inserito in pubblici elenchi - ha accolto il regolamento dell’opponente avverso l’ordinanza del tribunale che aveva declinato la propria competenza in favore del giudice di pace del luogo in cui era stata commessa la violazione del C.d.S.).

Sez. 6-2, n. 37999/2021, Varrone, Rv. 663087-01, ha riaffermato il principio (già affermato da Sez. U, n. 20544/2008, Carbone, Rv. 604645-01) per cui l’avvenuto pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria non preclude il ricorso al prefetto o l’opposizione al giudice ordinario rispetto alle sanzioni accessorie dal momento che il cosiddetto pagamento in misura ridotta, secondo l’art. 202 codice della strada, non influenza l’applicazione delle eventuali sanzioni accessorie. Detto pagamento comporta soltanto un’incompatibilità, oltre che un’implicita rinunzia, a far valere qualsiasi contestazione relativa sia alla sanzione pecuniaria irrogata, sia alla violazione contestata che della sanzione pecuniaria è il presupposto giuridico.

Pertanto, l’interessato potrà far valere doglianze che abbiano ad oggetto le sole sanzioni accessorie, quali la mancata previsione della pena accessoria o la previsione della stessa in misura diversa, come, ad esempio, quando si contesti che la violazione astrattamente considerata non contemplava quella pena accessoria o non la prevedeva nella misura applicata.

Con riguardo all’opposizione alla cartella di pagamento emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria comminata per violazioni al codice della strada, si deve ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, essa può avere funzione recuperatoria e, pertanto, consente all’interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto dalla legge avverso l’atto presupposto solo allorché la cartella sia stata effettivamente il primo atto attraverso cui l’interessato è venuto a conoscenza della pretesa sanzionatoria. Al riguardo, Sez. 3, n. 14266/2021, Fiecconi, Rv. 661443-01, ha ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 22080/2017, Barreca, Rv. 645323-01) secondo il quale, ove la parte deduca che tale cartella costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata, in ragione della nullità o dell’omissione della notificazione del processo verbale di accertamento della violazione, l’opposizione deve essere proposta ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, e non nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., e, pertanto, entro trenta giorni dalla notificazione della cartella.

Ancora, nel caso di opposizione “recuperatoria” avverso la cartella di pagamento fondata sull’omessa o invalida notifica dell’ordinanza ingiunzione, emessa in esito a ricorso gerarchico avverso verbale di accertamento per infrazione al codice della strada, il ricorrente ha l’onere di dedurre non soltanto la mancanza o l’invalidità della notificazione dell’ordinanza, atto presupposto su cui si basa la cartella, ma anche i vizi che attengono al merito della pretesa sanzionatoria, dalla cui omessa deduzione consegue l’inammissibilità dell’opposizione (Sez. 3, n. 03318/2021, Fiecconi, Rv. 660524-01).

Ove il verbale di accertamento dell’infrazione non sia opposto, esso diventa titolo esecutivo e non può essere contestato con l’opposizione alla cartella esattoriale, salvo che l’opponente deduca che quest’ultima costituisce il primo atto con cui è venuto a conoscenza della sanzione comminatagli, a causa della nullità o dell’omissione della notificazione del menzionato verbale. In applicazione del principio, Sez. 6-2, n. 09059/2021, Picaroni, Rv. 661118-01, ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso la possibilità di far valere, con l’opposizione alla cartella, l’illegittimità del verbale di contravvenzione, siccome elevato nei confronti di un soggetto carente di legittimazione passiva.

Infine, occorre richiamare Sez. 2, n. 20919/2021, Criscuolo, Rv. 662019-01, la quale ha ritenuto che, a differenza di quanto accade in materia tributaria, l’avviso bonario avente ad oggetto il pagamento di sanzioni pecuniarie conseguenti a contravvenzioni al codice della strada non sia autonomamente impugnabile per soli vizi formali propri, senza estensione della contestazione, in funzione cd. recuperatoria, alla validità degli atti ad esso prodromici, trattandosi di crediti per pretese non tributarie, per le quali il legislatore ha configurato un modello processuale non impugnatorio, ma volto ad individuare specifici strumenti di tutela processuale.

16. Le violazioni sanzionate dal codice della strada.

Con riguardo alle sanzioni amministrative connesse alla guida in stato di ebbrezza, Sez. 2, n. 06987/2022, Besso Marcheis, non massimata, ha affermato che l’accertamento strumentale dello stato di ebbrezza alcolica (mediante cosiddetto alcooltest o etilometro) costituisce atto di polizia giudiziaria urgente ed indifferibile, che impone alla polizia giudiziaria di dare avviso, al soggetto che vi sia sottoposto, della facoltà di farsi assistere da un difensore.

La stessa sentenza ha precisato che in tema di violazione al codice della strada, il verbale dell’accertamento effettuato mediante etilometro deve contenere, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’attestazione della verifica che l’apparecchio da adoperare per l’esecuzione del cosiddetto alcooltest è stato preventivamente sottoposto alla prescritta ed aggiornata omologazione ed alla indispensabile corretta calibratura. L’onere della prova del completo espletamento di tali attività strumentali grava, nel giudizio di opposizione, sulla Pa poiché concerne il fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria.

A norma degli artt. 1 e 2 del d.P.R. n. 474 del 2001, la circolazione di un veicolo con targa di prova è subordinata sia all’esposizione della targa relativa, sia all’esistenza dell’autorizzazione alla circolazione che ne garantisce la copertura assicurativa. Tale autorizzazione, tuttavia, è utilizzabile per la circolazione di un solo veicolo per volta e deve essere tenuta a bordo dello stesso. Pertanto, la mancanza del documento di autorizzazione e della targa di prova a bordo del veicolo integra gli estremi della illecita circolazione con veicolo privo della relativa carta (articolo 93, comma 7, del codice della strada) e privo della copertura assicurativa (articolo 193, comma 2, del codice della strada); né rileva che tale documentazione e la targa di prova si trovino nella sede o nella residenza del soggetto autorizzato o a bordo di altro veicolo contemporaneamente in circolazione, poiché il dettato normativo prevede un illecito formale, di pura condotta, avente una finalità non tanto di repressione, quanto di prevenzione. Al riguardo, inoltre, non assume rilevanza che detti documenti siano acquisiti solo successivamente in sede giudiziale a seguito di opposizione da parte del soggetto nei cui confronti è stato elevato il verbale di contestazione con riguardo all’accertamento delle due suddette infrazioni (Sez. 2, n. 03706/2022, Carrato, non massimata).

Al fine della configurazione della violazione prevista dall’art. 126-bis c.d.s. 1992, comma 2, consistente nella mancata comunicazione - nei sessanta giorni dalla data di notifica del verbale di contestazione - da parte dell’obbligato dei dati personali e della patente di guida del conducente al momento della commessa violazione presupposta, e, quindi, della legittima irrogazione della correlata sanzione, il destinatario dell’invito non può ritenersi tenuto a fornire i suddetti dati prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi proposti avverso il verbale relativo alla precedente infrazione di riferimento. Da ciò consegue che per poter applicare le sanzioni contemplate dal citato art. 126-bis c.d.s., comma 2, dopo l’esaurimento dei rimedi giurisdizionali o amministrativi a cui si è fatto ricorso, con esito sfavorevole per il ricorrente, l’organo accertatore di notifica decorre il termine di 60 giorni per adempiere agli obblighi previsti dalla stessa disposizione normativa. Diversamente, ove l’esito dei citati rimedi sia favorevole al ricorrente (con annullamento del verbale di accertamento), viene meno il presupposto per la configurazione della violazione prevista dall’art. 126-bis c.d.s.., comma 2, a carico dell’obbligato in esso individuato, proprietario del veicolo o altro obbligato in solido ai sensi dell’art. 196 c.d.S. (Sez. 2, n. 24012/2022, Carrato, Rv. 665555-01).

Infine, per Sez. 2, n. 17027/2022, Caponi, Rv. 664983-01, in tema di abusiva installazione di manufatti pubblicitari lungo le strade o in vista di esse, alla violazione dell’art. 23, comma 7, consegue la sanzione più grave di cui al comma 13-bis del predetto art. 23, come modificato dal d.l. n. 121 del 2021, conv. dalla l. n. 156 del 2021, senza che sia necessaria la previa diffida alla rimozione, richiesta solo per le violazioni dei commi 1, 4-bis e 7-bis, atteso che il comma 7 introduce un divieto di qualsiasi forma di pubblicità lungo e in vista degli itinerari internazionali, delle autostrade e delle strade extraurbane principali e relativi accessi, che è autonomo da quello previsto dal comma 1, ed assoluto, cioè non sottoposto a condizioni da verificare attraverso il procedimento di autorizzazione disciplinato dal comma 4.

17. Le altre sanzioni.

Nell’anno di riferimento la S.C. ha precisato presupposti e ambito di applicazione anche di sanzioni amministrative non riconducibili ad infrazioni al codice della strada. In materia di sanzioni per la violazione delle disposizioni sulla protezione degli animali durante il trasporto, per Sez. 6-2, n. 24866/2022, Oliva, Rv. 665575-01, poiché l’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2007, prevede che “il trasportatore che trasporta animali in violazione dei requisiti di idoneità di cui all’Allegato 1 al presente decreto è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 2.000 a Euro 6.000”, la condotta illecita non si esaurisce affatto con il carico dell’animale inidoneo sul mezzo di trasporto, ma ricomprende l’intero suo trasferimento da un luogo all’altro.

Per Sez. 6-2, n. 00458/2022, Varrone, Rv. 663804-01, la competenza ad irrogare le sanzioni amministrative previste dagli artt. 2 e 18 del d.lgs. n. 109 del 1992, spetta all’Ispettorato centrale repressione frodi, in quanto la principale finalità delle norme in materia di etichettatura dei prodotti alimentari è garantire la corretta informazione del consumatore sul bene commercializzato e che appartiene allo Stato, e non alle regioni o ai Comuni, il potere di emettere ordinanza-ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria per violazione delle norme del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 109, (nella specie gli artt. 8 e 18, concernenti il confezionamento, l’etichettatura e la pubblicità di prodotti alimentari destinati al consumatore finale, trattandosi di disciplina a tutela del consumatore rientrante nella materia del commercio, di competenza statale, che solo di riflesso coinvolge gli aspetti relativi all’igiene e alla sanità degli alimenti, di competenza delle amministrazioni locali).

Sez. 2, n. 00129/2022, Giusti, Rv. 663562-01, ha precisato che in tema di sanzioni amministrative emesse, ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 507 del 1993, per l’affissione di manifesti contenenti messaggi pubblicitari senza la prescritta autorizzazione, ai fini della configurabilità della responsabilità solidale di cui all’art. 6, comma 3, della l. n. 689 del 1981, non è sufficiente il solo fatto di averne potuto trarre, il soggetto collettivo, giovamento, ma si richiede che i manifesti siano stati affissi per conto del detto soggetto, che cioè sia comprovata la riconducibilità dell’attività pubblicitaria all’iniziativa del beneficiario quale committente o autore del messaggio pubblicitario o che sia documentato il rapporto tra autore della trasgressione ed ente opponente. Spetta all’Amministrazione che ha applicato la sanzione amministrativa provare tutti gli elementi necessari per l’affermazione della responsabilità amministrativa. Tale regola vale anche per la responsabilità solidale del proprietario prevista dall’art. 6 comma 1, della l. n. 689 del 1981, salvo che per l’ambito in cui opera la presunzione posta dalla stessa disposizione. Consegue che spetta all’Amministrazione che invoca la presunzione prevista dal citato art. 6 provare la titolarità del diritto di proprietà (in capo al soggetto ritenuto obbligato solidale) nel momento in cui la cosa servì o fu destinata a commettere la violazione; solo una volta raggiunta la prova di tale titolarità, spetterà al proprietario provare che l’utilizzazione della cosa in sua proprietà avvenne contro la sua volontà.

