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CAPITOLO I

LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL GIUDICATO NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

(di Francesco Graziano )

Sommario

1 Il coordinamento degli artt. 329, comma 2, e 336 c.p.c. - 2 L’effetto espansivo interno del giudicato. - 3 La formazione del giudicato rispetto alle pronunce implicite. - 4 Impugnazioni e preclusioni.

1. Il coordinamento degli artt. 329, comma 2, e 336 c.p.c.

L’individuazione dei criteri che regolano la formazione del giudicato a seguito della impugnazione parziale della sentenza e della conseguente acquiescenza tacita rispetto alle parti non impugnate costituisce un tema problematico sul quale, anche nell’anno di riferimento, la Corte di cassazione è intervenuta più volte.

Vi è, innanzitutto, la questione del coordinamento tra l’art. 329, comma 2, c.p.c. e l’art. 336 c.p.c. La prima disposizione disciplina l’istituto dell’acquiescenza tacita cd. qualificata, stabilendo che l’impugnazione parziale della sentenza importa acquiescenza alle parti di essa non impugnate. In tal modo il legislatore, attraverso una presunzione che opera a prescindere dalla volontà del soggetto acquiescente, ricollega alla impugnazione di una parte soltanto della decisione l’effetto di accettazione delle altre parti e il conseguente passaggio in giudicato formale delle medesime. Tale effetto, tuttavia, può verificarsi, solo in quanto le parti non impugnate siano indipendenti e scindibili rispetto a quelle impugnate.

E infatti, l’art. 336 c.p.c. dispone che la riforma o cassazione parziale hanno effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti da quelle riformate o cassate (cd. effetto espansivo interno dell’impugnazione), rispetto alle quali, dunque, l’impugnazione parziale non determina acquiescenza.

Un primo problema attiene alla individuazione delle ipotesi in cui si verifica l’acquiescenza cui si riferisce l’art. 329 c.p.c..

In linea generale Sez. 5, n. 34539/2021, Succio, Rv. 663032-01 ha ribadito che l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c., consiste nell’accettazione della sentenza, e cioè nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare. Tale volontà può essere manifestata sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. La pronuncia richiamata ha altresì ribadito che l’acquiescenza è configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame in quanto successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge (in senso conforme si era espressa, in precedenza, Sez. 2, n. 02670/2020, Abete, Rv. 657090-01).

La S.C. ha altresì precisato che l’acquiescenza costituisce atto dispositivo del diritto di impugnazione e, quindi, indirettamente, del diritto fatto valere in giudizio. Pertanto, la relativa manifestazione di volontà, oltre ad essere inequivoca, deve necessariamente provenire dal soggetto che di detto diritto possa disporre o dal procuratore munito di mandato speciale (Sez. 2, n. 21267/2020, Criscuolo, Rv. 659365-01; Sez. 3, n. 12615/2017, De Stefano, Rv. 644402-01).

La previsione dell’art. 329, comma 2, c.p.c. presuppone, inoltre, che le parti della sentenza non siano collegate da un nesso per il quale l’impugnazione della parte principale, se accolta, comporti l’automatico e necessario venir meno di altre parti; il principio enunciato dalla disposizione citata, infatti, può valere solo per i capi che siano autonomi e indipendenti da quello impugnato (Sez. U, n. 21691/2016, Curzio, Rv. 641723-02 e, più di recente, Sez. 2, n. 12649/2020, Giannaccari, Rv. 658277-01).

Nel corso del 2021, tale principio è stato riaffermato da Sez. L., n. 32179/2021, Spena, Rv. 662691-01 con riguardo ai rapporti tra la statuizione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato e le statuizioni consequenziali laddove si è affermato che l’impugnazione rivolta contro il capo della sentenza relativo all’illegittimità dell’apposizione del termine impedisce la formazione del giudicato interno anche sui capi, legati al primo da un nesso di pregiudizialità-dipendenza, concernenti le conseguenze risarcitorie, mentre non vale l’inverso. Pertanto, si è ritenuto che, qualora la sentenza sia impugnata solo rispetto a uno dei capi inerenti alla domanda di risarcimento del danno, si deve ritenere che sia intervenuta acquiescenza su quello principale.

Sempre con riguardo all’individuazione delle ipotesi in cui si verifica l’acquiescenza cui si riferisce l’art. 329 c.p.c., si è da ultimo affermato che, ove nel giudizio venga formulata in via principale domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. ed, in via subordinata, domanda diretta al conseguimento della condanna alla restituzione del doppio della caparra versata, la richiesta alla controparte del versamento della somma di cui alla condanna, in caso di rigetto della domanda principale ed accoglimento di quella subordinata, costituisce acquiescenza tacita nei confronti del capo di sentenza relativo alla domanda principale, atteso che l’acquiescenza può essere espressa o tacita, estrinsecandosi in atti incompatibili con la volontà di impugnare (Sez. 6-2, n. 28627/2022, Besso Marcheis, Rv. 665972-01), in relazione ad una fattispecie in cui, all’esito della sentenza d’appello che aveva rigettato la domanda principale ex art. 2932 c.c. per non essere stati prodotti la documentazione ipotecaria e il certificato di destinazione d’uso del terreno, il ricorrente aveva chiesto, con atto stragiudiziale scritto, alle controparti, di eseguire la parte della sentenza di secondo grado che le condannava alla restituzione delle somme versate).

Nel corso dell’anno 2022, l’acquiescenza ha formato oggetto anche di un’interessante pronuncia in tema di intervento volontario, con la quale è stato affermato che ove l’interventore, pur essendo (asseritamente) titolare di un proprio autonomo diritto, lo faccia valere non già in via autonoma - cioè sollecitando una pronuncia che abbia ad oggetto quel diritto e che sia emessa nei suoi confronti - bensì quale interesse che lo legittima a sostenere le ragioni di una delle parti, la sua posizione va qualificata alla stregua di interventore adesivo dipendente cosicché, in caso di acquiescenza alla sentenza prestata dalla parte adiuvata, egli non può proporre alcuna autonoma impugnazione, né in via principale nè in via incidentale, salvo che essa sia limitata a questioni attinenti alla qualificazione dell’intervento o alla condanna alle spese (Sez. 2, n. 22972/2022, Grasso, Rv. 665253-01), con cui la S.C. ha dichiarato inammissibile, nell’inerzia delle parti, l’appello proposto da soggetto diverso dal proprietario o dal titolare di diritto reale di godimento sui fondi dominante e servente nell’ambito di un’azione “negatoria servitutis”, in quanto volto esclusivamente a sostenere le ragioni di una delle due parti).

Infine, sempre in punto di profili soggettivi dell’acquiescenza, Sez. 3, n. 18423/2022, Rossetti, Rv. 665022-01, ha chiarito che, nel caso in cui l’eccezione di incompetenza per territorio, sollevata da uno soltanto dei litisconsorti facoltativi, sia rigettata in primo grado e in grado di appello la relativa statuizione venga impugnata soltanto da colui che aveva sollevato l’eccezione, il nuovo rigetto di quest’ultima non può essere impugnato per cassazione da coloro che, in secondo grado, non avevano impugnato la sentenza di primo grado sulla questione di competenza, ostandovi l’art. 329 c.p.c..

2. L’effetto espansivo interno del giudicato.

La previsione dell’art. 336 c.p.c. – a mente del quale «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata» – rende necessario stabilire cosa debba intendersi per «parte dipendente» della sentenza.

La portata di tale previsione ha costituito oggetto di specifica analisi da parte di Sez. L., n. 05550/2021, Cavallaro, Rv. 660830-01, la quale (ponendosi in linea di continuità con Sez. 3, n. 23985/2019, Graziosi, Rv. 655106-01) ha affermato che l’effetto espansivo interno previsto dall’art. 336 c.p.c. presuppone un nesso di pregiudizialità - dipendenza tale per cui la parte della sentenza che viene riformata o cassata costituisce il presupposto della parte non riformata o cassata, di tal che «la decisione su quest’ultima non sarebbe stata possibile se il giudice avesse deciso correttamente (cioè nel senso fatto proprio dalla pronuncia che ha accolto il gravame) la parte riformata o cassata». Pur riconoscendo che tale principio, in quanto costituisce un’eccezione alla regola della formazione del giudicato in mancanza di impugnazione, deve applicarsi in modo rigoroso, la S.C. ha affermato che esso, tuttavia, deve trovare applicazione a fronte di una statuizione capace di assorbire anche la statuizione non impugnata la quale non potrebbe reggersi da sola ove la prima sia stata riformata o cassata. Si è altresì precisato che un tale nesso non potrebbe ritenersi spezzato nel caso in cui i capi dipendenti siano stati impugnati e l’impugnazione sia stata rigettata (come ritenuto in passato dalla stessa Corte), in quanto ciò contrasta irrimediabilmente con il principio pacifico secondo cui «un giudicato parziale è configurabile soltanto nelle situazioni in cui il capo di sentenza non impugnato sia indipendente da quelli impugnati, occorrendo a tal fine stabilire se tra le statuizioni, rispettivamente impugnate e non, intercorra o meno un rapporto di implicazione necessaria che le renda o meno logicamente dipendenti l’una dall’altra».

Sulla scorta di tali considerazioni la richiamata pronuncia ha ritenuto che il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., comma 1, c.p.c. trovi applicazione «rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente ma necessariamente dipendenti da un altro capo che sia stato impugnato, ivi compresi quei capi che abbiano formato oggetto di impugnazione quando questa sia stata rigettata, non potendo il nesso di pregiudizialità - dipendenza tra gli uni e gli altri essere escluso dalla decisione sfavorevole sul gravame che abbia riguardato i capi dipendenti».

Secondo Sez. 1, n. 10112/2021, Mercolino, Rv. 661267-01, la previsione recata dall’art. 336 c.p.c. comporta che la riforma, da parte del giudice d’appello, della pronuncia di condanna determina la caducazione di quella avente ad oggetto la liquidazione del danno soltanto nel caso in cui faccia venir meno ogni fondamento di quest’ultima. Pertanto, qualora la condanna al risarcimento sia confermata, anche per una ragione diversa da quella posta a fondamento della pronuncia riformata, non si verifica automaticamente la caducazione della statuizione relativa alla liquidazione del danno. Quest’ultima deve costituire oggetto di autonoma impugnazione, in mancanza della quale la relativa questione non può essere sollevata in sede di legittimità, risultando definitivamente preclusa dal giudicato interno formatosi in ordine alla misura del risarcimento.

Sez. 5, n. 39817/2021, Pirari, Rv. 663211-01 ha fatto applicazione del principio in materia tributaria con riguardo all’ipotesi di redditi tassati secondo il regime di trasparenza, nel caso di sentenza che abbia dichiarato la parziale invalidità della rettifica operata nei confronti della società di persone, l’unicità del fatto costitutivo della pretesa impositiva si sostanzia nel rapporto di diretta derivazione della rettifica dei redditi dei soci ai fini Irpef dalla rideterminazione di quelli della società di persone, che ne costituisce il presupposto.

Pertanto, l’annullamento dell’atto impositivo relativo alla società produce i suoi effetti, ai sensi dell’art. 336, comma 1, c.p.c. anche sulle parti della sentenza che riguardano l’avviso di accertamento emesso nei confronti dei soci (cd. effetto espansivo interno della riforma o della cassazione), siccome da esso dipendenti, anche quando questo sia definitivo per essere ormai decorso il termine di decadenza di cui all’art. 14, comma 6, d.lgs. n. 546 del 1992, ovvero per non essere stati autonomamente impugnati i capi della pronuncia che lo riguardano ovvero per essere stato questo confermato con sentenza passata in giudicato.

Di analogo tenore Sez. 6-5, n. 40844/2021, Lo Sardo, Rv. 663384-01, la quale ha ribadito che nel caso di impugnazione parziale, l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate si verifica solo quando le diverse parti siano del tutto autonome l’una dall’altra e non anche quando la parte non impugnata si ponga in nesso consequenziale con l’altra e trovi in essa il suo presupposto. Per tale ragione, nel caso di un unico giudizio per la contestuale impugnazione degli atti impositivi nei confronti della società e dei soci, il gravame interposto sul capo della sentenza che attiene alla società si estende anche al capo della sentenza che attiene ai soci, dal momento che il passaggio in giudicato non può che essere unitario per la pregiudizialità del primo sul secondo; ne consegue che, stante il disposto dell’art. 329, comma 2, c.p.c. la sola impugnazione del capo relativo all’annullamento dell’atto impositivo emesso nei confronti della società non consente la formazione del giudicato interno sul capo relativo all’annullamento degli atti impositivi emessi nei confronti dei soci, dal momento che rispetto ad esso non si può ravvisare acquiescenza parziale tacita per la stretta ed indissolubile dipendenza dalla definitività della relativa decisione.

Nell’anno in rassegna, Sez. 6-2, n. 03805/2022, Criscuolo, Rv. 663967-01, ha fatto concreta applicazione dei principi già sopra evidenziati, in punto di spese di lite, affermando che la riforma della sentenza non definitiva comporta, ai sensi dell’art. 336, comma 2, c.p.c., la caducazione della statuizione in tema di spese contenuta nella sentenza definitiva non impugnata allorquando tale decisione sia basata sulla soccombenza relativa al contenuto della sentenza non definitiva.

Sez. 2, n. 04522/2022, Cosentino, Rv. 663830-02, in materia di sanzioni amministrative ha chiarito che le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del “favor rei” devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione; né tale conclusione contrasta con i principi in materia di rapporto fra “ius superveniens” e cosa giudicata, perché la statuizione sulla misura della sanzione è dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del sanzionato e pertanto, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., è destinata ad essere travolta dall’eventuale caducazione di quest’ultima, cosicché essa non può passare in giudicato fino a quando l’accertamento della responsabilità del sanzionato non sia a propria volta passata in giudicato.

Ancora in punto di sentenze non definitive, Sez. 1, n. 22623/2022, Caiazzo, Rv. 665521-01, ha affermato che la cassazione della sentenza non definitiva che abbia deciso circa l’”an debeatur”, comporta la caducazione, ai sensi dell’art. 336, comma 2 c.p.c., anche della sentenza definitiva sul “quantum debeatur”, con la conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione avverso quest’ultima, per cessazione della materia del contendere oggetto del ricorso stesso. Ove però quella cassazione sia stata parziale, in quanto concernente soltanto alcune statuizioni della sentenza non definitiva sull’”an debeatur”, la caducazione della pronuncia definitiva riguarderà unicamente le parti dipendenti dalla sentenza cassata. In entrambe tali ipotesi, compete alla stessa Corte di cassazione, investita del ricorso contro la sentenza definitiva, e non al giudice del rinvio, l’accertamento diretto del nesso di dipendenza, totale o parziale, della sentenza definitiva impugnata rispetto alla sentenza non definitiva cassata, trattandosi di accertamento relativo ad un “error in procedendo”, in ordine al quale la cognizione della corte è estesa anche al fatto.

In tema di prestazioni assistenziali, Sez. L, n. 29034/2022, Calafiore, Rv. 665774-01, ha precisato come l’indennità di accompagnamento erogata sulla base di sentenza provvisoriamente esecutiva non passata in giudicato e poi riformata in sede di impugnazione, sia ripetibile alla stregua delle disposizioni generali sull’indebito civile, poiché, stante il definitivo accertamento dell’insussistenza del diritto ad ottenere la somma originaria, l’obbligo di restituzione è fondato sull’art. 336, comma 2, c.p.c., con correlativo assoggettamento del percettore dell’indebito all’obbligo di sopportare il rischio dell’attuazione della tutela giurisdizionale invocata, sicché, ricorrendo un’ipotesi di mancanza radicale “ab origine” di tutti i requisiti per il riconoscimento della predetta indennità, non è possibile ipotizzare una sua ignoranza incolpevole.

Infine, sempre con riguardo alla domanda restitutoria delle somme pagate in esecuzione di una pronuncia di condanna caducata ex art. 336, comma 2, c.p.c., Sez. 6-3, n. 27943/2022, Scrima, Rv. 665976-02, ha ribadito il principio secondo cui essa è proponibile in separato giudizio e al suo accoglimento non osta l’erronea qualificazione giuridica operata dall’attore, competendo al giudice il potere-dovere di effettuare autonomamente tale qualificazione nei limiti dei fatti dedotti, senza che si possa configurare un giudicato ostativo in ordine alla qualificazione operata dal primo giudice, ove non consti che essa abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito.

3. La formazione del giudicato rispetto alle pronunce implicite.

Problematica è l’operatività dell’acquiescenza rispetto alle parti della sentenza contenenti pronunce implicite.

Tra queste, particolare rilievo ha avuto la questione concernente la giurisdizione allorché il giudice non si sia espressamente pronunciato in proposito e la parte appellante non abbia formulato al riguardo alcuna specifica doglianza.

A partire da Sez. U, n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la Corte, discostandosi dal precedente orientamento, con riguardo alla rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, del difetto di giurisdizione, ha affermato che soltanto qualora sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, operando la relativa preclusione anche in sede di legittimità. Si è altresì precisato che il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte in cui la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengono statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo alla ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Tale interpretazione è stata costantemente ribadita dalla successiva giurisprudenza di legittimità e, nel 2022, da Sez. L, n. 10745/2022, Cavallaro, Rv. 664334-01, la quale, pronunciandosi in tema di prestazioni previdenziali e assistenziali, ha affermato che l’improponibilità della domanda giudiziaria derivante dalla mancata presentazione della domanda amministrativa all’ente previdenziale determina una temporanea carenza di giurisdizione, la quale, tuttavia, non è assimilabile al difetto assoluto di giurisdizione di cui agli artt. 37 e 382, comma 3, c.p.c., che si ha solo quando la situazione dedotta in giudizio resti al di fuori del campo giuridico per difetto di una norma o di un principio dell’ordinamento che la tuteli e non sia, quindi, neppure in astratto configurabile come diritto soggettivo o come interesse legittimo. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto precluso l’esame della questione di giurisdizione, essendo intervenuto il giudicato implicito sulla statuizione del primo giudice che, dichiarando improponibile la domanda per difetto di presentazione della domanda amministrativa, aveva implicitamente affermato la propria cognizione sul merito.

Sez. 2, n. 24915/2022, Rolfi, Rv. 665584-01, ha, invece, affermato il principio secondo il quale in tema di giudicato, deve essere esclusa la riconducibilità della domanda restitutoria nell’ambito del “deducibile” connesso all’azione di risoluzione del contratto, in quanto l’effetto restitutorio non può ritenersi implicito nella domanda di risoluzione, con la conseguenza che la predetta risoluzione, pur comportando, per l’effetto retroattivo sancito dall’art. 1458 c.c., l’obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell’altro contraente, rientrando nell’autonomia delle parti disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo o meno, anche in un successivo e separato giudizio, la restituzione della prestazione rimasta senza causa.

In materia di pensione d’inabilità o di assegno d’invalidità, rispettivamente previsti, a favore degli invalidi civili (totali o parziali) dagli artt. 12 e 13 della l. n. 118 del 1971, Sez. L, n. 30250/2022, Buffa, Rv. 665835-01, ha chiarito che il cosiddetto requisito economico ed il requisito dell’incollocazione integrano (diversamente da quello reddituale per le prestazioni pensionistiche dell’I.N.P.S.) un elemento costitutivo della pretesa, la cui mancanza è deducibile o rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio. Tale deducibilità o rilevabilità d’ufficio è, peraltro, da rapportare alle preclusioni determinatesi nel processo e, in particolare, a quella derivante dal giudicato interno formatosi - ove il giudice di primo grado abbia accolto la domanda all’esito della verifica del solo requisito sanitario - per effetto della mancata impugnazione della decisione implicita (siccome relativa ad un indispensabile premessa o presupposto logico-giuridico della pronuncia) in ordine all’esistenza del requisito economico; per converso, ove il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda (senza alcuna pronuncia sul requisito economico) e l’interessato abbia appellato in ordine all’esclusione della sussistenza del requisito sanitario, la carenza del requisito economico è deducibile o rilevabile per la prima volta anche in appello ed è censurabile, con ricorso per cassazione, la decisione - espressa o implicita - in ordine alla sussistenza dello stesso requisito economico o dell’incollocazione, deducendo, con riguardo al caso di decisione implicita, il vizio di omesso esame di un punto decisivo.

Secondo Sez. 3, n. 30728/2022, Scoditti, Rv. 666050-01, il giudicato interno non si determina sul fatto ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame. In particolare, con tale pronuncia la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, a seguito dell’impugnazione della statuizione relativa all’applicazione della regola residuale di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., aveva concluso - sulla base di un diverso giudizio di fatto - nel senso della mancata dimostrazione del coinvolgimento di una delle due vetture nel sinistro, ciononostante confermando la sentenza di primo grado per mancanza di appello incidentale.

Quanto alla sequenza fatto-norma-effetto, si è espressa anche Sez. L, n. 28565/2022, Calafiore, Rv. 665765-01, secondo cui, a seguito dell’impugnazione della sentenza d’appello per violazione della disciplina sulla sospensione della prescrizione (nella specie, con riguardo all’occultamento doloso del debito contributivo, ai sensi dell’art. 2941, comma 1, n. 8, c.c.), l’intera fattispecie della prescrizione, anche con riguardo alla decorrenza del “dies a quo”, rimane “sub iudice” e rientra, pertanto, nei poteri del giudice di legittimità valutare d’ufficio, sulla scorta degli elementi ritualmente acquisiti, la corretta individuazione del termine iniziale di decorrenza, in quanto aspetto logicamente preliminare rispetto alla sospensione dedotta con il ricorso; inoltre, la mancata proposizione di specifiche censure non determina la formazione del giudicato interno su tale “dies a quo” (nella specie, in tema di contributi, differito dal d.P.C.M. 10 giugno 2010, in applicazione dell’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 241 del 1997), in quanto il giudicato, destinato a formarsi su un’unità minima di decisione che ricollega a un fatto, qualificato da una norma, un determinato effetto, investe la statuizione che dichiara prescritto un diritto e non le mere affermazioni, inidonee a costituire una decisione autonoma, sui singoli elementi della fattispecie estintiva, come la decorrenza del “dies a quo”.

Sempre in tema di prescrizione risulta, infine, Sez. 2, n. 24488/2022, Trapuzzano, Rv. 665391-01, secondo cui la proposizione dell’appello in ordine alla sola statuizione sulla prescrizione non determina la formazione del giudicato interno sulla spettanza del diritto, in astratto riconosciuta in primo grado, se l’esame della questione sulla prescrizione non sia limitato all’identificazione del “dies a quo” o all’esistenza di cause interruttive, ma involga la qualificazione del diritto stesso.». Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la sentenza che, a fronte della impugnazione del solo capo relativo alla prescrizione della domanda di risoluzione, si era pronunciata anche sulla integrazione di un inadempimento di lieve importanza così sovvertendo le conclusioni cui era pervenuto il giudice di prime cure.

Con riguardo alla giurisdizione del giudice italiano, Sez. 1, n. 36113/2022, Terrusi, Rv. 666255-01, ha affermato che, in tema di concorrenza sleale, la competenza giurisdizionale del giudice italiano che sia stata affermata (anche solo implicitamente) con decisione passata in giudicato si estende anche alle condotte lesive che si siano verificate al di fuori del territorio dello Stato; in tali ipotesi, l’accertamento presuppone l’applicazione delle norme repressive nazionali in base alla persistente operatività delle regole di diritto internazionale privato proprie della legislazione della parte che ha dichiarato di aver subito il danno, essendo l’illecito concorrenziale sussumibile nel più ampio alveo della responsabilità extracontrattuale che, a livello di diritto internazionale privato, è regolata dalla legge dello Stato in cui l’evento dannoso si è verificato.

4. Impugnazioni e preclusioni.

La formazione del giudicato è incisa anche dalle preclusioni che maturano nel giudizio di impugnazione, conseguenti all’onere imposto alle parti dagli artt. 329, 342, 346 e 360 c.p.c. di coltivare le questioni.

E infatti, quando con la sentenza di primo grado venga respinta un’eccezione di giudicato esterno e avverso tale capo di sentenza non venga proposta impugnazione, o il giudice ometta di pronunciare sulla eccezione di giudicato esterno e tale eccezione non venga riproposta in appello, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., Sez. 2, n. 38243/2021, Falaschi, Rv. 663161-01 ha ritenuto che, in applicazione dei principi sui limiti devolutivi dell’appello e sul giudicato interno, l’eccezione deve ritenersi rinunciata e sul relativo capo si forma il giudicato parziale interno, con la conseguenza che l’eccezione, quand’anche fosse da ritenersi rilevabile d’ufficio, è definitivamente preclusa.

Sez. 5, n. 20315/2021, Succio, Rv. 661888-01 (richiamando i principi affermati da Sez. U, 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01) ha stabilito che la parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito per rigetto (espresso od implicito), o per omesso esame della stessa deve spiegare appello incidentale per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza teorica. Infatti, non può limitarsi alla mera riproposizione di detta questione, che è sufficiente nei soli casi in cui non vi è la necessità di sollevare una critica nei confronti della sentenza impugnata, ovvero nelle ipotesi di legittimo assorbimento. In applicazione del principio enunciato, la S.C. ha ritenuto che, in assenza di appello incidentale sul punto, si fosse formato già in appello il giudicato interno sulla questione relativa all’inutilizzabilità di alcuni documenti, eccepita in primo grado, poiché il giudice l’aveva implicitamente respinta, ritenendo nel merito che tali documenti non costituissero prova idonea.

Analogamente, secondo Sez. 2, n. 26850/2022, Falaschi, Rv. 665886-01, nel caso in cui l’attore in primo grado abbia ottenuto il rigetto nel merito dell’avversa domanda riconvenzionale, sulla cui inammissibilità per tardività, pure eccepita, il giudice non si sia pronunciato, la questione oggetto dell’eccezione pregiudiziale di rito può essere devoluta alla cognizione del giudice di secondo grado solo con le forme e i modi dell’appello incidentale, non essendo all’uopo sufficiente la mera riproposizione dell’eccezione in appello.

Su questa stessa linea si colloca Sez. 2, n. 09844/2022, Dongiacomo, Rv. 664325-01, secondo cui nel giudizio di appello, il principio previsto dall’art. 346 c.p.c. per il quale le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado si intendono rinunciate se non sono espressamente riproposte, si riferisce alle sole questioni rilevabili ad istanza di parte, ma non anche a quelle rilevabili d’ufficio, stante il potere (dovere) del giudice del gravame di rilevarle in via officiosa ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.c., quand’anche non espressamente riproposte, a meno che le stesse non siano state respinte in primo grado con pronuncia espressa o implicita, essendo in tal caso necessario proporre appello incidentale al fine di evitare la formazione del giudicato interno, che ne preclude ogni riesame, anche officioso.

Del resto, anche alla fine dell’anno 2021 era stato ribadito, in materia di domanda di garanzia, il principio secondo cui l’appellante che impugni la sentenza con la quale il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato su una domanda condizionata, ritenuta assorbita da un’altra decisione di carattere logicamente preliminare, non ha l’onere di formulare uno specifico motivo di gravame sulla questione assorbita, ma soltanto quello di riproporre, nel rispetto dell’articolo 346 c.p.c. - e, dunque, pur nella libertà delle forme, in modo specifico, non essendo sufficiente all’uopo un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice - tanto la domanda, quanto i mezzi di prova non ammessi in prime cure (Sez. 2, n. 40933/2021, Dongiacomo, Rv. 663395-01).

Nel 2022 Sez. 1, n. 15255/2022, Reggiani, Rv. 664870-01, ha chiarito che nei giudizi di risarcimento danni, ove il giudice di primo grado liquidi il danno quantificando anche il lucro cessante e sia l’impugnazione principale sia quella incidentale investano solo alcune voci del danno emergente, non è consentito al giudice di appello escludere d’ufficio l’esistenza del lucro cessante, perché l’appellato avrebbe dovuto proporre appello incidentale sul punto.

In punto di processo con pluralità di parti, Sez. 2, n. 07612/2022, Dongiacomo, Rv. 664210-01, ha affermato che la decisione con cui il giudice di primo grado estrometta dal processo uno dei convenuti o chiamati in causa, ritenendolo privo di legittimazione passiva, configura una statuizione di rigetto della domanda nei suoi confronti, suscettibile di passare in giudicato se non tempestivamente impugnata, con la conseguenza che, ove l’attore non abbia proposto appello sul punto, non può dolersi in sede di giudizio di cassazione della mancata integrazione del contraddittorio da parte del giudice di appello, il quale non poteva rilevare la questione d’ufficio, atteso il giudicato formatosi al riguardo.

Infine, Sez. 1, n. 35382/2022, Vella, Rv. 666704-01, ha precisato come, in caso di omessa pronuncia su una domanda, qualora non ricorrano gli estremi di un assorbimento della questione pretermessa ovvero di un rigetto implicito, la parte abbia la facoltà alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in un separato giudizio, poiché la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. ha valore meramente processuale e non anche sostanziale, sicché, riproposta la domanda in diverso giudizio, non è in tale sede opponibile la formazione del giudicato esterno. Nella specie, la S.C. ha accolto la prospettazione di un curatore fallimentare tesa a far constare l’autonomia della domanda di compenso rispetto alla domanda di rimborso delle spese anticipate e a rimarcare la facoltà dell’organo concorsuale di riproporre separatamente quest’ultima anziché impugnare ex art. 26 l.fall. il provvedimento del giudice delegato che aveva trascurato di pronunciarsi su di essa.

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  • conflitto di giurisdizioni

CAPITOLO II

LA GIURISDIZIONE IN GENERALE E IL REGOLAMENTO PREVENTIVO DI GIURISDIZIONE

(di Angelo Napolitano )

Sommario

1 La questione di giurisdizione e i conflitti di giurisdizione. - 2 La questione di giurisdizione e le preclusioni processuali al suo rilievo: l’orientamento precedente alle Sez. U. n. 24883/2008. - 3 Il regolamento preventivo di giurisdizione.

1. La questione di giurisdizione e i conflitti di giurisdizione.

Da un punto di vista dogmatico, la giurisdizione rientra tra i presupposti processuali, la cui presenza in concreto determina il dovere del giudice adìto di pronunciare la sentenza di merito.

La giurisdizione ben può essere definita come la misura della “potestas iudicandi” attribuita al giudice dall’ordinamento giuridico con riferimento alla cognizione di una controversia.

La questione di giurisdizione è strettamente connessa alla domanda di tutela di una situazione giuridica soggettiva attraverso un giudizio, sicché il momento determinante della giurisdizione coincide con quello della proposizione della domanda (art. 5 c.p.c.).

Si può affermare, pertanto, sul piano teorico, che, data una regiudicanda, ciascun giudice dell’ordinamento è, in astratto, munito del potere di deciderla, tant’è vero che se la decisione emessa nonostante il difetto di giurisdizione passasse in giudicato, essa farebbe “stato” ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Tuttavia, il giudice adìto rispetto ad una controversia deve interrogarsi se essa possa essere decisa nel merito o se il potere di deciderla sia stato attribuito, in concreto, dall’ordinamento, al giudice di un diverso plesso giurisdizionale.

La disposizione che attribuisce al giudice ordinario il potere di definire in rito il giudizio nel caso in cui egli ritenga di non essere munito del potere di pronunciare una decisione di merito è l’art. 37 c.p.c.

La questione della sussistenza o meno in capo al giudice di un determinato plesso giurisdizionale del potere di definire nel merito la controversia portata alla sua cognizione può essere preventivamente sollevata dinanzi alle Sezioni Unite della S.C. da una delle parti in contesa, compreso colui che abbia scelto di instaurare la causa dinanzi a quel giudice.

Ai sensi dell’art. 37 c.p.c., il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo.

Applicando tale disposizione, Sez. U, n. 03099/2022, Falaschi, Rv. 663839-01, ha statuito che qualora una sentenza di primo grado, recante l’espressa affermazione della giurisdizione dell’adìto giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l’art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., può rilevarne d’ufficio il difetto da parte di quel giudice, ai sensi dell’art. 37 c.p.c., attesi i concorrenti princìpi di pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, di economia processuale e di ragionevole durata del processo, nonché l’attribuzione costituzionalmente riservata alla S.C. di tutte le predette questioni ed il rilievo che la sua statuizione sulla sola questione di competenza risulterebbe “inutiliter data” a seguito di un esito del processo di impugnazione su quella di giurisdizione nel senso del difetto della potestas iudicandi del giudice ordinario.

Sez. U, n. 04297/2022, Criscuolo, Rv. 663846-01, in tema di conflitto negativo di giurisdizione, suscettibile di essere risolto tramite regolamento di giurisdizione, ha affermato che, ai sensi degli artt. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009, e 11, comma 3 c.p.a., ai fini dell’ammissibilità è necessario che vi sia una doppia declinatoria di giurisdizione con decisioni emesse all’esito di giudizi a cognizione piena, con la conseguenza che non può radicarsi un conflitto negativo di giurisdizione nel caso in cui una delle decisioni declinatorie della giurisdizione sia stata emessa in sede cautelare. Nella fattispecie, si era verificato che il TAR, dinanzi al quale era stato riassunto il giudizio avente ad oggetto la domanda possessoria di reintegrazione del possesso, aveva sollevato d’ufficio il regolamento di giurisdizione, dopo che il giudice civile aveva declinato la sua giurisdizione in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.

Ancora in tema di conflitto negativo virtuale di giurisdizione, Sez. U, n. 08187/2022, De Masi, Rv. 664218-01, precisamente con riferimento alla fase processuale entro la quale è possibile sollevare il regolamento di giurisdizione per dirimere il conflitto negativo, ha affermato che ai fini della consumazione della preclusione processuale in capo al giudice amministrativo, è irrilevante l’emissione di un’ordinanza ai sensi dell’art. 73, comma 3, del d.lgs. n. 104 del 2010, trattandosi di un atto processualmente neutro, che non comporta la consumazione del potere di sollevare il conflitto, sicché lo scioglimento solo cronologicamente successivo della riserva ed il deposito dell’ordinanza con cui il giudice ha esercitato il potere di sollevare il conflitto, restano parte della prima udienza di cui esauriscono la trattazione.

La denuncia di un conflitto reale, positivo o negativo di giurisdizione, a norma dell’art. 362 c.p.c., è ammissibile anche nel caso in cui fra i giudizi, svolti dinanzi a due diversi ordini giurisdizionali, vi sia una parziale diversità di “petitum” formale, allorché questa sia comunque posta in relazione alla medesima “causa petendi”. Applicando tale principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile il ricorso in un caso in cui, in riferimento ad una convenzione urbanistica, il TAR aveva denegato la sua giurisdizione, in ordine alla domanda di annullamento del provvedimento comunale di notifica delle spese sostenute in danno per la realizzazione di un canale di scolo e dell’ordinanza-ingiunzione emessa dallo stesso Comune per il pagamento di ratei scaduti, ed il tribunale adìto aveva, a sua volta, denegato la giurisdizione ordinaria in relazione alla domanda di annullamento della medesima ordinanza-ingiunzione (Sez. U, n. 11258/2022, Terrusi, Rv. 664653-01).

In verità, di conflitto di giurisdizione in senso tecnico non dovrebbe parlarsi con riferimento ad una declinatoria di giurisdizione cui segue la proposizione del regolamento da parte del giudice adìto con la “translatio iudicii”, appartenente al diverso plesso giurisdizionale.

I conflitti negativi di giurisdizione “in senso proprio” sono regolati dall’art. 362, comma 2, Cost., e sono “denunciabili” in ogni tempo dalle parti del processo con ricorso per cassazione.

È stato, infatti, affermato che è ammissibile il ricorso per conflitto negativo di giurisdizione nell’ipotesi in cui il giudice ordinario ed il giudice amministrativo abbiano entrambi negato con sentenza la propria giurisdizione sulla medesima controversia, pur senza sollevare essi stessi d’ufficio il conflitto, essendosi in presenza non di un conflitto virtuale di giurisdizione, risolvibile con istanza di regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., ma di un conflitto reale negativo di giurisdizione, denunciabile alle sezioni unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 362, comma 2, n. 1, c.p.c., in ogni tempo e, quindi, indipendentemente dalla circostanza che una delle due pronunce in contrasto sia passata in giudicato (Sez. U, n. 01919/2021, Acierno, Rv. 660230-01).

Coerentemente con il citato arresto, si è affermato che il giudice amministrativo può sollevare il conflitto negativo di giurisdizione nella sola ipotesi in cui il processo, a seguito della declinatoria del giudice ordinario, sia stato tempestivamente riassunto davanti a sé, sicché, in difetto di “translatio iudicii”, il suddetto conflitto è inammissibile, dovendo egli limitarsi a statuire sulla giurisdizione ex art. 9 c.p.a. (Sez. U, n. 26988/2022, Di Paolantonio, Rv. 665661-01).

Tuttavia, il regolamento d’ufficio di giurisdizione in seguito a “translatio iudicii” può essere chiesto solo nel trapasso della causa da un plesso giurisdizionale a un altro, con la conseguenza che il giudice di primo grado, cui il giudice di appello abbia rimesso la causa ai sensi dell’art. 353 c.p.c. per averne riformato la pronuncia di declinatoria di giurisdizione, non può proporre regolamento di giurisdizione d’ufficio, ma è tenuto a statuire sulla domanda, atteso che soltanto il giudice “ad quem”, in presenza di “translatio” a seguito della declinatoria di giurisdizione pronunciata dal primo giudice adìto ed appartenente ad un altro plesso giurisdizionale, può rimettere d’ufficio, sino alla prima udienza di trattazione, la questione di giurisdizione alle sezioni unite (Sez. U, n. 01086/2022, Giusti, Rv. 663591-01).

Ai sensi dell’art. 382 c.p.c., la Corte, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa, determinando, quando occorre, il giudice competente.

Tale disposizione, tuttavia, nulla dice sul regime di stabilità della pronuncia resa dalla cassazione in ordine alla giurisdizione.

Deve rilevarsi che una disposizione esplicita in merito al regime di stabilità delle pronunce sul rito adottate dalla Suprema Corte è contenuta nell’art. 310, comma 2, c.p.c.: l’estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza.

Deve ritenersi, nonostante il silenzio del codice, che la stessa efficacia delle pronunce che regolano la competenza è rivestita dalle sentenze che regolano la giurisdizione, perché, per un verso, l’art. 382, comma 1, c.p.c., dispone che la Corte, quando decide una questione di gurisdizione, “statuisce” su questa, determinando, quando occorre, il giudice competente; dall’altro verso l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (costituzionalizzato in questa parte dall’art. 111 Cost.) attribuisce alla funzione istituzionale della Corte di cassazione l’assicurare “il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”.

Senonché, la stabilità delle pronunce della S.C. che regolano la giurisdizione è destinata ad affievolirsi al cospetto del diritto dell’UE.

Sez. U, n. 10860/2022, Stalla, Rv. 664484-02, in tema, ha affermato che, a seguito di statuizione sulla giurisdizione da parte della S.C. adìta in sede di regolamento, il giudice nazionale non di ultima istanza avanti al quale il processo prosegua è ammesso a sollevare questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE avanti alla Corte di Giustizia qualora dubiti della conformità di questa statuizione al diritto dell’Unione; in tal caso, tuttavia, la vincolatività della statuizione interna sulla giurisdizione viene meno soltanto all’esito della decisione della Corte di Giustizia dalla quale si evinca l’effettiva contrarietà di questa statuizione al diritto UE, e nei limiti della contrarietà così emergente.

2. La questione di giurisdizione e le preclusioni processuali al suo rilievo: l’orientamento precedente alle Sez. U. n. 24883/2008.

Uno dei problemi più dibattuti in tema di giurisdizione è quello della portata della previsione, contenuta nell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di tale presupposto processuale è rilevabile in ogni stato e grado del processo.

Prima della pronuncia delle Sez. U, n. 24883/2008, la giurisprudenza si era attestata sul seguente criterio: se il giudice decide sul merito nulla dicendo circa la giurisdizione, l’impugnazione solo sul merito devolve al giudice superiore il potere di rilevare d’ufficio la questione di giurisdizione, fermo restando il potere della parte soccombente di eccepirne il difetto.

Ne deriva, innanzitutto, che la decisione sulla giurisdizione sottrae la questione al rilievo di ufficio, attivando il meccanismo di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c.: la decisione con cui il giudice conferma la propria giurisdizione può essere contrastata soltanto con l’impugnazione del relativo capo di pronuncia.

In secondo luogo, se la decisione sul merito passa in giudicato, l’esistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice che l’ha pronunciata non può più essere messa in discussione.

Con la sentenza a Sez. U, n. 24883/2008, Merone, Rv. 604576-01, la S.C. ha stabilito, invece, che l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (coincidente con la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

Una particolare declinazione degli esposti princìpi la si trova in Sez. U, n. 04997/2018, Lombardo, Rv. 647166-02, secondo cui “le sentenze di merito che statuiscono sulla giurisdizione sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato esterno, sì da spiegare i propri effetti anche al di fuori del processo nel quale siano state rese, solo in quanto in esse la pronuncia sulla giurisdizione, sia pure implicita, si coniughi con una di merito, fermo restando che tale efficacia presuppone il passaggio in giudicato formale delle sentenze stesse ed è limitata a quei processi che abbiano per oggetto cause identiche, non solo soggettivamente ma anche oggettivamente, a quelle in cui si è formato il giudicato esterno”. Nella specie, la S.C. ha escluso che la sentenza del TAR, con la quale era stato dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso proposto dal privato avverso un provvedimento comunale, avesse determinato un giudicato esterno esplicito sulla giurisdizione.

Ed ancora, sul rapporto logico di presupposizione dell’esistenza del potere giurisdizionale in una pronuncia di rito, è paradigmatico l’arresto di Sez. U, n. 04361/2018, Scarano, Rv. 647315-01: “la decisione sulla competenza presuppone l’affermazione, quantomeno implicita, da parte del giudice investito della causa, della propria giurisdizione, sicché, attribuita la competenza, in sede di regolamento, ad un giudice, quest’ultimo non può successivamente negare la sua giurisdizione”.

Al di là della tenuta, sul piano logico formale, della svolta interpretativa delle Sezioni Unite, ed al di là dell’aderenza di tale svolta al testo dell’art. 37 c.p.c., ciò che emerge nettamente dal percorso motivazionale tracciato dalla S.C. è la dichiarata volontà di dare all’art. 37 c.p.c. una lettura che favorisca, al di fuori di una esplicita doglianza di parte in sede di impugnazione, la stabilizzazione della sentenza di merito nell’ottica di un processo che abbia anche una ragionevole durata, e che dunque non rischi, dopo il primo grado, di essere “azzerato” pur in mancanza del rilievo del difetto di giurisdizione da parte del primo giudice o di una impugnazione della parte in punto di giurisdizione.

Secondo le citate Sezioni Unite, l’art. 37, comma 1, c.p.c., nell’interpretazione tradizionale, basata sulla lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.).

Nel solco di tale interpretazione dell’art. 37 c.p.c. coordinata con il principio della ragionevole durata del processo, si pone Sez. 5, n. 25493/2019, Perrino, Rv. 655411-01, che ha affermato che nel processo tributario, la mera prospettazione della questione di giurisdizione (contenuta nel ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR che abbia inammissibilmente rilevato d’ufficio il difetto della giurisdizione implicitamente affermata dalla decisione di primo grado) consente alla Corte di cassazione di accertare il consolidamento in capo al giudice tributario della “potestas iudicandi” per effetto della formazione, a suo beneficio, di un giudicato implicito sulla relativa attribuzione e, quindi, senza che venga statuita la cogenza di quest’ultima alla stregua del quadro normativo, ponendosi d’ostacolo, in sede di legittimità, soltanto la pronuncia di secondo grado che decida, ancorché implicitamente, sull’esistenza o meno del giudicato interno, rimovibile solo per effetto di una espressa impugnazione.

In soltano apparente controtendenza, Sez. U, n. 23899/2020, Rubino, Rv. 659456-01 hanno affermato che la possibilità di proporre ricorso per cassazione, deducendo la configurabilità dell’ipotesi dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte di un giudice speciale (nella specie, la Corte dei Conti), non è in alcun modo preclusa dall’accettazione della giurisdizione sul merito della controversia, derivante dal non aver sollevato la relativa questione nei gradi di merito.

Tuttavia, la giurisprudenza secondo la quale si forma il giudicato implicito sulla giurisdizione se la sentenza di merito di primo grado non è impugnata per motivi attinenti alla giurisdizione è stata recentemente ribadita da Sez. 1, n. 36113/2022, Terrusi, Rv. 666255-01.

3. Il regolamento preventivo di giurisdizione.

In pendenza di un processo di esecuzione è inammissibile la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, il cui ambito di applicazione è circoscritto al processo di cognizione, ove soltanto è possibile riconoscere l’esistenza di un giudice istruttore e di un collegio ai sensi dell’art. 367 c.p.c.; né, conseguentemente, tale rimedio processuale è proponibile nei giudizi di opposizione incidentali all’esecuzione, atteso che esso potrebbe riguardare solo la giurisdizione a conoscere dell’opposizione, la quale, una volta che il processo esecutivo sia iniziato, non può che spettare al giudice ordinario, sicché tutte le questioni dell’esistenza del titolo esecutivo o sulla liquidità del credito riguardano la legittimità dell’esecuzione e non la giurisdizione, senza che assuma rilievo l’origine del titolo o la qualità soggettiva di P.A. del debitore (Sez. U, n. 01216/2022, Rubino, Rv. 663715-01).

Secondo Sez. U, n. 15122/2022, Giusti, Rv. 664661-01, il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto anche dallo stesso soggetto che ha proposto il giudizio di merito nel caso in cui sussista, in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adìto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte del massimo organo nomofilattico, in via definitiva ed immodificabile, per evitare che la sua risoluzione in sede di merito possa incorrere in successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della causa.

L’oggetto del regolamento preventivo di giurisdizione verte sulla individuazione del giudice al quale spetta la competenza giurisdizionale a decidere la controversia, risultando, di conseguenza, irrilevanti le eventuali questioni di compatibilità con il diritto dell’UE e le eventuali questioni di costituzionalità riguardanti il merito e prive di influenza sulla attribuzione della giurisdizione; è, pertanto, inammissibile il suddetto regolamento se proposto al fine di sollecitare la risoluzione preventiva di questioni, che non sono di giurisdizione, ma attengono alla sussistenza o meno, secondo la disciplina sostanziale, dei diritti azionati dinanzi al giudice presso il quale la controversia è incardinata (Sez. U, n. 01083/2022, Giusti, Rv. 663590-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione non è precluso dalla pronuncia di provvedimenti provvisori, sicché, nel procedimento di convalida di sfratto di cui agli artt. 657 e ss. c.p.c., i provvedimenti resi dal giudice nella fase preliminare, in quanto aventi carattere provvisorio, non integrano decisione nel merito e, pertanto, non ostano alla proponibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c.

D’altronde, si è detto che il regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 c.p.c., non è ammissibile nell’ambito di un procedimento cautelare ante causam, poiché, finché l’istante non abbia iniziato il giudizio di merito, per il quale sorge l’oggetto del procedimento, unitamente all’interesse concreto e attuale a conoscere il giudice dinanzi al quale lo stesso deve eventualmente proseguire, non è consentito, neanche ex art. 111 Cost., il ricorso per cassazione contro i provvedimenti conclusivi del relativo procedimento, né può ammettersi che la questione di giurisdizione sia sottoposta per altra via alla cognizione della Suprema Corte (Sez. U, n. 16764/2022, Pagetta, Rv. 664910-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione definisce anche i confini tra la giurisdizione del giudice italiano e quella del giudice straniero, oltre che, più in generale, i confini entro i quali la giurisdizione statale può spingersi senza invadere spazi attribuiti alla sovranità degli altri Stati da norme internazionali.

Nei casi da ultimo citati non opera la “translatio iudicii”.

Sicché, quando vi sia un’opposizione a decreto ingiuntivo, e quando, all’esito del regolamento preventivo di giurisdizione, sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pure avendo avuto il potere di adottare il provvedimento monitorio poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del citato decreto monitorio (Sez. U, n. 20633/2022, Carrato, Rv. 665080-02).

Con riferimento al rito disciplinato dagli artt. 151 ss. r.d. n. 1775 del 1933 dinanzi al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, al quale la causa sia stata rimessa dopo la declaratoria di difetto di giurisdizione da parte di altro giudice, la questione di giurisdizione non può essere ulteriormente sottoposta di ufficio alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della l. n. 69 del 2009, se non viene sollevata dal giudice delegato all’istruzione alla prima udienza tenuta davanti a lui, ferma la competenza del collegio a decidere sulla questione. È vero, infatti, che il giudice delegato non può sollevare egli stesso la questione di giurisdizione dinanzi alle Sezioni Unite, ma può sempre esercitare i poteri di rilievo officioso delle questioni di cui poi deve investire il Collegio (Sez. U, n. 21350/2022, Cirillo, Rv. 665189-01).

Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche laddove nel giudizio di merito sia ancora da espletare un’attività istruttoria, nell’ipotesi in cui la stessa abbia ad oggetto circostanze ininfluenti ai fini della decisione della questione di giurisdizione (Sez. U, n. 33246/2022, Terrusi, Rv. 666188-01).

Nel caso in cui un soggetto abbia proposto il medesimo giudizio innanzi a due distinte giurisdizioni, dubitando quale di esse sia quella effettivamente sussistente, la contestazione sollevata dal convenuto anche in uno solo dei giudizi fonda l’interesse della parte proponente ad avvalersi del regolamento preventivo di giurisdizione con riguardo ad entrambi i processi, trattandosi della medesima questione, il cui apprezzamento è unitario e riguarda ambedue i giudizi pendenti (Sez. U, n. 30712/2022, Ferro, Rv. 666059-01).

Con riferimento al rito cd. Fornero, è ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto in pendenza del termine per l’opposizione ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, che costituisce una fase a cognizione piena nell’ambito dello stesso grado di giudizio, in quanto la pronuncia adottata all’esito della fase sommaria è suscettibile di essere rivista nel giudizio di opposizione anche d’ufficio ed a prescindere da una censura della parte interessata (Sez. U, n. 33362/2022, Garri, Rv. 666190-01).

L’esperimento del regolamento preventivo di giurisdizione trova come suo inelubibile sbarramento la decisione nel merito in primo grado.

Di conseguenza, il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione contro una sentenza che ha già deciso nel merito la causa in primo grado è inammissibile quale regolamento preventivo di giurisdizione per essersi verificata la preclusione espressamente prevista dall’art. 41 c.p.c., e non può essere preso in esame nemmeno come ricorso ordinario contro una sentenza appellabile, poiché, secondo quanto dispone l’ultimo comma dell’art. 360 c.p.c., il ricorso “per saltum” è ammesso solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello, e mai per motivi di giurisdizione (Sez. U, n. 35448/2022, Scarpa, Rv. 666386-01).

  • giurisdizione amministrativa
  • giurisdizione civile
  • giurisdizione internazionale
  • giurisdizione tributaria
  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione

CAPITOLO III

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

(di Angelo Napolitano )

Sommario

1 La giurisdizione sugli atti delle pubbliche amministrazioni e sui rapporti amministrativi. - 2 I rapporti tra il giudice amministrativo e il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche. - 3 La giurisdizione in materia di pubblico impiego. - 4 Giurisdizione e autodichia. - 5 La giurisdizione in materia di società e consorzi pubblici. - 6 La giurisdizione e i diritti della persona. - 7 Il controllo giurisdizionale sulle sentenze del Consiglio di Stato. - 8 La giurisdizione italiana e le Autorità straniere. - 9 I rapporti tra la giurisdizione ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria. - 10 La giurisdizione in tema di usi civici. - 11 La giurisdizione della Corte dei Conti.

1. La giurisdizione sugli atti delle pubbliche amministrazioni e sui rapporti amministrativi.

Nel corso del 2022 la Suprema Corte, nella sua funzione di organo regolatore della giurisdizione, ha emesso numerose pronunce, che hanno interessato “materie” accomunate dalla circostanza di essere tutte esposte all’incidenza di atti o di attività della pubblica amministrazione, o comunque di incrociare il campo di azione dei poteri pubblici.

Sez. U, n. 01599/2022, Lamorgese, Rv. 663733-01, con riferimento al rito da seguire per la risoluzione della questione di giurisdizione, ha affermato che l’art. 374 c.p.c. va interpretato nel senso che, tranne nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, i ricorsi che pongono questioni di giurisdizione possono essere trattati dalle sezioni semplici allorché sulla regola finale di riparto della giurisdizione “si sono già pronunciate le sezioni unite”, ovvero sussistono ragioni di inammissibilità inerenti alla modalità di formulazione del motivo (ad esempio, per inosservanza dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., difetto di specificità, di interesse etc.) ed all’esistenza di un giudicato sulla giurisdizione, costituendo questione di giurisdizione anche la verifica in ordine alla formazione del giudicato.

Sul piano processuale, si è detto anche che, salvo deroghe normative espresse, vige nell’ordinamento processuale il principio generale dell’inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato (Sez. U, n. 8475/2022, Orilia, Rv. 664222-01).

Orbene, in tema di appalto di opera pubblica, la controversia relativa alla risoluzione del contratto per inadempimento del subappaltatore, afferendo esclusivamente alla fase esecutiva del rapporto, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, sul presupposto che, intervenuta la stipulazione del contratto, la pubblica amministrazione non può più spendere alcun potere d’imperio, neppure in via di autotutela (Sez. U, n. 32148/2022, Stalla, Rv. 666065/01).

In tema di “project financing”, la controversia di natura risarcitoria avente ad oggetto il mancato completamento della relativa procedura per responsabilità precontrattuale ascrivibile alla P.A., rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, venendo in rilievo, avuto riguardo alla fase amministrativa ex art. 37 bis della l. n. 109 del 1994, un procedimento amministrativo volto all’affidamento di una concessione, contrassegnato dall’esercizio di un’attività provvedimentale e pubblicistica (Sez. U, n. 30712/2022, Ferro, Rv. 666059-02).

Con riferimento alle azioni possessorie nei confronti della P.A., ed in particolare ad un caso in cui un privato si era lamentato dello spoglio di un passaggio a livello attuato dalle Ferrovie dello Stato mediante la revoca di una precedente “convenzione” che autorizzava il passaggio del privato proprietario dei fondi attraversati dalla ferrovia, si è affermato che è devoluta alla giurisdizione del giudice amministativo l’azione possessoria con cui si denunci un comportamento dell’Amministrazione ricollegabile a un provvedimento formale, indipendentemente dalla legittimità o meno dello stesso, ovvero dal corretto esercizio del potere autoritativo (Sez. U, n. 33242/2022, Criscuolo, Rv. 666187-01).

In caso di prestazioni sanitarie effettuate in regime di accreditamento, le controversie relative all’interpretazione e all’esecuzione dell’accordo contrattuale stipulato, in condizioni di pariteticità, tra la ASL e la struttura privata concessionaria, aventi contenuto meramente patrimoniale, sono devolute al giudice ordinario, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 104 del 2010, non venendo in rilievo l’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, di poteri autoritativi e discrezionali (Sez. U, n. 30963/2022, Rubino, Rv. 666060-01).

Sono devolute al giudice ordinario anche le controversie sull’esito dei controlli di appropriatezza eseguìti dalle ASL sulle strutture private che erogano prestazioni sanitarie operando in regime concessorio di accreditamento, ex art. 133, comma 1 lett. c, del d.lgs. n. 104 del 2010, qualora oggetto della contestazione sia esclusivamente l’esito del controllo, il conseguente accertamento dell’inadempimento della concessionaria rispetto alle obbligazioni derivanti dal rapporto concessorio, le relative richieste pecuniarie ovvero le sanzioni amministrative irrogate (Sez. U, n. 01602/2022, Rubino, Rv. 663721-01).

In tema di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria per mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con modif. dalla l. n. 76 del 2021, la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che viene in rilievo un diritto soggettivo (ossia quello di continuare ad esercitare la professione sanitaria, nonostante l’inadempimento all’obbligo vaccinale) nei cui confronti la pubblica amministrazione non esercita alcun potere autoritativo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale, venendo in rilievo esclusivamente limiti e condizioni di previsione legislativa (Sez. U, n. 28429/2022, Vincenti, Rv. 665655-01).

In materia di espropriazione forzata per pubblica utilità, le controversie risarcitorie relative alle occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione, realizzate in presenza di un concreto esercizio del potere autoritativo che si estrinseca nell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 205 del 2000, indipendentemente dal fatto che l’apprensione o l’irreversibile trasformazione del fondo abbiano avuto luogo in mancanza di titolo o in virtù di un titolo a sua volta nullo o caducato (Sez. U, n. 26033/2022, Terrusi, Rv. 665659-01).

Di converso, la controversia avente ad oggetto l’individuazione dell’avente diritto al pagamento della indennità di espropriazione per pubblica utilità rientra nella giurisdizione del giudice ordinario giacché, da un lato, non è contestata la scelta dell’Amministrazione di procedere ad espropriazione su determinati beni né, tantomeno, la modalità di esercizio, in concreto, di siffatto potere e, dall’altro, la determinazione di detta indennità, come l’individuazione dei soggetti aventi diritto al relativo pagamento, avviene sulla base di precisi criteri fissati dalla legge e di regole proprietarie estranee a valutazioni espressive di discrezionalità amministrativa (Sez. U, n. 00759/2022, Lamorgese, Rv. 663583-01).

Spetta alla giurisdizione amministrativa anche la cognizione dell’impugnazione proposta dall’ANAC, la cui legittimazione a ricorrere con riferimento agli atti di evidenza pubblica preordinati alla conclusione di contratti di appalto di lavori pubblici, servizi e forniture, prevista dall’art. 211, comma 1 bis, del d.lgs. n. 50 del 2016, radica la giurisdizione amministrativa esclusiva, ai sensi dell’art. 133, lett. e), del d.lgs. n. 104 del 2010, anche se il committente sia privo dei requisiti soggettivi previsti dalla citata normativa, atteso che ciò che rileva è la natura pubblica del soggetto per le esigenze del quale si ricorre alla procedura ad evidenza pubblica, restando irrilevante che tale soggetto abbia proceduto direttamente allo svolgimento della procedura o si sia avvalso all’uopo di privati intermediari (Sez. U, n. 16766/2022, Pagetta, Rv. 664754-01).

Ancora in tema di procedure ad evidenza pubblica, la controversia relativa alla responsabilità della P.A. per il danno derivante dalla lesione dell’affidamento del privato nella correttezza dell’azione amministrativa spetta al giudice ordinario, anche in relazione alla fase procedimentale (in cui la P.A. agisce secondo le regole di rilievo pubblicistico) che intercorre tra l’aggiudicazione provvisoria, al termine della procedura di selezione della migliore offerta, e l’aggiudicazione definitiva, cui segue di regola il contratto, laddove a fondamento della domanda risarcitoria sia posta una responsabilità per violazione dei doveri di correttezza e buona fede, senza contestare la legittimità dell’esercizio della funzione pubblica ma la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione, atteso che il presupposto della giurisdizione del giudice amministrativo, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, è sempre che la controversia inerisca ad una situazione di potere dell’Amministrazione e che la “causa petendi” si radichi nelle modalità di esercizio del potere amministrativo (Sez. U, n. 13595/2022, Iofrida, Rv. 664657-01).

Le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità di occupazione legittima dovute in conseguenza di atti ablativi, ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 (oggi, art. 133, comma 1, lett. g, c.p.a.), appartengono invece alla giurisdizione del giudice ordinario, a nulla rilevando che la relativa domanda sia stata proposta dall’attore unitamente a quella, devoluta invece alla giurisdizione del giudice amministrativo, di risarcimento del danno da perdita del bene, stante la vigenza, nell’ordinamento processuale, del principio generale di inderogabilità della giuisdizione per motivi di connessione (Sez. U, n. 19877/2022, Marulli, Rv. 665038-01).

Appartiene al giudice ordinario la controversia nella quale il privato, deducendo l’omessa adozione da parte della P.A. degli opportuni provvedimenti a tutela del diritto alla salute, domandi nei confronti della stessa il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a immissioni intollerabili di odori e polveri provenienti da un’azienda agricola privata, venendo in rilievo, alla stregua del “petitum” sostanziale, un comportamento materiale di pura inerzia delle autorità pubbliche, suscettibile di compromettere il nucleo essenziale del diritto soggettivo inviolabile alla salute (Sez. U, n. 23436/2022, Giusti, Rv. 665277-01).

In materia di concessione di beni pubblici, ricade nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda del gestore finalizzata ad ottenere una riduzione del canone, a seguito della sensibile compressione dei ricavi in conseguenza di una causa eccezionale e imprevedibile (nella specie, la pandemia da Covid-19 ed il conseguente “lockdown”), in quanto il “petitum” sostanziale non tende ad un sindacato sull’esercizio del potere della P.A., ma involge, piuttosto, l’accertamento della titolarità di un diritto all’adeguamento delle condizioni contrattuali, ai fini del riprisino della proporzione tra le prestazioni originarie, che, se configurabile, rinviene la propria fonte non nella discrezionalità aministrativa, ma direttamente dalla legge (Sez. U, n. 21139/2022, Giusti, Rv. 665271-01).

Ancora in tema di concessione di beni pubblici, la controversia avente ad oggetto la domanda di rilascio del bene, all’esito dell’avvenuta cessazione del rapporto concessorio, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, giacché tale controversia vede la P.A. in una posizione paritetica rispetto a quella del privato concessionario e non comporta la necessità di compiere alcuna verifica circa l’esercizio di poteri autoritativi (Sez. U, n. 16763/2022, Sestini, Rv. 664753-01).

Spetta alla giurisdizione ordinaria anche la cognizione sulla domanda di manleva con la quale una Comunità montana, convenuta in giudizio dal Comune (nella specie, per il pagamento del ricavato del taglio dei boschi ad essa delegato nell’ambito della gestione dei patrimoni agricoli), chieda di essere garantita dalla Regione, sia perché all’assunzione dell’obbligo di manleva, previsto dalla legge regionale, è estraneo qualsivoglia apprezzamento discrezionale in ordine all’esercizio di poteri autoritativi, sia perché detto obbligo si fonda su una garanzia impropria costituente il riflesso della domanda principale di pagamento, con la quale condivide il radicamento della giurisdizione ordinaria per comunanza del “petitum” sostanziale (Sez. U, n. 23053/2022, Scarpa, Rv. 665274-01).

Spetta, ancora, al giudice ordinario la cognizione in ordine a una controversia di cui all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del d.lgs. n. 104 del 2010 (c.p.a.), laddove riguardi solo questioni di carattere meramente patrimoniale fra le parti, che si pongono “a valle” rispetto alla conclusione dell’accordo sostitutivo del provvedimento amministrativo e, pertanto, non hanno direttamente ad oggetto la conclusione dell’accordo né l’esercizio dei poteri autoritativi che l’accordo stesso sostituisce. Il principio è stato affermato con riferimento ad un’opposizione a decreto ingiuntivo con il quale l’ente territoriale aveva chiesto alla controparte privata il pagamento delle somme pattuite come corrispettivo per il conferimento di rifiuti in discarica (Sez. U, n. 20464/2022, Di Marzio, Rv. 665039-01).

Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario anche la controversia inerente la liquidazione del compensi del funzionario onorario (nella specie, del commissario straordinario di un consorzio di bonifica), nella misura prevista da atti amministativi presupposti, la cui legittimità non è posta in discussione, atteso che in tal caso, sulla base del “petitum sostanziale”, la posizione fatta valere dalla parte, escludendo l’esistenza di profili di discrezionalità, si deve ricondurre nell’ambito dei diritti soggettivi, diversamente dall’ipotesi in cui la nomina del funzionario non sia accompagnata dalla previsione di alcun tipo di compenso, per mancanza di specifiche disposizioni di legge, sicché la pretesa di liquidazione, risolvendosi in una contestazione della decisione discrezionale della pubblica amministrazione, è ascrivibile ad una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo (Sez. U, n. 13990/2022, Di Paolantonio, Rv. 665028-01).

In tema di trasferimento di immobili, ex art. 4 del d.l. n. 351 del 2001, convertito con modificazioni dalla l. n. 410 del 2001, prevedendo tale norma che le disposizioni di cui agli artt. da 1 a 3 dello stesso decreto si applichino, per quanto compatibili, ai soli trasferimenti di immobili ai fondi comuni di investimento, il successivo trasferimento dei medesimi immobili dai fondi comuni di investimento a terzi acquirenti non può considerarsi atto di esercizio di un potere pubblico, bensì atto di diritto privato, espressivo di autonomia negoziale tra soggetti privati, sicché le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (Sez. U, n. 17616/2022, Cosentino, Rv. 664912-01).

Appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia relativa alla efficacia e vincolatività di un contratto di “collar swap” concluso dalla P.A. con una banca, a causa della delibera con cui la stessa P.A. ne abbia successivamente dichiarato d’ufficio la nullità in sede di autotutela, in quanto, vertendo la controversia sulla posizione di diritto soggettivo acquisita dall’altro contraente, tale declaratoria non rappresenta l’esercizio di poteri autoritativi, sicché resta affidata al giudice ordinario la possibilità di conoscere ed interpretare incidentalmente l’atto amminiostrativo, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 2248 del 1865, nonché di disapplicarlo ove non sia conforme alla legge (Sez. U, n. 17245/2022, Nazzicone, Rv. 664911-01).

La controversia relativa all’attribuzione di contributi per l’editoria rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto, ricorrendo i presupposti di legge, l’Amministrazione, accertata la sussistenza dei requisiti con giudizio di discrezionalità tecnica vincolata, è tenuta all’erogazione del contributo, divenendo il richiedente titolare di una posizione giuridica qualificabile in termini di diritto soggettivo (Sez. U, n. 15370/2022, Grasso, Rv. 664700-01).

In tema di confisca di beni ipotecati, la controversia sulla violazione dell’obbligo dell’Agenzia Nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati di espletare il procedimento concorsuale previsto dall’art. 1, commi 201 e ss. della l. n. 228 del 2012, volto a reintegrare, in misura indennitaria, i creditori aventi diritti reali di garanzia su beni confiscati per reati di criminalità organizzata ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, avente natura di diritto soggettivo la posizione dei creditori garantiti che, dopo la verifica del giudice delle misure di prevenzione, accedono a tale strumento concorsuale, svolto dall’ANBSC, quale mero ausiliario dell’organo giurisdizionale ordinario, esercitando una discrezionalità di tipo tecnico e non amministrativo (Sez. U, n. 12871/2022, Graziosi, Rv. 664569-01).

In tema di prestazioni previdenziali e assistenziali, l’improponibilità della domanda giudiziaria derivante dalla mancata presentazione della domanda amministrativa all’ente previdenziale determina una temporanea carenza di giurisdizione, la quale, tuttavia, non è assimilabile al difetto assoluto di giurisdizione di cui agli artt. 37 e 383, comma 3 c.p.c., che si ha solo quando la situazione dedotta in giudizio resti al di fuori del campo giuridico per difetto di una norma o di un principio dell’ordinamento che la tuteli e non sia, quindi, neppure in astratto configurabile come diritto soggettivo o come interesse legittimo (Sez. L, n. 10745/2022, Cavallaro, Rv. 664334-01).

Con riferimento ai diritti esclusivi di pesca, ove l’ente pubblico titolare abbia affidato a privati concessionari, attraverso apposita convenzione, l’individuazione dei soggetti da autorizzare all’esercizio dell’attività di pesca, mantenendo tuttavia un potere di controllo “ex post” sull’osservanza dei criteri convenuti, mediante la previsione di un nulla-osta all’autorizzazione, la controversia relativa al mancato rilascio del nulla-osta rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, perché non ha ad oggetto la titolarità del diritto di pesca, ma la sola autorizzazione allo sfruttamento delle risorse ittiche, che è espressione del potere autoritativo finalizzato a garantire l’interesse pubblico alla equa ripartizione delle stesse (Sez. U, n. 09154/2022, Di Marzio, Rv. 664410-01).

Appartiene alla giurisdizione ordinaria l’opposizione ad ordinanza ingiunzione di pagamento per violazione della normativa relativa alle cave, poiché la posizione giuridica di chi deduca di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge ha consistenza di diritto soggettivo, senza che rilevi il nuovo quadro normativo conseguente all’emanazione del d.lgs. n. 150 del 2011 (che ha modificato l’art. 22 della legge n. 689 del 1981 ed ha abrogato l’art. 22 bis della stessa legge) e del d.lgs. n. 104 del 2010 (che all’art. 133, comma 1, lett. f, ha mantenuto ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo per le controversie in materia urbanistica ed edilizia concernenti “tutti gli aspetti dell’uso del territorio”), non discutendosi in tali cause di modi di governo del territorio, ma solo di provvedimenti adottati dalla P.A. per reagire a comportamenti illegittimi dei privati (Sez. U, n. 08187/2022, De Masi, Rv. 664218-02).

In maniera consonante, si è stabilito che le controversie in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, ex art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, spettano alla giurisdizione del giudice ordinario, non solo quando riguardino il provvedimento finale sanzionatorio, ma anche laddove si faccia questione della legittimità degli atti presupposti, ivi compresi quelli di natura regolamentare relativi al procedimento, senza che al riguardo possa ritenersi fondata una questione di costituzionalità, che avrebbe al più motivo di porsi in senso inverso, ove vi fosse una norma derogatoria della giurisdizione ordinaria, la cui cognizione verte sul rapporto e non sull’atto in sé ed a cui, pertanto, spetta di regola la giurisdizione sul potere sanzionatorio della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 33248/2022, Napolitano L., Rv, 666189-01).

Il diniego di rilascio della patente di guida per insussistenza di requisiti morali, ai sensi dell’art. 120, comma 1, c.d.s. dà luogo all’esercizio non già di discrezionalità amministrativa ma di un’attività del tutto vincolata, sia nel presupposto che nel contenuto, che non affievolisce la posizione di diritto soggettivo del privato, ossia il diritto di guidare un autoveicolo, afferente ad una modalità di esercizio di una libertà fondamentale costituzionalmente tutelata, quale la circolazione; ne consegue che la giurisdizione sulla controversia avente ad oggetto il provvedimento di diniego adottato ai sensi della suddetta norma spetta al giudice ordinario, in difetto di deroghe ai comuni criteri di riparto della giurisdizione (Sez. U, n. 08188/2022, De Masi, Rv. 664219-01).

Anche in tema di sovvenzioni ad imprese concessionarie di un pubblico servizio di trasporto, qualora non sia in discussione la spettanza dei contributi richiesti, ma solo i criteri tecnici per la loro determinazione, si è al di fuori della discrezionalità amministrativa, non essendo ravvisabili nel procedimento amministrativo di quantificazione dei contributi momenti di valutazione comparativa degli interessi privati e pubblici in gioco, ma esclusivamente l’applicazione di parametri normativi predeterminati, sicché, avendo la pretesa fatta valere in giudizio dalla parte che assume di essere creditrice natura di diritto soggettivo, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario (Sez. U, n. 00929/2022, Crucitti, Rv. 663904-01).

Parimenti, le controversie relative all’iscrizione nel Repertorio Economico Amministrativo (REA) sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che la legge devolve alla cognizione di tale giudice tutti i rimedi giudiziali avverso la mancata iscrizione dell’impresa da parte dell’Ufficio del Registro nonché contro il decreto del giudice del registro, senza distinzione tra iscrizioni nel registro delle imprese e iscrizioni nel REA, il quale ha unicamente lo scopo di integrare i dati del Registro delle imprese (Sez. U, n. 06028, Orilia, Rv. 664089-01).

Il contratto stipulato dalla P.A. per il reperimento di immobili da adibire alla propria attività istituzionale (ad esempio, di un Comune per la ricerca di locali da adibire ad archivio) rientra nella fattispecie tipica della locazione e non è riconducibile ai “contratti di fornitura” di beni alla P.A., poiché la “res” locata rimane nel patrimonio del proprietario locatore e la causa del contratto, rappresentata dal godimento della cosa per un tempo determinato dietro il pagamento di un canone, non è riconducubile alla fornitura di servizi, attesa l’assenza di una prestazione di attività del proprietario in favore del destinatario; ne consegue che ogni controversia attinente a tale contratto, anche nella fase precontrattuale, concerne diritti soggettivi e, per questo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Sez. U, n. 05051/2022, Falaschi, Rv. 663906-01).

Sussiste, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, lett. a), n. 1 c.p.a., in ordine alla domanda di risarcimento del danno da ritardo ex art. 2 bis della l. n. 241 del 1990 proposta nei confronti della P.A. per non avere concluso nel termine di legge il procedimento amministrativo (Sez. U, n. 03099/2022, Falaschi, Rv. 663839-02).

Le controversie relative al mancato rispetto delle misure emergenziali previste dal legislatore per il contenimento della pandemia da Covid-19, da parte dei gestori dei centri di accoglienza straordinari per richiedenti asilo, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che nessun potere pubblico può incidere sul diritto soggettivo alla salute degli ospiti (nella specie, sul diritto al distanziamento sociale), fino al punto di degradarlo ad interesse legittimo; ne consegue che, a fronte di una predeterminazione, da parte del legislatore, delle modalità concrete di esercizio del servizio straordinario di accoglienza, volte a tutelare la salute dei richiedenti asilo, il potere amministrativo nella gestione del servizio di accoglienza è circoscritto e vincolato (Sez. U, n. 04873/2022, Conti, Rv. 663852-01).

Con riferimento alla gestione del ciclo dei rifiuti, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia tra il gestore di impianto di smaltimento ed il comune per il pagamento dei maggiori costi derivanti dall’introduzione del cd. indice di respirazione dinamico potenziale, atteso che il rapporto di debito-credito dedotto in giudizio non involge elementi riconducibili ad un rapporto pregiudicante nel quale la P.A. creditrice intervenga con poteri autoritativi ma aspetti puramente patrimoniali, essendo rimessa all’autorità regionale la predeterminazione dei proventi da riversare ai Comuni (Sez. U, n. 05386/2022, Mercolino, Rv. 663855-01).

È stata attribuita alla cognizione del giudice ordinario anche l’azione promossa contro un atto di una federazione sportiva assunto come discriminante per motivi di nazionalità in relazione al tesseramento degli atleti, nonostante la previsione della giurisdizione amministrativa sugli atti delle federazioni sportive da parte dell’art. 3 del d.l. n. 220 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 280 del 2003. Infatti, la prospettazione di motivi discriminatori fanno rientrare la fattispecie nel raggio di azione degli artt. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 e 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, che hanno di mira la tutela di un diritto soggettivo della persona, qualificabile come diritto assoluto (Sez. U, n. 03057/2022, Scarpa, Rv. 663838-01).

Di converso, le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa di atti del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) o delle Federazioni sportive nazionali, relativi a decisioni sulla regolare assunzione di cariche associative, sono soggette alla giurisdizione statale, in particolare, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. z), del d.lgs. n. 104 del 2010, atteso che, non venendo in rilievo l’applicazione di norme finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive, riservate agli organi dell’ordinamento sportivo, le stesse, pur se attinenti all’organizzazione del CONI o delle Federazioni, assumono rilevanza per l’ordinamento giuridico statale, che tutela i diritti in cui si esplica la personalità dell’individuo anche nell’ambito delle formazioni sociali, siano esse di diritto privato o di diritto pubblico (Sez. U, n. 03101/2022, Terrusi, Rv. 663841-01).

La S.C. si è espressa anche sulla controversia avente ad oggetto l’impugnazione della delibera di decadenza dalla carica di un componente elettivo del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, statuendo che essa appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che l’atto adottato nei confronti dell’interessato non integra un provvedimento autoritativo, tale da porre il destinatario al cospetto di un potere, ma un atto meramente ricognitivo dei presupposti legali di applicazione della norma, il quale viene ad incidere sulla pretesa alla continuazione nel “munus” pubblico elettivo e, quindi, alla permanenza del relativo incarico, ossia su una situazione la cui consistenza è di diritto soggettivo perfetto (Sez. U, n. 28428/2022, Vincenti, Rv. 665679-01).

La S.C., inoltre, ha ritenuto che una società di gestione del risparmio costituita, con partecipazione di maggioranza, dalla Cassa Depositi e Prestiti s.p.a., per l’istituzione e la gestione di fondi di investimento immobiliari di tipo chiuso riservati a investitori qualificati, non è un organismo di diritto pubblico, né è riconducibile al modello delle società di gestione del risparmio autorizzate ad operare sul mercato dei servizi di investimento e a prestare i servizi indicati nell’art. 33 del d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto, pur essendo finalizzata alla realizzazione di un interesse generale, quale la valorizzazione, gestione e alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, le esigenze per la cui soddisfazione è costuita hanno carattere indistriale o commerciale, avuto riguardo allo svolgimento dell’attività in regime di concorrenza, al perseguimento di obiettivi di rendimento prefissati e alla mancata previsione di forme di ripianamento delle perdite o comunque di finanziamento da parte di enti pubblici. Ne consegue che, ai fini dell’affidamento di lavori, servizi o forniture, essa non può considerarsi tenuta nella scelta del contraente né al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica e le relative controversie restano sottratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Sez. U, n. 01482/2022, Mercolino, Rv. 663720-01).

Con riferimento alla possibile interferenza del campo di giurisdizione del giudice amministrativo o speciale con quello della giurisdizione del giudice ordinario, si è affermato che una identica posizione giuridica può essere oggetto di più forme di tutela, azionabili sia davanti al giudice amministrativo, qualora venga in contestazione un atto amministrativo a monte, adottato nell’esercizio di un potere discrezionale, ovvero davanti al giudice ordinario o tributario, qualora si discuta dell’atto conclusivo a valle, ad esempio, una sanzione o una richiesta di pagamento quantificata sulla base dei criteri anteriormente fissati nell’atto amministrativo; in queste ipotesi, il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo che la legge riconosce al secondo giudice, sollevando così l’interessato dall’onere di impugnarlo separatamente, non preclude comunque il ricorso alla giurisdizione amministrativa contro i provvedimenti a monte (Sez. U, n. 01995/2022, Crucitti, Rv. 663725-01).

2. I rapporti tra il giudice amministrativo e il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

Nel corso del 2022, la S.C. ha avuto modo di affrontare anche questioni relative al riparto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.

In particolare, Sez. U, n. 12962/2022, Mercolino, Rv. 664570-01, hanno affermato che le opere destinate alla raccolta delle acque reflue urbane rientrano nella nozione di acqua pubblica quando sussiste l’attitudine di tali risorse idriche a soddisfare il pubblico interesse, da valutarsi, in relazione al sistema idrografico cui appartengono ed alla strumentalità dei relativi impianti, tenuto conto non solo della fase di conduzione e depurazione delle acque, ma anche di quella successiva della loro eventuale utilizzazione; rientra, pertanto, nella giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e non in quella del giudice amministrativo la controversia relativa alla legittimità dell’annullamento d’ufficio di un permesso a costruire in sanatoria, conseguente alla prossimità del fabbricato ad un canale di raccolta di acque reflue urbane, inserito in un reticolo idrografico soggetto al regime delle acque pubbliche.

Invece, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, e non a quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, la controversia in cui un Comune fa valere il diritto alla salvaguardia della gestione diretta del servizio idrico da parte dell’Amministrazione municipale, ai sensi dell’art. 147, comma 2 bis, lett. b), del d.lgs. n. 152 del 2006, come novellato dall’art. 62 della legge n. 221 del 2015, ove l’atto amministrativo impugnato non ha ad oggetto l’utilizzo delle acque, né la loro regimazione o l’esecuzione di opere incidenti sull’utilizzo o sulla regimazione delle stesse, bensì l’organizzazione, e non l’esercizio, del servizio idrico e non rientra, pertanto, nella categoria dei provvedimenti “in materia di acque pubbliche” (Sez. U, n. 18639/2022, Cosentino, Rv. 665033-01).

3. La giurisdizione in materia di pubblico impiego.

La materia del pubbligo impiego o meglio, in generale, quella dei rapporti di lavoro o delle prestazioni a favore della Pubblica Amministrazione ha costituito anche nel 2022 un rilevante banco di prova per la funzione nomofilattica della Suprema Corte in tema di riparto di giurisdizione.

Ad esempio, mettendo a fuoco proprio la nozione di “pubblico impiego”, la S.C. ha affermato che il militare di leva obbligatoria non è legato all’amministrazione da un rapporto di pubblico impiego, ma da un mero rapporto di servizio privo del carattere della spontaneità, destinato a cessare dopo il periodo di utilizzazione; ne consegue che la controversia promossa da un militare di leva nei confronti della P.A. per far valere pretese di natura patrimoniale, spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, vertendosi in materia di diritti soggettivi ed essendo esclusa l’esistenza di una controversia riconducibile a quelle espressamente devolute alla giurisdizione amministrativa del giudice aministrativo (Sez. U, n. 01393/2022, Conti, Rv. 663718-01).

Con riferimento ai rapporti di lavoro incardinati in Italia tra cittadini italiani in favore di organi militari e di uffici civili di Paesi aderenti alla NATO, l’art. 9 della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, resa esecutiva in Italia con legge n. 1355 del 1955, prevede che le condizioni di impiego e di lavoro delle persone assunte per i bisogni locali di manodopera, in particolare per quanto riguarda il salario, gli accessori e le condizioni di protezione dei lavoratori, al fine del soddisfacimento di esigenze materiali (cd. personale a statuto locale), sono regolate conformemente alla legislazione in vigore nello Stato di soggiorno. Ne consegue che sussiste la giurisdizione del giudice italiano a conoscere dell’azione intrapresa dal sindacato ai sensi dell’art. 28 st. lav., considerato che le “condizioni di protezione” presidiate dall’art. 9 della Convenzione sono appunto garantite dalla presenza sindacale attiva nei luoghi di lavoro, in applicazione degli artt. 2 e 39 Cost., che riconoscono l’azione sindacale come proiezione del riconoscimento e delle garanzie dei diritti inviolabili dei lavoratori, a ciò non ostando né che all’epoca della sottoscrizione e ratifica della predetta Convenzione non esistesse ancora lo Statuto dei lavoratori (venendo in rilievo un rinvio formale e non recettizio), né la configurabilità della responsabilità penale per il caso di inottemperanza al decreto ex art. 28 st. lav. (Sez. U, n. 02849/2022, Perrino, Rv. 663784-01).

La materia dei procedimenti selettivi per l’assunzione di personale da parte della P.A. appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, in base al comma 4 dell’art. 68 del d.lgs. n. 165/2001, il testo unico del pubblico impiego.

Sez. U, n. 9168/2006 aveva stabilito che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di concorsi interni, quando questi ultimi comportino il passaggio da un’area a un’altra, mentre rimangono attratte alla generale giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti a concorsi interni che comportino il passaggio da una qualifica a un’altra, nell’ambito della stessa area.

La cognizione della domanda, avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale, riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo “scorrimento” della graduatoria del concorso espletato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, facendosi valere, al di fuori dell’ambito della procedura concorsuale, il “diritto all’assunzione” (Sez. U, n. 04870/2022, Marotta, Rv. 663850-01).

Sulla stessa scia, si è ritenuto che spetta al giudice ordinario la cognizione della causa con la quale il candidato utilmente collocato nella graduatoria finale di un concorso faccia valere il proprio diritto all’assunzione, contestando le modalità di scorrimento della graduatoria, mentre, ove l’affermazione di tale diritto richieda la negazione degli effetti del provvedimento con cui l’Amministrazione abbia scelto di indire una nuova procedura concorsuale, anziché attingere alla menzionata graduatoria, la controversia è devoluta al giudice amministrativo, poiché investe l’esercizio di un potere di organizzazione degli uffici, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo (Sez. U, n. 22566/2022, Patti, Rv. 665451-01).

Coerentemente, la S.C. ha stabilito che competono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative alla stabilizzazione a domanda del personale non dirigenziale di cui all’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75 del 2017, dovendo intendersi per controversie “relative all’assunzione” del personale, ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, anche quelle per le quali non è prevista alcuna procedura concorsuale, bensì esclusivamente un percorso assunzionale che, come nella specie, riguardi dipendenti già reclutati a tempo determinato mediante procedure concorsuali, nell’ambito del quale la P.A., attualizzata la programmazione del fabbisogno nei vincoli di spesa pubblica, ed esercitata la possibilità di far luogo alla stabilizzazione, deve soltanto verificare la sussistenza dei requisiti predetermnati dalla legge, senza esercitare alcun potere pubblico (Sez. U, n. 40953/2022, Marotta, Rv. 663713-01).

In relazione ad una domanda di risarcimento dei danni per lesione della propria integrità fisica, proposta da un dipendente in regime di diritto pubblico nei confronti dell’Amministrazione, la soluzione della questione del riparto di giurisdizione è strettamente connessa all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se si tratta di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; se si tratta di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene, invece, al giudice ordinario. Al fine di tale accertamento è necessario considerare i tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, oppure se la condotta lesiva dell’amministrazione presenti caratteri tali da escluderne qualsiasi incidenza nella sfera giuridica dei soggetti ad essa non legati da rapporto d’impiego; ne consegue che, ove venga dedotta la responsabilità contrattuale per violazione di specifici obblighi di protezione dei lavoratori, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche con riguardo all’azione per il danno complementare e differenziale (Sez. U, n. 04872/2022, Tricomi, Rv. 664031-01).

L’azione risarcitoria proposta nei confronti della pubblica amministrazione in relazione al danno prodotto dalla cancellazione dalle liste di collocamento non rientra tra le controversie previste dall’art. 409 n. 5 c.p.c., non venendo in rilievo una responsabilità derivante dal rapporto di lavoro, bensì dall’applicazione dei princìpi generali relativi alla responsabilità aquiliana. La giurisdizione su tale azione appartiene al giudice ordinario (Sez. 6-L, n. 07640/2022, Di Paolantonio, Rv. 664079-01).

Il conferimento, da parte di un ente pubblico, di un incarico ad un professionista non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo costituisce espressione non di potestà amministrativa, ma di semplice autonomia privata, ed è funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta prasubordinazione, da ricondurre pur sempre al lavoro autonomo, anche nella ipotesi in cui la collaborazione assuma carattere continuativo, ed il professionista riceva direttive ed istruzioni dall’ente, onde anche la successiva delibera di revoca dell’incarico riveste natura non autoritativa, ma di recesso contrattuale, con conseguente attribuzione della controversia alla cognizione del giudice ordinario che, peraltro, assicura piena tutela con l’eventuale disapplicazione dell’atto presupposto (Sez. U, n. 09314/2022, Tricomi, Rv. 664226-01).

Ancora in tema di pubblico impiego privatizzato, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, la controversia avente ad oggetto il diniego di congedo retribuito, richiesto dal lavoratore, ai sensi dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, per prestare assistenza ad un familiare convivente con handicap in situazione di gravità, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo il diniego un atto di gestione del rapporto di lavoro tra la pubblica amministrazione e il dipendente che, pertanto, esula dall’ambito dei provvedimenti amministrativi autoritativi e si compendia in un atto adottato in base alla capacità e ai poteri propri del datore di lavoro privato, rispetto al quale sono configurabili soltanto diritti soggettivi (Sez. U, n. 10215/2022, Giusti, Rv. 664228-01).

Dai rapporti di lavoro privatizzato fuoriesce il rapporto di servizio degli appartenenti alla Polizia di Stato, che resta soggetto alla disciplina pubblicistica, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, con la conseguenza che la domanda proposta da un appartenente alla Polizia di Stato per ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un’infermità, ai fini della corresponsione dell’equo indennizzo, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo (Sez. U, n. 11772/2022, Esposito, Rv. 664489-01).

In tema di riparto di giurisdizione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l’efficacia di singole clausole di un contratto integrativo, che attiene a tipiche situazioni di diritto soggettivo, quali quelle nascenti dall’esercizio dell’autonomia contrattuale, in applicazione dell’art. 63, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, che devolve alla cognizione del giudice ordinario, in funzione del giudice del lavoro, le controversie relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all’art. 40, rilevando la natura delle situazioni giuridiche implicate non solo nella fase procedimentale e precontrattuale, ma a maggior ragione una volta che il contratto sia effettivamente concluso, e dovendo riferirsi l’espressione “procedure”, di cui al citato comma 3 dell’art. 63, a qualsivoglia controversia inerente alle vicende suddette, dal momento delle trattative a quello del perfezionamento e dell’applicazione del contratto collettivo di qualsiasi livello (Sez. U, n. 16767/2022, Mancino, Rv. 664755-01).

La controversia avente ad oggetto il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un teatro di tradizione o di una istituzione concertistica orchestrale, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 800 del 1967 (come la Fondazione Arturo Toscanini) appartiene, fino a quando resti inoperante la trasformazione di tali enti in fondazioni di diritto privato disposta con il d.lgs. n. 367 del 1996 a causa della mancata emissione del decreto ministeriale di attuazione, alla giurisdizione del giudice ordinario se tali enti sono di proprietà privata, ed alla giurisdizione amministrativa del giudice amministrativo se il teatro o l’orchestra sono gestiti direttamente da un ente locale nell’ambito della sua organizzazione tipica e con gli strumenti propri dell’azione amministrativa, permanendo, comunque, la natura privata dei rapporti di lavoro alle dipendenze di tali istituzioni, con la conseguente attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario, se l’ente pubblico si avvalga per l’esercizio di detta attività di un’organizzazione distinta e separata dalla struttura pubblicistica, dotata di autonomia patrimoniale, finanziaria e contabile (Sez. U, n. 18327/2022, Spena, Rv. 664920-01).

Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario anche la controversia tra un ente ecclesiastico riconosciuto che esercita attività ospedaliera (come l’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti) ed i propri dipendenti, atteso che detti enti non sono pubblici, pur se abbiano ottenuto la classificazione di ospedale, a norma dell’art. 1, ultimo comma, della l. n. 132 del 1968, non mutando tale classificazione la natura degli enti medesimi, e risultando inapplicabile la disciplina di cui all’art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv. dalla legge n. 133 del 2008, che si riferisce solo alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 (Sez. U, n. 18543/2022, Marotta, Rv. 664922-01).

La S.C. si è anche occupata della giurisdizione sulle controversie attinenti al transito dai ruoli militari ai ruoli civili, statuendo che esse appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo atteso che, fino a quando non viene formalizzato il passaggio, il richiedente rimane nei ruoli militari e la pretesa, azionata per ottenere coattivamente dal giudice il riconoscimento del diritto, attiene allo svolgimento del rapporto militare, rimasto in regime di diritto pubblico ex art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituendo il transito una misura di salvaguardia della posizione lavorativa per il caso di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento di determinate mansioni, pur persistendo l’idoneità allo svolgimento di altri compiti, seppure riferibili a ruoli diversi dell’amministrazione (Sez. U, n. 20852/2022, Garri, Rv. 665082-01).

Ne consegue che anche la giurisdizione sulle controversie riguardanti la ripetizione di indebito per somme non dovute spetta in via esclusiva al giudice amministrativo, in quanto relative a rapporti di lavoro in regime di diritto pubblico (Sez. U, n. 30346/2022, Patti, Rv. 665914-01).