Secondo Sez. 2, n. 021076/2022, Fortunato, Rv. 665097-01, ai sensi dell‘art. 14-ter della l. n. 125 del 2001, nella formulazione anteriore alla novella di cui al d.l. n. 14 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 48 del 2017, costituisce illecito amministrativo, sia la vendita di alcolici destinata all’asporto, sia quella destinata alla consumazione immediata, in conformità alla ratio volta ad impedire qualunque forma di cessione a titolo oneroso di bevande alcoliche ai minori degli anni 18, avendo la novella di cui al d.l. cit. - che prevede la sanzionabilità della somministrazione - esteso tale punibilità ad ogni ipotesi di dazione di alcolici a soggetti minorenni, a qualunque titolo e con qualunque modalità effettuata.

Sez. L, n. 22848/2022, Di Paola, Rv. 665325-01, muovendo dalla premessa che l’inequivoco dato letterale dell’art. 10 del d.lgs. n. 242 del 1996 è nel senso che la vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro - comportante consequenzialmente la relativa potestà sanzionatoria - è svolta dalla unità sanitaria locale, salvo una competenza concorrente (esplicitata dal termine “anche”) dell’ispettorato, attinente alla sola vigilanza relativa ad attività tassative da individuarsi appositamente, conclude nel senso che l’omessa tenuta del c.d. registro degli infortuni di cui all’art. 4, comma 5, lett. O, del d.lgs. n. 626 del 1994 (ratione temporis applicabile), può essere sanzionata solo dalla ASL territorialmente competente e non anche dall’ispettorato del lavoro.

Per Sez. 2, n. 19030/2022, Caponi, Rv. 664993-01, le sanzioni amministrative irrogate per violazione dell’obbligo di chiusura domenicale e festiva degli esercizi commerciali ai sensi dell’art. 18 l.r. Puglia n. 11 del 2003, non hanno natura sostanzialmente penale, in quanto non sono dirette a tutelare beni tipicamente protetti dalle norme penali, né presentano quel grado di afflittività assimilabile a quello proprio delle sanzioni penali, con conseguente inapplicabilità del principio della retroattività della legge più favorevole; fermo restando che il principio della lex mitior non ha carattere assoluto, potendo il legislatore derogarlo ovvero prevedere limitazioni alla sua operatività, in presenza di valide giustificazioni.

Infine, per Sez. 5, n. 19338/2022, Triscari, Rv. 664934-01, in tema di accisa dovuta per la circolazione di prodotti alcoolici in regime di sospensione d’imposta, nel caso di ritardato pagamento è dovuto tanto il pagamento della sanzione amministrativa, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, quanto dell’indennità di mora e degli interessi per il ritardato pagamento, di cui all’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 504 del 1995, atteso che tale ultima somma, avendo una distinta e autonoma natura risarcitoria, è cumulabile con la citata sanzione tributaria generale.

Infine, in tema di sanzioni amministrative correlate ai controlli sulla tracciabilità degli alimenti, dei mangimi e degli animali destinati alla produzione alimentare o a far parte di un alimento o di un mangime, l’illecito di cui agli artt. 18 del Reg. (CE) n. 178/2002/CE e 2 del d.lgs. n. 190 del 2006, ferme eventuali diverse ipotesi contemplate in altre previsioni di legge, si configura allorquando il soggetto, tenuto all’osservanza dell’obbligo di disporre di sistemi e procedure idonee a mettere a disposizione delle richiedenti autorità competenti le informazioni riguardanti i predetti prodotti, risulti incapace - anche per l’inadeguatezza dei sistemi e delle procedure contemplati al paragrafo 2 del medesimo art. 18 – di ottemperarvi entro un lasso temporale non immediato, ma comunque ragionevole, onde dimostrare di aver rispettato l’obbligo di tracciabilità, dovendosi il predetto illecito, viceversa, escludere quando il destinatario della richiesta provveda a mettere a disposizione dette informazioni entro termini ragionevolmente brevi, ancorché non nella immediatezza, senza che rilevi la tipologia del metodo adottato (Sez. 2, n. 35685/2022, Rolfi, Rv. 666332-02).

  • contenzioso elettorale
  • diritto elettorale
  • elezioni politiche

CAPITOLO XXIX

ELEZIONI E GIUDIZI ELETTORALI

(di Francesco Agnino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Elettorato passivo. - 3 Contenzioso elettorale.

1. Premessa.

Le pronunce intervenute nel 2022 in materia elettorale non sono numerose. Significativi, comunque, sono stati gli interventi concernenti i temi dell’elettorato passivo e del contenzioso elettorale.

2. Elettorato passivo.

Sez. 1, n. 08056/2022, Iofrida, Rv. 664529-01, ha precisato che la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori che “hanno dato causa allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali” prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, non impone la verifica della commissione di un illecito penale o dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione, né l’adozione, nel corso del relativo procedimento, delle garanzie previste per l’applicazione delle sanzioni penali. Non si tratta, infatti, di una misura sanzionatoria secondo i principi elaborati dalla CEDU, ma di una misura interdittiva di carattere preventivo, i cui presupposti di applicazione sono ben individuati e, quindi, prevedibili, peraltro disposta all’esito di un procedimento che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti.

Infatti, come osservato da Sez. 1, n. 23445/2022, Conti, Rv. 665364-02, la misura interdittiva della incandidabilità dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare nel tessuto istituzionale locale, privando temporaneamente il predetto soggetto della possibilità di candidarsi nell’ambito di competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale, rappresenta un rimedio di extrema ratio volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare, e a salvaguardare così beni primari dell’intera collettività nazionale - accanto alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali nonché il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, capaci di alimentare la credibilità delle amministrazioni locali presso il pubblico e il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni -, beni compromessi o messi in pericolo, non solo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, ma anche dal condizionamento comunque subito dai primi, non fronteggiabile, secondo la scelta non irragionevolmente compiuta dal legislatore, con altri apparati preventivi o sanzionatori dell’ordinamento.

3. Contenzioso elettorale.

La già citata Sez. 1, n. 23445/2022, Conti, Rv. 665364-02, ha evidenziato che in tema di elezioni amministrative, la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale per fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso, prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, essendo una misura non sanzionatoria, ma interdittiva di carattere preventivo, non impone l’adozione delle garanzie previste per l’applicazione delle sanzioni penali ed il relativo procedimento viene introdotto mediante l’atto di trasmissione ministeriale che, rappresentando una deroga alle regole ordinarie, non deve rispettare i contenuti di cui all’art. 125 c.p.c. e non può ritenersi affetto da nullità se, anziché indicare nominativamente gli amministratori coinvolti, li individui per relationem, mediante rinvio ad altri atti amministrativi (nello stesso senso Sez. 1, n. 14584/2022, Caiazzo, non massimata, a mente della quale la speciale modalità di introduzione del giudizio prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 20000 mediante l’atto di trasmissione ministeriale, rappresenta una deroga alle regole comuni. Tale atto di impulso non è perciò tenuto a soddisfare i requisiti ordinari e, in particolare, le previsioni di cui all’art. 125 c.p.c., non risultando nullo qualora ometta di indicare nominativamente gli amministratori coinvolti nella procedura, o comunque non provveda ad esplicita menzione delle specifiche condotte agli stessi attribuite, in quanto rivelatrici della permeabilità dell’amministrazione locale alle influenze inquinanti delle consorterie criminali). La proposta ministeriale è il solo legittimo atto introduttivo dello speciale giudizio, con il quale il legislatore, per un verso, ha derogato al disposto dell’art. 737 c.p.c. sulla editio actionis e, per altro verso, non ne ha consentito la sostituzione con atti diversi dalla proposta in questione.

In tema di contenzioso elettorale amministrativo, la verifica della rispondenza a legge della dichiarata decadenza dalla carica elettiva regionale, pur riguardando la tutela del diritto soggettivo perfetto dell’interessato, inerente all’elettorato passivo, involge esigenze pubblicistiche di rilievo costituzionale, volte ad assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, sì da rendere necessaria l’indagine ufficiosa sulla sussistenza dei presupposti normativi previsti dagli artt. 7 e 8 d.lgs. n. 235 del 2012 e, in particolare, sull’irrevocabilità della sentenza penale di condanna per le ipotesi di reato da cui discenda ipso iure la menzionata decadenza (Sez. 1, n. 10224/2022, Parise, Rv. 664542-02).

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • responsabilità

CAPITOLO XXX

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.1 I comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. - 2.1.2 La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge. - 2.1.3 L’omissione della comunicazione, al Consiglio superiore della magistratura, della sussistenza di una delle situazioni di incompatibilità. - 2.1.4 I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori. - 2.1.5 L’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri. - 2.1.6 Il frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato. - 2.1.7 Il fatto costituente reato. - 2.1.8 La condotta disciplinare irrilevante. - 2.2 Il procedimento disciplinare. - 2.2.1 Il giudizio di impugnazione. - 2.2.2 Intercettazioni disposte in un processo penale. - 2.2.3 Il sindacato di legittimità. - 2.3 Le misure cautelari. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il procedimento disciplinare. - 3.2.1 Il giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense e la fase di impugnazione in sede di legittimità. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari. - 4.2 Il giudizio di impugnazione.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario va fatta menzione delle pronunce rese sugli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni e al di fuori di queste mentre, in relazione al procedimento, numerose decisioni hanno affrontato i temi legati ai profili processuali.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Riguardo alle diverse fattispecie, vanno distinte le pronunce delle Sezioni Unite in merito alle ipotesi di illecito che discendono dall’esercizio delle funzioni da quelle realizzate al di fuori di esse.

Nel primo ambito ricadono le fattispecie dei comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti, della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, della consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge, del reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, dei comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori, dell’emissione di provvedimenti privi di motivazione.

Sugli illeciti commessi al di fuori delle funzioni, si segnala lo svolgimento di attività incompatibili con la funzione giudiziaria.

2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri del magistrato, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti.

Riguardo alla colpevole inerzia del pubblico ministero nello svolgimento delle indagini, la S.C. ha chiarito che essa rappresenta un indebito vantaggio per l’indagato, rilevante ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, in quanto, incidendo sui tempi utili per assumere una decisione prima della maturazione dei termini prescrizionali e sul contenuto di essa, si riverbera sugli epiloghi procedimentali (Sez. U, n. 30151/2022, Cirillo, Rv. 666058-01). Sul punto è stato specificato che non assumono alcun rilievo le intuizioni o le personali convinzioni del magistrato requirente sull’innocenza dello stesso, sia in quanto dette valutazioni devono essere oggettivamente tratte dalle emergenze investigative, venendo altrimenti lesi i principi di imparzialità e del contraddittorio tra le diverse tesi dell’accusa e della difesa, sia in quanto, in caso contrario, verrebbe alterato il baricentro delle garanzie giurisdizionali, incentrate sul ruolo fondamentale del giudice per le indagini preliminari.

In precedenza, Sez. U, n. 4953/2015, Curzio, Rv. 634503-01 aveva ritenuto sussistente l’illecito in questione anche nel caso in cui la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio sia stata colposa e l’evento del danno ingiusto o dell’indebito vantaggio per una delle parti non sia stato previsto o voluto, atteso che la limitazione della sanzione disciplinare al solo illecito doloso la identificherebbe con la sanzione penale, mentre esse hanno finalità, intensità e ambiti diversi.

2.1.2. La consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.

In tema di relazione sentimentale del magistrato con l’avvocato difensore di una delle parti e sul dovere di astensione, è stato confermato che il magistrato il quale risulti avere, o avere avuto, una tale relazione con una qualsiasi delle parti dei processi nei quali è chiamato a giudicare o con taluno dei legali che tali parti assistono, viene a trovarsi in una situazione in cui, per gravi ragioni di convenienza ha l’obbligo deontologico di astenersi a norma degli artt. 36, comma 1, lett. h), c.p.p. e 51, comma 2, c.p.c. (Sez. U, n. 07497/2022, Ferro, Rv. 664204-01; in senso conforme, Sez. U, n. 21947/2004, Paolini, Rv. 578083-01); il legame di affetto tra il giudice e la parte o il suo difensore finisce per intaccare la serenità e la capacità del giudice di essere imparziale, ovvero per ingenerare, sia pure ingiustificatamente, il sospetto che egli possa rendere una decisione ispirata a fini diversi da quelli istituzionali ed intesa, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare gli eventuali destinatari. La lesione di tali regole della deontologia professionale nello svolgimento dell’attività giudiziaria costituisce illecito disciplinare anche se posta in essere dal magistrato del P.M., perché la percezione ambientale diffusa della relazione appanna l’immagine di imparzialità, che deve ispirare anche la sua attività.

2.1.3. L’omissione della comunicazione, al Consiglio superiore della magistratura, della sussistenza di una delle situazioni di incompatibilità.

Sull’obbligo di comunicazione di una condizione di convivenza, è stato chiarito che tale previsione non viola il diritto ai dati personali sulla vita privata e l’orientamento sessuale del magistrato e del partner, tutelati dal d.lgs. n. 196 del 2003, e dal reg. (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, rispondendo al necessario bilanciamento fra il diritto personale alla riservatezza delle situazioni familiari, del magistrato e dei soggetti correlati, e i primari interessi pubblici coinvolti, tra cui la tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, valore che rientra tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti (Sez. U, n. 08763/2022, Nazzicone, Rv. 664224-02). Al riguardo è stato osservato che la previsione delle situazioni di incompatibilità è diretta a tutelare la correttezza e l’imparzialità dell’attività giudiziaria.

In tal senso è stato riconosciuto che l’omessa comunicazione al CSM di una situazione di incompatibilità, di cui agli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario (nella specie, la stabile convivenza con avvocato esercente la professione forense nel medesimo distretto), in occasione della presentazione di una domanda di conferimento di incarico direttivo, configura l’illecito disciplinare, previsto dall’art. 2, comma 1, lett. n), del d.lgs. n. 109 del 2006. Tale omissione costituisce inosservanza di disposizioni sul servizio giudiziario, tali dovendo essere considerate quelle di cui agli artt. 44, 46, lett. b), e 48 della Circolare del CSM n. P-12940 del 25 maggio 2007, in quanto contenenti ordini concernenti il rapporto di servizio del magistrato, impartiti dal soggetto a ciò abilitato (Sez. U, n. 08763/2022, Nazzicone, Rv. 664224-01).

2.1.4. I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.

Sul significato da attribuirsi alla formula di “illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”, di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 34675/2022, De Masi, Rv. 666364-01 ha chiarito che la stessa non individua un presupposto della fattispecie che si aggiunge agli elementi costitutivi degli specifici illeciti tipizzati dalla legge, ma ha un significato meramente classificatorio, inteso a caratterizzare il disvalore della condotta in relazione al dovere violato. Di conseguenza, ai sensi della lett. d) del citato articolo, rientrano nell’ambito dei comportamenti abitualmente e gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati le condotte volte a screditare - con apprezzamenti negativi del tutto estranei all’esercizio di libertà costituzionali - o valorizzare altri colleghi, anche al fine di interferire con l’attività del CSM, in quanto dirette ad incidere sull’esito di una procedura selettiva, che dovrebbe discendere unicamente dall’applicazione dei parametri normativi, primari e secondari, che presiedono al regolare svolgimento della procedura medesima.

In precedenza, Sez. U, n. 00741/2020, Sambito, Rv. 656792-05 aveva già chiarito che la previsione di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006 - la quale dà rilievo come illecito disciplinare ai “comportamenti abitualmente e gravemente scorretti” anche quando tenuti nei confronti di “altri magistrati” - deve essere interpretata nel senso che tali comportamenti non debbono necessariamente essere frutto del concreto esercizio della giurisdizione ma possono investire anche i rapporti che si instaurano con altri magistrati in ragione della funzione che l’incolpato svolge proprio in quanto tale. Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che costituiscano violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio propri del magistrato, sì da rientrare della fattispecie disciplinare di cui al citato art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, le condotte volte a screditare, o valorizzare, colleghi, anche al fine di interferire con l’attività del CSM.

Sulla medesima linea interpretativa, è stato riconosciuto (Sez. U, n. 34380/2022, Scarpa, Rv. 666365-01) che le interlocuzioni tra magistrati e componenti del CSM aventi ad oggetto le valutazioni procedimentali per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari costituiscono “comportamenti abitualmente o gravemente scorretti”, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, dovendo ritenersi imposto ad ogni magistrato il dovere di astenersi da qualsiasi intervento - salvo se contemplato dalla disciplina legislativa del procedimento - che sia volto, in guisa di pressione o di concertazione, ad esprimere discredito o disistima o, all’opposto, a manifestare gradimento o sostegno nei confronti di alcuno degli aspiranti, essendo la comparazione di questi ultimi riservata ai componenti dell’organo di autogoverno, senza alcuno spazio alla compartecipazione di soggetti estranei (quali, ad esempio, gli esponenti dell’associazionismo giudiziario o della politica).

La configurabilità dell’illecito nei confronti dei magistrati collocati fuori ruolo della magistratura è stata affermata anche da Sez. U, n. 06910/2022, Giusti, Rv. 664406-02, evidenziando che nella nozione di gravi scorrettezze tenute nei confronti “di altri magistrati” possono rientrare anche le condotte poste in essere in violazione dei doveri, relativi allo status di magistrato, che permangono in caso di collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di funzioni diverse da quelle giurisdizionali Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza disciplinare di condanna di un magistrato segretario presso il CSM, tenuto per regolamento consiliare ex art. 34, comma 5, del regolamento interno, al dovere di segretezza sui lavori delle Commissioni alle quali partecipa, che, violando il dovere di riserbo e l’affidamento fiduciario dei componenti del Consiglio, aveva pregiudicato l’interesse alla piena e incondizionata libertà di determinazione di ciascun componente dell’organo di autogoverno.

2.1.5. L’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri.

Sulla sussistenza dell’illecito di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, in tema di abuso della qualità di magistrato, è stato confermato che non sia necessaria la spendita esplicita della qualità, quando questa è nota all’interlocutore, rilevando, al contrario, l’uso strumentale di essa da parte del magistrato al di fuori delle sue funzioni al fine di conseguire ingiusti vantaggi per sé o per altri (Sez. U, n. 36994/2022, Crucitti, Rv. 666378-01; in senso conforme, Sez. U, n. 10086/2020, Lombardo, Rv. 657685-04; Sez. U, n. 33089/2019, Tria, Rv. 656483-02 ha specificato che l’abuso della qualità di magistrato, al fine di ottenere un trattamento di miglior favore per sé o per altri, può anche essere effettuato implicitamente quando la conoscenza della qualità stessa si inserisce in un contesto che concorre ad evidenziare una pressione psicologica sulla controparte o che comunque è idoneo ad incidere sulle determinazioni della stessa sino al punto di indurla ad addivenire ad un dato rapporto contrattuale).

2.1.6. Il frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato.

Riguardo alla fattispecie relativa ai rapporti consapevoli di affari con persona sottoposta a procedimento penale, Sez. U, n. 27419/2022, Cirillo, Rv. 665663-01 ha chiarito che la successiva conclusione del processo penale, trattato dall’incolpato, a carico della persona con cui lo stesso ha intrattenuto con abitualità rapporti consapevoli di affari, non esclude l’illecito disciplinare previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 109 del 2006, disposizione posta a tutela della credibilità del magistrato, in quanto la norma non giustifica una simile interpretazione restrittiva. In precedenza era stato affermato che per integrare l’illecito disciplinare in questione è sufficiente che la conoscenza della particolare situazione in cui si trova la persona frequentata accompagni l’obiettività della condotta o anche di un suo segmento, ossia che al magistrato risulti quella condizione quando frequenta, o continua a frequentare, quella certa persona, non essendo necessario che la consapevolezza preceda la frequentazione (Sez. U, n. 14919/2016, Giusti, Rv. 640611-01 in relazione al caso della frequentazione di persona che al magistrato consta essere sottoposta a misura di prevenzione).

2.1.7. Il fatto costituente reato.

Sulla sussistenza dell’illecito previsto dall’art. 4, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006, il fatto commesso dall’incolpato e integrante un’ipotesi di reato, ancorché già estinto, dev’essere idoneo a ledere l’immagine sociale del magistrato in una dimensione non solo potenziale, ma anche in concreto, considerando la particolare gravità della condotta e il suo intrinseco valore offensivo rispetto agli interessi tutelati, nonché la diffusione all’esterno della vicenda, anche quando questa sia conseguenza dello strepitus derivante dall’esercizio dell’azione disciplinare (Sez. U, n. 34992/2022, Giusti, Rv. 636668-02).

2.1.8. La condotta disciplinare irrilevante.

Nell’ipotesi di ritardata scarcerazione di indagato sottoposto a custodia cautelare, Sez. U, n. 27418/2022, Di Paolantonio, Rv. 665908-01 ha ritenuto che la necessità di procedere, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, a una valutazione in misura della singola vicenda disciplinare e dei tratti che la contraddistinguono, impedisce di enucleare in astratto ed in via generale soglie minime e massime di durata della privazione della libertà personale che rendano applicabile o non applicabile l’esimente.

Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l’applicabilità dell’esimente, anche in virtù di una comparazione con altri giudizi in cui venivano in rilievo fattispecie analoghe, senza tuttavia valutare una pluralità di elementi quali: la grave negligenza del cancelliere, a sua volta sanzionato disciplinarmente, le dichiarazioni rese dall’imputato in merito agli effetti benefici della permanenza presso la struttura riabilitativa, la professionalità dimostrata dal magistrato nell’esercizio delle funzioni.

In precedenza, Sez. U, n. 17985/2021, Nazzicone, Rv. 661958-01 aveva precisato che grava sul magistrato l’obbligo di vigilare con regolarità sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini, sicché l’inosservanza dei termini di durata massima della custodia cautelare costituisce grave violazione di legge idonea ad integrare gli illeciti disciplinari di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006; tali illeciti non sono scriminati dalla laboriosità o capacità dell’incolpato, dalle sue gravose condizioni lavorative o dall’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza, né può reputarsi integrata l’esimente della “scarsa rilevanza” del fatto, di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, a fronte di una lunga privazione della libertà personale dell’imputato, per la sola evenienza della concomitante negligenza del funzionario di cancelleria o dell’indiscusso impegno e capacità del magistrato o del disinteresse del soggetto ad ottenere la cessazione della misura, elementi inidonei a determinare l’inoffensività della condotta.

L’esimente della scarsa rilevanza dell’illecito, non può essere automaticamente esclusa in caso di plurime inosservanze del medesimo obbligo, in quanto la reiterazione del medesimo comportamento censurato non integra di per sé una presunzione assoluta di offensività (Sez. U, n. 7497/2022, Ferro, Rv. 664204-02). In tal senso è necessario valutare per ciascun illecito separatamente la idoneità a ledere il bene giuridico protetto e verificare se il tratto comune delle condotte abbia comportato, come effetto unitario, un più grave appannamento dell’immagine di imparzialità del magistrato e della sua attività nella percezione della comunità professionale o del contesto giudiziario (secondo Sez. U, n. 29823/2020, Cosentino, Rv. 660013-02 l’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione dell’esimente è da identificarsi in quella che, riguardata ex post e in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato).