La S.C. ha anche precisato che, nell’ambito delle controversie soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, va esclusa l’applicabilità dell’art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001 in tema di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi, che è uno strumento processuale destinato ai giudici civili, ed esclusivamente per il primo grado di giudizio, per dirimere questioni interpretative, sorte nell’ambito del rapporto d’impiego oggetto di giurisdizione del giudice ordinario, ben più complesse rispetto a quelle che il giudice amministativo può risolvere in via pregiudiziale ai sensi del’art. 8 del d.lgs. n. 104 del 2010, essendo tale giudice investito esclusivamente del reclutamento dall’esterno, con l’aspetto pubblicistico nettamente prevalente sul profilo negoziale (Sez. U, n. 22206/2022, Mancino, Rv. 665193-01).

Qualora il giudice ordinario di primo grado, investito della domanda unitaria relativa ad un rapporto di lavoro che abbraccia un arco temporale anteriore e successivo al 30 giugno 1998, rispetto alla quale non rileva il discrimine temporale ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, abbia declinato la propria giurisdizione sulla parte di domanda relativa al periodo anteriore al 30 giugno 1998 e deciso nel merito quella relativa al periodo successivo, mentre il giudice di secondo grado affermi la propria giurisdizione anche per il periodo precedente, non ricorre il presupposto di applicazione dell’art. 353 c.p.c., che prevede la rimessione della causa al primo giudice, in quanto quest’ultimo ha conosciuto anche nel merito della domanda, che rileva nella sua unitarietà, con sostanziale effetto sul periodo anteriore (Sez. U, n. 26820/2022, Tricomi, Rv. 665481-01).

Sussiste, ancora, la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alle controversie sul conferimento delle deleghe ex art. 25, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 (come autenticamente interpretato dall’art. 14, comma 22, del d.l. n. 95 del 2012, conv. dalla legge n. 135 del 2012), in quanto nell’affidamento di compiti specifici a determinati docenti non può ravvisarsi un provvedimento pubblicistico, ma un atto privatistico tipicamente gestionale del rapporto di lavoro, senza che assuma alcun rilievo, ai fini anzidetti, la discrezionalità che, in detto ambito, compete al dirigente scolastico (Sez. U, n. 28467/2022, Esposito, Rv. 665680-01).

Spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, la controversia sul diritto dell’INPS a procedere al recupero di somme già erogate a titolo di indennità di buonuscita agli avvocati dell’ente, venendo in rilievo un’azione di accertamento dell’illegittimità della richiesta restitutoria, posta in essere con gli strumenti privatistici di gestione del rapporto di lavoro (Sez. U, n. 24028/2022, Tricomi, Rv. 665454-01).

Anche le controversie tra l’ARPAV (Agenzia di Protezione ambientale del Veneto) e i suoi dipendenti appartengono alla giurisdizione ordinaria del giudice ordinario, non rilevando la deduzione della illegittimità del mancato incremento dei fondi ad opera del datore, che costituisce al più una censura verificabile dal giudice in via incidentale (Sez. U, n. 33365/2022, Garri, Rv, 666191-01).

4. Giurisdizione e autodichia.

La S.C. si è pronunciata sui limiti dell’autodichia delle Camere parlamentari, in relazione a contenziosi che hanno interessato i massimi organi rappresentativi della Repubblica.

Uno di tali contenziosi ha avuto ad oggetto il diritto alla riservatezza di un terzo i cui dati personali erano stati pubblicati, insieme agli atti di una Commissione parlamentare d’inchiesta, sul sito internet di una delle Camere.

Orbene, Sez. 1, n. 21415/2022, Nazzicone, Rv. 665515-01, ha affermato che la doglianza di tale terzo, che si doleva dell’illegittimo trattamento dei suoi dati personali, asseritamente esposti in forma incompleta, non rientra nella giurisdizione della Camera che ha effettuato la pubblicazione, quale espressione di autodichia, posto che quest’ultima riguarda solo le questioni interne agli organi costituzionali. Tuttavia, l’azione a tutela dei dati personali non è proponibile neppure davanti al giudice ordinario, come è stabilito dall’art. 8 del d.lgs. n. 196 del 2003, poiché l’attività delle Commissioni d’inchiesta rientra nella più lata attività ispettiva di ciascuna delle Camere su questioni di rilevante interesse pubblico. Nel caso di specie, la Corte ha cassato senza rinvio la decisione di merito, rilevando l’improponibilità della domanda con cui un cittadino italiano aveva prospettato l’illegittimo trattamento dei propri dati a causa della pubblicazione sul sito internet del Senato degli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul “sequestro Moro”, dai quali emergeva la sua imputazione per alcuni reati, senza che fosse resa nota anche la sua successiva assoluzione.

Inoltre, Sez. U, n. 15236/2022, Giusti, Rv. 664662-03, ha affermato che la procedura di gara indetta dalla Camera dei Deputati, sulla scorta della normativa nazionale ed europea, per l’affidamento ad un operatore economico privato di un appalto di servizi (nella specie, di monitoraggio dei contratti relativi ai servizi informatici e alla loro gestione), non ricade nella sfera di autonomia normativa costituzionalmente riconosciuta a tale organo, con la conseguenza che la controversia relativa all’esclusione di un concorrente da tale gara non spetta alla cognizione degli organi di autodichia, ma alla giurisdizione comune.

Peraltro, in caso di impugnativa dell’atto di esclusione di un concorrente da una gara indetta dalla Camera dei Deputati per l’affidamento di un appalto di servizi, a fronte dell’eccezione di autodichia dell’organo parlamentare, il giudice non è tenuto a sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale, avendo il potere-dovere di stabilire se la situazione soggettiva oggetto della controversia ricada nell’ambito della giurisdizione domestica della Camera, involgendone profili di autonomia o di indipendenza, o spetti a lui apprestare la richiesta tutela, secondo il regime giurisdizionale di diritto comune; resta ferma, in quest’ultimo caso, la possibilità per la Camera dei Deputati di promuovere il suddetto conflitto ove lamenti che il giudice adìto, decidendo il merito della controversia, o la Corte di cassazione pronunciando sul ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, abbia concretamente interferito con le sue prerogative (Sez. U, n. 15236/2022, Giusti, Rv. 664662-01).

5. La giurisdizione in materia di società e consorzi pubblici.

Questioni di riparto di giurisdizione si pongono con frequenza anche con riferimento alle controversie che investono i rapporti tra la Pubblica Amministrazione e le società a partecipazione pubblica.

Sez. U, n. 11257/2022, Terrusi, Rv. 664486-01, ha affermato che nei contratti di appalto o di concessione, oggetto esclusivo dell’attività di una società mista, con l’avvenuta cessione delle quote e la conclusione della procedura di selezione, indicata dall’art. 17 del d.lgs. n. 175 del 2016 per l’ingresso del socio privato nella compagine originaria, si attua la fattispecie della società mista pubblico-privata e, contemporaneamente, si chiude la fase involgente la giurisdizione esclusiva. La doglianza della società mista che lamenta la mancata stipula del contratto e richiede il risarcimento del danno, all’esito di una procedura selettiva “a doppio oggetto” (la scelta del socio privato e quella dell’aggiudicatario del contratto) non seguìta dal concreto affidamento del servizio, è, dunque, attratta alla cognizione del giudice ordinario.

In tema di consorzi pubblici, si è stabilito che è devoluta alla cognizione del giudice ordinario anche la controversia concernente l’esistenza dell’obbligo di un Comune consorziato di contribuire alle spese consortili, ovvero la determinazione della loro entità, afferendo la questione non al cattivo uso di un potere pubblicistico, ma al diritto soggettivo a non essere obbligato a prestazioni patrimoniali fuori dei casi previsti dalla legge (Sez. U, n. 04512/2022, Nazzicone, Rv. 663848-01).

È devoluta, parimenti, alla giurisdizione del giudice ordinario anche la controversia relativa all’esercizio del diritto di voto mediante modalità telematiche, trattandosi di domanda diretta ad accertare il diritto dei consorziati ad esercitare il diritto di voto e, quindi, avente come “petitum” sostanziale la tutela del diritto di elettorato attivo quale diritto fondamentale in quanto diritto politico (Sez. U, n. 05209/2022, Marulli, Rv. 663854-01).

6. La giurisdizione e i diritti della persona.

Risolte nel 2022 anche questioni di giurisdizione relative a controversie afferenti a diritti fondamentali della persona, come quelli di cittadinanza e di assistenza sanitaria ai disabili, e ai diritti dei cittadini stranieri.

In particolare, con riferimento ai visti d’ingresso, disciplinati dal regolamento del parlamento europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 e dal d.m. n. 850 del 2011, spettano alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative all’impugnazione del diniego di concessione del visto d’ingresso per turismo, il cui rilascio è subordinato ad una valutazione ampiamente discrezionale da parte della P.A. della sussistenza di requisiti e condizioni, che esclude la possibilità di configurare, in capo al cittadino straniero residente, una posizione di diritto soggettivo al relativo ottenimento (Sez. U, n. 15089/2022, Ferro, Rv. 664660-01).

Le controversie relative al rilascio, al diniego o al ritiro del titolo di viaggio del cittadino straniero beneficiario di protezione sussidiaria, di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 251 del 2007, rientrano nella materia peculiare dei passaporti e dei titoli equipollenti o assimilabili, e sono, pertanto, devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in presenza di una commistione tra posizioni soggettive d’interesse legittimo e di diritto soggettivo che il legislatore ha deciso di assegnare al giudice amministrativo (Sez. U, n. 13062/2022, Grasso, Rv. 664572-01).

La controversia avente ad oggetto una domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (a seguito del silenzio dell’Amministrazione, che non aveva provveduto al rinnovo nonostante il decorso di oltre diciotto mesi dalla presentazione dell’istanza, senza fornire alcuna ragione del ritardo né chiedere alcuna integrazione documentale), è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la situazione giuridica dello straniero ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 CEDU, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, cui compete solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore (Sez. U, n. 1390/2022, Falaschi, Rv. 663716-01).

Ancora in tema di permesso di soggiorno per motivi umanitari, per la cui adozione, nella disciplina applicabile “ratione temporis”, sussiste la competenza diretta del questore, ai sensi degli artt. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 11, comma 1, lett. c-ter, del d.P.R. n. 394 del 1999, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario tutti i giudizi aventi ad oggetto il provvedimento di diniego, e ciò anche quando la commissione territoriale non abbia espresso alcun parere, la cui mancanza non influisce sul riparto di giurisdizione, in quanto il diritto alla protezione umanitaria ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, come tali dotati di un grado di tutela assoluta e non degradabili ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, a cui è rimesso solo l’accertamento dei presupposti di fatto che ne legittimano il riconoscimento (Sez. U, n. 02716/2022, Cinque, Rv. 663741-01).

In tema di cittadinanza, la richiesta del cittadino straniero fondata sulla residenza legale da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica ex art. 9, comma 1, lett. f) della legge n. 91 del 1992 è assoggettata alla giurisdizione del giudice amministrativo, dal momento che la determinazione spettante all’Amministrazione, oltre ad essere adottata con decreto del Presidente della Repubblica, previo parere del Consiglio di Stato, non ha carattere vincolato, ma implica una valutazione discrezionale non limitata al mero apprezzamento della sicurezza pubblica ma estesa ad un più complesso giudizio di opportunità legato a tutti i profili di integrazione scrutinabili. Peraltro, l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo non è scalfita dalle modifiche apportate dal d.l. n. 13 del 2017, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 46 del 2017, che, nell’istituire le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, si è limitato ad individuare il giudice competente per quelle attribuite alla giurisdizione ordinaria, nonché a dettare la nomativa processuale applicabile dinanzi ad esse (Sez. U, n. 01053/2022, Mercolino, Rv. 663589-01).

Con riferimento al diritto del disabile all’assistenza sanitaria, Sez. U, n. 00781/2022, Manzon, Rv. 663724-01, ha affermato che la domanda di condanna dell’ASL al riconoscimento del diritto di un disabile ad uno specifico ed individualizzato trattamento terapeutico, sia in modalità diretta che per equivalente monetario, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 104 del 2010, non essendo dubbio che, in presenza di un “pubblico servizio”, debba considerarsi impugnabile, quale “provvedimento negativo”, l’omissione provvedimentale dell’amministrazione sanitaria in relazione alle specifiche richieste azionate giudizialmente.

7. Il controllo giurisdizionale sulle sentenze del Consiglio di Stato.

La S.C. ammette il sindacato dell’eccesso di potere giurisdizionale sulle sentenze del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. L’enucleazione della nozione di eccesso di potere giurisdizionale, non codificata, avviene necessariamente su base casistica.

L’eccesso di potere giurisdizionale non si configura nel caso in cui il sindacato sulla legittimità dell’atto implichi la verifica dei requisiti prescritti per la partecipazione ad una selezione o per l’accesso a determinati benefici, la cui ricognizione non presenti alcun profilo di discrezionalità, trattandosi di circostanze oggettivamente riscontrabili nell’ambito del controllo di conformità del provvedimento alla normativa primaria e secondaria che lo disciplina, e ciò anche se il provvedimento in questione sia stato emesso dalla P.A. in sede di autotutela, per l’annullamento di altro precedente provvedimento (Sez. U, n. 25499/2022, Mercolino, Rv. 665658-01).

Integra, invece, l’eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera riservata al potere discrezionale della P.A., la pronuncia che non si limiti ad annullare il provvedimento impugnato, rimettendo all’Amministrazione ogni valutazione in ordine al prosieguo della procedura, ma si spinga fino a prefigurare il possibile esito di tale valutazione, individuando un’unica corretta modalità di esercizio della discrezionalità amministrativa (Sez. U, n. 05365/2022, Mercolino, Rv. 664032-01, in una fattispecie in cui il Consiglio di Stato, annullando un’aggiudicazione ad una società nei cui confronti era stato attivato un procedimento sanzionatorio da parte dell’AGCM su segnalazione della stessa stazione appaltante, aveva disposto direttamente il differimento dell’aggiudicazione alla fine del procedimento iniziato dall’Antitrust, piuttosto che fare salva ogni altra determinazione dell’autorità amministrativa).

Non concreta, invece, un caso di eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione tale da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, comma 8 Cost., la negazione di tutela alla situazione soggettiva azionata in ragione della individuazione di un nesso di presupposizione necessaria tra l’atto compiuto “iure imperii” da uno Stato estero (immune alla giurisdizione) e gli atti amministrativi dell’autorità italiana vincolata a darvi esecuzione, in quanto essa è frutto dell’interpretazione delle norme di diritto e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione (Sez. U, n. 27174/2022, Scarpa, Rv. 665662-01: nella fattispecie di causa, il Consiglio di Stato aveva negato la tutela avverso atti amministrativi delle autorità nazionali adottate in conseguenza necessaria di obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano).

Un campo privilegiato per il sindacato dell’eccesso di potere giurisdizionale è costituito dalle decisioni del Consiglio di Stato emesse in sede di giudizio di ottemperanza.

A tal proposito, la S.C. ha precisato che il controllo è ammesso solo sul rispetto dei limiti esterni della giurisdizione, e cioè in merito alla possibilità stessa di azionare il rimedio dell’ottemperanza, essendo, invece, inammissibile il ricorso per cassazione nel caso in cui si censuri il modo in cui il potere di ottemperanza sia stato esercitato dal giudice amministrativo, che attiene ai limiti interni di tale giurisdizione. Ne consegue che, ove le censure mosse alla decisione del Consiglio di Stato riguardino l’interpretazione del giudicato, l’accertamento del comportamento tenuto dalla P.A. e la valutazione di conformità dello stesso rispetto a quello che essa avrebbe dovuto tenere, gli errori nei quali il giudice amministrativo può eventualmente essere incorso, in quanto inerenti al giudizio di ottemperanza, restano interni alla giurisdizione stessa e non sono sindacabili dalla Corte di cassazione (Sez. U, n. 27746/2022, Garri, Rv. 665664-01).

Sulla scia di tale indirizzo, si è ritenuto che le decisioni del Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza sono soggette al sindacato delle Sezioni Unite sul rispetto dei limiti esterni della giurisdizione solo ove non venga in questione il modo in cui il potere giurisdizionale è stato esercitato dal giudice amministrativo, attenendo questo ai limiti interni di tale giurisdizione, sicché è inammissibile il ricorso per motivi di giurisdizione che censuri la determinazione delle modalità di esecuzione del giudicato, seppure fissate prendendo atto di circostanze sopravvenute potenzialmente suscettibili di escludere la persistenza del debito della P.A. (Sez. U, n. 01227/2022, Giusti, Rv. 663782-01).

Le sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in violazione del diritto dell’Unione europea sono insindacabili per eccesso di potere giurisdizionale, ai sensi dell’art. 111, comma 8 Cost., e tale insindacabilità non contrasta con gli artt. 52, par. 1 e 47 della Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione europea, in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione; costituisce, quindi, ipotesi estranea al perimetro del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione la denuncia di un diniego di giustizia da parte del giudice amministativo di ultima istanza, derivante dalla violazione delle norme di riferimento, nazionali o unionali, interpretate in senso incompatibile con la giurisprudenza della CGUE, risultando coerente con il diritto dell’Unione la riferita interpretazione in senso riduttivo degli artt. 111, comma 8 Cost., 360, comma 1, n. 1 e 362, comma 1 c.p.c. (Sez. U, n. 25503/2022, Lamorgese, Rv. 665455-01; Sez. U, n. 01454/2022, Cosentino, Rv. 663783-01).

D’altro canto, la non sindacabilità da parte della Corte di cassazione ex art. 111 comma 8 Cost. delle violazioni del diritto dell’Unione europea e del mancato rinvio pregiudiziale ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali è compatibile con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla giuisprudenza costituzionale ed europea, in quanto correttamente ispirato ad esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai princìpi del giusto processo ed idoneo a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione (Sez. U, n. 01996/2022, Crucitti, Rv. 663726-01).

Sez. U, n. 38737/2021, Vincenti, Rv. 664745-01 ha chiarito che il ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato, con cui si deduce il vizio di violazione del giudicato interno sulla giurisdizione, è ammissibile, dovendosi considerare proposto per motivi inerenti alla giurisdizione, in quanto la violazione di una norma del procedimento che regola la formazione del giudicato incide sull’attribuzione della giurisdizione ad un plesso giurisdizionale piuttosto che a un altro, a prescindere dall’interpretazione che il Consiglio di Stato abbia dato dei limiti oggettivi del giudicato verificatosi all’interno del giudizio amministrativo.

Sulla stessa linea, Sez. U, n. 36005/2022, Di Paolantonio, Rv. 666372-01, che ha affermato che il ricorso per cassazione contro la decisione della Corte dei conti, con il quale si deduca il vizio di violazione del giudicato interno sulla giurisdizione (per non essere stata appellata la sentenza non definitiva che aveva respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione, sollevata in primo grado), deve ritenersi proposto per motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi degli artt. 111 Cost. e 362, comma 1, c.p.c.; in tal caso, il sindacato della Corte di cassazione si estende alle disposizioni che regolano la deducibilità ed il rilievo del difetto di giurisdizione, il cui accertamento può essere sollecitato anche dal controricorrente che invochi la formazione di quel giudicato, al fine di ottenere una pronuncia di inammissibilità del ricorso proposto avverso la statuizione in punto di giurisdizione, pronunciata nella sentenza gravata nonostante la preclusione derivante dal giudicato interno.

D’altra parte, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato che dichiara irricevibile per tardività un proposto appello, in quanto, pur comportando il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado declinatoria della giurisdizione, costituisce ordinaria estrinsecazione della potestà giurisdizionale del Consiglio di Stato nella interpretazione della legge processuale avanti a sé applicabile, atteso che l’effetto sulla giurisdizione risulta soltanto indiretto ed indotto dall’applicazione della disciplina generale dei termini processuali, sicché non rientra nel sindacato sull’applicazione delle disposizioni che regolano la deducibilità ed il rilievo del difetto di giurisdizione (Sez. U, n. 13051/2022, Stalla, Rv. 664571-01).

Tra i motivi attinenti alla giurisdizione non rientra il vizio di illegittima costituzione del giudice speciale, che non determina la carenza di giurisdizione in capo all’organo giudicante. Non è, dunque, denunciabile con il ricorso per cassazione ex artt. 111, comma 8, Cost. e 362 c.p.c. la circostanza che il presidente del collegio che ha deliberato la sentenza del Consiglio di Stato abbia svolto precedentemente funzioni paranormative (assumendo, come nella specie, il ruolo di presidente del comitato scientifico per il coordinamento delle attività del Ministero della Difesa in materia di semplificazione della legislazione), non potendosi qualificare tale ruolo come una causa di deficit strutturale dell’organo decidente capace di incidere sul canone dell’imparzialità obiettiva del medesimo (Sez. U, n. 01395/2022, Conti, Rv. 663719-01).

Non è censurabile per motivi di giurisdizione la valutazione, operata dal Consiglio di Stato, delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, giacché con il ricorso per cassazione non viene posta una questione di sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, non viene dedotta la violazione dei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è consentito ricorrere in sede di legittimità in base alle anzidette norme (Sez. U, n. 1603/2022, Rubino, Rv. 663722-01).

Con riferimento agli atti adottati in autotutela, si è affermato che la controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni subìti dal privato per la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione di un appalto pubblico successivamente annullato dal giudice amministrativo rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, atteso che la deduzione non inserisce all’accertamento dell’illegittimità dell’aggiudicazione, ma alla colpa della P.A., consistita nell’avere indotto il suddetto privato a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine previsto dal contratto stipulato a seguito della gara (Sez. U, n. 01391/2022, Falaschi, Rv. 663717-01).

8. La giurisdizione italiana e le Autorità straniere.

Con riferimento al riparto di giurisdizione tra il giudice italiano e il giudice straniero, nelle controversie che hanno ad oggetto la determinazione del contributo al mantenimento del figlio minore residente in uno Stato non appartenente alla UE, spetta al giudice italiano la cognizione sulla domanda formulata nei confronti di un genitore avente la cittadinanza italiana e residente in Italia, perché, in assenza di una specifica convenzione internazionale, non trova applicazione l’art. 42 della l. n. 218 del 1995, che attiene ai rapporti personali tra genitore e figlio, bensì l’art. 37 della legge citata, relativo alla categoria delle “obbligazioni alimentari” nella famiglia, cui deve essere ricondotto anche l’obbligo di mantenimento dei figli; la giurisdizione del giudice italiano sussiste, pertanto, non solo nei casi previsti dagli artt. 3 e 9 della stessa legge, ma anche in quelli in cui uno dei genitori o il figlio sia cittadino italiano o risieda in Italia (Sez. U, n. 30903/2022, Mercolino, Rv. 666075-02).

Il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in conseguenza di una clausola compromissoria per arbitrato estero, non è rilevabile d’ufficio, stante l’imprescindibile carattere volontario dell’arbitrato in forza del quale le parti, pur in presenza di una clausola compromissoria, possono sempre concordemente optare per una decisione da parte del giudice ordinario, anche tacitamente, mediante l’introduzione del giudizio in via ordinaria alla quale faccia riscontro la mancata proposizione dell’eccezione di compromesso, né, in caso di contumacia del convenuto, risulta applicabile l’art. 11 della l. n. 218 del 1995, che non contempla espressamente l’ipotesi in cui alla base del difetto di giurisdizione vi sia una convenzione di arbitrato estero (Sez. U, n. 17244/2022, De Chiara, Rv. 664757-01).

La controversia inerente l’ammissione ad un dottorato di ricerca presso la Pontificia Università Lateranense non si sottrae alla giurisdizione del giudice italiano, in quanto l’immunità, garantita dall’art. 11 del Trattato lateranense dell’11 febbraio 1929, è riservata ai soli enti che concorrono, con funzione strumentale ed ausiliaria, al governio della Chiesa universale, senza che ai fini del riparto di giurisdizione rilevi la qualificazione, in virtù della Dichiarazione della Segreteria di Stato della Santa Sede del gennaio 2019, della suddetta Università, quale “Ente centrale della Chiesa Cattolica”, non vertendosi in ambito di scelte di organizzazione, configurabili come estrinsecazione immediata e diretta di sovranità, connesse all’esercizio di compiti espressivi della potestà “iure imperii” della Santa Sede, bensì di determinazioni afferenti allo “ius gestionis” dell’Ente internazionale (Sez. U, n. 12442/2022, Marotta, Rv. 664518-01).

Le domande giudiziali volte a negare la sovranità dello Stato italiano su una porzione del proprio territorio, chiedendo al giudice ordinario di riconoscere l’esistenza di altra entità statuale, rientrano nell’ambito del difetto assoluto di giurisdizione in quanto comportano non già la delibazione di una posizione di diritto o di interesse legittimo, ma un sindacato sulla configurazione costituzionale dello Stato italiano, di cui viene messa in discussione, a monte, la stessa ridefinizione dei confini territoriali o, comunque, il loro assetto (Sez. U, n. 08600/2022, Vincenti, Rv. 664223-01: in applicazione di questo principio, la S.C. ha confermato la declinatoria di giurisdizione pronunciata dal giudice di merito con riferimento a una controversia promossa al fine di inibire l’imposizione fiscale dello Stato italiano sul cd. Territorio Libero di Trieste).

Nella controversia instaurata da una dipendente dell’Ambasciata degli Emirati Arabi Uniti in Italia, per il riconoscimento di differenze retributive, risarcimento danni da mobbing e da omissione contributiva, in base al principio dell’immunità ristretta, sussiste la giurisdizione del giudice italiano, atteso che la decisione richiesta attiene solo ad aspetti patrimoniali e non è, pertanto, idonea ad incidere sull’autonomia e le potestà pubblicistiche dell’ente estero; tale giurisdizione, in base ad una lettura coordinata dell’art. 11, par. 2, lett. f), della Convenzione delle Nazioni Unite, adottata a New York il 2 dicembre 2004 e ratificata in Italia con la legge n. 5 del 2013, e dell’art. 21 del Reg. CE n. 44/2001, è derogabile convenzionalmente, fatte salve considerazioni di ordine pubblico, solo nei limiti in cui l’accordo attributivo della competenza, pattuito anteriormente al sorgere della controversia, individuando dei fori aggiuntivi, offra al lavoratore di adìre, oltre ai giudici normalmente competenti in applicazione degli artt. 18 e 19 del Regolamento citato, altri giudici, ivi compresi quelli situati al di fuori dell’Unione (Sez. U, n. 18801/2022, Esposito, Rv. 665034-01).

Ai fini della corretta individuazione della giurisdizione in un giudizio di separazione personale tra coniugi, cittadini di diversi Stati membri dell’Unione europea, secondo i criteri stabiliti dall’art. 3 del Regolamento CE n. 2201 del 2003, per “residenza abituale” della parte ricorrente deve intendersi il luogo in cui l’interessato abbia fissato con carattere di stabilità il centro permanente ed abituale dei propri interessi e relazioni, sulla base di una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica, essendo rilevante, sulla base del diritto unionale, ai fini dell’identificazione della residenza effettiva, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa alla data di proposizione della domanda (Sez. U, n. 10443/2022, Acierno, Rv. 664483-01).

9. I rapporti tra la giurisdizione ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria.

Anche nel corso del 2022, la S.C. ha avuto modo di occuparsi della definizione dei confini tra la giurisdizione ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria.

In particolare, le controversie in tema di revoca di autorizzazioni, disposta a seguito di inadempienza nel pagamento di tributi locali, ai sensi dell’art. 15 ter del d.l. n. 34 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 58 del 2019, esulano dalla giurisdizione del giudice tributario, e spettano, invece, a quella del giudice amministrativo, non avendo ad oggetto la comminatoria di una misura afflittiva collegata all’inadempimento di un’obbligazione tributaria, ma la previsione di una forma di coazione indiretta all’adempimento, consistente nell’esclusione di pendenze in materia di tributi locali, il cui accertamento, pur concernendo aspetti sostanziali della disciplina tributaria, riveste carattere meramente incidentale, funzionale alla verifica dei requisiti soggettivi cui la legge subordina l’esercizio dell’attività e la legittimità del diniego opposto dall’amministrazione (Sez. U, n. 14049/2022, Mercolino, Rv. 664658-01).

Con riguardo alle interferenze tra la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione tributaria, si è precisato che del tutto legittimamente l’autorità giudiziaria ordinaria adìta per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore insolvente a fronte di un ingente debito tributario provvede a tale dichiarazione, senza entrare nel merito delle pretese impositive e senza, pertanto, violare alcun principio in tema di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e Commissioni tributarie (Sez. 1, n. 05856/2022, Terrusi, Rv. 664038-01).

Con riferimento alle controversie aventi ad oggetto richieste di rimborso delle imposte, la giurisdizione generale del giudice tributario può essere esclusa a favore del giudice ordinario, configurandosi un’ordinaria azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., nel solo caso in cui l’Amministrazione abbia formalmente riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione della somma dovuta, sicché non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il “quantum” del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato, ipotesi a cui va equiparata quella in cui la certezza dell’indebito derivi da una sentenza passata in giudicato (Sez. U, n. 00761/2022, Crucitti, Rv. 663585-01).

Esula dalla giurisdizione tributaria la controversia concernente l’impugnazione di un provvedimento mediante il quale l’Agenzia delle Entrate abbia individuato le modalità di presentazione, ed il contenuto essenziale, della comunicazione per il mantenimento del diritto a beneficiare di tariffe incentivanti riconosciute dal Gestore dei servizi energetici, posto che il potere di annullamento delle commissioni tributarie riguarda solo gli atti indicati nell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, o a questi assimilabili, da cui esula l’impugnazione di atti suscettibili di coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti, come si evince dall’art. 7, comma 5, del suddetto decreto, che circoscrive al potere di disapplicazione la cognizione, in capo al giudice tributario, della legittimità di un regolamento o di un atto generale rilevante ai fini della decisione (Sez. U, n. 04869/2022, Marotta, Rv. 663905-01).

In tema di assoggettamento ad imposizione dei beni sottoposti a misura di prevenzione, la cognizione del giudice ordinario nel procedimento previsto dall’art. 57 e ss. del d.lgs. n. 159 del 2011 per l’accertamento e la soddisfazione in ambito concorsuale dei creditori anteriori non esclude la cogizione del giudice tributario sulla legittimità formale e sostanziale dell’atto impositivo, i cui presupposti siano maturati in data anteriore all’adozione della misura di prevenzione (Sez. 6-5, n. 03356/2022, Lo Sardo, Rv. 663761-02).

Con riferimento alle controversie su atti di riscossione coattiva di entrate di natura tributaria, l’eccezione di prescrizione della pretesa impositiva maturata successivamente alla notificazione della cartella di pagamento rientra nella giurisdizione del giudice tributario, anche in caso di ritenuta validità della notifica della cartella, in quanto, restando escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione tributaria successivi alla sua notificazione, ove il contribuente sottoponga all’esame del giudice la definitività o meno della cartella di pagamento, la relativa controversia non è qualificabile come meramente esecutiva (Sez. U, n. 16986/2022, Conti, Rv. 664756-01).

D’altra parte, si è affermato che la controversia avente ad oggetto la richiesta di decreto ingiuntivo proposta dall’ente territoriale per ottenere dalla società fornitrice dell’energia elettrica l’adempimento dell’obbligo di versare l’addizionale provinciale all’accisa rientra nella giurisdizione del giudice tributario, in considerazione della natura tributaria della prestazione, come desumibile dall’espressa disposizione dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 e dallo specifico quadro normativo di riferimento relativo all’accisa sull’energia elettrica di cui al d.lgs. n. 54 del 1995, né, in senso contrario, assume rilievo che la pretesa sia fatta valere con il procedimento monitorio, atteso che la scelta del mezzo processuale è del tutto neutra ai fini della giurisdizione, rilevando unicamente la natura della prestazione oggetto del contendere (Sez. U, n. 16984/2022, Conti, Rv. 665031-01).

In tema di giurisdizione, Sez. 5, n. 18552/2022, Picardi, Rv. 664931-01, ha giudicato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie sul contributo unificato il cui gettito è, in parte, assegnato proprio a tale magistratura, atteso che, sebbene tale contributo possa in parte concorrere al funzionamento dell’intero sistema di giustizia tributaria ed anche a coprire le spese per i compensi dei giudici tributari, ciò non incide affatto sull’indipendenza e l’imparzialità di questi ultimi sulla relativa questione, non essendovi alcuna relazione diretta tra il contributo unificato, e ancor meno l’individuazione della parte tenuta a corrisponderlo, e il compenso delle persone fisiche che decidono la causa, parimenti a quanto, peraltro, avviene nei giudizi ordinari.

In caso di autorizzazioni temporanee all’utilizzo di frequenze accessorie e supplementari rispetto a quelle già rientranti nell’autorizzazione generale, gli oneri economici dovuti ai sensi dell’art. 38, All. n. 25 al d.lgs. n. 259 del 2003, valutati secondo un criterio contenutistico e sostanziale e non terminologico, non hanno natura tributaria, ma corrispettiva, sia in quanto aventi natura prettamente opzionale e tecnico-funzionale, quali corrispettivi o canoni sinallagmaticamente commisurati ai parametri tecnico-dimensionali dell’erogazione supplementare stessa, sia in quanto esulano dalla specifica capacità contributiva, senza che rilevi il passaggio dal regime concessorio ex art. 16 della legge n. 223 del 1990, a quello autorizzativo ex d.lgs. n. 259 del 2003 e d.lgs. n. 177 del 2005; ne consegue che, in caso di contestazione dovuta al mancato pagamento del conguaglio dei contributi d’uso già versati a titolo di acconto, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, e non a quello amministrativo, non vertendo la controversia sul contenuto provvedimentale o sulle procedure di assegnazione dei diritti d’uso, ma su una pretesa di tipo creditorio, che non rientra, pertanto, nelle prescrizioni di cui all’art. 133 c.p.a. (Sez. U, n. 32121/2022, Stalla, Rv. 666066-01).

10. La giurisdizione in tema di usi civici.

In tema di affrancazione di usi civici, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto la determinazione dell’esatto ammontare della somma dovuta quale canone di legittimazione ed affrancazione, trattandosi di controversia circa l’esistenza, la natura e l’estensione di tali diritti, che, non attenendo in alcun modo alla contestazione della natura demaniale delle aree, esula dalla giurisdizione speciale dei commissari per la liquidazione degli usi civici, mentre appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda avente ad oggeto il risarcimento dei danni connessi alla mancata conclusione nei termini della procedura di affrancazione, trattandosi di controversia circa l’indebito ritardo nella definizione di un procedimento amministrativo, ricadente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a) n. 1, del d.lgs. n. 104 del 2010 (Sez. U, n. 04298/2022, Criscuolo, Rv. 663847-01).

Con un risalente arresto, la S.C. aveva stabilito che l’accertamento in ordine alla validità dell’atto di cessione, da un Comune ad una Comunità Montana, di un’area avente natura e destinazione demaniale, appartiene alla giurisdizione del Commissario Regionale per il Riordinamento degli usi civici, dovendosi verificare se tale area sia da reintegrare nel demanio a causa dell’invalidità dell’atto di cessione, e a nulla rilevando che, nelle more del giudizio dinanzi al Commissario, sia intervenuta una delibera della giunta regionale autorizzante il Comune a dare una diversa destinazione all’area in questione, giacché, a norma dell’art. 5 cod. proc. civ., la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della domanda, senza che possano avere rilievo su di esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimi; ne consegue che, intervenuto il provvedimento della giunta regionale incidente sulla “qualitas soli” dopo che si era già radicata la giurisdizione commissariale, ben può il Commissario conoscere incidentalmente di tale provvedimento al fine di disapplicarlo se illegittimo, mentre, ove il suddetto provvedimento preesista al sorgere della controversia, verrebbe a mancare “ab origine” la giurisdizione commissariale e quindi l’esercizio strumentale ed incidentale del potere di disapplicazione, onde della illegittimità del suddetto provvedimento dovrebbe conoscere direttamente il giudice amministrativo (Sez. U, n. 00127/2000, Cristarella Orestano, Rv. 535594-01).

Con un recente arresto, invece, Sez. 2, n. 5343/2022, Abete, Rv. 663903-01, ha esteso il potere di disapplicazione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici del decreto regionale di accertamento dell’appartenenza dei terreni al demanio civico anche se quest’ultimo sia anteriore all’instaurazione del giudizio.

In generale, sussiste la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ogni volta in cui oggetto della domanda principale sia l’accertamento della demanialità civica del bene e le altre domande connesse siano la conseguenza di tale accertamento (Sez. U, n. 15530/2022, Falaschi, Rv. 664750-01).

Appartiene alla giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici la cognizione sulle opposizioni eventualmente proposte dalle parti avverso l’esecuzione delle decisioni commissariali adottate in sede giurisdizionale (Sez. U, n. 19346/2022, Criscuolo, Rv. 665036-01).

Spettano al giudice ordinario (e non al Commissario per la liquidazione degli usi civici) sia le controversie tra privati in cui l’accertamento sulla qualità del terreno che si assume “di uso civico” (cd. “qualitas fundi”) debba essere risolto “incidenter tantum”, per essere stata la relativa eccezione sollevata al solo scopo di negare l’esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare, risolvendosi la stessa nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato, sia quelle in cui insorga una questione possessoria su un terreno, la cui appartenenza al demanio civico sia già stata oggetto di accertamento coperto da giudicato, non avendo essa più attinenza con la “qualitas soli”, che afferisce all’ambito del giudizio petitorio (Sez. U, n. 28802/2022, Orilia, Rv. 665941-01).

11. La giurisdizione della Corte dei Conti.

Numerose sono state infine le occasioni in cui la S.C. si è pronunciata sui confini della giurisdizione della Corte dei Conti.

Con riferimento all’Automobile Club d’Italia e ai Clubs provinciali, si è affermato che essi sono enti di diritto pubblico a carattere non economico, atteso, per un verso, il loro inserimento, rispettivamente originario e successivo, nella tabella allegata alla legge n. 70 del 1975, e, dall’altro, l’esplicita esclusione del primo, ad opera delle disposizioni transitorie del d.lgs. n. 242 del 1999 (art. 18, comma 6), dalle innovazioni in ordine all’acquisizione della natura di associazioni con personalità giuridica di diritto privato da parte delle federazioni sportive nazionali, e la conferma della natura giuridica pubblica dell’Automobile Club d’Italia, ad opera dell’art. 2 del d.lgs. n. 15 del 2004; pertanto, è configurabile la responsabilità per danno erariale, da accertarsi dinanzi alla giurisdizione contabile, del direttore generale dell’Automobile Club provinciale, che abbia assunto anche le funzioni di amministratore della società incaricata della riscossione delle quote associative e delle altre entrate ad esso spettanti, per il pregiudizio derivante all’ente dal mancato riversamento di dette entrate (Sez. U, n. 01779/2022, Cosentino, Rv. 663723-01).

La società concessionaria del servizio di riscossione delle imposte, in quanto incaricata, in virtù di una concessione contratto, di riscuotere denaro di spettanza dello Stato o di enti pubblici, del quale la stessa ha il maneggio nel periodo compreso tra la riscossione ed il versamento, riveste la qualifica di agente contabile, ed ogni controversia tra essa e l’ente impositore, che abbia ad oggetto la verifica dei rapporti di dare e avere e il risultato finale di tali rapporti, dà luogo ad un “giudizio di conto”. Inoltre, si è deciso che rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti sia la controversia in tema di risoluzione della concessione disposta dall’ente locale a seguito di una misura interdittiva antimafia, sia l’ulteriore domanda proposta dalla concessionaria relativa alla declaratoria di illegittimità dell’atto di incameramento della polizza fideiussoria da parte del Comune (Sez. U, n. 00760/2022, Crucitti, Rv. 663584-01).

In tema di danno erariale, ai fini della sussistenza di un rapporto di servizio tra la pubblica amministrazione erogatrice di un contributo o finanziamento e il soggetto privato percettore, con conseguente radicamento della giurisdizione contabile, non è indispensabile un utilizzo diverso della risorsa rispetto alla sua preordinata destinazione ex lege, ma è sufficiente che la stessa sia stata illegittimamente percepita dal beneficiario (Sez. U, n. 03100/2022, Acierno, Rv. 663840-01).

Appartiene alla giurisdizione contabile la controversia avente ad oggetto l’azione del procuratore presso la Corte dei Conti finalizzata al recupero, all’apposito fondo perequativo in favore dei dipendenti, dell’importo ingiustamente percepito dal pubblico dipendente che abbia svolto attività lavorativa remunerata in assenza di autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, essendosi in presenza di illecito erariale, consistente nell’inadempimento del lavoratore all’obbligo di corrispondere immediatamente alle casse dell’erario quanto indebitamente percepito, e senza la necessità di una previa messa in mora (Sez. U, n. 04114/2022, Grasso, Rv. 663844-01).

Peraltro, si è anche ritenuto che sulla domanda proposta dalla P.A. per la ripetizione delle somme indebitamente percepite dal dipendente pubblico per lo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata dall’amministrazione di appartenenza sussiste anche la giurisdizione del giudice amministrativo, che concorre, o può concorrere, con la giurisdizione per responsabilità erariale dinanzi alla Corte dei Conti per i medesimi fatti materiali.

Peraltro, la circostanza che la cognizione dei diversi ordini giurisdizionali verta sugli stessi fatti materiali non implica una violazione del divieto di “bis in idem”, attesa la assoluta autonomia tra le due azioni che, presentando presupposti diversi, sono reciprocamente indipendenti: la giurisdizione amministrativa ha, infatti, una funzione riparatoria ed integralmente compensativa del danno; la giurisdizione contabile ha, invece, una funzione prevalentemente sanzionatoria (Sez. U, n. 04871/2022, Tricomi, Rv. 663851-01).

L’interdipendenza tra le azioni spettanti ai diversi ordini giurisdizionali è stata affermata anche con riferimento ai rapporti tra la giurisdizione contabile e quella ordinaria.

Sez. U, n. 05978/2022, Orilia, Rv. 664035-01, infatti, ha affermato che sussiste la giurisdizione della Corte dei Conti sulla domanda della procura contabile per la restituzione alla Commissione europea delle somme erogate in via diretta, ed illecitamente percepite, giacché l’azione di risarcimento dei danni erariali e la possibilità per le amministrazioni interessate di promuovere le ordinarie azioni civilistiche di responsabilità restano (anche quando investano i medesimi fatti materiali) reciprocamente indipendenti, integrando le eventuali interferenze tra i giudizi una questione di proponibilità dell’azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e non di giurisdizione.

La funzione giurisdizionale contabile, al pari delle altre giurisdizioni, può causare danni che fanno sorgere la responsabilità dello Stato nei confronti del cittadino danneggiato.

Orbene, nei giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato, che abbiano ad oggetto comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati appartenenti alla sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei Conti non si applica lo spostamento di competenza previsto dal’art. 11 c.p.p., poiché agli uffici di vertice delle giurisdizioni speciali è del tutto estraneo il concetto di “ufficio compreso nel distretto di Corte d’appello”, menzionato in tale articolo, e la loro rilevanza nazionale consente di estendere ai magistrati che vi appartengono la disciplina prevista per i giudici di legittimità, con la conseguenza che la cognizione della causa è sempre attribuita, secondo i criteri ordinari, al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 25 c.p.c., quale “forum commissi delicti” (Sez. 6-1, n. 00612/2022, Marulli, Rv. 663914-01).

Ai fini del radicamento della responsabilità contabile occorre una relazione funzionale tra l’ente pubblico danneggiato e l’autore dell’illecito causativo del danno patrimoniale, che può anche essere un soggetto privato. Tale relazione è configurabile non solo in costanza di un rapporto di impiego in senso proprio e ristretto, ma anche in presenza di un rapporto di servizio, per tale intendendosi una relazione funzionale in virtù della quale tale soggetto debba ritenersi inserito (in considerazione dell’attività svolta continuativamente, ancorché temporaneamente o solo in via di fatto) nell’apparato organizzativo e nell’iter procedimentale dell’ente, sì da rendere il primo compartecipe dell’operato del secondo (Sez. U, n. 01782/2022, Crucitti, Rv. 663958-01).

Sulla stessa linea, si è stabilito che sussiste il rapporto di servizio, costituente il presupposto per l’attribuzione della controversia alla giurisdizione della Corte dei Conti, allorché un ente privato esterno all’Amministrazione venga incaricato di svolgere, nell’interesse e con le risorse di quest’ultima, un’attività o un servizio pubblico in sua vece, inserendosi in tal modo nell’apparato organizzativo della P.A., mentre è irrilevante il titolo in base al quale la gestione è svolta e ben potendo tale titolo anche mancare del tutto (Sez. U, n. 20902/2022, Scoditti, Rv. 665186-01).

Applicando tali princìpi, in tema di prelievo supplementare sull’eccesso di produzione di latte, sussiste la giurisdizione contabile sulla domanda di condanna al risarcimento del danno erariale proposta nei confronti del primo acquirente per aver violato l’obbligo di trattenere e, quindi, di versare all’Agea le somme dovute dagli allevatori a titolo del predetto prelievo, quale misura volta a ristabilire l’equilibrio tra domanda e offerta sul mercato lattifero; ciò in quanto, avuto riguardo agli obblighi, anche contabili, impostigli, alle sanzioni previste per il caso di inadempimento e alla circostanza che egli è investito della funzione con provvedimento amministrativo all’esito della verifica di determinati requisiti (nonché alla responsabilità diretta dello Stato verso l’Unione europea per il prelievo risultante dal superamento del quantitativo di riferimento nazionale), deve ritenersi sussistere, tra il primo acquirente e la P.A., un vero e proprio rapporto di servizio, il quale è configurabile, a prescindere dalla natura di soggetto di diritto privato dell’agente, allorché questi abbia la gestione, in nome e per conto della pubblica amministrazione, di un’attività continuativa di interesse generale, che può essere anche solo di garanzia del corretto svolgimento di una data attività (Sez. U, n. 32146/2022, Grasso, Rv. 666064-01; Sez. U, n. 19027/2021, Doronzo, Rv. 661848-01).

Con riferimento al danno erariale, in caso di erogazione da parte dell’amministrazione regionale di un contributo pubblico a destinazione vincolata ad una società privata, è configurabile un rapporto di servizio tanto con la persona giuridica beneficiaria quanto con chi, amministratore o legale rappresentante dell’ente collettivo, sia stato incaricato di realizzare il programma di interesse pubblico a cui il contributo risultava vincolato, sicché, in caso di sviamento della somma dalla finalità programmata, sussiste una responsabilità contabile anche di coloro che con la predetta società abbiano intrattenuto un rapporto organico, ove si ipotizzi che dai comportamenti da loro tenuti sia derivata la distrazione delle risorse dal fine pubblico cui erano destinate, con conseguente radicamento della giurisdizione della Corte dei Conti nei loro confronti (Sez. U, n. 15893/2022, Giusti, Rv. 664752-01).

Le sentenze della Corte dei Conti, al pari di quelle del Consiglio di Stato, sono censurabili per cassazione solo per motivi relativi alla giurisdizione.

È inammissibile, pertanto, la doglianza con la quale si contesti la eventuale partecipazione al collegio giudicante di un magistrato che avrebbe dovuto astenersi, vertendosi in tema di violazione di norme processuali, come tale esorbitante dai limiti del sindacato delle Sezioni Unite, atteso che la carenza di giurisdizione in relazione all’illegittima composizione dell’organo giudicante è ravvisabile solo nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell’organo medesimo, per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l’identificazione con quello delineato dalla legge (Sez. U, n. 08951/2022, Conti, Rv. 664225-01).

La domanda di rimborso delle spese legali sostenute dai soggetti sottoposti a giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti e risultati prosciolti nel merito non è riservata alla giurisdizione contabile e non si esaurisce con la liquidazione delle spese adottata dalla Corte dei Conti, avendo la parte diritto all’intero esborso sostenuto. Ne consegue che al sindaco sottoposto a giudizio contabile e definitivamente prosciolto spetta il rimborso, da parte dell’amministrazione di appartenenza, delle somme versate al difensore in eccedenza rispetto a quanto liquidato nel giudizio contabile, ai sensi dell’art. 3, comma 2 bis, del d.l. n. 543 del 1996, conv. dalla l. n. 639 del 1996, il quale opera a vantaggio di tutti i soggetti sottoposti a controllo contabile, inclusi gli amministratori e i sindaci degli enti locali (Sez. 2, n. 18046/2022, Fortunato, Rv. 664987-01).

Peraltro, la norma di cui all’art. 3, comma 2 bis, del d.l. n. 543 del 1996, convertito con modifiche dalla l. n. 639 del 1996, la quale stabilisce, novellando l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, che in caso di definitivo proscioglimento le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti sono rimborsate dall’amministrazione di appartenenza, non ha efficacia retroattiva e si applica ai soli giudizi iniziati dopo la sua entrata in vigore (Sez. 1, n. 26895/2022, Meloni, Rv. 665636-02).

Ancora in tema di azione di responsabilità promossa nei confronti degli organi di gestione e di controllo di società di capitali partecipate da enti pubblici, sussiste la giurisdizione della Corte dei Conti nel caso in cui tali società abbiano, al momento delle condotte ritenute illecite, tutti i requisiti per essere definite “in house providing”, che possono risultare dalle disposizioni statutarie in vigore all’epoca dei fatti, ma anche derivare dall’esterno in caso di sussistenza di un controllo analogo, ricavabile dall’insieme di norme che consentono all’ente pubblico partecipante di dettare le linee strategiche e le scelte operative, tali da incidere sulla complessiva “governance” della società “in house”, preservando le finalità pubbliche che comunque la caratterizzano (Sez. U, n. 20632/2022, Graziosi, Rv. 665079-01, con riferimento ad una società di gestione di un acquedotto il cui maggiore azionista era un ente locale).

La giurisdizione contabile per l’azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali presuppone la sussistenza di un rapporto di servizio tra gli enti pubblici soci e gli amministratori della società partecipata, che rappresenta l’elemento di collegamento ai fini della configurabilità di un danno erariale. Tale giurisdizione va, pertanto, esclusa ove risulti impossibile imputare personalmente agli amministratori, o ad altri soggetti investiti di cariche sociali, la titolarità del rapporto di servizio intercorrente tra l’ente pubblico e la società cui sia stato affidato l’espletamento di compiti riguardanti un pubblico servizio (Sez. U, n. 15979/2022, Ferro, Rv. 664909-02).

Ancora in tema di società di capitali a partecipazione pubblica, la responsabilità degli amministratori degli enti partecipanti per danno erariale diretto all’ente pubblico socio è configurabile anche qualora la partecipata non abbia la natura di società “in house providing”, poiché la previsione dell’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 175 del 2016 non riveste una portata delimitatrice o abrogatrice della comune responsabilità contabile (Sez. U, n. 15979/2022, Ferro, Rv. 664909-03).

Rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti in materia di pensioni dei pubblici dipendenti, ex artt. 13 e 62 del r.d. n. 1214 del 1934, anche la controversia concernente l’accertamento della consistenza del monte contributivo, in quanto funzionale al riconoscimento del diritto alla pensione (Sez. U, n. 28020/2022, Marotta, Rv. 665909-01).

Si è attribuita la qualifica di agente contabile, ai fini della giurisdizione della Corte dei Conti, anche all’ufficiale giudiziario dirigente, in quanto egli ha l’incarico di riscuotere e di amministrare denaro di spettanza dello Stato, del quale ha, dunque, il maneggio. Infatti, ogni controversia che abbia ad oggetto la verifica dei rapporti di dare e avere e il risultato finale di tali rapporti dà luogo ad un “giudizio di conto”, per il quale sussiste la giurisdizione della Corte dei Conti (Sez. U, n. 35451/2022, Scarpa, Rv. 666371-01).

  • cooperazione giudiziaria
  • giurisdizione internazionale
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO IV

IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICE NAZIONALE E GIUDICE STRANIERO

(di Martina Flamini )

Sommario

1 Premesse generali. - 2 Le clausole di deroga e di proroga della giurisdizione. - 3 Azioni contrattuali e ambito di applicazione dei criteri stabiliti dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. - 4 Diritti del consumatore. - 5 Illeciti civili. - 6 La giurisdizione nelle controversie relative a rapporti familiari. - 7 Delibazione di sentenze straniere.

1. Premesse generali.

Le norme sulla giurisdizione relative al rapporto tra il giudice nazionale e quello straniero anche nell’anno in rassegna sono state oggetto di particolare attenzione da parte della S.C. La Convenzione di Bruxelles del 27 settembre del 1968, resa esecutiva in Italia con la legge 21 giugno 1971, n. 804, per la prima volta ha dato vita ad un trattato internazionale multilaterale sulla giurisdizione e sull’efficacia di atti e decisioni, con cui gli Stati che ne fanno parte si sono coordinati per potere distribuire tra loro il potere di giurisdizione nei reciproci rapporti. Da quel momento può ritenersi iniziato un progressivo mutamento della funzione delle norme sulla giurisdizione, volte innanzitutto a realizzare una più efficace cooperazione tra gli Stati.

Il regolamento “Bruxelles I”, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, è entrato in vigore il 1° marzo 2002 ed ha sostituito la precedente Convenzione di Bruxelles determinando, non solo un mutamento della fonte, da internazionale a comunitaria, ma anche alcune significative modifiche di disciplina. Il citato Regolamento costituisce, infatti, l’espressione della nuova competenza acquisita dall’Unione europea ad adottare direttamente atti di diritto internazionale privato, senza dovere ricorrere a convenzioni internazionali.

Il sistema è stato ulteriormente modificato attraverso l’adozione del Regolamento n. 1215 del 12 dicembre 2012 (Bruxelles I-bis) che in buona misura ha riproposto la disciplina del precedente regolamento.

Ciò ha dato luogo ad una “modificazione in vigore per l’Italia” della Convenzione di Bruxelles, agli effetti dell’art. 3, comma 2, della legge 31 maggio 1995, n. 218.

La Corte di Giustizia UE ha chiarito che il regolamento n. 1215/2012 ha abrogato e sostituito il regolamento n. 44/2001 che aveva, a sua volta, sostituito la Convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione dei nuovi Stati membri a tale convenzione, sicché l’interpretazione fornita dalla Corte circa le disposizioni di questi ultimi strumenti giuridici vale anche per il regolamento n. 1215/2012 quando tali disposizioni possono essere qualificate come «equivalenti» (sentenza del 3 settembre 2020, Supreme Site Services GmbH-Supreme Headquarters Allied Powers Europe, C-186/19; sentenza del 29 luglio 2019, Tibor-Trans, C-451/18).

In merito alla “sostituzione” delle disposizioni della Convenzione ad opera del Regolamento, già Sez. U, n. 15748/2019, Conti, Rv. 654576-01 aveva precisato che, così come previsto dall’art 68 del Regolamento n. 44/01 [e del Regolamento n. 1215 del 2012] - a tenore del quale “Il presente regolamento sostituisce, tra gli Stati membri, le disposizioni della convenzione di Bruxelles salvo per quanto riguarda i territori degli Stati membri che rientrano nel campo di applicazione territoriale di tale convenzione e che sono esclusi dal presente regolamento ai sensi dell’articolo 299 del Trattato” - il predetto Regolamento n. 44/01 e il successivo n. 1215 del 2012 avevano effettivamente preso il posto della Convenzione di Bruxelles all’atto della sua entrata in vigore, ma ciò con esclusivo riferimento agli Stati membri dell’Unione Europea. Tali principi sono stati ribaditi da Sez. U, n. 21351/2022, Lamorgese, Rv. 665190-01, che, nel dichiarare la giurisdizione del giudice italiano con riguardo ad una controversia risarcitoria promossa da una società televisiva italiana nei confronti di una società di diritto russo, per atti di concorrenza sleale e violazione di marchi registrati, ha precisato che, non essendo la Federazione russa uno Stato membro dell’Unione, non può trovare applicazione il Regolamento (UE) n. 1215 del 2012.

Il secondo comma dell’art. 3 (Ambito della giurisdizione) della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), afferma che la giurisdizione italiana sussiste (oltre che nei casi di cui al primo comma, collegati al domicilio o alla residenza in Italia del convenuto, o all’esistenza di un suo rappresentante ex art. 77 c.p.c., o comunque previsti dalla legge) “in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la legge 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l’Italia, anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione (...)”.

Nel contesto normativo di quello che viene anche definito “sistema Bruxelles I”, il domicilio del convenuto costituisce il criterio generale di giurisdizione: la condizione è che almeno una delle parti sia domiciliata in uno Stato membro per l’evidente ragione di assicurare un coefficiente minimo di integrazione della lite nella UE. Nel 2021, Sez. U, n. 18299/2021, Scarpa, Rv. 661653–01 (allineandosi agli arresti di Sez. U, n. 32362/2018, Rubino, Rv. 651823–01, e Sez. U, n. 04211/2013, Travaglino, Rv. 625157–01, e ponendosi in consapevole contrasto con Sez. U, n. 22239/2009, Segreto, Rv. 609691–01 e Sez. U, n. 15748/2019, Conti, Rv. 654576–01), con riferimento al profilo dell’ambito di applicazione dei criteri stabiliti dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, aveva affermato la giurisdizione italiana anche laddove il convenuto non sia domiciliato in uno Stato membro dell’Unione europea, quando si tratti di una delle materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968. L’applicabilità del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, in particolare dell’art. 6, che disciplina la competenza nelle ipotesi in cui il convenuto non sia domiciliato in uno Stato membro, avviene, appunto, in virtù del rinvio operato dall’art. 3 della l. n. 218 del 1995, per effetto della trasfusione delle norme della Convenzione in quelle del Regolamento da ultimo richiamato.

Accanto al criterio generale del domicilio, come noto, esistono anche altri criteri - cd. speciali - di individuazione della giurisdizione, giustificati prevalentemente dal principio di prossimità e regolati nelle Sezione 2, 3, 4, e 5 del Regolamento n. 1215 del 2012.

È previsto, così, in via di estrema sintesi, dall’art. 7, comma 1, n. 1, lett. a) del citato Regolamento, che in materia contrattuale la competenza è attribuita al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio. Esso è, nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto; nel caso della prestazione di servizi, il luogo situato nello Stato membro, in cui i servizi sono stato avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto.

In mancanza, poi, di un’autonoma definizione, la competenza viene determinata in base alla legge richiamata dalle norme di conflitto del giudice adito.

Per gli illeciti civili di natura extracontrattuale, è stabilita la competenza del giudice del luogo in cui è avvenuto o può avvenire l’evento dannoso (art. 7, comma 1, n. 2): tale criterio è stato ideato per rispondere ai problemi interpretativi posti dagli illeciti cd. a distanza come, ad esempio, in materia di diffamazione a mezzo stampa, di inquinamento ambientale, di illeciti commessi attraverso la rete Internet.

Ulteriori criteri speciali sono contemplati a protezione delle parti contrattuali deboli, per i contratti di: assicurazione, alla Sezione 3, artt. 10 e ss., del citato Regolamento, consumo, nella Sezione 4 (artt. 17 e ss.) e lavoro dipendente, nella Sezione 5 (artt. 20 e ss.). Per tali figure negoziali il particolare favore consiste nell’offrire alla parte debole che agisce la scelta tra più giudici competenti.

Il quadro della disciplina si completa con la previsione dei cd. criteri esclusivi, regolati dalla Sezione 6 del Regolamento in esame. Rientrano tra questi le controversie in materia di diritti reali su beni immobili e di contratti di affitto su questi, per i quali è competente il giudice dello Stato dove si trova l’immobile (art. 24, comma 1, n. 1); quelle in tema di validità, nullità, scioglimento società e di validità delle società, la cui cognizione appartiene all’autorità giudiziaria dello Stato in cui ha sede la società (art. 24, comma 1, n. 2); la materia di validità delle trascrizioni e iscrizioni nei pubblici registri (art. 24, comma 1, n. 3), per la quale la competenza è riconosciuta alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui sono tenuti i registri; la materia di registrazione o validità di marchi e brevetti, disegni e modelli o di altri diritti analoghi che attribuiscono la competenza alle autorità giurisdizionali dello Stato membro nel cui territorio sono stati richiesti il deposito o la registrazione (art. 24, comma 1, n. 4), la materia di esecuzione delle decisioni per la quale la competenza è delle autorità giurisdizionali dello Stato membro nel cui territorio ha o ha avuto luogo l’esecuzione (art. 39 e ss).

La peculiarità dei fori esclusivi è che essi sono imperativi ed inderogabili: derogano al foro del domicilio e, non solo impediscono l’applicazione dei criteri speciali, ma fanno anche eccezione all’istituto della litispendenza. La relativa elencazione, pertanto, è tassativa.

2. Le clausole di deroga e di proroga della giurisdizione.

L’evoluzione della funzione dei criteri di riparto della giurisdizione tra gli Stati membri si esprime, anche attraverso l’istituto della proroga o deroga della stessa (artt. 17, 18 Conv. Bruxelles, artt. 23 e 24 Regolamento Bruxelles I, artt. 25 e 26 Regolamento Bruxelles I-bis).

La Convenzione di Bruxelles del 1968, prima, ed i Regolamenti Bruxelles I e I bis, poi, hanno sempre riconosciuto ampio spazio alla scelta del giudice ad opera delle stesse parti litiganti: il termine proroga della competenza, tacita o espressa, allude al fatto che il potere-dovere di decidere di un dato giudice viene estesa a comprendere una controversia rispetto alla quale esso non avrebbe competenza giurisdizionale.

L’art.25 (Sezione 7, «Proroga della competenza») del Regolamento (UE) n. 1215/2012 (cd. Regolamento Bruxelles I bis) del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, applicabile alla fattispecie in relazione alla data dei contratti (2020), trovando applicazione tale regolamento a decorrere dal 10 gennaio 2015, ai sensi dell’art. 81 dello stesso, prevede: “1. Qualora le parti, indipendentemente dal loro domicilio, abbiano convenuto la competenza di un’autorità o di autorità giurisdizionali di uno Stato membro a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico, la competenza spetta a questa autorità giurisdizionale o alle autorità giurisdizionali di questo Stato membro, salvo che l’accordo sia nullo dal punto di vista della validità sostanziale secondo la legge di tale Stato membro. Detta competenza è esclusiva salvo diverso accordo tra le parti. L’accordo attributivo di competenza deve essere: a) concluso per iscritto o provato per iscritto; b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o c) nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato. 2. La forma scritta comprende qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza... 5. Una clausola attributiva di competenza che fa parte di un contratto si considera indipendente dalle altre clausole contrattuali...”.

Il Considerando 19 del suddetto Regolamento stabilisce che “Fatti salvi i criteri di competenza esclusiva previsti dal presente regolamento, dovrebbe essere rispettata l’autonomia delle parti relativamente alla scelta del foro competente per i contratti non rientranti nella categoria dei contratti di assicurazione, di consumo e di lavoro in cui tale autonomia è limitata”. Il Considerando 20 prevede che la validità dell’accordo di scelta del foro vada saggiato “secondo la legge dello Stato membro del foro o dei fori prescelti nell’accordo”.

La Corte di Giustizia, in relazione ai requisiti formali dell’accordo di proroga della giurisdizione, ha precisato che il richiamo a una clausola di proroga inserita nelle condizioni generali deve essere «espresso e inequivoco» (Corte Gius. 19/6/1984, causa C-71/83) e quindi solo se, nel testo contrattuale firmato dalle parti, siano espressamente richiamate le condizioni generali contenenti la scelta del giudice e se tali condizioni siano state effettivamente comunicate all’altro contraente (CGUE 7/7/2016, causa C-222/15) ovvero siano disponibili mediante accesso ad un sito Internet, essendosi in presenza di “una comunicazione elettronica che permette di registrare durevolmente tale clausola, ai sensi di tale disposizione, allorché consente di stampare e di salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto” (sentenza 21 maggio 2015, C322/14). Più di recente, la Corte di Giustizia nella sentenza 8/3/2017 (Causa C64/17) ha chiarito che l’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 1215/2012 deve essere interpretato in modo restrittivo, prevedendosi l’obbligo del giudice di esaminare, in limine litis, se la clausola attributiva di competenza sia stata effettivamente oggetto di pattuizione inter partes, che deve manifestarsi «in modo chiaro e preciso».

Occorre partire dalla premessa di fondo espressa da Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766–03, secondo cui, ai sensi dell’art. 23 del Regolamento (CE) n. 44 del 2001, l’inserimento nel contratto di tale clausola rende il foro convenzionale esclusivo, in mancanza di diverso accordo delle parti. La qualificazione del foro convenzionale come esclusivo, del resto contenuta esplicitamente, nel primo comma dell’art. 23 del regolamento CE n. 44 del 2001, comporta, infatti, la sua prevalenza, sia su quello del domicilio del convenuto, previsto in via generale dal precedente art. 2, sia su quello speciale del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, previsto dall’art. 5, n. 1, del medesimo Regolamento.

Con riferimento al necessario requisito della forma scritta, Sez. U, n. 13594/2022, Iofrida, Rv. 664749-01, ha affermato che il rispetto del requisito della forma scritta previsto, per il patto di proroga della giurisdizione in favore dell’autorità giudiziaria di un Paese estero, dall’art. 25, par. 1, lett. a), del Reg. UE n. 1215 del 2012, richiede, secondo l’interpretazione datane dalla CGUE con sentenza dell’8 marzo 2017, in causa n. 64/2017, che la clausola attributiva della giurisdizione sia stata effettivamente oggetto di pattuizione tra le parti, manifestatasi in modo chiaro e preciso, ed è pertanto rispettato nel caso in cui tale clausola sia contenuta nelle condizioni generali di contratto predisposte dalla parte acquirente, espressamente richiamate negli ordini di acquisto e ad essi allegate, potendo le stesse ritenersi accettate dalla parte venditrice unitamente agli ordini di acquisto integranti la proposta contrattuale.

3. Azioni contrattuali e ambito di applicazione dei criteri stabiliti dal Regolamento (UE) n. 1215 del 2012.

Nell’ambito delle azioni contrattuali, ai fini dell’individuazione del momento determinante della giurisdizione, deve essere ricordato il principio espresso da Sez. U, n. 06280/2019, De Stefano, Rv. 652981–02, secondo cui le condizioni fattuali da valutare sono quelle esistenti al momento della proposizione domanda, come previsto nel nostro ordinamento dall’art. 5 c.p.c., e non quelle ravvisabili al tempo della conclusione del contratto per cui è causa. La pronuncia ha riconosciuto la validità del principio anche in caso di applicazione della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, ratificata dall’UE con decisione del Consiglio del 27 novembre 2008 ed entrata in vigore nei rapporti con la Confederazione elvetica il 1° gennaio 2011.

Quanto alle singole tipologie contrattuali Sez. U, n. 18299/2021, Scarpa, Rv. 661653-01, in linea con Sez. U, n. 00156/2020, Frasca, Rv. 656657-02, ha fornito un contributo chiarificatore in relazione ai differenti criteri di collegamento operanti per la compravendita e per la prestazione di servizi. Partendo dalla premessa che le controversie contrattuali vanno ricondotte nell’ambito di applicazione dei criteri di cui all’art. 7 del Regolamento n. 1215 del 2012, (sul punto v. premesse di cui al paragrafo 1), la S.C. ha ricordato che, mentre il luogo di esecuzione dell’obbligazione nella compravendita è quello in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, viceversa, nel contratto di prestazione di servizi, esso si identifica con il luogo in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati. Un’ulteriore importante precisazione è stata effettuata per l’individuazione del luogo di consegna nell’ipotesi di vendita a distanza. Sulla scorta di precedenti arresti della Corte di Giustizia, la S.C. ha affermato che il luogo preliminarmente va individuato in base alle previsioni contrattuali. Ai fini di tale accertamento, il giudice è obbligato a tenere conto di tutti i termini, di tutte le clausole, quelli generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale. In mancanza di un’indicazione contrattuale, il luogo è quello della consegna materiale dei beni, attraverso il quale l’acquirente ha conseguito o avrebbe potuto conseguire il potere di disporre effettivamente di essi.

Sez. U, n. 20633/2022, Carrato, Rv. 665080-01, in tema di vendita internazionale a distanza di beni mobili, torna ad occuparsi delle cd. clausole “ex works”, per valutare se dal contenuto complessivo del contratto commerciale intercorso tra le parti, potesse essere rinvenuta una pattuizione idonea all’univoca individuazione del luogo di consegna, altrimenti operando - in difetto, per l’appunto, di una diversa convenzione - il criterio attributivo della giurisdizione - di cui all’art. 7, punto 1, lett. b), del Reg. UE n. 1215/2012 - in capo al giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, conformemente alla previsione del foro generale del convenuto individuata nell’art. 4 dello stesso Regolamento UE. Nel solco del precedente orientamento (Sez. U, n. 32362/2018, Rubino, Rv. 651823-01; Sez. U, n. 17566 /2019, Di Virgilio, Rv. 654416-01), la S.C. ha ritenuto che il riferimento alla dicitura (c.d. “incoterm”) “ex works” unilateralmente inserita nelle fatture (come è noto costituenti documenti di formazione e provenienza unilaterali) emesse per il pagamento di una fornitura commerciale non possa valere, di per sé, come derogativa del criterio di attribuzione giurisdizionale generale, in mancanza di un’espressa e chiara accettazione della clausola e, quindi, della formazione di un univoco accordo contrattuale sul punto. In particolare, le Sezioni Unite hanno osservato che l’inserimento della citata clausola “ex work è finalizzato, di regola, a disciplinare l’aspetto del passaggio dei rischi e dei costi del trasporto successivo in capo all’acquirente ma non ad incidere sulla determinazione dell’attribuzione della giurisdizione. Hanno, dunque, concluso che, in difetto di una prova univoca dell’esistenza di un accordo tra le parti circa il luogo di consegna della merce, deve trovare applicazione il criterio generale che individua tale luogo in quello in cui l’acquirente avrebbe conseguito “il potere di disporre effettivamente dei beni alla destinazione finale dell’operazione di vendita”. Ancora in merito all’individuazione del luogo di consegna, la S.C. ha sottolineato che il criterio del luogo della consegna materiale della merce oggetto del contratto rappresenta il criterio da preferire perché presenta un alto grado di prevedibilità e risponde ad un obiettivo di prossimità, in quanto garantisce l’esistenza di una stretta correlazione tra il contratto e il giudice chiamato a conoscerne, e ciò in quanto, in linea di principio, i beni che costituiscono l’oggetto del contratto devono trovarsi in tale luogo dopo l’esecuzione di tale contratto.

Con riferimento al collegamento negoziale, Sez. U, n. 20802/2022, Falabella, Rv 665081-02, richiamando il consolidato orientamento della Corte (per tutte: Sez. 1, n. 13164/2007, Schirò, Rv. 597183-01 e Sez. U, n. 13894 /2007, Durante, Rv. 598055-01, con cui si è escluso che, tramite la clausola di proroga della giurisdizione in favore di uno degli Stati aderenti contenuta in un determinato contratto, la deroga alla giurisdizione del giudice italiano si estenda a controversie relative ad altri contratti, ancorché collegati al contratto principale, cui accede la predetta clausola) ha affermato che il collegamento negoziale, meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico complesso che viene realizzato attraverso una pluralità coordinata di contratti, pur implicando la ripercussione delle vicende che investono un contratto sull’altro, seppure non necessariamente in funzione di condizionamento reciproco e non necessariamente in rapporto di principale ed accessorio, non determina in ogni caso alcun effetto sulla giurisdizione.

4. Diritti del consumatore.

In materia dei diritti del consumatore, si ricorda il principio generale espresso da Sez. U, n. 06456/2020, Vincenti, Rv. 657210-01, secondo cui l’art. 18, comma 1, del Regolamento CE n. 1215 del 2012, nel prevedere che “l’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta davanti alle autorità giurisdizionali del luogo in cui è domiciliato il consumatore”, non si limita ad individuare l’ordinamento munito di giurisdizione, ma identifica anche il giudice che, all’interno di esso, ha la competenza per la decisione della causa; tuttavia, essendo la locuzione “giudice del luogo” riferita alla giurisdizione dello Stato membro nel suo complesso ovvero indifferentemente inteso, è affidata esclusivamente alla “lex fori” la disciplina della proposizione e del rilievo del difetto di competenza territoriale del giudice adito, giacché la violazione delle norme di competenza del citato Regolamento rileva soltanto se si traduca nel citare il convenuto davanti al giudice di uno Stato membro diverso da quello dovuto.

Nella già citata Sez. U, n. 20802/2022, Falabella, Rv 665081-02, prendendo in esame un contratto concluso, nell’interesse di un terzo, che si assume consumatore, da una società, la S.C. ha affermato che la qualità di consumatore rivestita dal beneficiario di un contratto a favore di terzo, stipulato in nome proprio da una società, non rileva ai fini dell’applicabilità del foro del consumatore previsto dall’art. 16 della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, mancando la qualità di consumatore in capo al soggetto che conclude il contratto “nomine proprio”, atteso che la ratio della disciplina consumeristica è quella di approntare regole di riequilibrio ancorate a una presunzione astratta di disparità di potere contrattuale tra le parti, e che il terzo beneficiario, estraneo alla fase di conclusione del contratto, non essendone parte né in senso sostanziale, né in senso formale, si limita a ricevere gli effetti di un rapporto già costituito ed operante. Nella pronuncia in esame, la S.C. ha precisato che il contratto non può nascere squilibrato in ragione del fatto che altri ne sia il beneficiario: il terzo non è parte di esso né in senso sostanziale, né in senso formale e si limita a ricevere gli effetti di un rapporto già costituito ed operante, sicché la sua adesione si configura quale mera condicio iuris sospensiva dell’acquisizione del diritto (rilevabile per facta concludentia).

5. Illeciti civili.

In merito alle domande risarcitorie Sez. U, n. 03125/2021, Acierno, Rv. 660357-02, ha confermato l’orientamento secondo cui, quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale, trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire. Alla luce di tale criterio e della chiara e costante interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno.

Sez. U, n. 28427/2022, Vincenti, Rv. 665910-01, con riferimento ad una domanda di risarcimento del danno extracontrattuale da perdita del rapporto parentale, ha affermato che per “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto”, ai sensi dell’art. 5, n. 3, del reg. CE n. 44 del 2001, deve intendersi quello in cui si è verificato il fatto generatore della responsabilità a carico della vittima “primaria” dell’illecito (nella specie, un incidente stradale mortale avvenuto in Germania), senza che rilevi, invece, il luogo ove si sono verificate le conseguenze pregiudizievoli ai danni dei congiunti che agiscono in giudizio. La S.C., dopo aver ricordato che il citato art. 5 n. 3 stabilisce una competenza speciale derogatoria della regola generale dettata dall’art.2 § 1 del medesimo Regolamento, evidenzia che la stessa deve essere interpretata restrittivamente, se non si voglia svuotare di contenuto il richiamato principio generale, e, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, precisa che l’opzione offerta all’attore non può essere esercitata “se non esistono le circostanze particolari che la giustificano”, per cui l’anzidetta nozione alternativa di “luogo” non può “essere interpretata estensivamente fino a ricomprendere qualsiasi luogo in cui possono essere risentite le conseguenze dannose di un evento che abbia già provocato un danno effettivamente verificatosi in un altro luogo”.

In tema di azione avente a oggetto la repressione della contraffazione di marchi nazionali ed europei, Sez. U, n. 13702/2022, Mercolino, Rv. 664574-01, ha affermato che qualora la domanda possa essere simultaneamente promossa innanzi a giudici di Stati diversi, ai sensi dell’art. 125 del Reg. UE n. 1001 del 2017 la competenza a conoscere della relativa azione spetta alternativamente al giudice del luogo in cui ha sede il convenuto o al giudice del luogo in cui l’attore sostiene che sia stata commessa la contraffazione, trovando anche in detta materia applicazione il criterio del petitum sostanziale, il quale esclude che la giurisdizione possa essere determinata “secundum eventum litis”, imponendo invece di avere riguardo ai fatti allegati dall’attore, e quindi di prescindere dalle eccezioni del convenuto, in ordine all’imputabilità della predetta attività, delle quali dovrà tenersi conto solo ai fini della decisione del merito della controversia.

Sez. 1, n. 36113/2022, Terrusi, Rv. 666255-01, in materia di concorrenza sleale, ha affermato che la competenza giurisdizionale del giudice italiano che sia stata pronunciata (anche solo implicitamente) con decisione passata in giudicato si estende anche alle condotte lesive che si siano verificate al di fuori del territorio dello Stato; in tal caso l’accertamento presuppone l’applicazione delle norme repressive nazionali in base alla persistente operatività delle regole di diritto internazionale privato proprie della legislazione della parte che ha dichiarato di aver subìto il danno, essendo l’illecito concorrenziale sussumibile nel più ampio alveo della responsabilità extracontrattuale che, a livello di diritto internazionale privato, è regolata dalla legge dello Stato in cui l’evento dannoso si è verificato.

6. La giurisdizione nelle controversie relative a rapporti familiari.

Ai sensi del Regolamento n. 2201 del 2003, sono competenti a decidere sulla domanda di separazione, le autorità giurisdizionali dello Stato membro: a) nel cui territorio si trova: la residenza abituale dei coniugi o l’ultima residenza abituale dei coniugi, o, in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei coniugi ovvero quella abituale dell’attore, se questi vi ha risieduto almeno per un anno immediatamente prima della domanda, ovvero la residenza abituale dell’attore, se questi vi ha risieduto almeno per sei mesi immediatamente prima della domanda ed è cittadino dello Stato membro stesso...”. Dalla relazione di accompagnamento al Regolamento CE n. 1347 del 2000, sostituito da quello n. 2301 del 2003, risulta già esplicato il concetto di “residenza abituale”, come luogo in cui l’interessato ha fissato con carattere di stabilità il centro permanente o abituale dei propri interessi, con chiara natura sostanziale e non meramente formale o anagrafica del concetto di cui sopra in base al diritto comunitario, essendo rilevante a individuare tale residenza “effettiva”, ai sensi del regolamento stesso, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e eventualmente lavorativa, alla data di proposizione della domanda (così come più volte ricordato dalla Corte di Giustizia).

Sin da Sez. U, n. 3680/2010, Forte, Rv. 611531-01, era stato affermato che ai fini della corretta individuazione della giurisdizione in un giudizio di separazione personale tra coniugi, cittadini di diversi Stati membri dell’Unione Europea, secondo i criteri stabiliti dall’art. 3 del Regolamento CEE n. 2201 del 2003, per “residenza abituale” della parte ricorrente deve intendersi il luogo in cui l’interessato abbia fissato con carattere di stabilità il centro permanente ed abituale dei propri interessi e relazioni, sulla base di una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica.

Tale principio è stato ribadito da Sez. U, n. 10443/2022, Acierno, Rv. 664483-01, confermando che, ai fini dell’identificazione della residenza effettiva, si debba procedere ad una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica, essendo rilevante, sulla base del diritto unionale, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa alla data di proposizione della domanda.

Sez. U, n. 30903/2022, Mercolino, Rv. 666075-02, ha affermato che, nelle controversie che hanno ad oggetto la determinazione del contributo al mantenimento del figlio minore residente in uno Stato non appartenente all’UE, spetta al giudice italiano la cognizione sulla domanda formulata nei confronti di un genitore avente la cittadinanza italiana e residente in Italia, poiché, in assenza di una specifica convenzione internazionale, non trova applicazione l’art. 42 della l. n. 218 del 1995, che attiene ai rapporti personali tra genitore e figlio, bensì l’art. 37 della legge citata, relativo alla categoria delle “obbligazioni alimentari” nella famiglia, cui deve essere ricondotto anche l’obbligo di mantenimento dei figli; la giurisdizione del giudice italiano sussiste, pertanto, non solo nei casi previsti dagli artt. 3 e 9 della stessa legge, ma anche in quelli in cui uno dei genitori o il figlio sia cittadino italiano o risieda in Italia.

7. Delibazione di sentenze straniere.

In merito alla valutazione da compiere ai fini del riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale estero ex art. 67 della l. n. 218 del 1995, la S.C., nell’anno passato, ha ribadito che la verifica della compatibilità con i principi di ordine pubblico internazionale deve riguardare esclusivamente gli effetti che l’atto è destinato a produrre nel nostro ordinamento e non anche la conformità alla legge interna di quella straniera posta a base della decisione, né è consentito alcun sindacato sulla correttezza giuridica della soluzione adottata, essendo escluso il controllo contenutistico sul provvedimento di cui si chiede il riconoscimento (Sez. U, n. 09006/2021, Acierno, Rv. 660971-03).

I medesimi principi sono stati ribaditi da Sez. 1, n. 06909/2022, Fidanzia, Rv. 664112-01, con riferimento ad una domanda di adozione volta ad ottenere il nulla osta al ricongiungimento familiare della minore adottata, in un caso in cui l’adozione della bambina era avvenuta secondo i costumi e la consuetudine ghanese e ratificata dal tribunale ghanese solo in seguito alla verifica positiva della idoneità della coppia a prendersi cura della minore. Nella decisione in esame, la S.C. ha affermato che la “kafalah” convenzionale, prevista in alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano all’insegnamento del Corano, è un istituto di protezione familiare che prescinde dallo stato di abbandono del minore e, in quanto finalizzato a realizzare l’interesse superiore del minore, non contrasta con i principi dell’ordine pubblico italiano. Proprio con riferimento all’eventuale contrarietà all’ordine pubblico per elusione della disciplina dell’adozione internazionale, la S.C. ha chiarito che tale contrarietà è comunque da escludere quando il provvedimento straniero è destinato non a produrre direttamente effetti giuridici nel nostro ordinamento, ma a costituire presupposto di fatto di un provvedimento amministrativo interno di ricongiungimento.

Sez. U, n. 38162/2022, Giusti, Rv. 666544-03, nel confermare i principi già affermati da Sez. U, n. 12193/2019, Mercolino, Rv. 653931-01, hanno affermato che il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto assoluto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, volto a tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione non solo soggettiva, ma anche oggettiva. Le Sezioni Unite hanno poi precisato che, di fronte ad una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non è consentito al giudice, in sede di interpretazione, escludere la lesività della dignità della persona umana e, con essa il contrasto con l’ordine pubblico internazionale, là dove la pratica della surrogazione di maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino.

Sez. 1, n. 38141/2022, Mercolino, Rv. 666474-01, ha affermato che in tema di riconoscimento di sentenze straniere, l’art. 64, comma 1, lett. b), della l. n. 218 del 1996 richiede che l’atto introduttivo del giudizio sia portato a conoscenza del soggetto nei confronti del quale avrebbe dovuto essere proposta la domanda, sulla base della legge applicabile al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio promosso dinanzi al giudice straniero. Nel caso portato all’attenzione della Corte - ricorso volto ad ottenere il riconoscimento di una sentenza ucraina di accertamento della rappresentanza legale del figlio minore in capo alla sola madre nubile - i giudici di legittimità hanno precisato che la predetta sentenza non doveva essere pronunciata nel contraddittorio con il presunto padre biologico, come ritenuto dalla corte territoriale, poiché ai sensi dell’art. 135 del codice della famiglia ucraina, la madre aveva iscritto la minore nei registri dello stato civile con il proprio cognome, e l’indicazione delle mere generalità del padre era inidonea a determinare, per ciò sola, l’insorgenza del rapporto di filiazione.

  • procedura civile
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO V

LA COMPETENZA

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 La competenza per materia. - 2 La competenza per valore. - 3 La competenza per territorio. - 3.1 I criteri di cui agli artt. 18 e ss. c.p.c. - 3.2 La competenza per territorio in tema di protezione internazionale. - 3.3 Il foro per le cause relative al pagamento delle competenze professionali degli avvocati e alla responsabilità professionale dell’avvocato. - 3.4 Il foro dei giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato che abbiano ad oggetto comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati. - 3.5 Il foro delle opposizioni proposte avverso le sanzioni applicate dalla CONSOB. - 3.6 Il foro stabilito per accordo delle parti. - 3.7 L’eccezione di incompetenza per territorio. - 4 Le controversie attribuite alle sezioni specializzate. - 4.1 Le controversie attribuite alle sezioni specializzate in materia di impresa. - 4.2 Le controversie attribuite alle sezioni specializzate agrarie. - 4.3 Le controversie attribuite alle sezioni specializzate in materia di immigrazione. - 5 La competenza funzionale a decidere sull’opposizione a decreto ingiuntivo. - 6 Il regolamento di competenza. - 6.1 Il procedimento.

1. La competenza per materia.

In tema di competenza per materia le Sezioni Unite della Corte nell’anno in rassegna hanno escluso che rientri nella competenza per materia del giudice di pace ex art. 7, comma 2, c.p.c., l’azione speciale prevista dall’art. 292, comma 1, d.lgs. n. 209 del 2005 (codice delle assicurazioni private), con cui l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada agisce per il recupero dell’indennizzo pagato, sulla base del rilievo che l’accertamento della responsabilità del sinistro non è oggetto di tale azione bensì ne costituisce un presupposto, che può essere contestato “ex adverso”, e hanno conseguentemente ritenuto che la competenza per territorio vada determinata con riferimento al criterio dell’art. 1182, comma 3, c.c. e non già a quello del luogo di verificazione del sinistro o di residenza o domicilio del responsabile (Sez. U, n. 21514/2022, Scrima, Rv. 665191-03).

È stato così superato il precedente difforme costituito da Sez. 6-3, n. 17467/2010, Frasca, Rv. 614801-01 che aveva in precedenza ritenuto la domanda di regresso ex art. 29 della legge n. 990 del 1969 compresa nella competenza del giudice di pace per materia, con il limite di valore, relativo alle cause di risarcimento del danno da circolazione stradale, di cui al secondo comma dell’art. 7 c.p.c.

La competenza del giudice di Pace è stata esclusa, nell’anno in rassegna, anche per la convalida di trattenimento del richiedente asilo presso un centro di permanenza temporanea, in quanto la presentazione di una domanda di protezione internazionale da parte dello straniero, anche se reiterata, radica la competenza sulla convalida in capo alla sezione specializzata istituita presso il Tribunale, e non al Giudice di pace, ai sensi dell’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 142 del 2015, determinando un mutamento del titolo del trattenimento che prosegue, per il periodo massimo normativamente previsto, al fine di consentire l’espletamento della procedura di esame della domanda di protezione (Sez. L, n. 11859/2022, Ponterio, Rv. 664346-01).

Quanto alla competenza per materia del giudice di pace in materia di opposizione al verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, attribuita al giudice di pace dall’art. 7, comma 2, d.lgs n. 150 del 2011, la Corte, nell’anno in rassegna, oltre a ribadire che tale norma fonda la competenza del giudice di pace a conoscere dell’opposizione all’intimazione di pagamento relativa alla riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie riconducibili a violazioni del codice della strada, configurata come opposizione all’esecuzione (principio, questo, già affermato da Sez. 6-3, n. 3283/2015, Barreca, Rv. 634340-01) ha affermato che la relativa controversia deve essere decisa secondo diritto e non secondo equità (Sez. 6-2, n. 14304/2022, Varrone, Rv. 664915-01).

D’altra parte, riguardo all’opposizione con cui sono dedotti vizi formali della cartella di pagamento emessa per la riscossione di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, è stato affermato che la stessa va qualificata come opposizione agli atti esecutivi, con la conseguenza che la competenza spetta, per materia, al tribunale (e non al giudice di pace) e, per territorio, al giudice del luogo di notifica della cartella ex artt. 617, comma 1, e 480, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-3, n. 3582/2022, Rossetti, Rv. 664072-01). Nella specie la Corte – qualificata come opposizione agli atti esecutivi la contestazione riguardante l’irregolare notificazione della cartella, in quanto eseguita da un indirizzo p.e.c. non inserito in pubblici elenchi – ha accolto il regolamento dell’opponente avverso l’ordinanza del tribunale che aveva declinato la propria competenza in favore del giudice di pace del luogo in cui era stata commessa la violazione del C.d.S.

In tema di competenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche Sez. 6-3, n. 3047/2022, Guizzi, Rv. 664068-01, ha ritenuto che quando si controverta della proprietà di un terreno che si contesti faccia parte dell’alveo di un corso d’acqua pubblico e insorga la necessità di accertare l’appartenenza del suddetto bene al demanio idrico, sia pure con riferimento al passato, la decisione sulla questione spetta al Tribunale delle acque pubbliche, cui deve essere rimessa la causa, atteso che l’inderogabile competenza per materia del suddetto tribunale si giustifica in relazione al carattere eminentemente tecnico delle questioni e sussiste anche quando queste siano proposte “incidenter tantum” in via di azione o di eccezione.

2. La competenza per valore.

In tema di competenza per valore Sez. 2, n. 9068/2022, Scarpa, Rv. 664317-01, nell’anno in rassegna ha ribadito il principio secondo cui nell’azione di impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea di condominio, che sia volta ad ottenere una sentenza di annullamento avente effetto nei confronti di tutti i condomini, il valore della causa deve essere determinato sulla base dell’atto impugnato, e non sulla base dell’importo del contributo alle spese dovuto dall’attore in base allo stato di ripartizione, non operando la pronuncia solo nei confronti dell’istante e nei limiti della sua ragione di debito.

Tale pronuncia è riconducibile all’orientamento secondo cui la domanda di impugnazione di delibera assembleare introdotta dal singolo condomino, anche ai fini della stima del valore della causa, non può intendersi ristretta all’accertamento della validità del rapporto parziale che lega l’attore al condominio e dunque al solo importo contestato, ma si estende necessariamente alla validità dell’intera deliberazione e dunque all’intero ammontare della spesa, giacché l’effetto caducatorio dell’impugnata deliberazione dell’assemblea condominiale, derivante dalla sentenza con la quale ne viene dichiarata la nullità o l’annullamento, opera nei confronti di tutti i condomini, anche se non abbiano partecipato direttamente al giudizio promosso da uno o da alcuni di loro (Sez. 2, n. 19250/2021, Picaroni, Rv. 662012-01).

Si segnala che secondo un diverso orientamento ai fini della determinazione della competenza per valore, in relazione a una controversia avente a oggetto il riparto di una spesa approvata dall’assemblea di condominio, anche se il condomino agisce per sentir dichiarare l’inesistenza del suo obbligo di pagamento sull’assunto dell’invalidità della deliberazione assembleare, bisogna fare riferimento all’importo contestato, relativamente alla sua singola obbligazione, e non all’intero ammontare risultante dal riparto approvato dall’assemblea di condominio, poiché, in generale, allo scopo dell’individuazione dell’incompetenza, occorre avere riguardo al “thema decidendum”, invece che al “quid disputandum”; ne consegue che l’accertamento di un rapporto che costituisce la “causa petendi” della domanda, in quanto attiene a questione pregiudiziale della quale il giudice può conoscere in via incidentale, non influisce sull’interpretazione e qualificazione dell’oggetto della domanda principale e, conseguentemente, sul valore della causa (Sez. 6-2, n. 21227/2018, Scalisi, Rv. 650351-01).

Quanto alla competenza nei giudizi di opposizione all’esecuzione Sez. 6-3, n. 2882/2022, Fiecconi, Rv. 663867-01, ha ritenuto che il valore della controversia si determina, ai sensi dell’art. 17 c.p.c., in base all’importo indicato nell’atto di intimazione (nella specie, rivolto “pro quota” millesimale nei confronti dei singoli condomini di un condominio, contro cui si era formato il titolo), non assumendo rilevanza che il titolo esecutivo tragga origine da un’unica obbligazione e che l’opposizione sia stata spiegata congiuntamente dai singoli debitori.