2.2. Il procedimento disciplinare.

Sui profili procedurali è stato affermato che l’art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006 pone un limite minimo, e non massimo, per le sanzioni collegate agli illeciti ivi previsti, peraltro in modo non esaustivo, lasciando pertanto alla discrezionalità dell’organo disciplinare la determinazione in concreto della sanzione applicabile in relazione alla gravità dell’illecito (Sez. U, n. 23238/2022, Manzon, Rv. 665275-01). Secondo la prospettazione della parte ricorrente, l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 109 del 2006, porrebbe un limite interpretativo/applicativo, per così dire, “generale” alla discrezionalità della Sezione disciplinare del CSM nella determinazione della sanzione in caso di concorso di illeciti, che sarebbe quello della sanzione “prevista” per l’illecito più grave. La Corte, tuttavia, rileva che si tratta di una lettura inaccettabilmente parcellizzante del sistema sanzionatorio, il quale “prevede” sanzioni edittali “minime” (non inferiore a), ma non “massime” e lascia dunque alla discrezionalità dell’organo disciplinare la determinazione della sanzione “in concreto”. Tale, infatti, è l’inequivoco tenore del d.lgs. n. 109 del 2006 art. 12, che pone il “limite minimo” (ma non massimo) delle sanzioni, quali correlate ai singoli illeciti, illecito per illecito, ma non per tutti e non per quello di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), stesso decreto, pure contestato all’incolpata. In tal modo il legislatore ha concretizzato il vincolo di tipicità/legalità della pena disciplinare, con una scelta individualizzante in relazione agli illeciti a loro volta tipicizzati, ma che, appunto perché non esaustiva, non esclude affatto il potere/dovere della Sezione disciplinare del CSM di determinazione della sanzione “in concreto”.

2.2.1. Il giudizio di impugnazione.

In tema di giudizio di impugnazione è stato ribadito che, secondo il disposto dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, si applica la disciplina del processo penale con riguardo alla fase introduttiva che comprende l’individuazione dei soggetti ammessi a proporre il ricorso, le modalità di presentazione dello stesso e gli adempimenti successivi a cura della cancelleria del giudice a quo; non trovano, pertanto, applicazione gli artt. 370 e 371 c.p.c., riguardanti la notificazione e il deposito del controricorso, o la proposizione dell’eventuale ricorso incidentale da parte del destinatario del ricorso principale che non abbia proposto, a sua volta, ricorso ex artt. 581 e ss. c.p.p., né l’art. 334 c.p.c., che ammette la proposizione dell’impugnazione incidentale tardiva, con la conseguenza che va dichiarato inammissibile il “ricorso incidentale condizionato” notificato e depositato oltre il termine di trenta giorni di cui all’art. 585, comma 1, lett. b), c.p.p. (Sez. U, n. 34380/2022, Scarpa, Rv. 666365-02; in precedenza, sulla stessa linea interpretativa, Sez. U, n. 24631/2020, Virgilio, Rv. 659452-01 riguardo all’onere del ricorrente della notificazione dell’impugnazione alle controparti e del suo deposito e, specularmente, della notificazione e del deposito del controricorso).

Nel caso in cui trovi applicazione, ratione temporis, l’art. 23, comma 8 bis, del d.l. n. 137 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 176 del 2020, che disciplina le modalità di trattazione dei ricorsi fissati in udienza pubblica a norma degli artt. 374, 375, ultimo comma, e 379 c.p.c., l’individuazione del rito per la decisione non dipende da alcun ulteriore provvedimento di fissazione emesso dal presidente e comunicato alle parti, ma dalla diretta volontà della legge, che stabilisce che si debba procedere automaticamente in camera di consiglio senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale facciano richiesta di discussione orale entro il termine di venticinque giorni liberi prima dell’udienza; in mancanza di tale richiesta, alle parti non è consentito di partecipare alla discussione nell’udienza ex art. 379 c.p.c., senza che ciò rechi ostacolo all’esercizio del diritto di difesa giacché, dopo che il procuratore generale ha formulato le sue conclusioni con atto spedito alla cancelleria, e da questa inviato ai difensori, gli stessi possono depositare memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. (Sez. U, n. 11546/2022, Scarpa, Rv. 664487-01).

Sull’estensibilità della disciplina del processo penale, Sez. U, n. 34992/2022, Giusti, Rv. 666368-01 ha confermato che i richiami al codice di procedura penale contenuti nell’art. 16, comma 2 (per l’attività di indagine), e art. 18, comma 4 (per il dibattimento), del d.lgs. n. 109 del 2006 devono interpretarsi restrittivamente e solo nei limiti della compatibilità, dovendo applicarsi, per il resto, le regole del codice di procedura civile, sicché resta esclusa l’applicabilità delle norme del codice di procedura penale sull’assunzione e valutazione delle dichiarazioni rese da persone imputate in procedimenti connessi o di reati collegati, trattandosi di disposizioni riferibili esclusivamente ai rapporti tra procedimenti penali, le cui specifiche finalità giustificano limitazioni all’acquisizione della prova in deroga al principio fondamentale di ricerca della verità materiale (in senso conforme, Sez. U, n. 17585/2015, Virgilio, Rv. 636141-01). In applicazione del principio, la S.C. ha escluso che la deposizione del testimone - assunta alla presenza del difensore e con la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere, in ragione della pendenza di un separato procedimento disciplinare a suo carico - dovesse essere valutata ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.p.p. e, cioè, con riscontri esterni idonei a confermare l’attendibilità della narrazione.

La cessazione dell’appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario, intervenuta nelle more del ricorso per cassazione, e quindi prima del passaggio in giudicato della sentenza disciplinare di condanna, comporta la cessazione della materia del contendere, in difetto della ricorrenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 129 c.p.c. o di elementi da cui desumere un perdurante interesse delle parti alla decisione del merito, tra i quali non può annoverarsi quello di natura meramente “morale” dell’incolpato; resta però salva, ai fini di tale verifica, la valutazione della natura della sanzione irrogata e se essa richieda o meno, in relazione ai suoi effetti, un definitivo accertamento nel merito della sua legittimità (Sez. U, n. 29590/2022, Napolitano, Rv. 665911-01 ha così dichiarato cessata la materia del contendere, essendo stata comminata la sanzione della perdita di anzianità di mesi tre, ormai irrilevante sulla progressione di carriera, stante il collocamento a riposo del magistrato).

2.2.2. Intercettazioni disposte in un processo penale.

Nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, le intercettazioni delle conversazioni, legittimamente disposte ed effettuate nell’ambito di un procedimento penale, sono utilizzabili anche se non siano stati acquisiti i supporti materiali, ove non vi sia stata specifica e tempestiva richiesta dell’incolpato, finalizzata all’ascolto o al controllo della corrispondenza delle conversazioni oggetto di incolpazione al contenuto delle registrazioni (Sez. U, n. 06910/2022, Giusti, Rv. 664406-01).

La S.C. ha ribadito che nel procedimento disciplinare a carico del magistrato è utilizzabile anche la documentazione che dia conto sinteticamente del contenuto delle comunicazioni intercettate nell’ambito di un procedimento penale, sempre che non emerga - a seguito di specifica contestazione dell’incolpato che abbia richiesto una verifica in tal senso mettendo in dubbio l’affidabilità della indicazione per sunto la sussistenza di una qualche difformità della trascrizione riassuntiva rispetto ai relativi supporti audio (bobine o cassette) (Sez. U, n. 14552/2017 Rv. 644570-02).

Era dunque rimessa all’incolpata in sede disciplinare la possibilità di dedurre eventuali vizi dei provvedimenti con cui le intercettazioni sono state autorizzate ed effettuate in sede penale e di richiedere i supporti audio di tali intercettazioni, per ascoltarli e far riscontrare la loro eventuale difformità rispetto al contenuto dei brogliacci o delle trascrizioni acquisite agli atti del procedimento disciplinare (Sez. U, n. 9390/2021, Cosentino, Rv. 660918-03 ha dichiarato inutilizzabili i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni disposte nel procedimento penale, i cui supporti materiali, nonostante la specifica e tempestiva richiesta del magistrato incolpato, non siano stati acquisiti agli atti del procedimento e resi ascoltabili da parte dell’incolpato stesso).

2.2.3. Il sindacato di legittimità.

In materia di illecito disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario, la denuncia - con ricorso per cassazione - del vizio di manifesta illogicità della decisione, in cui sarebbe incorsa la sezione disciplinare del CSM, può sollecitare la Suprema Corte esclusivamente a verificare se il giudice di merito abbia esaminato gli elementi e le deduzioni posti a sua disposizione ed abbia fatto corretto uso di regole logiche, massime di esperienza e criteri legali di valutazione, così da offrire razionale spiegazione dell’opzione decisionale fatta rispetto alle diverse tesi difensive, restando, invece, preclusa la possibilità di opporre alla valutazione dei fatti contenuta nella decisione una diversa loro ricostruzione (nella specie, Sez. U, n. 12446/2022, Cosentino, Rv. 664746-01 ha cassato la pronuncia della sezione disciplinare poiché, senza valutare il contenuto del materiale probatorio acquisito al giudizio disciplinare, evidenziandone eventuali profili di inattendibilità, ne aveva obliterato il contenuto, esprimendo un giudizio meramente apodittico le cui ragioni erano rimaste del tutto inespresse; in precedenza, in senso conforme, Sez. U, n. 14430/2017, Ettore Cirillo, Rv. 644565-03).

Sul fatto oggetto di incolpazione e la corrispondenza con quello ritenuto in sentenza, Sez. U, n. 10445/2022, Rossetti, Rv. 664229-01 ha ribadito che la discordanza tra accusa e condanna sussiste soltanto quando è operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito, ma non anche se gli elementi essenziali della contestazione formale restino immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo elementi secondari e di contorno, ovvero quando l’affermazione di responsabilità si fondi su diverse possibili alternative condotte colpose, ciascuna delle quali dotata di efficienza causale rispetto all’evento, sempre che l’incolpato abbia comunque avuto modo di difendersi in merito alle diverse ipotesi ricostruttive (in senso conforme, Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-03). Nella specie, è stato escluso il difetto di correlazione tra il fatto addebitato – non aver provveduto alla iscrizione nel registro delle notizie di reato della denuncia ricevuta dalla polizia giudiziaria - e quello ritenuto in sentenza – non aver trasmesso alla Procura territorialmente competente l’informativa di reato – trattandosi di due condotte omissive entrambe dirette ad impedire l’esercizio dell’azione penale, con conseguente maturarsi del termine di prescrizione del reato.

Riguardo alla determinazione della sanzione adeguata, è stato confermato che la scelta della sanzione da applicare va effettuata, da parte della Sezione disciplinare del CSM, secondo il fondamentale criterio della proporzionalità, intesa come adeguatezza alla concreta fattispecie disciplinare ed espressione della razionalità che fonda il principio di eguaglianza, e, quindi, con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto (Sez. U, n. 11457/2022, Falabella, Rv. 664414-01; conforme Sez. U, n. 11137/2012, Virgilio, Rv. 623233-01). A tal fine, devono formare oggetto di valutazione la gravità dei fatti in rapporto alla loro portata oggettiva, la natura e l’intensità dell’elemento psicologico nel comportamento contestato unitamente ai motivi che l’hanno ispirato e, infine, la personalità dell’incolpato, in relazione, soprattutto, alla sua pregressa attività professionale e agli eventuali precedenti disciplinari; tale valutazione deve essere particolarmente approfondita qualora la scelta si rivolga alla più grave delle sanzioni, sul presupposto che l’illecito contestato al magistrato sia di tale entità che ogni altra sanzione risulti insufficiente alla tutela di quei valori che la legge intende perseguire, costituiti dalla fiducia e dalla considerazione di cui il magistrato deve godere, nonché dal prestigio dell’Ordine giudiziario.

Nella specie, la S.C. ha annullato una sentenza che aveva inflitto la sanzione della sospensione dalle funzioni per due anni in luogo della rimozione, rilevando come la condotta di appropriazione indebita contestata al magistrato a danno di un ente con scopi benefici, realizzata in concorso con soggetti legati da motivi politici e l’ampio risalto della vicenda sui media nazionali, erano circostanze idonee a compromettere irrimediabilmente il prestigio e la credibilità del magistrato.

2.3. Le misure cautelari.

In tema di domanda cautelare, la S.C. ha specificato che, ferma la natura unitaria dell’azione disciplinare, i soggetti che ne sono titolari hanno un autonomo ed equiordinato potere di proporre al CSM domande cautelari nei confronti dei magistrati incolpati di un illecito disciplinare, con la conseguenza che l’avvenuta proposizione della suddetta domanda da parte del Ministro legittima il CSM a pronunciarsi indipendentemente dalle conclusioni che in udienza abbia formulato il rappresentante del Procuratore generale presso la Corte di cassazione (Sez. U, n. 13678/2022, Cosentino, Rv. 664573-01).