3. La competenza per territorio.

3.1. I criteri di cui agli artt. 18 e ss. c.p.c.

In tema di competenza per territorio, in ordine al foro generale delle persone giuridiche, nell’anno in rassegna è stato ribadito il principio secondo cui l’espressione “sede amministrativa” risultante dal registro delle imprese è idonea ad esprimere sinteticamente il concetto di sede effettiva, che si identifica con il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente e nel quale, dunque hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti, e ed è stata conseguentemente ritenuta correttamente individuata la competenza ad opera dell’attore, ai sensi dell’art. 19 c.p.c., con riferimento al luogo in cui la società convenuta aveva una sede amministrativa, secondo le risultanze del registro delle imprese (Sez. 6-3, n. 36350/2022, Cricenti, Rv. 666354-01).

Quanto al foro facoltativo per le cause relative ai diritti di obbligazione, Sez. 6-2, n. 30309/2022, Fortunato, Rv. 665971-01, ha ribadito che è illegittima la pronuncia che fondi la declaratoria di competenza per territorio ex art. 1182, comma 3 c.c., sul presupposto che la liquidità del credito vantato dall’attore sia desumibile (esclusivamente) dall’esistenza di una fattura, essendo quest’ultima un mero documento contabile che può, ai sensi dell’art. 2710 c.c., far prova dei rapporti intercorsi tra imprenditori, ma che in nessun caso assume la veste di atto scritto avente natura contrattuale, ed è quindi inidonea a fornire la prova tanto della esistenza, quanto della liquidità di un credito.

In caso di condotta diffamatoria, anche se compiuta senza l’uso di mezzi di comunicazione di massa, Sez. 6-3, n. 17858/2022, Valle, Rv. 665060-01, ha affermato la sussistenza, con riguardo alla causa di risarcimento dei danni, di alternatività di fori, poiché il foro di commissione dell’illecito (cd. “forum commissi delicti”) concorre con quelli generali di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., per evidente ricorrenza del presupposto di agevolare la tutela del soggetto leso, consentendogli di incardinare il giudizio nel luogo in cui il danno ha avuto, ragionevolmente, la sua massima diffusione.

In applicazione di tale principio, è stata affermata la competenza del Tribunale del luogo di presumibile massima diffusione del danno - in quanto residenza da decenni e, per lungo tempo, luogo di lavoro dell’attore – il cui risarcimento era stato richiesto per attività diffamatoria individuata nell’attribuzione, in un processo civile, di una condotta estorsiva.

Il foro per le cause relative a diritti reali, nell’anno in rassegna è stato ritenuto applicabile all’azione di riduzione di ipoteca in quanto il processo così introdotto ha ad oggetto un diritto reale su beni immobili, ancorché presupponga una domanda di accertamento negativo del credito che ha dato luogo all’iscrizione ipotecaria (Sez. 6-3, n. 18681/2022, Valle, Rv. 665208-01).

Riguardo al foro delle cause ereditarie e di divisione Sez. 6-2, n. 11879/2022, Tedesco, Rv. 664515-01, ha ritenuto che la competenza territoriale esclusiva del giudice del luogo ove si è aperta la successione, di cui all’art. 22, n. 1, c.p.c., riguarda unicamente le cause di divisione dell’universalità dei rapporti giuridici facenti capo ad un comune “de cuius”, tornando ad applicarsi, nelle altre ipotesi, le regole generali, con la conseguenza che non rientra nel campo applicativo della citata disposizione l’azione di riduzione di una donazione per lesione di legittima, salvo che sia proposta cumulativamente con la domanda di divisione, né, tanto meno, la domanda restitutoria delle somme che il convenuto avrebbe prelevato, quale cointestatario, da un conto corrente del “de cuius” durante la vita di questi, non essendo qualificabile tale domanda come petizione ereditaria, che consente all’erede di reclamare soltanto i beni nei quali egli sia succeduto “mortis causa” al defunto e che, dunque, al tempo dell’apertura della successione, erano compresi nell’asse ereditario.

Quanto al foro della pubblica amministrazione Sez. 1, n. 24747/2022, Mercolino, Rv. 665375-02, ha ritenuto che il rinvio all’art. 25 c.p.c. da parte dell’art. 59, comma 2, della l. n. 196 del 1978, nel testo originario “ratione temporis” applicabile, è riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui l’Amministrazione regionale della Valle d’Aosta, dovendo assumere la qualità di attrice in giudizio, abbia inteso a tal fine avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, restando per converso applicabili i criteri ordinari d’individuazione del giudice territorialmente competente, nell’ipotesi in cui l’ente abbia fatto ricorso al patrocinio di liberi professionisti, ovvero non abbia ancora effettuato la propria scelta al momento della proposizione della domanda, per essere stato convenuto in giudizio.

In riferimento al foro relativo all’espropriazione forzata di crediti di cui all’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. Sez. 6-L, n. 20396/2022, Di Paolantonio, Rv. 665121-01, ha ritenuto che tale disposizione, nella formulazione “ratione temporis” applicabile, quando allude alla disciplina di leggi speciali attribuisce alla regola desumibile da tali leggi il valore di regola esclusiva rispetto a quella fissata dallo stesso citato comma 1, con riferimento al luogo in cui il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Traendone la conseguenza che, nel caso in cui il terzo sia la Banca d’Italia, trovano inderogabile applicazione le norme di contabilità pubblica, da ricomprendersi tra le disposizioni di leggi speciali cui allude il suddetto comma 1, che, valorizzando la residenza del creditore per individuare l’ambito della competenza delle Tesorerie Provinciali per mezzo delle quali il pagamento avviene, assegnano la competenza per territorio, per le domande di pagamento contro la P.A., al giudice del luogo in cui ha sede la Sezione di Tesoreria della provincia nella quale il creditore è domiciliato, senza che assumano rilievo la sede legale (posta a Roma) ovvero il luogo ove sussiste il rapporto del terzo con il debitore esecutato (nella specie, il MIUR).

3.2. La competenza per territorio in tema di protezione internazionale.

In tema di protezione internazionale, anche nell’anno in rassegna Sez. 6-1, n. 35762 del 06/12/2022, Bisogni, Rv. 666294-01, ha ribadito che l’interpretazione costituzionalmente orientata del comma 3, coordinato con il comma 1, dell’art. 4 del d.l. n. 13 del 2007, conv. nella l. n. 46 del 2017, deve tener conto della posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero in relazione all’esercizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., nonché dell’obbligo, imposto dall’art. 13 CEDU e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., di garantire un ricorso effettivo “ad ogni persona”, sicché la competenza territoriale a decidere sull’impugnazione dei provvedimenti assunti dalla c.d. Unità di Dublino, si radica attraverso il collegamento con la struttura di accoglienza del ricorrente, secondo un criterio “di prossimità”, nella sezione specializzata in materia di immigrazione del tribunale nella cui circoscrizione ha sede la struttura o il centro che ospita il ricorrente, anche nell’ipotesi in cui questi sia trattenuto in una struttura di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, senza che assuma rilevanza alcuna la qualificazione “ordinaria” ovvero “straordinaria” della medesima.

Tale principio era stato già affermato da Sez. 6-1, n. 31127/2019, Acierno, Rv. 656292-01 e successivamente ribadito da Sez. 6-2, n. 11873/2020, Casadonte, Rv. 658453-01; Sez. 6-3, n. 23108/ 2020, Graziosi, Rv. 659417-01; Sez. 6-1, n. 5092/2021, Acierno, Rv. 660589-01; Sez. 6-1, n. 5097/2021, Acierno, Rv. 660742-01.

Sembrerebbe pertanto superata l’interpretazione secondo cui la competenza territoriale a decidere sulle impugnazioni dei provvedimenti adottati dall’Unità Dublino o, dopo l’istituzione di sue articolazioni territoriali ad opera dell’art. 11 del d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2018, da una di tali articolazioni, spetta alla sezione specializzata del tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato, in applicazione del criterio generale di cui all’art. 4, comma 1, secondo periodo, del d.l. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla l. n. 46 del 2017, senza che possa trovare applicazione il criterio “correttivo di prossimità” di cui al comma 3 dello stesso art. 4 (Sez. 6-1, n. 18757/2019, Acierno, Rv. 654721-01).

3.3. Il foro per le cause relative al pagamento delle competenze professionali degli avvocati e alla responsabilità professionale dell’avvocato.

In tema di pagamento di compensi di avvocato nell’anno in rassegna Sez. 6-3, n. 567/2022, Iannello, Rv. 663818-01, ha ritenuto che il foro speciale di cui all’art. 637, comma 3, c.p.c. trova applicazione solo se la domanda monitoria abbia ad oggetto l’onorario per prestazioni professionali rese dall’avvocato direttamente al cliente rappresentato e difeso in giudizio e non anche ove si riferisca al credito al compenso maturato dal medesimo professionista nei confronti del Ministero dello Sviluppo economico per l’attività da lui svolta quale componente di un comitato di esperti incaricati della valutazione di proposte progettuali, non venendo in rilievo un’attività prettamente difensiva per la quale sia richiesta l’iscrizione all’albo.

Quanto alla competenza territoriale in ordine al ricorso per ingiunzione proposto dall’avvocato per ottenere il pagamento delle competenze professionali da un proprio cliente è stato inoltre ribadito che il foro del consumatore prevale su quello di cui all’art. 637, comma 3, c.p.c. in quanto l’art. 33, comma 2, lettera u), del d.lgs. n. 206 del 2005, prevede una competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore (Sez. 6-2, n. 8406/2022, Abete, Rv. 664433-01).

Così come è stato ribadito il principio, ormai consolidato, secondo cui nei rapporti tra avvocato e cliente quest’ultimo riveste la qualità di “consumatore”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 206 del 2005, a nulla rilevando che il rapporto sia caratterizzato dall’“intuitu personae” e sia non di contrapposizione, ma di collaborazione (quanto ai rapporti esterni con i terzi), non rientrando tali circostanze nel paradigma normativo, con la conseguenza che alle controversie in tema di responsabilità professionale dell’avvocato si applicano le regole sul foro del consumatore di cui all’art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 206 del 2005 (Sez. 6-3, n. 7357/2022, Cricenti, Rv. 664445-01).

3.4. Il foro dei giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato che abbiano ad oggetto comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati.

In ordine al foro dei giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato che abbiano ad oggetto comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati nell’anno in rassegna, con riguardo ai magistrati appartenenti alla sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei conti, è stato ribadito il principio – già affermato da Sez. U, n. 14842/2018, Cirillo, Rv. 649491-01 riguardo magistrati della Corte di cassazione – secondo cui non si applica lo spostamento di competenza previsto dall’art. 11 c.p.p. e, pertanto, la competenza per territorio è attribuita ai sensi dell’art. 25 c.p.c. secondo la regola del “forum commissi delicti”, sicché spetta in ogni caso al Tribunale di Roma, quale foro del luogo in cui è sorta l’obbligazione.

Sez. 6-1, n. 612/2022, Marulli, Rv. 663914-01, ha infatti ritenuto che il concetto di “ufficio compreso nel distretto di Corte d’appello”, menzionato nell’art. 11 c.p.p., è del tutto estraneo agli uffici di vertice delle giurisdizioni speciali e che la loro rilevanza nazionale consente di estendere ai magistrati che vi appartengono la disciplina prevista per i giudici di legittimità, con la conseguenza che la cognizione della causa è sempre attribuita, secondo i criteri ordinari, al Tribunale di Roma.

3.5. Il foro delle opposizioni proposte avverso le sanzioni applicate dalla CONSOB.

In ordine alla competenza per territorio sulle opposizioni proposte avverso le sanzioni applicate dalla CONSOB di cui al d.lgs. n. 231 del 2007, la Corte, nell’anno in rassegna, ha chiarito che la stessa, in forza dell’interpretazione teleologica e letterale dell’art. 195, comma 4, della l. n. 58 del 1998, spetta alla Corte d’appello nel cui distretto ha sede la società nel momento in cui viene presentato il ricorso, senza che al riguardo rilevi il momento consumativo dell’illecito, in quanto la disposizione citata prevede quale criterio principale e prioritario quello della sede della società al momento della presentazione del ricorso, e solo in via subordinata quello del luogo della consumazione della violazione, così esprimendosi un “favor” nei confronti della società sul presupposto che la prossimità del giudice alla sua sede renda quest’ultima in grado di difendersi in modo più agevole ed efficace (Sez. 6-2, n. 31390/2022, Bertuzzi, Rv. 666016-01).

3.6. Il foro stabilito per accordo delle parti.

In ordine al foro convenzionale stabilito dalle parti la Corte ha ribadito il principio consolidato secondo cui tale foro benché dalle stesse indicato come esclusivo, dà luogo a un’ipotesi di competenza “derogata” e non inderogabile, traendone la conseguenza che, qualora l’eccezione d’incompetenza non sia stata proposta nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, il giudice non può rilevarla d’ufficio oltre la prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 2120/2022, Gorgoni, Rv. 663859-01, che, in applicazione di tale principio ha ritenuto intempestivo il rilievo d’ufficio effettuato nel corso di un’udienza successiva alla prima, alla quale il giudice aveva rinviato il processo, riservandosi di decidere in tale sede sulla questione dell’incompetenza).

Sez. 2, n. 1068/2022, Scarpa, Rv. 663571-01, ha ritenuto che l’accordo con il quale i condòmini stabiliscono convenzionalmente il foro territorialmente competente a conoscere ogni controversia relativa al regolamento di condominio è applicabile a tutte le cause a qualsiasi titolo connesse con l’operatività del regolamento stesso, il quale, in senso proprio, è l’atto di autorganizzazione a contenuto tipico normativo, approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dall’art. 1136, comma 2 c.c., che contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.

È stato inoltre ribadito il principio, già affermato sebbene in epoca risalente dalla Corte di legittimità, secondo cui in sede di regolamento di competenza, allorquando risulti accertata l’avvenuta stipulazione, su modulo a stampa predisposto da una di esse, di un contratto contenente una clausola derogativa della competenza per territorio specificamente approvata per iscritto dall’altra, nessun rilievo può avere, ai fini della efficacia di tale deroga, il fatto che sia in discussione la validità del contratto, trattandosi di questione che appartiene al merito della controversia (Sez. 6-2, n. 33922/2022, Mocci, Rv. 666423-01).

3.7. L’eccezione di incompetenza per territorio.

In ordine al rilievo d’ufficio dell’incompetenza territoriale nell’anno in rassegna Sez. 6-3, n. 34814/2022, Moscarini, Rv. 666347-01, ha affermato che deve considerarsi tempestiva la questione di incompetenza territoriale sollevata “ex officio” dal giudice alla prima udienza utile successiva al tentativo di mediazione obbligatoria, essendo irrilevante che il tentativo di mediazione si sia protratto per diverse udienze, atteso che la mediazione disciplinata dal d.lgs. n. 28 del 2010 costituisce, per espressa volontà legislativa, una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, che si pone “a monte” dell’inizio del processo.

D’altra parte Sez. 6-3, n. 5046/2022, Dell’Utri, Rv. 663868-01, in tema di accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi ex art. 8 della l. n. 24 del 2017, ha ritenuto che il rinvio all’istituto di cui all’art. 696-bis c.p.c. fa sì che il provvedimento con cui il giudice affermi o neghi la propria competenza per territorio a provvedere sulla relativa istanza non assuma alcuna efficacia preclusiva o vincolante nel successivo giudizio di merito, con la conseguenza che il mancato rilievo d’ufficio dell’incompetenza (derogabile o inderogabile), o l’omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti, non determina il consolidamento della competenza in capo all’ufficio giudiziario adito, anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni delineato, per il giudizio a cognizione piena, dall’art. 38 c.p.c.

Sez. 6-3, n. 3200/2022, Fiecconi, Rv. 664070-01, ha affermato il principio secondo cui in tema di competenza per territorio, rientra nei poteri del giudice, sottesi al principio “iura novit curia”, l’individuazione della norma che sorregge l’eccezione di incompetenza sollevata dalla parte, restando pertanto irrilevante che quest’ultima, nel formulare l’eccezione e nell’indicare il foro reputato competente, non abbia anche invocato espressamente la norma a sostegno di tale indicazione o ne abbia richiamata una erronea.

Ed in applicazione di tale principio ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva individuato la competenza per territorio ai sensi dell’art. 7, punto 1, lett. B, del Regolamento UE n. 1215 del 2012, sebbene la parte convenuta avesse eccepito l’incompetenza territoriale in base all’applicazione della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 in materia di trasporto aereo internazionale).

Per altro verso nell’anno in rassegna è stato ribadito il principio consolidato secondo cui l’adesione all’eccezione di incompetenza territoriale proposta da controparte comporta, ai sensi dell’art. 38 c.p.c., l’esclusione di ogni potere del giudice adito di decidere sulla competenza e conseguentemente di pronunciare sulle spese processuali relative alla fase svoltasi davanti a lui, dovendo provvedervi il giudice al quale è rimessa la causa (Sez. 6-3, n. 15017/2022, Valle, Rv. 665114-01).

Infine, quanto al caso in cui l’eccezione di incompetenza per territorio, sollevata da uno soltanto dei litisconsorti facoltativi, sia rigettata in primo grado, e in grado di appello la relativa statuizione venga impugnata soltanto da colui che aveva sollevato l’eccezione, Sez. 3, n. 18423/2022, Rossetti, Rv. 665022-01, ha ritenuto che il nuovo rigetto di quest’ultima non possa essere impugnato per cassazione da coloro che, in secondo grado, non avevano impugnato la sentenza di primo grado sulla questione di competenza, ostandovi l’art. 329 c.p.c.

4. Le controversie attribuite alle sezioni specializzate.

4.1. Le controversie attribuite alle sezioni specializzate in materia di impresa.

In ordine alla competenza in materia di proprietà industriale e concorrenza sleale attribuita alle sezioni specializzate in materia di impresa dall’art. 3, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 168 del 2003, tramite il rinvio all’art. 134 del d.lgs. n. 30 del 2005, nell’anno in rassegna Sez. 6-1, n. 21265/2022, Falabella, Rv. 665247-01 ha affermato che essa ricomprende anche le fattispecie di concorrenza sleale interferente con segni distintivi diversi dal marchio, a prescindere dall’eventuale conflitto fra i segni e il marchio, mentre Sez. 6-1, n. 3454/2022, Scotti, Rv. 664213-01, ha ritenuto che le controversie in materia di concorrenza sleale relative ad “informazioni riservate” in ambito aziendale sono di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa se le informazioni sono caratterizzate dai requisiti di segretezza e segretazione di cui all’art. 98 d.lgs. n. 30 del 2005, mentre sono di competenza del tribunale ordinario se le informazioni sono prive di tali requisiti e, alla luce della prospettazione delle parti, non sia ravvisabile un’interferenza, neppure indiretta, con l’esercizio dei diritti di proprietà industriale.

Quanto alla competenza delle medesime sezioni specializzate in materia societaria, prevista dall’art. 3, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 168 del 2003, Sez. 6-2, n. 155/2022, Besso Marcheis, Rv. 663456-01, ha affermato che la stessa, poiché la norma tutti i rapporti societari, ha portata generale, sicché vi rientra anche la controversia avente ad oggetto l’azione di regresso esercitata dalla società nei confronti dei destinatari di sanzione pecuniaria, per avere provveduto al suo pagamento in qualità di coobbligata solidale.

Nell’ambito delle cause in materia societaria di competenza delle sezioni specializzate in questione è stata ricondotta altresì quella introdotta dalla domanda di revoca ex art. 2901 c.c. dell’atto di rinuncia, da parte del socio debitore, al diritto di sottoscrizione, effettuata contestualmente all’aumento di capitale deliberato dalla società, in quanto tale domanda - da valutarsi “ex ante” ed a prescindere dalla sua fondatezza nel merito - finisce per incidere sull’assetto della società, sull’entità del suo capitale, oltre che sulla sua distribuzione tra i soci, comportando inevitabili conseguenze sulla titolarità delle quote del patrimonio sociale e sui diritti ad esse connessi (Sez. 6-3, n. 34878/2022, Tatangelo, Rv. 666348-01).

Infine, nell’anno in rassegna è stato ribadito che la competenza delle predette sezioni specializzate per le cause relative a contratti di appalti pubblici di lavori servizi o forniture di rilevanza comunitaria, prevista dall’art. 3, comma 2, lett. f) d.lgs. n. 168 del 2003 è esclusa nel caso di contratto tra un ente pubblico ed un imprenditore, che, indipendentemente dal “nomen iuris” attribuitogli dalle parti (nella specie, appalto), si risolva in una concessione di servizi, in quanto il rischio di gestione nel quale incorre l’amministrazione aggiudicatrice è assunto integralmente, o in misura significativa, dalla controparte contrattuale; la medesima competenza è stata invece riconosciuta nel caso in cui sia configurabile un appalto pubblico di servizi di rilevanza comunitaria, purché il contratto riguardi servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti e non determini, in ogni caso, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione ad opera della controparte della pubblica amministrazione stessa (Sez. 6-2, n. 8692/2022, Besso Marcheis, Rv. 664436-01).

4.2. Le controversie attribuite alle sezioni specializzate agrarie.

Nell’anno in rassegna è stato ribadito che, per radicare la competenza funzionale della sezione specializzata agraria - da ultimo prevista, in via generale, dalla legge, n. 29 del 1990 - è necessario e sufficiente che la controversia implichi la necessità dell’accertamento, positivo o negativo, di uno dei rapporti soggetti alle speciali norme cogenti che disciplinano i contratti agrari, senza che, nella introduzione del giudizio, le parti siano tenute ad indicare, specificamente ed analiticamente, la natura del rapporto oggetto della lite, essendo quel giudice specializzato chiamato a conoscere anche delle vicende che richiedano la astratta individuazione delle caratteristiche e del “nomen iuris” dei rapporti in contestazione, pur nella eventualità che il giudizio si risolva in una negazione della natura agraria della instaurata controversia, come nel caso in cui risulti da stabilire se il convenuto per il rilascio di un fondo sia un occupante “sine titulo” ovvero, alla stregua di una prospettazione “prima facie” non infondata, detenga lo stesso in forza di un contratto di affitto, o di altro contratto agrario (Sez. 6-3, n. 35345/2022, Scrima, Rv. 666351-01).

In applicazione di tale consolidato principio è stata riconosciuta la competenza della sezione specializzata agraria che l’aveva declinata a favore di quella ordinaria, erroneamente ritenendo di essere esonerata da ogni accertamento positivo o negativo sulla natura del rapporto, posto che la parte resistente aveva eccepito di essere occupante senza titolo del fondo oggetto della domanda e di averlo usucapito.

È stato, peraltro, ribadito anche il principio, costantemente affermato nella giurisprudenza della Corte a partire dal 2003, secondo cui in materia di contratti agrari, la domanda inizialmente proposta dinanzi ad un giudice dichiaratosi incompetente (o dichiarato tale in esito a regolamento di competenza) non deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione in sede stragiudiziale, di cui all’art. 46 della l. n. 203 del 1982, prima della riassunzione della causa davanti alla sezione specializzata agraria (Sez. 3, n. 34131/2022, Condello, Rv. 666154-01).

Sez. 6-3, n. 9781/2022, Guizzi, Rv. 664454-01, ha ritenuto che la controversia relativa all’indennità per i miglioramenti apportati ad un fondo agricolo, oggetto di contratto di affitto di azienda agricola, rientra nella competenza esclusiva delle sezioni specializzate agrarie, essendo attribuite a detto giudice tutte le controversie in materia di contratti agrari, sia sotto il profilo della genesi del rapporto che del suo funzionamento o della sua cessazione, anche ove la decisione venga assunta sulla base delle norme generali del codice civile; ha considerato irrilevante, pertanto, che la domanda sia stata proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c. piuttosto che dell’art. 17 della l. n. 203 del 1982, stante la natura indennitaria, e non risarcitoria, della pretesa azionata, che configura una ipotesi di responsabilità da atto lecito connessa con attività realizzate nell’esecuzione del contratto.

Sez. 6-3, n. 3438/2022, Fiecconi, Rv. 664071-01, ha invece escluso la competenza delle sezioni specializzate agrarie in relazione alla controversia in materia di locazione di un fabbricato con annesso fondo rustico per lo svolgimento di un’impresa agricola, non essendo sufficiente a configurare un contratto agrario né la destinazione agricola del fondo, né la qualità di imprenditore agricolo del conduttore.

4.3. Le controversie attribuite alle sezioni specializzate in materia di immigrazione.

Infine, quanto alla competenza delle sezioni specializzate in materia di immigrazione Sez. 1, n. 241/2022, Falabella, Rv. 663481-01, ha ribadito il principio, già in precedenza affermato da Sez. 1, n. 14681/2020, Meloni, Rv. 658389-01, secondo cui in tema di immigrazione, durante la vigenza dell’art. 3 del d.l. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla I. n. 46 del 2017, e prima delle modifiche introdotte dall’art. 1 del d.l. n. 113 del 2018, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2018, anche se, a seguito del diniego di asilo da parte della Commissione territoriale, è proposta esclusivamente domanda di protezione umanitaria, la competente sezione specializzata del tribunale giudica in composizione collegiale, secondo il rito speciale di cui all’art. 35 bis del d.lgs. n. 25 del 2008, pronunciando decreto non impugnabile, ma ricorribile per cassazione.

Sez. L, n. 11859/2022, Ponterio, Rv. 664346-01, ha ritenuto che in caso di trattenimento del richiedente asilo presso un centro di permanenza temporanea, la presentazione di una domanda di protezione internazionale da parte dello straniero, anche se reiterata, radica la competenza sulla convalida in capo alla sezione specializzata istituita presso il Tribunale, e non al Giudice di pace, ai sensi dell’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 142 del 2015, in quanto determina un mutamento del titolo del trattenimento che prosegue, per il periodo massimo normativamente previsto, al fine di consentire l’espletamento della procedura di esame della domanda di protezione.

5. La competenza funzionale a decidere sull’opposizione a decreto ingiuntivo.

In tema di competenza funzionale a decidere sull’opposizione a decreto ingiuntivo Sez. 6-2, n. 8693/2022, Abete, Rv. 664502-01 e Sez. 2, n. 5560/2022, Bellini, Rv. 663954-01, hanno ribadito il principio secondo cui, siccome la competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento è inderogabile ed immodificabile, anche per ragioni di connessione, il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, in caso sia proposta domanda riconvenzionale di competenza della sezione specializzata delle imprese di altro tribunale, è tenuto a separare le due cause, rimettendo quella relativa a quest’ultima domanda dinanzi al tribunale competente, ferma restando nel prosieguo l’eventuale applicazione delle disposizioni in tema di sospensione dei processi.

L’inderogabilità di tale competenza funzionale sta alla base del principio, già affermato da Sez. 1, n. 1372/2016, Nazzicone, Rv. 638491-01, e ribadito anche nell’anno in rassegna, secondo cui la sentenza con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiara l’incompetenza territoriale non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull’opposizione ma contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicché quello che trasmigra innanzi al giudice “ad quem” non è più una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l’accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio.

Da tale principio Sez. 6-1, n. 1121/2022, Mercolino, Rv. 663541-01, ha tratto la conseguenza che in tale giudizio riassunto è, pertanto, ammissibile l’istanza di autorizzazione alla chiamata del terzo, seppur non avanzata in precedenza, potendo la riassunzione cumulare in sé anche la funzione introduttiva di un nuovo giudizio e non traducendosi ciò in una violazione del contraddittorio, in quanto il chiamato non resta assoggettato alle preclusioni e alle decadenze eventualmente già maturate nella precedente fase del giudizio.

6. Il regolamento di competenza.

Nell’anno in rassegna, in linea di continuità con i principi affermati da Sez. U, n. 14205/2005, Lupo, Rv. 581982-01, è stato ritenuto che la parte soccombente tanto sulla competenza quanto sul merito, e conseguentemente anche sulle spese, che intenda impugnare solo la pronuncia sulla competenza e non anche quella sul merito, deve proporre regolamento facoltativo di competenza, altresì qualora intenda censurare anche il capo sulle spese, perché il mancato esercizio del potere di impugnare con il ricorso ordinario per cassazione il merito della decisione le preclude di ridiscutere altrimenti la pronuncia sulle spese (Sez. 3, n. 23264/2022, Fiecconi, Rv. 665432-01).

Dal canto suo Sez. 6-3, n. 1848/2022, Guizzi, Rv. 663857-01, ha ritenuto che avverso l’ordinanza che abbia accolto l’eccezione di incompetenza territoriale inderogabile e omesso di statuire sulle spese, la parte vittoriosa sulla questione di competenza, per censurare l’omessa statuizione sulle spese, deve proporre impugnazione con il rimedio ordinario dell’appello, esperibile in ragione della natura decisoria del provvedimento indipendentemente dalla circostanza che la controparte abbia aderito all’eccezione, non potendo far valere la predetta censura con il regolamento di competenza in quanto tale impugnazione non svolgerebbe la sua tipica funzione regolatoria ma sarebbe utilizzata per una finalità cui è tipicamente diretto l’ordinario mezzo impugnatorio.

Sono stati inoltre ribaditi una serie di principi consolidati nella giurisprudenza della Corte.

In primis, Sez. 3, n. 8975/2022, Tatangelo, Rv. 664255-01, ha ribadito il principio consolidato secondo cui la pronuncia con cui il giudice dichiari la litispendenza, essendo sostanzialmente assimilabile al provvedimento con cui sono decise le questioni di competenza, può essere impugnata soltanto con il regolamento necessario di competenza.

É stato inoltre ribadito il principio altrettanto consolidato secondo cui il regolamento di competenza non è vincolato ai motivi proposti, ma costituisce strumento attraverso il quale si prospetta alla Corte, che regola in via definitiva la competenza, se, nella situazione processuale in cui il giudice di merito abbia dichiarato la sospensione del giudizio, questo dovesse o meno essere sospeso, in applicazione dell’art. 295 c.p.c., a prescindere, perciò, dalle censure espressamente formulate dal ricorrente nell’istanza di regolamento, ed è stato conseguentemente ritenuto irrilevante che la questione della prevalenza della riunione sia stata o meno oggetto di specifico motivo di ricorso avanti alla Corte di cassazione (Sez. 6-2, n. 7710/2022, Tedesco, Rv. 664190-02).

Infine hanno trovato conferma specifici casi sottratti all’ambito di applicazione dell’istituto in questione.

In tema di esecuzione è stato ribadito il principio consolidato secondo cui è inammissibile il regolamento di competenza richiesto d’ufficio per risolvere un conflitto tra giudici dell’esecuzione ed attinente all’individuazione del giudice competente per l’esecuzione forzata, posto che non viene in discussione la “potestas iudicandi” ma solo l’osservanza delle norme che attengono al regolare svolgimento del processo esecutivo (e, dunque, al “quomodo” dell’esecuzione forzata), che è assicurata per il tramite di ordinanze del giudice dell’esecuzione, avverso le quali è proponibile il rimedio generale dell’opposizione agli atti esecutivi (Sez. 6-3, n. 4506/2022, Guizzi, Rv. 664073-01); nonché quello secondo cui avverso il provvedimento pronunciato dal giudice dell’esecuzione nell’esercizio dei suoi poteri di gestione dello svolgimento del processo esecutivo, sia esso affermativo o negativo della propria competenza, è proponibile solo l’opposizione agli atti esecutivi e non il regolamento di competenza il quale, se proposto, va dichiarato inammissibile (Sez. 6-3, n. 3040/2022, Guizzi, Rv. 664067-01).

In tema di arbitrato, ha trovato conferma il principio consolidato secondo cui la decisione del giudice ordinario che affermi o neghi l’esistenza o la validità di un arbitrato irrituale e che dunque, nel primo caso, non pronunci sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l’arbitrato irrituale e, nel secondo, dichiari che la decisione del giudice ordinario può avere luogo, non è suscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza, in quanto la pattuizione dell’arbitrato irrituale determina l’inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l’art. 819 ter c.p.c. (Sez. 1, n. 33149/2022, Caiazzo, Rv. 666233-01).

Infine, è stato ribadito che l’ordinanza avente ad oggetto l’istanza diretta alla chiamata in causa di un terzo, avendo natura di provvedimento processuale attinente alla regolarità del contraddittorio od alla opportunità che il terzo partecipi al giudizio, ed essendo priva di qualsiasi contenuto decisorio, è insuscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza (Sez. 6-L, n. 11223/2022, Boghetich, Rv. 664309-01).

6.1. Il procedimento.

Quanto al procedimento nell’anno in rassegna è stato, in primo luogo, ribadito il principio consolidato secondo cui il difensore della parte, munito di procura speciale per il giudizio di merito, è legittimato a proporre istanza di regolamento di competenza, ove ciò non sia espressamente e inequivocabilmente escluso dal mandato alle liti, perché l’art. 47, comma 1, c.p.c. è una norma speciale, che prevale sull’art. 83, comma 4, c.p.c., in base al quale la procura speciale deve presumersi conferita per un solo grado di giudizio. E ne è stata tratta la conseguenza che sono irrilevanti eventuali vizi della procura speciale conferita per la proposizione del regolamento di competenza, atteso che il mero conferimento di tale procura successiva non comporta, in difetto di emergenze in senso contrario, la revoca tacita di quella in precedenza conferita per il giudizio di merito (Sez. 6-2, n. 5340/2022, Dongiacomo, Rv. 664063-01).

Ha trovato inoltre, conferma il principio altrettanto consolidato secondo cui, qualora una sentenza di primo grado, recante l’espressa affermazione della giurisdizione dell’adito giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusto l’art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., può rilevarne d’ufficio il difetto da parte di quel giudice ai sensi dell’art. 37 c.p.c., attesi i concorrenti principi di pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, di economia processuale e di ragionevole durata del processo, nonché l’attribuzione costituzionalmente riservata alla S.C. di tutte le predette questioni ed il rilievo che la sua statuizione sulla sola questione di competenza risulterebbe “inutiliter data” a seguito di un esito del processo di impugnazione su quella di giurisdizione nel senso del difetto di giurisdizione del giudice ordinario (Sez. U, n. 3099/2022, Falaschi, Rv. 663839-01).

D’altra parte, Sez. 6-L, n. 14899/2022, Piccone, Rv. 664674-01, rifacendosi a un principio già presente, sebbene non incontrastato, nella giurisprudenza più risalente della Corte, ha affermato che, poiché ai sensi dell’art. 42 c.p.c. l’ordinanza che, pronunciando sulla competenza, anche ai sensi degli artt. 39 e 40 c.p.c., non decide il merito della causa e i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., possono essere impugnati soltanto con istanza di regolamento di competenza, non va disposta la riunione, ex art. 335 c.p.c., del ricorso ordinario per cassazione e del regolamento di competenza proposti avverso lo stesso provvedimento, in quanto il capo relativo alla pronuncia sulla litispendenza, essendo autonomo dagli altri e di tipo esclusivamente processuale, può essere impugnato soltanto con l’istanza di regolamento di competenza.

  • giudice
  • magistrato
  • pubblico ministero
  • procedura civile
  • avvocato
  • diritto di agire in giudizio
  • interesse ad agire
  • ricusazione

CAPITOLO VI

LE DISPOSIZIONI GENERALI

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 Connessione, litispendenza e continenza. - 2 Il giudice. - 2.1 Astensione e ricusazione. - 3 Il diritto al compenso degli ausiliari del giudice e l’opposizione avverso il decreto di liquidazione. - 4 Il pubblico ministero. - 5 Le parti. - 6 I difensori. - 6.1 La procura alle liti. - 6.2 La procura alle liti per il giudizio di legittimità. - 6.3 Il principio di ultrattività del mandato. - 6.4 Rinuncia alla procura. - 6.5 L’inesistenza della procura alle liti. - 7 I doveri delle parti e dei difensori. - 8 La successione nel processo e la successione a titolo particolare nel diritto controverso. - 9 La successione a titolo particolare nel diritto controverso. - 10 L’interesse ad agire. - 11 La legittimazione ad agire. - 12 I principî della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e il rilievo d’ufficio delle questioni. - 12.1 L’instaurazione del contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio. - 13 Gli atti processuali. - 13.1 Gli atti da parte. - 13.2 I provvedimenti del giudice. - 14 I termini. - 15 Nullità degli atti processuali. - 15.1 La sanatoria per raggiungimento dello scopo. - 15.2 La conversione dei motivi di nullità della sentenza in motivi di impugnazione. - 16 Comunicazioni e notificazioni. - 16.1 Comunicazioni. - 16.2 Notificazioni. - 16.2.1 Le disposizioni generali in tema di notificazioni. - 16.2.2 Le notificazioni con modalità telematica. - 16.2.3 La notificazione ai sensi dell’art. 15 legge fallimentare. - 16.3 La nullità della notificazione.

1. Connessione, litispendenza e continenza.

In tema di connessione per pregiudizialità la Corte nell’anno in rassegna ha fatto riferimento alla distinzione tra questione pregiudiziale e causa pregiudiziale, affermando il principio di diritto secondo cui «una questione pregiudiziale idonea a configurarsi quale causa pregiudiziale postula non solo che vi sia una domanda di parte relativa ad un punto costituente un antecedente logico necessario, di fatto o di diritto, rispetto alla decisione della controversia principale proposta - che come tale può essere accertato in via incidentale - ma anche che tale questione assuma un rilievo autonomo, in quanto destinato a proiettare le sue conseguenze giuridiche, oltre il rapporto controverso, su altri rapporti, al di fuori della causa, con la formazione della cosa giudicata a tutela di un interesse giuridico concreto, che trascende quello inerente alla soluzione della controversia nel cui ambito la questione è stata sollevata».(Sez. 1, n. 24427/2022, Pazzi, Rv. 665626-01).

In applicazione di tale principio la Corte ha escluso che nel giudizio promosso dalla Curatela fallimentare di una delle società facenti parte di una ATI appaltarice nei confronti della committente per ottenere il pagamento del corrispettivo dei lavori eseguiti, la questione relativa all’accertamento negativo della intervenuta risoluzione del contratto di appalto prima del suo scioglimento per determinazione dei Commissari straordinari dell’amministrazione straordinaria della capogruppo, potesse ritenersi una causa pregiudiziale in senso tecnico, essendo la questione volta soltanto a precludere alla controparte l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c., ed essendo quindi oggetto di cognizione in via meramente incidentale, con la conseguenza di escludere altresì la qualità di parte soccombente, come tale legittimata all’appello, in capo all’amministrazione straordinaria, pure convenuta in primo grado.

In materia litispendenza nell’anno in rassegna la Corte ha ribadito il principio consolidato secondo cui, poiché la litispendenza è istituto che concorre alla identificazione in concreto del giudice che deve decidere la causa, la pronuncia con cui il giudice dichiari la litispendenza, essendo sostanzialmente assimilabile al provvedimento con cui sono decise le questioni di competenza, può essere impugnata soltanto con il regolamento necessario di competenza (Sez. 3, n. 8975/2022, Tatangelo, Rv. 664255-01).

È stato, inoltre escluso che sussista litispendenza tra l’opposizione a precetto ex art. 615, comma 1, c.p.c. e la successiva opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c., nemmeno se fondate su identici fatti costitutivi concernenti l’inesistenza del diritto di procedere all’esecuzione forzata, qualora il debitore abbia avanzato, con la seconda opposizione, anche contestazioni “formali” ex art. 617 c.p.c. (nella specie, tardività del deposito della nota di trascrizione del pignoramento) all’esecuzione intrapresa, presentando detta controversia un “quid pluris” ulteriore sufficiente a rendere detta causa obiettivamente diversa dall’altra. (Sez. 6-3, n. 26541/2022, Porreca, Rv. 665716-01).

Con riferimento al rapporto di continenza lo stesso è stato ritenuto configurabile tra l’azione di accertamento positivo e quella di accertamento negativo del medesimo diritto, in quanto le cause hanno identità di elementi soggettivi e coincidenza soltanto parziale di elementi oggettivi; e ne è stata tratta la conseguenza che, in mancanza di riunione delle controversie (se pendenti innanzi allo stesso giudice), il passaggio in giudicato della pronuncia di accoglimento della domanda di accertamento negativo comporta, come logica conseguenza, il rigetto della domanda di accertamento positivo (Sez. 3, n. 22830/2022, Frasca, Rv. 665421-01).

È stato, inoltre, affermato che, ove due cause in rapporto di continenza pendano in gradi diversi non è possibile rimettere, ai sensi dell’art. 39, comma 2, c.p.c., la causa successivamente proposta dinanzi al giudice preventivamente adito, ma l’esigenza di coordinamento, sottesa alla disciplina della continenza, va assicurata sospendendo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., il processo che avrebbe dovuto subire l’attrazione dell’altro, in attesa della sua definizione con sentenza passata in giudicato (Sez. 6-2, n. 5340/2022 Dongiacomo, Rv. 664063-02).

2. Il giudice.

2.1. Astensione e ricusazione.

Relativamente agli obblighi di astensione nell’anno in corso è stato ritenuto che, nei giudizi che coinvolgono istituti di credito, non sussista l’obbligo di astensione ex art. 51, comma 1, n. 3), c.p.c. del magistrato che abbia in corso rapporti contrattuali (nella specie, conto corrente e mutuo) con banche di rilevanti dimensioni e patrimonializzazione, instaurati mediante il ricorso a moduli contrattuali standardizzati, salvo che non risultino pattuite clausole a lui inequivocabilmente più favorevoli (Sez. 1, n. 10987/2022, Caiazzo, Rv. 664734-01).

Quanto alla forma dell’autorizzazione all’astensione e della revoca di tale autorizzazione Sez. L, n. 4768/2022, Spena, Rv. 663875-01, ha espresso il principio secondo cui «l’autorizzazione del giudice ad astenersi, resa dal capo dell’ufficio ai sensi dell’art. 51, comma 2, c.p.c., costituisce atto sostanzialmente amministrativo, soggetto a forma scritta e la revoca dell’autorizzazione, attraverso la quale il giudice riacquista la capacità di compiere gli ulteriori atti processuali, deve essere parimenti resa dal capo dell’ufficio in forma scritta, previa valutazione del venir meno delle gravi ragioni di convenienza che erano alla base dell’autorizzazione revocata; ne consegue che la mancanza di tale atto di revoca determina un vizio di costituzione del giudice, che dà luogo a nullità della sentenza».

In tema di ricusazione Sez. 2, n. 16831/2022, Falaschi, Rv. 664921-01, ha ribadito il principio – già affermato dalle Sezioni Unite della Corte seppure in epoca risalente (Sez. U, n. 55/1984, Virgilio, Rv. 432932-01) – secondo cui l’istanza di ricusazione del giudice deve essere depositata non oltre il secondo giorno prima della udienza, in applicazione dell’art. 52, comma 2, c.p.c., atteso che la fattispecie contemplata da tale norma - quella cioè in cui “al ricusante è noto il nome dei giudici che sono chiamati a decidere la causa” - resta realizzata dalla conoscibilità dei membri del collegio che il ricusante medesimo ha acquisito con la pregressa ricezione dell’avviso d’udienza, in correlazione alla sua facoltà di consultare il ruolo messo a disposizione in cancelleria; nonché quello, pure consolidato, secondo cui la parte, che non abbia esercitato l’onere di ricusazione, non può far valere, in sede di impugnazione, la violazione dell’obbligo di astensione del giudice come motivo di nullità della sentenza (per tale principio si veda anche Sez. U, n. 3527/2002, Elefante, Rv. 553400-01).

È stato, inoltre, ribadito il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui l’istanza di ricusazione non sospende automaticamente il processo quando il giudice “a quo” ne valuti l’inammissibilità per carenza “ictu oculi” dei requisiti formali, sicchè esso può proseguire senza necessità di impulsi di parte o d’ufficio; ciò al fine di contemperare il diritto delle parti all’imparzialità di giudizio, assicurato dalla circostanza che la delibazione di inammissibilità del giudice “a quo” non può comunque assumere valore ostativo alla rimessione del ricorso al giudice competente, ed al contempo il dovere di impedire l’uso distorto dell’istituto. (Sez. 2, n. 1624/2022, Carrato, Rv. 663574-01).

3. Il diritto al compenso degli ausiliari del giudice e l’opposizione avverso il decreto di liquidazione.

Per quanto concerne l’indennità spettante al custode Sez. 6-2, n. 2507/2022, Lombardo, Rv. 663815-01, ha affermato che in tema di liquidazione dell’indennità spettante al custode di beni sottoposti a sequestro penale, probatorio o preventivo, e, nell’ambito del codice di procedura civile, a sequestro penale conservativo e a sequestro giudiziario e conservativo, la determinazione dell’indennità di custodia per i beni diversi da quelli espressamente contemplati dal d.m. n. 265 del 2006 va operata, ai sensi dell’art. 5 del citato d.m. e dell’art. 58, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, non già sulla base di criteri alternativi o dell’equità, ma tenendo conto degli usi locali, i quali devono essere provati dalla parte che li allega, ove il giudice non ne sia a conoscenza, senza che tale dimostrazione possa essere fornita per la prima volta nel giudizio di legittimità.

In tema di opposizione avverso il decreto del giudice di liquidazione del compenso degli ausiliari è stato ribadito il principio secondo cui nel giudizio di opposizione al decreto di liquidazione del compenso al custode di beni sequestrati nell’ambito del procedimento penale, sono contraddittori necessari, oltre al beneficiario, le parti processuali, compreso il P.M. e, tra esse, in particolare, i soggetti a carico dei quali è posto l’obbligo di corrispondere detto compenso. Con la conseguenza che l’omessa notifica del ricorso e del decreto di comparizione delle parti - disposta ex art. 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794, cui rinvia l’art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - ad uno dei soggetti obbligati al pagamento, ove manchi la partecipazione di costui al procedimento, determina non l’inammissibilità del ricorso (dato che il suo deposito realizza la editio actionis necessaria all’incardinamento della seconda fase processuale), ma la nullità del successivo procedimento e della relativa decisione, in ragione della mancanza di integrità del contraddittorio, con conseguente cassazione della decisione stessa e rinvio della causa al giudice a quo (Sez. 6-2, n. 13784/2022, Varrone, Rv. 664914-01).

Inoltre, in applicazione del principio secondo cui nel procedimento di opposizione, ex artt. 84 e 170 del d.p.r. 30 maggio 2002 n. 115, parte necessaria è il soggetto esposto all’obbligo di sopportare l’onere economico del compenso (Sez. U, n. 8516/2012, Cappabianca, Rv. 622818-01), è stato ritenuto che il Ministero della Giustizia è litisconsorte necessario nel procedimento di opposizione avverso il decreto di liquidazione delle spese di consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero nel procedimento penale, ove non poste a carico dell’eventuale condannato in via definitiva (Sez. 6-2, n. 4291 del 10/02/2022, Giannaccari, Rv. 663969-01).

4. Il pubblico ministero.

In tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento da parte del pubblico ministero, Sez. 1, n. 27670/2022, Nazzicone, Rv. 665884-01, ha ritenuto che quest’ultimo può richiedere il fallimento, ai sensi dell’art. 7 l. fall., quando abbia appreso la notitia decoctionis nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, attingendola dalla relazione prevista dall’art. 33 l.fall. o ricavandola dagli atti relativi ad un procedimento penale per bancarotta, i quali possono essere legittimamente depositati per la prima volta anche in sede di reclamo ex art. 18 l.fall.; mentre Sez. 6-1, n. 10511/2022, Amatore, Rv. 664565-01, ha affermato che il P.M. può rinunciare all’istanza che abbia presentato ex art. 7 l.fall, poiché la sua richiesta è da equipararsi al ricorso dei creditori e i suoi poteri sono gli stessi delle parti private, fermo restando che tale rinuncia non determina effetti definitivi tramite la formazione di un giudicato, potendo l’istanza di fallimento essere successivamente riproposta dallo stesso P.M., senza pregiudizio alcuno per gli interessi pubblicistici sottesi, compresi quelli tutelati penalmente tramite l’esercizio dell’azione penale, in relazione ad eventuali delitti per il cui accertamento è necessaria la dichiarazione di fallimento del debitore.

In tema di querela di falso incidentale, Sez. 3, n. 15142/2022, Guizzi, Rv. 664827-01, ha affermato che una volta intervenuta l’autorizzazione ex art. 222 c.p.c., l’omessa comunicazione al P.M. della pendenza del relativo procedimento ne determina la nullità, rilevabile d’ufficio, anche qualora lo stesso si concluda con la declaratoria di inammissibilità della querela, dal momento che, all’esito del vaglio preliminare, risulta ormai coinvolto il generale interesse all’intangibilità della fede pubblica dell’atto che l’organo requirente è chiamato a tutelare.

D’altra parte in ragione dell’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero è stato ritenuto che in caso di proposizione di querela di falso, non può essere dichiarata l’inammissibilità dell’appello, ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., in quanto tale declaratoria è preclusa dalla lettera dell’art. 348-bis c.p.c.; precisandosi tuttavia che tale esclusione, che vale anche nelle ipotesi in cui il giudice dichiari la querela inammissibile, ritenendo integrata un’ipotesi di riempimento del foglio non absque, ma contra pacta, non opera ove la querela venga ritenuta nulla per mancata indicazione degli elementi e delle prove della falsità del documento, non sussistendo in tal caso l’obbligo di intervento del P.M. (Sez. L, n. 12453/2022, Cavallaro, Rv. 664601-01).

Più in generale Sez. 1, n. 32313/2022, Tricomi, Rv. 666124-01, ha ribadito il principio secondo cui, nei casi d’intervento obbligatorio del P.M. (nella specie nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità) la tardiva formulazione delle sue conclusioni, fuori udienza e senza che le parti abbiano potute conoscerle, non determina la violazione del contraddittorio, atteso che, ai fini della validità del procedimento, non è necessaria né la presenza alle udienze né la formulazione delle conclusioni da parte di un rappresentante di tale ufficio, che deve semplicemente essere informato, mediante l’invio degli atti, e posto in condizione di sviluppare l’attività ritenuta opportuna; nonché quello secondo cui, l’omessa partecipazione del P.M., che sia titolare solo del potere di intervento e non anche di quello di azione, non comporta la rimessione della causa, da parte del giudice del gravame, a quello di primo grado, ma solo la decisione nel merito dopo aver disposto il suo coinvolgimento.

Sez. 1, n. 3252 del 02/02/2022, Campese, Rv. 664158-01, ha ribadito il principio secondo cui l’integrazione del contraddittorio, in sede d’impugnazione, nei confronti del Pubblico Ministero presso il giudice a quo non si rende necessaria in tutte le controversie in cui ne sia contemplato l’intervento, ma soltanto in quelle nelle quali egli sia titolare del potere di proporre impugnazione (trattandosi di cause che lo stesso avrebbe potuto proporre o per le quali comunque sia previsto tale potere ai sensi dell’art. 72 c.p.c.), mentre nelle altre ipotesi le funzioni di Pubblico Ministero, in quanto non includono l’autonoma facoltà di impugnazione, vengono a identificarsi con quelle che svolge il Procuratore Generale presso il giudice ad quem, e restano quindi assicurate dalla comunicazione o trasmissione degli atti a quest’ultimo a norma degli artt. 71 c.p.c. e, per il giudizio di cassazione, dell’art. 137 disp. att. c.p.c.

5. Le parti.

Sez. 3, n. 17914/2022, Vincenti, Rv. 665073-01, ha ribadito il consolidato principio secondo cui l’art. 75 c.p.c. nell’escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state private della capacità di agire con una sentenza di interdizione o di inabilitazione, ovvero con provvedimento di nomina di un rappresentante e non anche a quelle colpite da incapacità naturale, ma non interdette o inabilitate. Ed in applicazione di tale principio ha confermato la decisione del giudice di merito che non aveva verificato d’ufficio la validità della procura ad litem conferita dal disabile, affetto da grave deficit sensoriale, motorio ed intellettuale, che era parte danneggiata nella causa di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità medica.

Quanto all’incidenza sulla capacità processuale del provvedimento di nomina di un amministratore di sostegno Sez. 1, n. 32845/2022, D’Orazio, Rv. 666134-01, ha chiarito che, poichè il provvedimento di nomina dell’amministrazione di sostegno non determina di per sé l’interruzione del giudizio di cui sia parte il beneficiario dell’amministrazione, anche qualora il difensore dichiari in udienza l’evento, l’interruzione del processo non si verifica automaticamente, come invece accade nelle diverse ipotesi dell’interdizione e dell’inabilitazione, bensì quale conseguenza del successivo provvedimento del giudice di merito che, dopo aver valutato, in base al tenore del provvedimento del giudice tutelare, l’effettiva capacità di agire residua dell’amministrato e la corrispondente capacità processuale ex art. 75 c.p.c., dichiara l’interruzione del processo, con la conseguenza che il “dies a quo” per la riassunzione del processo nel termine di tre mesi ex art. 305 c.p.c., decorre, per esigenze di tutela del beneficiario, non dalla data della dichiarazione in udienza dell’evento da parte del difensore, ma da tale successivo provvedimento del giudice.

In tema di rappresentanza processuale del minore, Sez. 2, n. 10930/2022, Giusti, Rv. 664374-01, sulla base del rilievo l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del soggetto incapace, ha ritenuto integrare atto di ordinaria amministrazione, per il quale non è necessaria la predetta autorizzazione, l’assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come la proposizione di un atto di appello per contrastare la sentenza di primo grado che abbia accolto la domanda dell’attore di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto ex art. 2932 c.c., trattandosi di un atto di difesa diretto a resistere all’azione avversaria.

Nello stesso ambito, nell’anno in rassegna, è stato precisato che il principio secondo cui è inammissibile la proposizione dell’impugnazione nei confronti del genitore del minore che abbia raggiunto la maggior età nel corso del precedente giudizio trova applicazione esclusivamente nel caso in cui il minore sia stato parte del giudizio e vi abbia partecipato a mezzo del genitore esercente la responsabilità genitoriale, quale suo rappresentante processuale, non anche quando il genitore (e non il minore) sia stato parte del giudizio perché, in qualità di esercente la responsabilità sul minore, sia stato direttamente e personalmente sanzionato in conseguenza dell’illecito amministrativo commesso da quest’ultimo (Sez. 6-2, n. 15826/2022, Dongiacomo, Rv. 665045-01).

Quanto agli enti Sez. 3, n. 7348/2022, Sestini, Rv. 664395-01, in tema di rappresentanza processuale del Comune, ha ribadito il principio consolidato secondo cui la causa di impedimento del sindaco a firmare direttamente la procura alle liti si presume esistente in virtù della presunzione di legittimità degli atti amministrativi, restando a carico dell’interessato l’onere di dedurre e di provare l’insussistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sostitutivi, sicché è valida la procura conferita dal vice sindaco ancorché sia stata omessa l’indicazione delle ragioni di assenza o impedimento del sindaco.

In ordine al curatore speciale ex art. 78 c.p.c. nell’ambito di procedimenti instaurati per la regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale Sez. 6-1, n. 28333/2022, Falabella, Rv. 665897-01, ha chiarito che il decreto di nomina del curatore speciale non è ricorribile per cassazione poiché è privo sia del requisito della definitività (essendo revocabile e modificabile in ogni tempo ex art. 742 c.p.c.) sia di quello della decisorietà (in quanto pur attenendo a posizioni di diritto soggettivo, non risolve conflitti su diritti contrapposti).

Nello stesso ambito Sez. 1, n. 7734/2022, Parise, Rv. 664526-01, ha ritenuto che, ove i genitori siano divenuti tali in assenza di legami sentimentali e di un progetto parentale comune ma a seguito di un incontro volutamente episodico a fini esclusivamente procreativi tra persone mai viste prima, conosciutesi tramite un sito internet dedicato, e a tale genesi dell’evento procreativo segua in modo univoco una gestione “sui generis” della genitorialità e/o la volontà di ciascuno dei genitori, o anche di uno solo di essi, di escludere l’altro da ogni rapporto con il figlio, è ravvisabile un potenziale conflitto di interessi tra genitori e figlio, che impone la salvaguardia dell’interesse del minore tramite la nomina del curatore speciale.

Quanto alla necessità di nomina di un curatore speciale in caso di conflitto di interessi tra rappresentante in giudizio e rappresentato Sez. 1, n. 7070/2022, Vannucci, Rv. 664114-01, ha ribadito il principio secondo cui il curatore fallimentare, anche se cessato dall’incarico e sostituito da un nuovo professionista, ove intenda impugnare per cassazione il provvedimento di liquidazione del compenso, deve previamente richiedere, a pena di inammissibilità del ricorso, al primo presidente della corte di cassazione - e non al giudice delegato - la nomina del curatore speciale del fallimento, nei cui confronti sussiste comunque un potenziale conflitto di interessi, atteso che il compenso del curatore fallimentare, da liquidare in ogni caso al termine della procedura (salvo acconti), è unico anche nel caso in cui si siano succeduti più professionisti nell’incarico.

D’altra parte Sez. 3, n. 11003/2022, Frasca, Rv. 664520-01, ha escluso che possa procedersi alla nomina, ai sensi dell’art. 78 c.p.c., di un curatore speciale per ricevere l’atto ai fini della notificazione del ricorso per cassazione a una società straniera, cancellata e non ricostituita, in quanto la predetta curatela presuppone l’esistenza del soggetto rappresentato, ritenendo, invece, necessario individuare i successori della società estinta, nei cui confronti il processo deve proseguire, secondo la legge processuale italiana, applicabile ai sensi dell’art. 12 della l. n. 218 del 1995.

In tema di sostituzione processuale Sez. 2, n. 34940/2022, Trapuzzano, Rv. 666418-01, rilevando che l’azione surrogatoria, conferendo al creditore stesso la legittimazione all’esercizio di un diritto altrui, ha perciò carattere necessariamente eccezionale, potendo essere proposta solo nei casi ed alle condizioni previsti dalla legge, ha ribadito il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte secondo cui, qualora il debitore non sia più inerte, per aver posto in essere comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del rapporto, viene a mancare il presupposto perché a lui possa sostituirsi il creditore, il quale non può sindacare le modalità con cui il debitore abbia ritenuto di esercitare i suoi diritti nell’ambito del rapporto, né contestare le scelte e l’idoneità delle manifestazioni di volontà da lui poste in essere a produrre gli effetti riconosciuti dall’ordinamento, soccorrendo all’uopo altri strumenti di tutela a garanzia delle pretese del creditore, quali, ove ne ricorrano i requisiti, l’azione revocatoria ovvero l’opposizione di terzo.

Sempre in tema di sostituzione processuale Sez. 1, n. 25854/2022, Mercolino, Rv. 665685-01, ha espresso il principio così massimato da questo Ufficio: «Il Ministero dell’interno, quale autorità intermediaria ai sensi della convenzione di New York del 20 giugno 1956 sul riconoscimento all’estero degli obblighi alimentari, quando agisce in giudizio in qualità di sostituto processuale del titolare del credito, ex art. 81 c.p.c., deve provare la sua “legitimatio ad causam” - intesa come prova della specifica investitura proveniente dal soggetto creditore - mediante la produzione in giudizio della richiesta presentata dal titolare del credito, allegando e provando l’identità dell’istante ed anche il conferimento dell’autorizzazione, ove eventualmente prescritta, non potendosi ritenere sufficiente a legittimare la proposizione della domanda giudiziale, la mera designazione del Ministero dell’Interno come organismo abilitato ad esercitare la funzione d’istituzione intermediaria, compiuta dallo Stato ai sensi dell’art. 2, par. 1 della Convenzione, dovendo il giudice del merito, in mancanza di tale prova, sollevare la questione d’ufficio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia del giudice d’appello che aveva ritenuto che l’onere di contestare specificamente l’assenza di una valida richiesta indirizzata al Ministero da parte dell’avente diritto incombesse al debitore e che la mancata contestazione in primo grado da parte sua, dovesse far ritenere la questione ormai incontestata)».

La sostituzione processuale è stata altresì posta a fondamento dell’azionabilità contro la Regione del titolo esecutivo ottenuto all’esito di un giudizio relativo a un debito di una soppressa USL a cui abbia partecipato la sola gestione liquidatoria da Sez. 3, n. 18976/2022, Spaziani, Rv. 665109-01, che ha affermato il principio così massimato da questo Ufficio: «Nelle controversie concernenti i debiti e i crediti delle soppresse USL, per le quali la legittimazione sostanziale e processuale spetta, in via concorrente, sia alle Regioni che alle gestioni liquidatorie, allorché al processo partecipi la sola gestione liquidatoria, il titolo esecutivo ottenuto contro quest’ultima, in relazione ad una obbligazione facente capo a una disciolta USL, può essere azionato anche contro la Regione, non già sulla base di una estensione soggettiva “ultra partes” della sua efficacia, ma in ragione dell’effetto diretto, in capo al soggetto processualmente sostituito, della condanna emessa in confronti del sostituto, atteso che la gestione liquidatoria agisce (o resiste), oltre che come parte ordinariamente legittimata in proprio, anche quale sostituto processuale della regione, nell’esercizio della legittimazione straordinaria a far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, ai sensi dell’art. 81 c.p.c.».

6. I difensori.

6.1. La procura alle liti.

In ordine alla sussistenza di una valida procura alle liti le Sezioni Unite della Corte, nell’anno in rassegna, hanno confermato il principio, già affermato dalla Corte, secondo cui nel caso in cui nell’intestazione di un atto giudiziario sia indicata una determinata persona quale rappresentante legale della società cui l’atto è riferibile e la procura alle liti rilasciata a margine o in calce all’atto stesso risulti invece sottoscritta da un soggetto diverso, la discordanza configura un mero errore materiale che non incide sulla validità dell’atto, qualora si accerti che la procura è stata rilasciata da colui che riveste la qualità di legale rappresentante della società (Sez. U, n. 12445/2022, Crucitti, Rv. 664568-01).

D’altra parte, nell’anno in rassegna, ha trovato conferma pure il principio secondo cui non può ritenersi idonea la procura in calce al ricorso per cassazione - di cui deve quindi dichiararsi l’inammissibilità - qualora essa sia rilasciata, in nome e per conto di una società di capitali, da soggetto che, pur qualificandosi come legale rappresentante, specifichi di essere “procuratore” della persona giuridica, come da atto notarile di cui siano indicati gli estremi ma che non sia prodotto, con la conseguente impossibilità di verificare il potere rappresentativo del soggetto, in relazione anche all’esigenza che la rappresentanza processuale non sia conferita disgiuntamente da quella sostanziale (Sez. 5, n. 2033/2022, Stalla, Rv. 663749-01).

Sez. U, n. 34260/2022, Manzon, Rv. 666195-01, ha dato seguito al principio secondo cui la nomina di una pluralità di procuratori, ancorché non espressamente prevista nel processo civile, è certamente consentita, non ostandovi alcuna disposizione di legge e fermo restando il carattere unitario della difesa; tuttavia, detta rappresentanza tecnica, indipendentemente dal fatto che sia congiuntiva o disgiuntiva, esplica nel lato passivo i suoi pieni effetti rispetto a ciascuno dei nominati procuratori, mentre l’eventuale carattere congiuntivo del mandato professionale opera soltanto nei rapporti tra la parte ed il singolo procuratore, onerato verso la prima dell’obbligo di informare l’altro o gli altri procuratori; con la conseguenza che, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c., è sufficiente la notifica via PEC della sentenza ad uno solo dei procuratori costituiti.

Quanto alla procura speciale Sez. 2, n. 29260/2022, Oliva, Rv. 666481-01 – in linea di continuità con il principio secondo cui, il margine cui la procura alle liti può essere apposta richiede, per essere considerato tale, di essere affiancato ad uno scritto (Sez. L, n. 33274/2021, Piccone, Rv. 662771-01) – ha ritenuto che la procura priva di specifici riferimenti ad un atto processuale, rilasciata a margine di un foglio in bianco inserito nel fascicolo processuale, è inesistente e l’originaria carenza dello “ius postulandi” non è superabile attraverso la riutilizzazione, dopo il provvedimento di rigetto della domanda della parte, del medesimo mandato, stampando sul foglio sul quale esso era stato conferito un atto di opposizione o di impugnazione avverso tale decisione.

In relazione alla procura rilasciata nel ricorso cautelare ante causam Sez. 1, n. 32774/2022, Tricomi, Rv. 666132-01, ha ritenuto che essa, ove conferita in termini ampi ed onnicomprensivi, conferisce al difensore, nel successivo giudizio di merito, il potere di proporre domande anche nei confronti di terzi che non sono stati parte del procedimento cautelare.

Dal canto suo, e coerentemente, Sez. 3, n. 17913/2022, Valle, Rv. 665017-01, ha ritenuto che, in caso di opposizione di terzo all’esecuzione, ex art. 619 c.p.c., l’atto di citazione per la fase di merito che segua, eventualmente, quella sommaria dinanzi al giudice dell’esecuzione è validamente notificato presso il difensore nominato con la procura alle liti rilasciata già nella prima fase, in mancanza di una diversa ed esplicita volontà della parte destinataria che abbia limitato, a tale fase, la validità del mandato difensivo.

Infine, sempre in tema di procura speciale, quanto ai profili di diritto intertemporale, Sez. 2, n. 12434/2022, Manna, Rv. 664786-01, ha affermato il principio secondo cui l’art. 83, comma 3, c.p.c., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla l. n. 69 del 2009, secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine o in calce anche di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo l’entrata in vigore dell’art. 45 della predetta legge (ossia il 4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data, se la procura non viene rilasciata in calce o a margine del ricorso o del controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata ex art. 83, comma 2, c.p.c.

6.2. La procura alle liti per il giudizio di legittimità.

In tema di procura alle liti per il giudizio di legittimità nell’anno in rassegna le Sezioni Unite (Sez. U, n. 36057/2022, Cirillo, Rv. 666374-01), in linea di continuità con i principi affermati da Sez. U, n. 11178/1995, Vittoria, Rv. 494408-01 e Sez. U, n. 2642/1998, Corona, Rv. 513540-01, hanno affermato il principio di diritto così massimato: «In tema di procura alle liti, a seguito della riforma dell’art. 83 c.p.c. disposta dalla l. n. 141 del 1997, il requisito della specialità, richiesto dall’art. 365 c.p.c. come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione (del controricorso e degli atti equiparati), è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica, nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso; tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al giudizio da promuovere, purché da essa non risulti, in modo assolutamente evidente, la non riferibilità al giudizio di cassazione, tenendo presente, in ossequio al principio di conservazione enunciato dall’art. 1367 c.c. e dall’art. 159 c.p.c., che nei casi dubbi la procura va interpretata attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di produrre i suoi effetti».

La pronuncia in esame si è resa necessaria in quanto in anni recenti, si era andato manifestando un orientamento diverso, rispetto ai principi affermati dalle citate Sezioni Unite del 1998, che riteneva inidonea la procura speciale, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione, redatta su foglio separato e avente un contenuto ritenuto non idoneo allo scopo, ad esempio perché facente riferimento esclusivo alle fasi di merito del giudizio, senza nessun richiamo al giudizio di cassazione, o perché, priva di una data successiva al deposito della sentenza d’appello, non conteneva alcun riferimento alla sentenza impugnata o al giudizio di cassazione etc.

Le Sezioni Unite hanno constatato, in primo luogo, che sottesa al contrasto di giurisprudenza vi sia stata una distinzione benché non formalmente enunciata, in quanto le sentenze riconducibili all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 2642 del 1998 sono state pronunciate in casi nei quali la procura speciale per la proposizione del ricorso per cassazione (o del controricorso) era stata redatta a margine o in calce all’atto, mentre le decisioni espressive di quello che l’ordinanza interlocutoria definisce come orientamento più rigoroso sono state emesse in casi nei quali la procura era stata conferita con un atto separato.

Hanno quindi ritenuto che tale distinzione debba essere definitivamente superata, in quanto contrastante con la riforma di cui alla legge n. 141 del 1997, che ha inteso equiparare la procura rilasciata su foglio separato, congiunto materialmente all’atto cui si riferisce, alla procura redatta a margine o in calce, e che pertanto unica debba essere la soluzione tanto per le procure redatte a margine o in calce quanto per quelle redatte su atto separato.

Partendo da questa premessa, le Sezioni Unite hanno composto il contrasto di giurisprudenza dando continuità all’orientamento già espresso nelle due fondamentali sentenze n. 11178 del 1995 e n. 2642 del 1998.

La motivazione della sentenza muove dalla considerazione della centralità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost. e dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che, per poter essere concretamente esercitato, impone che gli ostacoli di natura procedurale impeditivi al raggiungimento di una pronuncia di merito siano limitati ai casi più gravi, nei quali non è possibile assumere una decisione diversa, in quanto il processo deve tendere per sua natura ad una decisione di merito, perché risiede in questo l’essenza stessa del rendere giustizia.

Richiama poi, l’art. 111, settimo comma, Cost., che prevede che il ricorso per cassazione costituisca uno strumento «sempre ammesso» contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale e la centralità del ruolo giocato dal difensore, in favore del proprio cliente, per consentire che il diritto di difesa venga realmente esercitato.

Secondo le Sezioni Unite la valutazione dell’idoneità o meno della procura speciale ai fini della proposizione del ricorso per cassazione deve essere orientata da due fari: da un lato, la piena valorizzazione del criterio della collocazione topografica e, dall’altro, il principio di conservazione degli atti giuridici che, fissato come norma generale in materia di interpretazione dei contratti (art. 1367c.c.), sussiste anche in materia processuale (art. 159 c.p.c.).

L’unità fisica che pacificamente esiste per la procura a margine o in calce al ricorso – e che toglie ogni dubbio sulla sua validità, come emerge anche dalle pronunce dell’orientamento più restrittivo – è stata legalmente creata dal legislatore, per la procura redatta su foglio separato e congiunto, con la legge n. 141 del 1997.

Tale parificazione è una presunzione che dà attuazione al principio di conservazione dell’atto; di talché la procura redatta su foglio separato ma materialmente congiunto è da ritenere valida «in difetto di espressioni che univocamente conducano ad escludere l’intenzione della parte di proporre ricorso per cassazione».

Il principio di conservazione degli atti deve necessariamente arrestarsi qualora la procura sia stata redatta in modo tale da escludere con certezza che la parte, nel conferirla, abbia inteso attribuire al difensore il potere di proporre il ricorso per cassazione. Al contrario, il fatto puro e semplice che la procura contenga riferimenti ad attività tipiche del giudizio di merito, o sia redatta priva di data, non implica, di per sé, che la stessa debba ritenersi invalida.

Quanto al testo attualmente vigente dell’art. 83 c.p.c. – che, anche, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009, prevede la possibilità della procura redatta su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia, nonché quella della procura conferita su supporto cartaceo, che il difensore trasmette in copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica – le Sezioni Unite rilevano che tale modalità di conferimento, è disciplinata dal d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, e dalle specifiche tecniche previste dall’art. 34 del decreto stesso ed emanate con decreto dirigenziale del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia.

A norma dell’art. 18, comma 5, del d.m. cit., nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, del d.m. 3 aprile 2013, n. 48, la procura alle liti «si considera apposta in calce all’atto cui si riferisce quando è rilasciata su documento informatico separato allegato al messaggio di posta elettronica certificata mediante il quale l’atto è notificato. La disposizione di cui al periodo precedente si applica anche quando la procura alle liti è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine».

L’art. 13 del d.m. n. 44 del 2011 e l’art. 14, comma 1, delle specifiche tecniche, nel testo attualmente vigente (vale a dire il decreto del 16 aprile 2014, nella versione modificata in parte qua dal decreto del 28 dicembre 2015), stabiliscono che i documenti informatici (atto del processo e documenti allegati) sono trasmessi dagli utenti esterni (tipicamente i difensori), all’indirizzo di posta elettronica certificata dell’ufficio giudiziario destinatario, all’interno della c.d. “busta telematica”.

Secondo le Sezioni Unite, quindi «secondo la normativa regolamentare sul PCT, la procura speciale (rilasciata su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale ovvero conferita su supporto cartaceo e successivamente digitalizzata mediante estrazione di copia informatica autenticata con firma digitale) sarà considerata apposta in calce se allegata al messaggio di posta elettronica certificata (PEC) con il quale l’atto è notificato ovvero se inserita nella “busta telematica” con la quale l’atto è depositato».

Nella prospettiva di un prossimo futuro nel quale anche nel processo di cassazione lo strumento telematico sarà l’unico utilizzabile, quindi, «il requisito della “congiunzione materiale” sarà soddisfatto, nella realtà virtuale, con l’inserimento del documento contenente la procura speciale nel messaggio PEC con cui si procede alla notifica dell’atto cui si riferisce ovvero nella busta telematica con la quale si procede al deposito del medesimo atto. Ne deriva l’ulteriore conferma che il requisito della separazione della procura dall’atto cui essa accede sarà la regola generale, il che indirettamente rafforza la validità dell’orientamento tradizionale che queste Sezioni Unite intendono confermare».

I principi affermati dalle Sezioni Unite consentono di trascurare, in questa sede, le precedenti sentenze della Corte pronunciate nell’anno in rassegna in conformità o in contrasto con gli stessi (Sez. 3, n. 1165 /2022, Iannello, Rv. 663699-01; Sez. 6-L, n. 24671/2022, Leo, Rv. 665684-01).

Sempre in tema di procura speciale per il ricorso per cassazione Sez. 3, n. 23352/2022, Valle, Rv. 665438-01, ha affermato il principio secondo cui nel giudizio di cassazione la procura speciale deve essere rilasciata a margine o in calce al ricorso o al controricorso, atteso il tassativo disposto dell’art. 83, comma 3, c.p.c., che implica necessariamente l’inutilizzabilità di atti diversi da quelli suindicati; se la procura non è rilasciata contestualmente a tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal secondo comma del citato art. 83 e, quindi, con atto pubblico o con scrittura privata autenticata contenenti il riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata; ne consegue che, in caso di inosservanza delle forme prescritte, il ricorso deve ritenersi inammissibile.

In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto inammissibile il controricorso che non era munito di procura speciale e si limitava a rinviare, nell’intestazione, ad una procura generale alle liti, nonostante la successiva sostituzione del difensore, avvenuta con memoria anch’essa non contenente una procura speciale.

Dal canto suo Sez. 3, n. 11240/2022, Fanticini, Rv. 664508-01, sebbene in data anteriore a quella della pubblicazione della predetta sentenza delle Sezioni Unite, ha ritenuto che la procura conferita in data anteriore alla redazione del ricorso per cassazione e in un luogo diverso da quello indicato nell’atto introduttivo è invalida, perché l’art. 83, comma 3, c.p.c. attribuisce al difensore il potere di certificare l’autografia della sottoscrizione della parte soltanto in relazione alla formazione di uno degli atti in cui si esplica l’attività difensiva, sicché l’autenticazione del procuratore deve essere contestuale all’atto a cui la procura si riferisce. Ed in applicazione del principio ha dichiarato inammissibile un ricorso redatto a Palermo in data 19 maggio 2019, proposto in forza di una procura - comunque priva del requisito di specialità - sottoscritta ed autenticata dal difensore in Catania il 12 aprile 2019.

In materia di protezione internazionale Sez. L, n. 24265/2022, Boghetich, Rv. 665334-01, ha ritenuto applicabile il principio affermato da Sez. U, n. 15177/2021, Conti, Rv. 661387-01 in ordine ai requisiti della procura speciale per il ricorso per cassazione per le materie regolate dall’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008 anche ai procedimenti instaurati avverso i provvedimenti dell’Unità Dublino, atteso che l’art. 3, comma 3 septies, del citato d.lgs., con riferimento alla procura speciale, ha la medesima formulazione del richiamato art. 35 bis, comma 13, con la conseguenza che anche la procura speciale per tali procedimenti deve contenere in modo esplicito l’indicazione della data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato e richiede che il difensore certifichi, anche solo con un’unica sottoscrizione, sia la data della procura successiva alla comunicazione, che l’autenticità della firma del conferente.

Sez. 3, n. 18633/2022, Rossetti, Rv. 665108-01, ha ritenuto che nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 221, comma 5, d.l. n. 34 del 2020 e del d.m. 27 gennaio 2021 (che hanno consentito il deposito telematico degli atti e dei documenti nei procedimenti civili dinanzi alla Corte di cassazione), la procura speciale a ricorrere per cassazione, ove rilasciata in formato analogico (e non su un documento “ab origine” informatico), dev’essere depositata in originale, a pena di improcedibilità del ricorso. Ed ha dichiarato improcedibile il ricorso la cui procura speciale, pur rilasciata in formato analogico, era stata depositata in copia, contenente un’attestazione di conformità riferita a un originale telematico.

In tema di procura rilasciata all’estero per il ricorso per cassazione Sez. 1, n. 34867/2022, Iofrida, Rv. 666448-01, ha ritenuto che la procura alle liti, conferita all’estero se munita di “apostille”, dalla quale emerga che il sottoscrittore non è comparso davanti al pubblico ufficiale per firmare l’atto, è irrimediabilmente nulla, poiché costituisce principio inderogabile dell’ordinamento italiano che l’attestazione del pubblico ufficiale debba riguardare la firma dell’atto in sua presenza, previo accertamento dell’identità del sottoscrittore, e tale invalidità non può essere sanata mediante rinnovazione, come previsto, in generale, dall’art. 182 c.p.c., poiché, per il giudizio di legittimità, l’art. 365 c.p.c. prescrive l’esistenza di una valida procura speciale, quale requisito di ammissibilità del ricorso.

In tema di procura alle liti necessaria per la proposizione dell’istanza di regolamento di competenza Sez. 6-2, n. 5340/2022, Dongiacomo, Rv. 664063-01, ha ritenuto sufficiente la procura speciale per il giudizio di merito, ove ciò non sia espressamente e inequivocabilmente escluso dal mandato alle liti, perché l’art. 47, comma 1, c.p.c. è una norma speciale, che prevale sull’art. 83, comma 4, c.p.c., in base al quale la procura speciale deve presumersi conferita per un solo grado di giudizio. Con conseguente irrilevanza di eventuali vizi della procura speciale conferita per la proposizione del regolamento di competenza, atteso che il mero conferimento di tale procura successiva non comporta, in difetto di emergenze in senso contrario, la revoca tacita di quella in precedenza conferita per il giudizio di merito.

Con riferimento al ricorso per cassazione proposto dallo stesso procuratore di due o più parti in conflitto di interessi Sez. 6-2, n. 17456/2022, Mocci, Rv. 665049-01, ha ritenuto che il rilievo d’ufficio dell’inammissibilità del ricorso non deve essere preceduto dalla previa instaurazione del contraddittorio sulla questione ai sensi degli artt. 101 e 384, comma 3, c.p.c. trattandosi di questione di mero diritto, la cui prospettazione preventiva alle parti non può involgere profili difensivi non trattati.

Con riferimento al medesimo caso, invece, Sez. 2, n. 24839/2022, Criscuolo, Rv. 665580-01, ha ritenuto che detta situazione, ove eccepita dalla controparte e non immediatamente sanata, non comporta la nullità dell’intero ricorso, ma solo di quei motivi che contengono censure svolte in maniera tale che il loro accoglimento comporterebbe un vantaggio per uno degli impugnanti a danno dell’altro.

6.3. Il principio di ultrattività del mandato.

Sez. 2, n. 19272/2022, Falaschi, Rv. 664996-01, ha affermato il principio secondo cui in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, i cui effetti decorrono dalla estinzione, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, il difensore (al quale sia stata originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte estinta; a tale regola si sottrae il ricorso in cassazione, che necessita della procura speciale, non conferibile dal legale rappresentante della società estinta, privo di potere di rappresentanza, con conseguente inammissibilità del ricorso proposto.

Dovendosi in questo ultimo caso la procura speciale ritenere inesistente, in quanto essa presuppone un rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente che non può sussistere in mancanza del mandante, l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua effettiva consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura, essendo compito dell’avvocato che riceve un mandato e autentica la sottoscrizione in calce alla procura speciale, verificare, oltre che l’identità del sottoscrittore, la sussistenza, in capo allo stesso, di validi poteri rappresentativi dell’ente collettivo, al fine di assicurare gli effetti dell’atto, restando ferma, peraltro, l’eventuale corresponsabilità di quest’ultimo - da farsi valere dal difensore in un autonomo giudizio di rivalsa -, laddove abbia consapevolmente speso poteri rappresentativi della società già cancellata dal registro delle imprese (Sez. 3, n. 27847/2022, Fanticini, Rv. 665953-01).

Anche secondo Sez. 3, n. 16225/2022, Sestini, Rv. 664903-01, nel caso considerato, l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua concreta consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura.

Nell’anno in rassegna la Corte sembra quindi essersi discostata dal principio affermato da Sez. 5, n. 17360/2021, Fanticini, Rv. 661475-01, secondo cui, nel medesimo caso le conseguenze dell’inammissibile attività processuale iniziata col ricorso, tra le quali la condanna alle spese in favore della controparte, vanno riferite all’avvocato che ha sottoscritto l’atto introduttivo qualora, in base alle circostanze concrete, risulti la sua consapevolezza circa la mancanza di qualità di legale rappresentante in capo alla persona fisica che ha attribuito il mandato.

In forza del principio di ultrattività del mandato alla lite è stata invece ritenuta possibile la notifica del ricorso per cassazione alla società cancellata dal registro delle imprese in data successiva alla pubblicazione della sentenza di appello ed in pendenza del termine per proporre ricorso per cassazione presso il domicilio del difensore nel caso in cui il procuratore della società estinta non abbia notificato l’evento stesso alla controparte (Sez. 1, n. 190/2022, Falabella, Rv. 663552-01).

6.4. Rinuncia alla procura.

Nell’anno in rassegna è stato ribadito il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui per effetto del principio della cd. “perpetuatio” dell’ufficio di difensore (di cui è espressione l’art. 85 c.p.c.), nessuna efficacia può dispiegare, nell’ambito del giudizio di cassazione (oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio), la sopravvenuta rinuncia che il difensore del ricorrente abbia comunicato alla Corte prima dell’udienza di discussione già fissata (Sez. L, n. 28365/2022, Caso, Rv. 665734-01 che, rilevato che il giudizio di legittimità era stato ritualmente introdotto in base a ricorso recante valida procura, rispetto alla disposizione di cui all’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, rilasciata all’originario difensore, ha considerato ininfluente la rinuncia al mandato di quest’ultimo e la verifica di conformità alla citata disposizione del mandato poi conferito a diverso difensore).

Sempre riguardo alla rinuncia Sez. 2, n. 23077/2022, Criscuolo, Rv. 665381-01, ha ritenuto che l’art. 85 c.p.c. e l’art. 7 della l. n. 794 del 1942 sono espressione di una disciplina derogatoria, per i professionisti intellettuali che svolgono la professione di avvocato, rispetto a quella generale dell’art. 2237 c.c., per effetto della quale è permesso all’avvocato di recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa – salvo in tal caso il risarcimento del danno del quale il cliente provi l’esistenza – riconoscendo al difensore gli onorari relativi all’attività svolta fino al momento del recesso.

6.5. L’inesistenza della procura alle liti.

In ordine all’inesistenza della procura alle liti si segnala il principio affermato, nell’anno in rassegna da Sez. U, n. 37434/2022, Grasso, Rv. 666508-01, secondo cui l’art. 182, comma 2, c.p.c., nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, non consente di sanare l’inesistenza o la mancanza in atti della procura alla lite (per un esame più esteso di tale sentenza si rinvia al capitolo X, par. 2.1.).

Inoltre, Sez. 3, n. 33518/2022, Valle, Rv. 666147-01, ha ritenuto che il principio secondo cui gli effetti degli atti posti in essere da soggetto privo, anche parzialmente, del potere di rappresentanza possono essere ratificati con efficacia retroattiva (salvi i diritti dei terzi) non opera nel campo processuale, ove la procura alle liti costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale e può essere rilasciata con effetti retroattivi solo nei limiti stabiliti dall’art. 125 c.p.c., il quale dispone che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto, purché però anteriormente alla costituzione della parte rappresentata, e sempre che per l’atto di cui trattasi non sia richiesta dalla legge la procura speciale, come nel caso del ricorso per cassazione, restando conseguentemente esclusa, in tale ipotesi, la possibilità di sanatoria e ratifica. (Fattispecie nella quale il ricorso per cassazione, nonostante la relativa indicazione, era privo di procura in calce, recando invece una procura su foglio separato, non spillato né numerato, sul quale non era presente alcun segno che facesse propendere per l’iniziale congiunzione con l’atto cui accedeva).

7. I doveri delle parti e dei difensori.

In ordine al dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., nell’anno in rassegna si segnala la pronuncia con cui le Sezioni Unite, in tema di consulenza tecnica d’ufficio – dopo aver affermato che il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le loro osservazioni, ha natura ordinatoria e funzione acceleratoria con la conseguenza che la mancata prospettazione al consulente tecnico di osservazioni e rilievi critici non preclude alla parte di sollevare tali osservazioni e rilievi, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., nel successivo corso del giudizio e, quindi, anche in comparsa conclusionale o in appello – hanno ritenuto che ove tali osservazioni e rilievi critici siano stati proposti per la prima volta in comparsa conclusionale o in appello, il giudice può valutare, alla luce delle specifiche circostanze del caso, se tale comportamento sia stato o meno contrario al dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. e, in caso di esito positivo di tale valutazione, trattandosi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost. e, in applicazione dell’art. 92, comma 1, ultima parte c.p.c., può tenerne conto nella regolamentazione delle spese di lite (Sez. U, n. 5624/2022, Scrima, Rv. 664033-03).

Quanto alle espressioni sconvenienti ed offensive Sez. 3, n. 17914/2022, Vincenti, Rv. 665073-02, ha ritenuto che costituisce vizio di omessa pronuncia, denunciabile anche in sede di legittimità, la mancata decisione sull’istanza di cancellazione di frasi sconvenienti od offensive e di correlativo risarcimento dei danni, il cui esame, ancorché affidato al potere discrezionale del giudice, che può provvedere al riguardo anche d’ufficio, non per questo può essere omesso.

8. La successione nel processo e la successione a titolo particolare nel diritto controverso.

In tema di successione nel processo Sez. 2, n. 16747/2022, Manna, Rv. 664888-01, ha affermato che, in caso di opposizione a ordinanza ingiuntiva, la morte dell’autore della violazione, comportando l’estinzione dell’obbligo di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall’Amministrazione, la quale, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi, attesa la natura personale della responsabilità amministrativa, determina la cessazione della materia del contendere, senza alcuna regolamentazione delle spese di lite, poiché, non potendo trovare applicazione i principi della soccombenza e della causalità propri della cd. soccombenza virtuale, in quanto l’erede succede nel processo, ma non nel lato passivo del rapporto giuridico sanzionatorio che ne forma l’oggetto sostanziale, il carico delle spese resta regolato dall’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, in base al quale ciascuna parte anticipa e sostiene le proprie.

La successione nel processo nell’anno in rassegna è stata esclusa in due casi: quello della confisca della totalità delle partecipazioni societarie, disposto all’esito di un procedimento di prevenzione, che determina il subentro dello Stato nella società, la quale, tuttavia, resta immutata nella sua soggettività giuridica e non perde la legittimazione a proseguire i giudizi precedentemente instaurati a tutela dei propri crediti, non potendosi configurare un acquisto a titolo originario del diritto controverso in capo all’autorità pubblica (Sez. 3, n. 16607/2022, Guizzi, Rv. 664906-01); e quello della morte dell’attore, intervenuta prima della notificazione dell’atto di citazione, che determina la nullità della “vocatio in ius”, e dell’intero eventuale giudizio che ne è seguito, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, risultando irrilevante la volontaria costituzione in giudizio dei successori della parte deceduta che intendano proseguire il processo, perché, in assenza della valida instaurazione del rapporto processuale e del contraddittorio tra le parti, non può trovare applicazione né l’istituto della successione nel diritto controverso, né quello della interruzione del processo (Sez. 6-2, n. 11506/2022, Scarpa, Rv. 664439-02).

9. La successione a titolo particolare nel diritto controverso.

In tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso Sez. 6-2, n. 8624/2022, Criscuolo, Rv. 664465-01, ha affermato il principio secondo cui l’art. 111 c.p.c. enuncia una regola di carattere generale per la quale, anche in caso di trasferimento a titolo particolare della res litigiosa nel corso del processo, questo deve proseguire nei confronti dell’alienante, fatta salva la facoltativa possibilità di intervento dell’acquirente, tenuto in ogni caso a risentire degli effetti della pronuncia emessa nei confronti del dante causa, ed è, pertanto, applicabile anche in materia di giudizio di divisione, non sussistendo ragioni peculiari che ostino a tale operatività.

Sez. 2, n. 25926/2022, Tedesco, Rv. 665593-01, ha ritenuto configurabile la successione a titolo particolare nel diritto controverso in caso di acquisto del bene sottoposto ad esecuzione forzata, da parte dell’aggiudicatario, trattandosi di acquisto a titolo derivativo, e non originario, pur essendo indipendente dalla volontà del precedente proprietario, e ricollegandosi ad un provvedimento del giudice dell’esecuzione, con la conseguenza che, qualora, nel corso del giudizio promosso contro il proprietario di un immobile, il bene venga espropriato in esito ad esecuzione forzata, la sentenza che definisce quel giudizio deve ritenersi opponibile all’aggiudicatario, ai sensi dell’art 111, comma 4 c.p.c., in qualità di successore a titolo particolare nel diritto controverso, salva l’eventuale operatività delle limitazioni previste dagli artt. 2915 e 2919 c.c.

10. L’interesse ad agire.

Nell’anno in rassegna Sez. U, n. 34388/2022, Manzon, Rv. 666366-01, ha ribadito il consolidato principio secondo cui «l’accertamento dell’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento degli organi giurisdizionali per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunziata, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito».

In tema di giudizi riguardanti la rettificazione di attribuzione di sesso, Sez. 1, n. 7735/2022, Lamorgese, Rv. 664527-01, ha affermato che la parte che, pur avendo ottenuto l’autorizzazione al trattamento medico-chirurgico, prevista dall’art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011, ricorra in cassazione per saltum, censurando la pronuncia di merito che abbia ritenuto manifestamente infondata e irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’articolo appena menzionato, nella parte in cui richiede l’autorizzazione giudiziaria per procedere all’intervento di adeguamento dei caratteri sessuali (sollevata in via preliminare rispetto alla richiesta di autorizzazione), è priva di interesse ad agire, atteso che tale interesse consiste nell’esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice e presuppone che, in ordine all’esistenza o al contenuto del rapporto giuridico, sussista uno stato di incertezza, da considerare in termini oggettivi e non soggettivi, tale da recare all’interessato, ove non si proponga l’accertamento giudiziale richiesto, un pregiudizio concreto ed attuale e non solo potenziale, essendo inibito al giudice risolvere questioni soltanto teoriche.

Riguardo alle azioni di accertamento negativo Sez. 1, n. 29479/2022, Lamorgese, Rv. 666034-01, ha affermato che, laddove l’azione sia volta a far dichiarare che una certa condotta non costituisce contraffazione di marchio e attività di concorrenza sleale, deve ritenersi la sussistenza dell’interesse ad agire anche in assenza di un’espressa iniziativa contraria del titolare del diritto di privativa, poiché l’azione di accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva, anche non preesistente al processo. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente l’interesse ad agire per l’accertamento negativo dell’illiceità della registrazione di un nome a dominio, anche se l’attore aveva ricevuto solo una diffida dall’altra impresa che, dopo alcune trattative non andate a buon fine, aveva attivato la procedura amministrativa di riassegnazione di quello stesso nome a dominio).

L’opposizione all’esecuzione con cui il debitore deduca di non essere proprietario dei beni pignorati è stata ritenuta inammissibile per difetto d’interesse ad agire, non potendo derivare alcun pregiudizio, all’opponente, dall’espropriazione del bene di un terzo (Sez. 3, n. 35005/2022, Condello, Rv. 666278-01).

In tema di protezione internazionale Sez. 1, n. 29866/2022, Amatore, Rv. 665921-01, ha ritenuto che il giudice d’appello, in sede di giudizio di rinvio in seguito ad una pronuncia cassatoria, non può limitarsi a pronunciare l’inammissibilità del gravame per asserita carenza di interesse derivante dalla mancata comparizione del ricorrente nell’udienza svoltasi nel giudizio di primo grado, ma deve pronunciare sul merito delle domande volte ad ottenere la protezione invocata, atteso che il ricorrente, proponendo appello, ha allegato e dimostrato il suo interesse alla definizione della causa, senza che sulla erronea declaratoria di inammissibilità possa ritenersi formato il giudicato.

11. La legittimazione ad agire.

In tema di legittimazione ad agire, nell’anno in rassegna Sez. U, n. 29862/2022, Rossetti, Rv. 665940-06, ha affrontato la questione della individuazione del soggetto legittimato ad ottenere il risarcimento in ipotesi di danno da omesso versamento di dazi doganali. Le Sezioni Unite, partendo da una ricostruzione storica del sistema di finanziamento dell’Unione Europea, sottolineano come “i dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i paesi terzi e dazi doganali sui prodotti rientranti nel trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio” costituiscano, ai sensi dell’art. 2, lett. b), della Decisione del Consiglio 94/728/CE, Euratom (abrogata dall’art. 10 della Decisione 29/09/2000 n. 597, ma applicabile ratione temporis ai fatti di causa), “entrate proprie dell’Unione” rispetto alle quali, ai sensi del successivo art. 8 della medesima Decisione, gli Stati membri hanno il mero compito di provvedere alla riscossione “conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze della normativa comunitaria”.

Conseguentemente hanno affermato il principio di diritto così massimato da questo Ufficio: «Qualunque fatto illecito che abbia per effetto la perdita del credito tributario avente ad oggetto un tributo costituente “risorsa propria” dell’Unione Europea costituisce un danno per quest’ultima, che è, pertanto, legittimata a chiederne il risarcimento; lo Stato italiano, tramite i suoi organi, è, invece, legittimato a domandare tale risarcimento non in proprio ma solo nella qualità di soggetto incaricato della riscossione».

Sez. 2, n. 34940/2022, Trapuzzano, Rv. 666418-02, ha ritenuto configurabile la legittimazione ad agire in via surrogatoria qualora il credito verso il terzo sia già consacrato in una sentenza di condanna o in altro titolo esecutivo, ovvero si tratti di un decreto ingiuntivo munito di clausola di provvisoria esecuzione ai sensi dell’articolo 642 c.p.c. benché detto titolo non sia definitivo, considerando, nondimeno, sufficiente, ai fini del legittimo esercizio dell’azione surrogatoria, anche un credito non determinato nel suo ammontare, oppure sottoposto a condizione o a termine.

In tema di simulazione, Sez. 1, n. 19149/2022, Tricomi, Rv. 665320-01, ha ritenuto che l’art. 1415, comma 2, c.c., legittimando i terzi a far valere la simulazione del contratto rispetto alle parti quando essa pregiudichi i loro diritti, non consente di ravvisare un interesse indistinto e generalizzato di qualsiasi terzo ad ottenere il ripristino della situazione reale, essendo, per converso, la relativa legittimazione indissolubilmente legata al pregiudizio di un diritto conseguente alla simulazione; pertanto, non tutti i terzi, solo perché in rapporto con i simulanti, possono richiedere l’accertamento della simulazione, dovendosi invece riconoscere il relativo potere di azione o di eccezione soltanto a coloro la cui posizione giuridica risulti negativamente incisa dall’apparenza dell’atto. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto il genitore naturale non legittimato a far accertare la simulazione della separazione consensuale dell’altro genitore con il proprio coniuge, non avendo dedotto e provato la negativa incidenza dell’accordo apparente sul mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio e la sussistenza di un proprio pregiudizio almeno potenziale).

In tema di nullità del brevetto per invenzione industriale Sez. 1, n. 8584/2022, Scotti, Rv. 664367-02, ha affermato che la legittimazione ad agire di chiunque abbia interesse a far valere detta nullità ex art. 118, comma 4, del d.lgs. n. 30 del 2005, deve sussistere ed essere verificata al momento della decisione della causa piuttosto che a quello della proposizione della domanda, trattandosi di condizione dell’azione che può sopravvenire anche in corso di giudizio.

Nel contratto a favore di terzo (nella specie, polizza vita con investimento del capitale in strumenti finanziari) Sez. 3, n. 14985/2022, Ambrosi, Rv. 664825-01, ha ritenuto che, in assenza di diverse previsioni convenzionali, vada riconosciuta la legittimazione esclusiva del terzo ad agire per la risoluzione e il risarcimento del danno al fine di ottenere, in caso di inadempimento del promittente, la prestazione attribuitagli, qualora il contratto sia idoneo a fargli acquisire il relativo diritto senza necessità di attività esecutiva da parte del promittente medesimo, mentre, nel caso contrario, tale legittimazione attiva vada riconosciuta anche allo stipulante.

12. I principî della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e il rilievo d’ufficio delle questioni.

In tema di espropriazione per pubblica utilità il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ha indotto Sez. 6-1, n. 24355/2022, Marulli, Rv. 665706-01, a escludere che nel giudizio di opposizione alla stima – configurato come un ordinario giudizio di cognizione sul rapporto, volto all’accertamento del quantum effettivamente dovuto, e non come un giudizio di impugnazione – possa procedersi ad una determinazione dell’indennità in peius per l’espropriato, a meno che l’espropriante non formuli domanda riconvenzionale; conseguentemente è stato escluso che, ove quest’ultima sia stata oggetto di rinuncia, il giudice possa condannare l’espropriato alla restituzione delle somme che, in base alla stima giudiziale, abbia incassato in eccesso, incorrendo altrimenti nella violazione dell’art. 112 c.p.c.

Il principio della rilevabilità d’ufficio della nullità contrattuale ha indotto Sez. 1, n. 20170/2022, Amatore, Rv. 665222-01, a precisare che in caso di mancata rilevazione officiosa di una nullità contrattuale nel precedente grado di giudizio, il giudice, nel giudizio di appello e in quello di cassazione, ha sempre il potere di procedere a siffatto rilievo, anche quando si tratta di “nullità di protezione”, da configurarsi come species del più ampio genus delle nullità negoziali, poste a tutela di interessi e valori fondamentali che trascendono quelli del singolo contraente.

In applicazione di tale principio la Corte ha confermato la decisione impugnata, nella parte in cui ha esaminato nel merito la domanda di accertamento della nullità di un contratto quadro di intermediazione mobiliare, contenuta nell’atto di appello e fondata su motivi diversi da quelli dedotti in primo grado, escludendone l’inammissibilità.

Riguardo allo stesso tema Sez. 1, n. 28377/2022, Vannucci, Rv. 665753-01, ha affermato che la domanda di accertamento della nullità di un contratto relativo alla prestazione di servizi di investimento in valori mobiliari per inosservanza della forma scritta (nella specie, ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. n. 415 del 1996) proposta dal cliente per la prima volta in appello, nei confronti dell’intermediario in valori mobiliari, nell’ambito di un giudizio volto ad ottenere il risarcimento di danni che si assumono essere derivati dall’esecuzione del contratto medesimo, pur essendo inammissibile quale domanda nuova, ex art. 345, comma 1, c.p.c., deve essere convertita ed esaminata nel merito dal giudice del gravame, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, come eccezione di nullità rilevabile d’ufficio - estesa anche alle nullità negoziali c.d. di protezione - previa instaurazione del contraddittorio tra le parti ex art. 101, comma 2 c.p.c.

Sempre riguardo alle eccezioni rilevabili d’ufficio, ma in tema di opposizione alle ingiunzioni di pagamento di sanzioni amministrative, di cui all’art. 22 della l. n. 689 del 1981, Sez. 2, n. 1056/2022, Besso Marcheis, Rv. 663569-01, ha escluso che la tardività della contestazione dell’illecito – cui consegue, ex art. 14 stessa legge, l’effetto estintivo dell’obbligo di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione – possa essere rilevata d’ufficio, costituendo oggetto di eccezione in senso stretto che deve essere dedotta come motivo specifico di opposizione, atteso che nel predetto procedimento, strutturato in conformità al modello del processo civile, trovano applicazione le regole della domanda (art. 99 c.p.c.), della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e del divieto della pronuncia d’ufficio su eccezioni rimesse esclusivamente all’iniziativa della parte (art. 112 c.p.c.).

In tema di danno alla persona, infine, Sez. 3, n. 31574/2022, Pellecchia, Rv. 666111-02, ha ritenuto che la liquidazione sotto forma di rendita vitalizia costituisce una facoltà del giudice, il quale può provvedervi in via autonoma, senza necessità di un’istanza di parte e anche in appello, non integrando tale opzione una questione rilevabile d’ufficio ex art. 101, comma 2, c.p.c., ma soltanto una diversa determinazione della forma del risarcimento; pertanto, indipendentemente dalla domanda della parte di liquidazione della rendita e finanche dall’espresso rifiuto di tale metodo di liquidazione, il giudice può comunque liquidare il pregiudizio a norma dell’art. 2057 c.c., senza che ciò si risolva in un indebito vantaggio per il danneggiante, sia perché il risarcimento per equivalente del danno biologico permanente e del danno morale ad esso conseguente comporta il ristoro di tutti i pregiudizi derivanti al danneggiato giorno per giorno e sino alla fine della sua vita, sia perché allo spirare dell’esistenza non è più configurabile un danno biologico o morale per il soggetto leso.

12.1. L’instaurazione del contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio.

L’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., nell’anno in rassegna è stato escluso dalla Corte riguardo al rilievo della tardività dell’impugnazione o dell’intervenuta decadenza dall’opposizione in quanto l’osservanza dei termini perentori entro cui devono essere proposte le impugnazioni (artt. 325 e 327 c.p.c.) o avviate le cause di contenuto oppositivo (artt. 617 o 641 c.p.c.) costituisce un parametro di ammissibilità della domanda alla quale la parte che sia dotata una minima diligenza processuale deve prestare attenzione, dovendo considerare già “ex ante”, come possibile sviluppo della lite, la rilevazione d’ufficio dell’eventuale violazione (Sez. 5, n. 32527/2022, Balsamo, Rv. 666391-01 e Sez. 6-3, n. 7356/2022, Scrima, Rv. 664444-01).

Analogamente il medesimo obbligo della previa instaurazione del contraddittorio sulla questione, di cui all’art. 101, comma 2, c.p.c. è stato escluso riguardo al rilievo d’ufficio dell’inammissibilità del ricorso per cassazione, perché proposto dallo stesso procuratore di due o più parti in conflitto di interessi, trattandosi di questione di mero diritto, la cui prospettazione preventiva alle parti non può involgere profili difensivi non trattati (Sez. 6-2, n. 17456/2022, Mocci, Rv. 665049-01).

Sempre riguardo all’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 101, comma 2, c.p.c. Sez. 2, n. 1617/2022, Tedesco, Rv. 663636-01, ha affermato il principio di diritto così massimato: «L’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., non riguarda le questioni di diritto ma quelle di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero un’attività assertiva in punto di fatto e non già solo mere difese», e, in applicazione di tale principio ha cassato la sentenza impugnata per aver mutato la qualificazione della dazione di una ingente somma di denaro, da donazione a adempimento di obbligazione naturale, senza sottoporre i fatti costitutivi della ritenuta obbligazione naturale al contraddittorio delle parti.

13. Gli atti processuali.

13.1. Gli atti da parte.

Riguardo al requisito della sottoscrizione degli atti di parte Sez. 6-2, n. 32176/2022, Besso Marcheis, Rv. 666162-01, ha ribadito il principio secondo il quale soltanto il totale difetto di sottoscrizione comporta l’inesistenza dell’atto, non si estende al caso in cui quell’elemento formale, al quale l’ordinamento attribuisce la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, sia desumibile da altri elementi indicati nell’atto stesso; e ha conseguentemente escluso l’inesistenza dell’atto introduttivo allorché la sottoscrizione del difensore, pur mancando in calce ad esso, figuri apposta per certificare l’autenticità della firma di rilascio della procura alle liti, redatta a margine dell’atto stesso, giacché, in tal caso, la firma del difensore ha lo scopo non solo di certificare l’autografia del mandato, ma anche di sottoscrivere la domanda di ingiunzione e di assumerne, conseguentemente, la paternità.

In tema di interpretazione degli atti processuali delle parti Sez. 3, n. 25826/2022, Dell’Utri, Rv. 665645-01, ha ribadito il principio secondo cui occorre fare riferimento ai criteri di ermeneutica di cui all’art. 1362 c.c. che valorizzano l’intenzione delle parti e che, pur essendo dettati in materia di contratti, hanno portata generale, a differenza che per l’interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali, per la quale si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 12 e seguenti delle preleggi, in ragione dell’assimilabilità di tali provvedimenti, per natura ed effetti, agli atti normativi.

13.2. I provvedimenti del giudice.

Quanto al contenuto della sentenza e al requisito dell’indicazione del giudice che l’ha pronunciata, prescritto dall’art. 132, comma 2, n. 1) c.p.c. Sez. 5, n. 23360/2022, dell’Orfano, Rv. 665292-01, ha escluso che l’omessa indicazione, nel verbale di udienza, del prenome del magistrato relatore, costituisca causa di nullità del provvedimento decisorio, ritenendo che il difetto del requisito prescritto dall’art. 132, comma 2, n. 1, c.p.c., ricorra soltanto nell’ipotesi in cui ne derivi un’assoluta incertezza sull’identificazione dei componenti del collegio, la quale, invece, non sussiste quando il nominativo del magistrato sia comunque desumibile dal verbale d’udienza o dai criteri prefissati nella tabella di organizzazione dell’ufficio, sicché incombe alla parte che faccia valere la nullità l’onere di dimostrare la detta incertezza, allegando e provando che, pur alla luce di tali riscontri, non risulti possibile risalire all’esatta composizione del collegio.

Con riferimento al requisito della sottoscrizione del giudice e alla paternità dell’atto giudiziario telematico, Sez. 3, n. 4430/2022, Rossetti, Rv. 663925-02, ha escluso che costituisca ragione di invalidità della sentenza firmata digitalmente il fatto che nelle “proprietà” del file che la contiene sia riportato un “autore” del documento diverso dal giudice, perché la paternità di un atto giudiziario telematico dipende esclusivamente dalla sua sottoscrizione con firma digitale e la menzione di un “autore” risultante dalle “proprietà” non vale ad indicare l’estensore materiale del provvedimento.

In ordine alla sottoscrizione del decreto Sez. 1, n. 22453/2021, Amatore, Rv. 661998-01, ha affermato che il decreto decisorio emesso dal Tribunale in composizione collegiale deve essere sottoscritto dal solo Presidente, anche quando la relazione della causa e l’estensione del provvedimento siano state affidate ad un altro membro del collegio.

Quanto alla motivazione nell’anno in rassegna è stato ribadito il principio, già affermato da Sez. U, n. 642/2015, Di Iasi, Rv. 634091-01, secondo cui nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato (Sez. 5, n. 29028/2022, Gori, Rv. 666078-01).

In argomento, è stato altresì ritenuto che la motivazione della sentenza, con rinvio “per relationem” a provvedimenti giudiziari resi in altro processo, è ammissibile e rispetta il minimo costituzionale richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., purché la condivisione della decisione avvenga attraverso un autonomo esame critico dei motivi d’impugnazione, con richiamo ai contenuti degli atti cui si rinvia, non potendosi risolvere in una acritica adesione al provvedimento richiamato (Sez. 5, n. 21443/2022, D’Aquino, Rv. 665310-01), ed essendo necessario che essa resti “autosufficiente”, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico-giuridica; mentre deve ritenersi nulla, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la sentenza che si limiti alla mera indicazione dell’esistenza del provvedimento richiamato, senza esporne il contenuto e senza compiere alcun apprezzamento delle argomentazioni assunte nell’altro giudizio e della loro pertinenza e decisività rispetto ai temi dibattuti dalle parti, così rendendo impossibile l’individuazione delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Sez. 6-2, n. 459/2022, Fortunato, Rv. 663805-01).

14. I termini.

In tema di termini nell’anno in rassegna non si registrano novità di rilievo bensì, principalmente il consolidamento di principi già affermati nella giurisprudenza di legittimità e la loro applicazione in particolari fattispecie, soprattutto avuto riguardo all’istituto della rimessione in termini, e alla sua applicazione nel processo telematico.

In tema di remissione nel termine per l’impugnazione Sez. 5, n. 21649/2022, Cortesi, Rv. 665146-01, ha escluso che l’istituto della rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c. possa trovare applicazione alla decadenza dall’impugnazione laddove la causa non imputabile dedotta a sostegno della relativa istanza sia collegata a violazioni commesse da parte del difensore, di obblighi informativi caratteristici del rapporto di mandato, trattandosi di profili attinenti ad una patologia di quest’ultimo, e come tali destinati ad assumere rilevanza esclusivamente nei relativi confini. (Nella specie, la S.C. ha escluso l’applicabilità dell’istituto a favore di ricorrenti che assumevano di essersi rivolti, per l’assistenza nei giudizi di merito, a un difensore sprovvisto del patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, cosicché, una volta resi edotti dell’esito sfavorevole del giudizio di appello, non erano stati in grado di comprendere i termini di decadenza entro cui rivolgersi ad un nuovo professionista per proporre ricorso per cassazione).

D’altra parte, nello stesso ambito, è stato ribadito il principio secondo cui lo smarrimento del fascicolo d’ufficio e di quello di parte, relativi al giudizio di primo grado, non possa considerarsi causa impeditiva della proposizione dell’impugnazione entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c., tale da giustificare una richiesta di rimessione in termini, potendo la parte chiedere al giudice la ricostituzione di detti fascicoli e l’eventuale integrazione dei motivi d’appello (Sez. 3, n. 21403/2022, Guizzi, Rv. 665184-01).

In tema di processo telematico Sez. 2, n. 30514/2022, Caponi, Rv. 666004-01, ha ritenuto che la serie di messaggi Pec che scandisce il deposito telematico di atti (descritti dalle “specifiche di interfaccia tra punto di accesso e gestore centrale”), così come le indicazioni date dalla cancelleria alle parti, siano una specie di istruzioni che l’amministrazione della giustizia dà alle parti e costituiscano, pertanto, fonti di affidamento qualificato, meritevole di essere considerato nell’ambito del giudizio di remissione in termini ex art. 294, comma 2, c.p.c., laddove, in forza dei loro difetti, s’inseriscano, con ruolo determinante, nella catena causale che sfocia nella decadenza, fermo restando che nel caso concreto l’apprezzamento circa la non imputabilità alla parte è affidato al giudice del merito.

Dal canto suo Sez. 6-3, n. 29357/2022, Iannello, Rv. 666297-01, ha affermato il principio secondo cui la tempestività del deposito telematico di un atto processuale, in caso di esito negativo del procedimento culminante con l’accettazione da parte del cancelliere (cd. “quarta p.e.c.”), postula la necessità della sua rinnovazione, previa rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c., ove possa ritenersi che questi siano decorsi incolpevolmente a causa dell’affidamento riposto nell’esito positivo del deposito stesso.

Tale principio è stato affermato in una fattispecie in cui il mancato perfezionamento del deposito del controricorso, per problemi afferenti alla fase della accettazione da parte della cancelleria, era stato comunicato alla parte, mediante la cd. quarta p.e.c., dopo lo spirare del relativo termine, e questa aveva provveduto senza indugio ad un ulteriore deposito con esito positivo, in tal modo rendendo superflua la pronuncia sull’istanza di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., pure ritualmente formulata.

Quanto allo svolgimento del processo da remoto Sez. 1, n. 29919/2022, Caprioli, Rv. 666035-01, ha ritenuto che la parte che non si sia potuta collegare al “link” trasmesso dall’ufficio giudiziario per la celebrazione dell’udienza abbia l’onere di segnalare tempestivamente la presenza di problemi tecnici impeditivi della connessione, anche al fine di ottenere la rimessione in termini, per la cui concessione occorre tenere conto dei tempi ordinariamente occorrenti al difensore per promuovere tale iniziativa, dopo gli eventuali contatti con la cancelleria, attesa la preminente necessità di salvaguardare il principio del contraddittorio e il diritto di difesa di colui che adduca, con una certa immediatezza, di non aver potuto prendere parte all’udienza. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione che non aveva dato esito alla richiesta del difensore, volta ad ottenere una copia del verbale d’udienza e un termine per il deposito di note conclusive, inviata a mezzo PEC dopo circa un’ora dall’orario fissato per la celebrazione dell’udienza a distanza, spiegando di non essere riuscito a collegarsi al “link” e di avere tentato di informare la cancelleria di tale inconveniente).

15. Nullità degli atti processuali.

In tema di nullità degli atti processuali, per l’inidoneità al raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c., la Corte nell’anno in rassegna ha ribadito il principio secondo cui è nullo l’ordine di rinnovazione della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio emesso in presenza di una notifica rituale, perché non riconducibile al relativo modello processuale, in quanto emesso al di fuori delle ipotesi consentite, e perché inidoneo a raggiungere il proprio scopo, consistente nella valida instaurazione del contraddittorio, essendo tale scopo già stato raggiunto per la ritualità della notifica della quale è stata erroneamente disposta la rinnovazione; con la conseguenza che la nullità del suddetto atto si trasmette agli atti successivi che ne dipendono, quali la dichiarazione di estinzione del processo pronunciata in ragione della sua inottemperanza (Sez. 6-L, n. 35741/2022, Buffa, Rv. 666169-01, che, in applicazione del principio, ha cassato la sentenza di secondo grado che – in presenza di atto di riassunzione notificato all’estero, tramite il Consolato di Londra che si era avvalso del servizio postale inglese, e con attestazione del mancato ritiro del plico - aveva dapprima ordinato la rinnovazione della notifica, ritenendo non provata la ricezione dell’atto da parte del destinatario residente all’estero, e poi dichiarato l’estinzione del giudizio, senza accertare se la notifica effettuata fosse valida secondo le disposizioni dello Stato di destinazione).

Nello stesso ambito è stato altresì ribadito il consolidato principio secondo cui il contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo della sentenza non può essere eliminato con il rimedio della correzione dell’errore materiale poiché, non consentendo di individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione, determina la nullità della pronuncia ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c. (Sez. 6-5, n. 37079/2022, Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 666556-01).

D’altra parte, nell’anno in rassegna, la limitazione ad opera del codice di rito delle ipotesi di nullità degli atti processuali ai soli casi di espressa previsione di legge o di mancato raggiungimento dello scopo sta alla base di varie decisioni della Corte che hanno escluso in una serie di casi che la mancanza di requisiti formali degli atti ne determinino la nullità.

Sez. 3, n. 12982/2022, Cirillo, Rv. 664633-01 e Sez. 3, n. 14554/2022, Condello, Rv. 664841-01, hanno, infatti, ribadito che la sostituzione del giudice istruttore o del relatore, in assenza del formale provvedimento previsto dagli artt. 174, comma 2, c.p.c. e 79 disp. att. c.p.c., determinata da esigenze di organizzazione interna al medesimo ufficio giudiziario costituisce una mera irregolarità di carattere interno che, in difetto di una espressa sanzione di nullità, non incide sulla validità degli atti, né è causa di nullità del giudizio o della sentenza.

Così come, analogamente, è stato escluso che integrino una causa di nullità del provvedimento decisorio: l’omessa indicazione nel verbale di udienza del prenome del magistrato relatore, per difetto del requisito prescritto dall’art. 132, comma 2, n. 1, c.p.c., quando non vi sia assoluta incertezza sull’identificazione dei componenti del collegio, perché il nominativo del magistrato sia comunque desumibile dal verbale d’udienza o dai criteri prefissati nella tabella di organizzazione dell’ufficio (Sez. 5, n. 23360/2022, Dell’Orfano, Rv. 665292-01); la mancanza di imparzialità del giudicante ove non incida sulla correttezza della decisione, potendo rilevare soltanto sotto il diverso profilo deontologico e disciplinare (Sez. L, n. 2165/2022, Negri Della Torre, Rv. 663735-01); così come la mancata redazione in camera di consiglio di un dispositivo, sottoscritto dal presidente, in violazione dell’art. 276 c.p.c., trattandosi di atto privo di rilevanza giuridica esterna poiché l’esistenza della sentenza civile è determinata - salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro ovvero a riti ad esso legislativamente equiparati o specialmente disciplinati - dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata (Sez. 3, n. 4430/2022, Rossetti, Rv. 663925-01).

La nullità della sentenza è stata ritenuta invece sussistere in caso di violazione dell’art. 276 c.p.c., allorquando i giudici che deliberano la sentenza in camera di consiglio non siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa (Sez. 2, n. 13856/2022, Besso Marcheis, Rv. 664625-01, pronunciatasi in riferimento alle controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati soggette al rito di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 e trattate e decise dal tribunale in composizione collegiale).

Anche la mancanza di un formale atto di revoca dell’autorizzazione del giudice ad astenersi, determinando un vizio di costituzione del giudice, è stata ritenuta causa di nullità della sentenza (Sez. L, n. 4768/2022, Spena, Rv. 663875-01).

15.1. La sanatoria per raggiungimento dello scopo.

In tema di sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo nell’anno in rassegna le Sezioni Unite (Sez. U, n. 11550/2022, Scarpa, Rv. 664424-01) sono intervenute a “correggere il tiro” di quanto affermato, nell’anno precedente, dalle stesse Sezioni Unite nella sentenza n. 2866 del 2021 (Sez. U, n. 2866/2021, Oricchio, Rv. 660403-01) precisando che la nullità della notifica del verbale di accertamento di infrazione del codice della strada può dirsi sanata, per il raggiungimento dello scopo ex art. 156, comma 3, c.p.c., soltanto dalla proposizione di una tempestiva e rituale opposizione, richiamando, in proposito, il costante orientamento della Corte in tema di opposizioni in materia di sanzioni amministrative, ed escludendo che l’opposizione tardiva abbia efficacia sanante.

Individuato lo scopo cui è preordinata la notificazione delle violazioni al codice della strada, nell’eventuale proposizione del ricorso al prefetto o del ricorso in sede giurisdizionale nei termini previsti, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la nullità della notifica del verbale può essere sanata soltanto dal tempestivo esercizio della facoltà di opposizione, che realizza nel processo il risultato pratico cui la valida notificazione è ex lege finalizzata, con conseguente venir meno dell’interesse del destinatario a denunciare lo specifico vizio.

E hanno ribadito il principio, già affermato da Sez. 1, n. 16822/2006, Forte, Rv. 591427-01, secondo cui la realizzazione dello scopo della notificazione della violazione, che è quello della conoscenza legale del verbale di accertamento, non può dirsi provata alla luce della mera conoscenza di fatto dello stesso comunque in concreto conseguita.

In sostanza, l’applicazione della sanatoria del raggiungimento dello scopo nel caso di impugnazione dell’atto, la cui notificazione sia affetta da nullità, significa che, se il destinatario mostra di aver avuto piena conoscenza del contenuto dell’atto e ha potuto adeguatamente esercitare il proprio diritto di difesa attraverso il compimento della correlata facoltà processuale, lo stesso non potrà dedurre i vizi relativi alla notificazione a sostegno della propria opposizione. A diversa conclusione deve, invece, pervenirsi se, a fronte della nullità della notificazione della violazione, la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avvenga oltre il termine di legge decorrente dalla data della medesima notifica, non potendo in tal caso operare la sanatoria a fronte della intervenuta decadenza dell’amministrazione per l’esercizio del potere ex art. 201 del codice della strada.

A conferma della correttezza di tali conclusioni, le sezioni Unite richiamano quanto dalle stesse già affermato nella sentenza n. 22080 del 2017 (Sez. U, n. 22080/2017, Barreca, Rv. 645323-01) secondo cui, ove dopo la notificazione della cartella di pagamento l’opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada sia proposta per dedurre l’omessa o invalida notificazione del verbale di accertamento, non vi è spazio per lo svolgimento di difese diverse da questa, specificamente per difese nel merito della pretesa sanzionatoria. Se l’amministrazione non dimostra di avere eseguito tempestivamente e validamente la notificazione del verbale di accertamento, la pretesa sanzionatoria è estinta; se, al contrario, l’amministrazione dà prova di avere ottemperato validamente alla notificazione, l’opposizione deve essere dichiarata inammissibile perché tardiva.

Sulla base di tali considerazioni le Sezioni Unite hanno quindi affermato il seguente principio di diritto: «la nullità della notificazione del verbale di accertamento di infrazione del codice della strada può dirsi sanata per il raggiungimento del relativo scopo - che è quello della conoscenza legale dell’atto volta all’utile predisposizione delle proprie difese da parte del destinatario della contestazione - soltanto ove sia proposta una tempestiva e rituale opposizione, avendosi così per realizzato nel processo il risultato pratico cui la valida notificazione è ex lege finalizzata, con conseguente venir meno dell’interesse del destinatario a denunciare lo specifico vizio. Viceversa, se, a fronte della nullità della notificazione della violazione, la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avvenga oltre il termine di legge decorrente dalla data della medesima notifica, non operando la sanatoria, l’opposizione al verbale di accertamento può essere proposta per dedurre unicamente l’invalida notificazione del verbale di accertamento, dovendo l’amministrazione dimostrare che non sia intervenuta la decadenza per l’esercizio del potere sanzionatorio».

Sempre in tema di sanatoria delle nullità si segnala Sez. 3, n. 23263/2022, Fiecconi, Rv. 665457-01, che ha escluso che la nullità da cui è affetta la memoria istruttoria sottoscritta dal solo procuratore domiciliatario privo di procura alle liti, una volta maturate le preclusioni processuali, possa essere sanata da un atto di ratifica del difensore munito di procura, e ha conseguentemente ritenuta affetta da nullità derivata l’attività svolta sulla base dell’atto nullo.

In tema di processo telematico Sez. 6-1, n. 33601/2022, Marulli, Rv. 666157-01, ha ritenuto che la tempestiva costituzione dell’appellante, con il deposito di copia cartacea dell’atto di appello notificato a mezzo PEC, anziché mediante deposito telematico dell’originale, non determina l’improcedibilità del gravame ai sensi dell’art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per vizio di forma, come tale sanabile con il raggiungimento dello scopo dell’atto. (Nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva erroneamente dichiarato improcedibile il gravame, nonostante la controparte nulla avesse eccepito a fronte della tempestiva costituzione dell’appellante, mediante deposito cartaceo dell’atto notificato telematicamente, della relata e delle ricevute di consegna via PEC).

D’altra parte Sez. 1, n. 15243/2022, Terrusi, Rv. 664770-01, pronunciandosi in tema di opposizione allo stato passivo, ha ritenuto che il deposito del ricorso in via telematica utilizzando un registro diverso da quello degli affari contenziosi (nella specie quello relativo alla volontaria giurisdizione) non determini alcuna nullità, ma una mera irregolarità, sia perché manca una espressa norma di legge che commini al riguardo una nullità processuale, sia perchè una volta che l’atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell’ufficio giudiziario, previa generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, è sempre integrato il raggiungimento dello scopo, perché questo riguarda la presa di contatto tra la parte e l’ufficio giudiziario e la messa disposizione dell’atto alle altre parti.

Infine, sempre in materia fallimentare, Sez. 1, n. 31353/2022, Abete, Rv. 665978-01, ha ribadito il principio consolidato secondo cui nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, il mancato rispetto del termine di quindici giorni che deve intercorrere tra la data di notifica del decreto di convocazione del debitore e la data dell’udienza (come previsto dalla nuova formulazione dell’art. 15, comma 3, l.fall.) e la sua mancata abbreviazione nelle forme rituali del decreto motivato sottoscritto dal presidente del tribunale, previste dall’art. 15, comma 5, l.fall., costituiscono cause di nullità astrattamente integranti la violazione del diritto di difesa, ma non determinano - ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per il generale principio di raggiungimento dello scopo dell’atto - la nullità del decreto di convocazione se, il debitore, pur eccependo la nullità della notifica, abbia attivamente partecipato all’udienza, rendendo dichiarazioni in merito alle istanze di fallimento, senza formulare, in tale sede, rilievi o riserve in ordine alla ristrettezza del termine concessogli, né fornendo specifiche indicazioni del pregiudizio eventualmente determinatosi, sul piano probatorio, in ragione del minor tempo disponibile.

15.2. La conversione dei motivi di nullità della sentenza in motivi di impugnazione.

Il principio di conversione dei motivi di nullità della sentenza in motivi di impugnazione è stato posto, nell’anno in rassegna, a fondamento della non deducibilità per la prima volta in cassazione della nullità della citazione introduttiva del processo di primo grado che non sia stata fatta valere nel giudizio di secondo grado dall’appellato rimasto contumace, ritenendosi che la regola del rilievo d’ufficio delle nullità in caso di contumacia, prevista dall’art. 164, comma 1, c.p.c., si riferisca unicamente alla citazione introduttiva del grado di giudizio in atto e non anche a quella introduttiva del grado precedente, in virtù dello sbarramento conseguente alla regola di cui all’art. 161 c.p.c. (Sez. 3, n. 30485/2022, Condello, Rv. 666051-01).

16. Comunicazioni e notificazioni.

16.1. Comunicazioni.

In tema di comunicazioni Sez. 2, n. 21439/2022, Criscuolo, Rv. 665174-01, ha affermato il principio secondo cui la comunicazione, alla parte costituita, dell’ordinanza pronunciata dal giudice fuori udienza ex art. 176, comma 2, c.p.c., pur dovendo avvenire, di norma, secondo le forme previste dagli artt. 136, c.p.c., e 45, disp. att., c.p.c., attraverso la consegna del biglietto effettuata dal cancelliere al destinatario ovvero la notificazione a mezzo dell’ufficiale giudiziario, può essere validamente eseguita anche in forme equipollenti, sempreché risulti la certezza dell’avvenuta consegna e della precisa individuazione del destinatario, sottoscrittore per ricevuta, la quale non può essere raggiunta ove il cancelliere si sia limitato a certificare di avere eseguito la comunicazione, senza indicare con quali modalità.

In tema di comunicazioni a mezzo posta elettronica certificata, Sez. 3, n. 30720/2022, Scarano, Rv. 666067-01, ha ribadito il principio secondo cui il difensore esercente il patrocinio non può indicare, per le comunicazioni, la P.E.C. di altro avvocato, senza specificare di volersi domiciliare presso di lui, in quanto l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria deve avvenire automaticamente attraverso la ricerca nell’apposito registro, a prescindere dall’indicazione espressa della P.E.C., di modo che non può attribuirsi rilievo all’indicazione di una P.E.C. diversa da quella riferibile al legale in base agli appositi registri e riconducibile ad altro professionista, senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa alla dichiarazione di domiciliazione.

In applicazione di tale principio la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione con il quale si censurava la pronuncia di legittimità per non essersi la medesima Corte avveduta, con riferimento alla notificazione della sentenza di secondo grado, che l’originaria indicazione dell’indirizzo P.E.C. dei due difensori del ricorrente, contenuta nella comparsa conclusionale, era stata modificata, nella successiva memoria di replica, mediante l’indicazione di uno solo di essi, in mancanza, però, di qualsivoglia corrispondente elezione di domicilio.

16.2. Notificazioni.

16.2.1. Le disposizioni generali in tema di notificazioni.

In tema di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante le Sezioni Unite, nell’anno in rassegna, hanno ribadito il principio secondo cui l’estensione del principio della scissione degli effetti alla procedura notificatoria che non abbia avuto esito, ai fini della conservazione degli effetti collegati alla richiesta originaria, è condizionata all’accertamento dell’assenza di colpa del notificante, che rileva sotto un duplice aspetto in quanto, da un lato, è necessario che il mancato perfezionamento non derivi da responsabilità della parte, dall’altro, che quest’ultima non sia rimasta inerte, ma abbia diligentemente agito per assicurare la continuità e la speditezza del procedimento (Sez. U, n. 13394/2022, di Paolantonio, Rv. 664656-01).

Tale sentenza si pone in linea di continuità con i principi affermati da precedenti pronunce ed in particolare con quello affermato da Sez. U, n. 17352/2009, Toffoli, Rv. 609264-01, secondo cui «In tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere - anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio - di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie», successivamente ribadito e sviluppato da Sez. U, n. 14594/2016, Curzio, Rv. 640441-01 che, oltre a ribadire che il notificante per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ha individuato nella metà dei termini previsti dall’art. 325 cod. proc. civ. il parametro in relazione al quale devono essere valutati, fatta salva la ricorrenza di circostanze eccezionali, i requisiti di immediatezza e di tempestività.

Le Sezioni Unite nell’anno in rassegna con le sentenze sopra richiamate, pronunciandosi su un ricorso proposto per motivi di giurisdizione, hanno ribadito i predetti principi, chiarendo, altresì che nell’ipotesi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, la notificazione deve considerarsi meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa, non può trovare applicazione lo strumento sanante previsto dall’art. 291 c.p.c., in quanto la fattispecie legale minima della notificazione, che ha lo scopo di provocare la presa di conoscenza di un atto da parte del destinatario, richiede la consegna, sicché solo qualora quest’ultima avvenga si può porre una questione di nullità della notificazione, sanabile ex tunc a seguito della rinnovazione disposta ai sensi dell’art. 291 c.p.c. o per effetto del raggiungimento dello scopo ex art. 156, comma 3, c.p.c.

Sempre in tema di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante Sez. 3, n. 31346/2022, Rubino, Rv. 666053-01, ha chiarito che il principio giurisprudenziale che ha quantificato in un tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c. il termine ragionevole entro il quale va riattivato il processo di notificazione non è applicabile nel caso in cui la ripresa del procedimento notificatorio sia compiuta in data antecedente alla pronuncia di legittimità che, nel 2016, ha affermato tale principio poiché la determinazione di matrice giudiziale della durata di un termine rientra nella nozione di “overruling” processuale e, perciò, di esso non si può fare applicazione retroattiva, a tutela della effettività dei mezzi di azione e a garanzia dell’affidamento incolpevole creatosi in capo alla parte che ha fatto affidamento sui principi di diritto consolidati al momento dello svolgimento dell’attività processuale.

Analogamente Sez. 5, n. 23876/2022, Crivelli, Rv. 665789-01, ha ribadito che se la notifica dell’atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, non si perfeziona per cause non imputabili al notificante, questi non incorre in alcuna decadenza ove provveda con sollecita diligenza (da valutarsi secondo un principio di ragionevolezza) a rinnovare la notificazione, a nulla rilevando che quest’ultima si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame. (Nella specie, la S.C. ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata, ritenendo tardiva la notificazione dell’atto di impugnazione, poiché il contribuente, a seguito della restituzione del plico, in luogo di rinnovare la prima notificazione effettuata a mezzo posta, aveva posto in essere un’autonoma e nuova fattispecie notificatoria, tramite consegna a mani, la cui consegna si era perfezionata oltre il termine di sessanta giorni dalla data della notifica dell’avviso di accertamento).

Sez. 3, n. 10142/2022, Scoditti, Rv. 664405-01, ha ritenuto che in caso di notifica, da compiersi entro un termine perentorio, di un atto processuale all’interno del processo e non andata a buon fine, il notificante ha l’onere di riprendere, immediatamente e tempestivamente il procedimento notificatorio, non potendo ritenersi dipendente da causa non imputabile la decadenza che può essere ovviata col completamento della procedura di notificazione ad iniziativa della parte stessa, salva la necessità di richiedere l’intervento del giudice per la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, comma 2, c.p.c. qualora non sia possibile una semplice e ragionevolmente tempestiva effettuazione della nuova notifica per l’esigenza di rispettare un termine in favore del destinatario dell’atto.

In applicazione del principio, la Corte ha corretto la motivazione della Corte di merito, la quale non aveva considerato che se l’attrice avesse di propria iniziativa ripreso il procedimento notificatorio, la citazione, volta all’integrazione del contraddittorio, sarebbe comunque risultata nulla per mancato rispetto del termine minimo prescritto.

In argomento si segnala altresì Sez. 3, n. 1784/2022, Graziosi, Rv. 663708-01, che ha affermato il principio così massimato da questo Ufficio: « Nell’ipotesi in cui la notifica del controricorso per cassazione, effettuata nel termine ex art. 370 c.p.c., non sia andata a buon fine a causa dell’erronea indicazione (meramente colposa ovvero consapevolmente ingannevole) del proprio domicilio da parte del ricorrente, il successivo perfezionamento della stessa oltre il suddetto termine, a seguito di immediata rinnovazione, non determina l’inammissibilità del controricorso medesimo, vertendosi in una fattispecie assimilabile a un’oggettiva e automatica rimessione in termini, in forza della regola espressa dall’art. 153 c.p.c. e altresì evincibile dal principio costituzionale del diritto di difesa e da quello sovranazionale di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 19 TUE, 263 TFUE e 6 CEDU), oltre che dell’obbligo delle parti di conformare la loro condotta al principio della leale collaborazione processuale (art. 88 c.p.c.)».

Riguardo alla notifica che abbia avuto esito negativo per circostanze imputabili al richiedente Sez. 1, n. 115/2022, Pazzi, Rv. 663551-01, ha escluso, una volta decorso il termine di impugnazione, la possibilità di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, affinchè la notifica abbia effetto dalla data iniziale di attivazione dello stesso.

In applicazione di tale principio, è stato dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione, in quanto il ricorrente, in occasione della prima notifica, aveva colpevolmente omesso di consultare l’albo professionale, peraltro ormai informatizzato ed accessibile telematicamente, affidandosi invece alle indicazioni, non più attuali, contenute nell’atto di appello e nella sentenza impugnata.

In tema di dimostrazione dell’avvenuta notificazione di un atto processuale, effettuata a mezzo del servizio postale Sez. 3, n. 36900/2022, Rossi, Rv. 666678-01, ha ribadito che l’istante ha l’onere di produrre l’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia dell’atto, ovvero l’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c., non potendo tale deposito essere surrogato dall’esibizione di copia della stampa dell’esito della notificazione emergente dal sito delle Poste italiane, corredata da fotocopia di un avviso di ricevimento una raccomandata, poiché solo il timbro postale fa fede ai fini della regolarità della notificazione.

D’altra parte, in tema di notifica ex art. 140 c.p.c., Sez. 3, n. 25885/2022, Rossetti, Rv. 665620-01, ha ribadito il principio secondo cui la dichiarazione con la quale l’ ufficiale giudiziario o quello postale dichiari di non avere trovato nessuno all’indirizzo del destinatario non costituisce attestazione dotata di pubblica fede, ma mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo di prova e senza necessità di impugnazione con querela di falso, che in quel luogo si trovi la residenza effettiva del notificando o la sua dimora o il domicilio, sicché compete al giudice del merito, in caso di contestazione, compiere tale accertamento in base all’esame ed alla valutazione delle prove fornite dalle parti, ai fini della pronuncia sulla validità ed efficacia della notificazione.

In ordine alla notificazione presso il domiciliatario ex art. 141 c.p.c. Sez. 2, n. 27995/2022, Caponi, Rv. 665699-01, ha ritenuto che la stessa - al di fuori dei casi eccezionali in cui, nell’interesse del destinatario, è per legge esclusiva - ha carattere alternativo rispetto agli altri modi di notificazione, con la conseguenza che, ove la parte sia rappresentata da due difensori, l’elezione di domicilio presso uno di costoro non priva la controparte delle facoltà di effettuare notificazioni all’altro difensore, stante la disposizione di cui all’art. 170, comma 1, c.p.c., secondo la quale, dopo la costituzione in giudizio, tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito, cioè all’uno o all’atro dei procuratori costituiti, in caso di pluralità.

In tema di notifica all’irreperibile Sez. 1, n. 14879/2022, Crolla, Rv. 664844-01, ha ritenuto possibile che nel corso dello stesso processo una persona venga dapprima considerata come irreperibile all’indirizzo risultante dai certificati anagrafici e, successivamente, per converso, effettivamente presente al medesimo indirizzo in ragione di un mutamento dello stato di fatto (ad esempio a seguito di inserimento del nominativo del destinatario nella tastiera dei citofoni o di trasferimento presso la residenza della sua effettiva dimora), con la conseguenza che alcuni atti le siano regolarmente notificati ex art. 143 c.p.c. ed altri, a distanza di tempo, ai sensi dell’art. 140 c.p.c.

Conseguentemente ha ritenuto regolarmente perfezionata la notifica dell’atto introduttivo di un’azione di responsabilità verso l’amministratore di una società fallita, con le modalità di cui all’art. 143 c.p.c., stante l’irreperibilità in quel momento del destinatario all’indirizzo di residenza anagrafica e l’idoneità delle ricerche effettuate dal messo notificatore, pur se successivamente, a distanza di tempo, presso il medesimo indirizzo è stato regolarmente notificato alla stessa persona, ex art. 140 c.p.c., un pignoramento immobiliare.

Quanto alla notifica all’estero Sez. 2, n. 33765/2022, Giannaccari, Rv. 666141-01, ha chiarito che l’ordinanza ingiunzione emessa dall’ENAC nei confronti di impresa aerea con sede in uno Stato membro dell’UE è espressione dell’esercizio di un potere autoritativo, pertanto la relativa notifica non deve avvenire ai sensi del regolamento UE n. 1393 del 2007 (essendo escluso dal suo ambito di applicazione la materia fiscale, doganale e amministrativa), né della Convenzione dell’Aja del 1965 (siccome dettata per la notificazione o comunicazione di atti giudiziari in materia civile e commerciale e non anche per gli atti amministrativi), ma ai sensi dell’art. 142 c.p.c. e, dunque, alla stregua della legge consolare ex d.lgs. n. 71 del 2011, in virtù della quale operano le modalità descritte dalla Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, ratificata in Italia con l. n. 149 del 1983, quando il destinatario risieda in Stato che l’abbia ratificata, oppure, in caso contrario, mediante spedizione diretta con raccomandata con ricevuta di ritorno o, infine, tramite Ambasciata o Consolato.

In applicazione di tale principio è stato ritenuto che la notifica dell’ordinanza ingiunzione alla compagnia Ryan Air potesse essere eseguita, alla stregua della legge consolare, mediante invio diretto a mezzo posta, in quanto l’Irlanda pur non avendo ratificato la Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, ammetteva tale forma di notifica.

Riguardo alla notificazione alle persone giuridiche Sez. 1, n. 32533/2022, Fidanzia, Rv. 666446-01, in tema di procedimento per la dichiarazione di fallimento, ha ritenuto valida la notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di convocazione delle parti, effettuata, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., personalmente presso il liquidatore della società debitrice, oramai estinta e cancellata dal registro delle imprese, poiché le speciali modalità di notificazione previste dall’art. 15 l.fall. sono dettate da esigenze di celerità, connaturate alla peculiarità del procedimento, ma non per questo determinano l’invalidità di ogni altra forma di notificazione scelta dal creditore istante che si riveli più garantista per il debitore, consentendo a quest’ultimo di esercitare più agevolmente il diritto di difesa.

16.2.2. Le notificazioni con modalità telematica.

In tema di notificazioni con modalità telematica Sez. 3, n. 9232/2022, Rubino, Rv. 664261-01, ha ritenuto che, nel caso di nomina di nuovo procuratore con elezione di domicilio presso il suo studio, situato in luogo diverso rispetto a quello ove ha sede l’ufficio giudiziario dinanzi al quale si procede, la notificazione degli atti processuali deve essere effettuata presso l’indirizzo PEC da costui indicato al Consiglio dell’Ordine d’appartenenza, e risultante dal ReGIndE, in virtù di quanto disposto dall’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. nella l. n. 114 del 2014, restando, pertanto, inefficace la domiciliazione presso il precedente difensore, indipendentemente dal fatto che non sia stata espressamente revocata.

D’altra parte Sez. 1, n. 1383/2022, Di Marzio, Rv. 663623-01, ha ritenuto che nel regime antecedente all’introduzione dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 221 del 2012, disposta dall’art. 45-bis, comma 2, lett. b), del d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. nella l. n. 114 del 2014, non trova applicazione l’art. 147 c.p.c. - secondo cui le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7.00 e dopo le ore 21.00 - trattandosi di disposizione da interpretare, alla luce della sentenza n. 75 del 2019 della Corte cost., in chiave funzionale alla tutela del diritto del riposo del destinatario, diritto che non è attinto dall’effettuazione di una notificazione telematica, con conseguente applicazione della regola generale sui termini per le impugnazioni e fissazione della scadenza alle ore 24.00 dell’ultimo giorno utile.

Inoltre, Sez. U, n. 15979/2022, Ferro, Rv. 664909-01, hanno ritenuto che la notifica del ricorso per cassazione effettuata dalla Procura Generale della Corte dei Conti, utilizzando un indirizzo di posta elettronica istituzionale, rinvenibile sul proprio sito “internet”, ma non risultante nei pubblici elenchi, non è nulla, ove la stessa abbia consentito, comunque, al destinatario di svolgere compiutamente le proprie difese, senza alcuna incertezza in ordine alla provenienza ed all’oggetto, tenuto conto che la più stringente regola, di cui all’art. 3-bis, comma 1, della l. n. 53 del 1994, detta un principio generale riferito alle sole notifiche eseguite dagli avvocati, che, ai fini della notifica nei confronti della P.A., può essere utilizzato anche l’Indice di cui all’art. 6-ter del d.lgs. n. 82 del 2005 e che, in ogni caso, una maggiore rigidità formale in tema di notifiche digitali è richiesta per l’individuazione dell’indirizzo del destinatario, cioè del soggetto passivo a cui è associato un onere di tenuta diligente del proprio casellario, ma non anche del mittente.

Sez. 6-3, n. 6912/2022, Tatangelo, Rv. 664440-01, ha ribadito il principio secondo cui in caso di notificazione della sentenza a mezzo PEC, la copia analogica della ricevuta di avvenuta consegna, completa di attestazione di conformità, è idonea a certificare l’avvenuto recapito del messaggio e degli allegati, salva la prova contraria, di cui è onerata la parte che solleva la relativa eccezione, dell’esistenza di errori tecnici riferibili al sistema informatizzato. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto che la produzione della dichiarazione scritta del soggetto che gestiva la casella di posta elettronica della società ricorrente - nella quale si faceva riferimento a generici “malfunzionamenti” - non dimostrasse con certezza che la stessa ricorrente non avesse potuto avere conoscenza della specifica notificazione dell’atto, né che tale impossibilità fosse conseguenza di un evento non imputabile).

Sempre in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, secondo Sez. 6-1, n. 27379/2022, Fidanzia, Rv. 665895-01, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16 bis, comma 9 bis del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in “bit” la cui apposizione, presente nel “file”, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del “file” originario con il duplicato.

In applicazione del principio, con tale pronuncia la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il “termine breve”, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice).

Infine Sez. 6-2, n. 15180/2022, Criscuolo, Rv. 665042-01, ha affermato che in tema di opposizione a sanzione amministrativa di competenza del giudice di pace, ai sensi dell’art. 16, comma 10, lett. a), d.l n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, affinché la notificazione dell’udienza di discussione a mezzo PEC da parte della cancelleria del giudice di pace abbia valore legale, non è sufficiente che questa sia dotata di un indirizzo PEC ma è necessario che la cancelleria sia stata abilitata ad effettuare notificazioni e comunicazioni a mezzo PEC con valore legale, con la conseguenza che, in difetto di tale autorizzazione, il difensore è onerato di eleggere domicilio nel comune del giudice adito, se non vuole che la notificazione del provvedimento di fissazione dell’udienza di discussione sia eseguita presso la cancelleria.

16.2.3. La notificazione ai sensi dell’art. 15 legge fallimentare.

In tema di procedimento per la dichiarazione di fallimento, Sez. 1, n. 7083/2022, Vella, Rv. 664117-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 15, comma 3, l.fall. (come sostituito dal d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012), nella parte in cui prevede la notificazione del ricorso alla persona giuridica tramite posta elettronica certificata (PEC) e non nelle forme ordinarie di cui all’art. 145 c.p.c.

Secondo tale pronuncia, come già affermato da Corte costituzionale 16 giugno 2016, n. 146, la diversità delle fattispecie a confronto giustifica, in termini di ragionevolezza, la differente disciplina, essendo l’art. 145 c.p.c. esclusivamente finalizzato ad assicurare alla persona giuridica l’effettivo esercizio del diritto di difesa in relazione agli atti ad essa indirizzati, mentre la contestata disposizione si propone di coniugare la stessa finalità di tutela del medesimo diritto dell’imprenditore collettivo con le esigenze di celerità e speditezza proprie del procedimento concorsuale, caratterizzato da speciali e complessi interessi, anche di natura pubblica, idonei a rendere ragionevole ed adeguato un diverso meccanismo di garanzia di quel diritto, che tenga conto della violazione, da parte dell’imprenditore collettivo, degli obblighi, previsti per legge, di munirsi di un indirizzo di PEC e di tenerlo attivo durante la vita dell’impresa.

Dal canto suo, Sez. 1, n. 6866/2022, Campese, Rv. 664108-01, ha chiarito che ogni imprenditore, individuale o collettivo, è tenuto a dotarsi di indirizzo di posta elettronica certificata che costituisce l’indirizzo “pubblico informatico” con onere di attivarlo, tenerlo operativo e rinnovarlo nel tempo sin dalla fase di iscrizione nel registro delle imprese e finanche per i dodici mesi successivi alla eventuale cancellazione da esso. La responsabilità relativa a tale adempimento, sia nella fase di iscrizione che successivamente, grava sul legale rappresentante della società, non avendo al riguardo alcun compito di verifica l’Ufficio camerale cosicché, a norma dell’art. 15 comma 3 l.fall., nel testo successivo alle modifiche apportate dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012, che costituisce norma speciale propria del procedimento prefallimentare, quando la notificazione non può essere compiuta presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dell’imprenditore, può procedersi presso la sede risultante dal registro delle imprese.

Sez. 1, n. 5858/2022, Terrusi, Rv. 664039-01, ha ribadito il principio secondo cui, ai sensi dell’art. 15 l. fall., se la notificazione a cura della cancelleria all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore sia risultata impossibile o non abbia avuto esito positivo, l’onere della notificazione ricade definitivamente sul solo ricorrente, e va assolto nello specifico modo previsto dalla legge; sicché la rinnovazione della notificazione, che sia stata disposta dal giudice, deve essere effettuata a cura del ricorrente senza che debba essere preceduta da un nuovo tentativo di notificazione (a cura della cancelleria o di altri) all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore.

Inoltre Sez. 1, n. 7258/2022, Fidanzia, Rv. 664522-01, ha affermato che l’art. 15, comma 3, l. fall., come novellato dall’art. 17, comma 1, lett. a), d.l n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, nel prevedere tre distinte, e fra loro subordinate, modalità di notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del correlato decreto di convocazione, non richiede, nel caso in cui la notifica a mezzo PEC non vada a buon fine, che l’ufficiale giudiziario che si é recato personalmente presso la sede dell’impresa e che, per qualsiasi ragione, non ha potuto ivi eseguire la notificazione, effettui ulteriori ricerche, al fine di accertare l’irreperibilità del destinatario, sicché, una volta attestata l’impossibilità di compimento della notifica presso la sede, la notificazione deve ritenersi correttamente eseguita e perfezionata con il deposito dell’atto presso la casa comunale.

Sul tema si segnala il diverso principio affermato da Sez. 1, n. 28803/2018, Campese, Rv. 651456-01, così massimata da questo ufficio: «La notificazione del ricorso e del decreto per la dichiarazione di fallimento presso la casa comunale, in mancanza di indirizzo PEC, è condizionata all’irreperibilità della società presso la sua sede come risultante dal registro delle imprese. Tale presupposto dell’irreperibilità ricorre anche laddove si accerti che, in precedenza, la società sia stata in concreto rintracciata presso la sede risultante dal registro, purchè l’ufficiale giudiziario abbia svolto ricerche documentate nella relazione di notifica e chiesto informazioni in modo adeguato, così da consentire di presumere che il diverso esito delle precedenti notificazioni sia riconducibile non ad una doverosa e diligente attività di ricerca del destinatario ma a circostanze fortunate non sempre ripetibili».

16.3. La nullità della notificazione.

Nell’anno in rassegna ha continuato a trovare conferma la distinzione tra inesistenza e nullità della notificazione, per come espressa nei principi affermati da Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603-01.

Sez. 3, n. 26511/2022, Cirillo, Rv. 665447-01, ha infatti affermato il principio così massimato: «L’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa». E in applicazione del principio, ha cassato la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto inesistente, anziché nulla, la notifica dell’atto di appello presso lo studio di un difensore diverso da quello che effettivamente rappresentava la parte e presso il quale era stato eletto domicilio nel giudizio di primo grado.

Sulla base dello stesso principio Sez. 5, n. 31085/2022, Russo, Rv. 666088-01, ha ritenuto inesistente, anziché nulla, la notifica dell’atto di appello perché priva dell’indicazione del soggetto notificante, della sua qualità e della data della consegna, non certificata dalla firma del ricevente.

Dal canto suo Sez. L, n. 30044/2022, Garri, Rv. 665757-01, ha ritenuto che, perché la notifica possa ritenersi esistente, è necessario che la stessa acceda all’atto che si intende notificare, afferendo le ipotesi di nullità alle modalità con le quali viene portato a compimento il procedimento notificatorio, ad irregolarità dello stesso e alla sua inidoneità ad assicurare l’avvenuta comunicazione dell’atto che tuttavia ne deve costituire l’oggetto, così confermando la sentenza di merito che aveva dichiarato l’inesistenza della notifica dell’appello avente ad oggetto il decreto di fissazione dell’udienza in appello e l’opposizione a decreto ingiuntivo e non il ricorso in appello.

In tema di notifica telematica della sentenza di primo grado Sez. 1, n. 32774/2022, Tricomi, Rv. 666132-02, ha ritenuto che la mancata indicazione dell’estensione “pdf” del documento informatico, pur esattamente individuato attraverso il riferimento alla stessa sentenza, la cui conformità sia stata attestata dal difensore nella relata di notifica, come previsto dall’art. 16 undecies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modd. dalla l. n. 221 del 2012, non incide sulla validità della notificazione, che risulta perciò idonea a far decorrere il termine “breve” per l’impugnazione.

Sez. 3, n. 10138/2022, Iannello, Rv. 664404-01, ha ribadito il principio, già affermato nel 2004 e in contrasto con un precedente del 1997, secondo cui la mancanza, nella copia della sentenza notificata, della attestazione di conformità all’originale, rilasciata dal cancelliere, non incide sulla validità della notificazione, attesa la tassatività dei casi di nullità previsti dall’art. 160 c.p.c., e non ne comporta l’inidoneità a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, salvo che il destinatario della notifica non lamenti l’incompletezza della copia ricevuta o la difformità tra tale copia e l’originale. In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione la notificazione della copia del provvedimento impugnato, a sua volta pervenuta al notificante dalla cancelleria in esecuzione dell’adempimento imposto dall’art. 133 c.p.c., in quanto la stessa era stata effettuata a mezzo p.e.c. dal procuratore della parte notificante e non vi era contestazione circa la sua corrispondenza all’originale).

Sez. L, n. 2537/2022, Patti, Rv. 663672-01, ha ribadito il principio consolidato secondo cui la mancanza nella copia notificata del ricorso per cassazione, il cui originale risulti tempestivamente depositato, di una o più pagine non comporta l’inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica sanabile, con efficacia “ex tunc”, mediante nuova notifica di una copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell’intimato, salva la possibile concessione a quest’ultimo di un termine per integrare le sue difese. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha rilevato che, nella fattispecie, la mancanza, nella copia notificata, dell’ultima pagina con le conclusioni non aveva pregiudicato l’intellegibilità del ricorso da parte del controricorrente, che aveva svolto difese nel merito esaurienti e pienamente consapevoli).

Sez. 5, n. 1210/2022, Mele, Rv. 663653-01, ha ribadito il principio secondo cui in caso di notificazione a mezzo posta, l’ufficiale postale, qualora non abbia potuto consegnare l’atto al destinatario o a persona abilitata a riceverlo in sua vece, ai sensi degli artt. 8 e 9 della l. n. 890 del 1982, ha l’obbligo, dopo avere accertato che il destinatario non ha cambiato residenza, dimora o domicilio, ma è temporaneamente assente, e che mancano persone abilitate a ricevere il piego, di rilasciare al notificando l’avviso del deposito del piego nell’ufficio postale e di provvedere, eseguito il deposito, alla compilazione dell’avviso di ricevimento che, con la menzione di tutte le formalità eseguite, deve essere restituito con il piego al mittente, dopo la scadenza del termine di giacenza dei dieci giorni dal deposito; con la conseguenza che, ove l’avviso di ricevimento non contenga precisa menzione di tutte le descritte operazioni e in difetto di dimostrazione dell’attività svolta dall’ufficiale postale offerta aliunde dal notificante, la notifica è radicalmente nulla.

  • spese processuali
  • liquidazione delle spese
  • procedura civile
  • responsabilità civile

CAPITOLO VII

LE SPESE E LA RESPONSABILITÀ PROCESSUALE AGGRAVATA

(di Donatella Salari )

Sommario

1 La condanna alle spese. - 1.1 Il principio di soccombenza. - 1.2 La liquidazione delle spese. - 2 La compensazione delle spese. - 3 La distrazione delle spese. - 4 La responsabilità processuale cd. aggravata.

1. La condanna alle spese.

Secondo un risalente e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la parte soccombente va identificata, alla stregua del principio di causalità sulla quale si fonda la responsabilità del processo, in quella che, lasciando insoddisfatta una pretesa riconosciuta fondata, abbia dato causa alla lite, ovvero con quella che abbia tenuto nel processo un comportamento rilevatosi ingiustificato: tale accertamento, ai fini della condanna al pagamento delle spese processuali, è rimesso al potere discrezionale del giudice del merito, e la conseguente pronuncia è sindacabile in sede di legittimità nella sola ipotesi in cui dette spese siano state poste, anche parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa.

1.1. Il principio di soccombenza.

Cardine dell’illustrato meccanismo di causalità è l’art. 91 c.p.c. secondo il quale il giudice – al termine di ogni grado di giudizio – condanna la parte soccombente al rimborso in favore della parte vittoriosa di tutte le spese, legali e processuali, da essa sostenute.

La nozione di soccombenza è nel sistema processuale unitaria ed universale e riguarda, perciò, ogni rito processuale ed ogni materia sottoposta al giudice, compresa la fase di esecuzione (cfr. Sez. 6-3, n. 09899/2022, Iannello, Rv. 664455-01) da attuarsi con valutazione globale.

Sul punto Sez. U, n. 32906 /2022, Conti, Rv. 666076-01, ha chiarito che in tema di spese processuali, il giudice del rinvio, cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato, sicché non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all’esito finale della lite, potendo, pertanto, legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale, ovvero, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione - e, tuttavia, complessivamente soccombente - al rimborso delle stesse in favore della controparte.

Al contrario, laddove sia stato esercitato il potere discrezionale di riunione di più cause che vengono, così, trattate congiuntamente, secondo Sez. 6-3, n. 27295/2022, Dell’Utri, Rv. 665726-01, l’autonomia dei singoli giudizi rimane immutata e non pregiudica la sorte delle singole azioni, di modo che la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise. Ne deriva che la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione a ciascun giudizio, atteso che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza, non potendo essere coinvolti in quest’ultima soggetti che non sono parti in causa. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione del giudice di merito che aveva disposto l’integrale compensazione delle spese del giudizio di primo grado, sul presupposto della reciproca soccombenza tra parti impegnate in cause distinte tra loro, che peraltro coinvolgevano anche parti estranee ad una delle cause riunite).

Come, inoltre, ribadito da Sez. U, n. 32061, 2022, Mercolino, Rv. 666063-01, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o, in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, c.p.c.

Il principio di casualità appena illustrato va applicato anche in caso di rigetto della domanda principale, nel senso che le spese processuali sostenute dal terzo saranno poste a carico di chi, rimasto soccombente, ha determinato ingiustificatamente la chiamata in garanzia di un terzo, e, pertanto, allorché il convenuto chiami in causa un terzo ai fini di garanzia impropria - e tale iniziativa non si riveli palesemente arbitraria - legittimamente il giudice di appello, in caso di soccombenza dell’attore, pone a carico di quest’ultimo anche le spese giudiziali sostenute dal terzo, ancorché nel secondo grado del giudizio la domanda di garanzia non sia stata riproposta, in quanto, da un lato, la partecipazione del terzo al giudizio di appello si giustifica sotto il profilo del litisconsorzio processuale, e, dall’altro, l’onere della rivalsa delle spese discende non dalla soccombenza - mancando un diretto rapporto sostanziale e processuale tra l’attore ed il terzo - bensì dalla responsabilità del primo di avere dato luogo, con una infondata pretesa, al giudizio nel quale legittimamente è rimasto coinvolto il terzo. (Sez. 6-3, n. 01123/2022, Scoditti, Rv. 663523-01).

La pronuncia si pone in linea con Sez. 3, n. 31889/2019. Graziosi, Rv. 655979-02 che aveva, comunque, prefigurato il limite dell’esclusione del rimborso delle spese a carico dell’attore soccombente ove l’iniziativa del terzo si fosse rivelata manifestamente infondata o palesemente arbitraria.

Inoltre, in continuità con Sez. 6-3, n. 13356/2021, Valle, Rv. 661563-01, si ribadisce il carattere non frazionabile della soccombenza con particolare riferimento al giudizio cautelare con Sez. 2, n. 09785/2022 Abete, Rv. 664323-02, secondo cui le spese del procedimento cautelare in corso di causa vanno liquidate contestualmente alla decisione del merito, atteso che l’esito della fase cautelare endoprocessuale non ha un’autonoma rilevanza ai fini della complessiva regolamentazione delle spese di lite, in quanto il criterio della soccombenza non si fraziona a seconda dell’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente alla decisione finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un risultato ad essa favorevole.

Lo stesso principio troverà applicazione nel procedimento d’ingiunzione in caso di revoca del provvedimento monitorio in esito all’opposizione che, per Sez. 2, n. 24482/2022, Criscuolo, Rv. 665389-01, non costituisce motivo sufficiente per rendere irripetibili dal creditore le spese della fase monitoria, occorrendo aver riguardo, invece, all’esito complessivo del giudizio, sicché la valutazione della soccombenza dovrà confrontarsi con il risultato finale della lite anche in relazione a tali spese.

Il principio di soccombenza va inteso in senso sostanziale anche secondo Sez. 3, n. 27387/2022, Tatangelo, Rv. 665904-01, per la quale, ai fini della sussistenza dell’interesse ad impugnare una sentenza con il mezzo della revocazione, rileva una nozione sostanziale e materiale di soccombenza, che faccia riferimento non già alla divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia, ma agli effetti pregiudizievoli che dalla medesima derivino nei confronti della parte stessa.

Non incide, invece, sulla soccombenza ed è pertanto inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si lamenti l’omessa pronuncia del giudice di primo grado su una domanda riconvenzionale avanzata dalla controparte e non riproposta in appello, sotto il profilo che l’eventuale rigetto di essa avrebbe potuto portare ad un possibile diverso e più favorevole regolamento delle spese giudiziali, in quanto tale omessa pronuncia, che non depone per un implicito rigetto, comunque non arreca alcun concreto pregiudizio all’attore, né l’acquiescenza prestata dal convenuto alla sentenza di primo grado può qualificarsi come espressa rinuncia agli effetti di cui all’art. 306, comma 4, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 33751/2022, Scarpa, Rv 666422-01).

In relazione al giudizio di appello e in continuità con Sez. 6-2, n. 34174/2021, Rv. 662844–01, poiché l’art. 91 c.p.c. presuppone la qualità di parte Sez. 6-2, n. 32350/2022. Besso Marcheis, Rv. 666166-02, ha precisato che qualora, in un giudizio litisconsortile dal lato passivo, il convenuto soccombente evochi in appello l’altro convenuto, rimasto contumace in primo grado e non soccombente rispetto al “dictum” della pronuncia di prime cure, la citazione di quest’ultimo non assolve alla funzione di “vocatio in ius”, ma di sola “litis denuntiatio” in presenza di cause scindibili, con la conseguenza che, nel caso in cui dalla sentenza di appello risulti soccombente l’originario attore, quest’ultimo non può essere condannato a rimborsare le spese del giudizio all’originario convenuto non soccombente che si sia costituito nel giudizio di appello. (Nella specie, la S.C. ha cassato senza rinvio il capo della sentenza di appello che, riformando la sentenza di primo grado resa all’esito di un giudizio possessorio nel quale era rimasta soccombente solo una delle due convenute chiamate in giudizio, aveva condannato l’originario attore a rimborsare le spese del giudizio di appello anche all’altra originaria convenuta che, non essendo risultata soccombente in primo grado, aveva partecipato al giudizio di appello solo perché la convenuta soccombente le aveva notificato l’impugnazione a scopo di “litis denuntiatio”).

In tema di regolamentazione delle spese di lite nei rapporti tra sentenza definitiva e non definitiva Sez. 6-2, n. 03805/2022, Criscuolo Rv. 663967-02, ha affermato che la riforma della sentenza non definitiva comporta, ai sensi dell’art. 336, comma 2, c.p.c., la caducazione della statuizione in tema di spese contenuta nella sentenza definitiva non impugnata allorquando tale decisione sulle spese sia basata sulla soccombenza relativa al contenuto della sentenza non definitiva.

Come accennato in premessa, il criterio universale della soccombenza e della causalità trova applicazione anche nel processo di esecuzione forzata con la precisazione che ai sensi dell’art. 95 c.p.c., le spese del procedimento - se fruttuoso- restano a carico del debitore esecutato e, nell’ipotesi di più creditori, seguendo le regole sul privilegio. Il principio di cui all’articolo citato non riveste valenza generale, o meglio, riguarda solo il processo esecutivo per espropriazione forzata, mentre per l’esecuzione forzata in forma specifica, ossia di esecuzione per consegna o rilascio ovvero per esecuzione degli obblighi di fare, trovano applicazione gli artt. 611 e 614 c.p.c.

Nel caso di estinzione della procedura esecutiva per inattività delle parti o per rinuncia agli atti, le spese restano a carico, della parte che le ha anticipate ovvero del rinunciante.

Tanto ha chiarito Sez. 3, Sentenza n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-05, ritenendo che nell’esecuzione forzata presso terzi, in seguito alle modifiche apportate dalla l. n. 228 del 2012, dal d.l. n. 132 del 2014 e dal d.l. n. 83 del 2015, le spese del subprocedimento di accertamento dell’obbligo del terzo non vanno liquidate sulla base del criterio di regolamentazione delle spese dell’espropriazione forzata (sancito dall’art. 95 c.p.c., ma incompatibile con l’incidente di accertamento), bensì - per analogia, in mancanza di un criterio di regolamentazione “ad hoc” e in ragione della strutturale fisionomia contenziosa del subprocedimento - secondo il principio della soccombenza per causalità sul quale si fonda la responsabilità del processo, salva la facoltà di compensazione, qualora l’organo giudicante ravvisi la ricorrenza dei presupposti indicati dall’art. 92 c.p.c.

Gli stessi principi giustificano l’attribuzione delle spese all’avvocato risultato vittorioso in sede di opposizione alla liquidazione del compenso dovuto in sede di gratuito patrocinio ancorché il Ministero di Giustizia, sia rimasto contumace, non essendo tale circostanza giustificante della disposta compensazione (Sez. 6-2, n. 05255/2022, Giannaccari, Rv. 663972-01).

La generalità del principio di soccombenza trova applicazione anche nel regolamento di competenza; secondo Sez. 3, n. 23264/2022, Fiecconi, Rv. 665432-01, la parte soccombente tanto sulla competenza quanto sul merito, e conseguentemente anche sulle spese, che intenda impugnare solo la pronuncia sulla competenza e non anche quella sul merito, deve proporre regolamento facoltativo di competenza, altresì qualora intenda censurare anche il capo sulle spese, perché il mancato esercizio del potere di impugnare con il ricorso ordinario per cassazione il merito della decisione le preclude di ridiscutere altrimenti la pronuncia sulle spese.

Il principio di causalità non trova, invece, applicazione nel rapporto processuale che s’instaura tra eredi e amministrazione nel caso di opposizione all’ordinanza ingiunzione stante la intrasmissibilità “iure hereditatis”. Come noto, infatti, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, le sanzioni non si trasmettono agli eredi dell’opponente e, pertanto, la pretesa sanzionatoria è destinata ad estinguersi per effetto della cessazione della materia del contendere, rispetto alla quale non può provvedersi sulle spese neppure per effetto della valutazione della soccombenza virtuale con la conseguenza che le spese restano a carico di chi le ha anticipate (Sez. 2, n. 16747/2022, Manna F., Rv. 664888 01).

1.2. La liquidazione delle spese.

Con il decreto del Ministro della giustizia 13 agosto 2022, n. 147, pubblicato in G.U. n. 236, contenente il Regolamento recante modifiche al decreto 10 marzo 2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense è stato modificato il d.m. n. 55/2014 e le tabelle, con i nuovi parametri, sono già entrate in vigore il 23 ottobre 2022.

Sul tema della liquidazione delle spese, Sez. 1, n. 01650/2022, Nazzicone, Rv. 663943-01, ha affermato che la difesa di più parti in identica posizione comporta unicità di compenso ai sensi degli artt. 4 e 8 d.m. n. 55 del 2014 - salva la possibilità di aumento nelle percentuali indicate da detto art. 4 al comma 2, che, nella versione vigente “ratione temporis”, prevedeva l’aumento del venti per cento per la seconda parte difesa, senza che rilevi la circostanza che il comune difensore abbia presentato distinti atti difensivi, prefigurandosi per il giudice l’onere di motivare, sia nell’evenienza in cui ritenga di riconoscere l’aumento, sia nell’evenienza contraria e pertanto si palesa in violazione di legge la liquidazione di un doppio integrale compenso in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale, e costituite con lo stesso avvocato, essendo dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli artt. 4 e 8 d.m. n. 55 del 2014. (Nello stesso senso anche Sez. 2, n. 18047/2022, Grasso, Rv. 664988-01).

Va poi ricordato che quando la parte presenta la nota spese, secondo quanto previsto dall’art. 75 disp. att. c.p.c., specificando la somma domandata, il giudice non può attribuire alla parte, a titolo di rimborso delle spese, una somma superiore.

In caso di inesistenza della procura speciale necessaria per la proposizione del ricorso per cassazione, ove conferita al difensore da una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, in quanto essa presuppone un rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente che non può sussistere in mancanza del mandante, Sez. 3, n. 27847/2022, Fanticini, Rv. 665953-01, ha ribadito quanto già affermato da Sez. 3, n. 16225/2022, Sestini Rv. 664903-01, in continuità con Sez. 5, n. 17360/2021, Rv. 661475-01, secondo cui l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua effettiva consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura, essendo compito dell’avvocato che riceve un mandato e autentica la sottoscrizione in calce alla procura speciale, verificare, oltre che l’identità del sottoscrittore, la sussistenza, in capo allo stesso, di validi poteri rappresentativi dell’ente collettivo, al fine di assicurare gli effetti dell’atto, restando ferma, peraltro, l’eventuale corresponsabilità di quest’ultimo - da farsi valere dal difensore in un autonomo giudizio di rivalsa -, laddove abbia consapevolmente speso poteri rappresentativi della società già cancellata dal registro delle imprese.

Inoltre, è stato chiarito da Sez. 2, n. 18047/2022, Grasso, Rv. 664988-01, che nella liquidazione delle spese processuali laddove il legale assista più di una parte senza che si prospetti l’esame di specifiche e distinte questioni di fatto e di diritto, poiché tra l’ipotesi disciplinata dall’art. 4, comma 4, del d.m. n. 55 del 2014 e l’ipotesi disciplinata dall’art. 4, comma 2, del citato d. m., sussiste un rapporto di specie a genere, solo qualora la prestazione giudiziale dell’avvocato sia stata resa a favore di più soggetti aventi la medesima posizione processuale (o a favore di un solo soggetto contro più soggetti aventi la medesima posizione processuale) senza la necessità di esaminare questioni di fatto o di diritto specifiche e distinte per i vari soggetti patrocinati (o contro i quali sia stato esercitato il patrocinio), il giudice potrebbe, con una sua valutazione discrezionale sottratta al controllo di legittimità, congiuntamente operare la riduzione del 30% del compenso liquidabile per l’assistenza di un solo soggetto ed aumentarlo nella misura e nei limiti di cui al comma 2 dell’art. 4 del citato d. m.

In ogni caso, ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso. (Sez. 2, n. 14198/2022, Giannaccari, Rv. 664685-02, in continuità con Sez. 3, n. 00089 /2021, Tatangelo, Rv. 660050-02.).

Quanto alla individuazione del corretto scaglione di cui il valore della causa è parametro di riferimento, Sez. 3, n. 31347/2022, Sestini, Rv. 666068-01, si è soffermata sulla liquidazione delle spese nelle cause di valore superiore ad euro 520.000 affermando che non incorre in violazione dell’art. 6 d.m. n. 55 del 2014 il giudice che applica incrementi percentuali inferiori al 30% in relazione ai vari passaggi di scaglione, non essendo prescritte né l’obbligatorietà dell’aumento, né una misura fissa per quest’ultimo, ferma restando, comunque, la legittimità dell’incremento massimo del 30% per ciascun passaggio. In ogni caso, secondo Sez. 2, n. 29170/2021, Grasso, Rv. 662703-01, ove il giudice si determini nel senso di non disporre alcun incremento percentuale è soggetto ad un obbligo di motivazione

La Suprema Corte ha poi adottato una serie di pronunce in cui ha preso in considerazione l’aspetto della liquidazione delle spese processuali in relazione ad ipotesi particolari.

Nel dettaglio, sulla scia di uno specifico precedente di correzione dell’errore materiale, Sez. 6-L, n. 13854/2021, Leone, Rv. 661315-01, ove si era ritenuto ammissibile la modifica della statuizione sulle spese legali quale conseguenza della correzione della decisione principale in sede di accertamento tecnico ex art. 445 c.p.c. cui detta statuizione accede, da Sez. L, n. 32695/2022, Solaini, Rv. 666012-01, si è ribadito che, essendo l’INPS l’unico soggetto legittimato passivo, il decreto di omologa del requisito sanitario pronunziato nei confronti di un resistente diverso è impugnabile per il capo relativo alle spese di lite, correlandosi la immodificabilità e non impugnabilità del decreto al presupposto, meramente certificativo, che l’accordo sulle conclusioni del c.t.u. sia intervenuto tra le “giuste” parti del procedimento; con la conseguenza che, in caso di erronea individuazione del legittimato passivo e di condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese di lite, va ammessa l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 111, comma 7, Cost., da parte del soggetto non legittimato che, altrimenti, resterebbe in via definitiva privo di qualsivoglia tutela giurisdizionale.

Per Sez. 2, n. 9785/2022, Bellini, Rv. 664323-01, integra, infine, un vizio di omessa pronuncia, riparabile soltanto con l’impugnazione, il mancato regolamento delle spese di un procedimento contenzioso da parte del giudice che, a norma dell’art. 91 c.p.c., avrebbe dovuto provvedervi con la sentenza od altro provvedimento a contenuto decisorio emesso a definizione dello stesso. (Nella specie, l’ordinanza conclusiva del procedimento di liquidazione delle spese, diritti e onorari spettanti agli avvocati, di cui agli artt. 28 e 29 della legge n. 794 del 1942, che non si sottrae alle regole generali dettate dagli artt. 91 e 92 c.p.c.).

2. La compensazione delle spese.

L’art. 92 c.p.c., come noto, consente al giudice, con la sentenza che chiude il processo, di compensare le spese, prevedendo una deroga al criterio della soccombenza ove la parte vincitrice venga condannata a causa della trasgressione del dovere di lealtà e probità; all’esito dell’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 77/2018, rispetto alle modifiche introdotte dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, la detta compensazione parziale o totale si estende oltre che ai casi di soccombenza reciproca e alle ipotesi di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, come già stabilito dall’art. 13 del d. l. n. 132 del 2014. anche alle ipotesi in cui sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. In sostanza, deve trattarsi di novità assoluta della questione trattata o di giurisprudenza che si è modificata su questione rilevante, ovvero incerta dal punto di vista giurisprudenziale, ovvero sopravvenuta su questione dirimente di un certo livello di gravità ed eccezionalità.

A composizione di un contrasto, Sez. U, n. 32061/2022, Mercolino, Rv. 666063-01, ha quindi affermato che l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, c.p.c.

Quanto alle gravi ed eccezionali ragioni, secondo Sez. 6-2, n. 07992/2022, Varrone, Rv. 664429-01, l’art. 92 c.p.c. (nella versione ratione temporis applicabile nella specie asaminata), quale norma elastica, costituisce una sorta di clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili “a priori”, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche. In particolare, anche l’oggettiva opinabilità delle questioni affrontate o l’oscillante soluzione ad esse data in giurisprudenza integra la suddetta nozione, se ed in quanto sia sintomo di un atteggiamento soggettivo del soccombente, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che lo hanno indotto ad agire o resistere in giudizio e, quindi, da valutare con riferimento al momento in cui la lite è stata introdotta o è stata posta in essere l’attività che ha dato origine alle spese, sempre che si tratti di questioni sulle quali si sia determinata effettivamente la soccombenza, ossia di questioni decise.

Sull’argomento si segnala Sez. 5, n. 01950/2022, Balsamo, Rv. 663746-01, che, con specifico riferimento alla motivazione dei motivi di compensazione (che potrebbe comportare la nullità della sentenza per violazione dell’art.132, comma 2, n. 4 c.p.c.), afferma che la detta compensazione è subordinata alla presenza di gravi ed eccezionali ragioni che il giudice è tenuto ad indicare esplicitamente nella motivazione della sentenza.

Diversamente, nel caso di cassazione parziale, il giudice del rinvio, secondo Sez. 6-2, n. 03798/2022, Criscuolo, Rv. 663935-01, è chiamato a rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese del giudizio di appello, in quanto l’annullamento, seppur limitato ad un solo capo di essa, si estende alla statuizione relativa alle spese processuali. Ne deriva che le sollecitazioni dei ricorrenti principali ad una più favorevole liquidazione delle spese, all’adozione di un diverso parametro tariffario e alla riconsiderazione del valore della controversia non danno vita a domande nuove, costituendo mere indicazioni per orientare il potere officioso del giudice di liquidazione delle spese di lite.

Ciò che il giudice di secondo grado può, invece, fare, allorché la domanda attorea sia stata parzialmente accolta sia in primo grado che in grado di appello, sulla base della valutazione inerente all’esito complessivo del giudizio, è compensare, in tutto o in parte, le spese del grado di appello e, solo se vi sia stata impugnazione sul punto, anche quelle del giudizio di primo grado ma non porle, anche in parte, a carico della parte risultata comunque vittoriosa. (Sez. 2, n. 19933/2022, Giannaccari, Rv. 665007-01).

3. La distrazione delle spese.

L’istituto della distrazione delle spese a favore del difensore esprime un diritto che a questo ultimo spetta in virtù della circostanza di avere anticipato per il cliente le somme necessarie al procedimento e presuppone un provvedimento che abbia statuito in via definitiva sulle spese giudiziali; si tratta di un diritto del solo difensore – tra l’altro compatibile con l’ammissione al gratuito patrocinio – che, nel caso di omissione della statuizione sulla richiesta di distrazione, consente alla parte interessata di accedere al procedimento di correzione di errore materiale. In proposito Sez. 6-L, n. 36579/2022, Amendola, Rv. 666206-01, ha osservato che il ricorso per correzione di errore materiale di una sentenza della Corte di cassazione per omessa pronuncia sulla distrazione delle spese può essere proposto dal difensore, fermo restando che, concernendo la correzione sia la posizione del soggetto passivo della condanna nelle spese, sia quella del soggetto attivo, riguardo al quale il difensore ha esercitato il suo ministero, il ricorso (o l’istanza) devono essere notificati ad entrambi e che l’omessa notifica disposta dalla S.C. determina l’inammissibilità del ricorso.

Secondo Sez. 6-3, n. 10236/2022, Tatangelo, Rv. 664217-01, è sufficiente la dichiarazione scritta di avvenuta anticipazione delle spese di lite, effettuata da entrambi i difensori della parte, per fondare il diritto alla distrazione delle spese ai sensi dell’art. 93 c.p.c. per tutti i dichiaranti, ciascuno per la propria quota.

In tal caso, come statuito da Sez. 3, n. 03290/2022, Guizzi, Rv. 663712-01, il difensore che abbia chiesto la distrazione delle spese può assumere la qualità di parte, attiva o passiva, nel giudizio di impugnazione, solo se la sentenza impugnata non abbia pronunciato sull’istanza di distrazione o l’abbia respinta, ovvero quando il gravame investa la pronuncia stessa di distrazione, sicché, ove il gravame riguardi solo l’adeguatezza della liquidazione delle spese, la legittimazione spetta esclusivamente alla parte rappresentata. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso del difensore che nel secondo grado di giudizio non aveva reiterato la richiesta di distrazione delle spese e, quanto a quelle del primo grado, si doleva della rideterminazione “in pejus” operata dalla Corte d’Appello).

Sez. 6-3, n. 06225/2022, Fiecconi, Rv. 664078-01, ha poi specificato che l’avvocato antistatario è legittimato passivo, nel giudizio d’appello, ai fini della ripetizione di quanto versatogli a titolo di spese legali in esecuzione della sentenza impugnata, ma non può essere condannato al pagamento delle spese del suddetto giudizio, in solido con la parte da lui assistita, atteso che non assume la qualità di parte e non può considerarsi tecnicamente soccombente solo in ragione del rigetto delle pretese del suo assistito.

Premesso che il conseguimento della pronuncia sulla distrazione delle spese processuali anticipate è evento che dipende, sia nell’“an” che nel “quando”, dalla pronuncia sulla domanda giudiziale che ha determinato l’insorgere del relativo processo, l’istanza di distrazione, proprio per il suo carattere eminentemente accessorio, non può di per sé governare i tempi del processo, ma solo pedissequamente adeguarsi a quelli dettati per il giudizio sulla pretesa “principale”, stante la sua valenza incidentale e non di domanda autonoma, siccome occasionata dal processo pendente tra le parti principali, al cui esito resta condizionata; tuttavia, trattandosi pur sempre di una domanda accessoria, potrebbe legittimare il difensore anticipatario nel giudizio presupposto, ad ottenere l’indennizzo per violazione del diritto alla ragionevole durata di detto giudizio. (Sez. 2, n. 15964/2022, Rolfi, Rv. 664884-01).

4. La responsabilità processuale cd. aggravata.

Premesso che l’art. 92 c.p.c. consente al giudice, con la sentenza che chiude il processo, derogando al criterio della soccombenza di condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88 c.p.c., essa ha causato all’altra parte, a sua volta l’art. 96 c.p.c., qualifica la responsabilità aggravata facendo riferimento ad atti o comportamenti processuali perimetrati nel giudizio nel quale la domanda viene proposta descrivendo le condotte rilevanti come l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero, con riferimento al terzo comma del citato articolo, l’aver abusato del processo.

Nei rapporti tra i 3 commi dell’art. 96 c.p.c. l’ipotesi di cui al comma 3 del citato articolo, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza configurando una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma e indipendente, è cumulabile con quelle di cui ai commi 1 e 2.

Nondimeno, il chiaro disposto dell’art. 152 disp. att. c.p.c. esclude che questa ultima misura trovi applicazione nei giudizi di previdenza e assistenza. Infatti, Sez. L, n. 12454/2022, Cavallaro, Rv. 664516-01, ha affermato che in tema di spese di lite nei giudizi di previdenza e assistenza, va escluso che alla parte soccombente non abbiente sia applicabile la previsione di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., sia in ragione di un argomento di carattere letterale, visto che l’art. 152 disp. att. c.p.c. fa salva l’applicazione alle controversie in esame del solo comma 1 del citato art. 96, sia di una interpretazione logico-sistematica che tenga conto della diversa “ratio” dei due commi, configurando il comma 1 una forma speciale di responsabilità extracontrattuale, derivante da un illecito processuale, mentre il comma 3, nel perseguire le finalità pubblicistiche correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, commina una sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.

La domanda di risarcimento per lite temeraria va considerata accessoria rispetto alla regola della soccombenza (Sez. 2, n. 18036/2022, Grasso, Rv. 664898-01); il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, di cui all’art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c.(In applicazione di detto principio la Corte, confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto che il pieno accoglimento in favore della odierna parte resistente della domanda di usucapione rispetto al rigetto di quella per lite temeraria fa escludere la contrapposizione di una pluralità di domande tale da giustificare la reciproca soccombenza).

A conferma del carattere accessorio della condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. è intervenuta anche Sez. 6-2, n. 05459/2022, Scarpa, Rv. 664065-01, che ha escluso che una tale condanna comporti automaticamente la revoca ex tunc dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in quanto il provvedimento di revoca del beneficio, seppur pronunciato all’interno del provvedimento di merito, anziché con separato decreto come previsto dall’art. 136 del d.P.R. n. 115 del 2002, deve essere sempre considerato autonomo e soggetto al separato regime di impugnazione di cui all’art. 170 dello stesso d.p.r. e ha affermato che, pertanto, spetta al giudice della revoca motivare autonomamente in ordine alla insussistenza dei presupposti per l’ammissione ovvero se l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave.

Motivo di approfondimento della condanna ex art. 3 dell’art. 96 c.p.c. è offerta da quel filone giurisprudenziale che, nel tentativo di reprimere l’abuso dello strumento processuale ha ravvisato la colpa grave che sorregge l’iniziativa ufficiosa nella condotta della parte che abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo (In tal senso Sez. 5, n. 34693/2022, De Masi, 666399-01 nonché Sez. 3, n. 04430/2022, Rossetti, Rv. 663925-03).

In tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., per Sez. U, n. 32001/2022, Rossetti, Rv. 666062-01, costituisce indice di mala fede o colpa grave - e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione - la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, non compiendo alcuno sforzo interpretativo, deduttivo ed argomentativo per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta.(Nella specie, la S.C. ha condannato d’ufficio il ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., in un caso in cui una questione di puro diritto processuale era stata prospettata come questione di giurisdizione, qualificando come violazione dei limiti esterni della giurisdizione la mera delibazione da parte del giudice amministrativo degli effetti di un accordo transattivo sul giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo, effettuata “incidenter tantum” al solo fine di valutarne la pregiudizialità in relazione alla richiesta di sospensione).

Infine sullo stesso tema, Sez. 6-3, n. 08943/2022, Gorgoni, Rv. 664450-01, interpretando l’assenza di limiti quantitativi sia nel minimo che nel massimo di cui al comma 3 dell’art. 96 cit. diversamente da quanto stabilito dall’art. 385, comma 4, c.p.c., ora abrogato dalla l. n. 69 del 2009, n. 69, afferma che la liquidazione in concreto della somma in via equitativa rientra nel potere discrezionale del giudice e non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, quando la motivazione dia adeguatamente conto del processo logico e valutativo seguito.