Sulla sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e la sopravvenuta cessazione dell’appartenenza all’ordine giudiziario del magistrato incolpato, si è stabilito che l’interesse dell’incolpato a impugnare il provvedimento di sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio, nell’ipotesi in cui siano successivamente sopravvenute le dimissioni, va stimato con riferimento alla data di efficacia delle dimissioni medesime, di talché va ritenuto sussistente ove, al momento della pronuncia cautelare, le dimissioni non fossero ancora divenute operative, permanendo in tale ipotesi l’interesse del magistrato alla corretta ricostruzione della carriera ai fini previdenziali e del trattamento di fine servizio (Sez. U, n. 07498/2022, Scoditti, Rv. 664205-01; in precedenza, Sez. U, n. 18264/2019, Tria, Rv. 654625-01, nella vigenza delle norme anteriori al d.lgs. n. 109 del 2006, aveva ritenuto che la cessazione dal servizio per collocamento a riposo del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare non determina la caducazione del provvedimento cautelare di sospensione “di diritto” dalle funzioni e dallo stipendio emesso in pendenza di giudizio penale né di quello di sospensione c.d. “provvisoria”, tenuto conto dei profili riguardanti la ricostruzione economica e giuridica della carriera del magistrato incolpato e dell’interesse a tutelare l’immagine e il prestigio della Magistratura).

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare degli avvocati, vanno richiamate le pronunce sulle fattispecie di illecito, nonché su taluni profili procedurali.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Riguardo alle fattispecie di illecito, è stato escluso un rapporto di specialità, ex art. 15 c.p., tra l’art. 52 e l’art. 53 del codice deontologico forense, i quali invece si applicano in concorso nel caso in cui l’avvocato usi negli scritti difensivi delle espressioni sconvenienti ed offensive nei confronti di un magistrato, in quanto, mentre l’art. 53 delimita l’ambito etico nel quale devono estrinsecarsi i rapporti tra avvocati e magistrati, improntati alla pari dignità e al reciproco rispetto, l’art. 52 individua una specifica violazione dei canoni comportamentali che potrebbe essere commessa per il tramite della redazione di atti processuali, tutelando così il decoro e la dignità della stessa professione (Sez. U, n. 36660/2022, Criscuolo, Rv. 666376-02).

L’avvocato che si appropria dell’importo dell’assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, omettendo di restituire al cliente le somme di sua pertinenza, al di fuori delle ipotesi tipiche in cui gli è consentito trattenerle, contravviene all’art. 44 del codice deontologico forense vigente ratione temporis; né tale violazione deontologica viene meno in presenza dei presupposti della compensazione legale, dal momento che la deontologia forense e le norme civili sulla compensazione riflettono finalità differenti (Sez. U, n. 11168/2022, Falabella, Rv. 664413-01).

La natura permanente dell’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che si appropria in maniera truffaldina di una somma di denaro destinata a un suo cliente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado, dalla quale inizia a decorrere il termine prescrizionale massimo di cui all’art. 56, comma 3, della l. n. 247 del 2012 (Sez. U, n. 23239/2022, Manzon, Rv. 665276-01; in precedenza, la natura permanente dell’illecito era stata affermata da Sez. U, n. 14233/2020, Valitutti, Rv. 658194-01 con riferimento alla condotta del legale che omette di restituire al cliente la somma versatagli in deposito fiduciario, specificando che il termine di prescrizione dell’illecito, in applicazione analogica dell’art. 158 c.p., inizia a decorrere dal momento in cui il professionista, sollecitato alla restituzione, nega il diritto del cliente sulla somma affermando il proprio diritto di trattenerla, a cui è equiparabile la negazione di averla ricevuta, sicché è da tale momento).

3.2. Il procedimento disciplinare.

In tema di giudizi disciplinari degli avvocati, la notifica della citazione a giudizio dinnanzi al Consiglio distrettuale di disciplina presso la residenza anagrafica del professionista - in assenza di domicilio eletto – non è affetta da nullità, in ragione del carattere amministrativo del relativo procedimento, della idoneità di tale notificazione a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario e della omessa previsione normativa di tale sanzione (Sez. U, n. 29588/2022, Napolitano, Rv. 665763-01).

Sulle dichiarazioni dell’incolpato assunte dal consigliere istruttore nel corso della fase preprocedimentale, ex art. 58 della l. n. 247 del 2012, e alla loro utilizzabilità, è stato affermato che possono essere valutate quale elemento di prova contro il dichiarante, sia perché il procedimento che si svolge dinanzi al Consiglio dell’ordine degli avvocati, e a maggior ragione la fase dinanzi al consigliere istruttore del consiglio distrettuale di disciplina, hanno natura sostanzialmente amministrativa, escludendo, dunque, l’applicazione delle garanzie difensive approntate in sede processuale, sia perché prevale, in ogni caso, il principio di autoresponsabilità, sicché la parte deve adeguatamente valutare la portata delle proprie dichiarazioni (Sez. U, n. 36660/2022, Criscuolo, Rv. 666376-01).

In merito alla disciplina per l’emergenza Covid, Sez. U, n. 28468/2022, Rubino, Rv. 665681-01 ha chiarito che l’art. 59, lett. d), della l. n. 247 del 2012 qualifica come “udienza dibattimentale”, e non come semplice riunione, la fase dinanzi al Consiglio dell’Ordine distrettuale e ciò in ragione della funzione giustiziale svolta da tale organo; al relativo procedimento si applica, pertanto, la disciplina per l’emergenza Covid, con sospensione dei termini ex art. 103, comma 5, del d.l. n. 18 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 27 del 2020.

3.2.1. Il giudizio disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense e la fase di impugnazione in sede di legittimità.

Il Consiglio dell’ordine, presso cui l’avvocato è iscritto, è legittimato ad impugnare davanti al Consiglio Nazionale Forense il provvedimento di applicazione del richiamo verbale, pronunciato dal Consiglio distrettuale di disciplina per comportamenti contrastanti con i doveri dell’avvocato di lieve entità, anche quando emesso nella fase preliminare del procedimento disciplinare, attesa la sua funzione di vigilanza sulla condotta degli iscritti e di salvaguardia dell’osservanza e dell’effettività delle norme deontologiche ad esso affidata dalla legge professionale (Sez. U, n. 22426/2022, Giusti, Rv. 665194-01).

L’omessa pronuncia da parte del CNF sull’eccezione di prescrizione sollevata dall’incolpato non determina, di per sé, l’invalidazione della sentenza impugnata, trattandosi di eccezione rilevabile anche in sede di legittimità, e, comunque, di omissione alla quale può e deve rimediarsi in quest’ultima sede processuale (Sez. U, n. 12447/2022, Cosentino, Rv. 664747-01).

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai si segnalano le pronunce rese sulle fattispecie di illecito e in tema di giudizio di impugnazione.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, in merito alla condotta tenuta in ambito privato e pubblico, la S.C. ha ritenuto che la fattispecie di cui all’art. 147, comma 1, lett. a) della l. n. 89 del 2013 sia integrata ogniqualvolta il notaio pone in essere una condotta idonea a ledere la propria dignità e reputazione all’interno della collettività in cui opera e a compromettere il decoro e il prestigio della classe notarile, senza che rilevi la sfera privata o pubblica nella quale tale condotta si è estrinsecata, dal momento che egli non è solo un libero professionista, ma riveste anche la qualità di pubblico ufficiale a cui sono delegate funzioni pubbliche (Sez. 2, n. 28133/2022, Giannaccari, Rv. 665702-01 ha ritenuto integrato l’illecito nel caso dell’omesso versamento da parte del notaio delle imposte e dei contributi previdenziali ricadenti nell’ambito della propria sfera personale, trattandosi di condotta anomala per un pubblico ufficiale avente il compito di riscuotere le imposte indirette).

Il fatto che la compromissione del decoro e del prestigio della professione ex art. 147 lett. a), della legge n. 89 del 1913, sia stata causata da comportamenti che costituiscono a loro volta illeciti disciplinari tipizzati (nella specie, violazione dell’art. 80 della legge n. 89 del 1913, per avere il notaio percepito un compenso nella redazione di un atto costitutivo di società semplificata, attività che non consentiva di percepire alcun corrispettivo) non impedisce il concorso formale tra illeciti, essendo le norme sanzionatorie poste a presidio di beni giuridici distinti (Sez. 2, n. 04215/2022, Fortunato, Rv. 663825-01).

Sempre in tema di concorso tra condotte illecite, è stato chiarito che l’illecito disciplinare di cui all’art. 28 l. n. 89 del 1913 (che vieta al notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge) e la violazione dell’art. 42 del codice deontologico (che impone al notaio di proporre ai clienti la scelta negoziale più adeguata alle loro decisioni, di accertarne legalità e reciproca congruenza, di svolgere le attività preparatorie e di formare l’atto in modo da assicurare la sua completa efficacia e la stabilità del rapporto che ne deriva) non costituiscono due illeciti distinti, ma si pongono l’uno in rapporto di specialità rispetto all’altra, atteso che, in caso di ricezione di atto nullo, la condotta sanzionata dalla norma deontologica rientra già nella previsione della legge notarile (Sez. 2, n. 27181/2022, Tedesco, Rv. 665889-02).

Riguardo al trasferimento di diritti reali non di garanzia su immobili urbani e la dichiarazione richiesta dall’art. 19, comma 14, d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010, per gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi, Sez. 2, n. 27181/2022, Tedesco, Rv. 665889-01 ha ribadito che essa concerne la conformità allo stato di fatto non della sola planimetria dell’immobile, ma anche dei dati catastali, costituendo essi gli elementi oggettivi di riscontro delle caratteristiche patrimoniali del bene, rilevanti ai fini fiscali, sicché la sua omissione, stante la finalità pubblicistica di contrasto all’evasione fiscale perseguita dalla norma, determina la nullità assoluta dell’atto, da cui consegue la responsabilità disciplinare del notaio rogante, ai sensi dell’art. 28, comma 1, l. n. 89 del 1913, senza che rilevi, a questo fine, l’eventuale successiva conferma dell’atto, ove ritenuta ammissibile dal legislatore e, a fortiori, l’astratta possibilità di conferma del medesimo, essendo sufficiente la sola ricezione dell’atto vietato dalla legge (in senso conforme, Sez. 2, n. 8611/2014, Mazzacane, Rv. 630678-01).

Con riferimento all’attività del notaio e agli atti che è chiamato a compiere personalmente, è stato chiarito che il notaio è obbligato a svolgere di persona, in modo effettivo e sostanziale, tutte le attività necessarie per l’indagine sulla volontà delle parti, al fine di dirigere la compilazione dell’atto nel modo più congruente rispetto a tale accertamento, sicché è soggetto a sanzione disciplinare nel caso in cui, richiesto di stipulare un atto di liberalità, stipuli di fatto una compravendita con contestuale remissione del debito del prezzo da parte del venditore, senza avvertire le parti degli eventuali rischi in termini di stabilità dell’atto e di certezza giuridica degli effetti conseguiti (Sez. 2, n. 13857/2022, Besso Marcheis, Rv. 664626-01; Sez. 3, n. 7185/2022, Guizzi, Rv. 664244-01, in tema di responsabilità professionale, ha richiamato le clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., quali criteri determinativi ed integrativi della prestazione contrattuale, che impongono il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della parte).

Sul collegamento stabile del notaio con le agenzie immobiliari, il dovere generale di imparzialità del notaio è violato nel caso in cui il professionista faccia ricorso all’opera di un procacciatore che induca persone a favorirlo (beneficiando della relativa attività di mediazione), risultando in tal modo alterato il momento della libera scelta del notaio da parte dei clienti. Nella specie, Sez. 2, n. 03940/2022, Carrato, Rv. 663821-02 ha annullato la sentenza del giudice di merito che aveva escluso la violazione dell’indebito procacciamento di affari attraverso il collegamento del notaio con più agenzie immobiliari, atteso che dalle risultanze probatorie era emersa la violazione del principio di personalità della prestazione, avendo il notaio fatto ricorso a plurime agenzie immobiliari, deputate ad individuare potenziali clienti e sottoporre loro i preventivi redatti dal professionista.