  • obbligazione
  • procedura civile
  • diritto successorio
  • società
  • lavoro
  • diritto di famiglia
  • espropriazione
  • fallimento

CAPITOLO VIII

IL PROCESSO LITISCONSORTILE

(di Francesco Agnino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Ipotesi di litisconsorzio necessario: casistica. - 2.1 Diritti reali. - 2.2 Lavoro e previdenza. - 2.3 Persone, famiglia e successioni. - 2.4 Obbligazioni. - 2.5 Assicurazioni contro i danni. - 2.6 Società. - 2.7 Espropriazione forzata e opposizioni all’esecuzione. - 2.8 Procedure concorsuali. - 3 Litisconsorzio necessario in fase di gravame. - 4 Conseguenze del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame. - 5 Bilanciamento tra l’esigenza di rilevare in sede di impugnazione il difetto di integrità del contraddittorio e quella di garantire la ragionevole durata del processo. - 6 Litisconsorzio facoltativo.

1. Premessa.

L’art. 102 c.p.c. contiene una “norma in bianco” che l’interprete è chiamato a riempire individuando le ipotesi in cui, al di là dei casi in cui è la legge stessa a prevedere la necessità della partecipazione di più parti al processo, «la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti».

Sul piano astratto, è stato da tempo chiarito che il litisconsorzio necessario – che determina l’inscindibilità della causa e, quindi, la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti eventualmente pretermessi – ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, anche in ragione della «particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio, che implichi, cioè, una situazione strutturalmente comune ad una pluralità di soggetti, in guisa tale che la decisione su di essa non potrebbe conseguire il proprio scopo [se] non sia resa nei confronti di tutti questi soggetti» (Sez. 1, n. 04720/2003, Carbone, Rv. 481970-01).

In altri termini, al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, vi è litisconsorzio necessario solo allorquando l’azione tenda alla costituzione o alla modifica di un rapporto plurisoggettivo unico, ovvero all’adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti.

La concreta individuazione di tali rapporti passa attraverso l’elaborazione della giurisprudenza, in ultima istanza, di quella di legittimità; da ciò l’essenzialità di una puntuale analisi casistica di questa.

Pari attenzione necessita lo sviluppo giurisprudenziale sulla disciplina del litisconsorzio nelle fasi di gravame, che affronta anche la diversa questione della determinazione dei soggetti che debbono partecipare al giudizio di impugnazione quando la sentenza impugnata è stata pronunciata nei confronti di più di due parti.

Infine, da non trascurare la giurisprudenza della Corte sul tema del litisconsorzio facoltativo, in cui la legge (art. 103 c.p.c.) consente, ma non impone, la contemporanea partecipazione di più parti, dal lato attivo e/o passivo, nel medesimo processo.

2. Ipotesi di litisconsorzio necessario: casistica.

Si procede alla rassegna delle pronunce della Corte che, al di là dei casi in cui è la legge stessa a prevedere la necessità della partecipazione di più parti al processo, interpretando la “norma in bianco” dell’art. 102 c.p.c., hanno ravvisato (o no) fattispecie in cui «la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti».

2.1. Diritti reali.

Con riguardo alle ipotesi di comunione dei diritti reali, Sez. 2, n. 24313/2022, Dongiacomo, Rv. 665559-01, ha affermato che nell’ipotesi di contratto preliminare di compravendita di un bene in comunione “pro indiviso”, stipulato da alcuni soltanto dei comproprietari e avente ad oggetto le quote di pertinenza di questi ultimi, nel processo ex art. 2932 c.c. non rivestono la qualità di litisconsorti necessari gli altri comproprietari, dal momento che essi, non avendo sottoscritto il preliminare, non sono destinatari in via diretta degli effetti del contratto definitivo.

Sez. 2, n. 24834/2022, Tedesco, Rv. 665561-01, ha precisato che la domanda volta a conseguire la declaratoria di nullità di una divisione ereditaria giudiziale già attuata dà luogo ad un giudizio a carattere universale ed unitario sulla base di un rapporto soggettivo indivisibile, che deve svolgersi nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione; ne deriva la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario dei coeredi parti del giudizio divisorio, con la conseguenza che l’inosservanza, anche solo parziale, dell’ordine di integrazione del contraddittorio, determina l’inammissibilità del ricorso per cassazione e non l’improcedibilità dello stesso ex art. 371 bis c.p.c. che si riferisce, invece, al difetto del successivo adempimento del deposito dell’atto di integrazione del contraddittorio, debitamente notificato.

Poichè la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi deve essere valutata non “secundum eventum litis”, ma al momento in cui essa sorge, sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini quando nel giudizio promosso da alcuni di loro per l’accertamento della natura comune di un bene i convenuti, costituendosi in giudizio, abbiano chiesto in via riconvenzionale di esserne dichiarati proprietari esclusivi a titolo derivativo o, in subordine, a titolo originario, in virtù di usucapione abbreviata. (Sez. 2, n. 08593/2022, Oliva, Rv. 664240-01), in fattispecie in cui nessuna delle parti in causa aveva prospettato la natura condominiale del lastrico di copertura, rivendicandone la proprietà esclusiva, peraltro, senza darne la prova, con la conseguenza che la corte di merito ha ritenuto la proprietà comune del lastrico di copertura di un immobile in capo ai partecipanti al condominio secondo la previsione di legge).

Il comproprietario può impugnare con opposizione di terzo la sentenza resa “inter alios” che abbia ordinato la demolizione della cosa, anche qualora egli non specifichi il “pregiudizio” ex art. 404, comma 1 c.p.c., giacché questo, e il correlativo interesse ad impugnare, sono “in re ipsa”, discendendo dalla natura del “decisum”, implicante la distruzione della cosa oggetto del diritto sostanziale (Nella specie, Sez. 2, n. 35457/2022, Oliva, Rv. 666330-01, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva escluso il litisconsorzio necessario tra due coniugi comproprietari in un giudizio di condanna alla rimozione di una veranda abusiva).

Infine, Sez. 2, n. 01441/2022, Bertuzzi, Rv. 663627-01, ha ribadito che l’azione con cui, a qualsiasi titolo, si rivendica la proprietà di bene deve essere proposta nei confronti di chi possiede il bene o ne è proprietario all’atto della domanda. Ne discende che se in tali situazioni si trovano più soggetti, tutti devono essere convenuti in giudizio, verificandosi un’ipotesi di litisconsorzio necessario dal lato passivo. Il rapporto plurisoggettivo dedotto in giudizio ed oggetto della pronuncia del giudice è infatti in tali casi concettualmente unico ed inscindibile.

2.2. Lavoro e previdenza.

Secondo Sez. L, n. 00438/2021, Arienzo, Rv. 660170-01, in caso di trasferimento di azienda o di un suo ramo, nel giudizio promosso dal lavoratore per affermare l’esistenza del rapporto lavorativo con il datore di lavoro cedente, e negare quello con il cessionario, non sussiste litisconsorzio necessario tra cedente e cessionario, in quanto il lavoratore non deduce in giudizio un rapporto plurisoggettivo, né alcuna situazione di contitolarità, ma tende a conseguire un’utilità rivolgendosi a una sola persona, ossia il vero datore di lavoro. In tal caso, l’accertamento negativo dell’altro rapporto avviene senza efficacia di giudicato e l’eventuale contrasto tra giudicati è bilanciato dalle esigenze di economia e speditezza processuale, ostacolate dalla presenza di un’altra parte nel giudizio.

In tema di selezioni concorsuali, Sez. L, n. 36356/2021, Bellé, Rv. 663002, ha chiarito che la pretesa con cui un docente di ruolo della scuola pubblica richiede il trasferimento in altra provincia, sulla base delle procedure previste dalla normativa di legge e dalla contrattazione collettiva, ha natura di azione di adempimento, alla cui introduzione è sufficiente la deduzione dell’inosservanza di regole di scelta favorevoli a tale docente e cui la P.A. era vincolata, mentre la questione in ordine all’effettiva spettanza di quel posto proprio a chi agisce e non ad altri concorrenti attiene al diverso piano della fondatezza nel merito o della prova e va definita sulla base dell’intero materiale istruttorio, acquisito o legalmente acquisibile in causa, ferma restando la necessità di integrare il contraddittorio con tutti i candidati concorrenti rispetto a quel medesimo posto e di coloro cui esso sia stato in concreto attribuito.

Sez. U, n. 07514/2022, Esposito, Rv. 664407-01, ha specificato che in tema di riscossione dei crediti previdenziali, ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, nell’ipotesi di opposizione tardiva recuperatoria avverso l’iscrizione a ruolo, al fine di far valere l’inesistenza del credito portato dalle cartelle per omessa notificazione, anche per il maturare della prescrizione, la legittimazione a contraddire compete al solo ente impositore, quale unico titolare della situazione sostanziale dedotta in giudizio, sicché, in caso di proposizione nei confronti del solo concessionario, non trovando applicazione i meccanismi di cui agli artt. 107 o 102 c.p.c., ne consegue il rigetto del ricorso per carenza di legittimazione passiva in capo al concessionario medesimo, quale mero destinatario del pagamento ex 1188 c.c..

2.3. Persone, famiglia e successioni.

Da segnalare Sez. U, n. 09006/2021, Acierno, Rv. 660971-01, che ha statuito che, nel giudizio volto a ottenere il riconoscimento dell’efficacia ai sensi dell’art. 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, del provvedimento straniero di adozione piena di un minore, gli adottanti sono litisconsorti necessari, poiché l’atto reca l’inscindibile riconoscimento dello status genitoriale di entrambi. Tuttavia, ove l’azione sia esperita da uno solo di essi, ma l’altro intervenga volontariamente nel giudizio di cassazione e aderisca in pieno alle difese del primo, consentendo di verificare l’assenza di alcun pregiudizio alle facoltà processuali delle parti, il giudice di legittimità non può rilevare il difetto del contraddittorio, né procedere alla rimessione della causa davanti al giudice di merito, ma è chiamato a esaminare il ricorso e a deciderlo, dovendo dare preminenza al principio di effettività nel valutare l’esercizio e la lesione del diritto di difesa.

In tema di procedimento di adottabilità, Sez. 1, n. 23793/2021, Parise, Rv. 662381-01, ha ritenuto che, in tale procedimento, l’art. 10 della legge 26 maggio 1984, n. 183, che prevede la nomina del difensore d’ufficio del genitore del minore, parte necessaria, quando ha inizio la procedura, e pertanto in relazione al primo grado del giudizio, costituisce una disciplina speciale, derogatoria del diritto comune e pertanto di stretta interpretazione, che non è perciò suscettibile di estensione al grado di appello, nel quale la partecipazione del genitore è assicurata tramite la notifica dell’impugnazione, o disponendo l’integrazione del contraddittorio in suo favore, adempimenti sufficienti ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale. La Corte ha enunciato tale principio in un giudizio in cui al padre, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, era stato nominato in primo grado un difensore d’ufficio, che si era costituito, aveva ricevuto la notifica dell’impugnazione ed era comparso in secondo grado solo per dichiarare che il suo difeso non intendeva costituirsi, cosicché la Corte d’appello lo aveva correttamente dichiarato contumace. Sempre sulla medesima materia, Sez. 1, n. 20243/2021, Caradonna, Rv. 661967-01, ha affermato che, nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, i genitori del minore sono litisconsorti necessari e godono di una legittimazione autonoma, connessa a un’intensa serie di poteri, facoltà e diritti processuali, sicché, ove il giudizio sia celebrato senza la partecipazione di uno di essi e né il giudice di primo grado né quello dell’impugnazione rilevino vizio del contraddittorio, l’intero processo risulta viziato e il giudice di legittimità è tenuto a rilevare anche d’ufficio l’invalidità del provvedimento impugnato, procedendo al suo annullamento e rinviando la causa al primo giudice a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

Sez. 1, n. 18451/2022, Nazzicone, Rv. 664969-01, ha affrontato la questione se, in presenza della richiesta dell’assegno di mantenimento da parte dei figli maggiorenni, l’accertamento del “quantum” debba svolgersi nel contraddittorio di entrambi i genitori, escludendo la sussistenza di un litisconsorzio necessario sostanziale, in quanto l’obbligazione fra i genitori non è neppure solidale, non potendo il figlio pretendere che da ciascuno di essi il dovuto. Invero, una volta individuata la misura dell’assegno di cui il figlio maggiorenne abbia eventualmente diritto di godere, il carico non può che reputarsi ripartito fra i genitori, in proporzione delle rispettive sostanze e possibilità. A tal fine, il giudice del merito è quindi tenuto ad accertare, sia pure incidentalmente e senza forza di giudicato, i redditi di entrambi, per ripartire il peso dell’assegno a carico di ciascun genitore.

2.4. Obbligazioni.

La domanda di manleva proposta dal convenuto, acquirente dell’immobile oggetto dell’azione di rivendica, nei confronti del proprio alienante va qualificata come di garanzia propria, sicché il nesso che si instaura tra la stessa e la domanda principale giustifica, in linea di principio, la conservazione del litisconsorzio instaurato in primo grado, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. che si applica anche alle cause tra loro dipendenti. Ne consegue, in tema di spese legali, che, se è accolta la domanda di garanzia proposta dal convenuto acquirente nei confronti del terzo alienante, il giudice dovrà condannare quest’ultimo a rifondere le spese di lite sia in favore dell’attore che del convenuto (Sez. 2, n. 23904/2022, Trapuzzano, Rv. 665384-01).

Nel caso in cui, a seguito della stipulazione di un contratto preliminare di compravendita per persona da nominare, l’electio amici sia stata compiuta da uno solo dei promissari acquirenti dopo la morte dell’altro, nella causa promossa da uno degli eredi del “de cuius”, contro i terzi nominati, per la restituzione della caparra versata all’atto del preliminare (e imputata a prezzo della vendita), sono litisconsorti necessari gli altri coeredi del promissario acquirente defunto e l’altro stipulante, inerendo la causa petendi della domanda all’accertamento, da un lato, delle modalità di svolgimento, da parte di quest’ultimo, di un potere di rappresentanza degli eredi suddetti, e dall’altro della causa (gratuita od onerosa) del negozio sottostante all’atto di nomina degli acquirenti (Sez. 3, n. 09008/2022, Guizzi, Rv. 664578-01).

2.5. Assicurazioni contro i danni.

In materia di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione dei veicoli, nella procedura di risarcimento diretto di cui al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 149, promossa dal danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, sussiste litisconsorzio necessario, analogamente a quanto previsto dall’art. 144, comma 3, del medesimo decreto, nei confronti del danneggiante responsabile, sicché, ove il proprietario del veicolo assicurato non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio deve essere integrato ex art. 102 c.p.c. e la relativa omissione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, comporta l’annullamento della sentenza ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3 (Sez. 3, n. 10763/2022, Pellecchia, non massimata).

Per Sez. 3, n. 27078/2022, Tatangelo, Rv. 665903-01, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, nel giudizio promosso dal terzo trasportato nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo a bordo del quale si trovava al momento del sinistro è litisconsorte necessario il proprietario del veicolo, con la conseguenza che, ove quest’ultimo non sia stato citato in giudizio, il contraddittorio deve essere integrato ex art. 102 c.p.c. e la relativa omissione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, determina l’annullamento della sentenza con rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c.

Infine, qualora gli assicuratori sociali agiscano in surrogazione, ai sensi degli artt. 1916 c.c. e 23 della l. n. 990 del 1969 (oggi trasfuso nell’art 287, comma 4, c.ass.), nei confronti del proprietario del veicolo responsabile e della sua compagnia di assicurazione, al fine di ottenerne la condanna al rimborso delle indennità erogate in favore della vittima di un incidente stradale, i suddetti convenuti assumono la qualità di litisconsorti necessari, come nell’analogo caso in cui sia il danneggiato ad agire contro di essi (Sez. 3, n. 14980/2022, Rossetti, Rv. 664847-01).

2.6. Società.

Per Sez. 2, n. 14859/2022, Massafra, Rv. 664794-01, a seguito dell’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono - il che sacrificherebbe ingiustamente i diritto dei creditori sociali - ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate. Ne discende che i soci, successori della società, subentrano, altresì, nella legittimazione processuale facente capo all’ente - la cui estinzione è equiparabile alla morte della persona fisica, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.- in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovverosia a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale.

In tema di giurisdizione del giudice italiano, l’art. 6 della Convenzione di Lugano del 2007, secondo cui una persona domiciliata in uno Stato contraente può essere evocata in giudizio, in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato, a condizione che tra le domande esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unitaria per evitare il rischio di giungere a decisioni contrastanti, è applicabile anche in caso di azione di responsabilità, intrapresa dai creditori sociali nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società debitrice, allorché, pur non determinandosi una situazione di litisconsorzio necessario, le condotte contestate siano addebitabili sia alle scelte gestorie dell’organo amministrativo sia all’omessa vigilanza degli organi di controllo (Sez. U, n. 13953/2022, Iofrida, Rv. 664748-01).

Secondo Sez. 5, n. 06073/2022, D’Aquino, Rv. 663984-01, nel processo di cassazione, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, la violazione del litisconsorzio necessario tra società e soci determina la rimessione della causa al primo giudice che, tuttavia, non è necessaria ove in sede di legittimità possa disporsi la ricomposizione del contraddittorio mediante la riunione; ciò si verifica quando, oltre a sussistere la piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, la complessiva fattispecie sia caratterizzata da: identità oggettiva quanto a causa petendi dei ricorsi; simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici.

2.7. Espropriazione forzata e opposizioni all’esecuzione.

L’ordine di pagamento diretto rivolto dall’agente della riscossione, ai sensi del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 72-bis configura un pignoramento in forma speciale, ma dà comunque luogo ad un vero e proprio processo esecutivo per espropriazione di crediti presso terzi, differenziandosi dalla procedura ordinaria essenzialmente per la possibilità del creditore di “ordinare” direttamente al terzo il pagamento delle somme pignorate; a tale procedura si applica, quindi (nei limiti della compatibilità), la disciplina ordinaria del processo esecutivo. Partendo da tali premesse, Sez. 3, n. 16236/2022, Fanticini, Rv. 665106-01, ha statuito che in tema di espropriazione presso terzi, anche se compiuta con le forme del pignoramento dei crediti verso terzi ai sensi del d.P.R. n. 602 del 1973, art. 72-bis nei giudizi di opposizione esecutiva si configura sempre litisconsorzio necessario fra il creditore (l’agente della riscossione nell’esecuzione “esattoriale”), il debitore ed il terzo pignorato (nella specie, il destinatario dell’ordine di pagamento diretto).

Nei giudizi di opposizione esecutiva relativi ad una espropriazione presso terzi ai sensi degli art. 543 c.p.c. e ss., il terzo pignorato è sempre litisconsorte necessario, sussistendo il suo interesse diretto a partecipare al giudizio, avendo lo stesso ad oggetto la validità e l’efficacia degli atti del processo esecutivo, che si conclude con l’assegnazione dei crediti pignorati, cioè con un provvedimento che costituisce titolo esecutivo nei confronti dello stesso terzo pignorato: si tratta, in altri termini, di un giudizio i cui effetti sono destinati ad avere diretta ed immediata efficacia nella sfera patrimoniale del terzo pignorato (Sez. 3, n. 09228/2022, Tatangelo, non massimata).

In tema di espropriazione presso terzi, nel giudizio di reclamo avverso l’estinzione del processo esecutivo, al pari di quanto accade nei giudizi di opposizione esecutiva, si configura sempre il litisconsorzio necessario tra il creditore, il debitore e il terzo pignorato, con la conseguenza che la non integrità originaria del contraddittorio, rilevabile d’ufficio anche per la prima volta in sede di legittimità, determina la cassazione delle decisioni di merito, con rinvio ex artt. 383, comma 3, e 354, c.p.c., al giudice di primo grado perché provveda all’integrazione del contraddittorio (Sez. 3, n. 32445/2022, Fanticini, Rv. 666112-01).

2.8. Procedure concorsuali.

In tema di fallimento, Sez. 6-1, n. 29288/2021, Fidanzia, Rv. 662931-01, ha chiarito che gli originari creditori istanti per il fallimento di una società di persone o di un imprenditore individuale assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio di reclamo proposto dal socio illimitatamente responsabile, attinto dalla dichiarazione di fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147, commi 4 e 5, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. In applicazione di tale principio, la Corte ha respinto il ricorso del socio dichiarato fallito in estensione contro la pronuncia di estinzione del reclamo ex art 18 del r.d. n. 267 del 1942 per mancata integrazione del contraddittorio, nel termine assegnato dal giudice, nei confronti di uno dei creditori che avevano richiesto il fallimento della società di persone. Il giudizio per la dichiarazione di fallimento di una società di fatto non presuppone l’instaurazione del litisconsorzio necessario fra tutti i soci, dal momento che il principio generale per cui l’accertamento di un rapporto sociale postula il contraddittorio fra la totalità dei presunti e reali componenti dell’ente non trova applicazione qualora l’accertamento relativo all’esistenza del rapporto sociale sia meramente strumentale rispetto alla decisione sulla dichiarazione di fallimento (Sez. 1, n. 14365/2021, Amatore, Rv. 661494-01).

3. Litisconsorzio necessario in fase di gravame.

L’obbligatorietà dell’integrazione del contraddittorio nella fase dell’impugnazione, al fine di evitare giudicati contrastanti nella stessa materia e tra soggetti già parti del giudizio, sorge non solo quando la sentenza di primo grado sia stata pronunciata nei confronti di tutte le parti tra le quali esiste litisconsorzio necessario sostanziale e l’impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte, ma anche nel caso del cosiddetto litisconsorzio necessario processuale, quando l’impugnazione non risulti proposta nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado, sebbene non legati tra loro da un rapporto di litisconsorzio necessario, sempre che si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti (art. 331 c.p.c.), nel qual caso la necessità del litisconsorzio in sede di impugnazione è imposta dal solo fatto che tutte le parti sono state presenti nel giudizio di primo grado, con la conseguenza che, in entrambe le ipotesi, la mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio di appello determina la nullità dell’intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (Sez. 2, n. 07612/2022, Dongiacomo, Rv. 664210-01).

In tema di impugnazioni, il principio secondo il quale, nel processo con pluralità di parti, vige la regola dell’unitarietà del termine dell’impugnazione (sicché la notifica della sentenza eseguita a istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e della parte destinataria della notificazione, l’inizio della decorrenza del termine breve per la proposizione dell’impugnazione contro tutte le altre parti) trova applicazione soltanto nelle ipotesi di cause inscindibili (o tra loro comunque dipendenti), ovvero in quella in cui la controversia concerna un unico rapporto sostanziale o processuale, e non anche quando si tratti di cause scindibili o, comunque, tra loro indipendenti, per le quali, in applicazione del combinato disposto degli artt. 326 e 332 c.p.c. è esclusa la necessità del litisconsorzio (Sez. 6-3, n. 16141/2022, Cricenti, Rv. 665054-01, fattispecie in tema di danni derivanti da fauna selvatica, ove l’attore aveva proposto due domande verso la Provincia e verso la Regione, ritenute non scindibili, perché si era affermata la responsabilità alternativa tra due soggetti e tra gli stessi vi era contestazione circa l’individuazione dell’unico obbligato).

L’eccezione di difetto del contraddittorio per violazione del litisconsorzio necessario può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità, a condizione che l’esistenza del litisconsorzio risulti dagli atti e dai documenti del giudizio di merito e la parte che la deduca ottemperi all’onere di indicare nominativamente le persone che devono partecipare al giudizio, di provare la loro esistenza e i presupposti di fatto e di diritto che giustifichino l’integrazione del contraddittorio (Sez. 2, n. 11043/2022, Varrone, Rv. 664378-01).

Sez. 2, n. 06357/2022, Cosentino, Rv. 664314-01, ha evidenziato che l’interventore “ad adiuvandum” si inserisce nel processo tra altre persone, ponendosi accanto alla parte adiuvata in quanto portatore di un proprio interesse che, se non è tale da legittimarlo a proporre in via autonoma una sua pretesa, lo abilita ad intervenire nel giudizio, il quale rimane unico in quanto invariato resta l’oggetto della controversia pur ampliandosi il numero dei partecipanti; ne consegue che l’intervento ad adiuvandum determina un’ipotesi di causa inscindibile, con conseguente applicazione del disposto di cui all’art. 331 c.p.c., atteso che se è consentito ad un soggetto di intervenire per sostenere le ragioni di una delle parti in causa, restando unico ed indivisibile il giudizio, si deve necessariamente configurare un litisconsorzio processuale nei successivi giudizi di impugnazione poiché le ragioni che consentono e giustificano la presenza di parti accessorie non si esauriscono in un grado di giudizio persistendo l’interesse dell’interventore adesivo ad influire con una propria difesa sull’esito della lite.

4. Conseguenze del difetto di integrità del contraddittorio in sede di gravame.

L’integrazione del contraddittorio nel giudizio d’appello dev’essere disposta non solo quando il giudizio di primo grado si sia svolto nei confronti di litisconsorti necessari di diritto sostanziale e l’appello non sia stato proposto nei confronti di alcuni di essi, ma anche nel caso di cd. litisconsorzio necessario processuale, e cioè quando l’impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte le parti, non legate da litisconsorzio necessario, ove si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, derivando la sua necessità dal solo fatto che le parti siano state presenti in primo grado; rileva Sez. 2, n. 07612, Dongiacomo, Rv. 664210-01, che, nel giudizio in cassazione, la parte che lamenti la mancata integrità del contraddittorio nel giudizio d’appello per la sussistenza, non emergente dalla sentenza impugnata, di un litisconsorzio necessario ovvero per natura inscindibile o dipendente delle cause svolte in primo grado, ha l’onere non soltanto di indicare i soggetti che devono partecipare al processo quali litisconsorti necessari, provandone l’esistenza, ma anche di dimostrare i presupposti di fatto e di diritto che, sul piano sostanziale e/o processuale, ne imponevano, alle luce dei criteri esposti, la partecipazione al processo d’appello.

5. Bilanciamento tra l’esigenza di rilevare in sede di impugnazione il difetto di integrità del contraddittorio e quella di garantire la ragionevole durata del processo.

La già citata Sez. 2, n. 01441/2022, Bertuzzi, Rv. 663627-01, si è occupata della questione se vada dichiarata inammissibile l’opposizione di terzo, qualora sia tesa a rimuovere la decisione per un vizio processuale, quale la violazione del litisconsorzio necessario, senza dedurre al contempo una situazione incompatibile in concreto con quella accertata nella sentenza denunciata e contenere, altresì, la richiesta al giudice di riesame della questione di merito, dando alla questione soluzione negativa, sul rilievo che nel caso in cui l’opposizione di terzo sia fondata sulla mancata partecipazione al giudizio di merito di un litisconsorte necessario, il giudice della opposizione, se la sentenza impugnata è di secondo grado, dopo averne dichiarato la nullità, deve rimettere la causa al giudice di primo grado, ai sensi del combinato disposto degli artt. 406 e 354 c.p.c. Ne discende che, trovando in dette situazioni applicazione la norma che prevede che il giudice di secondo grado non può decidere la controversia ma deve rimettere le parti davanti al primo giudice, il giudizio di opposizione di terzo si esaurisce nella sola fase rescindente, per cui l’opponente può limitarsi a dedurre e provare la titolarità di una situazione incompatibile con l’accertamento oggetto della sentenza impugnata, senza necessità di dedurre difese anche nel merito.

6. Litisconsorzio facoltativo.

Ipotesi di litisconsorzio facoltativo è quella presa in considerazione da Sez. 2, n. 31827/2022, Scarpa, Rv. 665993-01, che ha precisato che allorché più condomini agiscono nello stesso processo verso altro condomino o verso un terzo sia per la cessazione delle immissioni a tutela della rispettiva unità immobiliare di proprietà esclusiva, sia a difesa della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., si determina una ipotesi di litisconsorzio facoltativo in cause scindibili, sicché, ove l’appello avverso la sentenza di primo grado, che abbia rigettato tutte le domande, sia proposto soltanto da alcuni degli attori originari, trova applicazione l’art. 332 c.p.c. e le pronunce non impugnate nei termini di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c. divengono irrevocabili. Ne consegue che il condomino, rimasto soccombente in primo grado e che non abbia avanzato gravame in ordine alla domanda da lui spiegata, non può dedurre quali motivi di ricorso per cassazione questioni che abbiano formato oggetto di motivi specifici di appello proposti da altri condomini; peraltro, allorché detto appello sia accolto, tanto meno egli può ricorrere per cassazione, stante il difetto di soccombenza, restando eventualmente legittimato, ove la sentenza pronunciata nei rapporti tra le parti rimaste in causa abbia pregiudicato i suoi diritti, a proporre l’opposizione di terzo ai sensi dell’art 404, comma 1, c.p.c., oppure a proporre l’opposizione di terzo all’esecuzione, ai sensi dell’art. 619 c.p.c., ove lamenti che sia l’esecuzione del titolo formatosi inter alios ad incidere sulla sua posizione.

Con riguardo alla comunione pro indiviso Sez. 2, n. 25097/2022, Tedesco, Rv. 665589-01, ha sancito che la vendita di una parte determinata della cosa comune da parte del singolo comunista non ha immediata efficacia traslativa, ma è tuttavia fattispecie negoziale perfetta, che di per sé non pregiudica la posizione degli altri comproprietari, che non sono litisconsorti necessari nel giudizio nel quale l’acquirente abbia (infondatamente) invocato l’efficacia immediata del contratto.

Sez. 2, n. 11043/2022, Varrone, Rv. 664378-01, ha precisato che nel caso di molteplici negozi strutturalmente distinti, ma funzionalmente collegati, si è in presenza di un contratto o, più genericamente, di un rapporto unico, allorché i medesimi originari contraenti abbiano prescelto più strumenti negoziali per disciplinare i loro interessi mentre, ove nella complessiva vicenda intervengano altri soggetti, come parti di ulteriori negozi, retti da una loro autonoma causa, si è in presenza di contratti oggettivamente e soggettivamente differenziati, rispetto ai quali può configurarsi, al più, un collegamento genetico o funzionale, per stabilire se e come gli effetti degli uni influenzino quelli degli altri; in tale ultima evenienza, peraltro, la parziale diversità soggettiva dei contraenti implica che, sul piano della validità ed efficacia, il nesso di reciproca interdipendenza tra i negozi collegati al massimo determina una connessione “per il titolo”, idonea a dar corpo ad una delle ipotesi di litisconsorzio facoltativo cd. “proprio”, ex art. 103, comma 1, c.p.c.

Infine, Sez. 3, n. 34399/2022, Graziosi, Rv. 667794-01, ha chiarito che il giudizio di inammissibilità dell’azione collettiva risarcitoria, all’esito del reclamo proposto alla Corte d’appello, non è ricorribile per cassazione perché si tratterebbe di provvedimento non provvisto di sostanza decisoria; o, comunque di provvedimento dotato di trascurabile valenza decisoria, considerata la conservazione in capo ai singoli danneggiati, semplici consorti di lite non direttamente toccati da quell’esito, della propria azione individuale. In altri termini, l’azione di classe è equiparata ad un modo di esercizio dell’azione individuale, dando luogo ad una sorta di litisconsorzio facoltativo attivo ex art. 103 c.p.c.

  • procedura civile
  • testimonianza
  • consulenza e perizia
  • prova

CAPITOLO IX

LE PROVE

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Il principio di non contestazione. - 2 La consulenza tecnica d’ufficio. - 2.1 I poteri del c.t.u. di acquisire ulteriori elementi probatori. - 2.2 La contestazione della consulenza e la sua valutazione. - 2.3 La liquidazione del compenso del c.t.u. - 2.4 La consulenza di parte. - 3 L’ordine di esibizione. - 4 La richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione. - 5 Il disconoscimento di scritture private. - 5.1 Le modalità di disconoscimento. - 5.2 Verificazione ed istruttoria. - 5.3 Il disconoscimento delle riproduzioni. - 6 La querela di falso. - 7 La confessione. - 8 La prova testimoniale. - 8.1 Il valore probatorio delle dichiarazioni degli informatori. - 9 Il giuramento.

1. Il principio di non contestazione.

Il principio di non contestazione trova il proprio addentellato normativo nell’art. 115, comma 2, c.p.c. che, dopo la novella apportata con la legge 18 giugno 2009, n. 69, afferma che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.

Il principio ha, tuttavia, una più antica origine giurisprudenziale e non vale ad introdurre una nuova prova legale nell’ordinamento ma ad esplicare una funzione agevolatrice della motivazione nel quadro del principio fondamentale del contraddittorio. Da questo punto di vista esso opera come una “relevatio ab onere probandi”, ossia serve a distinguere ciò che del “thema decidendum” è effettivamente controverso ed è perciò oggetto necessario di prova, secondo una caratteristica “circolarità” che muovendo dal piano assertivo giunge all’individuazione del thema probandum.

Il recentissimo d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, pubblicato nella G.U. n. 243 del 17 ottobre 2022, in attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206 (c.d. Riforma Cartabia della giustizia civile), pone alle parti dei doveri di specificità e chiarezza che indubbiamente rilevano ai fini della delimitazione del principio di non contestazione (cfr. nuovi artt. 163, comma 3 n. 4 e 167 c.p.c.) e prevede l’adozione di un apposito rito semplificato quando “i fatti di causa non sono controversi” (cfr. nuovo art. 281 decies c.p.c.).

Nel corso dell’anno in rassegna, la S.C. ha avuto più volte modo di occuparsi del principio di non contestazione, in primo luogo per ribadire la sua valenza generale con Sez. 6-3, n. 09439/2022, Rossetti, Rv. 664451-01, secondo cui il convenuto, di fronte ad un’allegazione da parte dell’attore chiara e articolata in punto di fatto, ha l’onere ex art. 167 c.p.c. di prendere posizione in modo analitico sulle circostanze di cui intenda contestare la veridicità e, qualora non rispetti tale onere, i fatti dedotti dall’attore devono ritenersi non contestati, per i fini di cui all’art. 115 c.p.c. L’interesse di tale pronuncia, che si muove nel solco di un orientamento senza dubbio consolidato, è stato quello di aver precisato che deve ritenersi generica e, come tale, priva di effetti, la contestazione con cui il convenuto aveva eccepito “l’inammissibilità della domanda per mancanza di legittimazione attiva” in capo all’attore, senza alcuna ulteriore precisazione.

Sempre su di un piano generale, che tocca altresì il tema dei rapporti con il giudizio di appello e la c.d. “stabilità” della non contestazione, Sez. 2, n. 02223/2022, Penta, Rv. 663641-01, ha ritenuto che chi deduce è tenuto a provare il fatto genericamente dedotto e/o non rientrante nella sfera di conoscibilità della controparte anche in assenza di contestazione specifica o generica o di non contestazione da parte di quest’ultima, mentre è tenuto a provare il fatto specificamente dedotto e/o rientrante nella sfera di conoscibilità della controparte soltanto se specificamente contestato; pertanto, soltanto nella prima ipotesi è possibile formulare la contestazione per la prima volta anche in grado d’appello, senza che questo giustifichi la rimessione in termini per l’articolazione dei mezzi istruttori, stante l’onere probatorio gravante sul deducente in primo grado, mentre tale facoltà è preclusa nella seconda, avendo quest’ultimo fatto affidamento sulla “relevatio” dall’onere probatorio in ragione dell’assenza di contestazione, senza potervi più provvedere in sede di gravame.

Si è altresì ribadito che ai fini del ricorso in sede di legittimità per violazione del principio in commento, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la circostanza di fatto, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica (così Sez. 6-3, n. 10761/2022, Pellecchia, Rv. 664645-01, che in motivazione ricorda come tale onere di specificità sia altresì rivolto ad evitare che attraverso il motivo di doglianza, surrettiziamente, si richieda in moto inammissibile alla S.C. una rivalutazione dei dati fattuali e in particolare probatori, il cui giudizio rimane nella piena discrezionalità del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità).

Di particolare interesse risulta Sez. 1, n. 14589/2022, Nazzicone, Rv. 664766-01, secondo cui nel giudizio di opposizione allo stato passivo il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. si applica anche al curatore fallimentare costituito, ancorché questi non abbia la disponibilità dei diritti della massa, in quanto la non contestazione non è equiparabile alla confessione e non implica perciò la disposizione dei diritti, ma costituisce un fatto processuale che opera ai soli fini della delimitazione del “thema probandum” alla stregua di una c.d. “relevatio ab onere probandi”. Trattasi di principio che è destinato a convivere con altro orientamento secondo cui in sede di verifica del passivo la non contestazione del curatore non comporta l’automatica ammissione del credito allo stato passivo, competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove (così Sez. 6-1, n. 19734/2017, Di Marzio, Rv. 645689-01). Ciò è tanto vero che una sintesi dei due principi è stata compiuta da Sez. 1, n. 17731/2022, Terrusi, Rv. 665115-01, alla cui stregua il principio di non contestazione si applica anche al curatore fallimentare, quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, risultando perciò irrilevante la sua posizione di terzietà; tuttavia, tale principio deve necessariamente coordinarsi con i poteri del giudice delegato quanto al regime delle eccezioni rilevabili d’ufficio, sì che la non contestazione del curatore può non comportare l’automatica ammissione del credito allo stato passivo, attesa la competenza del giudice delegato a sollevare a sua volta, in via ufficiosa, eccezioni circa l’ammissibilità del credito. La S.C. ha, tuttavia, precisato che anche in tale prospettiva la posizione assunta dal curatore, in ordine ai fatti incidenti sull’ammissione del credito allo stato passivo, resta rilevante, poiché non può essere disattesa dal giudice delegato in via astratta e generalizzata, in assenza, cioè, di ulteriori fatti che impongano di formulare eccezioni ufficiose rispetto agli elementi che risultino già in possesso del curatore, o senza che tali elementi siano specificamente verificati, eventualmente nel contraddittorio delle parti. A testimonianza della ricorrenza di questa fattispecie cfr. altresì, Sez. 1, n. 19481/2022, Pazzi, Rv. 664971-01, la quale ha precisato, sempre in tema di opposizione allo stato passivo nella quale la curatela sia costituita, che con riguardo all’accertamento di pretese retributive di cui il ricorrente abbia fornito propri conteggi, mentre risulta irrilevante la non contestazione attinente all’interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione, rileva invece quella che ha ad oggetto i fatti da accertare nel processo.

Più in generale, sempre nel solco di un indirizzo consolidato, Sez. 3, n. 21403/2022, Guizzi, Rv. 665184-02, ha ritenuto che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. deve riguardare fatti storici sottesi a domande ed eccezioni e non può invece avere ad oggetto questioni che attengono allo svolgimento del processo, così confermando la sentenza impugnata che aveva escluso potesse essere provata per il tramite della non contestazione la mancata trasmissione al giudice d’appello del fascicolo di primo grado da parte della cancelleria del giudice “a quo”.

Di interesse anche Sez. 6-2, n. 27907/2022, Besso Marcheis, Rv. 665714-01, secondo cui il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. riguarda i fatti costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, ma non si applica alla stessa contestazione del fatto allegato, da considerarsi quale mera difesa (nel caso di specie, si è ritenuto che la contestazione della copertura assicurativa alla quale non aveva specificamente replicato l’attore non rendesse pacifica l’assenza di garanzia assicurativa circa il sinistro dedotto in giudizio dallo stesso attore).

Sez. 3, n. 25365/2022, Tatangelo, Rv. 665443-01, ha ulteriormente specificato – con particolare rilievo anche per l’applicazione temporale dell’onere di contestazione specifica – che in ipotesi di controversia instaurata nella vigenza dell’art. 167 c.p.c., come modificato dalla l. n. 353 del 1990, da medici specializzatisi anteriormente all’anno 1991/1992 per ottenere il risarcimento dei danni ad essi causati dal tardivo recepimento di direttive comunitarie, il sorgere, per l’amministrazione convenuta, dell’obbligo di contestazione specifica è collegato alla sola precisa allegazione dei fatti addotti dagli attori a sostegno della loro pretesa, non anche alla documentazione dei relativi presupposti soggettivi, sicché la limitazione della difesa della prima alla sola eccepita prescrizione comporta che, una volta disattesa quest’ultima, tali presupposti devono ritenersi provati.

In tema di delimitazione del principio, la più recente Sez. 5, n. 34450/2022, Gori, Rv. 666397-02, ha ritenuto che le conclusioni raggiunte in una perizia stragiudiziale, ritualmente depositata dalla parte nel processo, non possano formare oggetto di applicazione del principio di non contestazione, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., poiché esse non assurgono a fatto giuridico suscettibile di prova, ma costituiscono un mero elemento indiziario soggetto a doverosa valutazione da parte del giudice.

2. La consulenza tecnica d’ufficio.

In tema di consulenza tecnica d’ufficio occorre in primo luogo ricordare come il recente d.lgs. n. 149 del 2022 (c.d. Riforma Cartabia) preveda che l’udienza disposta per il giuramento del c.t.u. e l’affidamento dell’incarico possa essere sostituita dalla fissazione di un termine per il deposito di una dichiarazione sottoscritta dal consulente con firma digitale, recante il suo giuramento e che, con il medesimo provvedimento, il giudice conceda già i termini previsti dall’articolo 195, comma 3, per il deposito della bozza di relazione, il contraddittorio tecnico delle parti e, quindi, il deposito dell’elaborato definitivo. Si tratta, in buona sostanza, dell’idea di stabilizzare prescrizioni e prassi diffusesi sotto la spinta della normativa emergenziale intesa a contenere la diffusione del Covid-19 e che, sotto altro profilo, trovavano già positiva applicazione in materia di esecuzioni forzate (vds. art. 569 c.p.c. e 161 disp. att. c.p.c.). Tale possibilità è contemplata dalla Riforma attraverso la possibilità di sostituire l’udienza con il deposito di note scritte (così il nuovo art. 127 ter c.p.c.).

In tema di subprocedimento relativo alle operazioni di consulenza tecnica e rispetto del principio del contraddittorio, Sez. 1, n. 27773/2022, Acierno, Rv. 665644-01, ha ritenuto che le attività dell’ausiliario debbano essere espletate con la partecipazione di tutte le parti del processo, tenuto conto della necessità di rispettare il principio del contraddittorio nell’intero svolgimento delle operazioni peritali, con la conseguenza che, ove una delle parti sia stata privata della possibilità di parteciparvi, la consulenza deve ritenersi nulla, non potendo la lesione del diritto di difesa determinatasi durante le operazioni compiute dal consulente essere colmata con il successivo ascolto di una mera registrazione audio delle stesse. Con tale pronuncia la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in relazione ad una consulenza tecnica disposta per l’audizione del minore in un procedimento per la dichiarazione di adottabilità, svoltasi con la radicale esclusione della partecipazione alle operazioni del consulente e del legale di una delle parti, aveva ritenuto sufficiente la mera possibilità di ascolto successivo della registrazione audio del colloquio, pur potendosi adottare altre idonee misure atte a contemperare la riservatezza della coppia affidataria e la serenità del minore con il diritto di difesa spettante ai genitori biologici di quest’ultimo.

Fattispecie peculiare è stata trattata da Sez. 6-2, n. 03810/2022, Orilia, Rv. 663968-01, secondo cui la cd. inesistenza giuridica o la nullità radicale di un provvedimento avente contenuto decisorio, erroneamente emesso da un giudice carente di potere o dal contenuto abnorme, irriconoscibile come atto processuale di un determinato tipo, può essere fatta valere sia in ogni tempo, mediante un’azione di accertamento negativo, sia con i normali mezzi di impugnazione, stante l’interesse della parte ad una espressa rimozione dell’atto processuale efficace. In applicazione di detto principio la Corte ha cassato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso il provvedimento con cui il giudice, adito per una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis c.p.c.), si era pronunciato nel merito accertando l’inesistenza di una servitù e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

2.1. I poteri del c.t.u. di acquisire ulteriori elementi probatori.

Il tema della possibilità per il c.t.u. di acquisire ulteriori elementi di prova e documenti nel corso delle operazioni è da sempre oggetto di diverse interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali.

A seguito del rilevato contrasto, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite, che nel corso del 2022 si sono pronunciate con valenza nomofilattica. Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-05, ha infatti ritenuto che in materia di consulenza tecnica d’ufficio, l’accertamento di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, o l’acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti, è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso.

Al contrario, l’accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, che il consulente nominato dal giudice accerti nel rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice, viola il principio della domanda ed il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o, in difetto, di motivo di impugnazione da farsi valere ai sensi dell’art. 161 c.p.c. (Rv. 663786-06).

Diversamente, la stessa decisione ha ritenuto, in materia di esame contabile, ai sensi dell’art. 198 c.p.c., che il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se diretti provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni. (Rv. 663786-04).

Peraltro, la stessa pronuncia ha statuito che il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti - non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio. (Rv. 663786-03).

Sulla scia di tale arresto si pone Sez. 6-3, n. 25604/2022, Scrima, Rv. 665450-01, secondo cui il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti - non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la statuizione di merito riguardante l’inammissibilità della richiesta del c.t.u. di acquisire il CD della risonanza magnetica nucleare e il relativo referto medico - documenti dai quali risultavano i danni oggetto della domanda di risarcimento - in quanto diretti a provare fatti principali dedotti a fondamento della pretesa risarcitoria).

Anche Sez. 3, n. 17916/2022, Vincenti, Rv. 665018-01, si è espressa al riguardo, ritenendo che l’acquisizione, ad opera del consulente, di documenti diretti a provare i fatti principali, dedotti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni, che è onere solo delle parti provare, è sanzionata da nullità relativa ex art. 157 c.p.c., rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso. Affermando tale principio, peraltro, la S.C. ha cassato la sentenza d’appello che, in assenza di tempestiva eccezione ex art. 157, comma 2, c.p.c., aveva rilevato d’ufficio la nullità della c.t.u., per avere il consulente acquisito, oltre i termini delle preclusioni istruttorie, nuova documentazione necessaria a provare fatti principali, che, pur dedotti tempestivamente dalle parti, non erano stati da queste tempestivamente provati.

Più recentemente, Sez. 3, n. 32935/2022, Ambrosi, Rv. 666142-01, ha nuovamente affermato la facoltà del consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, di poter acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti - non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico - tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio. (La S.C. nel caso specifico ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimamente acquisito un referto medico, benché il c.t.u. fosse stato autorizzato all’acquisizione, presso strutture pubbliche e private, della documentazione riguardante il danneggiato, e nonostante tale referto fosse stato ritenuto dal giudice di primo grado indispensabile ai fini dell’integrale quantificazione del danno biologico, a mezzo di un supplemento peritale).

Il profilo di indagine è stato distinto con riferimento all’esame contabile, previsto dall’art. 198 c.p.c. da Sez. 1, n. 34600/2022, Falabella, Rv. 666177-01, precisando che in tale ambito il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se diretti provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni. (Principio affermato in un giudizio di ripetizione dell’indebito proposto dal correntista, ritenendo che il consulente d’ufficio possa procedere all’acquisizione degli estratti conto relativi al rapporto che le parti abbiano mancato di produrre).

2.2. La contestazione della consulenza e la sua valutazione.

Il tema delle contestazioni che è possibile svolgere alla consulenza tecnica d’ufficio e, in particolare, delle modalità con cui tali contestazioni possono essere ritualmente veicolate nel processo, è stato affrontato nel corso dell’anno da un’ulteriore pronuncia a Sezioni Unite. Sez. U, n. 05624/2022, Scrima, Rv. 664033-03, ha infatti affermato che qualora le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio, non integranti eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., siano stati proposti oltre i termini concessi all’uopo alle parti e, quindi, anche per la prima volta in comparsa conclusionale o in appello, il giudice può valutare, alla luce delle specifiche circostanze del caso, se tale comportamento sia stato o meno contrario al dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. e, in caso di esito positivo di tale valutazione, trattandosi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost. e, in applicazione dell’art. 92, comma 1, ultima parte c.p.c., può tenerne conto nella regolamentazione delle spese di lite. La stessa decisione ha altresì affermato che il secondo termine previsto dall’ultimo comma dell’art. 195, c.p.c., così come modificato dalla l. n. 69 del 2009, ovvero l’analogo termine che, nei procedimenti cui non si applica, “ratione temporis”, il novellato art. 195 c.p.c., il giudice, sulla base dei suoi generali poteri di organizzazione e direzione del processo ex art. 175 c.p.c., abbia concesso alle parti, ha natura ordinatoria e funzione acceleratoria e svolge ed esaurisce la sua funzione nel subprocedimento che si conclude con il deposito della relazione da parte dell’ausiliare; pertanto, la mancata prospettazione al consulente tecnico di osservazioni e rilievi critici non preclude alla parte di sollevare tali osservazioni e rilievi, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., nel successivo corso del giudizio e, quindi, anche in comparsa conclusionale o in appello.

Inoltre, si è ritenuto che le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene di carattere non tecnico-giuridico, che possono essere formulate per la prima volta nella comparsa conclusionale e anche in appello, purché non introducano nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove ma si riferiscano all’attendibilità e alla valutazione delle risultanze della c.t.u. e siano volte a sollecitare il potere valutativo del giudice in relazione a tale mezzo istruttorio.

Sez. 3, n. 25823/2022, Cricenti, Rv. 665615-01, ha invece ritenuto che le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio che si riferiscano all’attendibilità e alla valutazione delle risultanze della predetta consulenza non possono essere formulate per la prima volta nella memoria di replica nell’ambito del giudizio di primo grado, con la conseguenza che, se vi vengano introdotte, il giudice le può ignorare senza che la sentenza sia ingiusta, ferma la possibilità per la parte di ribadire - ovvero riproporre con una consulenza tecnica di parte - le contestazioni in questione in grado di appello, senza incorrere nelle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c. nella versione “ratione temporis” applicabile.

In tema di valutazione dell’elaborato depositato dal c.t.u., Sez. 3, n. 15733/2022, Dell’Utri, Rv. 665015-02, ha ritenuto che l’omesso esame, da parte del giudice di merito che recepisca le conclusioni di una consulenza tecnica d’ufficio in materia medico-legale, dei rilievi contenuti in una consulenza tecnica di parte e trascurati dal consulente tecnico d’ufficio, in tanto rileva come vizio di omessa motivazione, denunciabile in cassazione, in quanto la parte ne indichi, con riferimento a serie e documentate argomentazioni medico-legali, la decisività, ossia l’incidenza sulla valutazione della sussistenza o meno di un determinato stato patologico.

Correlativamente, Sez. 1, n. 08584/2022, Scotti, Rv. 664367-01, muovendosi sul piano della contestazione della consulenza in sede di legittimità, ha affermato che l’art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, consente di censurare l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nozione nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio recepita dal giudice, risolvendosi la critica che ad essa nell’esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio.

In tema di valutazione della consulenza da parte del giudice d’appello, in una fattispecie particolare, Sez. 6-3, n. 10164/2022, Guizzi, Rv. 664467-01, ha ritenuto che la mancata acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., non determini di per sé un vizio del procedimento o la nullità della sentenza di secondo grado, potendo, al più, integrare il vizio di difetto di motivazione per omessa consultazione di un documento che in tale fascicolo era presente, purché venga dimostrato, anche avvalendosi della facoltà di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti presenti nei fascicoli delle controparti ai sensi dell’art. 76, disp. att., c.p.c., che il giudice d’appello non abbia tratto “aliunde” la conoscenza del contenuto di tale documento. Sulla scorta di detto principio, la S.C. ha ritenuto infondato il lamentato difetto di motivazione della sentenza di secondo grado, non potendosi escludere che, nonostante la mancata acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado, il giudice d’appello avesse reperito nei fascicoli delle parti una copia della consulenza tecnica d’ufficio precedentemente espletata ed infatti menzionata nella decisione.

Più in generale, Sez. 1, n. 33742 /2022, Abete, Rv. 666237-01, ha ritenuto che il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento; pertanto egli non è tenuto necessariamente a soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive.

2.3. La liquidazione del compenso del c.t.u.

Il tema è stato solo incidentalmente affrontato da Sez. 6-2, n. 04291/2022, Giannaccari, Rv. 663969-01, la quale ha ritenuto che nel giudizio penale le spese di consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, ove non poste a carico dell’eventuale condannato in via definitiva, restano a carico dell’erario, con la conseguenza che nel procedimento di opposizione, ex artt. 84 e 170 del d.p.r. 30 maggio 2002 n. 115, il Ministero della Giustizia è litisconsorte necessario, trattandosi di soggetto esposto all’obbligo di sopportare l’onere economico del compenso.

In precedenza il tema era stato affrontato funditus da Sez. 2, n. 28309/2020, Tedesco, Rv. 659742-01, secondo cui in tema di condanna alle spese processuali e con riferimento agli esborsi sostenuti dalle parti per consulenze, la mancata determinazione nella sentenza del compenso spettante al consulente tecnico d’ufficio integra un mero errore materiale per omissione, suscettibile di correzione da parte del giudice d’appello con riferimento all’importo della liquidazione effettuata in favore del consulente.

2.4. La consulenza di parte.

Il tema è stato affrontato nell’anno in oggetto con riferimento alla connessa problematica delle spese di giudizio.

Sez. 3, n. 21402 /2022, Guizzi, Rv. 665209-04, ha così statuito che in tema di spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, non è possibile disporre la condanna del soccombente al pagamento delle stesse in mancanza di prova dell’esborso sopportato dalla parte vittoriosa, dovendosi escludere che l’assunzione dell’obbligazione sia sufficiente a dimostrare il pagamento.

Più in generale, invece, Sez. 2, n. 01614/2022, Orilia, Rv. 663635-01, ha ritenuto che la consulenza di parte costituisce una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio, la cui produzione, regolata dalle norme che disciplinano tali atti e perciò sottratta al divieto di cui all’art. 345 c.p.c., deve ritenersi consentita anche in appello.

Ma in materia medico-legale la già citata, Sez. 3, n. 15733/2022, Dell’Utri, Rv. 665015-02, ha ritenuto che l’omesso esame, da parte del giudice di merito, in materia medico-legale, dei rilievi contenuti in una consulenza tecnica di parte e trascurati dal consulente tecnico d’ufficio, può rilevare come vizio di omessa motivazione, denunciabile in cassazione, in quanto la parte ne indichi, con riferimento a serie e documentate argomentazioni medico-legali, la decisività, ossia l’incidenza sulla valutazione della sussistenza o meno di un determinato stato patologico.

Anche le decisioni già citate, n. 34450/2022 e n. 33742/2022, con riferimento specifico al principio di non contestazione o all’onere di motivazione del giudice di merito, hanno ricondotto le affermazioni del consulente tecnico di parte al rango di deduzioni difensive.

3. L’ordine di esibizione.

L’ordine di esibizione è disciplinato dagli artt. 210 e ss. c.p.c. come un provvedimento istruttorio emesso dal giudice quando è indispensabile acquisire al processo un documento che si trova nella disponibilità dell’altra parte rispetto a quella che ne richiede l’acquisizione o di un terzo. Il d.lgs. n. 149 del 2022, già citato, riformula il terzo comma dell’art. 210 c.p.c. al fine di dare maggiore effettività a tale ordine e, prevedendo una sanzione pecuniaria, indurre indirettamente al suo maggiore rispetto. La nuova norma prevede, pertanto, che “Se la parte non adempie senza giustificato motivo all’ordine di esibizione, il giudice la condanna a una pena pecuniaria da euro 500 a euro 3.000 e può da questo comportamento desumere argomenti di prova a norma dell’articolo 116, secondo comma. Se non adempie il terzo, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 a euro 1.500”.

Si tratta di un istituto che continua a trovare motivo di approfondimento da parte della S.C., in particolare nell’ambito del contenzioso bancario.

Da ultimo Sez. 1, n. 23861/2022, Catallozzi, Rv. 665524-01, ha ritenuto che il diritto del cliente di ottenere, ex art. 119, comma 4, d.lgs. n. 385 del 1993, la consegna di copia della documentazione relativa alle operazioni dell’ultimo decennio può essere esercitato, nei confronti della banca inadempiente, attraverso un’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. nel corso di un giudizio, a condizione che la documentazione invocata sia stata precedentemente fatta oggetto di richiesta - non necessariamente stragiudiziale - e siano decorsi novanta giorni senza che l’istituto di credito abbia proceduto alla relativa consegna.

In altre ipotesi l’ordine di esibizione viene in rilievo quando la documentazione sulla scorta della quale determinare la prestazione dovuta ad uno dei contraenti sia detenuta o predisposta dalla controparte, come avviene ad esempio nell’ambito dei rapporti di agenzia. Sez. 2, n. 17575/2022, Dongiacomo, Rv. 664895-01, ha al riguardo ritenuto che in tale ambito, nel giudizio di accertamento del diritto alla provvigione, l’agente - al quale l’art. 1748 c.c., nel testo modificato dall’art. 2 d.lgs. n. 303 del 1991 riconosce il diritto di esigere tutte le informazioni necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate - ha l’onere di provare che gli affari da lui promossi sono andati a buon fine o che il mancato pagamento sia dovuto a fatto imputabile al preponente, cosicché, qualora quest’ultimo non gli abbia trasmesso i dati e le informazioni necessarie per esercitare i suoi diritti di credito quantificando esattamente negli atti di causa le sue spettanze, il giudice deve, su istanza di parte, emanare nei confronti del preponente l’ordine di esibizione delle scritture contabili ex art. 210 c.p.c.

4. La richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione.

L’art. 213 c.p.c. dispone che, al di fuori dei casi previsti dagli artt. 201 e 211 c.p.c. – riguardanti l’ordine di esibizione già visto –, il giudice può anche richiedere d’ufficio alla pubblica amministrazione informazioni scritte, riguardanti atti e documenti della stessa, di cui è necessaria l’acquisizione al processo. Trattasi peraltro di un potere del giudice il cui esercizio, secondo un consolidato orientamento, rappresenta una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il mancato ricorso alla quale non è censurabile in sede di legittimità (cfr. ex multiis, Sez. 3, n. 34158/2019, Iannello, Rv. 656335-03).

Anche a questo riguardo, allo scopo di conferire maggiore speditezza al processo e rendere più effettiva l’ottemperanza della pubblica amministrazione alla richiesta giudiziale, vi è stato un piccolo intervento da parte del legislatore della Riforma. Infatti, il d.lgs. n. 149 del 2022 prevede l’introduzione di un nuovo secondo comma, alla cui stregua “l’amministrazione entro sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di cui al primo comma trasmette le informazioni richieste o comunica le ragioni del diniego”.

Peraltro, non risultano nel corrente anno applicazioni massimate dell’istituto disciplinato dall’art. 213 c.p.c. (oltre che da talune disposizioni specifiche in tema di acquisizione di informazione o documenti dalla pubblica amministrazione, prima fra tutte le disposizioni in tema di procedimento amministrativo, ex l. 241/90). Proprio questo profilo, in uno con le sue relazioni con il diritto alla riservatezza dei soggetti i cui dati siano trattati dalla pubblica amministrazione, è stato tuttavia oggetto di un intervento della Consulta, la quale ha ritenuto che debbono considerarsi inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 8, l. 3 agosto 2007, n. 124, censurato per violazione degli artt. 3, 24, comma 2, 103, comma 2, e 111 Cost., in quanto stabilisce che, qualora l’autorità giudiziaria ordini l’esibizione di documenti classificati per i quali non sia opposto il segreto di Stato, gli atti sono consegnati all’autorità giudiziaria richiedente, che ne cura la conservazione con modalità che ne tutelino la riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia. Secondo la decisione il rimettente non aveva illustrato la ragione per la quale la pronuncia sulle questioni di legittimità costituzionale risulterebbe pregiudiziale per la definizione del processo principale ed aveva omesso di ricostruire la cornice normativa e giurisprudenziale di riferimento, compromettendo irrimediabilmente l’iter logico argomentativo posto a fondamento delle valutazioni dello stesso rimettente sulla rilevanza (Corte costituzionale, sentenza n. 258 del 24/12/2021).

5. Il disconoscimento di scritture private.

In ordine agli effetti del disconoscimento, la S.C. ha compiuto nell’anno in rassegna una precisazione importante, stabilendo che qualora una scrittura privata sia prodotta in giudizio dalla medesima parte che deduce la non autenticità della propria apparente sottoscrizione non trovano applicazione gli articoli 214 e 215 c.p.c., i quali postulano, al pari dell’art. 2702 c.c., che il documento del quale si alleghi la falsità della firma sia stato prodotto in giudizio dall’altra parte, e non dall’apparente sottoscrittore (Sez. 1, n. 27362/2022, Campese, Rv. 665882-01).

Sez. 3, n. 27381/2022, Guizzi, Rv. 665929-01, ha ritenuto che l’autenticità della sottoscrizione possa essere contestata mediante il disconoscimento ex art. 214 c.p.c., anche in caso di opposizione a precetto fondato su assegno bancario (con conseguente onere del creditore opposto che intenda valersi del titolo esecutivo stragiudiziale di chiederne la verificazione ai sensi dell’art. 216 c.p.c.), senza che ciò sovverta le regole sull’onere probatorio applicabili a tale giudizio, trattandosi dell’ordinario strumento processuale idoneo a contrastare l’apparenza dell’esecutività del titolo, fondata sulla genuinità della detta sottoscrizione, contestata dal suo supposto autore.

Nel corso dell’anno in esame, Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-01, ha precisato che la mancata proposizione dell’istanza di verificazione, al pari della successiva rinuncia alla stessa, privando il documento disconosciuto di ogni inferenza probatoria, ne preclude al giudice la valutazione ai fini della formazione del proprio convincimento, senza che gli sia consentito maturare altrimenti il giudizio sulla sua autenticità in base ad elementi estrinseci alla scrittura o ad argomenti logici, divenendo perciò il documento irrilevante, e non utilizzabile, nei riguardi non solo della parte che lo disconosce, ma anche, e segnatamente, della parte che lo ha prodotto. Affermando tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la Corte d’appello aveva ritenuto utilizzabili le risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio grafologica, malgrado l’intervenuta rinuncia della parte all’istanza di verificazione sui documenti contabili che erano stati oggetto di disconoscimento.

Nello stesso senso anche Sez. 6-5, n. 02397/2022, Cataldi, Rv. 663665-01, secondo cui, con riferimento al processo tributario, in forza del rinvio operato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 alle norme del codice di procedura civile, trova applicazione l’istituto di cui all’art. 214 c.p.c. e segg., con la conseguenza che, una volta avvenuto il disconoscimento della scrittura privata prodotta in giudizio, ove non sia raggiunta la prova della sua provenienza dalla parte che l’ha disconosciuta, il documento è inutilizzabile ai fini della decisione anche quale fonte di indizi, potendo, peraltro, la parte interessata dare prova del suo contenuto con i mezzi ordinari, nei limiti della loro ammissibilità.

5.1. Le modalità di disconoscimento.

Secondo Sez. 3, n. 07340/2022, Moscarini, Rv. 664247-01, in caso di disconoscimento della sottoscrizione di scrittura privata prodotta in copia, la proposizione dell’istanza di verificazione non impedisce di far valere, dopo l’acquisizione in giudizio dell’originale del documento, il mancato rispetto dell’onere di reiterare il disconoscimento con riferimento all’originale, non potendosi configurare una rinuncia tacita ad eccepire una decadenza prima che questa si sia verificata. Sulla scorta di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo nel quale l’opponente aveva disconosciuto la copia del documento, aveva ritenuto fondata, indipendentemente dalla precedente istanza di verificazione, l’eccezione di decadenza sollevata dall’opposto con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. e, cioè, dopo la produzione, con la comparsa di costituzione, dell’originale della scrittura privata già disconosciuta in copia e la mancata reiterazione del disconoscimento entro la prima udienza di trattazione, momento in cui è stato ritenuto si fosse verificata la predetta decadenza.

5.2. Verificazione ed istruttoria.

In tema occorre ricordare la recente Sez. 6-2, n. 32169/2022, Besso Marcheis, Rv. 666161-01, secondo cui l’istanza di verificazione della scrittura privata disconosciuta può essere anche implicita, come quando si insista per l’accoglimento di una pretesa che presuppone l’autenticità del documento e non esige la formale apertura di un procedimento incidentale, né l’assunzione di specifiche prove, quando gli elementi già acquisiti o la situazione processuale siano ritenuti sufficienti per una pronuncia al riguardo.

In termini più generali, sulla possibilità di acquisire nuove prove o documenti nell’ulteriore corso del giudizio, Sez. 6-3, n. 27736/2022, Scrima, Rv. 665728-01, ha ritenuto che nel giudizio di rinvio, configurato dall’art. 394 c.p.c. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente “chiusa”, é preclusa l’acquisizione di nuove prove e segnatamente la produzione di nuovi documenti, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, nell’ambito di un giudizio di risarcimento del danno da emotrasfusioni, aveva dichiarato inammissibile la produzione, in seno al giudizio di rinvio, della documentazione relativa alla liquidazione dell’indennizzo ex l. n. 210 del 1992, non avendo la parte neppure allegato la ricorrenza di ragioni idonee a giustificare la deroga al suddetto divieto). Peraltro, Sez. 2, n. 07977/2022, Criscuolo, Rv. 664235-01, ha ritenuto che in tema di ammissibilità di nuovi mezzi di prova in grado d’appello, deve escludersi che dal vigente regime processuale possa ricavarsi un onere della parte, sancito a pena di decadenza, di produrre nel giudizio di primo grado gli eventuali documenti probatori che si siano formati dopo lo spirare del termine assegnato dal giudice per la deduzione dei mezzi istruttori ma prima del passaggio della causa in decisione; ne consegue che i documenti formatisi dopo il maturare delle preclusioni istruttorie vanno annoverati fra i nuovi mezzi di prova, ammissibili in grado d’appello, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., ancorché la parte abbia avuto la possibilità di acquisirli in data anteriore alla spedizione della causa di primo grado a sentenza, fatta soltanto salva, in tale ipotesi, la possibilità, per il giudice del gravame, di applicare il disposto dell’art. 92 c.p.c.

Quando siano coinvolti diritti della persona in un procedimento di natura sommaria e camerale, si è però ritenuto (così Sez. 1, n. 17931/2022, Terrusi, Rv. 665217-01) che il procedimento di reclamo avverso il decreto del giudice tutelare sull’apertura dell’amministrazione di sostegno è disciplinato dall’art. 739 c.p.c. e si connota per la sommarietà della cognizione e la semplicità delle forme; ciò comporta l’esclusione della piena applicazione delle norme che regolano il processo ordinario, dovendo, in particolare, ritenersi ammissibile l’acquisizione di nuovi mezzi di prova, in specie di documenti, alla sola condizione che sia assicurato – come in tutte le procedure soggette al rito camerale - un pieno e completo contraddittorio tra le parti.

5.3. Il disconoscimento delle riproduzioni.

In tema, si segnala Sez. 5, n. 01324/2022, D’Angiolella, Rv. 663748-01, secondo cui in tema di prova documentale, il disconoscimento, ai sensi dell’art. 2719 c.c., della conformità tra una scrittura privata e la copia fotostatica, prodotta in giudizio non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata, previsto dall’art. 215, comma 1, n. 2, c.p.c., in quanto, mentre quest’ultimo, in mancanza di verificazione, preclude l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c. non impedisce al giudice di accertare la conformità della copia all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.

Anche Sez. 3, n. 13519/2022, Gorgoni, Rv. 664559-01, ha ritenuto che in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni fotografiche, il disconoscimento delle fotografie non produce gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’art. 215, comma 2, c.p.c., perché mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.

Sul tema del disconoscimento delle copie e rispetto dell’art. 345, comma 3, c.p.c., si è pronunciata recentemente Sez. 3, n. 34025/2022, Rossello, Rv. 666152-01, alla cui stregua la produzione in grado d’appello dell’originale del documento già prodotto semplicemente in copia nel giudizio di primo grado, incorre nel divieto di nuovi documenti di cui alla norma citata. Il caso aveva però riguardo ad una copia di una scrittura privata (sostanzialmente un “pactum de non petendo” relativo ad un canone di locazione) che era stata contestata nella sua conformità all’originale e che in mancanza di produzione di quest’ultimo era stata quindi sottoposta ad una consulenza tecnica d’ufficio.

6. La querela di falso.

Nella riforma del processo civile, di imminente entrata in vigore, si prevede che la trattazione della querela di falso non sia più affidata al collegio, bensì al tribunale in composizione monocratica.

Al di là di tale profilo di novità, i principali interventi del S.C. nell’anno appena trascorso hanno riguardato la tematica dell’individuazione degli scritti (o delle parti di essi) aventi “fede privilegiata” rispetto ai quali, cioè, sia necessaria la proposizione della querela di falso, in via principale od incidentale: Sez. 6-3, n. 31107/2022, Dell’Utri, Rv. 666071-01, ha ritenuto infatti che le attestazioni contenute nel verbale di accertamento delle infrazioni al codice della strada fanno piena prova, fino a querela di falso, con riguardo all’avvenuto accadimento dei fatti e delle dichiarazioni ricevute alla presenza del pubblico ufficiale, non estendendosi la fede privilegiata all’intrinseca veridicità del contenuto delle informazioni in tal modo apprese (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto assistito da fede privilegiata l’indirizzo di una persona coinvolta in un incidente stradale, indicato nel relativo verbale, nonostante la notizia dello stesso fosse stata tratta dalle dichiarazioni della persona medesima, o comunque dalla consultazione di documenti in possesso dell’autorità). Sez. 6-3, n. 27288/2022, Guizzi, Rv. 665724-01, ha invece precisato che il referto del pronto soccorso di una struttura ospedaliera pubblica è atto pubblico assistito da fede privilegiata e, come tale, fa piena prova sino a querela di falso della provenienza dal pubblico ufficiale che lo ha formato, delle dichiarazioni rese al medesimo, e degli altri fatti da questi compiuti o che questi attesti avvenuti in sua presenza restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse.

Anche Sez. 1, n. 35649/2022, Reggiani, Rv. 666244-01, al fine di delimitare gli scritti nei confronti dei quali sia proponibile la querela di falso ha precisato che la stessa deve ritenersi inammissibile ove riguardante una pretesa falsità ideologica contenuta nella scrittura privata od ove concerna scritti provenienti da terzi, trattandosi in questo secondo caso generalmente di prove atipiche di valore puramente indiziario, che la querela di falso è ammissibile contro tali scritti soltanto eccezionalmente, quando abbiano un contenuto intrinseco particolarmente attendibile (su punto richiamando l’insegnamento di Cass. S.U. n. n. 15169/2010).

Sez. 3, n. 25885/2022, Rossetti, Rv. 665620-01, ha affermato che in tema di notifica ex art. 140 c.p.c., la dichiarazione con la quale l’ufficiale giudiziario o quello postale dichiari di non avere trovato nessuno all’indirizzo del destinatario non costituisce attestazione dotata di pubblica fede, ma mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo di prova e senza necessità di impugnazione con querela di falso, che in quel luogo si trovi la residenza effettiva del notificando o la sua dimora o il domicilio, sicché compete al giudice del merito, in caso di contestazione, compiere tale accertamento in base all’esame ed alla valutazione delle prove fornite dalle parti, ai fini della pronuncia sulla validità ed efficacia della notificazione.

Sez. 2, n. 25646/2022, Tedesco, Rv. 665591-01, ha ritenuto che l’atto notorio faccia fede, fino a querela di falso, solo con riferimento all’attestazione dell’ufficiale rogante di aver ricevuto le dichiarazioni in esso contenute dai soggetti indicati, previa loro identificazione, mentre, in relazione al contenuto delle dichiarazioni, esso ha un’efficacia meramente indiziaria, salvo che la legge preveda diversamente, sicché l’atto notorio, diversamente dalla dichiarazione sostitutiva, non può contenere una confessione stragiudiziale liberamente valutabile ex art. 2735 c.c.

Sez. 2, n. 05091/2022, Criscuolo, Rv. 664201-01, ha statuito che quando l’erede in forza di un testamento olografo agisca per far dichiarare che quello successivo, che istituisce erede il convenuto, è stato alterato nella data da terzi, si è fuori della previsione dell’art. 602, comma 3, c.c., che riguarda i casi in cui è consentita la prova della non corrispondenza della data apposta dal testatore a quella del giorno di redazione della scheda, mentre l’alterazione della data da parte di terzi può essere fatta valere soltanto per mezzo della querela di falso il cui onere probatorio, in mancanza di altri elementi di prova, ben può essere assolto mediante le sole presunzioni. Affermando tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto contraffatta la data di un testamento che era invece anteriore rispetto a quella risultante dalla contraffazione e, quindi, antecedente a quelle di altre due schede testamentarie favorevoli agli eredi che avevano proposto querela di falso.

Sez. 2, n. 05893/2022, La Battaglia, Rv. 663955-01, ha ritenuto che la sottoscrizione apposta dal cancelliere, a norma dell’art. 74 disp. att. c.p.c., abbia valore di certificazione della effettiva presenza nel fascicolo di parte dei documenti indicati nell’indice e possa, pertanto, essere contestata solo con la proposizione della querela di falso.

Sui profili processuali si segnala Sez. 2, n. 24832/2022, Falaschi, Rv. 665456-01, per la quale la rinuncia all’appello, in relazione alla querela di falso proposta nei confronti del pubblico ufficiale incaricato della redazione dell’inventario di eredità e di altro soggetto estraneo al “munus” pubblico, ove effettuata solo nei confronti di quest’ultimo, non comporta il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, atteso che la responsabilità della redazione dell’inventario appartiene al pubblico ufficiale, e non anche al soggetto estraneo che abbia partecipato alle relative operazioni. Sez. 2, n. 24843/2022, Carrato, Rv. 665565-01, ha invece precisato che nel giudizio promosso con querela di falso in via principale, costituisce domanda nuova, per novità del “petitum”, la richiesta di accertamento della falsità di un documento ulteriore e diverso rispetto a quelli in relazione ai quali la domanda è stata inizialmente introdotta, ancorché tale documento abbia pur esso rilevanza nel diverso processo nel corso del quale è stato esibito.

Di particolare rilievo, nella fase successiva all’ammissione della querela, l’estensione del contraddittorio al pubblico ministero. Secondo Sez. 3, n. 15142/2022, Guizzi, Rv. 664827-01, infatti, una volta intervenuta l’autorizzazione ex art. 222 c.p.c., l’omessa comunicazione al P.M. della pendenza del relativo procedimento ne determina la nullità, rilevabile d’ufficio, anche qualora lo stesso si concluda con la declaratoria di inammissibilità della querela, dal momento che, all’esito del vaglio preliminare, risulta ormai coinvolto il generale interesse all’intangibilità della fede pubblica dell’atto che l’organo requirente è chiamato a tutelare.

Per Sez. L, n. 12453/2022, Cavallaro, Rv. 664601-01, in caso di proposizione di querela di falso, non può essere dichiarata l’inammissibilità dell’appello, ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., in quanto, trattandosi di causa in cui è obbligatorio l’intervento del P.M., tale declaratoria è preclusa dalla lettera dell’art. 348-bis c.p.c.; tale esclusione, che vale anche nelle ipotesi in cui il giudice dichiari la querela inammissibile, ritenendo integrata un’ipotesi di riempimento del foglio non “absque”, ma “contra pacta”, non opera ove la querela venga ritenuta nulla per mancata indicazione degli elementi e delle prove della falsità del documento, non sussistendo in tal caso l’obbligo di intervento del P.M.

7. La confessione.

In tema, la già citata Sez. 2, n. 25646/2022, Tedesco, Rv. 665591-01, ha ritenuto che l’atto notorio faccia fede, fino a querela di falso, solo con riferimento all’attestazione dell’ufficiale rogante di aver ricevuto le dichiarazioni in esso contenute dai soggetti indicati, previa loro identificazione, mentre, in relazione al contenuto delle dichiarazioni, esso ha un’efficacia meramente indiziaria, salvo che la legge preveda diversamente, sicché l’atto notorio, diversamente dalla dichiarazione sostitutiva, non può contenere una confessione stragiudiziale liberamente valutabile ex art. 2735 c.c.

Sez. 6-3, n. 19283/2022, Cirillo, Rv. 665204-01, ha rilevato che la quietanza, quale dichiarazione di scienza del creditore assimilabile alla confessione stragiudiziale del ricevuto pagamento, può essere superata dall’opposta confessione giudiziale del debitore, che ammetta, nell’interrogatorio formale, di non aver corrisposto la somma quietanzata, dal momento che l’art. 2726 c.c. limita, quanto al fatto del pagamento, la prova per testimoni e per presunzioni, non anche la prova per confessione. (Nella specie, la S.C. ha confermato una decisione di merito che aveva ritenuto la quietanza di pagamento superata dalla confessione del debitore convenuto, tratta non da una dichiarazione contra se del confitente, bensì dalla mancata risposta all’interrogatorio formale, in applicazione dell’art. 232 c.p.c.).

Sulla distinzione fra confessione e semplici ammissioni di carattere indiziario, Sez. 1, n. 15248/2022, Falabella, Rv. 664773-01, ha ritenuto che le ammissioni delle parti in ordine a diritti indisponibili ed in cause aventi ad oggetto diritti familiari non possono assumere valore di confessione in senso stretto e, quindi, di prova legale. Ciò non esclude, tuttavia, che il Giudice possa utilizzare dette ammissioni quali presunzioni ed indizi liberamente valutabili in unione con altri elementi probatori.

Sez. 2, n. 10933/2022. Fortunato, Rv. 664375-01, ha invece chiarito che in tema di simulazione relativa oggettiva, ai fini della prova del contratto dissimulato che avrebbe dovuto rivestire forma scritta “ad substantiam”, deve escludersi che la confessione possa supplire alla mancanza del requisito formale rappresentato dalla controdichiarazione scritta, necessaria per il contratto diverso da quello apparentemente voluto. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte territoriale che, sulla base della confessione della parte, aveva ritenuto provata la dissimulazione di una datio in solutum immobiliare di cui non vi erano gli elementi nel contratto di compravendita immobiliare asseritamente simulato).

Ancora sul tema delle interrelazioni fra questa prova civile e i casi in cui la forma scritta è richiesta “ad substantiam”, Sez. 1, n. 02091/2022, Tricomi, Rv. 663945-02, ha ritenuto che in tema di ricognizione di debito, ove l’atto ricognitivo provenga da una pubblica amministrazione, lo stesso richiede la forma scritta “ad substantiam” e la prova della sua esistenza e del suo contenuto non può essere fornita né attraverso la confessione, né mediante la testimonianza.

L’istituto è stato dibattuto anche in tema di procedure concorsuali, ove Sez. 1, n. 08130/2022, Ceniccola, Rv. 664360-01, ha ritenuto che il commissario liquidatore della procedura di liquidazione coatta amministrativa non ha la capacità di disporre dei diritti dell’impresa, sicché, ai sensi dell’art. 2731 c.c., alle dichiarazioni da lui rese in sede giudiziale non può attribuirsi il valore di ammissione di fatti di natura confessoria. (Nel caso di specie è stato confermato il decreto reiettivo di ammissione del credito allo stato passivo in conseguenza del mancato deposito degli atti di erogazione e quietanza, “deficit” probatorio non superabile dalla circostanza che il commissario, nelle sue conclusioni, pur dando atto della mancata produzione documentale, aveva rimesso al tribunale la decisione sull’effettiva debenza della somma).

Collegata a tale principio anche Sez. 6-1, n. 38975/2021, Falabella, Rv. 663537-01, secondo cui il curatore fallimentare che deduce in giudizio la simulazione della quietanza rilasciata dal fallito “in bonis” rappresenta la massa dei creditori, e non il fallito, sicché tale quietanza non vale, nei confronti del fallimento, come confessione stragiudiziale dell’avvenuto pagamento. (Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso contro la decisione di merito che aveva negato l’efficacia prevista dall’art. 2735 c.c. alla dichiarazione contenuta in un contratto preliminare di compravendita, con la quale la società fallita, prima ancora del fallimento, aveva dato atto dell’avvenuto pagamento del prezzo).

Sez. 6-2, n. 03118/2022, Dongiacomo, Rv. 663932-01, ha ritenuto che la confessione giudiziale, resa in un processo con pluralità di parti, produce effetti nei confronti della parte che la fa e di quella che la provoca, ma non acquisisce valore di prova legale nei confronti di persone diverse dal confitente, non avendo questi alcun potere di disposizione relativamente a situazioni facenti capo ad altri, distinti soggetti del rapporto processuale, nei confronti dei quali, tuttavia, può assumere, secondo il prudente apprezzamento del giudice, valore di elemento indiziario di giudizio.

Sui rapporti fra confessione ed interrogatorio formale, quando al suo deferimento non abbia fatto seguito la comparizione dell’interrogando, rileva Sez. 6-3, n. 41643 /2021, Iannello, Rv. 663732-01, secondo cui l’art. 232 c.p.c. non ricollega automaticamente alla mancata risposta all’interrogatorio, per quanto ingiustificata, l’effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova; ne consegue che, qualora nella sentenza difetti una valutazione complessiva e sintetica dei vari elementi di prova acquisiti, anche rispetto alla direzione logico-inferenziale prefigurata dalla mancata risposta, si prospetta il vizio di omessa motivazione, denunciabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

8. La prova testimoniale.

In tema di prova testimoniale, Sez. 6-3, n. 27286/2022, Cirillo, Rv. 665723-01, ha ritenuto che il giudice d’appello possa disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni senza necessità d’istanza di parte poiché il potere di rinnovazione, proprio anche del giudizio di appello per il combinato disposto degli artt. 257 e 359 c.p.c., è discrezionale ed esercitabile anche d’ufficio dal giudice, cui spetta il completo riesame delle risultanze processuali, compresa l’attività necessaria per il chiarimento delle stesse, nei limiti del “devolutum” e dell’“appellatum”. (Nella fattispecie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che, in presenza di una prova testimoniale assunta in primo grado, e verbalizzata in modo così sintetico da impedire la chiara percezione del contenuto delle deposizioni testimoniali, aveva ritenuto di non poterne disporre la rinnovazione officiosa in assenza di istanza di parte).

Secondo Sez. 3, n. 07179 /2022, Scarano, Rv. 664196-01, in tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del “pactum fiduciae” è sottratta ai limiti previsti dagli artt. 2721 e ss. c.c. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, onde realizzare uno scopo ulteriore in rapporto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento; al contrario, ove il patto si ponga in antitesi con quanto risulta dal contratto, la qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto ammissibile la deposizione testimoniale del notaio in ordine alla provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto di un immobile, non essendo diretta a contrastare la qualità di acquirente risultante dal contratto e la formale intestazione del bene).

In tema di incapacità a testimoniare, Sez. 3, n. 13501/2022, Pellecchia, Rv. 664817-01, ha precisato che nei giudizi sulla responsabilità civile derivante da circolazione stradale, il conducente di un veicolo coinvolto nel sinistro è incapace a deporre ai sensi dell’art. 246 c.p.c., in quanto titolare di un interesse giuridico, e non di mero fatto, all’esito della lite introdotta da altro danneggiato contro un soggetto potenzialmente responsabile, indipendentemente dalla circostanza che il diritto del testimone sia prescritto oppure estinto per adempimento o rinuncia, poiché potrebbe sempre teoricamente intervenire per il risarcimento di danni a decorso occulto o lungolatenti o sopravvenuti.

La questione relativa alle conseguenze sulla prova dell’assunzione di un teste incapace è stata recentemente posta alle S.U.: Sez. 3, n. 18601/2022, Pellecchia (non massimata), ha infatti ritenuto che occorresse rimettere gli atti al Primo Presidente per valutare l’opportunità di sottoporre alle Sezioni Unite di verificare l’attualità e l’effettiva portata del principio secondo cui l’incapacità a testimoniare determina la nullità della deposizione e non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata a farla valere al momento dell’espletamento della prova o nella prima difesa successiva restando altrimenti sanata ex art. 157, comma 2, c.p.c., senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza ammessa ed assunta nonostante l’opposizione.

Particolare profilo quello esaminato da Sez. U, n. 22302/2021, Vincenti, Rv. 662229-05, secondo cui nel procedimento disciplinare a carico di magistrati, al fine di integrare il motivo di ricusazione ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere il giudice deposto nella causa come testimone, occorre che la testimonianza sia già precedentemente resa nella stessa controversia da giudicare. (Alla stregua di tale principio, è stata, nella specie, esclusa la ricorrenza di tale causa di ricusazione per un componente della Sezione disciplinare del CSM che era stato indicato come teste a discarico dall’incolpato).

Ha invece precisato Sez. 3, n. 27016/2022, Gorgoni, Rv. 665988-01, che nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p., a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione in sede penale ai soli effetti civili, applicandosi le regole processuali e probatorie proprie del processo civile, la testimonianza resa, del tutto validamente, dalla parte civile nel processo penale, pur non conservando il suo valore di prova testimoniale, stante il divieto di cui all’art. 246 c.p.c., né assumendo quello di prova atipica, tuttavia, non essendo nulla, ha efficacia di argomento di prova in base al combinato disposto di cui agli artt. 116, comma 2, e 117 c.p.c., e, quindi, può assumere autonoma efficacia probatoria anche da sola sufficiente a offrire al giudice la dimostrazione del fatto da provare.

In relazione alla sindacabilità delle valutazioni di merito della prova testimoniale, Sez. L, n. 34189/2022, Di Paola, Rv. 666179-01, ha affermato che il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico. Sez. 6-3, n. 33536/2022, Guizzi, Rv. 666345-01, ha invece ritenuto che la valutazione sull’attendibilità di un testimone ha ad oggetto il contenuto della dichiarazione resa e non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne “ex ante” la capacità a testimoniare. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, in una causa in materia di responsabilità da circolazione stradale, aveva escluso la capacità a testimoniare dei terzi trasportati su uno dei veicoli coinvolti, in ragione unicamente di tale loro condizione, senza verificare se avessero riportato danni in conseguenza del sinistro). Ancora in ordine al ruolo del giudice del merito, Sez. 1, n. 32456/2022, Fidanzia, Rv. 666126-01, ha precisato che lo stesso, in sede di assunzione della prova testimoniale, non può ritenersi un mero registratore passivo di quanto dichiarato dal testimone, ma un soggetto attivo partecipe dell’escussione, al quale l’ordinamento attribuisce il potere-dovere, non solo di sondare con zelo l’attendibilità del testimone, ma anche di acquisire da esso tutte le informazioni indispensabili per una giusta decisione, sicché egli non può, senza contraddirsi, dapprima, astenersi dal rivolgere al testimone domande a chiarimento, e, successivamente, ritenerne lacunosa la deposizione perché carente su circostanze non capitolate, sulle quali nessuno ha chiesto al testimone di riferire; in tale ipotesi, pertanto, la devalutazione della testimonianza fondata sul rilievo che il teste si è limitato a confermare la rispondenza al vero delle circostanze dedotte nei capitoli di prova senza aggiungere dettagli mai richiestigli, riposa su argomentazioni tra loro logicamente inconciliabili, sì da costituire motivazione solo apparente.

8.1. Il valore probatorio delle dichiarazioni degli informatori.

In tema, risulta ancora attuale quanto affermato da Sez. 2, n. 21072/2021, Varrone, Rv. 661942-01, secondo cui nel procedimento possessorio, le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio, ove siano state assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite dalle parti nei rispettivi atti introduttivi, sono da considerare come provenienti da veri e propri testimoni, mentre devono essere qualificati come “informatori” - le cui dichiarazioni sono comunque utilizzabili ai fini della decisione, anche quali indizi liberamente valutabili - coloro che abbiano reso “sommarie informazioni” ai sensi dell’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., ai fini dell’eventuale adozione del decreto “inaudita altera parte”.

9. Il giuramento.

Secondo Sez. 2, n. 01551/2022, Falaschi, Rv. 663633-01, deve ritenersi inammissibile il deferimento del giuramento decisorio ove la formulazione delle circostanze, in caso di ammissione dei fatti rappresentati, non conduca automaticamente all’accoglimento della domanda, ma richieda una valutazione di tali fatti da parte del giudice del merito.

In tema anche Sez. 2, n. 29320/2021, Criscuolo, Rv. 662603-01, secondo cui quando la controversia di primo grado sia stata definita sulla base di un giuramento suppletorio, il giudice di appello, investito con i motivi di gravame della questione relativa alla sussistenza dei requisiti per la sua ammissione, non può revocare l’ordinanza di ammissione del mezzo istruttorio, ma può procedere alla rivalutazione dell’intero materiale probatorio raccolto prima della sua delazione e decidere la causa prescindendo dall’esito dello stesso, ove ritenga acquisiti elementi sufficienti già prima dello stesso, senza che, a tal fine, sia necessaria una contestazione in primo grado sull’ammissibilità o sulla decisività del giuramento medesimo.

Il tema del giuramento si è posto anche con riguardo alla figura del curatore, di cui tradizionalmente si predica la terzietà rispetto al fallito e l’indisponibilità die diritti della massa. In particolare, Sez. 1, n. 20602/2022, Di Marzio, Rv. 665229-01, innovando rispetto all’indirizzo tradizionale, ha ritenuto che a fronte dell’insinuazione di un credito maturato in forza di un rapporto riconducibile alla previsione dell’articolo 2956, n. 2, c.c., ove il curatore eccepisca la prescrizione presuntiva del credito e il creditore gli deferisca giuramento decisorio, la dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno costituisce mancato giuramento, dovendo egli subire le conseguenze dell’affermazione dell’estinzione del debito implicita nella sollevata eccezione di prescrizione presuntiva.

Sez. 1, n. 33400/2022, Vella, non massimata, con l’ordinanza interlocutoria dell’11 novembre 2022 ha rimesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza relativa alle conseguenze derivanti dalla proposizione, da parte del curatore, dell’eccezione di prescrizione presuntiva del credito professionale del legale che abbia proposto domanda di insinuazione allo stato passivo e, in particolare, se allo stesso curatore possa essere deferito il giuramento decisorio e, ove si escluda che possa riguardare un fatto del terzo fallito, se lo stesso debba invece qualificarsi come giuramento “de scientia” oppure “de notitia”, con l’ulteriore necessità, in tal caso, di individuare come debba essere valutata l’eventuale risposta del giurante di non essere a conoscenza dell’avvenuta estinzione del debito.

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  • processo decisionale
  • procedura civile
  • udienza giudiziaria
  • errore giudiziario
  • procedura di conciliazione
  • citazione

CAPITOLO X

IL PROCESSO DI PRIMO GRADO

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 L’introduzione della causa. - 1.1 La nullità dell’atto di citazione. - 1.2 L’errore sul rito. - 1.3 La comparsa di risposta e le preclusioni connesse alla tempestiva costituzione del convenuto. - 1.3.1 L’onere di specifica contestazione. - 1.3.2 Le eccezioni non rilevabili d’ufficio. - 1.3.3 La domanda riconvenzionale e la chiamata in causa del terzo. - 1.4 Altre pronunce relative alla fase di introduzione della causa. - 2 La trattazione della causa. - 2.1 L’inapplicabilità della sanatoria di cui all’art. 182 c.p.c. all’inesistenza della procura. - 2.2 L’udienza ex art. 183 c.p.c. e le preclusioni connesse. - 2.3 La precisazione delle conclusioni e l’assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. - 2.4 La chiamata in causa, l’intervento dei terzi e la riunione dei procedimenti. - 3 La decisione della causa. - 3.1 La deliberazione e la pubblicazione della sentenza. - 3.2 La condanna generica e la provvisionale. - 3.3 La discussione orale della causa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. - 4 La correzione delle sentenze e delle ordinanze. - 5 La sospensione del processo. - 6 L’interruzione del processo. - 6.1 La prosecuzione e la riassunzione del processo interrotto. - 6.2 La possibile prosecuzione del processo di divorzio in caso di morte del coniuge dopo il passaggio in giudicato della sentenza sullo status e prima della pronuncia sulla domanda di assegno, o del suo passaggio in giudicato, e del procedimento di revisione in caso di morte del coniuge ricorrente. - 7 Il procedimento davanti al giudice di pace. - 8 La conciliazione.

1. L’introduzione della causa.

1.1. La nullità dell’atto di citazione.

In ordine alla nullità dell’atto di citazione le Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 2258/2022, Scarpa, Rv. 663727-01), hanno affermato affermato il principio di diritto così massimato da questo Ufficio: «Nel caso di nullità della citazione di primo grado per vizi inerenti alla “vocatio in ius” (nella specie, per inosservanza del termine a comparire), ove il vizio non sia stato rilevato dal giudice ai sensi dell’art. 164 c.p.c. e il processo sia proseguito in assenza di costituzione in giudizio del convenuto, alla deduzione della nullità come motivo di gravame consegue che il giudice di appello, non ricorrendo un’ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, deve ordinare, in quanto possibile, la rinnovazione degli atti compiuti nel grado precedente, mentre l’appellante, già dichiarato contumace, può chiedere di essere rimesso in termini per il compimento delle attività precluse se dimostra che la nullità della citazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo, ai sensi dell’art. 294 c.p.c.».

Le Sezioni Unite Civili hanno così risolto la questione – di particolare importanza e sulla quale vi era contrasto – degli effetti della rilevazione della nullità della citazione dedotta come motivo d’appello dal convenuto contumace nel giudizio di primo grado.

Il contrasto traeva origine dalla contrapposizione tra due distinti orientamenti giurisprudenziali in ordine ai presupposti della rimessione in termini del convenuto per il compimento di attività che gli sarebbero precluse nel caso in cui la nullità della citazione non gli abbia impedito di avere conoscenza del processo.

Un primo orientamento riteneva che, una volta dichiarata da parte del giudice d’appello, la nullità dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, per un vizio inerente la “vocatio in ius”, l’appellante, contumace in primo grado, dovesse essere sempre ammesso a svolgere tutte le attività assertive e probatorie precluse dalla nullità.

Tale orientamento aveva preso le mosse dalla sentenza n. 122 del 2001 delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 122/2001, Preden, Rv. 544958-01) che aveva affermato il suddetto principio in un caso di nullità della “vocatio in ius” in primo grado in un giudizio soggetto al rito del lavoro per inosservanza del termine minimo di comparizione di cui all’art. 415, comma 5, c.p.c., sul rilievo che, diversamente l’appellante sarebbe pregiudicato, nel suo diritto di difesa, dalla nullità verificatasi in suo danno.

Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite del 2001 era stato più volte ribadito dalla successiva giurisprudenza della Corte, tanto riguardo al rito del lavoro quanto in relazione al rito ordinario.

Per un secondo orientamento, invece, l’appellante, contumace in primo grado, che deducesse come motivo di impugnazione la nullità della citazione, poteva essere ammesso a compiere le attività colpite dalle preclusioni verificatesi nel giudizio di primo grado, solo dimostrando che la nullità della citazione gli avesse impedito di conoscere il processo, equivalendo la proposizione dell’appello ad una costituzione tardiva nel processo, disciplinata dall’art. 294 c.p.c.

Tale opzione ermeneutica muoveva dalla considerazione che l’art. 164 c.p.c. disciplina il rilievo della nullità della citazione con riferimento al momento iniziale del processo, cioè quello della prima udienza, senza chiarire se il giudice, in difetto di costituzione del convenuto, possa rilevare tale nullità in un momento successivo, cioè in ogni stato del processo di primo grado, o, addirittura nelle fasi di impugnazione.

E ritiene che, la situazione in cui il giudice di primo grado non abbia rilevato la nullità della citazione “in limine litis”, e il convenuto contumace decida di entrare nel processo o attraverso la costituzione tardiva o attraverso l’impugnazione della sentenza di primo grado, trovi la sua disciplina nell’art. 294 c.p.c., secondo cui «Il contumace che si costituisce può chiedere al giudice istruttore di essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, se dimostra che la nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile»; con la conseguenza, che il giudice, da un lato, rilevata la nullità su istanza del convenuto tardivamente costituitosi, deve disporre la rinnovazione di tutti gli atti del procedimento anteriori alla sua costituzione, ai sensi dell’art. 162, comma 1, c.p.c., a prescindere dalla dimostrazione da parte del convenuto che la nullità gli ha impedito la conoscenza del processo (trattandosi di attività processuale svoltasi su sollecitazione dell’attore o d’ufficio dal giudice, non riconducibile nell’ambito dell’attività preclusa al contumace), e, dall’altro lato, può ammettere il convenuto a compiere le attività che secondo il regime delle preclusioni sarebbero ormai precluse, solo se dimostri che la nullità della citazione gli ha impedito la conoscenza del processo.

In quest’ottica la disposizione di cui all’art. 294 c.p.c. si connota come una norma che deroga all’automatico operare dell’art. 162, comma 1, c.p.c., in quanto esclude che la nullità della citazione – che non abbia comportato la mancata conoscenza del processo – si estenda, ai sensi dell’art. 159, comma 1, c.p.c., alle preclusioni a carico della parte contumace, impedendone il verificarsi. E tanto si giustifica in quanto l’ordinamento, in ossequio al principio della ragionevole durata del processo - «che esige che debbano scongiurarsi ritardi nella sua definizione del tutto ingiustificati anche al lume di ciò che le parti potevano fare e non hanno fatto» - attribuisce rilievo all’inerzia del convenuto erroneamente dichiarato contumace nonostante la conoscenza del processo e la possibilità di costituirsi eccependo la nullità.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 2258 del 26 gennaio 2022, hanno risolto il contrasto dando continuità all’interpretazione prescelta dal secondo degli orientamenti esposti e, quindi, ritenendo che gli effetti della rilevazione della nullità della citazione dedotta dal convenuto come motivo di appello siano regolati dall’art. 294 c.p.c. «distinguendo tra rinnovazione degli atti nulli compiuti in primo grado, a norma degli art. 354, comma 4, e 356 c.p.c. e rimessione in termini per le attività segnate da preclusioni condizionata alla dimostrazione della mancata conoscenza del processo».

Le Sezioni Unite ritengono che tale nullità, allorchè non sia sanata dalla costituzione del convenuto e non sia rilevata d’ufficio dal giudice, non operando per essa il regime di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c., si converta in motivo di impugnazione, con la conseguenza che la stessa deve essere fatta valere dal contumace con l’atto di appello, che «non sana ex se la nullità degli atti successivi dipendenti dalla citazione viziata», e che il giudice d’appello «preso atto della nullità del giudizio di primo grado e della stessa sentenza, non potendo disporre la rimessione al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., è dunque tenuto a trattare la causa nel merito, rinnovando gli atti dichiarati nulli», dipendenti dalla nullità della citazione, «mediante ripetizione degli stessi nel contraddittorio delle parti, così riattribuendo al convenuto, che era rimasto contumace, quei poteri difensivi inesercitati ma non soggetti a preclusione».

La rinnovazione degli atti nulli secondo le Sezioni unite non equivale alla rimessione in termini, che l’art. 294 c.p.c. limita alle attività precluse il cui tempestivo svolgimento sia stato impedito dall’ignoranza del processo: la rinnovazione degli atti nulli consiste, infatti, nella «ripetizione dell’atto affetto da nullità nel contraddittorio tra le parti», laddove invece la rimessione in termini «è rimedio che riammette la parte all’esercizio di attività soggette a preclusione» e richiede, nella fattispecie considerata, che la nullità della citazione abbia impedito al convenuto di avere conoscenza del processo.

Un’interpretazione orientata all’effettività del diritto di difesa e alla ragionevole durata del processo esclude che dalla nullità della citazione, pur non seguendo la rimessione al primo giudice, discenda la necessaria rimessione in termini del contumace appellante, perché ciò «comporterebbe un “premio” per lo stesso, sebbene egli abbia avuto cognizione del processo ed avrebbe perciò potuto comunque costituirsi sin dalla prima udienza, mentre ha preferito attendere l’intero decorso del giudizio di primo grado per poi spiegare gravame», e «rappresenterebbe un pericoloso “incentivo alla contumacia”, inducendo il convenuto, a fronte della nullità della citazione non rilevata dal giudice, ad attendere strumentalmente la definizione del giudizio di primo grado per poi far valere l’invalidità con la proposizione dell’appello».

L’ipotizzata «corrispondenza biunivoca tra rinnovazione e rimessione in termini» si scinde, secondo le Sezioni Unite, perché il mancato esercizio dei poteri processuali soggetti a preclusione da parte del convenuto contumace è causato da una sua strategia difensiva e non direttamente dalla difformità della citazione dal modello legale, con la conseguenza che ove all’incompleta redazione dell’atto introduttivo con riguardo agli elementi della “vocatio in ius” imputabile all’attore negligente ed all’omesso rilievo d’ufficio della nullità della citazione addebitabile al giudice «si facesse seguire una integrale regressione del giudizio per lasciar esercitare al convenuto (il quale pur sapeva del processo pendente ma ha optato di non costituirsi alla prima udienza) tutti i poteri difensivi preclusi che avrebbe potuto svolgere in primo grado, la reazione ordinamentale risulterebbe sproporzionata rispetto alla lesione del diritto di difesa addebitabile all’attore».

In linea con tale argomentazione la Corte, in epoca successiva al deposito della predetta sentenza delle Sezioni Unite, ha avuto occasione di ribadire il principio già affermato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui «La parte rimasta contumace può impugnare la sentenza che l’abbia vista soccombente oltre la scadenza del termine annuale dalla relativa pubblicazione, a condizione che dia la prova sia della nullità della citazione o della relativa notificazione (nonché della notificazione degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.) sia della mancata conoscenza del processo a causa di detta nullità» (Sez. 3, n. 36181/2022, Spaziani, Rv. 666540-01, che, in attuazione del predetto principio, ha cassato senza rinvio la sentenza della corte territoriale che aveva ritenuto ammissibile l’appello tardivamente proposto dalla parte rimasta contumace in primo grado, sul presupposto che la mancata conoscenza del processo non potesse configurarsi nell’ipotesi - occorrente nel caso di specie - di nullità dell’atto di citazione per mancanza o mera inesattezza dell’indicazione della data di comparizione, bensì solo per vizi della “vocatio in ius” consistenti nell’omissione di uno dei requisiti di cui all’art. 163, comma 1, nn. 1 e 2 c.p.c.).

D’altra parte è stato, altresì, chiarito che la nullità della citazione introduttiva del processo di primo grado che non sia stata fatta valere, nel giudizio di secondo grado, dall’appellato rimasto contumace, non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, essendo ormai preclusa ogni indagine sulla sussistenza del dedotto vizio di nullità della sentenza di primo grado, atteso che la regola del rilievo d’ufficio delle nullità in caso di contumacia, prevista dall’art. 164, comma 1, c.p.c., si riferisce unicamente alla citazione introduttiva del grado di giudizio in atto e non anche a quella introduttiva del grado precedente, in virtù dello sbarramento conseguente alla regola della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione di cui all’art. 161 c.p.c. (Sez. 3, n. 30485/2022, Condello, Rv. 666051-01).

In ordine agli effetti della domanda in caso di nullità dell’atto di citazione validamente notificato, la Corte ha ritenuto che l’interruzione del termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. - effetto che deriva esclusivamente dalla proposizione in giudizio della relativa domanda giudiziale - consegue anche all’atto di citazione affetto da vizi afferenti alla “vocatio in ius” (nella specie per mancanza dell’avvertimento ex art. 163, n. 7, c.p.c.), qualora lo stesso sia stato validamente notificato, e ciò ancorché non sia stato ottemperato l’ordine di rinnovazione dell’atto (ex art. 164, comma 2, c.p.c.) e si sia perciò estinto il giudizio, avendo il convenuto acquisito la conoscenza del giudizio e della volontà dell’attore, esercitata in via processuale, di esercitare il proprio diritto. (Sez. 6-3, n. 26543 /2022, Porreca, Rv. 665717-01).

Inoltre, nell’anno in rassegna la Corte ha avuto occasione di pronunciarsi sulla diversa fattispecie della morte dell’attore verificatasi prima della notificazione dell’atto di citazione al convenuto, ritenendo che tale morte determini la nullità della vocatio in ius, che presuppone la attuale esistenza delle parti, e dell’intero eventuale giudizio che ne è seguito, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo- non potendo trovare applicazione il principio della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e il destinatario, che, avendo come scopo quello di non far ricadere sul notificante incolpevole le conseguenze negative del ritardo nel compimento di attività sottratte al suo controllo, presuppone comunque la valida instaurazione del rapporto processuale e del contraddittorio tra le parti (Sez. 6-2, n. 11506 /2022, Scarpa, Rv. 664439-01).

In relazione a tale fattispecie è stata ritenuta irrilevante la volontaria costituzione in giudizio dei successori della parte deceduta che intendano proseguire il processo, perché, in assenza della valida instaurazione del rapporto processuale e del contraddittorio tra le parti, non può trovare applicazione né l’istituto della successione nel diritto controverso, né quello della interruzione del processo (Sez. 6-2, n. 11506 /2022, Scarpa, Rv. 664439-02).

1.2. L’errore sul rito.

Nella giurisprudenza di legittimità nell’anno in rassegna si registrano due importanti decisioni delle Sezioni Unite della Corte in tema di errore sul rito.

La prima è data da Sez. U, n. 758/2022, Lamorgese, Rv. 663582-01, così massimata da questo Ufficio: «Nei procedimenti disciplinati dal d.lgs. n. 150 del 2011, per i quali la domanda va proposta nelle forme del ricorso e che, al contrario siano introdotti con citazione, il giudizio è correttamente instaurato ove quest’ultima sia notificata tempestivamente, producendo gli effetti sostanziali e processuali che le sono propri, ferme restando decadenze e preclusioni maturate secondo il rito erroneamente prescelto dalla parte; tale sanatoria piena si realizza indipendentemente dalla pronunzia dell’ordinanza di mutamento del rito da parte del giudice, ex art. 4 del d.lgs. n. 150 cit., la quale opera solo “pro futuro”, ossia ai fini del rito da seguire all’esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all’ atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta e non di quella che avrebbe dovuto avere, avendo riguardo alla data di notifica della citazione, quando la legge prescrive il ricorso, o, viceversa, alla data di deposito del ricorso, quando la legge prescrive l’ atto di citazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto tempestiva l’opposizione cd. recuperatoria avverso una cartella di pagamento per sanzioni amministrative conseguenti a contravvenzioni stradali, proposta con citazione - anziché con ricorso, come previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 - tempestivamente notificata nel termine di trenta giorni dalla data di notifica della cartella medesima)».

Come rilevato nella segnalazione di risoluzione di contrasto redatta da questo Ufficio, alla quale si rinvia, la questione esaminata dalle Sezioni Unite, concerneva la necessità (o meno) – ai fini della salvezza degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda avanzata con rito diverso da quello prescritto – di un provvedimento di mutamento del rito (ex art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011) da parte dal giudice di prima istanza non oltre la prima udienza di comparizione delle parti.

Nella fattispecie, di opposizione cd. recuperatoria avverso una cartella di pagamento per sanzioni amministrative conseguenti a contravvenzioni stradali, proposta con citazione - anziché con ricorso, come previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 - tempestivamente notificata nel termine perentorio di trenta giorni dalla data di notifica della cartella medesima previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 dell’1/9/2011, ma depositata in cancelleria, oltre la scadenza del citato termine, il giudice di pace, non aveva pronunciato un’ordinanza di mutamento del rito ex art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011.

La questione sottoposta dall’ordinanza interlocutoria era se la pronuncia di una tempestiva ordinanza di cambiamento del rito costituisca requisito indefettibile per far salvi gli effetti già prodotti dall’atto iniziale (ex art. 4, comma 5, primo periodo, d.lgs. n. 150 del 2011), oppure se, nei procedimenti “semplificati” la produzione degli effetti della domanda irritualmente avanzata non è condizionata al provvedimento di mutamento del rito (il quale sopraggiunge dopo che l’atto introduttivo ha dispiegato la sua efficacia secondo la disciplina che lo caratterizza) e, inoltre, una volta superata «la prima udienza di comparizione delle parti» senza che sia rilevata l’irritualità delle forme procedimentali, il rito si stabilizza in via definitiva, senza che l’errore possa essere successivamente rilevato.

Le Sezioni Unite hanno aderito alla seconda soluzione, rilevando che – nei procedimenti “semplificati” e, cioè, oggetto del d.lgs. n. 150 del 2011 – l’art. 4 «costituisce una ulteriore tappa del percorso che segna il lento declino del formalismo processuale, prevedendo una sanatoria «piena» dell’atto introduttivo difforme dal modello legale, il quale risulta idoneo – sia che si tratti di citazione notificata o ricorso depositato nel termine di legge – ad impedire le decadenze e preclusioni che dovrebbero applicarsi qualora si facesse applicazione delle norme sul rito corretto che avrebbe dovuto essere (e non era stato) seguito».

Secondo le Sezioni unite il nuovo approccio del legislatore alle forme procedimentali è segnato da una «pragmatica indifferenza per il modello procedimentale concretamente impiegato, ancorché derivante da un’erronea scelta dell’attore e dalla perpetuazione di tale errore insita nell’inerzia del giudice di prime cure che non provveda al mutamento del rito», in quanto l’introduzione di una preclusione al mutamento del rito rappresenta un’opzione legislativa per il possibile consolidamento di un modello processuale che difforme da quello previsto dalla legge, ma non (solo) per questo inidoneo a disciplinare la controversia, in ragione del principio di «fungibilità tra i riti» e in contrasto con quanto previsto dalle norme codicistiche (secondo cui la riconduzione al rito voluto dalla legge non incontra barriere preclusive ed è consentita anche in appello, ex artt. 426, 427 e 439 c.p.c.)

All’ordinanza di mutamento del rito viene riconosciuta «una rilevanza costitutiva, senza che … le norme che regolano il nuovo rito diventino parametro di valutazione della legittimità degli atti già compiuti»: l’atto introduttivo produce effetti secondo il rito erroneamente prescelto mentre l’ordinanza è «valevole pro-futuro e inidonea ad incidere ex post sulla domanda, o a convalidarne gli effetti (già realizzatisi), o ad impedire “le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento”».

Perciò, anche in mancanza di un tempestivo provvedimento di riconduzione delle forme procedimentali a quelle ex lege, «gli effetti, sostanziali e processuali, della domanda irritualmente avanzata si producono alla stregua del rito concretamente adottato … con conseguente consolidamento o stabilizzazione del rito erroneo».

Il consolidamento di un rito errato impedisce che l’erroneità possa riverberare effetti negativi nel prosieguo del processo e nei successivi gradi, in coerenza sistematica col meccanismo preclusivo ex art. 38 c.p.c., in base al quale il mancato tempestivo rilievo dell’incompetenza del giudicante comporta addirittura «che un giudice diverso da quello naturale e precostituito per legge viene investito stabilmente del potere di decidere la controversia, senza possibilità di metterne in discussione le decisioni in ragione dell’originario difetto di competenza».

Inoltre, la soluzione adottata si pone in linea di continuità sia con l’elaborazione della Corte di Strasburgo sull’art. 6, comma 1, della Carta EDU (che conduce «verso la dequotazione dei vizi formali conseguenti … all’erronea scelta del rito»), sia con le disposizioni legislative (segnatamente, gli artt. 59, comma 2, della legge n. 69 del 2009 e 11 c.p.a.) che, persino in caso del più grave errore sulla giurisdizione, prevedono la salvezza degli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice avente giurisdizione fosse stato adito fin dalla instaurazione del primo giudizio.

La seconda decisione delle Sezioni Unite in tema di errore sul rito è data da Sez. U, n. 927/2022, Scarpa, Rv. 663586-03, così massimata da questo Ufficio: «Nell’ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di locazione di immobili urbani, soggetta al rito speciale di cui all’art. 447-bis c.p.c., erroneamente proposta con citazione, anziché con ricorso, non opera la disciplina di mutamento del rito di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 - che è applicabile quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dai modelli regolati dal medesimo decreto -, producendo l’ atto gli effetti del ricorso, in virtù del principio di conversione, se comunque venga depositato in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641 c.p.c.».

Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno escluso l’applicabilità dell’art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011 e della relativa disciplina di mutamento dei rito in caso di opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di locazione, assoggettata al rito speciale ex art. 447-bis c.p.c., in quanto la disciplina dettata dall’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 opera unicamente «quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto» e, quindi «per i mutamenti di rito in favore di alcuno dei tre modelli elaborati dal decreto legislativo n. 150/2011 ed in funzione della trattazione dei procedimenti speciali regolati dalle disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione» e non anche nelle ipotesi di mutamento dal rito ordinario al rito speciale delle controversie di lavoro, o viceversa, restando tali fattispecie tuttora regolate dagli artt. 426 e 427 c.p.c.

Esclusa l’applicazione della disciplina speciale, per le controversie di opposizione a decreto ingiuntivo assoggettate al rito del lavoro viene richiamato il principio – consolidato in giurisprudenza – della conversione dell’atto introduttivo secondo il criterio di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c.: l’opposizione può ritenersi tempestiva, nonostante l’errore sulla forma dell’atto, qualora sia avvenuta entro il termine stabilito dall’art. 641 c.p.c. l’iscrizione a ruolo mediante deposito in cancelleria della citazione, non essendo invece sufficiente che, entro tale data, la stessa sia stata notificata alla controparte.

Le Sezioni Unite, in conclusione, confermano l’indirizzo interpretativo “tradizionale” «anche per l’esigenza di assicurare un sufficiente grado di stabilità di applicazione», non mancando di rilevare che la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 45 del 2018) ha sì affermato che una riformulazione del meccanismo di conversione del rito ex art. 426 c.p.c. riflette «una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, di una sanatoria piena, e non dimidiata, dell’atto irrituale, per raggiungimento dello scopo», ma anche che si è statuito, nel contempo, che il «diritto vivente» formatosi sulla questione «non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali».

1.3. La comparsa di risposta e le preclusioni connesse alla tempestiva costituzione del convenuto.

In punto di preclusioni collegate alla costituzione del convenuto nei termini di cui all’art. 166 c.p.c. si segnala che Sez. 2, n. 25934/2022, Rolfi, Rv. 665595-01, ha ritenuto ammissibile il deposito di una seconda comparsa di risposta nel rispetto del termine di cui all’art. 166 c.p.c., salvi i casi in cui sia ravvisabile uno specifico abuso dello strumento processuale, non potendosi ravvisare una consumazione del potere di difesa della parte convenuta sino al momento del maturarsi delle preclusioni di cui all’art. 167 c.p.c.

1.3.1. L’onere di specifica contestazione.

In tema di onere del convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda e di principio di non contestazione la giurisprudenza di legittimità nell’anno in rassegna non solo ha ribadito la correlazione dell’onere di contestazione specifica, a carico del convenuto, con quello di allegazione specifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, a carico dell’attore (Sez. 6-3, n. 9439/2022, Rossetti, Rv. 664451-01), ma ha anche chiarito le preclusioni del potere di contestazione delle parti.

Sez. 2, n. 2223/2022, Penta, Rv. 663641-01, infatti, ha rilevato che «la ‘non contestazionÈ espunge il fatto da quelli bisognosi di essere provati, soggiacendo inevitabilmente ad un termine decadenziale immediatamente precedente a quello in cui maturano le preclusioni istruttorie», con la conseguenza che «mentre i fatti dedotti con gli atti introduttivi del giudizio possono essere contestati fino alla prima udienza, quelli allegati per la prima volta all’udienza di trattazione possono essere contestati solo con la prima memoria di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. Ciò in quanto la controparte deve essere posta nelle condizioni di valutare se il fatto sia o meno, alla luce del comportamento processuale avverso, necessitante di essere provato e, quindi, se occorra o meno articolare mezzi istruttori sul punto, nel rispetto delle preclusioni sancite dall’art. 183, comma 6».

Alla luce di tali considerazioni la Corte, nella pronuncia in rassegna, ha operato una summa divisio, «a seconda che il fatto sia riferibile anche alla controparte e sia stato specificamente allegato o no. Invero, mentre quando il fatto sia stato genericamente dedotto e/o non rientri nella sfera di conoscibilità della controparte, non viene espunto dal materiale probatorio a prescindere dal comportamento processuale (di contestazione specifica o generica o di non contestazione) di quest’ultima e va, quindi, comunque, provato da chi lo deduce, nell’ipotesi inversa deve essere provato solo in presenza di una contestazione specifica. Da ciò deriva che nel primo caso la contestazione, sotto forma di mera difesa, può essere formulata anche per la prima volta in appello, non giustificandosi per questo solo fatto una riapertura dei termini per articolare i mezzi istruttori (essendo, comunque, onerata la parte che aveva allegato il fatto di provarlo in primo grado). Nel secondo caso, invece, la contestazione in appello è preclusa, atteso che la parte che aveva posto in essere l’attività assertiva ed aveva, in assenza di contestazioni, fatto affidamento sulla relevatio dall’onere probatorio, non potrebbe più in sede di gravame dimostrarlo».

Con specifico riferimento alle controversie instaurate da medici specializzatisi anteriormente all’anno 1991/1992 per ottenere il risarcimento dei danni ad essi causati dal tardivo recepimento di direttive comunitarie Sez. 3, n. 25365/2022, Tatangelo, Rv. 665443-01, ha ritenuto che l’onere, dell’amministrazione convenuta, di contestazione specifica è collegato alla sola precisa allegazione dei fatti addotti dagli attori a sostegno della loro pretesa, non anche alla documentazione dei relativi presupposti soggettivi, sicché la limitazione della difesa della prima alla sola eccepita prescrizione comporta che, una volta disattesa quest’ultima, tali presupposti devono ritenersi provati.

1.3.2. Le eccezioni non rilevabili d’ufficio.

In ordine, poi, alle eccezioni non rilevabili d’ufficio che devono essere sollevate, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, la Corte ha, in primo luogo chiarito che il termine decadenziale prescritto dall’art. 166 c.p.c. opera comunque, ancorché un’eccezione non rilevabile d’ufficio sia stata formulata nell’ambito di un procedimento di accertamento tecnico preventivo, perché il giudizio di merito poi instaurato non costituisce una riassunzione del primo (Sez. 2, n. 24490/2022, Papa, Rv. 665392-01).

Ha inoltre escluso che una serie di eccezioni siano da qualificarsi quali eccezioni in senso stretto, ritenendole, piuttosto, rilevabili d’ufficio, non solo ribadendo principi già consolidati nella giurisprudenza ella Corte – come riguardo all’eccezione di “compensatio lucri cum damno”, già configurata come mera difesa in ordine all’esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato (Sez. 1, n. 23588/2022, Parise, Rv. 665368-01), ma affermandone di nuovi, in coerente sviluppo dei principi in precedenza affermati, riguardo al limite del massimale di polizza, destinato a configurare ed a delimitare contrattualmente il diritto dell’assicurato e il corrispettivo obbligo dell’assicuratore (Sez. 2, n. 1475/2022, Scarpa, Rv. 663631-01), o la compensazione impropria (o atecnica) – che si distingue da quella propria, disciplinata dagli articoli 1241 e ss. c.c., poiché riguarda crediti e debiti che hanno origine da uno stesso rapporto - che si risolve in una verifica contabile delle reciproche poste attive e passive delle parti, rilevabili d’ufficio anche in grado di appello, senza che sia necessaria un’eccezione di parte o una domanda riconvenzionale, sempre che l’accertamento si fondi su circostanze fattuali tempestivamente acquisite al processo (Sez. 1, n. 33872/2022, Abete, Rv. 666238-01).

1.3.3. La domanda riconvenzionale e la chiamata in causa del terzo.

Riguardo alla domanda riconvenzionale e alla chiamata in causa del terzo da parte del convenuto si segnala che, nell’anno in rassegna la Corte, ha ribadito il principio secondo cui il convenuto che intenda formulare una domanda nei confronti di altro convenuto non ha l’onere di chiedere il differimento dell’udienza previsto dall’ art. 269 c. p. c. per la chiamata in causa di terzo, ma è sufficiente che formuli la suddetta domanda nei termini e con le forme stabilite per la domanda riconvenzionale dall’ art. 167, comma 2, c. p. c. (Sez. 6-3, n. 9441/2022, Rossetti, Rv. 664567-01).

Si tratta di un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, di cui viene fatta applicazione in una fattispecie di domanda di proposta da un convenuto nei confronti di un terzo chiamato in causa ad opera di altro convenuto: in una causa di risarcimento danni da responsabilità medica, instaurata da un paziente nei confronti del medico e della struttura ospedaliera, quest’ultima aveva chiamato in causa la propria compagnia assicuratrice, alla quale era stato notificato dall’attore l’atto di citazione e nei confronti della quale anche il medico aveva proposto domanda di garanzia, con la comparsa di risposta.

Nei gradi di merito la domanda di garanzia proposta dal medico convenuto nei confronti della Compagnia assicuratrice era stata dichiarata inammissibile in quanto proposta senza il rispetto delle forme e dei termini previsti dall’art. 269 c.p.c. per la chiamata in causa del terzo.

La Corte, ritenendo che la domanda in questione dovesse qualificarsi “domanda riconvenzionale” e che la sua proposizione non esigesse le forme prescritte per la chiamata in causa del terzo «per l’evidente ragione - a tacer d’altro – che è fuori luogo discorrere di “chiamata in causa” rispetto ad un soggetto che è già parte del giudizio», in accoglimento del ricorso proposto dal medico ha cassato con rinvio la sentenza impugnata richiamando il principio, già affermato dalla Corte, in tema di proponibilità, da parte del convenuto, in comparsa di risposta, di una domanda nei confronti di altro convenuto.

L’ammissibilità della domanda proposta con la comparsa di risposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto era stata costantemente affermata sotto la vigenza del codice di rito antecedente alla riforma del 1990, ritenendosi non necessaria la vocatio in ius «per essere la parte già presente nel processo», purchè tale proposizione, a norma degli artt. 167 e 183 c.p.c. – e della coincidente disciplina di cui all’art. 267 c.p.c. - avvenisse entro la prima udienza, e ancorché tale domanda non fosse strettamente dipendente dalla pretesa fatta valere dall’attore, in ragione dei principi di economia processuale e di concentrazione dei giudizi. (Sez. 3, n. 6800 /1991, Fiduccia, Rv. 472702-01; Sez. 3, n. 2848/1980, Quaglione, Rv. 406594-01; Sez. 3, n. 1375/1973, Bacconi, Rv. 364021-01).

Sotto il profilo della forma della domanda proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto la Corte aveva infatti sempre ritenuto sufficiente la comunicazione di una comparsa nelle forme previste dall’art. 170 c.p.c.., senza che fosse necessaria la notificazione di una citazione, cioè di un formale atto di chiamata in causa ex art. 106 c.p.c., considerando la suddetta comunicazione idonea ad assicurare il rispetto del principio del contraddittorio: «costituirebbe un inutile formalismo costringere la ritualità di tale domanda negli schemi della citazione notificata quando con la comunicazione della comparsa risultano ugualmente salvaguardati i principi fondamentali del contraddittorio (art. 101 c.p.c.) con la possibilità offerta al destinatario della domanda di interloquire sulla stessa e di apprestare le sue difese». (Sez. 3, n. 5073/1999, Salluzzo, Rv. 526643-01; Sez. 3, n. 2238/1990, De Rosa, Rv. 466009-01; Sez. 3, n. 894/1971, Auriti, Rv. 350793-01; Sez. 2, n. 9/1969, Ferrati, Rv. 337793-01; Sez. 1, n. 1202/1963, Arras, Rv. 261771-01; Sez. 3, n. 466/1963, Russo, Rv. 260622-01).

Nella vigenza del codice di rito risultante dalla novella del 1990 il medesimo principio è stato espresso da Sez. 3, n. 25415/2017, Sestini, Rv. 646453, non massimata sul punto, che, in riferimento a una domanda proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto, ha ritenuto la domanda ritualmente proposta a mezzo della comparsa di risposta, senza necessità di chiamata in causa del convenuto nei cui confronti era stata proposta perché questi era già presente in giudizio per effetto della citazione degli attori.

Sez. 2, n. 6846/2017, Grasso, Rv. 643373-01, dal canto suo, ha ritenuto applicabili, alla domanda “trasversale” proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto, in reazione alla domanda trasversale proposta dal primo nei confronti del secondo in comparsa di risposta, i termini perentori previsti per la proposizione della domanda riconvenzionale, e quindi tardiva la domanda proposta con la memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo precedente alle modifiche introdotte dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80).

Inoltre una serie di pronunce, (Sez. 3, n. 9210/2001, Segreto, Rv. 547986-01; Sez. 3, n. 10695/1999, Segreto, Rv. 530295-01; Sez. 3, n. 12558/1999, Segreto, Rv. 531062-01), nell’esaminare la questione dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva nei confronti di soggetto diverso dall’impugnante principale, nelle singole fattispecie al loro esame, hanno rilevato che allorquando il convenuto proponga, nei confronti di altro soggetto, domanda per sentirne affermare la responsabilità esclusiva e l’esclusione della propria responsabilità nei confronti della pretesa dell’attore, si esula dalla garanzia impropria e si è in presenza di una seconda controversia, dipendente da quella introdotta dall’attore e che dà luogo, quindi, a litisconsorzio processuale ai sensi dell’art. 331 c.p.c. Tale controversia, secondo la Corte, può essere introdotta con la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto, oppure, nel caso in cui il soggetto che il convenuto ritenga esclusivo responsabile sia già stato convenuto in giudizio dall’attore, con la comparsa di risposta, entro la prima udienza (termine previsto dal rito vigente prima della novella del 1990, applicabile alle fattispecie all’esame della Corte, dall’art. 269 c.p.c. per la chiamata in causa del terzo): «infatti, in conformità ai principi di economia processuale e di concentrazione dei giudizi, la domanda proposta con la comparsa di costituzione, da un convenuto contro altri convenuti è ammissibile, purché tale proposizione avvenga entro la prima udienza».

Nella recente giurisprudenza di legittimità, tuttavia, alcune pronunce hanno sottoposto a revisione critica la possibilità, in precedenza costantemente ritenuta dalla Corte, per il convenuto di proporre con la comparsa di risposta domanda nei confronti di altro convenuto, ritenendo necessario, ai fini dell’ammissibilità di tale domanda, il rispetto delle forme previste dal codice di rito per la chiamata in causa del terzo, e quindi la tempestiva istanza di differimento dell’udienza e la notificazione di un atto di citazione nel rispetto dei termini minimi di comparizione.

In proposito, infatti, dapprima Sez. 3, n. 8315/2011, Vivaldi, non mass. ha affermato che il convenuto, laddove intenda proporre una domanda nei confronti di altro convenuto, fondata su un titolo del tutto diverso da quello dedotto in giudizio dall’attore, non possa procedere nelle forme di una semplice domanda riconvenzionale, dovendo evocare l’altro convenuto, quale terzo estraneo al rapporto originariamente dedotto in giudizio, con una corretta chiamata di terzo, per comunanza di causa o garanzia, non potendosi ritenere sufficiente la proposizione di una domanda riconvenzionale per il solo fatto che il soggetto nei confronti del quale la domanda è proposta è già parte del giudizio per effetto della domanda proposta dall’attore, perché, proprio in ragione della diversa causa petendi, verrebbero «compromessi definitivamente sia i diritti di difesa costituzionalmente riconosciuti alla parte, sia le facoltà processuali riservate al terzo».

Quindi il tema è stato sviluppato da Sez. 1, n. 12662 del 12/05/2021, Scotti, Rv. 661320-01, che, con una articolata motivazione, ha affermato il principio di diritto così massimato: «Nel processo civile conseguente alla novella di cui alla l. n. 353 del 1990, caratterizzato da un sistema di decadenze e preclusioni, un convenuto può proporre una domanda nei confronti di un altro, convenuto in giudizio dallo stesso attore, in caso di comunanza di causa o per essere da costui garantito, dovendo a tal fine avanzare l’istanza di differimento della prima udienza, ex art. 269 c.p.c., con la comparsa di risposta tempestivamente depositata, procedendo quindi alla notifica della citazione nell’osservanza dei termini di rito».

La sentenza muove dalla considerazione che «quanto alla domanda nuova proposta nei suoi confronti il coevocato non si trova in una posizione difforme da quella di un soggetto del tutto estraneo al procedimento, perlomeno in relazione al punto veramente centrale ed essenziale, che inerisce ai diritti di difesa».

Se, infatti, la domanda di un convenuto nei confronti di un altro convenuto è soggetta agli stessi limiti di ammissibilità previsti dall’art. 106 c.p.c. per la chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, non c’è ragione per discostarsi da tale modello quanto alle modalità di proposizione della domanda, altrimenti negandosi al destinatario della domanda il godimento del termine minimo a comparire, strumentale all’esercizio del suo diritto di difesa, ed incidendosi negativamente sull’ordinario svolgimento dell’udienza di prima comparizione e trattazione, non adeguatamente preceduta dalla completa formazione del thema decidendum.

La tesi contrapposta, che ritiene ammissibile la domanda proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto nelle forme e nei tempi previsti per la domanda riconvenzionale, equiparando la posizione del convenuto, destinatario della domanda proposta da altro convenuto, a quella dell’attore che subisce la domanda riconvenzionale, gli impone l’onere di proposizione in via orale all’udienza di trattazione delle domande ed eccezioni conseguenti alla domanda e di eventuali chiamate di ulteriori terzi. In tal modo, trascurando la differenza con la posizione dell’attore (che, avendo proposto la domanda e aperto il contraddittorio con il convenuto, può ragionevolmente attendersi una reazione di costui), penalizza ingiustificatamente la posizione del convenuto destinatario della domanda trasversale rispetto a qualsiasi terzo (sotto il profilo della compressione a venti giorni del termine a difesa di novanta giorni e della preclusione della difesa scritta), configurando, inoltre, a suo carico, un onere di ispezione (cioè di prendere visione delle comparse di costituzione degli altri convenuti) che presuppone, invece, l’apertura di un contraddittorio che nessuna norma consente di ritenere precedentemente attivato.

La riconduzione della domanda cd. trasversale, proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto, nell’ambito della chiamata in causa del terzo, sarebbe possibile tramite un’interpretazione estensiva dell’art. 269 c.p.c. considerando “terzo” il soggetto «estraneo al rapporto processuale instaurato per effetto della citazione fra l’attore e ciascuno dei convenuti».

D’altra parte il silenzio del codice in ordine ai tempi e ai modi in cui il destinatario della domanda possa formulare le sue difese e le sue eccezioni, formulare istanza di chiamata di ulteriori soggetti e proporre domande riconvenzionali – consentendo l’art. 183, comma 5, c.p.c. soltanto all’attore le attività ivi previste – avvalorerebbe la tesi secondo la quale la domanda “trasversale” del convenuto è soggetta alla disciplina della chiamata in causa del terzo.

Inoltre, argomenti di segno contrario non sarebbero desumibili dall’art. 292 c.p.c. in quanto «il riferimento alle domande riconvenzionali da chiunque proposte è reso necessario dall’eventualità, pur rara, ma sempre possibile, che il processo sia stato iscritto a ruolo dal convenuto e che l’attore destinatario della domanda riconvenzionale rimanga contumace, come può anche accadere nella fase di riassunzione dopo una eventuale interruzione. Il coordinamento sistematico della disposizione impone quindi di ritenere che l’art. 292 in questione presupponga la già avvenuta costituzione di un rapporto processuale diretto fra i contendenti e disciplini la proposizione di una ulteriore domanda, se e in quanto ammissibile, esigendo la notificazione alla parte personalmente nel caso di contumacia, ma non concerna il caso in cui il rapporto processuale diretto fra i due soggetti non sia ancora costituto con la proposizione di una domanda dell’uno verso l’altro».

Infine, sotto il profilo del principio della ragionevole durata del processo, il sacrificio ad opera dell’interpretazione prescelta delle esigenze di celerità del processo sarebbe giustificato dalla necessità di salvaguardare l’esigenza che il convenuto destinatario della domanda trasversale sia efficacemente e tempestivamente informato della domanda proposta nei suoi confronti e possa svolgere le sue difese senza alcun pregiudizio, inderogabilmente imposta dal diritto di difendersi e di agire in giudizio in modo efficace ed in condizioni di parità, costituzionalmente protetto dagli artt. 24 e 111 Cost.

In argomento, nell’anno in rassegna si segnala anche Sez. 1, n. 191/2022, Nazzicone, Rv. 663897-01, che, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., ha espresso il principio così massimato da questo Ufficio: «In tema di confisca in sede penale di quote di s.r.l. per reati di criminalità organizzata, nel caso in cui lo Stato, in qualità di socio pubblico, promuova l’azione di responsabilità prevista dagli artt. 2476 e 2407 c.c. nei confronti degli amministratori e dei sindaci, la “chiamata in giudizio” dello stesso attore ad opera degli esponenti aziendali convenuti, che ne alleghino la corresponsabilità formulando domanda di manleva, non rientra nella fattispecie dell’art. 106 c.p.c. ma, essendo proposta nei confronti di chi è già parte in causa, costituisce una domanda riconvenzionale che, ai sensi dell’art. 167, comma 2, c.p.c., deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta».

Inoltre, con ampia e articolata motivazione, Sez. 2, n. 26850/2022, Falaschi, Rv. 665886-01, ha espresso il principio così massimato «nel caso in cui l’attore in primo grado abbia ottenuto il rigetto nel merito dell’avversa domanda riconvenzionale, sulla cui inammissibilità per tardività, pure eccepita, il giudice non si sia pronunciato, la questione oggetto dell’eccezione pregiudiziale di rito può essere devoluta alla cognizione del giudice di secondo grado solo con le forme e i modi dell’appello incidentale, non essendo all’uopo sufficiente la mera riproposizione dell’eccezione in appello» , in ordine alla questione controversa nella giurisprudenza della Corte relativa alla configurabilità del potere del giudice d’appello di rilevare d’ufficio la tardività di una domanda riconvenzionale che il giudice di primo grado abbia rigettato nel merito, senza, tuttavia, pronunciarsi sulla tempestività della medesima nonchè sull’eccezione di tardività pure sollevata dalle controparti in primo grado, ma non introdotta dalle stesse in appello se non in via di mera eccezione.

1.4. Altre pronunce relative alla fase di introduzione della causa.

In ordine al ritiro dei fascicoli di parte, la Corte nell’anno in rassegna ha ribadito il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte secondo cui il giudice che accerti che una parte ha ritualmente ritirato, ex art. 169 c.p.c., il proprio fascicolo, senza che poi risulti, al momento della decisione, nuovamente depositato o reperibile, non è tenuto, in difetto di annotazioni della cancelleria e di ulteriori allegazioni indiziarie attinenti a fatti che impongano accertamenti presso quest’ultima, a rimettere la causa sul ruolo per consentire alla medesima parte di ovviare alla carenza riscontrata, ma ha il dovere di decidere la controversia allo stato degli atti (Sez. 6-3, n. 2264/2022, Gorgoni, Rv. 663863-01).

In tema di notifica al procuratore costituito ex art. 170 c.p.c., e all’operatività di tale disciplina anche in caso di elezione di domicilio presso il difensore, Sez. 2, n. 27995/2022, Caponi, Rv. 665699-01, ha precisato che «la notificazione presso il domiciliatario ex art. 141 c.p.c. - al di fuori dei casi eccezionali in cui, nell’interesse del destinatario, è per legge esclusiva - ha carattere alternativo rispetto agli altri modi di notificazione, con la conseguenza che, ove la parte sia rappresentata da due difensori, l’elezione di domicilio presso uno di costoro non priva la controparte delle facoltà di effettuare notificazioni all’altro difensore, stante la disposizione di cui all’art. 170, comma 1, c.p.c., secondo la quale, dopo la costituzione in giudizio, tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito, cioè all’uno o all’altro dei procuratori costituiti, in caso di pluralità» e Sez. 3, n. 9232/2022, Rubino, Rv. 664261-01, che «nel caso di nomina di nuovo procuratore con elezione di domicilio presso il suo studio, situato in luogo diverso rispetto a quello ove ha sede l’ufficio giudiziario dinanzi al quale si procede, la notificazione degli atti processuali deve essere effettuata presso l’indirizzo PEC da costui indicato al Consiglio dell’Ordine d’appartenenza, e risultante dal ReGIndE, in virtù di quanto disposto dall’art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. nella l. n. 114 del 2014, restando, pertanto, inefficace la domiciliazione presso il precedente difensore, indipendentemente dal fatto che non sia stata espressamente revocata».

Con riferimento al principio della immutabilità del giudice istruttore, sancito dall’art. 174 c.p.c., la Corte, nell’anno in rassegna ha ribadito il principio consolidato secondo cui la sostituzione del relatore senza l’osservanza delle modalità di cui agli artt. 174 c.p.c. e 79 disp. att. c.p.c., costituisce una mera irregolarità di carattere interno che non incide sulla validità del procedimento o della sentenza (Sez. 3, n. 14554/2022, Condello, Rv. 664841-01; Sez. 3, n. 12982/2022, Cirillo, Rv. 664633-01).

Infine, è stata ribadita l’interpretazione secondo cui la disposizione sull’ora contumaciale di cui all’art. 59 disp. att. c.p.c., è una norma speciale per la prima udienza del procedimento davanti al giudice di pace, da cui non può desumersi un principio di carattere generale, valevole per tutte le udienze di trattazione e per tutti i giudizi (Sez. 2, n. 822/2022, Scarpa, Rv. 663566-01).

2. La trattazione della causa.

2.1. L’inapplicabilità della sanatoria di cui all’art. 182 c.p.c. all’inesistenza della procura.

Nell’anno in rassegna sull’interpretazione dell’art. 182 c.p.c., nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, sono intervenute le Sezioni Unite (Sez. U, n. 37434/2022, Grasso, Rv. 666508-01) che, risolvendo il contrasto insorto nella giurisprudenza della Corte circa l’applicabilità della sanatoria retroattiva ivi prevista anche al caso di inesistenza della procura hanno affermato il seguente principio di diritto «L’art. 182, comma 2, c.p.c., nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, non consente di “sanare” l’inesistenza o la mancanza in atti della procura alla lite».

L’interpretazione prescelta si fonda in primo luogo sul dato letterale, ritenuto non supportare l’opposta opinione e, anzi, suffragare l’idea che la legge non abbia inteso contemplare l’inesistenza, avendo preso in considerazione la sola ipotesi della procura affetta da nullità, nullità «emendabile attraverso la rinnovazione, evidentemente eliminando il vizio che l’affetta, oppure, a discrezione della parte, mediante il rilascio di una nuova procura», e non anche l’ipotesi dell’inesistenza della procura.

L’estensione all’inesistenza, non enunciata espressamente dalla legge, si porrebbe secondo le Sezioni Unite in irrisolvibile contrasto con gli artt. 125, co. 2, 165, 166 e 168 cod. proc. civ. e 72 delle disp. att. e trans., i quali disegnerebbero una disciplina inconferente e inutile, e soprattutto con il principio enunciato dagli artt. 82 e 83 cod. proc. civ., che impone, salvo casi limitati ed eccezionali, il ministero di un difensore, negando alla parte, che non sia avvocato, di poter stare in giudizio personalmente.

La tesi estensiva, inoltre, in assenza di un espresso volere del legislatore, realizzerebbe una impropria confusione tra il potere di stare in giudizio in senso sostanziale (legittimazione) – la cui assenza può essere sanata in ogni tempo (con la costituzione del soggetto legittimato o di quello adiuvante o con il deposito degli atti autorizzativi), senza implicanze processuali, trattandosi di vicenda riguardante esclusivamente il diritto sostanziale - e la rappresentanza processuale “ad litem”, che richiede la esistenza della procura alla lite quale «presupposto processuale non surrogabile, salvo l’eccezione di cui al comma secondo dell’art. 125 cod. proc. civ., che s’inserisce a pieno titolo nello sviluppo processuale, regolato da norme pubblicistiche».

Infine, secondo le Sezioni Unite la tesi estensiva non recherebbe vantaggi sul piano della durata del processo, perché «l’assenza della procura, invero, genera l’inammissibilità della posizione processuale della parte e il processo verrà definito dal giudice come in tutti i processi con convenuto contumace, se è il convenuto a essere privo del ministero di un difensore. Nel caso in cui fosse l’attore a trovarsi in una tale situazione la sua domanda sarebbe inammissibile».

La sentenza in rassegna prende in esame anche il testo dell’art. 182 c.p.c. per come riformulato dal decreto legislativo n. 149 del 10/10/2022 nei termini seguenti: «Quando rileva la mancanza della procura al difensore oppure un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione che ne determina la nullità il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione».

Rilevando che «la radicale modifica attribuisce un contenuto chiaramente diverso rispetto alla disposizione precedente» non solo perché viene espressamente indicato il caso della “mancanza della procura”, ma anche perché il vizio della nullità viene riferito al difetto di rappresentanza, di assistenza e di autorizzazione, quindi all’ipotesi della legittimazione sostanziale, le Sezioni Unite ritengono che l’intervento in questione confermi “a contrario” la correttezza della linea interpretativa sposata, secondo la quale la norma vigente non consente la “sanatoria” dell’inesistenza della procura.

Segnalano, peraltro che il testo dell’art. 182 c.p.c. risultante dalla riforma «non si riferisce al fenomeno del mondo tangibile della “inesistenza”, avendo evocato, invece, la “mancanza”. Dal che potrebbe essere lecito dubitare se si sia voluto attribuire rilievo al mancato inserimento fra le carte processuali della procura esistente, e solo in un tal caso, o, seppure con la derivazione dal verbo mancare si sia inteso evocare anche l’inesistente in natura. Ove si opti per la prima soluzione sarebbe, di conseguenza, necessario che la parte dimostri la esistenza della procura al tempo regolato dal comma secondo dell’art. 125 cod. proc. civ., che non è stato fatto oggetto di modifiche». La questione non viene ulteriormente approfondita perché non rilevante ai fini della decisione.

Viene invece approfondita la questione dell’incompatibilità della sanatoria di cui all’art. 182 c.p.c. con la procura speciale per ricorrere e resistere nel giudizio di cassazione, anche dopo la riforma del 2022.

Rilevano, in proposito le Sezioni Unite, che l’art. 365 cod. proc. civ., rimasto inalterato dopo l’ultima riforma del processo civile, prevedendo che il ricorso per cassazione deve essere «sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale» impone «due prerequisiti, che il difensore sia iscritto nell’albo speciale di cui al r.d.l. n. 1578/1933 e che sia munito di procura speciale».

L’espressa specificazione di legge del requisito della specialità della procura per il ricorso per cassazione «delinea, per così dire, un’area qualificata di specialità, che renda inequivoca la volontà di colui che rilascia la procura di avere inteso attribuire il mandato, collegato a un contratto d’opera professionale, al proprio avvocato d’impugnare davanti alla Corte di cassazione uno specifico e individuato provvedimento giudiziario. Per questa ragione a una tale procura non s’addicono, come si è visto, formule generiche e, comunque, non puntuali, che evocano la difesa in “ogni stato e grado” o attribuiscono poteri e competenze al patrono del tutto estranei al giudizio di cassazione. Quel che serve indefettibilmente è che risulti indicato il provvedimento avverso il quale si intenda ricorrere, provvedimento che, all’evidenza, deve essere stato pubblicato in epoca anteriore al rilascio della procura.

Nello stesso segno s’inserisce il comma terzo dell’art. 125 cod. proc. civ., riportato sempre al § 5, rimasto anch’esso inalterato».

Le Sezioni Unite concludono, pertanto, che secondo il vecchio, ma anche secondo il nuovo regime processuale, resta preclusa la “sanatoria” afferente al difetto di procura speciale per il ricorso di cassazione: «occorrendo che la stessa sia rispettosa del principio di specialità, che ne impone, come si è visto, certo e specifico riferimento alla decisione impugnata, non è configurabile un rilascio tardivo per ordine del giudice. Sanatoria incompatibile, per un verso, con la natura di procura speciale, la quale presuppone che il cliente richieda, attraverso il mandato collegato al contratto d’opera, all’avvocato il proprio ministero di difensore abilitato a stare in giudizio davanti alle giurisdizioni superiori, a specifico riguardo di una data decisione e, per altro verso, con la disciplina di cui al r.d.l. n. 1578/1933, che limita l’abilitazione al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori agli avvocati iscritti nell’apposito albo; disciplina che resterebbe elusa da una sanatoria con effetto “ex tunc”».

2.2. L’udienza ex art. 183 c.p.c. e le preclusioni connesse.

Nell’anno in rassegna la Corte ha avuto occasione di affrontare la questione della rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per territorio alla prima udienza utile successiva al tentativo di mediazione obbligatoria, ritenendo irrilevante che il tentativo di mediazione si sia protratto per diverse udienze, atteso che la mediazione disciplinata dal d.lgs. n. 28 del 2010 costituisce, per espressa volontà legislativa, una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, che si pone “a monte” dell’inizio del processo (Sez. 6-3, n. 34814/2022, Moscarini, Rv. 666347-01).

Quanto alla definizione del thema decidendum è stato chiarito che la domanda nuova dell’attore, ammissibile nei limiti in cui costituisca conseguenza della riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto, può essere formulata oltre che nel corso dell’udienza, ai sensi del comma 4, anche, ove richiesto, nel primo termine perentorio di trenta giorni fissato dal giudice ai sensi del comma 5 del medesimo articolo (Sez. 2, n. 9978 /2022, Casadonte, Rv. 664327-01).

Mentre, riguardo al divieto della mutatio libelli è stato escluso che lo stesso precluda alla parte che abbia chiesto, con la domanda giudiziale, la riduzione del prezzo pattuito per la compravendita, di richiedere, in alternativa, con la memoria ex art.183, comma 6, c.p.c., la risoluzione del contratto per grave inadempimento, stanti l’identità delle parti, del contratto e della complessiva vicenda sostanziale dedotta in giudizio e la connessione per alternatività delle due domande, senza peraltro che ciò contrasti neppure col principio della irrevocabilità della scelta operata inizialmente ex art. 1492 c.c., atteso che esso, trovando il suo limite nella identità del vizio fatto valere, è superato dall’emersione di ulteriori e diversi vizi (Sez. 2, n. 22539/2022, Varrone, Rv. 665180-01).

Peraltro, in tema di domanda di risarcimento del danno è stato ritenuto che nel suo nucleo immodificabile la domanda non va identificata in relazione al diritto sostanziale eventualmente indicato dalla parte e considerato alla stregua dei fatti costitutivi della fattispecie normativa (che costituisce oggetto della qualificazione del giudice), bensì esclusivamente in base al bene della vita e ai fatti storici-materiali che delineano la fattispecie concreta; ne consegue che, se i fatti materiali ritualmente allegati rimangono immutati, è compito del giudice individuare quali tra essi assumano rilevanza giuridica, in relazione alla individuazione della fattispecie normativa astratta in cui tali fatti debbono essere sussunti ed indipendentemente dal tipo di diritto indicato dalla parte (Sez. 3, n. 10049/2022, Iannello, Rv. 664475-01, che, in applicazione del principio, ha confermato la pronuncia del giudice di merito che aveva condannato il Ministero della Salute, a titolo di responsabilità contrattuale, a risarcire i danni subiti da un paziente in regime di ricovero ospedaliero per avere contratto, a seguito di una emotrasfusione l’infezione da HVC, sebbene l’originaria domanda fosse stata proposta dall’attore su fondamento extracontrattuale).

Quanto alle preclusioni in punto di prove Sez. 3, n. 21407 /2022, Rubino, Rv. 665262-01, ha affermato che il provvedimento emesso da un’Autorità amministrativa indipendente non può essere qualificato unicamente come delibera, riconducibile alla categoria degli atti amministrativi, ma, ove provvisto del valore di fonte normativa regolamentare, ovvero attuato con atto regolamentare, soggiace al principio “iura novit curia”, con la conseguenza che il giudice è tenuto ad attivarsi autonomamente per reperirlo, e comunque a valutarlo ove prodotto dalle parti, indipendentemente dal rispetto delle preclusioni processuali istruttorie.

Si rinvia al capitolo IX per l’esame degli importanti principi affermati, nell’anno in rassegna, dalle Sezioni Unite, in tema di potere del c.t.u. di acquisire, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione, ove non si verta in materia di esame contabile ex art. 198 c.p.c., che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio (S.U. n. 3086 /2022, Marulli, Rv. 663786-03-04-05-06).

In questa sede ci si limita a rilevare che le Sezioni Unite, nella predetta sentenza hanno ritenuto che, stante l’obiettiva convergenza dei ruoli che sul piano dell’attuazione della giurisdizione si realizza tra il giudice ed il consulente da lui nominato (in quanto le indagini che il consulente tecnico, ricevendone il mandato del giudice sotto forma dei quesiti ai quali rendere risposta, è incaricato di espletare sono quelle stesse indagini che il giudice potrebbe svolgere da sé medesimo se, in relazione a quanto oggetto di lite, disponesse delle necessarie competenze tecnico-scientifiche) i poteri di cui il consulente tecnico dispone nei dare esecuzione all’incarico promanino direttamente dal giudice che lo ha nominato e siano perciò esercitabili – segnatamente sotto il profilo istruttorio – negli stessi limiti in cui sarebbero esercitabili dal giudice, con conseguente inapplicabilità delle preclusioni processuali ordinariamente vigenti per le parti.

Conseguentemente le Sezioni Unite hanno ritenuto che il consulente possa acquisire documenti non prodotti dalle parti, con due limiti: quello dei documenti non prodotti in giudizio afferenti alla prova di fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni, ordinariamente soggetti ad essere provati ad iniziativa delle parti, la cui violazione comporta una nullità relativa ex art. 157 c.p.c.; e quello, correlato al principio della domanda in ossequio al principio dispositivo, dell’accertamento di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni in senso stretto, la cui violazione fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o in mancanza, di motivo di impugnazione ex art. 161 c.p.c.

A fronte di tale disciplina generale si pone quella speciale prevista dall’art. 198, comma 2, c.p.c. in materia di esame contabile che consente espressamente al consulente l’esame di documenti non prodotti in giudizio, anche se relativi a fatti principali ordinariamente soggetti ad essere provati ad iniziativa delle parti.

La giurisprudenza successiva in applicazione di tali principi ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimamente acquisito un referto medico, benché il c. t. u. fosse stato autorizzato all’acquisizione, presso strutture pubbliche e private, della documentazione riguardante il danneggiato, e nonostante tale referto fosse stato ritenuto dal giudice di primo grado indispensabile ai fini dell’integrale quantificazione del danno biologico, a mezzo di un supplemento peritale Sez. 3, n. 32935/2022, Ambrosi, Rv. 666142-01.

Si segnala che nell’anno in rassegna, sempre in forza dei principi affermati nella predetta sentenza delle Sezioni Unite, è stato altresì affermato il principio di diritto secondo cui «in tema di consulenza tecnica d’ufficio, l’acquisizione, ad opera del consulente, di documenti diretti a provare i fatti principali, dedotti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni, che è onere solo delle parti provare, è sanzionata da nullità relativa ex art. 157 c.p.c., rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso». (Sez. 3, n. 17916/2022, Vincenti, Rv. 665018-01, che ha cassato la sentenza d’appello che, in assenza di tempestiva eccezione ex art. 157, comma 2, c.p.c., aveva rilevato d’ufficio la nullità della c.t.u., per avere il consulente acquisito, oltre i termini delle preclusioni istruttorie, nuova documentazione necessaria a provare fatti principali, che, pur dedotti tempestivamente dalle parti, non erano stati da queste tempestivamente provati).

Infine anche i principi affermati in tema di consulenza tecnica contabile hanno ricevuto applicazione nella successiva giurisprudenza di legittimità nella quale si trova affermato il principio secondo cui «in materia di esame contabile, ai sensi dell’art. 198 c.p.c., il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se diretti provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni» (Sez. 1, n. 34600/2022, Falabella, Rv. 666177-01, che, in applicazione di tale principio ha confermato “in parte qua” la sentenza di merito, ritenendo che nel giudizio di ripetizione dell’indebito proposto dal correntista, il consulente d’ ufficio possa procedere all’acquisizione degli estratti conto relativi al rapporto che le parti abbiano mancato di produrre).

D’altra parte, sempre in tema di consulenza tecnica d’ufficio, le Sezioni Unite hanno avuto occasione di chiarire che «le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene di carattere non tecnico-giuridico, che possono essere formulate per la prima volta nella comparsa conclusionale e anche in appello, purché non introducano nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove ma si riferiscano all’attendibilità e alla valutazione delle risultanze della c. t. u. e siano volte a sollecitare il potere valutativo del giudice in relazione a tale mezzo istruttorio» (Sez. U, n. 5624/2022, Scrima, Rv. 664033-01).

2.3. La precisazione delle conclusioni e l’assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

Nell’anno in rassegna si trova ribadito il principio, già espresso nella giurisprudenza della Corte, secondo cui le istanze istruttorie rigettate dal giudice del merito devono essere riproposte con la precisazione delle conclusioni in modo specifico e non soltanto con il generico richiamo agli atti difensivi precedenti, dovendosi, in difetto, ritenere abbandonate e non riproponibili con l’impugnazione; tale presunzione può, tuttavia, ritenersi superata qualora emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione. (Sez. 6-3, n. 10767/2022, Dell’Utri, Rv. 664646-01). In applicazione del principio, la Corte ha cassato la pronuncia della Corte d’appello che si era limitata a rilevare la mancanza di una specifica riproposizione delle istanze probatorie con le conclusioni, trascurando di considerare che l’istanza di ammissione delle prove orali era già stata reiterata dall’istante con la richiesta, successiva al rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni, di revoca o di modifica dei provvedimenti istruttori del giudice di primo grado.

Quanto ai termini cui all’art. 190 c.p.c., la Corte ha chiarito che la loro mancata assegnazione nonostante che le parti non vi abbiano rinunciato, non comporta la nullità “ipso iure” della sentenza, qualora tra l’udienza di precisazione delle conclusioni e il deposito della sentenza siano comunque intercorsi i termini sanciti dalla predetta disposizione (Sez. 2, n. 34861/2022, Criscuolo, Rv. 666495-03), così chiarendo la mera apparenza del contrasto con il diverso principio affermato in alcuni precedenti della corte, tra cui Sez. U, n. 36596/2021, Terrusi, Rv. 663244-01, nei quali la decisione era intervenuta in ogni caso prima della scadenza del termine di cui all’art. 190 c.p.c., che in ipotesi sarebbe spettato alla parte, ma che il giudice aveva omesso di concedere; e specificando, altresì, che in caso di mancata concessione dei termini previsti dall’art. 190 c.p.c. e di deposito della sentenza oltre la loro scadenza, la parte, nel silenzio del giudice, può fare affidamento sul termine di legge dettato dall’art. 190 c.p.c., e quindi provvedere autonomamente al deposito degli scritti conclusionali.

Infine, in ordine alla mancata restituzione del fascicolo di parte al momento della decisione è stato ribadito nell’anno in rassegna il principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui il giudice, non è tenuto, in difetto di annotazioni della cancelleria e di ulteriori allegazioni indiziarie attinenti a fatti che impongano accertamenti presso quest’ultima, a rimettere la causa sul ruolo per consentire alla medesima parte di ovviare alla carenza riscontrata, ma ha il dovere di decidere la controversia allo stato degli atti (Sez. 6-3, n. 2264/2022, Gorgoni, Rv. 663863-01).

2.4. La chiamata in causa, l’intervento dei terzi e la riunione dei procedimenti.

In ordine alla chiamata in causa del terzo la Corte - oltre a ribadire il principio consolidato, secondo cui il provvedimento del giudice di merito che concede o nega l’autorizzazione a chiamare in causa un terzo coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello e di ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 2331/2022, Scarpa, Rv. 663688-01) – ha affermato che il termine entro il quale, ai sensi dell’art. 269 c. p. c., deve essere depositata la citazione del terzo chiamato ha natura ordinatoria e, se non rispettato, non comporta l’improcedibilità della domanda nei confronti del chiamato (Sez. 2, n. 4674/2022, Grasso, Rv. 663832-01).

Quanto all’intervento del terzo sono stati ribaditi i principi già consolidati secondo cui «in caso di domanda proposta dall’interventore volontario, l’effetto interruttivo della prescrizione si verifica al momento in cui l’atto di intervento pervenga a conoscenza, di fatto o legale, della controparte, e quindi, in tempi diversi a seconda che la sua costituzione abbia luogo mediante la presentazione della relativa comparsa in udienza oppure con il deposito della stessa in cancelleria, atteso che, nel primo caso, il destinatario della domanda, che risulti costituito in giudizio, ne viene immediatamente a conoscenza, mentre nel secondo il medesimo destinatario ne viene a conoscenza alla data della comunicazione effettuata dal cancelliere ai sensi dell’art. 267, comma 2, c.p.c., ovvero, in mancanza, all’udienza successiva; qualora, poi, la parte sia rimasta contumace, il predetto effetto si realizza all’atto della notifica della comparsa di intervento contenente la domanda» (Sez. 3, n. 8096/2022, Rossetti, Rv. 664576-02) e secondo cui «l’interventore adesivo dipendente (nella specie, l’Ente impositore intervenuto volontariamente nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione) ha diritto alla refusione delle spese di lite in caso di soccombenza dell’opponente, essendo sufficiente a tal fine la sua partecipazione al giudizio» (Sez. 3, n. 1589/2022, Rossetti, Rv. 663707-01).

Infine, riguardo alla riunione dei procedimenti, sono stati ribaditi i principi secondo cui il provvedimento di riunione e di separazione, fondandosi su valutazioni di mera opportunità, costituisce esercizio del potere discrezionale del giudice e ha natura ordinatoria, ed è pertanto insuscettibile di impugnazione e insindacabile in sede di legittimità (Sez. 1, n. 28539/2022, Acierno, Rv. 665810-01) e secondo cui la riunione di più cause - e la conseguente, congiunta trattazione delle stesse - lascia immutata l’autonomia dei singoli giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni, di modo che la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite, pur essendo formalmente unica, si risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise, mentre la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione a ciascun giudizio, atteso che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza, non potendo essere coinvolti in quest’ultima soggetti che non sono parti in causa (Sez. 6-3, n. 27295/2022, Dell’Utri, Rv. 665726-01).

Ed in ordine al cd. “effetto espansivo” del rito ordinario, previsto dall’art. 40, comma 3, c.p.c. Sez. 1, n. 11964/2022, Campese, Rv. 664677-02 ha ritenuto che, qualora il giudice di primo grado, applicando il rito ordinario, ritenga inammissibili per difetto di “connessione forte” ex art. 40, comma 3, c.p.c., le domande risarcitorie avanzate unitamente a quella di separazione personale dei coniugi, nella successiva fase di appello non si verifica l’effetto espansivo del rito ordinario previsto dalla richiamata norma, sicché l’impugnazione soggiace al rito camerale e va introdotta con ricorso e non con citazione.

3. La decisione della causa.

3.1. La deliberazione e la pubblicazione della sentenza.

In tema di deliberazione della sentenza è stato ribadito il principio secondo cui il dispositivo redatto in camera di consiglio ex art. 276, ultimo comma, c.p.c., non ha rilevanza giuridica esterna ma solo valore interno poiché l’esistenza della sentenza civile è determinata - salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro ovvero a riti ad esso legislativamente equiparati o specialmente disciplinati - dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata.

Di conseguenza la Corte ha ribadito che è valida la sentenza ancorché agli atti non risulti la presenza di un dispositivo, sottoscritto dal presidente, mancando, tanto più, la previsione di un corrispondente vizio nella citata norma (Sez. 3, n. 4430/2022, Rossetti, Rv. 663925-01), e che, nell’ipotesi di entrata in vigore una nuova normativa (dispiegante effetti sostanziali o processuali sul rapporto controverso) nell’intervallo di tempo intercorrente tra la deliberazione e la pubblicazione della sentenza, è dovere del giudice applicare immediatamente la disciplina sopravvenuta mediante i necessari, consequenziali adempimenti (Sez. 6-1, n. 16038/2022, Campese, Rv. 664783-01).

3.2. La condanna generica e la provvisionale.

Nell’anno in rassegna, a seguito della pronuncia di un’ordinanza della Terza sezione civile (Sez. 3, n. 17984/2022, Frasca, Rv. 665748-01, così massimata da questo Ufficio: «É inammissibile la domanda dell’attore originariamente rivolta unicamente ad una condanna generica, in quanto l’art. 278 c.p.c. costituisce una norma eccezionale e la parcellizzazione dell’esercizio della tutela giurisdizionale determina un abuso del processo, con la conseguenza che la limitazione della domanda al solo “an debeatur”, deve ritenersi “tamquam non esset” e il giudice, dovendo procedere all’accertamento del diritto fatto valere sia nell’”an” che nel “quantum”, deve dichiarare la nullità e la rinnovazione dell’atto introduttivo ove sia carente quanto all’indicazione del quantum, e rigettare la domanda in caso di mancanza di prova del “quantum”») che aveva affermato l’inammissibilità della domanda dell’attore originariamente rivolta unicamente ad una condanna generica, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte a ribadire il consolidato orientamento secondo il quale la domanda di risarcimento del danno può essere legittimamente rivolta ab origine ad ottenere una condanna generica, senza che sia necessario il consenso del convenuto, il quale può formulare domanda riconvenzionale di accertamento dell’insussistenza del danno: domanda che, se proposta, ribalterà sull’attore l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare del danno (Sez. U, n. 29862/2022, Rossetti, Rv. 665940-02).

Le Sezioni Unite rilevano, riguardo alla predetta ordinanza difforme, che, in quella decisione, l’affermazione del principio secondo cui l’attore non potrebbe chiedere ab origine una condanna generica costituisce un mero obiter dictum posto che la domanda introduttiva del primo grado di quel giudizio non era affatto limitata al solo an debeatur.

Inoltre, tale principio non viene ritenuto condivisibile in virtù del principio, ripetutamente affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, della necessaria stabilità nell’interpretazione delle norme processuali secondo il quale, l’interpretazione di una norma processuale quando sia consolidata, può essere abbandonata solo in presenza di «forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo» oppure quando l’interpretazione consolidata «risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, atteso che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo». Con la conseguenza che quando una norma processuale può teoricamente essere interpretata in due modi diversi, ambedue compatibili con la lettera della legge, è doveroso preferire quella interpretazione sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

L’ammissibilità della domanda generica di risarcimento del danno deriva, inoltre, dal principio di libertà del diritto di azione su cui è imperniato il nostro ordinamento costituzionale e processuale, in base al quale spetta all’attore stabilire, in totale libertà, cosa chiedere, quanto chiedere e quando chiedere, con l’unico limite del divieto di abuso del diritto.

L’interpretazione che ritiene inammissibile la domanda di condanna generica viene, infine, ritenuta incompatibile con vari principi stabiliti dal diritto comunitario, ovvero da norme interposte ai sensi dell’art. 10 Cost.

Tra i “principi fondanti dell’Unione Europea”, “comunitarizzati” per effetto dell’art. 6, comma 3, del Trattato sull’Unione Europea (c.d. “Trattato di Lisbona”, ratificato e reso esecutivo con l. n. 130 del 2008), infatti, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, da tempo include quello di certezza del diritto che ha - fra gli altri - due corollari: il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti. In campo processuale i principi affermati dalla Corte di Lussemburgo sono stati ripresi e sviluppati dalla Corte EDU, la quale ne ha tratto il corollario che è impedito ai giudici degli Stati membri interpretare le norme processuali in modo che conducano all’inammissibilità d’una domanda giudiziale, quando tali interpretazioni siano “troppo formalistiche”, adottate “a sorpresa” e niente affatto chiare ed univoche.

Affermata, dunque, l’ammissibilità di una domanda di condanna ab origine limitata all’an debeatur, la Corte ha affrontato, e risolto positivamente, anche la questione della ammissibilità di una condanna provvisionale nel giudizio introdotto da una siffatta domanda, rilevando come la tesi contraria, non sia sostenibile, in primo luogo, perché eleva lo stesso presupposto della norma (la richiesta di condanna generica) a fattore impeditivo dell’applicazione di essa. Se, infatti, fosse formulata una richiesta di condanna estesa al quantum, la concessione d’una provvisionale non avrebbe senso né utilità, dal momento che il processo si chiuderebbe comunque con una sentenza - di accoglimento o di rigetto - definitiva.

Si ritiene che l’art. 278 c.p.c. nel subordinare la condanna generica alla circostanza che sia “accertata l’esistenza d’un diritto, ma [sia] ancora controversa la quantità della prestazione dovuta”, non imponga affatto che la “controvertibilità” del quantum debba sussistere nel medesimo giudizio in cui si è chiesta la condanna generica: la quantità della prestazione dovuta, infatti, può essere qualificata come “ancora controversa” sia quando la liquidazione del danno sia richiesta nel medesimo giudizio in cui è stata pronunciata la condanna generica, sia quando la quantificazione del danno è stata riservata dall’attore ad un futuro e separato giudizio.

L’art. 278 c.p.c., pertanto, anche sul piano letterale, non solo non esclude, ma anzi impone di ritenere ammissibile la richiesta - e la pronuncia - d’una condanna provvisionale nel giudizio incardinato al solo fine di ottenere una pronuncia generica sull’an debeatur.

3.3. La discussione orale della causa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c.

In ordine all’udienza di discussione orale della causa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c. la Corte ne ha ritenuto legittimo lo svolgimento - nel periodo di emergenza pandemica, nella vigenza dell’art. 83, comma 7, lettera h, del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, convertito con modificazioni in legge 24 aprile 2020 n. 37 - in forma scritta, mediante l’assegnazione alle parti di un termine unico e comune anteriore alla data dell’udienza per il deposito di note scritte, considerando l’assegnazione di tale termine, in linea generale (e salve le eccezioni normativamente previste), una forma adeguata a garantire il contraddittorio in tutti i casi in cui sia per legge consentita la trattazione della causa in forma scritta e non sia invece imposta la discussione in forma orale (o addirittura in presenza), anche, quindi, in relazione alla fase decisoria del giudizio di merito (Sez. 3, n. 37137/2022, Tatangelo, Rv. 666275-01).

4. La correzione delle sentenze e delle ordinanze.

Anche nell’anno in rassegna la Corte ha individuato una serie di casi in cui non si può ricorrere al procedimento di correzione dell’errore materiale della sentenza.

Oltre a ribadire il caso del contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo della sentenza che, non consentendo di individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione, determina la nullità della pronuncia ai sensi dell’art. 156, comma 2, c.p.c. (Sez. 6-5 n. 37079/2022 Putaturo Donati Viscido Di Nocera, Rv. 666556-01) la Corte, rilevando che il procedimento di correzione degli errori materiali ex art. 287 c.p.c. è esperibile per ovviare ad un difetto di corrispondenza fra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo del provvedimento, senza interferire sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione, ne ha escluso l’esperibilità per far valere l’erronea indicazione, nel decreto di trasferimento, di servitù attive o passive riguardanti il bene trasferito, individuando il relativo rimedio nell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., (Sez. 3, n. 16219/2022, Saija, Rv. 664904-02) e nel caso in cui, nel giudizio di separazione coniugale, la sentenza individui, quale casa familiare oggetto di assegnazione, quella sita in un luogo piuttosto che un’altra, poiché la sua identificazione richiede un accertamento in fatto, che non può essere rivisto con la semplice correzione (Sez. 6-1, n. 3442/2022, di Marzio, Rv. 663964-01).

D’altra parte nell’anno in rassegna la Corte ha ribadito che nell’ipotesi in cui la sentenza contro la quale è stato proposto gravame contenga un errore materiale, l’istanza di correzione dello stesso, non essendo rivolta ad una vera e propria riforma della decisione, non deve necessariamente formare oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, neppure in via incidentale, ma può essere proposta in qualsiasi forma e può anche essere implicita nel complesso delle deduzioni difensive svolte in appello, con la conseguenza che, ove l’istanza di correzione sia stata espressa in un appello incidentale, la declaratoria di inammissibilità del suddetto appello incidentale non preclude la decisione in ordine alla suddetta istanza. (Sez. 6-2, n. 683/2022, Grasso, Rv. 663808-01).

5. La sospensione del processo.

In tema di sospensione necessaria del processo si segnala che nell’anno in rassegna sono intervenute, in sede di regolamento di competenza, le Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 30148/2022, Falaschi, Rv. 666057-01) affermando che, benché nel testo dell’art. 295 c. p. c., modificato dall’art. 35 della l. n. 353 del 1990, manchi il riferimento ad una pregiudiziale “controversia amministrativa” (presente, invece, nella precedente formulazione), non può escludersi, in via di principio, la configurabilità di una sospensione necessaria in pendenza di un giudizio amministrativo, che deve ritenersi ammissibile qualora sia imposta dall’esigenza di evitare un conflitto di giudicati, ipotesi che però non ricorre se il possibile contrasto riguardi soltanto gli effetti pratici dell’una o dell’altra pronuncia, e se, in particolare, tra i giudizi sussista diversità di parti, ostandovi in questo caso il rispetto del principio del contraddittorio.

Analogamente, ma con riferimento ad una pregiudiziale “controversia penale” Sez. 2, n. 1443/2022, Orilia, Rv. 663628-01, ha affermato il principio di diritto così massimato: «nell’azione di impugnazione del testamento per indegnità a succedere della persona designata come erede, sussiste il litisconsorzio necessario di tutti i successori legittimi, trattandosi di azione volta ad ottenere una pronuncia relativa ad un rapporto giuridico unitario ed avente ad oggetto l’accertamento, con effetto di giudicato, della qualità di erede che, per la sua concettuale unità, è operante solo se la decisione è emessa nei confronti di tutti i soggetti del rapporto successorio. Tuttavia, qualora tale azione si trovi in rapporto di pregiudizialità giuridica con un giudizio penale pendente, l’esistenza del litisconsorzio necessario non giustifica la sospensione totale o parziale del processo civile, se non vi è una perfetta coincidenza delle parti dei due giudizi, configurabile quando non solo l’imputato, ma anche il responsabile civile e la parte civile abbiano partecipato al processo penale».

D’altra parte, sempre in materia di cd. pregiudizialità penale, è stato ritenuto che «l’esecuzione di un sequestro preventivo, nell’ambito di un procedimento penale, avente ad oggetto un bene appartenente ad un soggetto in comunione con terzi estranei al reato non costituisce motivo di sospensione necessaria del processo civile di scioglimento della comunione, ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., nelle more del giudicato penale, atteso che le esigenze del sequestro e della eventuale confisca trovano tutela nella disciplina della trascrizione del provvedimento ablatorio e degli effetti della sentenza di divisione regolati dall’art. 1113 c.c.» (Sez. 6-2, n. 30320/2022, Scarpa, Rv. 666160-01).

In tema di pregiudizialità civile, invece, la Corte ha confermato i principi già espressi da Sez. U, n. 21763/2021, Carrato, Rv. 662227-03, ritenendo che «qualora tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità, la sospensione ex art. 295 c.p.c. della causa dipendente permane fintanto che la causa pregiudicante penda in primo grado, mentre, una volta che questa sia definita con sentenza non passata in giudicato, spetta al giudice della causa dipendente scegliere se conformarsi alla predetta decisione, sciogliendo il vincolo necessario della sospensione, ove una parte del giudizio pregiudicato si attivi per riassumerlo, ovvero attendere la sua stabilizzazione con il passaggio in giudicato, mantenendo lo stato di sospensione (ovvero di quiescenza) attraverso però il ricorso all’esercizio del potere facoltativo di sospensione previsto dall’art. 337, comma 2, c.p.c., ovvero decidere in senso difforme quando, sulla base di una ragionevole valutazione prognostica, ritenga che tale sentenza possa essere riformata o cassata» (Sez. 2, n. 9470/2022, Falaschi, Rv. 664320-01).

Tale pronuncia si pone in linea di continuità con i principi espressi da Sez. U, n. 21763/2021, Carrato, Rv. 662227-03, anche riguardo alla possibilità, riconosciuta al giudice della causa dipendente di scegliere anziché conformarsi alla decisione sulla causa pregiudicante non passata in giudicato o attendere la sua stabilizzazione con il passaggio in giudicato, «di decidere in senso difforme ove ritenga che tale sentenza possa - sulla base di una ragionevole valutazione prognostica - essere riformata o cassata» (pag. 39 della predetta sentenza delle Sezioni Unite).

Quanto alle fattispecie in cui ricorrono i presupposti della sospensione necessaria è stato ribadito il consolidato principio secondo cui «la sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c., nell’ipotesi di giudizio promosso per il riconoscimento di diritti derivanti da titolo, ricorre quando in un diverso giudizio tra le stesse parti si controverta dell’inesistenza o della nullità assoluta del titolo stesso, poiché al giudicato di accertamento della nullità, la quale impedisce all’atto di produrre “ab origine” qualunque effetto, sia pure interinale, si potrebbe contrapporre un distinto giudicato, di accoglimento della pretesa basata su quel medesimo titolo, contrastante con il primo; detto nesso di pregiudizialità necessaria non ricorre, invece, ove nel diverso giudizio si controverta di meri vizi di annullabilità del titolo, poiché l’eventuale annullamento non è incompatibile con la sua efficacia “medio tempore”, salvo restando la retroattività “inter partes” con i connessi obblighi di restituzione delle obbligazioni già eseguite». (Sez. 6-2, n. 5599/2022, Abete, Rv. 663817-01).

In tema di eccezione di compensazione cd. “impropria”, volta a contrapporre al credito principale una pretesa creditoria fondata sul medesimo rapporto Sez. 6-1, n. 23167/2022, Di Marzio, Rv. 665249-01, ha ritenuto che, qualora nel giudizio finalizzato all’accertamento di un credito sia opposto in compensazione un controcredito oggetto di contemporaneo accertamento in un separato procedimento, il primo giudizio non è suscettibile d’essere sospeso ex art. 295 c.p.c. nelle more della definizione del secondo con provvedimento coperto dal giudicato, ma deve essere, viceversa, deciso nel merito, con il rigetto dell’eccezione di compensazione in esso sollevata.

Quanto allo status di erede di una delle parti Sez. 6-L, n. 11458/2022, Doronzo, Rv. 664348-01, ha escluso la ricorrenza dei presupposti per la sospensione necessaria del processo nella controversia promossa per far valere un credito (nella specie, di lavoro), nei confronti di chi si assuma erede del debitore, in pendenza di una causa ereditaria, proposta da altri successibili, in quanto le questioni attinenti alla sussistenza o meno di tale qualità di erede, in capo al convenuto, rientrano nell’ambito degli accertamenti meramente incidentali.

Inoltre, anche nell’anno in rassegna, ha trovato conferma il principio secondo cui, in ipotesi di cause in rapporto di continenza, ove non sia possibile rimettere, ai sensi dell’art. 39, comma 2, c.p.c., la causa successivamente proposta dinanzi al giudice preventivamente adito, perché le cause pendono in gradi diversi, l’esigenza di coordinamento, sottesa alla disciplina della continenza, va assicurata sospendendo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., il processo che avrebbe dovuto subire l’attrazione dell’altro, in attesa della sua definizione con sentenza passata in giudicato (Sez. 6-2, n. 5340/2022, Dongiacomo, Rv. 664063-02 che, in applicazione del principio, ha ritenuto corretta la sospensione, ex art. 295 c.p.c., del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per il pagamento del medesimo credito, oggetto di altra causa, già pendente in un diverso grado e dinanzi ad un diverso ufficio giudiziario, legata da nesso di continenza).

Infine, in ordine alla riassunzione del processo sospeso la Corte ha ritenuto, in un caso in cui il ricorso ex art. 297 c.p.c. era stato depositato dagli eredi di una delle parti, che non è richiesta la notifica al convenuto contumace, non rientrando nell’elenco degli atti tassativamente indicati dall’art. 292 c.p.c., né comportando un radicale mutamento della preesistente situazione processuale, sotto il profilo oggettivo o soggettivo, posto che gli eredi subentrano al loro dante causa nella medesima posizione processuale in cui quest’ultimo si trovava, senza poter operare alcuna sostanziale modificazione delle domande e delle eccezioni già precedentemente proposte in giudizio. (Sez. 1, n. 26800/2022, Meloni, Rv. 665632-01).

6. L’interruzione del processo.

In tema di interruzione del processo nell’anno in rassegna è stato in primo luogo ribadito il principio consolidato secondo cui l’evento della morte o della perdita della capacità processuale della parte costituita che sia dichiarato in udienza o notificato alle altre parti dal procuratore della stessa parte colpita da uno di detti eventi produce, ai sensi dell’art. 300, comma 2, c.p.c., l’effetto automatico dell’interruzione del processo dal momento di tale dichiarazione o notificazione e il conseguente termine per la riassunzione, in tale ipotesi, come previsto in generale dall’art. 305 c.p.c., decorre dal momento in cui interviene la dichiarazione del procuratore o la notificazione dell’evento, ad opera dello stesso, nei confronti delle altre parti, senza che abbia alcuna efficacia, a tal fine, il momento nel quale venga adottato e conosciuto il provvedimento giudiziale dichiarativo dell’intervenuta interruzione (avente natura meramente ricognitiva) pronunziato successivamente e senza che tale disciplina incida negativamente sul diritto di difesa delle parti (Sez. 6-2, n. 27788/2022, Besso, Rv. 665712-01).

Quanto al caso in cui l’evento interruttivo sia dichiarato dopo la precisazione delle conclusioni, nell’anno in rassegna è stata ribadita la consolidata distinzione dei suoi effetti a seconda che la dichiarazione intervenga prima o dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

In particolare Sez. 2, n. 33203/2022, Carrato, Rv. 666139-01, in linea con la precedente giurisprudenza della Corte secondo cui nel caso in cui l’evento della morte della parte costituita in giudizio sia dichiarata dal suo procuratore in comparsa conclusionale (e prima, quindi, della scadenza dei termini assegnati ai sensi dell’art. 190 c.p.c.), dev’essere dichiarata l’interruzione del processo – non potendo trovare applicazione l’art. 300, ultimo comma, in quanto tale ipotesi non è parificabile al caso in cui l’evento interruttivo si avveri o sia notificato dopo la chiusura della discussione davanti al collegio, che, nella disciplina introdotta dalla legge n. 353 del 1990, è equiparata al momento in cui, dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, viene a scadere il termine per il deposito delle comparse conclusionale e delle memorie di replica – ha ritenuto che, ove l’interruzione non sia stata dichiarata dal giudice di primo grado il giudice di appello sia tenuto a dare atto dell’interruzione del giudizio ex art. 300, comma 1 c.p.c., con la necessità della sua riassunzione tempestiva, in virtù dell’art. 303 c.p.c., al fine di non incorrere nella declaratoria di estinzione.

Con riferimento al caso in cui invece l’evento interruttivo si verifichi dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. la Corte, nell’anno in rassegna ha ribadito il principio, già espresso nella giurisprudenza della Corte, secondo cui, ove tale evento consista nel fallimento della parte, la dichiarazione di fallimento di una delle parti non produce alcun effetto ai fini della interruzione del processo, sicchè il giudizio prosegue tra le parti originarie e la sentenza pronunciata nei confronti della parte successivamente fallita non è nulla, né inutiliter data, bensì inopponibile alla massa dei creditori, rispetto ai quali costituisce res inter alios acta (Sez. 1, n. 7076/2022, Lamorgese, Rv. 664116-01).

Per altro verso la Corte ha ribadito il principio secondo cui il giudice d’appello che dichiari la nullità della sentenza per la mancata interruzione del processo di primo grado a seguito della morte del procuratore, è tenuto a decidere la causa nel merito, non rientrando tale nullità fra i casi di rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c., precisando, che in tal caso, la relativa decisione deve contenere una motivazione del tutto autonoma, priva di qualsivoglia riferimento alla sentenza impugnata dichiarata nulla (Sez. 3, n. 27643/2022, Gorgoni, Rv. 665939-01).

Inoltre Sez. 3, n. 37729/2022, Valle, Rv. 666421-01, ha ribadito il principio già affermato nella giurisprudenza della Corte, secondo cui al processo esecutivo non è applicabile l’istituto dell’interruzione, perché l’azione esecutiva si esercita e si svolge in un processo non caratterizzato da formale contraddittorio non essendo volta all’accertamento della fondatezza di una pretesa, ma a conseguirne la realizzazione essendone già stato accertato il fondamento.

Infine, Sez. 1, n. 7075/2022, Tricomi, Rv. 664115-01 e Sez. 1, n. 34867/2022, Iofrida, Rv. 666448-02, hanno ribadito il principio secondo cui le norme sull’interruzione del processo sono rivolte a tutelare la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo, sicché l’irregolare prosecuzione del giudizio derivante dalla loro inosservanza può essere fatta valere soltanto da quest’ultima, che dall’evento interruttivo può essere pregiudicata, e non anche dalle altre parti, le quali, non risentendo di alcun pregiudizio, non possono dedurla come motivo di nullità della sentenza ciononostante pronunciata.

6.1. La prosecuzione e la riassunzione del processo interrotto.

In ordine alla decorrenza del termine per la riassunzione del processo interrotto, la Corte, nell’anno in rassegna, ha precisato che il provvedimento di nomina dell’amministrazione di sostegno non determina di per sé l’interruzione del giudizio di cui sia parte il beneficiario dell’amministrazione e, anche qualora il difensore dell’amministratore dichiari in udienza l’evento, non si verifica automaticamente l’interruzione del processo, come invece accade nelle diverse ipotesi dell’interdizione e dell’inabilitazione (Sez. 1, n. 32845/2022, D’Orazio, Rv. 666134-01).

Conseguentemente è stato ritenuto che ove il giudice dichiari con ordinanza l’interruzione del giudizio, il “dies a quo” per la riassunzione del processo nel termine di tre mesi ex art. 305 c.p.c., decorre, per esigenze di tutela del beneficiario, non dalla data della dichiarazione in udienza dell’evento da parte del difensore, ma dal successivo provvedimento del giudice di merito che, dopo aver valutato, in base al tenore del provvedimento del giudice tutelare, l’effettiva capacità di agire residua dell’amministrato e la corrispondente capacità processuale ex art. 75 c.p.c., dichiara l’interruzione del processo.

Sempre in tema di decorrenza del termine per la riassunzione del processo interrotto, Sez. 6-2, n. 16797/2022, Scarpa, Rv. 665047-01, nell’ambito dello svolgimento dell’udienza in forma cartolare, secondo le modalità previste dalle disposizioni per l’esercizio dell’attività giurisdizionale nella vigenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, ha affermato che l’evento della morte della parte costituita, che sia dichiarato in udienza mediante nota scritta scambiata e depositata in telematico produce, ai sensi dell’art. 300, comma 2, c.p.c., l’effetto automatico dell’interruzione del processo dal momento di tale dichiarazione, e il conseguente termine per la prosecuzione o riassunzione, come previsto dall’art. 305 c.p.c., decorre dal momento in cui interviene la dichiarazione del procuratore nei confronti delle altre parti, senza che rilevi, a tal fine, il momento nel quale venga adottato il successivo provvedimento giudiziale dichiarativo dell’intervenuta interruzione, avente natura meramente ricognitiva.