In caso di errore di diritto, la responsabilità disciplinare dei notai è esclusa solo quando risulti incolpevole, ove l’assenza di colpa possa desumersi da elementi positivi estranei all’autore dell’infrazione, idonei ad ingenerare la convinzione della liceità della condotta, con la conseguenza che non può costituire un’esimente il fatto che una condotta, sebbene posta in essere in violazione diretta di una norma di legge, non fosse mai stata sanzionata prima di allora dall’autorità investita del potere disciplinare (Sez. 2, n. 04216/2022, Fortunato, Rv. 663826-01). Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza che aveva rigettato il reclamo avverso la sanzione disciplinare applicata ad un notaio che, nella redazione di numerosi atti di compravendita, aveva inserito la sola dichiarazione di conformità dello stato dei luoghi alle planimetrie, anziché la dichiarazione di conformità dello stato dei luoghi ai dati catastali e alle planimetrie, condotta contraria ad un precedente di legittimità e ad una norma di legge che prevede una nullità testuale.

Sull’istituto dell’oblazione in caso di infrazione “punibile con la sola sanzione pecuniaria”, l’art. 145 bis della l. n. 89 del 1913, introdotto dall’art. 28 del d.lgs. n. 249 del 2006, è stato ribadito che la fattispecie ha riguardo alla sanzione applicabile in astratto e non a quella applicata in concreto; pertanto, l’oblazione non è consentita per le infrazioni punibili con la sospensione, anche se per esse sia stata irrogata una sanzione pecuniaria a seguito della concessione delle attenuanti (Sez. 2, n. 28132/2022, Giannaccari, Rv. 665701-01; in senso conforme, Sez. 6-3, n. 4720/2012, Segreto, Rv. 622115-01).

4.2. Il giudizio di impugnazione.

In tema di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai, è stato ritenuto inammissibile, per difetto d’interesse, il ricorso in cassazione - avverso l’ordinanza di rigetto del reclamo presentato contro la sospensione cautelare inflitta dalla commissione regionale di disciplina - proposto successivamente all’irrogazione di una sospensione in sede disciplinare di merito per un periodo temporale minore rispetto al periodo della sospensione cautelare, atteso che il ricorrente non può conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile (Sez. 2, n. 14250/2022, Abete, Rv. 664687-01).

  • appalto pubblico
  • gara d'appalto

APPROFONDIMENTO TEMATICO

IL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI

(di Stefano Pepe )

Sommario

1 La legge delega n. 78 del 2022. - 2 Il nuovo codice degli appalti.

1. La legge delega n. 78 del 2022.

La disciplina in materia di appalti pubblici aveva la sua fonte che potremmo definire “primaria” nel d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici).

La definizione trova ragione nel fatto che su quella che è la disciplina di base degli appalti pubblici contenuta nel suindicato decreto legislativo, il legislatore è ripetutamente intervenuto negli ultimi anni con una disciplina “parallela” che ha la sua causa principale nell’esigenza di conseguire gli obiettivi posti ai singoli Stati a seguito della crisi pandemica del Covid-19 per i quali le norme contenute nel d.lgs. n. 50 del 2016 non risultavano confacenti. La disciplina in materia di appalti pubblici, infatti, è stata variamente innovata attraverso decreti legge - collegati all’emergenza pandemica ed al successivo Piano di ripresa e resilienza - che hanno introdotto norme di semplificazione della disciplina di cui al Codice del 2016 e che, dunque, ne hanno rilevato la non adeguatezza rispetto all’esigenza di concludere in termini celeri la realizzazione delle opere pubbliche.

In realtà, si può ragionevolmente affermare che la necessità di razionalizzare e semplificare i procedimenti in materia di contratti pubblici abbia trovato nella eccezionale situazione venutasi a creare dopo la crisi pandemica del Covid-19 solo un’occasione, assumendo all’uopo rilievo la legge delega n. 78 del 2022 (Delega al Governo in materia di contratti pubblici). Con essa il legislatore è intervenuto con l’intento di fornire una nuova ed organica disciplina in materia che, in sostituzione di quella derogatoria ed eccezionale introdotta dai diversi cennati decreti legge, fornisse una più adeguata e moderna risposta alle esigenze sottese ai contratti pubblici.

Il primo atto normativo di semplificazione delle norme di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 è il d.l. n. 18 del 2020, con il quale, in particolare, si sono autorizzate le pubbliche amministrazioni a provvedere all’acquisto di beni e servizi informatici e servizi di connettività mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara, nonché sono state previste condizioni di favore per l’acquisizione di forniture e servizi da parte delle aziende, agenzie e degli enti del Servizio sanitario nazionale.

Il d.l. n. 34 del 2020 ha, poi, disposto la possibilità di incrementare fino al 30% l’importo dell’anticipazione prevista dal Codice dei contratti a favore dell’appaltatore, nei limiti delle risorse stanziate per ogni singolo intervento a disposizione della stazione appaltante. Lo stesso testo normativo ha, poi, autorizzato gli enti locali a procedere al pagamento degli stati di avanzamento dei lavori per interventi di edilizia scolastica anche in deroga ai limiti fissati per gli stessi nell’ambito dei contratti di appalto.

Ulteriori disposizioni di semplificazione sono state introdotte con il d.l. n. 76 del 2020 (più noto come “decreto semplificazioni”) relative alle aggiudicazioni dei contratti sotto soglia, alle procedure per l’incentivazione degli investimenti pubblici, alla partecipazione in forma di raggruppamenti temporanei, alla semplificazione del sistema delle verifiche antimafia, ai casi di sospensione dell’esecuzione dell’opera pubblica, alla costituzione del collegio consultivo tecnico.

In continuità con tali norme si pone il d.l. n. 77 del 2021 (più noto come “decreto semplificazioni bis”), che ha introdotto modifiche in materia di dibattito pubblico, pari opportunità e inclusione lavorativa delle persone disabili nell’ambito delle procedure di gara, misure premiali di tutela della concorrenza nei contratti pubblici, affidamento dei contratti pubblici PNRR e PNC, disciplina del subappalto, fase esecutiva dei contratti, affidamento diretto o comunque semplificato di appalti pubblici sottosoglia, riduzione delle stazioni appaltanti, acquisti di beni e servizi informatici strumentali alla realizzazione del PNRR.

Infine, il d.l. n. 4 del 2022 ha reso obbligatorio l’inserimento nei documenti di gara delle clausole di revisione dei prezzi previste come facoltative dal Codice dei contratti.

Come detto tali testi normativi hanno posto in luce l’intento del legislatore di intervenire sulla disciplina dei contratti pubblici con lo scopo di introdurre semplificazioni e, dunque, di incentivare gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche e ciò, forse, nella consapevolezza che le previsioni di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 erano fin troppo analitiche ed estremamente rigide ed erano divenute ormai inadeguate rispetto alle fattispecie concrete, in quanto incapaci di adattarsi alla natura del contratto, sia per quanto attiene al momento della sua formazione, sia a quello della sua esecuzione. Ed invero, non pare possa porsi in dubbio l’affermazione secondo cui la disciplina del 2006 è risultata essere connotata da una certa diffidenza nei confronti dell’operatore privato ed orientata alla supremazia del committente pubblico, alla valorizzazione di procedure che si reggono su regole astratte ed omogenee che, di conseguenza, generano fasi di assegnazione ed esecuzione complesse e spesso contenziose.

I riportati decreti legge hanno posto il problema se la “disciplina d’urgenza” da essi introdotta dovesse intendersi quale meramente semplificatoria o derogatoria della “disciplina a regime” di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 o, meglio, se la pretesa giustificazione della decretazione d’urgenza avesse dato ingresso ad una disciplina che va oltre la ragione di tali interventi normativi, divenendo essa stessa “disciplina a regime”. Consegue da ciò, qualora si opti per la seconda soluzione, l’ulteriore questione se sia legittima l’introduzione di una nuova disciplina mediante lo strumento della decretazione d’urgenza e se, per effetto di tali decreti legge, siano venute meno le garanzie poste a presidio della correttezza degli stessi procedimenti. In sostanza il tema è se, al fine di perseguire l’obiettivo della semplificazione, per effetto di tale normazione si siano irrimediabilmente sacrificati gli altri interessi pubblici coinvolti in tali procedimenti per come disciplinati nel Codice del 2016.

Tali questioni perdono, invece, rilievo se si pensa che le disposizioni contenute nei decreti legge riportati, in ragione dell’emanazione della legge delega n. 78 del 2022, sono state sostituite da una nuova e generale disciplina sugli appalti pubblici.

Affermata la sostanziale continuità quanto alla ratio tra la decretazione d’urgenza e la legge delega n. 78 del 2022, occorre preliminarmente rilevare che quest’ultima prevedeva la costituzione, presso il Consiglio di Stato, di un’apposita Commissione che, come richiesto dal Governo, (ai sensi dell’art. 14 della legge istitutiva del Consiglio di Stato) formulerà il progetto del decreto legislativo sulla disciplina dei contratti pubblici che costituisce una riforma e un obiettivo del PNRR da conseguire entro il termine del 31 marzo 2023. L’obiettivo di tale riforma è, quindi, quello di costruire una normativa sui contratti pubblici snella ed efficace, in grado di sostenere la crescita del Paese e affrontare le sfide del PNRR.

In proposito l’art. 1 della l. n. 78 del 2022 indica quale obiettivo quello di adeguare la nuova disciplina «al diritto europeo e ai princìpi espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, interne e sovranazionali, e di razionalizzare, riordinare e semplificare la disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, nonché al fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione da parte della Commissione europea e di giungere alla risoluzione delle procedure avviate».

Il successivo comma 2 è destinato a indicare i criteri e i principi di delega e, dunque, l’obiettivo della riforma.

In particolare, alla lett. a) viene previsto il «perseguimento di obiettivi di stretta aderenza alle direttive europee, mediante l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione corrispondenti a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, ferma rimanendo l’inderogabilità delle misure a tutela del lavoro, della sicurezza, del contrasto al lavoro irregolare, della legalità e della trasparenza, al fine di assicurare l’apertura alla concorrenza e al confronto competitivo fra gli operatori dei mercati dei lavori, dei servizi e delle forniture, con particolare riferimento alle micro, piccole e medie imprese, tenendo conto delle specificità dei contratti nei settori speciali e nel settore dei beni culturali, anche con riferimento alla fase esecutiva, nonché di assicurare la riduzione e la razionalizzazione delle norme in materia di contratti pubblici, con ridefinizione del regime della disciplina secondaria, in relazione alle diverse tipologie di contratti pubblici, ove necessario».

Con tale principio il legislatore ha voluto perseguire gli obiettivi di stretta aderenza alle direttive europee mediante l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione corrispondenti a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse. Con tale previsione si intende limitare l’adeguamento alla normativa eurounitaria allo stretto necessario, ferma restando però l’inderogabilità di alcune misure sulle quali il legislatore delegante pone la massima attenzione e che per questo sono destinate a contrassegnare le norme che verranno introdotte nei decreti delegati: tutela del lavoro, della sicurezza, del contrasto al lavoro irregolare, della legalità e della trasparenza, al fine di assicurare l’apertura alla concorrenza e al confronto competitivo fra gli operatori con particolare riferimento alle micro, piccole e medie imprese, tenendo conto delle specificità dei contratti nei settori speciali e nel settore dei beni culturali.