Riguardo al caso di interruzione del processo a causa della sospensione disciplinare dell’avvocato di una parte Sez. 2, n. 11918/2022, Scarpa, Rv. 664387-01, ha affermato che la temporaneità della sanzione diversifica i riflessi che la stessa produce sul processo interrotto nel senso che, una volta cessata, non è necessaria una nuova procura alle liti ed il procuratore, del tutto consapevole ed informato dell’evento interruttivo e della sua durata, pur in assenza della conoscenza legale, deve riprendere automaticamente ad esercitare il mandato alla scadenza anche in relazione agli adempimenti ex art. 305 c.p.c.

Quanto alle modalità di riassunzione del processo interrotto in ragione della morte di una parte costituita a mezzo di procuratore Sez. 2, n. 15995/2022, D’Ascola, Rv. 664689-01, ha precisato che la notificazione dell’atto riassuntivo agli eredi della parte defunta, considerati collettivamente ed impersonalmente, pur comportando la rituale riattivazione e prosecuzione del processo nei confronti dei predetti, non è altrettanto idonea a consentire di pronunciare sentenza di condanna al pagamento di un debito del “de cuius” senza procedere all’individuazione nominativa dei destinatari della pronuncia, atteso che i debiti ereditari non sono solidali, essendo gli eredi tenuti verso i creditori in proporzione alle rispettive quote, e che perciò la condanna non può essere vaga o ambulatoria, ma deve essere specifica nei confronti dei debitori, individuati dall’istante e vagliati dal giudice nel rispetto degli oneri probatori previsti.

La pronuncia in rassegna, discostandosi espressamente e consapevolmente dal principio in precedenza affermato da Sez. 3, n. 10336/2005, Spirito, Rv. 581425-01, ha escluso la possibilità di pronunciare sentenza di condanna nei confronti di persone non individuate, di cui sia incerta l’esistenza, cioè di eredi ipotetici, la cui individuazione dovrebbe essere lasciata a un incerto futuro, e la connessa conseguenza paradossale per cui la parte che «abbia acquisito un siffatto titolo verso innominati eredi di dubbia esistenza potrebbe agire esecutivamente contro chiunque, imponendo all’intimato di opporsi esecutivamente».

6.2. La possibile prosecuzione del processo di divorzio in caso di morte del coniuge dopo il passaggio in giudicato della sentenza sullo status e prima della pronuncia sulla domanda di assegno, o del suo passaggio in giudicato, e del procedimento di revisione in caso di morte del coniuge ricorrente.

Infine, con riguardo all’evento interruttivo morte della parte, e alla possibilità di prosecuzione del processo nei confronti degli eredi, si segnala che nell’anno in rassegna le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto relativo alla possibilità o meno di prosecuzione del processo in caso di morte di uno dei coniugi, intervenuta durante il giudizio di divorzio, dopo il passaggio in giudicato del capo della sentenza (o della sentenza parziale) relativo allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma prima del passaggio in giudicato del capo della sentenza relativo alla domanda di assegno o della pronuncia della sentenza su tale domanda.

Sez. U, n. 20494/2022, Nazzicone, Rv. 665068-01, ha, infatti affermato il principio di diritto così massimato da questo Ufficio: «In tema di divorzio, nel caso di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo “status”, con prosecuzione del giudizio al fine dell’attribuzione dell’assegno divorzile, il venir meno dell’ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all’accertamento della debenza dell’assegno dovuto sino al momento del decesso».

Il contrasto circa la possibilità o meno di prosecuzione del processo in caso di morte di uno dei coniugi durante la pendenza del giudizio di divorzio, si poneva soltanto nel caso in cui la morte sopravvenga all’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza (parziale o del capo della sentenza definitiva) che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

È infatti pacifico che la morte di uno dei coniugi che intervenga prima della pronuncia di tale sentenza produce, ai sensi dell’art. 149 c.c., lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con conseguente cessazione della materia del contendere sia sulla domanda di divorzio, essendosi il matrimonio già “estinto” per altra causa, sia sulla domanda (dipendente dalla prima) di attribuzione dell’assegno, poiché il diritto all’assegno presuppone lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio per divorzio (e non per morte), i quali possono verificarsi solo in conseguenza della sentenza di divorzio, la quale ha pacificamente efficacia costitutiva.

Parimenti incontroverso è che, analogamente, la morte del coniuge che intervenga dopo la pronuncia, ma prima del passaggio in giudicato, della sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, impedendo il passaggio in giudicato di tale sentenza, determina lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con conseguente cessazione della materia del contendere tanto sulla domanda di divorzio, quanto su quella dipendente di attribuzione dell’assegno (nell’anno in rassegna si veda Sez. 1, n. 37896/2022, Caprioli, Rv. 666471-01).

Infine, è consolidato il principio secondo cui la morte di uno dei coniugi che sopravvenga al passaggio in giudicato della sentenza (parziale o del capo della sentenza definitiva) di divorzio, non produca lo scioglimento del matrimonio, essendosi tale effetto già verificato prima della morte, in conseguenza del divorzio.

Sulla questione controversa rimessa alle Sezioni Unite era intervenuta, prima della pronuncia di queste ultime, incidentalmente, la Corte costituzionale con la sentenza n. 25 del 2022 con cui ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12-bis, comma 1, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Salerno, nella parte in cui non prevedono, ai fini della corresponsione della pensione di reversibilità e di una quota dell’indennità di fine rapporto, che il requisito della titolarità dell’assegno divorzile, in caso di morte dell’obbligato intervenuta successivamente a una sentenza parziale di divorzio, ma prima della definitiva determinazione dell’assegno, sussista anche in presenza di provvedimenti provvisori presidenziali che riconoscano provvidenze economiche all’ex coniuge.

La Consulta, dopo aver riconosciuto che «i diritti alla pensione di reversibilità e ad una quota di indennità di fine rapporto svolgono, in sostanza, funzioni che, nei rapporti orizzontali tra ex coniugi, riflettono istanze di rilievo costituzionale, che attengono alla solidarietà e all’effettività del principio di eguaglianza», aveva chiarito che la disposizione di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 2, della legge n. 263 del 2005 ha inteso «evitare che, nell’ambito di processi relativi a pretese previdenziali, coinvolgenti gli enti obbligati a tali prestazioni, possano porsi, tramite accertamenti incidenter tantum, questioni inerenti alla spettanza in astratto del diritto all’assegno di divorzio», ponendosi in linea di continuità con la scelta effettuata dalla legge n. 74 del 1987 di rendere automatico il riconoscimento del diritto di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 (nonché di aggiungere la previsione di cui all’art. 12-bis).

L’esclusione legislativa di un accertamento incidenter tantum, pone il problema delle ipotesi in cui l’ex coniuge muoia in pendenza del giudizio che deve ancora definire il diritto all’assegno di divorzio.

Ma tale problema, secondo la Consulta, va risolto sul piano della prosecuzione del processo di divorzio, nonostante la morte dell’ex coniuge dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale di divorzio, che «serve a far valere il diritto alle prestazioni inerenti all’assegno di divorzio, che sono in concreto maturate dall’ex coniuge sopravvissuto nei confronti dell’altro ex coniuge, nel periodo che intercorre fra la sentenza parziale di divorzio e la morte di quest’ultimo, prestazioni patrimoniali trasmissibili iure hereditario. Al contempo, l’accertamento del diritto all’assegno, nell’ambito di un giudizio in via principale e a cognizione piena, consente, facendo applicazione dei criteri fissati dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, di dare fondamento ai diritti alla pensione di reversibilità e a una quota dell’indennità di fine rapporto. Senza la prosecuzione del processo, resterebbe la sola sentenza parziale di divorzio, passata in giudicato, che, per un verso, scioglie il vincolo matrimoniale, non offrendo le garanzie che spetterebbero all’ex coniuge in conseguenza del divorzio, e, per un altro verso, essendo la modificazione dello status correlata al divorzio antecedente alla morte, priva l’ex coniuge delle tutele che, viceversa, avrebbe se lo scioglimento fosse stato causato dal decesso».

Dando atto che sulla questione della possibilità o meno della prosecuzione del processo si è aperto il contrasto interpretativo (sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi) il Giudice delle Leggi « non può esimersi dal sottolineare che dalla soluzione del citato contrasto interpretativo dipendono tutele sostanziali, che – come sopra evidenziato – riflettono, nei rapporti orizzontali fra ex coniugi, istanze di rango costituzionale», e ha dichiarato inammissibile la questione sollevata, per carenza di motivazione sulla sua rilevanza, avendo il giudice rimettente assunto che l’attore non avrebbe potuto impugnare la sentenza di cessazione della materia del contendere pronunciata nel giudizio di divorzio, avente ad oggetto «l’accertamento del presupposto costitutivo dei diritti previsti dalle norme censurate» senza adeguatamente confrontarsi con la giurisprudenza in contrasto sulla questione della possibilità o meno di prosecuzione del processo.

Le Sezioni Unite, dopo aver dato atto delle contrapposte tesi sostenute dalla giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto che in caso di morte dell’ex coniuge dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale o del capo della sentenza definitiva sullo status il processo possa proseguire per l’accertamento della debenza dell’assegno dalla data del passaggio in giudicato della sentenza (o del capo) sullo status a quella del decesso.

Tale conclusione è stata motivata affermando che «la perdurante pendenza del solo giudizio sulle domande accessorie può costituire una causa di “scissione” del carattere unitario proprio del giudizio di divorzio, che si protrarrà ai fini di una pronuncia su di quelle in via differita per mere ragioni occasionali. Il processo di divorzio ha una finalità e con essa un contenuto compositi, mirando in primo luogo a realizzare il diritto potestativo del coniuge alla elisione dello status matrimoniale, ma con esso, simultaneamente, anche a tutelare una serie di diritti fondamentali relativi alle primarie esigenze della parte eventualmente sul piano economico meno solida, nonché dei figli della coppia», ed è stata ritenuta compatibile con la peculiarità degli accertamenti probatori prescritti per legge sul tema della debenza dell’assegno di mantenimento divorzile, potendo il tribunale disporre le consentite indagini sui redditi, sui patrimoni e sul tenore di vita, «che dovranno essere espletati nei confronti degli eredi».

Hanno chiarito, inoltre, che i c.d. arretrati, concessi in via provvisoria oppure da una sentenza non passata in giudicato, e non corrisposti dal coniuge obbligato da tale provvedimento (o dalla diversa decorrenza stabilita) e sino al suo decesso, restano acquisiti, quale debito maturato in vita dal de cuius, al suo patrimonio, e, come tali, passano agli eredi; con la conseguenza che l’altro coniuge rimasto in vita potrà agire, se ne sia mancato il pagamento, direttamente in executivis nei confronti di essi, giovandosi del medesimo titolo.

La giurisprudenza successiva si è conformata al principio espresso dalle Sezioni Unite.

Sez. 1, n. 37898/2022, Caprioli, Rv. 666472-01, ne ha fatto applicazione in un caso di morte del coniuge durante il giudizio di legittimità affermando il principio così massimato da questo Ufficio: «In materia di assegno divorzile, ove sia proposto ricorso per cassazione avverso la decisione di merito riguardante tale assegno, la morte di uno di uno degli ex coniugi in corso di causa non determina l’improseguibilità del giudizio, sussistendo il giudicato sullo “status” con la conseguenza che il processo continua senza alcuna interruzione, producendo effetti nei confronti degli eredi, ai fini dell’accertamento della debenza del menzionato assegno sino al momento del decesso».

Sempre in tema di divorzio le Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 20495/2022, Nazzicone, Rv. 665040-01), sono intervenute sulla diversa questione, non controversa, ma certamente di particolare importanza, relativa alla possibilità o meno di prosecuzione del giudizio di revisione dell’assegno di divorzio, ove nel corso dello stesso intervenga la morte del coniuge obbligato.

A differenza che nella fattispecie coinvolta dalla precedente questione in quella coinvolta da tale questione la morte del coniuge interviene dopo il passaggio in giudicato della sentenza sulla domanda di assegno, nella pendenza del giudizio di revisione in cui sia stata chiesta la revoca o revisione dell’assegno.

Anche in tal caso le Sezioni Unite hanno ritenuto possibile, nel caso di morte dell’ex coniuge ricorrente la prosecuzione del procedimento per la revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9, comma 1, della l. n. 898 del 1970, subentrando gli eredi nella posizione del coniuge richiedente la revisione, al fine dell’accertamento della non debenza dell’assegno a decorrere dalla domanda sino al decesso, nonché nell’azione di ripetizione dell’indebito, ex art. 2033 c.c., per la restituzione delle somme non dovute.

7. Il procedimento davanti al giudice di pace.

In tema di procedimento davanti al giudice di pace nell’anno in rassegna le Sezioni Unite hanno risolto la questione relativa alla necessità di presentare anche la nota d’iscrizione a ruolo ai fini della valida costituzione in giudizio della parte interessata e quella concernente la possibilità, per il convenuto, di costituirsi prima dell’attore e in pendenza del termine concesso a quest’ultimo per provvedere alla propria costituzione (Sez. U, n. 758/2022, Lamorgese, Rv. 663582-02-03).

In ordine alla prima questione, le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto così massimato da questo Ufficio: «Nel procedimento innanzi al giudice di pace, in assenza di una specifica previsione normativa che disponga diversamente, la costituzione della parte che vi provveda per prima non richiede la presentazione di un’apposita nota di iscrizione della causa a ruolo, essendo compito del cancelliere, integrate le condizioni previste dall’art. 319 c.p.c., provvedere agli adempimenti di sua competenza, ai sensi degli artt. 36 e 56 disp. att. c.p.c.».

A fondamento di tale statuizione la pronuncia in commento richiama, innanzitutto, il dato positivo, nel quale spicca «l’assenza di riferimenti alla nota di iscrizione nella disciplina codicistica del procedimento davanti al giudice di pace»; in secondo luogo, a tale procedimento è connaturato il principio della «massima libertà delle forme», sicché l’imposizione (in via interpretativa) di un adempimento formale, prescritto a pena di inammissibilità della domanda o della costituzione in giudizio o di improcedibilità, determinerebbe un contrasto sistematico; infine, proprio dall’art. 319 c.p.c., norma speciale rispetto all’art. 168 c.p.c., oltre che dall’art. 56 disp. att. c.p.c., si desume che la costituzione può essere eseguita anche durante l’udienza e innanzi al giudice stesso, anziché mediante deposito degli atti in cancelleria, il che manifesta la superfluità della nota ai fini della costituzione del fascicolo (attività che l’art. 36 disp. att. c.p.c. demanda, in ogni caso, al cancelliere).

Sulla seconda questione, le Sezioni Unite recependo, l’univoco orientamento giurisprudenziale sul punto hanno affermato il principio di diritto così massimato: «Nel procedimento innanzi al giudice di pace, il convenuto può costituirsi in giudizio in mancanza della costituzione dell’attore e prima che sia scaduto il termine perché questi vi provveda, dovendo in tal caso il cancelliere provvedere all’iscrizione a ruolo della causa».

Sez. 6-3, n. 10189/2022, Pellecchia, Rv. 664458-01, ha ribadito il principio, già affermato dalla Corte, secondo cui nel procedimento dinanzi al giudice di pace, il convenuto che intenda chiamare in causa un terzo ha l’onere di costituirsi nel termine di rito e, a pena di decadenza, farne esplicita richiesta nell’atto di costituzione, chiedendo nel contempo il differimento della prima udienza, a cui il predetto giudice deve dar luogo anche nel caso in cui lo stesso convenuto si costituisca direttamente alla prima udienza e si renda necessario provvedervi in base all’attività svolta dalle parti in tale udienza. Al di fuori di dette situazioni processuali al convenuto non è consentito di invocare la chiamata in causa di un terzo all’udienza successiva alla prima che eventualmente venga celebrata, ostandovi la struttura concentrata e tendenzialmente completa dell’udienza prevista dall’art. 320 c.p.c., tesa a compendiare le fasi di trattazione preliminare, istruttoria e conclusiva.

In tema di opposizione a sanzione amministrativa di competenza del giudice di pace, ai sensi dell’art. 16, comma 10, lett. a), d.l n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012, Sez. 6-2, n. 15180/2022, Criscuolo, Rv. 665042-01, ha affermato il principio secondo cui affinché la notificazione dell’udienza di discussione a mezzo PEC da parte della cancelleria del giudice di pace abbia valore legale, non è sufficiente che questa sia dotata di un indirizzo PEC ma è necessario che la cancelleria sia stata abilitata ad effettuare notificazioni e comunicazioni a mezzo PEC con valore legale, con la conseguenza che, in difetto di tale autorizzazione, il difensore è onerato di eleggere domicilio nel comune del giudice adito, se non vuole che la notificazione del provvedimento di fissazione dell’udienza di discussione sia eseguita presso la cancelleria.

Infine, in ordine all’appellabilità delle sentenze del giudice di pace, Sez. 3, n. 27384/2022, Spaziani, Rv. 665949-01, ha avuto occasione di chiarire che per “norme sul procedimento” - la cui violazione, ai sensi dell’art. 339, comma 3, c.p.c., rende appellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità - devono intendersi le regole che disciplinano il giudizio di cognizione dinanzi al giudice di pace, regolando l’attività processuale delle parti e del giudice nell’ambito di quel giudizio, e non anche quelle relative ad altri procedimenti, utilizzate dal giudice di pace per la formulazione del proprio giudizio sulla fondatezza della domanda.

8. La conciliazione.

In ordine alla conciliazione la Corte (Sez. 6-3, n. 28871/2022, Valle, Rv. 665767-01) nell’anno in rassegna, discostandosi da un precedente contrario orientamento, anche in ragione della sentenza n. 336 del 2002 della Corte costituzionale, ha affermato il principio secondo cui il verbale di conciliazione giudiziale costituisce titolo esecutivo idoneo alla esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, perché si deve ritenere che i presupposti di fungibilità e coercibilità in forma specifica dell’obbligo dedotto nel titolo siano stati considerati al momento della formazione dell’accordo conciliativo dal giudice che lo ha promosso e sotto la cui vigilanza esso è stato concluso.

Con la pronuncia richiamata la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare sulla base di un verbale di conciliazione giudiziale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 113 della Costituzione, nella sostanza ritenendo possibile pervenire ad un’interpretazione dell’art. 612 c.p.c. conforme a costituzione «nel senso che esso consenta il procedimento di esecuzione disciplinato dalle disposizioni che lo seguono anche se il titolo esecutivo sia costituito dal verbale di conciliazione, in quanto le eventuali ragioni ostative devono essere valutate non ex post, e cioè nel procedimento di esecuzione, bensì, se esse preesistono, in sede di formazione dell’accordo conciliativo da parte del giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza può concludersi soltanto se la natura della causa lo consente».

La Consulta ha ritenuto non ostativi a tale interpretazione né il dato letterale per cui l’art. 612 c.p.c. fa riferimento espressamente soltanto all’esecuzione di una sentenza, in quanto la norma viene generalmente intesa come idonea a disciplinare l’esecuzione non soltanto delle sentenze, ma anche di altri provvedimenti che di queste non hanno forma e contenuto, quali, ad esempio, le ordinanze emesse in sede di procedimenti per denuncia di nuova opera o di danno temuto, né le ragioni di ordine sistematico rappresentate dal divieto di procedere alla distruzione della cosa fabbricata in violazione dell’obbligo di non fare qualora ciò sia di pregiudizio all’economia nazionale (art. 2933, secondo comma, cod. civ.) e dell’eventuale infungibilità della prestazione, perchè l’art. 183, primo comma, cod. proc. civ., stabilisce che alla conciliazione si può pervenire se la natura della causa lo consente, con la conseguenza che può ritenersi che nelle situazioni prospettate sia la stessa conciliazione ad essere impedita.

D’altra parte tale interpretazione è rafforzata dalla considerazione che, se si escludesse l’efficacia esecutiva del verbale di conciliazione avente ad oggetto gli obblighi di cui all’art. 612 cod. proc. civ., si costringerebbe la parte a ripercorrere la strada di un processo di cognizione, così negando il valore di accelerazione della definizione della controversia, che costituisce la principale caratteristica della conciliazione, che giustifica il favore accordato alla conciliazione dagli interventi legislativi più recenti.

Infine, la Consulta ha rilevato che in presenza di un verbale di conciliazione, cui il codice di rito attribuisce in linea di principio efficacia di titolo esecutivo (art. 185, secondo comma, e art. 474, secondo comma, numero 1), «si deve ritenere che le eventuali ragioni di ineseguibilità in forma specifica dell’obbligo siano state già considerate ed escluse, ferma restando la possibilità di far valere quelle sopravvenute».

E ha anche aggiunto che i provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione ai sensi degli artt. 612 e seg. cod. proc. civ. «possono essere oggetto di opposizione per motivi sopravvenuti in caso di conciliazioni giudiziali, per motivi anche preesistenti in ipotesi di conciliazioni conclusesi al di fuori del controllo del giudice».

  • procedura civile
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO XI

LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Profili generali. - 2 L’interesse all’impugnazione. - 3 La soccombenza e il raddoppio del contributo unificato. - 4 I termini di impugnazione: a) il termine cd. breve. - 4.1 (Segue) b) il termine cd. lungo. - 4.2 (Segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione. - 5 Le impugnazioni incidentali. - 6 La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione. - 7 Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione.

1. Profili generali.

L’art. 323 c.p.c. elenca i mezzi per impugnare le sentenze (e, più in generale, le decisioni giurisdizionali) individuandoli nel regolamento di competenza, nell’appello, nel ricorso per cassazione, nella revocazione e nell’opposizione di terzo.

In base al combinato disposto degli artt. 324, 325, 326 e 327 c.p.c. i mezzi di impugnazione si distinguono in (a) ordinari – proponibili fino al passaggio in giudicato della decisione che intendono censurare e volti a evitare il formarsi della cosa giudicata (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione, revocazione “ordinaria” per i motivi indicati nei nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. e opposizione di terzo ordinaria) – e (b) straordinari, insensibili al passaggio in giudicato (revocazione “straordinaria” per i motivi indicati nei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c. e opposizione di terzo revocatoria).

Con la decisione di Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-02, è stata risolta la questione relativa alla possibile inclusione dell’opposizione a decreto ingiuntivo nel novero delle impugnazioni: l’opposizione ex art. 645 c.p.c. non ha natura di impugnativa dell’emessa ingiunzione, ma è – al contrario – un ordinario (e non autonomo) giudizio sulla domanda avanzata con l’iniziale ricorso del creditore e si svolge, dunque, in prosecuzione del procedimento monitorio quale ulteriore (ed eventuale) fase di quest’ultimo.

Il mezzo d’impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va individuato in base al principio dell’apparenza, a tutela dell’affidamento della parte, con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni assunte secondo il rito in concreto adottato, indipendentemente dalla correttezza o inesattezza della qualificazione dell’azione effettuata dal giudice (Sez. L, n. 29763/2022, Cerulo, Rv. 665820-01, relativa ad una fattispecie in cui la sentenza di primo grado aveva univocamente qualificato l’azione come opposizione agli atti esecutivi, suscettibile di impugnazione esclusivamente col ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.). Infatti, il principio dell’apparenza prevale sul contrario principio cd. “sostanzialistico” (il divieto di esperire un mezzo d’impugnazione vietato) nelle ipotesi in cui la forma e la qualificazione del provvedimento, sebbene non corrette, risultino determinate da una consapevole scelta – esplicita o implicita – del giudice.

Non è necessario l’impiego dei normali mezzi di impugnazione in presenza di un provvedimento decisorio affetto da inesistenza giuridica o da nullità radicale, in quanto erroneamente emesso da un giudice carente di potere oppure avente un contenuto abnorme o, ancora, privo degli elementi che lo rendano riconoscibile come atto di un certo modello processuale; avverso un siffatto provvedimento deve ritenersi ammissibile l’actio nullitatis e, cioè, un’azione di accertamento negativo, esperibile in ogni tempo, volta alla sua rimozione (così Sez. 6-2, n. 03810/2022, Orilia, Rv. 663968-01, con riguardo ad un provvedimento con cui il giudice, adito per una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, si era pronunciato nel merito accertando l’inesistenza di una servitù e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali).

Indipendentemente dalla disciplina specifica dettata per ciascuno dei predetti mezzi di impugnazione, il codice di rito definisce alcune regole comuni (artt. 323-338 c.p.c.), applicabili a tutti i mezzi di impugnazione, nonché, in quanto compatibili, anche al contenzioso tributario, come previsto dall’art. 49 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (“alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”).

Rinviando agli specifici capitoli per ciò che concerne i singoli mezzi di impugnazione, ci si soffermerà, nella presente trattazione, sulle regole “delle impugnazioni in generale”.

2. L’interesse all’impugnazione.

L’esercizio della facoltà di impugnazione presuppone l’esistenza un “interesse ad impugnare” (species dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.) che consiste in un interesse, concreto e attuale, alla proposizione del mezzo di gravame.

Pertanto, è condizione dell’impugnazione una “soccombenza” sostanziale e materiale, che, nella revocazione, è costituita non già dalla mera divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia, bensì dagli effetti pregiudizievoli che dalla medesima derivino nei confronti della parte stessa. (Sez. 3, n. 27387/2022, Tatangelo, Rv. 665904-01); allo stesso modo, si è statuito che difetta di interesse la censura, svolta con l’impugnazione, relativa ad una violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d’appello, allorché essa non rientri tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice e non si sia tradotta in un effettivo pregiudizio per il diritto di difesa che l’impugnante ha l’onere di specificare a pena d’inammissibilità (Sez. 2, n. 20834/2022, Varrone, Rv. 665171-01).

Non dà luogo a soccombenza – neanche sotto il profilo di una teoricamente possibile, diversa e più favorevole regolazione delle spese giudiziali – la minuspetizione del primo giudice su una domanda riconvenzionale della controparte che non sia stata riproposta in appello, perché essa non incide sulla soccombenza dell’attore e non gli arreca alcun concreto pregiudizio, né l’acquiescenza prestata dal convenuto alla sentenza di primo grado può qualificarsi come espressa rinuncia agli effetti di cui all’art. 306, comma 4, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 33751/2022, Scarpa, Rv. 666422-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione per difetto di interesse all’impugnazione).

Nemmeno può ravvisarsi un interesse ad impugnare le argomentazioni ad abundantiam contenute nella sentenza impugnata, perché esse non costituiscono la ratio decidendi della decisione e, dunque, non spiegano alcuna influenza sul dispositivo della stessa (Sez. 1, n. 18429/2022, Nazzicone, Rv. 665300-02, con riferimento ad una pronuncia di merito che, dopo aver negato la delibazione per contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, fondato sulla esclusione dei bona matrimonii quale mera riserva mentale di uno dei coniugi, aveva aggiunto che, in ogni caso, i motivi emersi nel procedimento civile di separazione e divorzio, che avevano reso non tollerabile la convivenza, erano ben diversi).

In continuità con un consolidato orientamento (Sez. U, n. 03840/2007, Morelli, Rv. 595555-01), Sez. 3, n. 27388/2022, Cricenti, Rv. 665905-01, ha statuito che, in caso di declaratoria di inammissibilità della domanda, non vi è, di regola, interesse ad impugnare le statuizioni rese sul merito dal giudice già spogliatosi della potestas iudicandi, posto che le argomentazioni sul punto addotte devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione d’inammissibilità e, quindi, prive di effetti giuridici; analogamente, Sez. L, n. 29529/2022, Cavallaro, Rv. 665839-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione volto a sindacare le motivazioni sul merito – puramente ipotetiche e virtuali e svolte ad abundantiam – senza censurare la statuizione di inammissibilità, unica ratio decidendi giuridicamente rilevante della sentenza impugnata.

La predetta regola patisce eccezione se la motivazione della pronuncia di infondatezza nel merito della domanda è preponderante e diffusa rispetto alla statuizione d’inammissibilità, tanto da far ritenere che la decisione si sostanzi, in realtà, in un rigetto nel merito (Sez. L, n. 28364/2022, Caso, Rv. 665733-01), ha ritenuto ammissibile il motivo d’impugnazione attinente al merito, nonostante l’accoglimento della doglianza concernente l’inammissibilità) oppure quando il rilievo d’inammissibilità dell’appello per tardività è avvenuto ad abundantiam alla stregua di un mero obiter dictum (Sez. 6-2, n. 07995/2022, Varrone, Rv. 664430-01, ha ritenuto inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione col quale era contestata soltanto la pronuncia d’inammissibilità del gravame, mentre la ratio decidendi era rappresentata dal suo rigetto nel merito per infondatezza delle censure).

Secondo le statuizioni di Sez. 1, n. 08581/2022, Scotti, Rv. 664596-01, l’interesse all’impugnazione della condanna generica al risarcimento dei danni va riconosciuto al convenuto che deduca la violazione della regola dell’impossibilità di separazione del giudizio sull’an da quello sul quantum (sul punto Sez. 3, n. 17984/2022, Frasca, Rv. 665748-01, ha reputato inammissibile la domanda dell’attore originariamente rivolta unicamente ad una condanna generica, ma tale indirizzo è stato superato dall’opposta decisione di Sez. U, n. 29862/2022, Rossetti, Rv. 665940-02, secondo cui la vittima di un fatto illecito può proporre una domanda limitata ab origine all’accertamento del solo an debeatur, con riserva di accertamento del quantum in un separato giudizio); la succitata decisione aggiunte, tuttavia che è comunque identificabile un interesse all’impugnazione, perché la sentenza di condanna generica costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e, in ogni caso, la sua riforma comporterebbe un ampliamento della sua sfera giuridica, eliminando il rischio di una condanna specifica al risarcimento dei danni.

Con specifico riferimento all’interesse a proporre impugnazione incidentale tardiva, si registra un orientamento non uniforme.

Nel filone interpretativo secondo cui tale impugnazione va dichiarata inammissibile se l’interesse alla sua proposizione non è insorto per effetto dell’impugnazione principale (tra le altre, Sez. 3, n. 27616/2019, Sestini, Rv. 655641-01) si colloca Sez. 3, n. 23584/2022, Guizzi, Rv. 665609-01, la quale afferma che l’interesse del soggetto impugnante dev’essere necessariamente innescato dall’impugnazione principale e non già preesistere a quest’ultima (il che si verifica quando la posizione dell’impugnante in via incidentale è già pregiudicata dalla statuizione impugnata, indipendentemente dall’iniziativa della controparte).

Di segno opposto è, invece, Sez. 3, n. 26139/2022, Saija, Rv. 665649-01 (che si ascrive all’orientamento di Sez. 5, Ordinanza n. 13651/2018, Castorina, Rv. 649085-01, e di altre pronunce di legittimità), secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile – anche se essa riguarda un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale, o se investe lo stesso capo per motivi diversi da quelli già fatti valere – perché l’iniziativa della controparte rimette in discussione l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata e, conseguentemente, deve giocoforza consentirsi alla parte di contrastare una decisione che altrimenti avrebbe accettato (nella specie, è stata considerata ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta dal creditore - destinatario di un appello principale relativo al solo capo delle spese - con riguardo al capo della decisione che aveva escluso il suo diritto di procedere a esecuzione forzata nei confronti della controparte).

L’interesse all’impugnazione può venir meno nel corso del processo, il che si verifica, ad esempio, in caso di sopravvenuta morte del beneficiario nel corso del giudizio di appello, la quale fa venir meno la necessità di una pronuncia sullo status nel procedimento relativo alla nomina dell’amministratore di sostegno (Sez. 1, n. 08464/2022, L. Tricomi, Rv. 664365-01); non così, invece, in caso di sopravvenuta conclusione della procedura esecutiva, la quale non determina la cessazione della materia del contendere nel procedimento di reclamo ex art. 630 c.p.c. avverso il provvedimento di diniego dell’estinzione del processo esecutivo, permanendo – anche in sede di legittimità – l’interesse del debitore all’accertamento dell’anteriorità dell’estinzione, per gli effetti di cui all’art. 632, comma 2, c.p.c. (Sez. 3, n. 08113/2022, Fanticini, Rv. 664549-01).

In tema, si rileva che la pronuncia di Sez. 5, n. 05098/2022, Dell’Orfano, Rv. 663911-01, distingue, nel processo tributario, la cessazione della materia del contendere, data dal venir meno dell’atto lesivo dell’interesse materiale oggetto della tutela giurisdizionale tributaria, dalla sopravvenuta carenza di interesse, che invece comporta pur permanendo l’atto impugnato, la cessazione dell’interesse meramente processuale al suo annullamento.

L’esigenza che l’impugnazione debba necessariamente tendere al conseguimento di un risultato utile e giuridicamente apprezzabile per l’impugnante è stata affermata anche in materia di disciplina dei professionisti e dei magistrati: infatti, difetta d’interesse il ricorso per la cassazione dell’ordinanza di rigetto del reclamo presentato da un notaio contro la sospensione cautelare inflitta dalla commissione regionale di disciplina, se l’impugnazione è proposta dopo che è stata irrogata la sanzione della sospensione per un periodo temporale minore (Sez. 2, n. 14250/2022, Abete, Rv. 664687-01); in tema di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati, può ravvisarsi un interesse dell’incolpato, anche se uscito dall’ordine giudiziario, a coltivare l’impugnazione del provvedimento di sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio allo scopo di conseguire una corretta ricostruzione della carriera ai fini previdenziali e del trattamento di fine servizio (Sez. U, n. 07498/2022, Scoditti, Rv. 664205-01), ma, di regola, la cessazione dell’appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario, intervenuta nelle more del ricorso per cassazione, comporta la cessazione della materia del contendere in difetto di un perdurante interesse alla decisione, interesse che non può essere di natura meramente “morale” dell’incolpato (Sez. U, n. 29590/2022, L. Napolitano, Rv. 665911-01, ha dichiarato cessata la materia del contendere, essendo stata comminata la sanzione della perdita di anzianità di mesi tre, ormai irrilevante sulla progressione di carriera, stante il collocamento a riposo del magistrato).

3. La soccombenza e il raddoppio del contributo unificato.

La soccombenza si pone quale presupposto dell’ammissibilità stessa del gravame (individuando i soggetti legittimati alla sua proposizione), ma rileva anche per l’applicazione, nei procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, disposizione che prevede l’obbligo, in capo all’impugnante, del pagamento di una somma pari al doppio del contributo unificato “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile” e che il giudice debba dare “atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente”.

Sulla natura tributaria del menzionato raddoppio si sono pronunciate le Sezioni Unite nel 2020 (Sez. U, n. 04315/2020, Lombardo, Rv. 657198-02), affermando altresì che la succitata norma si basa su un presupposto di natura processuale, costituito dall’adozione di una pronuncia di integrale rigetto o inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione (oggetto di attestazione resa dal giudice) e su un altro di tipo sostanziale tributario, concernente l’obbligo di versamento del contributo unificato iniziale.

Proprio perché l’obbligo di versamento di un ulteriore importo discende dalla sussistenza del precedente obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato al momento dell’iscrizione a ruolo della causa, resta escluso che il giudice dell’impugnazione debba attestare la sussistenza del presupposto processuale in caso di improcedibilità dell’impugnazione principale, pronunciata per omesso deposito dell’atto introduttivo, giacché proprio la mancata iscrizione a ruolo preclude la debenza stessa del contributo unificato iniziale (Sez. 6-5, n. 08728/2022, Luciotti, Rv. 664301-01).

Sono manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2 d.lgs. n. 546 del 1992, che – nell’interpretazione giurisprudenziale – attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie sul contributo unificato: infatti, la circostanza che il gettito derivante dalla citata imposta sia in parte destinato al funzionamento dell’intero sistema di giustizia tributaria e anche a coprire le spese per i compensi dei giudici tributari (e, dunque, anche assegnato proprio a tale magistratura) non incide affatto sulla loro indipendenza e imparzialità, mancando qualsivoglia relazione tra il contributo unificato e il compenso delle persone fisiche che decidono la causa (Sez. 5, n. 18552/2022, Picardi, Rv. 664931-01).

4. I termini di impugnazione: a) il termine cd. breve.

Le impugnazioni ordinarie, come detto, sono soggette, ai fini della loro ammissibilità, al rispetto dei termini perentori dettati dagli artt. 325 ss. c.p.c., nel senso che il decorso di questi ultimi determina il passaggio in giudicato del provvedimento, con conseguente chiusura, in rito, del giudizio di gravame.

I termini in questione sono sostanzialmente di due tipi: a) uno cd. “breve” (ex artt. artt. 325 e 326 c.p.c.) – di trenta giorni per il regolamento di competenza, l’appello, la revocazione e l’opposizione di terzo revocatoria e di sessanta giorni per il ricorso per cassazione – avente un dies a quo differente a seconda della tipologia di impugnazione; b) uno cd. “lungo” (ex art. 327 c.p.c.), attualmente di sei mesi (di un anno, prima della modifica apportata dall’art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69) con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza.

Peculiare è la norma dell’art. 202 del r.d. n. 1775 del 1933 che, per l’impugnazione per cassazione delle sentenze rese dal Tribunale Superiore delle acque pubbliche in unico grado, prevede un termine breve di quarantacinque giorni decorrente dalla notificazione del dispositivo a cura della cancelleria (Sez. U, n. 09313/2022, I. Tricomi, Rv. 664411-01).

Il termine cd. breve decorre, di regola, dalla notificazione ad istanza di parte, ai sensi degli artt. 285 e 286 c.p.c., del provvedimento suscettibile di impugnazione, la quale deve essere eseguita, a garanzia del diritto di difesa del destinatario, nei confronti del procuratore della controparte o della controparte presso il suo procuratore, nel domicilio eletto o nella residenza dichiarata, in ragione della competenza tecnica del difensore nella valutazione dell’opportunità della condotta processuale più conveniente da porre in essere ed in relazione agli effetti decadenziali derivanti dalla notificazione.

Conseguentemente, la notificazione compiuta alla controparte personalmente è inidonea a far decorrere il termine ex art. 325 c.p.c., salvo che si tratti di parte non costituita in giudizio in base alle risultanze del provvedimento notificato (Sez. 6-2, n. 00455/2022, Varrone, Rv. 663803-01); al contrario, in virtù del principio di ultrattività del mandato alla lite (Sez. U, n. 15295/2014, Spirito, Rv. 631466-01), è valida la notificazione (dell’impugnazione, ma anche della decisione) eseguita alla società cancellata dal registro delle imprese (in data successiva alla pubblicazione della sentenza) presso il suo difensore, il quale continua a rappresentare la parte come se l’evento estintivo non si fosse verificato (Sez. 1, n. 00190/2022, Falabella, Rv. 663552-01). Nei confronti del curatore fallimentare non decorre il termine breve per l’impugnazione qualora la sentenza sia stata notificata nelle mani dell’avvocato domiciliatario della società dichiarata fallita nel corso del giudizio di appello (evento non dichiarato dal difensore della parte), perché, una volta intervenuto il fallimento, la notificazione va effettuata al curatore (Sez. 2, n. 35690/2022, Trapuzzano, Rv. 666333-01).

In tema di impugnazione per cassazione, la dichiarazione contenuta nel ricorso di avvenuta notificazione della sentenza impugnata, attesta un “fatto processuale” ex se idoneo a far decorrere il termine “breve” di impugnazione (Sez. U, n. 21349/2022, Lamorgese, Rv. 665188-01).

Nell’ipotesi di processo con pluralità di parti, vige la regola dell’unitarietà del termine dell’impugnazione, secondo cui la notifica della sentenza eseguita a istanza di uno solo dei contendenti segna, nei confronti dello stesso e della parte destinataria della notificazione, l’inizio della decorrenza del termine breve per la proposizione dell’impugnazione contro tutte le altre parti del giudizio (Sez. 2, n. 19274/2022, Bellini, Rv. 664997-01, ha precisato che ciò vale solo per il notificante stesso e per la parte destinataria della notificazione, dato che ciascuna delle altre parti ha invece diritto di ricevere la notifica della sentenza, che è condizione per far scattare il termine breve per l’impugnazione); tuttavia, tale principio si applica soltanto quando le cause sono inscindibili o se la controversia concerne un unico rapporto (sostanziale o processuale), non già nelle cause scindibili o, comunque, tra loro indipendenti, nelle quali è esclusa la necessità del litisconsorzio (Sez. 6-3, n. 16141/2022, Cricenti, Rv. 665054-01).

È idonea a far decorrere il termine breve anche la notificazione eseguita via PEC ad uno soltanto dei procuratori costituiti nominati dalla parte: difatti, sebbene la designazione di una pluralità di procuratori non sia espressamente prevista dalla disciplina processuale, essa è da ritenersi consentita e dà luogo ad una difesa unitaria, la quale, indipendentemente dal fatto che sia congiuntiva o disgiuntiva, esplica nel lato passivo i suoi pieni effetti rispetto a ciascuno dei nominati procuratori ai fini della decorrenza del termine ex art. 325 c.p.c. (Sez. U, n. 34260/2022, Manzon, Rv. 666195-01).

Anche dopo l’introduzione, da parte dell’art. 16-sexies del d.l. n. 179 del 2012 (inserito dall’art. 52, comma 1, d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla l. n. 114 del 2014) del cd. domicilio digitale, si può provvedere alla notificazione (rectius, alla rinnovazione della notificazione) della sentenza – per far decorrere il termine breve – presso la cancelleria del giudice che l’ha pronunciata quando la notifica a mezzo PEC al difensore della parte domiciliato extra districtum non sia andata a buon fine per fatto imputabile a quest’ultimo, ad esempio nel caso di riempimento della casella (Sez. 3, n. 26810/2022, Condello, Rv. 665704-01).

Sempre in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, Sez. 6-1, n. 27379/2022, Fidanzia, Rv. 665895-01, ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato tardiva e inammissibile l’impugnazione avverso una sentenza notificata nel suo duplicato informatico (e, cioè, come documento digitale ottenuto mediante la memorizzazione della medesima sequenza di valori binari del documento originario), in quanto idonea a far decorrere il termine breve anche in mancanza di segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice (i quali sono generati, nella copia informatica di un documento nativo digitale, dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari, allo scopo di rappresentare l’attestazione della presenza della firma digitale sull’originale di quel documento).

Del tutto irrilevante, ai fini della validità della notificazione e della decorrenza del termine breve, è l’erronea indicazione dell’estensione del provvedimento oggetto di notifica telematica (privo dell’aggiunta “pdf”, identificativa del tipo del file), se il documento è esattamente individuato attraverso il riferimento alla sentenza impugnata, la cui conformità è stata attestata dal difensore nella relata di notifica (Sez. 1, n. 32774/2022, L. Tricomi, Rv. 666132-02).

Peraltro, secondo un altro precedente, la mancanza, nella copia della sentenza notificata, dell’attestazione del cancelliere di conformità all’originale non incide sulla validità della notificazione e impedisce il decorso del termine ex art. 325 c.p.c., salvo che il destinatario della notifica non lamenti l’incompletezza della copia ricevuta o la difformità tra tale copia e l’originale (Sez. 3, n. 10138/2022, Iannello, Rv. 664404-01, ha ritenuto idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione la notificazione della copia del provvedimento impugnato, a sua volta pervenuta al notificante dalla cancelleria in esecuzione dell’adempimento imposto dall’art. 133 c.p.c., in quanto la stessa era stata effettuata a mezzo p.e.c. dal procuratore della parte notificante e non vi era contestazione circa la sua corrispondenza all’originale).

Alla regola che attribuisce alla notificazione della parte la decorrenza del termine breve ex art. 325 c.p.c. fa eccezione la previsione del combinato disposto degli artt. 288 c.p.c. e 121 disp. att. c.p.c., secondo il quale le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata, a cura del cancelliere, l’ordinanza di correzione (Sez. 6-2, n. 15166/2022, Fortunato, Rv. 665041-01, ha statuito altresì che il termine lungo si applica nel caso in cui la cancelleria non abbia effettuato la prescritta notifica).

Ai fini dell’adempimento del dovere di controllo, in sede di legittimità, sulla tempestività dell’impugnazione rispetto alla notificazione del provvedimento impugnato, la dichiarazione dell’impugnante (o l’eccezione del controricorrente) che la suddetta notificazione è avvenuta in una certa data fa sorgere a carico del ricorrente l’onere di depositare, unitamente al ricorso, la relata di notifica (o le copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notifica a mezzo PEC); l’omissione del ricorrente non determina improcedibilità ex art. 369 c.p.c. se la citata documentazione è comunque nella disponibilità del giudice, o per essere stata prodotta dal controricorrente nel termine ex art. 370, comma 3, c.p.c., o perché acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio nei casi in cui il termine breve decorre dalla comunicazione/notificazione di cancelleria (Sez. U, n. 21349/2022, Lamorgese, Rv. 665188-02).

Specifici termini di decorrenza delle impugnazioni, diversi dalla data di notificazione o pubblicazione o comunicazione della sentenza, si applicano nel caso di: (a) revocazione straordinaria ex art. 395, nn. 1, 2, 3, e 6, relativamente alla quale il termine di 30 giorni decorre, alternativamente, dal giorno in cui è stato scoperto il dolo di una delle parti a danno dell’altra, dal giorno in cui è stata scoperta la falsità delle prove (in caso di sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false), dal giorno in cui è stato recuperato il documento decisivo non precedentemente prodotto per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario, dal giorno in cui è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice;

(b) revocazione da parte del pubblico ministero ex art. 397 c.p.c. (rispetto alla quale il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui il pubblico ministero ha avuto notizia della sentenza, qualora essa sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; o dal giorno in cui egli ha scoperto la collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge);

(c) di opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma 2 c.p.c. (nel qual caso il termine di 30 giorni decorre dal giorno in cui è stata scoperto il dolo o la collusione delle parti in danno dei propri creditori e aventi causa).

4.1. (Segue) b) il termine cd. lungo.

Quanto al termine cd. lungo, esso decorre dalla pubblicazione della decisione impugnata a norma dell’art. 133 c.p.c. (“La sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata. Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma, ed entro cinque giorni, mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti che si sono costituite”) e non dalla data di comunicazione dell’avvenuto deposito della sentenza alla parte costituita (art. 133, comma 2, ultima parte, c.p.c.: “La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’articolo 325”).

Nelle controversie regolate dal rito sommario, la S.C. ha statuito – con la pronuncia di Sez. U, n. 28975/2022, Patti, Rv. 665762-01 (alla quale ha aderito Sez. 6-1, n. 31572/2022, Scotti, Rv. 665994-01, difformemente dal precedente di Sez. 1, n. 14669/2021, Caradonna, Rv. 661400-01) – che il termine (di trenta giorni) per l’impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c. decorre, per la parte costituita, dalla sua comunicazione (purché eseguita col testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione; Sez. 6-2, n. 05079/2022, Dongiacomo, Rv. 664178-01) o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell’art. 281 sexies c.p.c.; solo se mancano le suddette formalità, l’ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla pubblicazione ex art. 327 c.p.c., disposizione che è applicabile non soltanto alla parte contumace, la quale non riceve comunicazione (bensì, eventualmente, notificazione) del provvedimento, ma anche alla parte costituita qualora non intervenga la comunicazione dell’ordinanza (Sez. 6-2, n. 05661/2022, Criscuolo, Rv. 664182-01).

L’assenza della notifica dell’atto impugnato su impulso della controparte determina l’applicazione dell’art. 327 c.p.c. – e, quindi, del termine lungo decorrente dalla data di pubblicazione del provvedimento – anche al ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. (Sez. 1, n. 03372/2022, Reggiani, Rv. 664012-01, ha dichiarato la tardività del ricorso presentato contro la conferma, in sede di reclamo, di una misura limitativa della responsabilità genitoriale, in quanto notificato dopo il decorso di sei mesi dalla data di deposito del provvedimento presso la cancelleria).

Pure nell’opposizione al decreto di liquidazione del compenso al difensore ex art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002 trova applicazione l’art. 327 c.p.c. ove non intervenga la comunicazione del provvedimento; sia la parte contumace, sia quella costituita, perciò, sono onerate di promuovere, nel termine lungo, l’impugnazione del decreto di liquidazione che, ancorché emesso in un procedimento sommario, soggiace all’applicazione degli strumenti presenti nel sistema e aventi carattere generale, tra i quali si annovera quello di cui all’art. 327 c.p.c. (Sez. 6-2, n. 30432/2022, Criscuolo, Rv. 665996-01).

Nel rito del lavoro, il termine lungo per proporre l’impugnazione ex art. 327 c.p.c. decorre dalla data della pronuncia – che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c. – quando il giudice, all’udienza di discussione, decide la causa e procede alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione (ai sensi dell’art. 429, comma 1, c.p.c.; nella residuale ipotesi di particolare complessità della controversia, in cui il giudice ha facoltà di fissare un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza, il termine decorre, invece, dalla pubblicazione della sentenza stessa (coincidente col deposito in cancelleria del testo completo) e non dalla data di lettura del dispositivo in udienza (Sez. 2, n. 07364/2022, Cavallari, Rv. 664208-01).

Al termine di decadenza dal gravame ex art. 327, comma 1, c.p.c. devono aggiungersi i giorni di sospensione previsti dall’art. 1, comma 1, della l. n. 742 del 1969, se il termine d’impugnazione ricade nel periodo feriale.

In proposito, Sez. 6-2, n. 08722/2022, Besso Marcheis, Rv. 664503-01, ha affermato – in difformità da Sez. 3, n. 17949/2021, Guizzi, Rv. 661957-01, ma conformemente a Sez. 6-1, n. 30053/2020, Iofrida, Rv. 660149-01 – che la riduzione del periodo di sospensione feriale da quarantasei a trentuno giorni, introdotta dall’art. 16, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, conv., con modif., dalla l. n. 162 del 2014, si applica, in mancanza di una disciplina transitoria, a partire dalla sospensione dei termini relativa al periodo feriale dell’anno solare 2015, non rilevando, a tal fine, la data dell’impugnazione o quella di pubblicazione della sentenza.

Nelle controversie controversie rientranti nella definizione agevolata delle liti fiscali, di cui al d.l. n. 119 del 2018, conv. dalla l. n. 136 del 2018, alla sospensione legale del termine di impugnazione ai sensi dell’art. 6, comma 11, del citato decreto (sospensione che opera a prescindere dal concreto intento della parte privata di avvalersi della procedura di definizione agevolata) si cumula il periodo di sospensione dei termini processuali per l’emergenza epidemiologica da Covid-19, previsto dal d.l. n. 18 del 2020, conv. dalla l. 27 del 2020 e dal d.l. n. 23 del 2020, conv. dalla l. n. 40 del 2020, mentre non si cumula con la sospensione feriale, restandone interamente assorbita, in ragione della natura eccezionale della sospensione prevista nell’ambito di procedimenti di definizione agevolata delle liti fiscali. (Sez. 5, n. 33069/2022, Cortesi, Rv. 666396-01).

La sospensione feriale assume rilievo anche al fine di individuare il luogo dove deve essere eseguita la notifica dell’impugnazione, posto che – come statuito da Sez. 2, n. 11069/2022, Criscuolo, Rv. 664380-01 – la proroga ex lege del termine ex art. 327 c.p.c. (nella specie, annuale) implica che l’atto sia notificato in uno dei luoghi previsti dall’art. 330, comma 1, c.p.c. (e, quindi, alla parte presso il procuratore costituito, non alla parte personalmente), ancorché ciò avvenga dopo un lasso temporale superiore ad un anno dalla pubblicazione della sentenza (ipotesi che è invece prevista dal terzo comma della citata disposizione).

L’art. 327, comma 2, c.p.c. prevede ipotesi che giustificano una diversa decorrenza del termine per la proposizione delle impugnazioni ordinarie: segnatamente, il termine lungo non si applica al contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti ex art. 292 c.p.c.

La menzionata disposizione trova applicazione anche nel processo tributario, dato che la parte rimasta contumace può proporre l’impugnazione tardiva, ex artt. 327, comma 2, c.p.c. e 38, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992, a condizione che dimostri sia la pretesa causa di nullità della notificazione del ricorso avversario, sia che, in conseguenza di quel vizio, non ha potuto acquisire conoscenza dell’atto e del conseguente processo (Sez. 5, n. 16080/2022, Cataldi, Rv. 664721-01); di contro, il contumace decade dal diritto di impugnazione se, nonostante la nullità della notificazione dell’atto introduttivo, ha comunque avuto conoscenza del processo e il termine ex art. 327 c.p.c. sia decorso, non già dalla data di pubblicazione della sentenza, bensì dal (successivo) giorno della detta presa di conoscenza (Sez. 5, n. 32777/2022, Balsamo, Rv. 666394-01).

Qualora si verifichi uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. dopo il decorso della metà del termine semestrale ex art. 327 c.p.c., ai sensi dell’art. 328, comma 3, c.p.c. il termine lungo di impugnazione è prorogato, per tutte le parti, di tre mesi dal giorno di tale evento (Sez. 5, n. 36691/2022, D’Aquino, Rv. 666619-01).

4.2. (Segue) Profili comuni ai due termini di impugnazione.

L’inammissibilità dell’impugnazione per violazione dei termini – e, dunque, per tardività – è correlata alla tutela di interessi indisponibili: perciò, la conseguente decadenza è oggetto di verifica ex officio (anche prima della regolarità del contraddittorio, come affermato da Sez. 5, n. 28530/2022, Picardi, Rv. 665938-01) e non è sanabile per effetto della costituzione dell’appellato (Sez. 6-3, n. 07634/2022, Scrima, Rv. 664446-01).

Sulla tardività dell’impugnazione non occorre nemmeno stimolare il contraddittorio ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c., perché la citata disposizione non si applica alle questioni di rito relative ai requisiti (previsti da norme la cui violazione è rilevabile in ogni stato e grado del processo) di ammissibilità della domanda; peraltro, tale conclusione non contrasta con l’art. 6, § 1, della CEDU, norma che, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, ammette che il contraddittorio non venga previamente suscitato su questioni di rito che la parte, con una minima diligenza, avrebbe potuto e dovuto attendersi o prefigurarsi (Sez. 6-3, n. 07356/2022, Scrima, Rv. 664444-01; analogamente, Sez. 5, n. 32527/2022, Balsamo, Rv 666391-01).

In continuità con la giurisprudenza che ha escluso la rimessione in termini in caso di decadenza dall’impugnazione determinata da un errore del difensore sulla decorrenza del termine ex art. 327 c.p.c. (Sez. 1, n. 03340/2021, Marulli, Rv. 660721-01), Sez. 5, n. 21649/2022, Cortesi, Rv. 665146-01, ha statuito che l’istituto ex art. 153, comma 2, c.p.c. non può trovare applicazione alla decadenza dall’impugnazione dipesa da violazioni, da parte del difensore, di obblighi informativi caratteristici del rapporto di mandato (nella specie, i ricorrenti assumevano di essersi rivolti, per l’assistenza nei giudizi di merito, a un difensore sprovvisto del patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, cosicché, una volta resi edotti dell’esito sfavorevole del giudizio di appello, non erano stati in grado di comprendere i termini di decadenza entro cui rivolgersi ad un nuovo professionista per proporre il ricorso per cassazione).

Neanche lo smarrimento del fascicolo d’ufficio e di quello di parte, relativi al giudizio di primo grado, può assurgere, ai fini dell’art. 153 c.p.c., a causa impeditiva della proposizione dell’impugnazione entro il termine prescritto, poiché la parte ha facoltà di chiedere al giudice la ricostituzione di detti fascicoli e l’eventuale integrazione dei motivi d’appello (Sez. 3, n. 21403/2022, Guizzi, Rv. 665184-01).

L’atto di impugnazione impedisce la formazione del giudicato se il gravame viene intrapreso entro il termine (breve o lungo) con la proposizione dell’atto introduttivo prescritto dalla legge.

Al fine di evitare la decadenza, nel rito ordinario l’impugnazione deve essere notificata entro il termine prescritto; se la notificazione non è andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, la riattivazione del procedimento notificatorio con immediatezza – senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c. – determina la conservazione degli effetti collegati alla richiesta originaria (Sez. U, n. 14594/2016, Curzio, Rv. 640441-01).

Gli stessi principi sono stati ripresi da Sez. U, n. 13394/2022, Di Paolantonio, Rv. 664656-01, che ha affermato che l’estensione del principio della scissione degli effetti alla procedura notificatoria che non abbia avuto esito positivo è condizionata all’accertamento dell’assenza di colpa del notificante, il quale, da un lato, non dev’essere responsabile del mancato perfezionamento e, dall’altro, non dev’essere rimasto inerte, ma, al contrario, avere diligentemente agito per assicurare la continuità e la speditezza del procedimento (nella fattispecie, è stata considerata tardiva la notifica dell’atto di appello, richiesta ad ottobre 2014, ma perfezionata il 10 novembre 2015, tenuto conto che l’appellante non si era attivato autonomamente, avendo atteso l’udienza del 29 settembre 2015, per richiedere l’autorizzazione alla rinnovazione).

Si è precisato, tuttavia, che il termine ragionevole entro il quale va riattivato il processo di notificazione, come individuato nella succitata decisione, non è applicabile in caso di notifica anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2016, perché la sua determinazione ha matrice giurisprudenziale e costituisce un overruling processuale, sicché – a tutela della effettività dei mezzi di azione e a garanzia dell’affidamento della parte – devono applicarsi alla fattispecie antecedente (notificazione del 2012) i principi di diritto consolidati al momento dello svolgimento dell’attività processuale (nella specie, quelli espressi da Sez. U, n. 17352/2009, Toffoli, Rv. 609264-01), secondo i quali il procedimento notificatorio poteva riprendere, ad evitare la tardività, “entro un termine ragionevolmente contenuto tenuti conto i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (Sez. 3, n. 31346/2022, Rubino, Rv. 666053-01).

In ogni caso, se la notifica presso il procuratore costituito ha avuto esito negativo per circostanze imputabili al richiedente, non è data al notificante la possibilità di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, affinché la notifica abbia effetto dalla data iniziale di attivazione dello stesso (Sez. 1, n. 00115/2022, Pazzi, Rv. 663551-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione, in quanto il ricorrente, in occasione della prima notifica, aveva colpevolmente omesso di consultare l’albo professionale, peraltro ormai informatizzato ed accessibile telematicamente, affidandosi invece alle indicazioni, non più attuali, contenute nell’atto di appello e nella sentenza impugnata); spetta, infatti, al notificante l’effettuazione di apposite ricerche atte ad individuare il luogo di notificazione dell’impugnazione, non necessariamente coincidente col domicilio individuato nel giudizio a quo, poiché il procuratore destinatario (posto che il dato di riferimento personale prevale su quello topografico) potrebbe essersi successivamente trasferito altrove, anche senza dare alcuna comunicazione del trasferimento alla controparte (Sez. 3, n. 07180/2022, Scarano, Rv. 664197-01).

Qualora il procedimento di notificazione non si sia concluso o il notificante ometta di dare prova del perfezionamento della notifica (nella specie, dell’atto di appello), non può ovviarsi all’inammissibilità dell’impugnazione deducendo l’assenza di colpa della parte (comunque tenuta a dimostrare la tempestività del gravame) o invocando il principio della scissione del momento perfezionativo della notifica (la cui applicazione presuppone che il procedimento notificatorio sia andato a buon fine) (Sez. 6-3, n. 18690/2022, Iannello, Rv. 665201-01 e Rv. 665201-02).

Oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, deve reputarsi giuridicamente inesistente – e non soltanto nulla – la notificazione se essa è realizzata con un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, consistenti: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa (Sez. 3, n. 26511/2022, F.M. Cirillo, Rv. 665447-01, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto inesistente, anziché nulla, la notifica dell’atto di appello presso lo studio di un difensore diverso da quello che effettivamente rappresentava la parte e presso il quale era stato eletto domicilio nel giudizio di primo grado; Sez. 5, n. 31085/2022, Russo, Rv. 666088-01, invece, ha ritenuto inesistente, anziché nulla, la notifica dell’atto di appello, perché priva dell’indicazione del soggetto notificante, della sua qualità e della data della consegna, non certificata dalla firma del ricevente).

Ad ogni buon conto, perché una notificazione possa dirsi esistente occorre che la stessa acceda all’atto che si intende notificare (Sez. L, n. 30044/2022, Garri, Rv. 665757-01, ha confermato la declaratoria di inesistenza della notifica dell’appello, perché la stessa aveva riguardato soltanto il decreto di fissazione dell’udienza e non il ricorso in appello), così come occorre, per configurare un’impugnazione, che la stessa si riferisca al provvedimento che si intende impugnare, non già ad uno completamente diverso (Sez. 2, n. 01515/2022, Carrato, Rv. 663632-01, ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione avverso un provvedimento differente da quello che si intendeva impugnare, sebbene alla notifica di tale atto – reputata inesistente – avesse fatto seguito il tempestivo deposito di un altro ricorso, tardivamente diretto avverso il provvedimento correttamente individuato; la fattispecie ora descritta è assai diversa da quella – decisa da Sez. L, n. 02537/2022, Patti, Rv. 663672-01 – in cui si è constatata la mancanza, nella copia notificata del ricorso per cassazione il cui originale è stato tempestivamente depositato, di una o più pagine, ipotesi quest’ultima che non comporta l’inammissibilità dell’impugnazione, ma costituisce vizio della notifica sanabile con una nuova notificazione di una copia integrale; assai diverso è anche il caso – deciso da Sez. 3, n. 34588/2022, Pellecchia, Rv 666273-01– in cui la discordanza tra gli estremi della sentenza appellata, come precisati nell’atto di impugnazione, e i corrispondenti dati identificativi della sentenza prodotta in copia autentica dall’appellante non comportino incertezza nell’oggetto del giudizio in base ad una verifica della congruenza tra il contenuto della sentenza in atti e i motivi dell’appello).

La notifica dell’impugnazione va effettuata, in mancanza di diversa indicazione contenuta nell’atto di notificazione della sentenza, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il precedente grado di giudizio.

Stante il principio di ultrattività del mandato alla lite (Sez. U, n. 15295/2014, Spirito, Rv. 631466-01), Sez. 1, n. 00190/2022, Falabella, Rv. 663552-01, ha affermato la validità della notificazione dell’impugnazione destinata alla società cancellata dal registro delle imprese (in data successiva alla pubblicazione della sentenza) presso il suo procuratore nel precedente grado (che continua a rappresentare la parte come se l’evento estintivo non si fosse verificato).

Qualora manchi l’elezione di domicilio (o la dichiarazione di residenza) della parte, rimasta contumace o, comunque, costituita senza compiere tale atto, l’impugnazione dev’essere notificata alla parte personalmente a norma dell’art. 330, comma 3, c.p.c.; questa disposizione trova applicazione anche quando sopravviene la morte del domiciliatario, la quale determina l’inefficacia della dichiarazione di domicilio, salvo che l’elezione sia stata fatta presso lo studio di un professionista e l’organizzazione di tale studio gli sopravviva, dovendosi in questo caso considerare tale studio alla stregua di un ufficio (Sez. 5, n. 12411/2022, Cataldi, Rv. 664343-01, ha statuito che non è inesistente, bensì nulla, la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso l’indirizzo PEC del difensore domiciliatario deceduto, se la consegna dell’atto è avvenuta presso lo stesso studio ove sia domiciliato anche l’altro difensore della parte).

5. Le impugnazioni incidentali.

Gli artt. 333 e 334 c.p.c. disciplinano, rispettivamente, l’impugnazione incidentale tempestiva e tardiva (sebbene il codice di rito detti specifiche disposizioni per l’appello incidentale – art. 343 c.p.c. – e per il ricorso per cassazione incidentale – art. 371 c.p.c.), tradizionalmente contrapposte, in via di definizione, a quella principale: il carattere, principale o incidentale, dell’impugnazione deriva, peraltro, da una questione meramente cronologica, nel senso che è principale l’impugnazione proposta per prima, mentre è incidentale quella successiva.

Alla base della disciplina in esame si pone, da un lato, l’esistenza di una situazione di soccombenza reciproca (che ha luogo ogni qual volta le parti abbiano visto solo parzialmente accolte le proprie conclusioni) e, dall’altro, il cd. principio di unità del giudizio di impugnazione, che trova esplicitazione anche nel successivo art. 335 c.p.c., in virtù del quale va disposta la riunione di tutte le impugnazioni proposte separatamente al fine di scongiurare la possibilità di frammentazione del giudicato; in proposito si osserva che Sez. 6-L, n. 14899/2022, Piccone, Rv. 664674-01, ha escluso l’applicabilità dell’art. 335 c.p.c. e, dunque, la riunione del ricorso ordinario per cassazione e del regolamento di competenza proposti avverso lo stesso provvedimento, in quanto il capo relativo alla pronuncia sulla litispendenza – essendo autonomo dagli altri e di tipo esclusivamente processuale – può essere impugnato soltanto con l’istanza di regolamento di competenza.

L’art. 334 c.p.c., nel disporre che la parte contro la quale è stata proposta impugnazione può proporre impugnazione incidentale “anche” quando per essa è decorso il termine, consente alla parte di proporre tardivamente impugnazione indipendentemente dal fatto che, quando le è stata notificata l’impugnazione principale, sarebbe stata ancora in termini per impugnare la sentenza rispettando i termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. (Sez. 2, n. 12687/2022, Besso Marcheis, Rv. 664787-01).

Se, però, l’impugnazione principale è inammissibile, a norma dell’art. 334, comma 2, c.p.c., quella incidentale tardiva – perché avanzata oltre i termini di cui agli artt. 325, comma 2, o 327, comma 1, c.p.c. – è inefficace, anche se sia stato rispettato il termine (ex art. 343 o ex art. 371 c.p.c.) per la sua proposizione.

Non così, invece, in caso di rinuncia all’impugnazione principale, poiché la succitata disposizione si riferisce soltanto alla sola declaratoria di sua inammissibilità (Sez. 3, n. 08116/2022, Porreca, Rv. 664550-01, ha affermato che, in tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica, la rinuncia da parte del medico non comporta l’inefficacia dell’impugnazione incidentale proposta dalla struttura sanitaria, anche perché la responsabilità della struttura è autonoma e si configura come responsabilità per fatto proprio e non per fatto altrui); analoghe statuizioni sono state rese da Sez. 6-1, n. 13888/2022, Fidanzia, Rv. 664780-01 in tema di ricorso per cassazione (la rinuncia al ricorso principale non determina l’inefficacia del ricorso incidentale tardivo) e da Sez. 6-L, n. 27631/2022, Bellè, Rv. 665619-01, con riguardo all’appello (l’impugnante principale non può divenire, con la propria rinuncia, arbitro esclusivo dell’esito del giudizio), ma con la precisazione che il principio non trova applicazione in caso di appello incidentale tardivo proposto dopo la rinunzia all’appello principale.

L’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva è condizionata, secondo alcuni precedenti, dall’impugnazione principale, nel senso che l’impugnante in via incidentale è legato all’iniziativa della controparte e non può attingere, invece, la pronuncia impugnata nelle parti che già lo vedevano pregiudicato, indipendentemente dall’operato dell’avversario (Sez. 3, n. 23584/2022, Guizzi, Rv. 665609-01).

Secondo un altro orientamento (a cui si ascrive Sez. 3, n. 26139/2022, Saija, Rv. 665649-01), l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile – anche se essa riguarda un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale, o se investe lo stesso capo per motivi diversi da quelli già fatti valere – perché l’iniziativa della controparte rimette in discussione l’assetto di interessi derivante dalla pronuncia impugnata e, conseguentemente, deve giocoforza consentirsi alla parte di contrastare una decisione che altrimenti avrebbe accettato.

6. La pluralità di parti in primo grado: effetti sull’impugnazione.

Si osserva, innanzitutto, che il controllo sulla corretta instaurazione del contraddittorio, sin dalla originaria chiamata in giudizio dei litisconsorti necessari, ha carattere preliminare rispetto all’esame dei motivi di impugnazione, riguardando la valida costituzione del rapporto processuale.

Poiché le regole sul litisconsorzio necessario hanno natura processuale e sono di applicazione necessaria nei processi che si svolgono innanzi al giudice italiano, una volta rilevata la non integrità del contraddittorio in base alla disposizione nazionale, la relativa statuizione ha carattere di pregiudizialità assoluta e ciò impone al giudice d’appello di rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., restando preclusa qualsiasi altra decisione sul merito e anche sulla questione riguardante l’individuazione della legge sostanziale applicabile (Sez. 3, n. 34897/2022, Rossetti, Rv. 666276-01).

Quando la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario non è stata rilevata né dal giudice di primo grado, né da quello di appello, l’intero processo è viziato e s’impone, nel giudizio di cassazione, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell’art. 383, comma 3, c.p.c. (Sez. 3, n. 27078/2022, Tatangelo, Rv. 665903-01, in tema di litisconsorzio necessario del proprietario del veicolo nel giudizio promosso dal terzo trasportato nei confronti dell’impresa di assicurazione per la r.c.a.; Sez. 3, n. 32445/2022, Fanticini, Rv. 666112-01, riguardante il giudizio di reclamo ex art. 630 c.p.c. avverso l’estinzione della procedura espropriativa presso terzi, in cui si configura sempre il litisconsorzio necessario tra il creditore, il debitore e il terzo pignorato).

In caso di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso una sentenza di appello da parte dei litisconsorti necessari pretermessi fin dal primo grado, la dedotta violazione dell’integrità del contraddittorio rende ex se ammissibile l’impugnazione, che si riduce alla sola fase rescindente, dovendo essere disposta la rimessione delle parti davanti al primo giudice e restando preclusa al giudice di secondo grado la decisione della controversia nel merito (Sez. 2, n. 01441/2022, Bertuzzi, Rv. 663627-01).

Quando la sentenza di prime cure è stata pronunciata in una situazione di litisconsorzio (cioè nei confronti di più parti), occorre stabilire quali parti devono partecipare al giudizio di impugnazione.

Si osserva, in primis, che l’integrazione del contraddittorio, in sede d’impugnazione, nei confronti del Pubblico Ministero presso il giudice a quo non si rende necessaria in tutte le controversie in cui ne sia contemplato l’intervento, ma soltanto in quelle nelle quali egli sia titolare del potere di proporre impugnazione (Sez. 1, n. 03252/2022, Campese, Rv. 664158-01, secondo cui, quando le funzioni di Pubblico Ministero non includono l’autonoma facoltà di impugnazione, esse si identificano con quelle che svolge il Procuratore Generale presso il giudice ad quem e restano quindi assicurate dalla comunicazione o trasmissione degli atti a quest’ultimo, a norma degli artt. 71 c.p.c. e, per il giudizio di cassazione, dell’art. 137 disp. att. c.p.c.).

Per quanto concerne le parti diverse da quella pubblica, il codice di rito distingue a seconda del vincolo che ha determinato il litisconsorzio, prevedendo che (a) quando si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, il giudizio di impugnazione si deve svolgere nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato alla precedente fase (art. 331 c.p.c.), mentre (b) nella diversa ipotesi di plurime cause che avrebbero potuto essere trattate separatamente (e, solo per motivi contingenti, le cause – scindibili – sono state trattate in un solo processo) il giudizio di impugnazione non richiede necessariamente la partecipazione di ognuno dei contendenti (art. 332 c.p.c.).

Tale diversità di disciplina implica che, nel primo caso, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina ex se l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d’ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., nei confronti della parte pretermessa.

Ha deciso in base alla citata disposizione Sez. 2, n. 24834/2022, Tedesco, Rv. 665561-01, con riferimento ad un’azione di nullità di una divisione ereditaria giudiziale: dalla sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra tutti i partecipanti alla comunione (i coeredi parti del giudizio divisorio) deriva che l’inosservanza, anche solo parziale, dell’ordine di integrazione del contraddittorio implica l’inammissibilità del ricorso per cassazione (e non l’improcedibilità ex art. 371 bis c.p.c., norma che si riferisce al difetto del successivo adempimento del deposito dell’atto di integrazione del contraddittorio, debitamente notificato).

L’art. 331 c.p.c. trova applicazione non solo alle fattispecie in cui la necessità del litisconsorzio in primo grado derivi da ragioni di ordine sostanziale, ma anche a quelle di “cd. litisconsorzio necessario processuale”, che si verificano quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio.

Si applica, perciò, l’art. 331 c.p.c. anche in caso di intervento adesivo dipendente, perché esso determina un’ipotesi di causa inscindibile, necessariamente configurandosi un litisconsorzio processuale nei successivi giudizi di impugnazione, poiché le ragioni che consentono e giustificano la presenza di parti accessorie non si esauriscono in un grado di giudizio, persistendo l’interesse dell’interventore adesivo ad influire con una propria difesa sull’esito della lite.(Sez. 2, n. 06357/2022, Cosentino, Rv. 664314-01); ciò non significa, tuttavia, che l’interventore adesivo dipendente possa proporre un’autonoma impugnazione, in via principale o in via incidentale, posto che il suo interesse è limitato a questioni attinenti alla qualificazione dell’intervento o alla condanna alle spese (Sez. 2, n. 22972/2022, Grasso, Rv. 665253-01, ha ritenuto inammissibile l’appello proposto da un soggetto diverso dal proprietario o dal titolare di diritto reale di godimento sui fondi dominante e servente nell’ambito di un’azione di negatoria servitutis, in quanto volto esclusivamente a sostenere le ragioni di una delle due parti).

Qualora il convenuto in un’azione di rivendica indichi il soggetto in nome del quale detiene il bene rivendicato la sua estromissione dalla lite (e la correlata perdita di legittimazione passiva rispetto alla domanda) escludono la configurabilità di un rapporto di litisconsorzio necessario, neanche in caso di intervento jussu judicis della persona indicata; se, però, la sentenza di primo grado non estromette dal giudizio il detentore e decide la lite anche nei suoi confronti, in sede di gravame si realizza un’ipotesi di causa inscindibile, con la conseguente necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’interventore coatto (Sez. 2, n. 05899/2022, Cosentino, Rv. 663938-01).

Un nesso di inscindibilità avvince la causa principale e quella di garanzia nei confronti del terzo; ciò vale, sia per la garanzia propria (come la domanda di manleva proposta dal convenuto, acquirente dell’immobile oggetto dell’azione di rivendica, nei confronti del proprio alienante, alla quale si riferisce Sez. 2, n. 23904/2022, Trapuzzano, Rv. 665384-01), sia per quella impropria (Sez. 3, n. 34899/2022, Condello, Rv. 666485-02, ha ravvisato un litisconsorzio necessario processuale nell’impugnazione nel caso in cui l’accertamento della responsabilità di uno dei condebitori solidali presupponga necessariamente quello della responsabilità dell’altro, in un rapporto di subordinazione logica o di pregiudizialità tra le cause nei confronti di ciascuno dei condebitori): conseguentemente, tra il terzo chiamato e le parti originarie, si instaura un litisconsorzio necessario processuale nelle impugnazioni e l’attore che impugna la sentenza a sé sfavorevole è, in ogni caso, tenuto ad evocare nel giudizio di appello, oltre al responsabile, anche il garante (Sez. 3, n. 09013/2022, Ambrosi, Rv. 664555-01); quale ulteriore conseguenza, la rinuncia agli atti formulata dal garantito in appello (già condannato in primo grado), non determina – anche se accettata dal danneggiato – l’estinzione del giudizio, ove non sia accettata anche dal garante (Sez. 2, n. 27977/2022, Papa, Rv. 665698-01).

Se l’appello è stato introdotto in violazione dell’art. 331 c.p.c. e la relativa nullità non è stata rilevata né dalle parti né dal giudice, la stessa può formare oggetto di ricorso (principale o incidentale) per cassazione della sentenza conclusiva del gravame, ma soltanto se la menzionata violazione abbia riguardato una situazione di litisconsorzio necessario iniziale (art. 102 c.p.c.) o di litisconsorzio necessario processuale determinata dall’ordine del giudice (art. 107 c.p.c.), atteso che in tali casi, a differenza di ogni altra ipotesi di violazione dell’art. 331 c.p.c. (e, dunque, di litisconsorzio necessario processuale da inscindibilità o da dipendenza), non può operare la regola dell’art. 157, comma 3, c.p.c. trattandosi di violazioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di cassazione, circostanza che esclude che la parte abbia perduto il potere di impugnare (Sez. 3, n. 11246/2022, Vincenti, Rv. 664511-01).

Viceversa, se le cause plurisoggettive sono scindibili – ed è così esclusa la necessità del litisconsorzio – le impugnazioni possono essere anche distinte e non trova applicazione neanche la regola dell’unitarietà del termine dell’impugnazione (Sez. 6-3, n. 16141/2022, Cricenti, Rv. 665054-01).

Sez. 2, n. 31827/2022, Scarpa, Rv. 665993-01, ha ravvisato un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo in cause scindibili nell’azione promossa da più condomini, nello stesso processo, verso un altro condomino o verso un terzo, sia per la cessazione delle immissioni a tutela delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, sia a difesa della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c.; conseguentemente, se soltanto alcuni degli attori originari hanno proposto appello avverso la sentenza di rigetto delle domande pronunciata in primo grado, a norma dell’art. 332 c.p.c. le decisioni non impugnate nei termini di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c. divengono irrevocabili.

La distinzione tra cause scindibili o inscindibili rileva anche ai fini della decisione sulle spese di lite: se le controversie sono scindibili, qualora il convenuto soccombente evochi in appello l’altro convenuto, contumace in primo grado e non soccombente, la citazione assolve alla funzione di litis denuntiatio, sicché l’originario attore, risultato soccombente in secondo grado, non può essere condannato a rimborsare le spese del giudizio all’originario convenuto non soccombente che si sia costituito in appello (Sez. 6-2, n. 32350/2022, Besso Marcheis, Rv. 666166-02).

7. Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione.

L’art. 336 c.p.c. disciplina il cd. effetto espansivo della sentenza riformata o cassata: per l’effetto espansivo interno (primo comma), l’accoglimento del gravame può riverberarsi sulle parti della decisione che sono da esso dipendenti anche se non investite dall’impugnazione, posto che rispetto ad esse non si verifica acquiescenza se sono in nesso di conseguenza con quelle intercettate dalla statuizione del giudice superiore o se in esse rinvengono il loro presupposto; l’effetto espansivo esterno (secondo comma), invece, si ripercuote sui provvedimenti e sugli atti dipendenti dalla riforma o dalla cassazione della sentenza impugnata.

Un tipico caso di effetto espansivo ex art. 336 c.p.c. attiene alle spese del giudizio: la riforma di una sentenza non definitiva comporta, infatti, la caducazione della statuizione sulle spese contenuta nella sentenza definitiva non impugnata, se quest’ultima decisione sia fondata sulla soccombenza relativa al contenuto della pronuncia poi riformata (Sez. 6-2, n. 03805/2022, Criscuolo, Rv. 663967-02).

Sempre in tema di rapporto tra pronuncia non definitiva e decisione definitiva, Sez. 1, n. 22623/2022, Caiazzo, Rv. 665521-01, ha statuito che la cassazione della sentenza non definitiva sull’an debeatur travolge la sentenza definitiva sul quantum debeatur, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione avverso quest’ultima; tuttavia, se la cassazione della pronuncia non definitiva ha riguardato soltanto alcune sue statuizioni, la caducazione della sentenza definitiva concerne unicamente le parti dipendenti da quella cassata.

La cassazione con rinvio della decisione al giudice di merito, comporta l’integrale rinnovazione della regolamentazione delle spese del giudizio di appello, anche in caso di cassazione parziale della sentenza, che riverbera i suoi effetti sulla statuizione relativa alle spese processuali (Sez. 6-2, n. 03798/2022, Criscuolo, Rv. 663935-01, ha così escluso che siano nuove le domande di una più favorevole liquidazione delle spese, di adozione di un diverso parametro tariffario e di riconsiderazione del valore della controversia; in tema, anche Sez. U, n. 32906/2022, Conti, Rv. 666076-01).

Anche nel corso del 2022 è stata più volte esaminata la questione relativa alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza poi riformata o cassata.

Secondo Sez. 6-3, n. 27943/2022, Iannello, Rv. 665976-02, la domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una pronuncia di condanna caducata è proponibile in separato giudizio e al relativo accoglimento non osta l’erronea qualificazione giuridica della stessa operata dall’attore, competendo al giudice il potere-dovere di effettuare autonomamente tale qualificazione nei limiti dei fatti dedotti.

L’indennità di accompagnamento, se erogata sulla base di sentenza provvisoriamente esecutiva e poi riformata in sede di impugnazione, può essere oggetto di ripetizione in base alle disposizioni generali sull’indebito civile, dato che l’obbligo di restituzione trova fondamento nell’art. 336, comma 2, c.p.c. (Sez. L, n. 29034/2022, Calafiore, Rv. 665774-01).

Sono invece escluse dalla ripetizione dell’indebito (e, dunque, è limitato l’effetto ex art. 336 c.p.c.) le prestazioni erogate a titolo di assegno di mantenimento separativo o divorzile disposto in sede di ordinanza presidenziale e poi riconosciute come non dovute dal giudice di primo grado o d’appello – anche in esito ad una rivalutazione delle condizioni economiche del coniuge obbligato già esistenti al tempo della pronuncia dell’ordinanza – o per insussistenza dei presupposti del diritto all’assegno, o per una mera rimodulazione al ribasso dell’entità dell’assegno, sempreché la misura originaria di quest’ultimo fosse idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente e si possa così presumere che le somme corrisposte siano state consumate (Sez. U, n. 32914/2022, Iofrida, Rv. 666186-01, che, al di fuori delle predette ipotesi, ha invece riconosciuto l’operatività della regola generale della condictio indebiti).

  • procedura civile
  • prova

CAPITOLO XII

L’APPELLO

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Caratteri generali del processo d’appello. - 2 I provvedimenti appellabili. - 3 Forme e termini dell’impugnazione. - 4 L’oggetto dell’impugnazione. - 5 L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. - 6 I nova in appello. - 6.1 (Segue) Nuovi mezzi di prova in appello. - 7 La decisione e trattazione dell’appello.

1. Caratteri generali del processo d’appello.

Con la riforma introdotta dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, il legislatore ha inteso trasformare il giudizio di appello da novum iudicium (da intendersi quale mezzo per sottoporre nuovamente al secondo giudice, in tutto o in parte, l’oggetto della lite svoltasi in prime cure) a revisio prioris instantiae (e, cioè, a strumento di controllo degli errori di diritto o di fatto contenuti nel provvedimento impugnato, così come denunciati dalle parti); il principio (già espresso da Sez. U, n. 27199/2017, F.M. Cirillo, Rv. 645991-01) è stato recentemente ribadito da Sez. U, n. 36481/2022, Carrato, Rv. 666375-01 che – in riferimento alla natura di revisio prioris instantiae, diversa rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, dell’appello avverso le pronunce del Tribunale Regionale delle acque dinanzi al Tribunale Superiore delle acque pubbliche – ha statuito che gli artt. 342 e 434 c.p.c. vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.

Proprio da tale caratteristica si è tratto il principio secondo cui il divieto di nova ex art. 345 c.p.c. riguarda anche le allegazioni in punto di fatto non esplicate in primo grado (e non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto), poiché la loro ammissione in secondo grado trasformerebbe l’appello in un iudicium novum estraneo al vigente ordinamento processuale (Sez. 3, n. 09211/2022, Porreca, Rv. 664556-02).

Anche se già in precedenza si riteneva che il giudice d’appello potesse esercitare il proprio sindacato entro la griglia di soluzioni proposte dall’appellante sui capi e sulle questioni specificamente devolute, l’effetto devolutivo tracciato dalla riforma risulta maggiormente definito entro i limiti delle contrapposte iniziative delle parti, le quali – con un appello necessariamente motivato (ex artt. 342 e 434 c.p.c.) o attraverso la riproposizione delle questioni (ex art. 346 c.p.c.) o con l’appello incidentale (ex artt. 343 e 436 c.p.c.) – delineano i confini del gravame e, nel contempo, così sanciscono l’abbandono delle domande e delle eccezioni non riproposte (ex art. 346 c.p.c.) e segnano i margini dell’acquiescenza parziale (ex art. 329, comma 2, c.p.c.).

Che l’appello tracci i confini della devoluzione al giudice del gravame è confermato dalla statuizione secondo cui il giudice d’appello non può escludere ufficiosamente l’esistenza del danno da lucro cessante, già riconosciuto e liquidato dal giudice di primo grado, se l’impugnazione principale e quella incidentale investono soltanto alcune voci del danno emergente (Sez. 1, n. 15255/2022, Reggiani, Rv. 664870-01).

L’oggetto dell’impugnazione, pur se costituito dall’originario rapporto dedotto in primo grado, è dato dai motivi di impugnazione, che devono essere sufficientemente specifici (come prescritto dall’art. 342 c.p.c.).

L’inosservanza dell’onere di specificazione dei motivi di appello determina l’inammissibilità dell’impugnazione e costituisce un limite alla possibilità stessa per il giudice di appello di rilevare d’ufficio questioni attinenti al merito della regiudicanda (Sez. 2, n. 10930/2022, Giusti, Rv. 664374-02, la quale ha altresì precisato che l’omissione non può essere ovviata mediante una specificazione dei motivi compiuta in corso di causa o con la comparsa conclusionale, neanche se con essa si prospetti una questione che sarebbe rilevabile d’ufficio dal giudice).

Nel processo tributario, il principio suesposto è attenuato, in quanto è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, conformemente a quanto già dedotto in primo grado, per sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato (Sez. 6-5, n. 06302/2022, Luciotti, Rv. 663885-01).

Si deve poi rilevare che i motivi d’appello – che, ex art. 342 c.p.c., devono indicare la parte del provvedimento impugnato e le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione appellata – non possono riguardare il merito della domanda dichiarata inammissibile dal giudice di prime cure (nella specie, l’opposizione a decreto ingiuntivo era stata ritenuta tardiva) e l’impugnazione della statuizione pregiudiziale manifesta comunque inequivocabilmente la volontà di proseguire il giudizio e di riproporre, quantomeno implicitamente, la domanda principale e, cioè, le ragioni di opposizione (Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-01).

Il difetto di specificità dei motivi d’appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., rilevato d’ufficio dal giudice del gravame, può essere oggetto di ricorso per cassazione come error in procedendo, ma, per essere ammissibile tale censura, il ricorrente ha l’onere di precisare –in ossequio all’art. 366, comma 1, n. 4 e n, 6, c.p.c. – le ragioni per cui ritiene erronea la statuizione d’appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame, riportandone il contenuto (con trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse) secondo criteri di sinteticità e chiarezza, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Sez. L, n. 03612/2022, Patti, Rv. 663837-01, che rilegge l’art. 366 c.p.c. in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021, causa Succi ed altri c/Italia).

2. I provvedimenti appellabili.

Le sentenze di primo grado sono, di regola, suscettibili di impugnazione con appello, a meno che la legge non disponga diversamente.

A norma dell’art. 42 c.p.c., sono inappellabili le pronunce sulla competenza prive di decisione sul merito della causa, posto che per le stesse l’ordinamento appresta il rimedio del regolamento necessario di competenza; si rileva, però, che la citata disposizione non si applica nel processo tributario e, di conseguenza, la sentenza con la quale la CTP dichiari la propria incompetenza è appellabile dalla parte che non voglia rendere incontestabile la relativa statuizione (Sez. 6-5, n. 00895/2022, Cataldi, Rv. 663616-01, ha espressamente statuito che non sussiste, rispetto a tale pronuncia, l’obbligo o l’alternativa del ricorso al regolamento di competenza, le cui disposizioni del codice di rito sono inapplicabili al giudizio tributario; analogamente, Sez. 6-5, n. 29213/2022, Fracanzani, Rv. 666105-01 – oltre ad affermare che la statuizione della CTP che si dichiara incompetente è solo appellabile, non essendo previsto nel processo tributario il regolamento di competenza – ha anche rilevato che l’accoglimento dell’appello comporta la rimessione della causa alla stessa CTP che ha adottato la decisione annullata, come previsto dall’art. 59, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 546 del 1992, in deroga all’effetto devolutivo dell’impugnazione).

L’art. 339, comma 2, c.p.c. sancisce l’inappellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità, ma il successivo comma 3 della citata disposizione prevede – quale “eccezione alla eccezione” – la proponibilità dell’appello avverso le decisioni del giudice di pace pronunciate secondo equità in cause di valore non eccedente Euro 1.100,00, ma soltanto per specifici motivi e, cioè, per violazione a) delle norme sul procedimento, b) di norme costituzionali, c) di disposizioni comunitarie oppure d) dei principi regolatori della materia, che non possono essere violati nemmeno in un giudizio di equità.

È sempre proponibile l’appello avverso la sentenza – anche del giudice di pace – che definisce il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, in quanto, per espressa disposizione dell’art. 6, comma 12, del d.lgs. n. 150 del 2011, non è applicabile l’art. 113, comma 2, c.p.c., sicché non è possibile una pronuncia secondo equità (Sez. 6-2, n. 00922/2022, Dongiacomo, Rv. 663809-01).

Costituisce condizione di ammissibilità dell’appello contro una sentenza equitativa del giudice di pace l’indicazione, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., del principio informatore violato e l’illustrazione delle ragioni per le quali la regola equitativa individuata sia in contrasto con quello (Sez. 6-3, n. 18064/2022, F.M. Cirillo, Rv. 665198-01).

In applicazione del terzo comma dell’art. 339 c.p.c., Sez. 6-2, n. 01108/2022, Varrone, Rv. 663918-01, ha statuito l’ammissibilità dell’appello (per violazione delle norme sul procedimento) col quale è dedotta l’inosservanza dell’art. 91 c.p.c., norma processuale che il giudice di pace è tenuto ad applicare anche quando decide secondo equità.

Ai fini dell’art. 339, comma 3, c.p.c., per “norme sul procedimento” devono intendersi le regole che disciplinano il giudizio di cognizione dinanzi al giudice di pace, regolando l’attività processuale delle parti e del giudice nell’ambito di quel giudizio, e non anche quelle relative ad altri procedimenti, utilizzate dal giudice di pace per la formulazione del proprio giudizio sulla fondatezza della domanda (Sez. 3, n. 27384/2022, Spaziani, Rv. 665949-01, ha confermato l’inammissibilità dell’appello fondato sulla violazione dell’art. 553 c.p.c., sul presupposto che tale norma era stata presa in considerazione, dal giudice di pace, al solo fine di statuire sulla insussistenza del diritto di credito azionato, il quale non era oggetto di una precedente ordinanza di assegnazione nei confronti del debitor debitoris; analogamente, Sez. 3, n. 31830/2022, Rossi, Rv. 666069-01, ha confermato l’inammissibilità dell’appello avverso il rigetto di una domanda di ripetizione dell’imposta di registro assolta su un’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c.).