Al successivo comma 2, lett. c) viene previsto che il Governo dovrà provvedere alla «ridefinizione e rafforzamento della disciplina in materia di qualificazione delle stazioni appaltanti, afferenti ai settori ordinari e ai settori speciali, al fine di conseguire la loro riduzione numerica, nonché l’accorpamento e la riorganizzazione delle stesse, anche mediante l’introduzione di incentivi all’utilizzo delle centrali di committenza e delle stazioni appaltanti ausiliarie per l’espletamento delle gare pubbliche; definizione delle modalità di monitoraggio dell’accorpamento e della riorganizzazione delle stazioni appaltanti; potenziamento della qualificazione e della specializzazione del personale operante nelle stazioni appaltanti, anche mediante la previsione di specifici percorsi di formazione, con particolare riferimento alle stazioni uniche appaltanti e alle centrali di committenza che operano a servizio degli enti locali».

La qualificazione e la specializzazione del personale presso le stazioni appalti – funzionale al corretto esercizio dei poteri ad essi demandati progettazione, affidamento e controllo in fase di esecuzione – e il loro accorpamento sono stati indicati quali criteri direttivi per il Governo in quanto la scarsa professionalizzazione delle stazioni appaltanti, la loro eccessiva parcellizzazione, l’ossessivo dettaglio dei criteri di valutazione della capacità tecnica – tale da rendere la gara una pura competizione sul prezzo, stante il dettaglio nei punteggi e la formalità dei requisiti – sono state individuate quali cause di una mancata ed adeguata risposta della disciplina degli appalti pubblici all’esigenza di realizzazione delle opere pubbliche. Ed invero, risulta di tutta evidenza che la progettazione inadeguata è causa di arresti e rallentamenti, incidendo essa sulla fase di esecuzione dell’appalto determinando errate valutazione dei costi, la necessità di approvazione di varianti in corso d’opera con conseguenti e possibili sviluppi patologici del rapporto contrattuale che possono portare al ricorso di tutele giurisdizionali.

La professionalità e la specializzazione delle stazioni appalti si pone, poi, come garanzia da possibili derive illecite dell’agire della pubblica amministrazione. Non vi è dubbio, infatti, che l’alta professionalità e competenza dei funzionari chiamati ad intervenire nel procedimento, si pone in rapporto inversamente proporzionale con la possibilità da parte dell’operatore privato di porre in essere condotte illecite. In sostanza, fenomeni corruttivi o fraudolenti trovano nella posizione di forza del funzionario pubblico, assunta in ragione delle sue qualità, un evidente freno.

Altro aspetto fondante la delega è quello che attiene alla semplificazione della disciplina applicabile ai contratti pubblici sottosoglia (lett. e), cui si connette la semplificazione delle procedure finalizzate alla realizzazione di investimenti in tecnologie verdi e digitali, in innovazione e ricerca e in innovazione sociale, con la previsione di misure volte a garantire il rispetto dei criteri di responsabilità energetica e ambientale nell’affidamento degli appalti e delle concessione, in particolare attraverso la definizione di criteri ambientali minimi e l’introduzione di sistemi di rendicontazione degli obiettivi energetico-ambientali (lett. f).

Sempre ai fini della semplificazione e al fine di individuare l’opera pubblica da realizzare è prevista la «revisione e semplificazione della normativa primaria in materia di programmazione, localizzazione delle opere pubbliche e dibattito pubblico, al fine di rendere le relative scelte maggiormente rispondenti ai fabbisogni della comunità, nonché di rendere più celeri e meno conflittuali le procedure finalizzate al raggiungimento dell’intesa fra i diversi livelli territoriali coinvolti nelle scelte stesse» (lett. o).

Alla lett. m) viene poi indicato quale criterio direttivo quello della «riduzione e certezza dei tempi relativi alle procedure di gara, alla stipula dei contratti, anche attraverso contratti-tipo predisposti dall’Autorità nazionale anticorruzione, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici relativamente ai contratti-tipo di lavori e servizi di ingegneria e architettura, e all’esecuzione degli appalti, anche attraverso la digitalizzazione e l’informatizzazione delle procedure, la piena attuazione della Banca dati nazionale dei contratti pubblici e del fascicolo virtuale dell’operatore economico (…) e la riduzione degli oneri documentali ed economici a carico dei soggetti partecipanti, nonché di quelli relativi al pagamento dei corrispettivi e degli acconti dovuti in favore degli operatori economici, in relazione all’adozione dello stato di avanzamento dei lavori e allo stato di svolgimento delle forniture e dei servizi». Ed ancora, (lett. aa) è prevista la «razionalizzazione, semplificazione, anche mediante la previsione di contratti-tipo e di bandi-tipo, ed estensione delle forme di partenariato pubblico-privato, con particolare riguardo alle concessioni di servizi, alla finanza di progetto e alla locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità, anche al fine di rendere tali procedure effettivamente attrattive per gli investitori professionali, oltre che per gli operatori del mercato delle opere pubbliche e dell’erogazione dei servizi resi in concessione, garantendo la trasparenza e la pubblicità degli atti».

Sempre con riferimento alla fase preliminare all’aggiudicazione vi sono la razionalizzazione e semplificazione delle cause di esclusione (lett. n), la previsione dei criteri premiali per l’aggregazione di impresa al fine di favorire la partecipazione da parte di micro e piccole imprese, nonché la possibilità di procedere alla suddivisione degli appalti in lotti sulla base di criteri qualitativi o quantitativi, con obbligo di motivare la decisione di non procedere a detta suddivisione e, infine, il divieto di accorpamento artificioso dei lotti (lett. d).

L’art. 1 comma 2, prevede, poi, la semplificazione delle procedure relative alla fase di approvazione dei progetti in materia di opere pubbliche, anche attraverso la ridefinizione dei livelli di progettazione ai fini di una loro riduzione, lo snellimento delle procedure di verifica e validazione dei progetti e la razionalizzazione della composizione e dell’attività del Consiglio superiore dei lavori pubblici (lett. q); nonché un forte incentivo al ricorso a procedure flessibili, quali il dialogo competitivo, il partenariato per l’innovazione, le procedure per l’affidamento di accordi quadro e le procedure competitive con negoziazione, per la stipula di contratti pubblici complessi e di lunga durata, garantendo il rispetto dei princìpi di trasparenza e di concorrenzialità (lett. z).

Il legislatore delegato ha inserito tra i principi e criteri direttivi delle clausole sociali volte ad assicurare il superamento delle disparità sociali. In proposito la lett. h) prevede, da un lato, la facoltà per le stazioni appaltanti di riservare il diritto di partecipazione alle procedure a operatori economici il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate e, dall’altro, l’obbligo di inserire nei bandi criteri orientati a garantire la stabilità occupazionale del personale impiegato e le stesse tutele economiche e normative per i lavoratori in subappalto rispetto ai dipendenti dell’appaltatore, garantire l’applicazione dei Ccnl di settore, promuovere meccanismi e strumenti anche di premialità per realizzare le pari opportunità generazionali, di genere e di inclusione lavorativa per le persone con disabilità o svantaggiate.

Tra gli altri principi e criteri direttivi si segnalano l’individuazione delle ipotesi in cui le stazioni appaltanti possono ricorrere ad automatismi nella valutazione delle offerte (lett. t).

Per quanto attiene alla fase dell’esecuzione del contratto, al fine di evitare contenziosi, viene previsto l’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e inviti, «un regime obbligatorio di revisione dei prezzi al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva e non prevedibili al momento della formulazione dell’offerta, compresa la variazione del costo derivante dal rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicabili in relazione all’oggetto dell’appalto e delle prestazioni da eseguire anche in maniera prevalente, stabilendo che gli eventuali oneri derivanti dal suddetto meccanismo di revisione dei prezzi siano a valere sulle risorse disponibili del quadro economico degli interventi e su eventuali altre risorse disponibili per la stazione appaltante da utilizzare nel rispetto delle procedure contabili di spesa» (lett. g).

Viene, poi, prevista la ridefinizione della disciplina delle varianti in corso d’opera, nei limiti previsti dall’ordinamento europeo, in relazione alla possibilità di modifica dei contratti durante la fase dell’esecuzione (lett. u). Alla successiva lettera hh) è, poi, inserito il principio volto «alla razionalizzazione della disciplina concernente i meccanismi sanzionatori e premiali finalizzati a incentivare la tempestiva esecuzione dei contratti pubblici da parte dell’aggiudicatario, anche al fine di estenderne l’ambito di applicazione». La successiva disposizione prevede, poi, la semplificazione e accelerazione delle procedure di pagamento da parte delle stazioni appaltanti del corrispettivo contrattuale, anche riducendo gli oneri amministrativi a carico delle imprese (lett. ii).

Le previsioni in esame pongono in rilievo il fatto che il legislatore delegato, a differenza di quanto avvenuto nei decreti legge del 2020, 2021 e 2022, è intervenuto anche nella fase dell’esecuzione dei contratti di appalto, con ciò ponendo in luce il l’interesse realizzativo quale principale fine dei contratti pubblici. Ed invero, l’avvio di opere pubbliche con la previsione di semplificate procedure di progettazione e assegnazione perderebbe di significato in assenza di una disciplina acceleratoria anche nella fase dell’esecuzione. Nello specifico il legislatore delegato ha indicato tra i principi direttivi quello della obbligatoria previsione nei bandi di gara, negli avvisi e inviti, di un regime di revisione dei prezzi che tenga conto di determinate circostanze e ciò al fine di consentire alle parti, sin dal momento di indizione della gara, di prendere cognizione delle eventuali variazioni dei prezzi applicabili al contratto di appalto. In sostanza, tale previsione - nel tener conto che la revisione prezzi si pone come istituto volto, da un lato, a valorizzare il principio della certezza ed il contenimento dei prezzi e, dall’altro, la sostenibilità economica della commessa con adattamento all’andamento reale dei prezzi – si pone lo scopo di accelerare o, meglio, di risolvere preventivamente eventuali questioni legate alla variazione dei prezzi in corso d’opera.

Le ulteriori disposizioni sono volte a prestare delle garanzie a favore dell’operatore privato al fine di evitare che lo stesso si trovi ingiustamente esposto a livello economico.

Infine, viene indicato quale ulteriore principio quello della «estensione e rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del contratto» (lett. ll). Anche tale previsione trova la sua ratio nella semplificazione in materia di appalti pubblici, ciò in quanto il ricorso all’Autorità giudiziaria al fine di risolvere le questioni nate dall’andamento anomalo del rapporto contrattuale è una delle cause che dissuade gli operati privati a partecipare alle gare, tenuto conto dei tempi dei relativi procedimenti.

Va a questo punto rilevato che l’attenzione del legislatore, per come sopra riportato, non poteva essere diretta solo al perseguimento di procedure più snelle nell’affidamento ed esecuzione degli appalti pubblici, dovendo esse tener conto dei principi fondamentali che connotano l’agire della pubblica amministrazione, nella specie quelli buon andamento, della trasparenza e imparzialità. Di essi si trova espressa manifestazione nella legge delega, mediante il richiamo al rispetto della normativa comunitaria e alla «inderogabilità delle misure a tutela del lavoro, della sicurezza, del contrasto al lavoro irregolare, della legalità e della trasparenza, al fine di assicurare l’apertura alla concorrenza e al confronto competitivo fra gli operatori dei mercati dei lavori, dei servizi e delle forniture, con particolare riferimento alle micro, piccole e medie imprese (…)» (art. 1, comma 2, lett. a). Nella stessa legge, poi, è prevista la «revisione delle competenze dell’Autorità nazionale anticorruzione in materia di contratti pubblici, al fine di rafforzarne le funzioni di vigilanza sul settore e di supporto alle stazioni appaltanti» (lett. b).

L’aspetto peculiare della disciplina dei contratti pubblici è dato, dunque, dalla necessità di bilanciare l’obiettivo della semplificazione, al fine di accelerare gli investimenti e la realizzazione di opere pubbliche, con il corretto agire della pubblica amministrazione. Ed invero, la semplificazione, intesa come accelerazione dei procedimenti amministrativi, è certamente da annoverare tra gli interessi pubblici che l’amministrazione è tenuta a perseguire, ma non è l’unico e non può svilire gli altri convolti la cui lesione o, peggio, annullamento comporta inevitabilmente un vulnus. La materia degli appalti vede, infatti, coinvolti diversi interessi pubblici - tra i quali quello della legalità e trasparenza del procedimento, della prevenzione di forme di illeciti, di tutela della concorrenza e delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, di tutela dell’ambiente – tutti presi in considerazione nella legge delega e il cui contemperamento troverà sede nel prossimo codice degli appalti, potendosi sin d’ora affermare che esso rappresenta, rispetto alla legislazione emergenziale che ha connotato i decreti legge sopra richiamati, lo strumento più idoneo per tale operazione.

2. Il nuovo codice degli appalti.

In attuazione dell’art. 1 della legge delega n. 78 del 2022, il Consiglio dei Ministri, il 16 dicembre 2022, ha approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo di riforma del Codice dei contratti pubblici.

Il nuovo Codice muove da due principi cardine, stabiliti nei primi due articoli:

- art. 1: il “principio del risultato” «(…) 3. Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Esso è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea. 4. Il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva». Il legislatore ha, dunque, posto in evidenza tale principio quale cardine della disciplina degli appalti pubblici in quanto espressione dell’interesse pubblico primario del Codice stesso e che riguarda l’affidamento del contratto e la sua esecuzione: Esse devono avvenire con la massima tempestività e il migliore rapporto tra qualità e prezzo nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza;

- art. 2 il “principio della fiducia” «1. L’attribuzione e l’esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici. 2. Il principio della fiducia favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato». Corollario di tale principio è la previsione secondo cui, ai fini della configurabilità della responsabilità amministrativa, «costituisce colpa grave esclusivamente la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto. Non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione che sia stata determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti». Tale disposizione, volta a limitare le ipotesi di illegittimità dell’agire del funzionario pubblico, appare espressione della volontà da parte del legislatore di limitare il fenomeno della cd “fuga dalla firma”.

Il testo normativo prevede, poi, tra gli altri, ulteriori principi (artt. da 3 a 11) tra i quali:

- il principio dell’accesso al mercato, volto ad assicurare l’accesso dei diversi operatori economici;

- i principi di buona fede e di tutela dell’affidamento nella procedura di gara, anche prima della aggiudicazione; precisandosi che «Nei casi in cui non spetta l’aggiudicazione, il danno da lesione dell’affidamento è limitato ai pregiudizi economici effettivamente subiti e provati, derivanti dall’interferenza del comportamento scorretto sulle scelte contrattuali dell’operatore economico»;

- il principio di auto-organizzazione amministrativa, volto a favorire, in presenza di determinate condizioni, quali l’economicità, l’esecuzione di lavori o la prestazione di beni e servizi attraverso l’auto-produzione, l’esternalizzazione e la cooperazione nel rispetto della disciplina del codice e del diritto dell’Unione, anche mediante affidamento diretto a società in house;

- il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale, secondo cui «Se sopravvengono circostanze straordinarie e imprevedibili, estranee alla normale alea, all’ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato e tali da alterare in maniera rilevante l’equilibrio originario del contratto, la parte svantaggiata, che non abbia volontariamente assunto il relativo rischio, ha diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali».

A fronte degli indicati principi, il nuovo testo del decreto sugli appalti pubblici ha introdotto le seguenti innovazioni.

La prima è la digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti, contenuta nella Parte II (artt. 19-36). Con tali disposizioni il legislatore ha inteso modernizzare tutto il sistema dei contratti pubblici e l’intero ciclo di vita dell’appalto. Il decreto definisce (art 31) un «ecosistema nazionale di approvvigionamento digitale» quello costituito dalle piattaforme e dai servizi digitali infrastrutturali abilitanti la gestione del ciclo di vita dei contratti pubblici, di cui all’articolo 23 e dalle piattaforme di approvvigionamento digitale utilizzate dalle stazioni appaltanti di cui all’articolo 25 i cui pilastri si individuano nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici, nel fascicolo virtuale dell’operatore economico (appena reso operativo dall’Autorità nazionale anti corruzione (ANAC)), nelle piattaforme di approvvigionamento digitale, nell’utilizzo di procedure automatizzate nel ciclo di vita dei contratti pubblici. In particolare, il decreto: realizza una digitalizzazione integrale in materia di accesso agli atti, in linea con lo svolgimento in modalità digitale delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici; riconosce espressamente a tutti i cittadini la possibilità di richiedere la documentazione di gara, nei limiti consentiti dall’ordinamento vigente, attraverso l’istituto dell’accesso civico generalizzato.

Una seconda innovazione è quella della programmazione alla quale viene dedicata la Parte III del testo normativo (artt. 37-40). In particolare, viene previsa la realizzazione di un programma triennale dei lavori pubblici da parte delle stazioni appaltanti, con tempi ridotti dei relativi procedimenti amministrativi (da 45 a 30 giorni per i pareri del Consiglio superiore dei lavori pubblici e da 60 a 45 giorni per la Conferenza dei Servizi) (art. 38) e, per quanto attiene alle infrastrutture strategiche e di preminente interesse nazionale (art. 39) è stabilito: l’inserimento dell’elenco delle opere prioritarie direttamente nel Documento di economia e finanza (DEF), a valle di un confronto tra Regioni e Governo; la riduzione dei termini per la progettazione; l’istituzione da parte del Consiglio superiore dei lavori pubblici di un comitato speciale appositamente dedicato all’esame di tali progetti; un meccanismo di superamento del dissenso qualificato nella Conferenza di Servizi mediante l’approvazione con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri; la valutazione in parallelo dell’interesse archeologico.

Una terza innovazione riguarda l’appalto integrato (art 44) «Negli appalti di lavori, con la decisione di contrarre, la stazione appaltante o l’ente concedente, se qualificati, può stabilire che il contratto abbia per oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori sulla base di un progetto di fattibilità tecnico-economica approvato. Tale facoltà non può essere esercitata per gli appalti di opere di manutenzione ordinaria». Il contratto potrà avere come oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori sulla base di un progetto di fattibilità tecnico-economica approvato. Sono esclusi gli appalti per opere di manutenzione ordinaria. Anche tale innovazione ha quale ratio quella di velocizzare la realizzazione dell’opera pubblica, concentrando in un’unica gara le fasi di progettazione ed esecuzione. In particolare, il legislatore, dopo la liberalizzazione per gli interventi PNRR, reintroduce tale contratto, fissando alcune limitazioni: una soglia (ancora da definire) sotto la quale non si potrà ricorrere all’appalto congiunto di progettazione ed esecuzione, e le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria a prescindere dall’importo. Viene anche previsto che nell’offerta si dovrà indicare «distintamente il corrispettivo richiesto per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori», e si impone il rispetto di requisiti prescritti per i progettisti agli operatori economici oppure di avvalersi di progettisti qualificati da indicare nell’offerta o ancora o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione».

Una quarta innovazione riguarda le procedure sotto la soglia europea (Libro II, Parte I). Con il decreto sono adottate stabilmente le soglie previste per l’affidamento diretto e per le procedure negoziate nel cosiddetto decreto “semplificazioni COVID-19” (decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76). Sono previste eccezioni, con applicazione delle procedure ordinarie previste per il sopra-soglia, per l’affidamento dei contratti che presentino interesse transfrontaliero certo. Viene inoltre stabilito il principio di rotazione secondo cui, in caso di procedura negoziata, è vietato procedere direttamente all’assegnazione di un appalto nei confronti del contraente uscente. In tutti gli affidamenti di contratti sotto-soglia sono esclusi i termini dilatori, sia di natura procedimentale che processuale.

Una quinta innovazione è quella che attiene alla introduzione del general contractor. Con questi contratti, l’operatore economico «è tenuto a perseguire un risultato amministrativo mediante le prestazioni professionali e specialistiche previste, in cambio di un corrispettivo determinato in relazione al risultato ottenuto e alla attività normalmente necessaria per ottenerlo». È da sottolineare che l’attività anche di matrice pubblicistica da parte del contraente generale (per esempio quella di espropriazione delle aree) consente di riconoscere nell’istituto una delle principali manifestazioni applicative della collaborazione tra la pubblica amministrazione e gli operatori privati nello svolgimento di attività d’interesse generale.

Per quanto attiene al partenariato pubblico-privato è resa più agevole la partecipazione degli investitori istituzionali alle gare per l’affidamento di progetti di partenariato pubblico-privato (PPP). Sono previste ulteriori garanzie a favore dei finanziatori dei contratti e si conferma il diritto di prelazione per il promotore. Viene, poi, prevista una maggiore flessibilità e una più marcata peculiarità per i cosiddetti “settori speciali”, in coerenza con la natura essenziale dei servizi pubblici gestiti dagli enti aggiudicatori (acqua, energia, trasporti, ecc.). Viene introdotto un elenco di “poteri di autorganizzazione” riconosciuti alle imprese pubbliche e ai privati titolari di diritti speciali o esclusivi. Le stazioni appaltanti potranno determinare le dimensioni dell’oggetto dell’appalto e dei lotti in cui eventualmente suddividerlo, senza obbligo di motivazione aggravata.

In tema di subappalto, viene reintrodotto il cosiddetto subappalto a cascata, adeguandolo alla normativa e alla giurisprudenza europea attraverso la previsione di criteri di valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante, da esercitarsi caso per caso.

Con riferimento alle concessioni, viene previsto per i concessionari scelti senza gara, l’obbligo di appaltare a terzi una parte compresa tra il 50 e il 60 per cento dei lavori, dei servizi e delle forniture. L’obbligo non vale per i settori speciali (ferrovie, aeroporti, gas, luce).

Quanto alla revisione dei prezzi, è confermato l’obbligo di inserimento delle clausole di revisione prezzi al verificarsi di una variazione del costo superiore alla soglia del 5 per cento, con il riconoscimento in favore dell’impresa dell’80 per cento del maggior costo.

Con riferimento alla fase dell’esecuzione, è prevista la facoltà per l’appaltatore di richiedere, prima della conclusione del contratto, la sostituzione della cauzione o della garanzia fideiussoria con ritenute di garanzia sugli stati di avanzamento. In caso di liquidazione giudiziale dell’operatore economico dopo l’aggiudicazione, non ci sarà automaticamente la decadenza, ma il contratto potrà essere stipulato col curatore autorizzato all’esercizio dell’impresa, previa autorizzazione del giudice delegato. Infine, l’art. 120 amplia al comma 7 la possibilità di apportare modifiche non sostanziali” in due casi: 1) nel caso in cui «si assicurino risparmi, rispetto alle previsioni iniziali, da utilizzare in compensazione per far fronte alle variazioni in aumento dei costi delle lavorazioni»; 2) nel caso in cui «si realizzino soluzioni equivalenti o migliorative in termini economici, tecnici o di tempi di ultimazione dell’opera». Il comma 9 prevede, poi, che «Nei documenti di gara iniziali può essere stabilito che, qualora in corso di esecuzione si renda necessario un aumento o una diminuzione delle prestazioni fino a concorrenza del quinto dell’importo del contratto, la stazione appaltante possa imporre all’appaltatore l’esecuzione alle condizioni originariamente previste. In tal caso l’appaltatore non può fare valere il diritto alla risoluzione del contratto».

Per quanto attiene ad eventuali risvolti contenziosi del contratto di appalto, allo scopo di fugare la cosiddetta “paura della firma”, è stabilito che, ai fini della responsabilità amministrativa, non costituisce “colpa grave” la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti. Il decreto provvede a riordinare le competenze dell’ANAC, in attuazione del criterio contenuto nella legge delega, con un rafforzamento delle funzioni di vigilanza e sanzionatorie. In merito ai procedimenti dinnanzi alla giustizia amministrativa, il giudice può riconoscere anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell’operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo. Si applica l’arbitrato anche alle controversie relative ai “contratti” in cui siano coinvolti tali operatori.

Il testo del nuovo codice sarà oggetto di esame parlamentare e la sua applicazione è prevista per tutti i nuovi procedimenti a partire dal 1° aprile 2023. Dal 1° luglio 2023 è prevista l’abrogazione del Codice precedente (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50) e l’applicazione delle nuove norme anche a tutti i procedimenti già in corso.