Le parti possono accordarsi per omettere l’appello e, quindi, per un’immediata impugnazione in sede di legittimità della sentenza di primo grado attraverso un negozio giuridico processuale, consistente nella rinunzia ad un grado di giudizio, concluso personalmente fra le parti, anche tramite loro procuratori speciali (non da procuratori ad litem) e antecedente alla scadenza del termine per la proposizione dell’appello (Sez. 6, n. 13195/2022, Oliva, Rv. 664802-01); in ogni caso, il c.d. ricorso per saltum, ammissibile solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e mai per motivi di giurisdizione, come recentemente statuito da Sez. U, n. 35448/2022, Scarpa, Rv. 666386-01.

È appellabile (e non direttamente ricorribile per cassazione) il provvedimento di liquidazione dei compensi dovuti dal cliente al proprio difensore per attività stragiudiziale non correlata ad attività giudiziale, in quanto esso è adottato con le forme del rito sommario ex art. 702 bis e ss. c.p.c., non già ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 (Sez. 6-2, n. 04665/2022, Abete, Rv. 663970-01).

Sono sempre soggetti a reclamo dinanzi alla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 720 bis, comma 2, c.p.c., i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno; tuttavia, il decreto di approvazione del rendiconto finale, previsto per la tutela degli incapaci e applicabile anche all’amministrazione di sostegno, è suscettibile di impugnazione decisa dal tribunale in sede contenziosa, con sentenza appellabile (Sez. 6-1, n. 04029/2022, M. Di Marzio, Rv. 664215-01).

È inappellabile e, anzi, totalmente inoppugnabile l’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c.: le doglianze delle parti possono essere fatte valere solo con l’impugnazione della sentenza che definisce il giudizio incardinato ai sensi dell’art. 667 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 13956/2022, Iannello, Rv. 664649-01).

3. Forme e termini dell’impugnazione.

I termini per la proposizione dell’appello sono stabiliti, nel rito ordinario, dagli artt. 325 e 327 c.p.c., per il rito del lavoro, dall’art. 434 c.p.c. e, nel procedimento sommario di cognizione, dall’art. 702-quater c.p.c.

Il termine “lungo” semestrale decorre dalla pubblicazione della sentenza, in assenza di notifica, salvo che per la parte contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione dell’atto introduttivo (o degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.): per evitare la decadenza dall’impugnazione, il contumace deve dimostrare la sussistenza, oltre che del presupposto oggettivo della nullità della notificazione, di quello soggettivo della mancata conoscenza – anche solo di fatto – del processo a causa di detta nullità (Sez. 5, n. 16080/2022, Cataldi, Rv. 664721-01, in tema di processo tributario).

Il termine “breve” ex art. 325 c.p.c. decorre, invece, dalla notificazione della sentenza – quale espressione della volontà di porre fine al processo, attraverso il compimento di un atto acceleratorio (Sez. U, n. 01717/2020, Mercolino, Rv. 656766-01) –, ma fa eccezione l’appello avverso la sentenza oggetto del procedimento di correzione per errore materiale, per la quale il termine breve decorre dalla notifica, a cura della cancelleria, della ordinanza che dispone la correzione (Sez. 6-2, n. 15166/2022, Fortunato, Rv. 665041-01).

L’art. 702-quater c.p.c. stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria: a risolvere un contrasto interpretativo sul punto – e, segnatamente, sul dies a quo del termine in caso di lettura in udienza del provvedimento – è intervenuta la pronuncia di Sez. U, n. 28975/2022, Patti, Rv. 665762-01, affermando che per l’impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c. occorre fare riferimento alla sua comunicazione o notificazione e non al giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, così si era pronunciata, in precedenza, in relazione alle controversie relative alla protezione internazionale (nelle quali è applicabile il rito sommario di cognizione ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 150 del 2011) Sez. 6-1, n. 31572/2022, Scotti, Rv. 665994-01, secondo cui il termine per impugnare decorre, per la parte costituita, dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. (in senso contrario si era espressa Sez. 1, n. 14669/2021, Caradonna, Rv. 661400-01).

In ogni caso, soltanto la comunicazione del testo integrale dell’ordinanza emessa ex art. 702 ter, comma 6, c.p.c. – comprensivo del dispositivo e della motivazione – determina la decorrenza del termine di trenta giorni per l’appello (Sez. 6-2, n. 05079/2022, Dongiacomo, Rv. 664178-01).

Qualora, poi, difettino sia la comunicazione, sia la notificazione oppure se la parte sia rimasta contumace, anche nel procedimento sommario di cognizione trova applicazione il termine lungo ex art. 327, comma 1, c.p.c. (Sez. 6-2, n. 05661/2022, Criscuolo, Rv. 664182-01).

Nei giudizi soggetti al rito del lavoro – come quello inerente all’opposizione a verbale di accertamento di violazione di norme del codice della strada instaurato successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011 – l’appello avverso la sentenza di primo grado va proposto, in mancanza di notificazione del provvedimento impugnato, entro il termine lungo ex art. 327 c.p.c. – decorrente (in base alle statuizioni di Sez. 2, n. 07364/2022, Cavallari, Rv. 664208-01) dalla data della pronuncia e, cioè, dalla sua pubblicazione coincidente col deposito in cancelleria del testo completo (se all’udienza di discussione il giudice non ha deciso la causa procedendo alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione) – con ricorso da depositare in cancelleria entro il termine decadenziale.

Sez. L, n. 24386/2022, Boghetich, Rv. 665335-01, ha confermato la declaratoria di inammissibilità dell’appello – considerato tardivo in quanto proposto con ricorso, anziché con citazione, e notificato oltre il termine di 60 giorni – avverso la decisione su un’opposizione ad ordinanza ingiunzione instaurata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, sul presupposto che l’appello erroneamente avanzato con ricorso è ammissibile ove sia notificato, alla stregua di una notificazione, entro il termine di impugnazione.

Al contrario – in base alla decisione di Sez. U, n. 00758/2022, Lamorgese, Rv. 663582-01 (investita da Sez. 3, n. 12233/2021, Scoditti, di una questione attinente al consolidamento del rito erroneo) – nei procedimenti disciplinati dal d.lgs. n. 150 del 2011 e nei quali la domanda va proposta nelle forme del ricorso, l’erronea introduzione del giudizio con citazione (purché tempestivamente notificata) produce gli effetti sostanziali e processuali che le sono propri, ferme restando decadenze e preclusioni maturate secondo il rito erroneamente prescelto dalla parte; la sanatoria ex lege si realizza indipendentemente dalla pronunzia dell’ordinanza di mutamento del rito da parte del giudice.

La citazione in appello non deve necessariamente contenere lo specifico avvertimento, prescritto dall’art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c. riguardante le decadenze ex artt. 38 e 167 c.p.c. in caso di costituzione oltre i termini di legge, perché le predette norme si riferiscono solo al giudizio di primo grado e, in mancanza di un’espressa previsione di legge, non è prescritto alcun avvertimento circa le decadenze derivanti dalla mancata tempestiva costituzione della parte appellata (Sez. 6-2, n. 07772/2022, Giannaccari, Rv. 664194-01).

La modalità – analogica o digitale – dell’atto d’appello incide anche sul suo contenuto: se predisposto su supporto analogico e successivamente riprodotto in formato digitale ai fini della notificazione tramite p.e.c., l’atto non richiede la firma digitale dei difensori (richiesta, invece, nell’atto nativo digitale) se la copia telematica è munita della prescritta attestazione di conformità all’originale, senza che possa attribuirsi alcun rilievo al fatto che il file digitale rechi il formato pdf anziché p7m (Sez. 6-3, n. 11222/2022, Cricenti, Rv. 664462-01).

L’appello incidentale deve essere proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (art. 343 c.p.c.) o, nel rito del lavoro, in apposita memoria, la quale va prodotta entro l’udienza di discussione a pena di improcedibilità dell’impugnazione ex art. 348, comma 1, c.p.c. (Sez. 3, n. 15726/2022, Gorgoni, Rv. 665100-01).

Non deve necessariamente formare oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, neppure in via incidentale, l’istanza di correzione dell’errore materiale contenuto nella decisione impugnata; l’istanza, infatti, può essere proposta in qualsiasi forma e persino essere implicita nel complesso delle deduzioni difensive svolte in appello ed è autonoma rispetto all’impugnazione (Sez. 6-2, n. 00683/2022, Grasso, Rv. 663808-01, ha chiarito che non è preclusa al giudice la decisione dell’istanza di correzione formulata all’interno di un appello incidentale, anche se questo è dichiarato inammissibile).

L’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell’apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione (giusta od errata che sia) dell’azione e del provvedimento scientemente compiuta dal giudice (Sez. L, n. 29763/2022, Cerulo, Rv. 665820-01, relativa ad una fattispecie in cui la sentenza di primo grado aveva univocamente qualificato l’azione come opposizione agli atti esecutivi, suscettibile di impugnazione esclusivamente col ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.).

L’atto di appello deve essere notificato al difensore della controparte nel domicilio eletto e, cioè, in ipotesi di notificazione telematica, presso il cd. domicilio digitale del procuratore della parte avversa anche in difetto di indicazione negli atti del giudizio, mentre per la notifica “analogica” il domicilio eletto è quello risultante dagli atti del giudizio di primo grado, indicazione che prevale sulle diverse risultanze dell’albo professionale (Sez. 2, n. 15564/2022, Oliva, Rv. 664880-01; in base a quanto statuito da Sez. 1, n. 00115/2022, Pazzi, Rv. 663551-01, deve reputarsi colpevole il vizio di notifica derivante dall’omessa consultazione dell’albo professionale da parte del notificante, che si era invece limitato alle indicazioni, non più attuali, contenute nell’atto di appello e nella sentenza impugnata); tuttavia, non può dirsi inesistente la notifica eseguita presso lo studio di un difensore diverso da quello che effettivamente rappresentava la parte e presso il quale era stato eletto domicilio nel giudizio di primo grado (Sez. 3, n. 26511/2022, F.M. Cirillo, Rv. 665447-01).

Di contro, è inesistente, anziché nulla, la notifica dell’atto di appello che sia priva dell’indicazione del soggetto notificante, della sua qualità e della data della consegna, non certificata dalla firma del ricevente (Sez. 5, n. 31085/2022, Russo, Rv. 666088-01); del pari inesistente è la notificazione riguardante un atto diverso da quello d’impugnazione che ne deve costituire l’oggetto (Sez. L, n. 30044/2022, Garri, Rv. 665757-01, in relazione alla notifica di un appello avente ad oggetto il decreto di fissazione dell’udienza e l’opposizione a decreto ingiuntivo e non il ricorso in appello).

Non è necessaria la sottoscrizione digitale dell’atto d’appello in formato analogico, successivamente riprodotto in formato digitale ai fini della notificazione telematica, purché lo stesso sia munito dell’attestazione di conformità all’originale, senza che rilevi in alcun modo la circostanza che il file rechi il formato pdf anziché p7m (Sez. 6-3, n. 11222/2022, Cricenti, Rv. 664462-01).

Qualora l’appellante ometta di dimostrare la tempestività del gravame, attraverso la produzione della prova del perfezionamento della notifica dell’atto di appello, l’impugnazione va dichiarata inammissibile, anche in assenza di colpa della parte appellante (Sez. 6-3, n. 18690/2022, Iannello, Rv. 665201-01, che ammette la possibilità di rimessione dell’appellante in termini per il deposito dell’avviso, asseritamente non ricevuto, in presenza di prova documentale della tempestiva richiesta all’amministrazione postale di un duplicato dello stesso, secondo quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, della l. n. 890 del 1982).

Si applica anche al giudizio d’appello l’art. 182, comma 2, c.p.c.; al rilievo di un vizio determinante la nullità della procura al difensore il giudice deve far seguire, entro l’udienza prevista dall’art. 350 c.p.c., l’assegnazione di un termine perentorio per il rilascio della stessa o per la sua rinnovazione (Sez. 6-3, n. 02498/2022, Fiecconi, Rv. 663864-01, ha cassato con rinvio la decisione di appello che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno in favore della beneficiaria proposta dall’amministratore di sostegno, limitandosi al rilievo della mancata richiesta di autorizzazione del giudice tutelare, senza concedere termine per il rilascio delle necessarie autorizzazioni).

Trovano applicazione, ex art. 359 c.p.c., le regole del primo grado che non siano incompatibili e, tra queste, le norme sulla sanatoria degli atti viziati: così, la congruità tra il contenuto della sentenza depositata dall’appellante e i motivi dell’appello sanano la discordanza tra gli estremi della sentenza appellata erroneamente precisati nell’atto di impugnazione e i corrispondenti dati identificativi della sentenza prodotta in copia autentica (Sez. 3, n. 34588/2022, Pellecchia, Rv 666273-01).

Non è invece sanabile con la costituzione dell’appellato l’inammissibilità dell’impugnazione derivante dall’inosservanza dei termini decadenziali per la sua proposizione, posti a tutela d’interessi indisponibili (Sez. 6-3, n. 07634/2022, Scrima, Rv. 664446-01).

Nel rito ordinario, una volta notificato l’atto di impugnazione, l’appellante deve costituirsi, iscrivendo il gravame al ruolo generale civile, entro il termine di dieci giorni, ma ai fini della verifica dell’adempimento occorre avere riguardo alla data di presentazione della nota di iscrizione a ruolo e non a quella di perfezionamento di quest’ultima, non potendo imputarsi alla parte adempiente il ritardo nell’espletamento di un’attività di registrazione degli atti da parte dell’ufficio di cancelleria (Sez. 6-3, n. 01109/2022, Fiecconi, Rv. 663522-01); qualora ciò avvenga mediante deposito di copia cartacea dell’atto di appello notificato via p.e.c., anziché mediante deposito telematico dell’originale, non si verte in ipotesi di improcedibilità dell’impugnazione ex art. 348 c.p.c., bensì di nullità (per vizio di forma) suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo nel caso in cui l’appellato, ritualmente costituito, nulla abbia eccepito in ordine alla costituzione della controparte (Sez. 6-1, n. 33601/2022, Marulli, Rv. 666157-01).

4. L’oggetto dell’impugnazione.

Oltre alle questioni di merito, possono formare oggetto dell’impugnazione anche questioni di rito, ma il riscontro del vizio comporta la rimessione al primo giudice soltanto nei limitati casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., che, secondo consolidata giurisprudenza, sono tassativi (Sez. 1, n. 07734/2022, Parise, Rv. 664526-02; Sez. 2, n. 20834/2022, Varrone, Rv. 665171-01); altrimenti, il giudice d’appello è tenuto a decidere nel merito la controversia (tra le altre, Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-01).

Neanche la nullità della sentenza pronunciata nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo costituito dalla morte del difensore di una delle parti costituite permette, in sede di gravame, di rimettere la causa innanzi al giudice di prime cure ed impone, al contrario, la declaratoria di nullità della decisione impugnata e di procedere ad un nuovo esame del merito, fornendo una motivazione del tutto autonoma, priva di qualsivoglia riferimento alla sentenza impugnata dichiarata nulla (Sez. 3, n. 27643/2022, Gorgoni, Rv. 665939-01).

In caso di declaratoria di inammissibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice d’appello che reputi erronea tale pronuncia non può disporre la rimessione della lite in primo grado, ma è tenuto, invece, a decidere nel merito delle questioni dedotte innanzi al giudice di prime cure (Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-01).

Non ricorre alcuna delle ipotesi previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c. nemmeno in caso di nullità della citazione di primo grado per vizi inerenti alla vocatio in ius, non rilevati dal giudice ex art. 164 c.p.c.; la deduzione della nullità come motivo di gravame del convenuto rimasto contumace in primo grado impone al giudice d’appello di ordinare, in quanto possibile, la rinnovazione degli atti compiuti nel grado precedente e la rimessione in termini dell’appellante per il compimento delle attività precluse, se dimostra che la nullità della citazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo (Sez. U, n. 02258/2022, Scarpa, Rv. 663727-01).

Al contrario, la lesione del contraddittorio rientra nelle ipotesi dell’art. 354 c.p.c. e, se rilevata nel grado di legittimità, impone la rimessione delle parti davanti al primo giudice (Sez. 2, n. 01441/2022, Bertuzzi, Rv. 663627-01, in un’opposizione di terzo avverso una sentenza di appello da parte dei litisconsorti necessari pretermessi fin dal primo grado; Sez. 3, n. 32445/2022, Fanticini, Rv. 666112-01, in un giudizio di reclamo avverso l’estinzione del processo di espropriazione presso terzi, dove si configura sempre il litisconsorzio necessario tra il creditore, il debitore e il terzo pignorato).

Le regole sul litisconsorzio necessario hanno natura processuale e sono di applicazione necessaria nei processi che si svolgono innanzi al giudice italiano, sicché – una volta rilevata la non integrità del contraddittorio in base alla disposizione nazionale – la relativa statuizione ha carattere di pregiudizialità assoluta e impone al giudice d’appello di rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c. (Sez. 3, n. 34897/2022, Rossetti, Rv. 666276-01, ha altresì statuito che resta preclusa qualsiasi altra decisione sul merito e anche sulla questione riguardante l’individuazione della legge sostanziale applicabile).

L’eventuale errore in ordine alla composizione collegiale o monocratica del tribunale non dà luogo a rimessione della causa al primo giudice (Sez. 6-2, n. 22235/2022, Fortunato, Rv. 665259-01).

5. L’effetto devolutivo e l’onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c.

Le parti del processo di impugnazione – che costituisce pur sempre una revisio prioris istantiae – sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia, a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, sempreché si tratti di questioni rilevabili ad istanza di parte, perché – per quelle rilevabili d’ufficio, quand’anche non espressamente riproposte, e non (esplicitamente o implicitamente) rigettate – spetta al giudice del gravame il rilievo officioso ai sensi dell’art. 345, comma 2, c.p.c., (Sez. 2, n. 09844/2022, Dongiacomo, Rv. 664325-01, nel solco di Sez. U, n. 07700/2016, Frasca, Rv. 639281-01, e di Sez. U, n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01); difatti, se un’eccezione di merito è stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocabilmente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione esige la proposizione dell’impugnazione incidentale da parte del convenuto rimasto vittorioso (oltre alla pronuncia sopra menzionata, Sez. 6-L, n. 14899/2022, Piccone, Rv. 664674-02).

Non richiede una espressa riproposizione da parte dell’appellato la domanda di accertamento dell’esistenza di una servitù prediale che l’attore aveva in primo grado fondato sull’usucapione (questione rimasta assorbita dal riconoscimento del diritto reale in virtù di contratto), poiché si tratta di un diritto autodeterminato, che si identifica con il suo contenuto e non con il titolo con cui viene fatto valere (Sez. 2, n. 32858/2022, Tedesco, Rv. 666417-02).

La mera riproposizione in appello non è sufficiente nel caso il giudice non si sia pronunciato sull’eccezione, formulata in primo grado, di tardività della domanda riconvenzionale, per essere stata quest’ultima rigettata nel merito; la dedotta inammissibilità può essere devoluta alla cognizione del giudice di secondo grado solo con le forme e i modi dell’appello incidentale (Sez. 2, n. 26850/2022, Falaschi, Rv. 665886-01, difforme da Sez. 2, n. 07941/2020, Cosentino, Rv. 657592-02).

Al contrario, se il giudice di primo grado ha dichiarato inammissibile per tardività l’opposizione a decreto ingiuntivo, l’impugnazione della statuizione sulla questione pregiudiziale costituisce un’implicita riproposizione della domanda principale e, cioè, dell’originaria opposizione, sul cui merito il giudice d’appello è tenuto a pronunciarsi (Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-01), anche esaminando le richieste istruttorie delle parti non valutate dal giudice di primo grado e riproposte con l’atto di appello (Sez. 6-3, n. 05767/2022, F.M. Cirillo, Rv. 664076-01).

Sez. 1, n. 15255/2022, Reggiani, Rv. 664870-01, pretende uno specifico appello incidentale per contrastare la statuizione del giudice di prime cure sulla liquidazione del danno da lucro cessante, statuizione di per sé non intaccata dall’impugnazione relativa ad alcune voci del danno emergente.

L’esigenza di un vero e proprio appello incidentale sull’eccezione formulata dalla parte vittoriosa e rigettata è affievolita nel processo tributario d’appello, perché la mera riproposizione dell’eccezione unita alla contestazione della statuizione sul punto permette al giudice del gravame di procedere alla sua riqualificazione, tenuto anche conto che, nel contenzioso tributario, l’appello incidentale non deve essere notificato, ma è contenuto nelle controdeduzioni depositate nel termine di costituzione dell’appellato (Sez. 6-5, n. 02805/2022, Cataldi, Rv. 663675-02).

Nel procedimento di rinvio davanti al giudice di secondo grado le parti mantengono le stesse posizioni che avevano precedentemente assunto: perciò, non vi è onere di riproporre le impugnazioni principali o incidentali già avanzate e il giudice è comunque tenuto a riesaminarle tutte, persino in caso di contumacia dell’originario appellante nel giudizio di rinvio (Sez. 6-3, n. 08773/2022, Rossetti, Rv. 664448-01).

Vanno invece riproposte – con la precisazione delle conclusioni – le istanze istruttorie rigettate e, per evitare che esse possano presumersi abbandonate (e, dunque, non riproponibili con l’impugnazione), la parte interessata è tenuta a una riproposizione specifica, che non si limiti soltanto al generico richiamo agli atti difensivi precedenti; tuttavia, qualora emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo, la presunzione di rinuncia può ritenersi superata, ma il giudice deve dare conto di tale valutazione nella motivazione (Sez. 6-3, n. 10767/2022, Dell’Utri, Rv. 664646-01).

Se il giudice omette di pronunciarsi su una domanda (e non sia configurabile un suo assorbimento ovvero un suo implicito rigetto), la parte ha la facoltà alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in un separato giudizio, poiché la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. ha valore meramente processuale e non anche sostanziale (Sez. 6-1, n. 35382/2022, Vella, Rv. 666704-01, ha escluso formazione del giudicato esterno sulla domanda riproposta in un diverso giudizio).

6. I nova in appello.

Ai sensi dell’art. 345, comma 1, c.p.c., “nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio”.

Il secondo comma della citata norma stabilisce, poi, che “non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio”: alla vigente disposizione il legislatore è addivenuto modificando il testo normativo risultante dall’art. 36 della legge n. 581 del 1950 (“Le parti possono proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma se la deduzione poteva essere fatta in primo grado si applicano per le spese del giudizio d’appello le disposizioni dell’articolo 92, salvo che si tratti del deferimento del giuramento decisorio”) con la legge n. 353 del 1990 (in vigore dal 30 aprile 1995), che ha introdotto il regime delle preclusioni rimasto immutato anche a seguito delle successive novelle legislative recanti diverse disposizioni transitorie.

Nel giudizio tributario, sulla portata del divieto di nuove eccezioni in appello previsto all’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. 5, n. 30227/2022, D’Angiolella, Rv. 666084-01, ha statuito che lo stesso concerne le eccezioni sostanziali in senso stretto – quelle per cui la legge riserva espressamente alla parte il potere di rilevazione o in cui si fa valere un fatto modificativo, estintivo o impeditivo della pretesa fiscale – e non le eccezioni in senso lato o improprio, come quella di intempestività del ricorso del contribuente, peraltro volta a sollecitare il rilievo officioso dell’inammissibilità.

Rientra tra le cc.dd. eccezioni in senso lato il rilievo (che può essere proposto per la prima volta in appello) dell’impresa assicuratrice sul limite del massimale di polizza, in quanto essa delimita il diritto contrattuale fatto valere dall’assicurato e il corrispondente obbligo dell’assicuratore (Sez. 2, n. 01475/2022, Scarpa, Rv. 663631-01).

In base a Sez. 2, n. 14971/2022, Tedesco, Rv. 664795-01, costituisce un’eccezione in senso lato anche quella di nullità del contratto di mediazione per mancanza di iscrizione del mediatore nel ruolo previsto dalla legge n. 39 del 1989, poiché la questione, in quanto rilevabile anche d’ufficio dal giudice, si sottrae al divieto dello ius novorum in appello sancito dall’art. 345 c.p.c.

Sul rilievo di nullità del negozio – anche quando si tratta di “nullità di protezione”, da configurarsi come species del più ampio genus delle nullità negoziali – si è pronunciata Sez. 1, n. 20170/2022, Amatore, Rv. 665222-01, affermando che la tutela di interessi e valori fondamentali che trascendono quelli del singolo contraente costituisce il fondamento della rilevabilità ex officio.

Analogamente, Sez. 1, n. 28377/2022, Vannucci, Rv. 665753-01, ha statuito che – pur essendo inammissibile ex art. 345, comma 1, c.p.c., la domanda (nuova, in quanto proposta dal cliente per la prima volta in appello) di accertamento della nullità di un contratto relativo alla prestazione di servizi di investimento in valori mobiliari per inosservanza della forma scritta – la stessa deve essere comunque esaminata dal giudice di secondo grado come eccezione di nullità rilevabile d’ufficio, previa instaurazione del contraddittorio tra le parti ex art. 101, comma 2 c.p.c.

Una domanda è nuova – e, come tale, inammissibile in appello, quando concerne e un diritto cd. eterodeterminato (o non autoindividuante) e i fatti storici allegati in primo grado a sostegno dell’azione vengono sostituiti o integrati da fatti nuovi e diversi, dedotti con i motivi di gravame; è altresì inammissibile – perché comporta novità della domanda – la modificazione della causa petendi quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, è impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado e comporta il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato oppure, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa da avanzata in primo grado.

Si è così statuito che la domanda risarcitoria fondata in primo grado sulla responsabilità del convenuto ai sensi dell’art. 2043 c.c. non può essere trasformata in appello in una richiesta – nuova – di condanna ex artt. 2050 o 2051 c.c., a meno che l’attore non abbia enunciato in modo sufficientemente chiaro, sin dall’atto introduttivo, situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, perché compiutamente precisate, ad integrare le fattispecie contemplate da detti articoli (Sez. 2, n. 14732/2022, Abete, Rv. 664792-01).

Nello stesso senso Sez. 2, n. 28912/2022, Besso Marcheis, Rv. 665962-01, ha statuito che la facoltà (ex art. 1453, comma 2, c.c.) di mutare nel corso del giudizio di primo grado, in appello e persino in sede di rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione, in deroga al divieto di mutatio libelli, postula che si resti nell’ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema di indagine.

In base al medesimo principio sopra richiamato, Sez. 1, n. 26133/2022, Amatore, Rv. 665688-01, ha statuito che non integra un’inammissibile domanda nuova la richiesta (in appello) di riconoscimento della qualità di socio accomandante occulto rispetto a quella di riconoscimento della qualità di socio di fatto (avanzata originariamente), poiché la causa petendi è costituita in entrambi i casi dall’accertamento del rapporto sociale, indipendentemente dalla sua esteriorizzazione nei confronti dei terzi.

Diverso è, invece, il caso in cui nel primo grado sia stata proposta una domanda di accertamento della proprietà sulla base di un contratto di vendita e, poi, in appello si avanzi una domanda diretta a conseguire il trasferimento della proprietà ex art. 2932 c.c., posto che i petita immediati sono evidentemente diversi (Sez. 2, n. 06729/2022, Besso Marcheis, Rv. 664175-01).

Rispetto all’azione contrattuale, la domanda di ingiustificato arricchimento presenta diversità di causa petendi (posto che si basa sull’assenza di un vincolo negoziale) e di petitum (essendo volta alla corresponsione di un indennizzo e non del corrispettivo pattuito) e, perciò, non può essere proposta per la prima volta in appello (Sez. 1, n. 18145/2022, Marulli, Rv. 664950-01).

Il divieto di nova sancito dall’art. 345 c.p.c. si applica anche nel giudizio di rinvio al giudice di secondo grado e riguarda anche le allegazioni in punto di fatto non esplicate in primo grado, non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto (Sez. 3, n. 09211/2022, Porreca, Rv. 664556-02).

6.1. (Segue) Nuovi mezzi di prova in appello.

Con riguardo ai mezzi istruttori, l’art. 345, comma 3, c.p.c., nella sua attuale formulazione, stabilisce che in appello “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

Tale formulazione, introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, sostituisce il previgente terzo comma, nel quale era comunque prevista l’eccezionale ammissibilità in appello di documenti ritenuti “indispensabili ai fini della decisione della causa”.

Il divieto di nuove prove in appello non riguarda la produzione della consulenza di parte che, quale semplice allegazione difensiva priva di autonomo valore probatorio, non soggiace al divieto di cui all’art. 345 c.p.c. e deve ritenersi consentita anche in appello (Sez. 2, n. 01614/2022, Orilia, Rv. 663635-01; analogamente, Sez. 3, n. 25823/2022, Cricenti, Rv. 665615-01); del resto, anche le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio costituiscono argomentazioni difensive che possono essere formulate per la prima volta anche in appello, purché non introducano nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove ma si riferiscano all’attendibilità e alla valutazione delle risultanze della c.t.u. e siano volte a sollecitare il potere valutativo del giudice in relazione a tale mezzo istruttorio (Sez. U, n. 05624/2022, Scrima, Rv. 664033-01).

L’art. 345, comma 3, c.p.c. non riguarda i documenti contenuti nel fascicolo di parte di primo grado ed è, anzi, onere dell’appellante produrre o ripristinare in appello i documenti sui quali si basa il gravame o comunque attivarsi perché tali documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello (Sez. 6-3, n. 40606/2021, Scrima, Rv. 663229-01); altrimenti, è escluso che quest’ultimo possa tenere conto dei documenti del fascicolo della parte, ancorché sia stato trasmesso dal cancelliere del giudice di primo grado con il fascicolo di ufficio (Sez. 1, n. 02129/2022, L. Tricomi, Rv. 663947-01).

In proposito, Sez. 3, n. 16235/2022, Fanticini, Rv. 664905-01, ha statuito che il giudice d’appello può rilevare ex officio – in ossequio alla regola, di ordine pubblico processuale, stabilita dall’art. 345, comma 3, c.p.c. – l’inutilizzabilità di quei documenti, asseritamente già prodotti nel primo grado, la cui coincidenza con quelli già presentati al primo giudice non sia stata dimostrata dalla parte depositante (in osservanza degli adempimenti prescritti dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.).

Quanto al fascicolo d’ufficio di primo grado, Sez. 6-3, n. 10164/2022, Guizzi, Rv. 664467-01, ha affermato che la sua mancata acquisizione (ai sensi dell’art. 347 c.p.c.) non determina di per sé un vizio del procedimento o la nullità della sentenza di secondo grado, potendo, al più, integrare il vizio di difetto di motivazione per omessa consultazione di un documento che in tale fascicolo era presente e sempre che il giudice d’appello non abbia tratto aliunde la conoscenza del contenuto di tale documento.

Si è altresì ritenuto che costituisca nuovo documento l’originale, prodotto in appello, del documento depositato in copia nel giudizio di primo grado, in quanto la novità ex art. 345 c.p.c. attiene al documento nella sua consistenza rappresentativa (Sez. 3, n. 34025/2022, Rossello, Rv. 666152-01, in riferimento alla copia di una scrittura disconosciuta nella sua corrispondenza all’originale e sulla quale, nel corso del giudizio di primo grado, era stata espletata una c.t.u. grafologica).

L’inammissibilità di nuovi mezzi di prova in grado d’appello non riguarda i documenti probatori che si siano formati dopo lo spirare del termine assegnato dal giudice di primo grado per la deduzione dei mezzi istruttori, ancorché anteriormente al passaggio della causa in decisione (Sez. 2, n. 07977/2022, Criscuolo, Rv. 664235-01).

L’art. 345 c.p.c. non si riferisce alla rinnovazione dell’esame dei testimoni, che il giudice d’appello può disporre anche senza necessità d’istanza di parte, poiché afferente al potere del giudicante di riesaminare le risultanze processuali nei limiti del devolutum e dell’appellatum (Sez. 6-3, n. 27286/2022, F.M. Cirillo, Rv. 665723-01).

7. La decisione e trattazione dell’appello.

L’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., non può essere pronunciata in caso di proposizione della querela di falso, perché in tale causa è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero (Sez. L, n. 12453/2022, Cavallaro, Rv. 664601-01, la quale precisa, che ciò vale anche nelle ipotesi in cui il giudice dichiari la querela inammissibile, ritenendo integrata un’ipotesi di riempimento del foglio non absque pactis, ma contra pacta, mentre l’esclusione non opera se la querela è dichiarata nulla per mancata indicazione degli elementi e delle prove della falsità del documento, non sussistendo in tal caso l’obbligo di intervento del P.M.).

L’ordinanza di inammissibilità dell’appello, ai sensi degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. può essere pronunciata soltanto nell’ipotesi in cui il motivo di gravame non abbia ragionevole probabilità di essere accolto; con tale provvedimento non è invece consentito al giudice di secondo grado di rimediare all’omessa pronuncia del giudice del primo grado, con sostanziale riconoscimento della fondatezza del motivo d’impugnazione, dovendosi provvedere sull’appello nelle forme ordinarie (Sez. L, n. 04784/2022, Spena, Rv. 663878-01).

Il giudice d’appello può ordinare la discussione orale della causa anche nella medesima udienza ai sensi degli artt. 352 e 281 sexies c.p.c., a meno che il difensore non ne chieda rinvio; l’invito alla immediata discussione, che implica il rigetto dell’istanza di rinvio, è invalido, ma la sua nullità è sanata ex art. 157, comma 2, c.p.c. se la parte non solleva la relativa eccezione (Sez. 3, n. 26106/2022, Dell’Utri, Rv. 665648-01).

La decisione di appello deve tener conto del giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di secondo grado, mentre quello successivo alla scadenza del termine ultimo per ogni allegazione difensiva in grado di appello (nel rito ordinario, il termine di scadenza delle memorie di replica; nel processo tributario, l’udienza di discussione in cui la decisione viene deliberata) è deducibile in sede di legittimità (Sez. 5, n. 25863/2022, Angarano, Rv. 665870-01).

Se il giudice d’appello omette di considerare il giudicato esterno, il mezzo d’impugnazione va individuato nel ricorso per cassazione qualora la parte abbia formulato sul punto una specifica, mentre, in mancanza di tale eccezione, l’unico rimedio esperibile è la revocazione ex art. 395, n. 5), c.p.c. (Sez. 5, n. 28733/2022, Salemme, Rv. 666091-01).

La decisione del collegio d’appello dev’essere conforme a quanto statuito nella camera di consiglio e al dispositivo sottoscritto dal presidente ex art. 276, ultimo comma, c.p.c.; tuttavia, quest’ultimo documento non ha rilevanza giuridica esterna, ma ha un valore solo interno, dato che l’esistenza della sentenza civile è determinata dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata (Sez. 3, n. 04430/2022, Rossetti, Rv. 663925-01, ha ritenuto valida la sentenza anche se agli atti non risultava la presenza del dispositivo sottoscritto dal presidente).

In ordine alla determinazione del valore della lite per la liquidazione delle spese a carico della parte soccombente, il giudice d’appello deve ricorrere al criterio del disputatum e, cioè, fare riferimento alla sola somma che ha formato oggetto di impugnazione se l’appello è rigettato o, in caso di accoglimento del gravame, alla maggiore somma accordata dal giudice rispetto a quella ottenuta in primo grado dall’appellante (Sez. 6-3, n. 35195/2022, Rossetti, Rv. 666350-01).

  • procedura civile
  • procedura speciale

CAPITOLO XIII

IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

(di Paolo Fraulini )

Sommario

1 La notificazione del ricorso (o del controricorso) e il successivo deposito. - 2 L’onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2 c.p.c. - 3 L’interesse ad impugnare. - 4 La legittimazione attiva e passiva. - 5 I requisiti di forma e contenuto del ricorso e del controricorso. - 6 La procura speciale. - 7 I vizi denunciabili. - 8 Il giudizio di rinvio.

1. La notificazione del ricorso (o del controricorso) e il successivo deposito.

In tema di individuazione del destinatario della notificazione, Sez. 6-1, n. 02234/2022, Caradonna, Rv. 663755-01, ha affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 1, c.p.c., quando manchi un’espressa indicazione della parte contro la quale è proposto e vi siano due notificazioni dirette a soggetti diversi, sicché non è possibile al lettore individuare il destinatario del ricorso, neppure nel soggetto cui l’atto sia stato notificato.

Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 11003/2022, Frasca, Rv. 664520-01, ritiene che ai fini della notificazione del ricorso per cassazione a una società straniera, cancellata e non ricostituita, non può procedersi alla nomina, ai sensi dell’art. 78 c.p.c., di un curatore speciale per ricevere l’atto, in quanto la predetta curatela presuppone l’esistenza del soggetto rappresentato; è invece necessario individuare i successori della società estinta, nei cui confronti il processo deve proseguire, secondo la legge processuale italiana, applicabile ai sensi dell’art. 12 della l. n. 218 del 1995.

Secondo Sez. 2, n. 01515/2022, Carrato, Rv. 663632-01, la notificazione di un ricorso per cassazione avverso un provvedimento diverso da quello che si intendeva impugnare, seguita dal tempestivo deposito del ricorso avverso il provvedimento che si intendeva impugnare e dalla sua tardiva notificazione, integra un’ipotesi di inesistenza della notificazione riconducibile a quella di totale mancanza materiale dell’atto, non suscettibile, in caso di mancata costituzione della controparte, di sanatoria “ex tunc” ai sensi dell’art. 291 c.p.c. mediante nuova notifica del ricorso, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione.

Secondo Sez. L, n. 02537/2022, A. P. Patti, Rv. 663672-01, la mancanza nella copia notificata del ricorso per cassazione, il cui originale risulti tempestivamente depositato, di una o più pagine non comporta l’inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica sanabile, con efficacia “ex tunc”, mediante nuova notifica di una copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell’intimato, salva la possibile concessione a quest’ultimo di un termine per integrare le sue difese.

Sulla notificazione del controricorso, Sez. 6-3, n. 08674/2022, Rossetti, Rv. 664447-01, ritiene che ove il ricorso per cassazione sia stato notificato due volte alla stessa parte, per essere poi tempestivamente depositato solo dopo la seconda notificazione, è con riferimento a quest’ultima che decorre il termine per la notificazione del controricorso, dal momento che solo in tale momento può dirsi sorto l’interesse a contraddire, anche al solo fine di eccepire un motivo di improcedibilità, potendosi prima fare affidamento sul fatto che, in mancanza di tempestivo deposito dopo la prima notificazione, la causa non sarebbe stata coltivata.

Sul medesimo tema, Sez. 3, n. 01784/2022, Graziosi, Rv. 663708-01, rileva che nell’ipotesi in cui la notifica del controricorso per cassazione, effettuata nel termine ex art. 370 c.p.c., non sia andata a buon fine a causa dell’erronea indicazione (meramente colposa ovvero consapevolmente ingannevole) del proprio domicilio da parte del ricorrente, il successivo perfezionamento della stessa oltre il suddetto termine, a seguito di immediata rinnovazione, non determina l’inammissibilità del controricorso medesimo, vertendosi in una fattispecie assimilabile a un’oggettiva e automatica rimessione in termini, in forza della regola espressa dall’art. 153 c.p.c. e altresì evincibile dal principio costituzionale del diritto di difesa e da quello sovranazionale di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 19 TUE, 263 TFUE e 6 CEDU), oltre che dell’obbligo delle parti di conformare la loro condotta al principio della leale collaborazione processuale (art. 88 c.p.c.).

In tema di individuazione del destinatario della notificazione in ipotesi di società estinta, Sez. 1, n. 00190/2022, Falabella, Rv. 663552-01, afferma che il principio di ultrattività del mandato alla lite, in forza del quale il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento estintivo non si fosse verificato, si applica anche quando, avvenuta la cancellazione della società dal registro delle imprese in data successiva alla pubblicazione della sentenza di appello ed in pendenza del termine per proporre ricorso per cassazione, non ne sia possibile, per tale ragione, la declaratoria, ed il procuratore della società estinta non abbia inteso notificare l’evento stesso alla controparte, sicché quest’ultima, legittimamente, può notificare alla società, pur cancellata ed estinta, il ricorso per cassazione presso il domicilio del suddetto difensore.

Secondo Sez. 3, n. 33443/2022, Guizzi, Rv. 666143-01, nel giudizio di cassazione, il deposito in cancelleria di copia analogica del ricorso redatto e notificato in modalità telematica, con attestazione di conformità all’originale digitale priva di sottoscrizione autografa, ma anch’essa firmata digitalmente dal difensore, non ne comporta l’improcedibilità ove sia stata depositata una successiva attestazione, recante firma autografa, della conformità, agli originali digitali, della relata di notificazione e delle ricevute di accettazione e consegna dei messaggi pec, emergendo in maniera inequivoca, dalla valutazione complessiva degli atti depositati, la volontà asseverativa del difensore.

A giudizio di Sez. 6-3, n. 27943/2022, E. Iannello, Rv. 665976-01, nel caso in cui il ricorso per cassazione, notificato a mezzo p.e.c., venga depositato telematicamente, ai sensi dell’art. 221, comma 5, del d.l. n. 34 del 2020, conv. dalla l. n. 77 del 2020, non è necessario il deposito di copia analogica dello stesso e della relata di notifica telematica, munita dell’attestazione di conformità di cui all’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della l. n. 53 del 1994, trattandosi di adempimenti necessari per il solo caso in cui il difensore non si avvalga della facoltà di deposito telematico degli atti.

2. L’onere di deposito della copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2 c.p.c.

Secondo Sez. 5, n. 01949/2022, Antezza, Rv. 663678-01, il ricorso per cassazione è improcedibile, ai sensi dell’art. 369, comma 2, c.p.c., qualora, in luogo della copia autentica, sia depositata una copia della sentenza impugnata “uso studio”, priva del visto di conformità.

Insegnano Sez. U, n. 21349/2022, Lamorgese, Rv. 665188-01, che la dichiarazione contenuta nel ricorso per cassazione di avvenuta notificazione della sentenza impugnata, attesta un “fatto processuale” - la notificazione della sentenza - idoneo a far decorrere il termine “breve” di impugnazione e, quale manifestazione di “autoresponsabilità” della parte, impegna quest’ultima a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere in capo ad essa l’onere di depositare, nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., copia della sentenza munita della relata di notifica (ovvero delle copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notificazione a mezzo PEC), senza che sia possibile recuperare alla relativa omissione mediante la successiva, e ormai tardiva, produzione ai sensi dell’art. 372 c.c. Secondo la medesima decisione, Rv. 665188-02, nel giudizio di cassazione, è esclusa la dichiarazione di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., quando l’impugnazione sia proposta contro una sentenza notificata, di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica (o le copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notifica a mezzo PEC), ove tale documentazione risulti comunque nella disponibilità del giudice, per essere stata prodotta dal controricorrente nel termine di cui all’art. 370, comma 3, c.p.c., ovvero acquisita - nei casi in cui la legge dispone che la cancelleria provveda alla comunicazione o alla notificazione del provvedimento impugnato (da cui decorre il termine breve per impugnare ex art. 325 c.p.c.) - mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.

Secondo Sez. 1, n. 05964/2022, Scalia, Rv. 664041-01, non è configurabile la improcedibilità solo parziale del ricorso per cassazione in quanto, trattandosi di una conseguenza di natura sanzionatoria, derivante dal mancato compimento di un atto necessario della sequenza di avvio del processo, anche impugnatorio, non può che riguardare l’atto introduttivo del giudizio nel suo complesso, anche se la causa di improcedibilità (nella specie, il mancato deposito di atti e documenti normativamente indicati) afferisca solo a taluno dei motivi di impugnazione.

Per Sez. 3, n. 01175/2022, Graziosi, Rv. 663702-01, il ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza non definitiva, unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, è ammissibile anche quando sia stato precedentemente dichiarato inammissibile o improcedibile il ricorso avverso la sola sentenza non definitiva, non vertendosi in un’ipotesi di riproposizione del ricorso originario e non essendo, pertanto, applicabile l’art. 387 c.p.c.

3. L’interesse ad impugnare.

Secondo Sez. 2, n. 20834/2022, L. Varrone, Rv. 665171-01, in tema di ricorso per cassazione è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo con cui si censuri una violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d’appello, allorché essa non rientri tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice e non si sia tradotta in un effettivo pregiudizio per il diritto di difesa. In tal caso, infatti, convertendosi l’eventuale nullità della sentenza in motivi di impugnazione, l’impugnante deve, a pena d’inammissibilità, indicare specificamente quale sia stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive dall’invocato vizio processuale.

Afferma invece Sez. 1, n. 18429/2022, Nazzicone, Rv. 665300-02, che è inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, in quanto la stessa, non costituendo una “ratio decidendi” della decisione, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della stessa e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse.

Secondo Sez. 3, n. 130734/2022, Dell’Utri, Rv. 666052-01, nel giudizio di legittimità introdotto da più soggetti distinti, il motivo di ricorso afferente alla posizione di alcuni soltanto di essi è ammissibile solo ove corredato della specifica identificazione soggettiva degli stessi (in relazione alla cui posizione l’eventuale cassazione della sentenza impugnata è destinata a spiegare effetto), non essendo sufficiente, a tal fine, un generico rinvio alle risultanze degli atti del giudizio di merito, né essendo possibile gravare il giudice di legittimità dell’onere di ricercare egli stesso, in tali atti, il nominativo dei ricorrenti interessati al motivo.

4. La legittimazione attiva e passiva.

Sez. U, n. 07514/2022, L. Esposito, Rv. 664407-02, affermano che l’accertamento del difetto di “legitimatio ad causam”, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità, eliminando in radice ogni possibilità di prosecuzione dell’azione, comporta, a norma dell’art. 382, ultimo comma, c.p.c., l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per cassazione.

5. I requisiti di forma e contenuto del ricorso e del controricorso.

Afferma Sez. 1, n. 06769/2022, Di Marzio, Rv. 664103-01, che in tema di ricorso per cassazione, il principio di autosufficienza, riferito alla specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda ai sensi dell’articolo 366, n. 6, c.p.c., anche interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, Sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso faccia rinvio agli atti allegati e contenuti nel fascicolo di parte senza riassumerne il contenuto al fine di soddisfare il requisito ineludibile dell’autonomia del ricorso per cassazione, fondato sulla idoneità del contenuto delle censure a consentire la decisione.

Sul tema dell’interpretazione del contenuto del ricorso, Sez. 3, n. 07186/2022, Fiecconi, Rv. 664245-01, afferma che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, secondo cui il giudice di legittimità deve essere messo nelle condizioni di comprendere l’oggetto della controversia ed il contenuto delle censure senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa, va interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021, risultando compatibile con il diritto fondamentale di accedere al giudice di legittimità e con il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, purché i filtri di ammissibilità ex art. 366, comma 1, nn. 3 e 6, c.p.c., collegati alla tecnica di redazione del ricorso, non vengano letti in maniera eccessivamente formale, al solo scopo di fronteggiare il forte afflusso di procedimenti.

Ancora, secondo Sez. 3, n. 08117/2022, Porreca, Rv. 664252-01, il principio di specificità del ricorso per cassazione, secondo cui il giudice di legittimità deve essere messo nelle condizioni di comprendere l’oggetto della controversia ed il contenuto delle censure senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa, deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza.

Insegnano sul punto Sez. U, n. 08950/2022, Conti, Rv. 664409-01, che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – quale corollario del requisito di specificità dei motivi - anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 - non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito.

Per Sez. 1, n. 12481/2022, Vella, Rv. 664738-01, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati.

Sotto diverso profilo, Sez. 6-3, n. 10761/2022, Pellecchia, Rv. 664645-01, afferma che ove con il ricorso per cassazione si ascriva al giudice di merito di non avere tenuto conto di una circostanza di fatto che si assume essere stata “pacifica” tra le parti, il principio di autosufficienza del ricorso impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza, ed in quale sede e modo essa sia stata provata o ritenuta pacifica.

Secondo Sez. 1, n. o7068/2022, Solaini, Rv. 664113-01, l’onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali - nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli - anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio e, nell’elenco degli atti depositati, posto in calce al ricorso, vi sia la richiesta, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, di trasmissione del fascicolo d’ufficio che lo contiene, risultando forniti in tal modo alla S.C. tutti gli elementi per verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito.

6. La procura speciale.

A parere di Sez. 3, n. 01165/2022, Iannello, Rv. 663699-01, soddisfa il requisito della specialità di cui all’art. 365 c.p.c. la procura rilasciata su foglio separato, ma materialmente congiunto al ricorso, che, sebbene mancante della data e degli estremi della sentenza impugnata, risulti tuttavia idonea a fornire certezza della provenienza dalla parte del potere di rappresentanza e della sua riferibilità al giudizio cui l’atto accede, nonché del suo rilascio in un momento successivo alla sentenza impugnata e anteriore rispetto alla notifica del ricorso.

Secondo Sez. L, n. 09935/2022, Di Paola, Rv. 664232-01, la procura al difensore apposta a margine o in calce al ricorso per cassazione o anche su un foglio separato ma congiunto materialmente al ricorso, è, per sua natura, speciale e non richiede alcuno specifico riferimento al processo in corso, sicché è irrilevante la mancanza di un espresso richiamo al giudizio di legittimità ovvero che la formula adottata faccia cenno a poteri e facoltà solitamente rapportabili al procedimento di merito.

Avverte però Sez. 6-L, n. 24671/2022, Leo, Rv. 665684-01, che in tema di procura alle liti nel giudizio di legittimità, ove tale procura sia apposta a margine del ricorso, essa è per sua natura speciale, senza che occorra alcuno specifico riferimento al giudizio in corso, essendo la specialità deducibile dal fatto che la medesima forma materialmente corpo con l’atto al quale accede; ciò non accade qualora detta procura sia apposta su foglio separato e congiunto al ricorso, dovendo pertanto escludersi la validità della stessa in presenza di espressioni incompatibili con la specialità richiesta, che rechino riferimenti ad attività proprie di altri giudizi o fasi processuali, o comunque non consentano di evincere in modo univoco la volontà della parte di proporre impugnazione per cassazione.

Secondo Sez. 3, n. 11240/2022, Fanticini, Rv. 664508-01, la procura conferita in data anteriore alla redazione del ricorso per cassazione e in un luogo diverso da quello indicato nell’atto introduttivo è invalida, perché l’art. 83, comma 3, c.p.c. attribuisce al difensore il potere di certificare l’autografia della sottoscrizione della parte soltanto in relazione alla formazione di uno degli atti in cui si esplica l’attività difensiva, sicché l’autenticazione del procuratore deve essere contestuale all’atto a cui la procura si riferisce.

A parere di Sez. 3, n. 16225/2022, Sestini, Rv. 664903-01, la procura speciale necessaria per la proposizione del ricorso per cassazione è inesistente ove conferita al difensore da una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, in quanto essa presuppone un rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente che non può sussistere in mancanza del mandante, con la conseguenza che l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, del quale è, pertanto, ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio, indipendentemente dalla sua concreta consapevolezza circa la carenza della qualità di legale rappresentante in capo a colui che ebbe a conferirgli la procura.

Secondo Sez. 3, n. 18633/2022, Rossetti, Rv. 665108-01, nella disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 221, comma 5, d.l. n. 34 del 2020 e del d.m. 27 gennaio 2021 (che hanno consentito il deposito telematico degli atti e dei documenti nei procedimenti civili dinanzi alla Corte di cassazione), la procura speciale a ricorrere per cassazione, ove rilasciata in formato analogico (e non su un documento “ab origine” informatico), dev’essere depositata in originale, a pena di improcedibilità del ricorso.

Nel giudizio di cassazione la procura speciale deve essere rilasciata a margine o in calce al ricorso o al controricorso, atteso il tassativo disposto dell’art. 83, comma 3, c.p.c., che implica necessariamente l’inutilizzabilità di atti diversi da quelli suindicati; se la procura non è rilasciata contestualmente a tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal secondo comma del citato art. 83 e, quindi, con atto pubblico o con scrittura privata autenticata contenenti il riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata; ne consegue che, in caso di inosservanza delle forme prescritte, il ricorso deve ritenersi inammissibile. (Sez. 3, n. 23352/2022, Valle, Rv. 665438-01).

Precisa Sez. 3, n. 33518/2022, Valle, Rv. 666147-01, che il principio secondo cui gli effetti degli atti posti in essere da soggetto privo, anche parzialmente, del potere di rappresentanza possono essere ratificati con efficacia retroattiva (salvi i diritti dei terzi) non opera nel campo processuale, ove la procura alle liti costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale e può essere rilasciata con effetti retroattivi solo nei limiti stabiliti dall’art. 125 c.p.c., il quale dispone che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto, purché però anteriormente alla costituzione della parte rappresentata, e sempre che per l’atto di cui trattasi non sia richiesta dalla legge la procura speciale, come nel caso del ricorso per cassazione, restando conseguentemente esclusa, in tale ipotesi, la possibilità di sanatoria e ratifica.

Conclusivamente, secondo l’insegnamento di Sez. U, n. 36057/2022, Cirillo, Rv. 666374-01, in tema di procura alle liti, a seguito della riforma dell’art. 83 c.p.c. disposta dalla l. n. 141 del 1997, il requisito della specialità, richiesto dall’art. 365 c.p.c. come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione (del controricorso e degli atti equiparati), è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica, nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso; tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al giudizio da promuovere, purché da essa non risulti, in modo assolutamente evidente, la non riferibilità al giudizio di cassazione, tenendo presente, in ossequio al principio di conservazione enunciato dall’art. 1367 c.c. e dall’art. 159 c.p.c., che nei casi dubbi la procura va interpretata attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di produrre i suoi effetti.

7. I vizi denunciabili.

In linea generale, sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge, Sez. 1, n. 06774/2022, Vella, Rv. 664106-02, afferma che in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione.

A parere di Sez. 3, n. 12971/2022, Dell’Utri, Rv. 664816-01, può essere dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. qualora il giudice, in contraddizione con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e, cioè, sia quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio, sia quando da una fonte di prova sia stata tratta un’informazione che è impossibile ricondurre a tale mezzo (ipotesi diversa dall’errore nella valutazione dei mezzi di prova - non censurabile in sede di legittimità - che attiene alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto), a condizione che il ricorrente assolva al duplice onere di prospettare l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza.

Per Sez. U, n. 11167/2022, Falabella, Rv. 664412-01, la violazione o falsa applicazione delle norme costituzionali può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. quando tali norme siano di immediata applicazione, non essendovi disposizioni di rango legislativo di cui si possa misurare la conformità ai precetti della Carta fondamentale.

Sul tema della denuncia del vizio motivazionale, Sez. 6-1, n. 02268/2022, Caradonna, Rv. 663758-01, ritiene che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012, prevede l’”omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate.

Sul medesimo tema, Sez. 2, n. 13024/2022, Falaschi, Rv. 664615-01, afferma che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti avente carattere decisivo, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente il contenuto delle tabelle millesimali e i criteri di riparto delle spese condominiali, che non costituiscono “fatto storico”, ma questioni ed argomentazioni difensive.

Aggiunge Sez. 6-1, n. 06758/2022, G. Iofrida, Rv. 664061-01, che ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture.

Ancora, Sez. 2, n. 10525/2022, S. Oliva, Rv. 664330-01, precisa che il motivo di ricorso di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio.

Anche Sez. 1, n. 08584/2022, Scotti, Rv. 664367-01, ritiene che l’art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con mod. dalla l. n. 134 del 2012, consente di censurare l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nozione nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio recepita dal giudice, risolvendosi la critica ad essa nell’esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio.

Sulla sindacabilità della consulenza tecnica di ufficio, Sez. 3, n. 15733/2022, Dell’Utri, Rv. 665015-02, afferma che l’omesso esame, da parte del giudice di merito che recepisca le conclusioni di una consulenza tecnica d’ufficio in materia medico-legale, dei rilievi contenuti in una consulenza tecnica di parte e trascurati dal consulente tecnico d’ufficio, in tanto rileva come vizio di omessa motivazione, denunciabile in cassazione, in quanto la parte ne indichi, con riferimento a serie e documentate argomentazioni medico-legali, la decisività, ossia l’incidenza sulla valutazione della sussistenza o meno di un determinato stato patologico.

Insegnano Sez. U, n. 12446/2022, Cosentino, Rv. 664746-01, che in materia di illecito disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario, la denuncia - con ricorso per cassazione - del vizio di manifesta illogicità della decisione, in cui sarebbe incorsa la sezione disciplinare del CSM, può sollecitare la Suprema Corte esclusivamente a verificare se il giudice di merito abbia esaminato gli elementi e le deduzioni posti a sua disposizione ed abbia fatto corretto uso di regole logiche, massime di esperienza e criteri legali di valutazione, così da offrire razionale spiegazione dell’opzione decisionale fatta rispetto alle diverse tesi difensive, restando, invece, preclusa la possibilità di opporre alla valutazione dei fatti contenuta nella decisione una diversa loro ricostruzione.

Secondo Sez. L, n. 29952/2022, Leone, Rv. 665822- 01, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello - così come l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio - risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, n.3, c.p.c., o del vizio di motivazione ex art. 360, n.5, c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” - ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, n.4, c.p.c. - la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello; pertanto, alla mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro “ex actis” dell’assunta omissione, consegue l’inammissibilità del motivo.

Afferma Sez. L, n. 29954/2022, Leone, Rv. 665823-01, che la decisività del fatto, il cui omesso esame costituisce un vizio della sentenza censurabile per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), deve essere, a pena di inammissibilità del motivo, chiaramente allegata dal ricorrente, che è tenuto a rappresentare non solo quale sia il fatto di cui sia stato omesso l’esame, ma anche il rapporto di derivazione diretta tra l’omesso esame e la decisione, a lui sfavorevole, della controversia.

In tema di ricorso per cassazione, la deduzione della questione dell’inammissibilità dell’appello, a norma dell’art. 342 c.p.c., integrante “error in procedendo”, che legittima l’esercizio, ad opera del giudice di legittimità, del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, presuppone pur sempre l’ammissibilità del motivo di censura, avuto riguardo al principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 e n, 6, c.p.c., che deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza. (Sez. L, n. 03612/2022, Patti, Rv. 663837-01).

A parere di Sez. 3, n. 07187/2022, Saija, Rv. 664394-02, in tema di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito - e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa (o meno) del fatto che si intende provare - non è mai sindacabile nel giudizio di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., per violazione dell’art. 115 del medesimo codice, il quale vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte.

8. Il giudizio di rinvio.

Sulla forma dell’atto di riassunzione, per Sez. 6-L, n. 24372/2022, Bellè, Rv. 665499-01, il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della sentenza di secondo grado può essere introdotto in forma cartacea e non telematica, non avendo il relativo atto natura endoprocessuale, atteso che il giudizio di rinvio per motivi di merito integra una nuova ed autonoma fase, che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria ed è funzionale all’emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad una precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti.

In tema di limiti e contenuto della deducibilità nel giudizio di cassazione delle problematiche connesse alla fase di rinvio, Sez. 6-1, n. 00605/2022, Marulli, Rv. 663539-01, ritiene che la riassunzione del giudizio davanti al giudice del rinvio, con notificazione eseguita presso il domiciliatario o al difensore costituito nelle fasi di merito, anziché alla parte personalmente, è nulla ma non inesistente, stante la possibilità di ricollegare tali soggetti a precedenti designazioni della stessa parte. Pertanto, in applicazione dell’art. 291 c.p.c., il giudice del rinvio non potrà dichiarare, in tale ipotesi, l’estinzione del processo, ma dovrà ordinare la rinnovazione della notificazione, salvo che la parte intimata si sia costituita, così sanando la nullità. Qualora, nonostante l’invalidità, il giudizio sia proseguito, davanti alla Corte di cassazione a cui la relativa questione venga dedotta, dovrà essere dichiarata la nullità e cassata la sentenza impugnata con rinvio, anche se nelle more delle precorse fasi processuali sia decorso il termine perentorio ex art. 393 c.p.c., potendo la nullità essere sanata con effetto retroattivo dalla riassunzione della causa dinanzi al giudice del rinvio, ritualmente eseguita dall’una o dall’altra parte, con le forme prescritte dall’art. 392, comma  2, c.p.c.

Secondo Sez. 6-2, n. 03798/2022, Criscuolo, Rv. 663935-01, il giudice del rinvio è tenuto a rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese del giudizio di appello, anche in caso di cassazione parziale della sentenza, in quanto l’annullamento, seppur limitato ad un solo capo di essa, si estende alla statuizione relativa alle spese processuali. Sicché le sollecitazioni dei ricorrenti principali ad una più favorevole liquidazione delle spese, all’adozione di un diverso parametro tariffario e alla riconsiderazione del valore della controversia non danno vita a domande nuove, costituendo mere indicazioni per orientare il potere officioso del giudice di liquidazione delle spese di lite.

Avverte Sez. 1, n. 07091/2022, Lamorgese, Rv. 664121-01, che in ipotesi di cassazione con rinvio per violazione di norme di diritto, il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, e attenersi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se in ipotesi non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di intangibilità della stessa.

Principio confermato da Sez. 5, n. 28734/2022, Federici, Rv. 666092-01, secondo cui il giudice del rinvio, al quale la Corte di cassazione abbia rimesso la causa a seguito di annullamento della decisione ex art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., incorre nella violazione dell’art. 384 c.p.c. laddove giudichi i rapporti sulla base di un criterio diverso da quello indicato dalla Corte stessa.

Tuttavia, Sez. 3, n. 33735/2022, Dell’Utri, Rv. 666150-01, afferma che qualora la Corte di cassazione, nel cassare con rinvio la sentenza di merito dichiarativa della prescrizione, si limiti a vagliare tale questione, senza esprimere alcuna valutazione circa l’effettiva sussistenza dei presupposti della situazione giuridica dedotta in giudizio dalla parte, l’accertamento di questi ultimi resta pienamente devoluto al giudice del rinvio.

Ribadisce Sez. 6-3, n. 08773/2022, Rossetti, Rv. 664448-01, che nel procedimento di rinvio davanti al giudice di secondo grado le parti mantengono le stesse posizioni che avevano assunto nel giudizio di appello, e pertanto non sono obbligate a riproporre le impugnazioni principali o incidentali già proposte, essendo il giudice del rinvio comunque tenuto a riesaminarle tutte, anche ove l’originario appellante resti contumace nel detto procedimento di rinvio.

Sul tema, Sez. 3, n. 34894/2022, Gorgoni, Rv. 666274-01, segnala che il giudice del rinvio, al quale sia stata demandata una valutazione da compiere sulla base delle risultanze istruttorie acquisite nelle fasi di merito, non può trarre indicazioni dalla stessa sentenza di annullamento, la cui interpretazione incontra i limiti istituzionali propri del sindacato di legittimità.

Secondo Sez. 6-3, n. 27736/2022, A. Scrima, Rv. 665728-01, nel giudizio di rinvio, configurato dall’art. 394 c.p.c. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente “chiusa”, è preclusa l’acquisizione di nuove prove e segnatamente la produzione di nuovi documenti, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore.

Tuttavia, per Sez. 3, n. 25414/2022, Iannello, Rv. 665613-01, in tema di giudizio di rinvio, rientrano nell’ambito dello “ius superveniens”, che travalica il principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, anche i mutamenti normativi prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia UE, che hanno efficacia immediata nell’ordinamento nazionale.

Sul punto, Sez. L, n. 30167/2022, Boghetich, Rv. 665840-01, afferma che l’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla “regula iuris” enunciata dalla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., viene meno quando la norma da applicare in aderenza a tale principio sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente alla pronuncia rescindente, dovendo, in questo caso, farsi applicazione del diritto sopravvenuto (e, cioè, alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità), che travalica il principio di diritto enunciato dalla sentenza di rinvio.

  • adozione di minore
  • ipoteca
  • condominio
  • procedura civile
  • proprietà immobiliare
  • eredità
  • giurisdizione arbitrale
  • diritto di famiglia
  • procedimento giudiziario
  • esecuzione della sentenza
  • fallimento

CAPITOLO XIV

IL RICORSO STRAORDINARIO PER CASSAZIONE E L’ENUNCIAZIONE DEL PRINCIPIO DI DIRITTO NELL’INTERESSE DELLA LEGGE

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Premessa. - 2 La presentazione del ricorso straordinario per cassazione. - 3 Gli atti impugnabili. - 4 Alcuni provvedimenti adottati nel corso del processo di cognizione. - 5 L’accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c. - 6 I provvedimenti in materia di famiglia e minori. - 7 L’adozione internazionale. - 8 Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno. - 9 La nomina dell’amministratore di condominio. - 10 L’accettazione dell’eredità. - 11 Il rifiuto di trascrizione di atti nei registri immobiliari. - 12 Il frazionamento dell’ipoteca. - 13 I provvedimenti in materia di arbitrato. - 14 Il procedimento disciplinare a carico di avvocati. - 15 Gli atti della procedura esecutiva. - 16 I provvedimenti adottati nelle procedure fallimentari e in sede di concordato preventivo. - 17 I procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento. - 18 L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge. - 19 La richiesta del Procuratore Generale. - 20 Il potere ufficioso della Corte. - 21 I principi di diritto enunciati d’ufficio nell’anno in rassegna.

1. Premessa.

Anche quest’anno viene dedicato un unico capitolo alle statuizioni della S.C. che hanno esaminato le ipotesi di ricorso straordinario per cassazione e a quelle che hanno enunciato principi di diritto nell’interesse della legge.

Ciò che accomuna i due istituti è il preponderante rilievo attribuito al controllo di legalità svolto dalla Corte di cassazione.

Com’è noto, l’art. 111, comma 7, Cost., contiene una norma dalla portata immediatamente precettiva, assicurando che «Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge».

Tuttavia, come avviene con il ricorso ordinario per cassazione, lo ius constitutionis si attua per il tramite dello ius litigatoris.

Il solo ius constitutionis è invece esaltato nella disciplina contenuta nell’art. 363 c.p.c. (come sostituito dall’art. 4 d.lgs. n. 40 del 2006), in forza della quale è consentito alla S.C. di enunciare il principio di diritto, su richiesta del P.G. e in alcuni casi anche d’ufficio, senza però che tale pronuncia abbia effetto nel giudizio di merito che ha dato occasione alla pronuncia.

Viene, in questo caso, potenziata la pura funzione di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto, attribuita alla S.C. dall’art. 65 r.d. n. 12 del 1941, che, prescindendo completamente dalla tutela delle parti coinvolte nel processo, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio.

L’ambito applicativo di tali istituti è estremamente variegato, ma l’esame delle statuizioni anno per anno adottate contribuisce a delineare con sempre maggiore chiarezza le rispettive caratteristiche, esaltandone l’importanza in termini di solidità e di coerenza interna del sistema.

2. La presentazione del ricorso straordinario per cassazione.

Come appena evidenziato, in virtù dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario per cassazione è ammesso contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale «per violazione di legge».

L’art. 2 d.lgs. n. 40 del 2006, nel sostituire l’art. 360 c.p.c., risolvendo ogni dubbio interpretativo, ha precisato che il ricorso straordinario per cassazione si può proporre per gli stessi motivi previsti per il ricorso ordinario («Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge»).

Per quanto riguarda gli aspetti procedurali, Sez. 1, n. 03372/2022, Reggiani, Rv. 664012-01, ha precisato che, in assenza di notifica su istanza di parte dell’atto impugnato, anche il ricorso straordinario per cassazione deve essere proposto nel termine lungo previsto dall’art. 327 c.p.c., decorrente dalla data di pubblicazione del provvedimento, cioè dal deposito dello stesso presso la cancelleria del giudice che l’ha pronunciato, e non dalla comunicazione dell’avvenuto deposito, che costituisce un adempimento distinto e ulteriore rispetto alla pubblicazione. In applicazione del principio enunciato, la S.C., ha dichiarato la tardività del ricorso ex art. 111, comma 7, Cost., presentato contro la conferma, in sede di reclamo, di una misura limitativa della responsabilità genitoriale, poiché notificato quando erano già decorsi sei mesi dalla pubblicazione della decisione impugnata, a prescindere dalla data della comunicazione.

3. Gli atti impugnabili.

Ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., il ricorso straordinario, in materia civile, è ammesso contro le «sentenze» degli organi giurisdizionali.

La S.C. si è tuttavia da subito orientata nel senso di consentire l’esperibilità di tale rimedio impugnatorio non solo nei confronti dei provvedimenti che hanno la forma della sentenza e non sono assoggettati ai normali mezzi d’impugnazione (v. ad esempio le ipotesi disciplinate dall’art. 618 c.p.c.), ma anche nei confronti di ogni altro provvedimento, anche se adottato in forma diversa, che abbia comunque carattere decisorio, incidendo su diritti soggettivi, e definitivo, in quanto non altrimenti impugnabile.

Tale principio, non posto successivamente in discussione, è stato sancito da Sez. U, n. 02593/1953, Duni, Rv. 881234-01, ove si è affermato che il ricorso straordinario per cassazione è esperibile con riguardo a tutti i provvedimenti che, a prescindere dalla forma che assumono, decidono in modo definitivo il merito di una controversia, la cui eventuale ingiustizia resterebbe irreparabilmente e definitivamente priva di controllo.

L’interpretazione estensiva, operata dalla giurisprudenza di legittimità, ha ricevuto l’avallo del legislatore che, come evidenziato, nel novellare il disposto dell’art. 360 c.p.c. con l’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, ha espressamente fatto richiamo ai «provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge».

È dunque ammesso il ricorso straordinario per cassazione contro tutti i provvedimenti, comprese le ordinanze ed i decreti, connotati dal duplice requisito della decisorietà (nel senso che incidano su diritti o status) e della definitività (nel senso che non possano essere rimessi in discussione in nessun modo e a nessuna condizione).

Nel corso degli anni, la giurisprudenza di legittimità ha svolto il compito di verificare, con riferimento alle diverse tipologie di provvedimenti, la presenza dei requisiti della decisorietà e della definitività, in alcuni casi manifestando un orientamento sempre più consolidato e in altri casi mostrando opinioni discordanti ed anche mutevoli.

Nell’esaminare l’attività svolta nell’anno in rassegna, vengono prima di tutto illustrate le decisioni in cui la Corte ha esaminato la possibilità di impugnare ex art. 111, comma 7, Cost. alcuni provvedimenti adottati nel corso del processo civile di cognizione. Successivamente vengono richiamate le pronunce che hanno riguardato il ricorso a tale rimedio in specifici settori o in determinati procedimenti.

4. Alcuni provvedimenti adottati nel corso del processo di cognizione.

Con riguardo all’attività compiuta durante la sospensione del giudizio, a seguito della proposizione del regolamento di competenza, Sez. 6-2, n. 00283/2022, Scarpa, Rv. 663457-01, ha evidenziato che il provvedimento di assunzione della prova, disposto ai sensi dell’art. 48, comma 2, c.p.c. per ragioni d’urgenza, ha carattere ordinatorio e non decisorio, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso straordinario per cassazione proposto contro di esso.

La pronuncia si pone in continuità con numerosi precedenti, anche risalenti (Sez. L, n. 10043/2005, Di Iasi, Rv. 581821-01; Sez. 1, n. 06905/1988, Graziadei, Rv. 461135-01).

In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, e con riguardo alla disciplina dei provvedimenti adottati ex artt. 648 o 649 c.p.c., Sez. 6-3, n. 24683/2022, Scrima, Rv. 665597-02, ha ribadito che l’ordinanza con la quale, in pendenza di opposizione a decreto ingiuntivo, venga concessa o negata l’esecuzione provvisoria dello stesso non è impugnabile con il ricorso per cassazione ex art.111 Cost., neppure laddove il giudice, ai fini di tale decisione, abbia conosciuto di questioni di merito rilevanti per accertare la sussistenza del fumus del diritto in contestazione, trattandosi di provvedimento inidoneo ad interferire sulla definizione della causa, il quale produce effetti meramente interinali, destinati ad esaurirsi con la sentenza che pronunzia sull’opposizione (negli stessi termini, Sez. 6-2, n. 24658 del 03/10/2019, Fortunato, Rv. 655421-01 e Sez. 6-3, n. 13942/2014, Frasca, Rv. 631727-01).

Alcune pronunce si sono interessate delle statuizioni sull’ammissibilità del procedimento sommario di cognizione.

In particolare, Sez. 6-2, n. 00983/2022, Fortunato, Rv. 663810-01, ha ritenuto che la pronuncia di inammissibilità, adottata ai sensi dell’art. 702 ter, comma 2, c.p.c. per erronea scelta del rito, senza essere seguita dal mutamento del rito (da sommario ordinario ex art. 702 bis c.p.c. a sommario speciale ex art. 14 d.lgs. 150 del 2011), non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, trattandosi di provvedimento avente natura meramente processuale, che non statuisce in modo definitivo su un diritto soggettivo e che non impedisce la riproposizione della domanda secondo il rito correttamente applicabile. Il principio è stato enunciato in una fattispecie in cui il Tribunale adito aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda, rilevando che la causa era stata proposta con il rito sommario ai sensi degli artt. 702 bis e ss., mentre invece, trattandosi di controversia concernente la spettanza del compenso del difensore per il patrocinio civile, non rientrava tra le cause contemplate dall’art. 702 bis c.p.c. - cause a decisione collegiale – anche se doveva trovare applicazione l’art. 14 d.lgs. 150 del 2011.

Per il caso in cui, però, il giudizio abbia ad oggetto l’opposizione al decreto ingiuntivo emesso per onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali, Sez. 2, n. 28579/2022, Besso Marcheis, Rv. 666479-01, ha precisato che l’ordinanza con la quale il giudice, rilevato che la domanda non rientra tra quelle soggette al rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c., dichiari inammissibile il ricorso con il quale sia stata proposta opposizione a decreto ingiuntivo, senza disporre il mutamento del rito, pur non essendo appellabile, stante il disposto di cui all’art. 702 ter, comma 2, c.p.c., è comunque ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., perché, altrimenti, trattandosi di opposizione a decreto ingiuntivo, la parte decadrebbe dalla facoltà di adire nuovamente il giudice secondo le regole processuali corrette.

5. L’accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c.

In argomento, occorre prima di tutto menzionare Sez. L, n. 10753/2022, Spaziani, Rv. 664423-01, ove la S.C. ha rilevato che il provvedimento di diniego (sia esso di rigetto o di inammissibilità dell’istanza), emesso senza espletare la consulenza tecnica, non è ricorribile ex art. 111, comma 7, Cost., poiché non incide con effetto di giudicato sulla situazione giuridica soggettiva sostanziale - attesa la possibilità per l’interessato di proporre una nuova richiesta al sopravvenire di nuovi elementi di fatto o di diritto - ed è comunque idoneo a soddisfare la condizione di procedibilità di cui all’art. 445 bis, comma 2, c.p.c., consenendo comunque al ricorrente di agire nelle forme ordinarie per l’accertamento del diritto.

Come evidenziato da Sez. L, n. 20862/2022, Buffa, Rv. 665126-01, la legittimazione processuale passiva, nel procedimento disciplinato dall’art. 445 bis c.p.c., spetta all’INPS, avendo l’art. 20 del d.l. n. 78 del 2009 trasferito a detto Istituto sia la responsabilità ultima degli accertamenti sanitari in materia di invalidità civile, sordità civile, handicap e disabilità, sia la legittimazione esclusiva a resistere alle domande aventi ad oggetto lo status di invalidità, non riconosciuto in sede amministrativa. Conseguentemente, Sez. L, n. 32695/2022, Solaini, Rv. 666012-01, ha affermato che, poiché unico soggetto legittimato passivo è l’INPS, il decreto di omologa del requisito sanitario, pronunziato nei confronti di un resistente diverso, è impugnabile per il capo relativo alle spese di lite, poiché la non modificabilità e la non impugnabilità del decreto si correla al presupposto, meramente certificativo, che l’accordo sulle conclusioni del CTU sia intervenuto tra le “giuste” parti del procedimento. Ne consegue che, in caso di erronea individuazione del legittimato passivo e di condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese di lite, va ammessa l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 111, comma 7, Cost., da parte del soggetto non legittimato che, altrimenti, resterebbe in via definitiva privo di qualsivoglia tutela giurisdizionale.

6. I provvedimenti in materia di famiglia e minori.

Nell’anno in rassegna, sono state publicate numerose pronunce in tema di ricorribilità per cassazione contro i provvedimenti che, anche in via provvisoria, regolamentino l’esercizio della responsabilità genitoriale o adottino misure limitative o ablative della stessa.

Un’interessante decisione ha, poi, riguardato anche la disciplina delle impugnazioni contro le sanzioni previste dall’art. 709 ter c.p.c.

Per un completo esame delle questioni si rinvia al capitolo dedicato alla famiglia e alla filiazione, dovendosi in questa sede focalizzare l’attenzione sulle ragioni emerse in ordine all’ammissibilità o meno del ricorso straordinario per cassazione in relazione ad alcuni provvedimenti.

In tale ottica, assume fondamentale rilievo Sez. U, n. 30903/2022, Mercolino, Rv. 666075-01, ove si è ribadito che il decreto pronunciato dalla Corte d’appello in sede di reclamo avverso il provvedimento con cui il Tribunale abbia adottato statuizioni in ordine all’affidamento e al mantenimento dei figli minori è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., poiché ha carattere decisorio e definitivo ed è volto a statuire su contrapposte pretese di diritto soggettivo con un’efficacia assimilabile, sia pure rebus sic stantibus, al giudicato.

La pronuncia richiama principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, ampiamente illustrati in motivazione.

Com’è noto, a tali conclusioni la Corte di cassazione è pervenuta anche con riferimento ai provvedimenti con i quali vengono adottate misure limitative o ablative della responsabilità genitoriale. In particolare, nel 2018 le Sezioni Unite (Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-02; conforme, da ultimo, Sez. 1, n. 09691/2022, Caiazzo, Rv. 664370-01), hanno affermato che i menzionati provvedimenti hanno attitudine al giudicato, sia pure rebus sic stantibus, e, pertanto, assumendo anche carattere decisorio, possono essere impugnati per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.

In motivazione, viene evidenziato che i procedimenti in questione dirimono conflitti tra posizioni soggettive diverse, non essendovi dubbio che la previsione del procedimento camerale, da sempre impiegato per la trattazione di controversie su diritti e status, non sia di per sé sufficiente ad escludere l’idoneità dei provvedimenti emessi al suo esito alla formazione del giudicato.

Ad opinione delle Sezioni Unite, gli argomenti su cui si fonda l’indirizzo tradizionale - secondo cui, a differenza della modifica delle condizioni di separazione e divorzio, la definitività e la decisorietà dei provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c. sarebbe esclusa dal fatto che essi attengono alla compressione della titolarità della responsabilità genitoriale e sono assunti nell’esclusivo interesse del minore - non tengono conto che l’esercizio della responsabilità genitoriale può ben essere regolato attraverso la sua parziale o totale compressione o comunque influire su di essa e che, anche nell’ambito di un processo di separazione o divorzio o di un giudizio promosso ai sensi dell’art. 316 c.c., i provvedimenti concernenti l’affidamento dei figli sono assunti nell’esclusivo interesse morale e materiale dei minori. Per effetto della “competenza per attrazione”, prevista dall’art. 38 disp. att. c.c. (come riformulato dall’art. 3, comma 1, della l. n. 219 del 2012), infatti, la decisione del giudice ordinario può contenere, in relazione alla medesima controversia, statuizioni assunte ai sensi dell’art. 337 bis e ss. c.c. e statuizioni assunte ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., con evidente incongruità del sistema, ove si ritenesse di continuare ad operare una distinzione nell’ambito di esse attribuendo solo alle prime, e non anche alle seconde, attitudine al giudicato rebus sic stantibus e se ne differenziasse, in conseguenza, il regime impugnatorio. La soluzione accolta, invece, è stata ritenuta quella che più si adatta alla tutela degli interessi coinvolti, perché l’emissione dei provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale incide su diritti di natura personalissima e di rango costituzionale, tenuto conto del potenziale concreto mutamento della sfera relazionale primaria dei soggetti che ne sono coinvolti, sicché la circostanza che tali provvedimenti possano, in teoria, esser modificati o revocati con effetti ex tunc non è considerata idonea a porre il soggetto che li subisca al riparo dagli effetti nefasti che possano medio tempore prodursi nell’ambito delle relazioni familiari.

Nel quadro risultante dalle pronunce a Sezioni Unite appena richiamate, dunque, i provvedimenti che disciplinano l’affidamento dei figli e quelli che contengono misure limitative o ablative della responsabilità genitoriale, all’esito del reclamo (o dell’appello), sono ugualmente ricorribili per cassazione ex art. 111, comma 7, c.p.c.

Tale approdo riguarda, tuttavia, le statuizioni assunte a definizione dei rispettivi procedimenti.

Per quanto riguarda i provvedimenti provvisori, la questione è ancora controversa.

In particolare, in ordine alle statuizioni previste dall’art. 10, commi 3, 4 e 5, l. n. 184 del 1983 (a cui si applicano le disposizioni contenute negli artt. 330 e ss. c.c.), Sez. 1, n. 08805/2019, Bisogni, Rv. 653481-01 ha escluso l’impugnabilità per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost. di tali provvedimenti, ritenuti privi del carattere decisorio, in quanto destinati ad assolvere ad una funzione meramente cautelare e provvisoria, tant’è che perdono efficacia alla conclusione del procedimento e rimangono, in ogni caso, revocabili e modificabili.

Negli stessi termini si è espressa Sez. 1, n. 04524/2019, Campese, Rv. 653092-01, che ha affermato la non ricorribilità per cassazione contro il provvedimento con il quale, nelle more del procedimento di adozione, erano stati disposti incontri fra la famiglia affidataria ed il minore d’età, frattanto collocato presso altra famiglia, al fine di salvaguardare la “continuità affettiva” ai sensi dell’art. 4, comma 5 ter, della legge n. 184 del 1983, reso in sede di reclamo. Tale provvedimento è stato ritenuto sprovvisto dei requisiti della decisorietà e definitività, essendo correlato ai tempi della decisione sulla domanda di adozione, proposta ai sensi dell’art. 4, comma 5 bis, della legge n. 184 del 1983, e al suo esito.

In linea con le menzionate pronunce, Sez. 1, n. 28724/2020, Caradonna, Rv. 659934-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione contro il decreto di rigetto del reclamo contro il decreto del Tribunale per i minorenni che, unitamente ad altre misure, aveva sospeso in via provvisoria gli incontri tra madre e figlio, nell’attesa della decisione sul ricorso ex art. 336 c.c. proposto dal PM per la declaratoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale della donna. La Corte ha, in particolare, rilevato che non hanno attitudine ad acquistare autorità di cosa giudicata i provvedimenti provvisori per un duplice profilo: a) innanzi tutto perché la provvisorietà non li fa sopravvivere al normale esito finale del procedimento; b) in secondo luogo perché, in quanto provvisori, non stabiliscono alcuna disciplina definitiva in ordine al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, tant’è che, non contenendo alcun accertamento vincolante per il futuro, non impediscono che la stessa situazione giuridica soggettiva possa essere nuovamente esaminata sulla base degli stessi elementi (nello stesso senso, Sez. 1, n. 24638/2021, Caradonna, Rv. 662541-01).

Nella medesima ottica, Sez. 1, n. 02816/2022, Nazzicone, Rv. 663800-01, pronunciandosi in una fattispecie in cui era stato adottato un provvedimento provvisorio di sospensione della responsabilità genitoriale, ha ritenuto che il decreto adottato in sede di reclamo attenesse ad un provvedimento privo dei caratteri di decisorietà e definitività e, pertanto, non fosse ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

Anche Sez. 1, n. 04778/2022, Scotti, Rv. 664018-01, ha ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il provvedimento che, nel corso di un procedimento ex art. 337 bis c.c., aveva adottato, in via provvisoria, misure limitative della responsabilità genitoriale.

Nella stessa ottica, con riferimento alle statuizioni sull’affidamento dei figli adottate in via provvisoria nel corso del processo di separazione dei genitori, Sez. 1, n. 07266/2022, Fidanzia, Rv. 664170-01, ha ribadito che i provvedimenti adottati dal giudice istruttore, pur incidendo su posizioni di diritto soggettivo, sono suscettibili di modifica o revoca con la decisione finale e che, pertanto, non sono né reclamabili né ricorribili per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., mentre i provvedimenti presidenziali sono sì reclamabili (per espressa previsione di legge), ma, all’esito del reclamo, non sono ricorribili per cassazione, perché si tratta pur sempre di statuizioni di carattere endoprocessuale.

Diversamente ha deciso Sez. 1, n. 17177/2020, Valitutti, Rv. 658565-01, in relazione ad una fattispecie in cui era stato proposto ricorso ex art. 111 Cost. contro la decisione della Corte d’appello di rigetto del reclamo contro il decreto che, in pendenza del procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità, sempre ai sensi dell’art. 10, comma 3, l. n. 184 del 1983, aveva sospeso la responsabilità genitoriale, disponendo la collocazione del minore preso una comunità educativa e nominato un tutore provvisorio. In questo caso, la S.C. - nell’affermare che, secondo il più recente orientamento del giudice di legittimità, il provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale, emesso dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., ha attitudine al giudicato rebus sic stantibus e che, conseguentemente, a seguito del reclamo, è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. - ha precisato che ciò accade anche nell’ipotesi in cui il provvedimento non incida in via definitiva sulla responsabilità genitoriale, dichiarandone la decadenza, ma si limiti (come nella fattispecie esaminata) a sospendere la responsabilità genitoriale.

Alle stesse conclusioni è pervenuta Sez. 1, n. 01668/2020, Mercolino, Rv. 656983-01, in relazione ad una fattispecie in cui la Corte d’appello aveva dichiarato inammissibile il reclamo contro il provvedimento del Tribunale per i minorenni adito ai sensi dell’art. 336 c.c. che, pronunciando in via non definitiva, aveva disposto la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale del padre, disponendo che un centro specializzato effettuasse una valutazione sul nucleo familiare e che il servizio sociale competente per territorio individuasse tempi e modi di frequentazione con il figlio minore. Anche stavolta la S.C. - nel ribadire che il decreto della Corte d’appello sul reclamo avverso i provvedimenti emessi dal Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari dei provvedimenti reclamati, carattere decisorio e definitivo (in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale), nonché modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto - ha affermato che tale principio si applica anche alla fattispecie esaminata, perché il provvedimento, pur non risultando emesso a conclusione del procedimento ma, anzi, espressamente pronunciato “in via non definitiva” (prevedendo anche il compimento di ulteriore attività istruttoria), riveste indubbiamente carattere decisorio, non essendo stato adottato a titolo provvisorio e urgente ed apparendo idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull’esercizio della responsabilità genitoriale da parte del ricorrente.

La Corte è pervenuta a identiche conclusioni in un altro giudizio, riguardante l’impugnazione della declaratoria di inammissibilità del reclamo contro il provvedimento del Tribunale per i minorenni, che aveva respinto la richiesta di revoca della collocazione dei figli minori presso una comunità, presentata in pendenza di un procedimento ex art. 336 c.c., disponendo, inoltre, la sospensione della responsabilità genitoriale (Sez. 1, n. 10777/2019, Parise, non massimata). Secondo la S.C., tutti i provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili, salva la sopravvenienza di fatti nuovi, e incidono su diritti di natura personalissima di primario rango costituzionale, per questo, immediatamente reclamabili. In particolare, la Corte ha ritenuto che, nel caso in questione, il decreto del Tribunale per i minorenni, pur se adottato nell’ambito di procedimento ancora in corso, aveva sospeso la responsabilità genitoriale e confermato il collocamento dei minori presso una comunità e pertanto era già in grado di produrre effetti pregiudizievoli per i minori e per il genitore, in ragione delle sue immediate ripercussioni sulla loro relazione, aggiungendo che il provvedimento era altresì suscettibile di acquisire la definitività equiparabile al giudicato, all’esito delle fasi impugnatorie, atteso che solo la sopravvenienza di fatti nuovi lo avrebbero reso modificabile o revocabile.

Anche Sez. 1, n. 09691/2022, Caiazzo, Rv. 664370-01, ha affermato che, in materia di provvedimenti de potestate ex artt. 330, 333 e 336 c.c., il decreto pronunciato dalla Corte d’appello sul reclamo avverso quello del Tribunale per i minorenni è impugnabile con il ricorso per cassazione, avendo, al pari del decreto reclamato, carattere decisorio e definitivo, in quanto incidente su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, ed essendo modificabile e revocabile soltanto per la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto e quindi idoneo ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, anche quando non sia stato emesso a conclusione del procedimento per essere stato, anzi, espressamente pronunciato in via non definitiva, trattandosi di provvedimento che riveste comunque carattere decisorio, quando non sia stato adottato a titolo provvisorio ed urgente, idoneo ad incidere in modo tendenzialmente stabile sull’esercizio della responsabilità genitoriale. Il principio è stato affermato in un giudizio in cui il Tribunale per i minorenni aveva disposto la decadenza della madre dall’esercizio della responsabilità genitoriale, il collocamento del minore in una casa-famiglia e la temporanea sospensione di ogni rapporto tra il minore e la madre.

Nella stessa linea, per quanto riguarda i provvedimenti che incidono sul diritto degli ascendenti ad instaurare ed a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni ai sensi dell’art. 317 bis c.c. (nel testo novellato dall’art. 42 del d.lgs. n. 154 del 2013), la Corte ha ritenuto che, al pari di quelli ablativi della responsabilità genitoriale emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 336 c.c., tali provvedimenti hanno attitudine al giudicato rebus sic stantibus, in quanto non revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi, dirimendo comunque conflitti tra posizioni soggettive diverse nei quali il minore è parte. Pertanto, seppure adottati in via provvisoria e urgente, incidono su diritti personalissimi e di rango costituzionale, hanno carattere decisorio e sono reclamabili davanti alla Corte di appello (così Sez. 1, n. 00082/2022, Caiazzo, Rv. 663483-01).

In presenza di un quadro intepretativo così articolato, la Prima Sezione Civile (Sez. 1, n. 30457/2022, Caprioli, non massimata) ha rimesso gli atti al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, relativa alla possibilità di proporre ricorso per cassazione nei confronti dei provvedimenti de potestate di natura provvisoria, avuto riguardo alla complessità istruttoria relativa alla loro revoca o modifica ed alla conseguente definitività di fatto che gli stessi finiscono per assumere.

Un altro aspetto controverso, emerso nell’anno in rassegna, attiene alle statuizioni che regolamentano l’esercizio della responsabilità genitoriale e riguarda la necessità o meno di distinguere – ai fini dell’ammissione del ricorso straordinario per cassazione – tra le statuizioni che attengono all’affidamento vero e proprio e quelle che recano disposizioni di dettaglio sulle modalità di visita e di frequentazione tra genitori e figli.

A tali conclusioni è pervenuta Sez. 1, n. 00614/2022, Lamorgese, Rv. 663555-01, ove la S.C. ha, appunto, operato la menzionata distinzione tra i provvedimenti che attengono all’affidamento e quelli che hanno ad oggetto le modalità concrete del collocamento dei figli minori, ritenendo che questa ultima categoria di provvedimenti non è ricorribile per cassazione, in quanto priva dell’attitudine al giudicato, dal momento che riguarda misure modificabili in ogni momento, a prescindere dalla sopravvenienza di fatti nuovi, ed è mancante dei caratteri della decisorietà e della definitività.

Negli stessi identici termini si era già pronunciata Sez. 1, 33609/2021, Lamorgese, 663267-01.

Anche Sez. 1, n. 01568/2022, Nazzicone, Rv. 663624-01, ha affermato, in tema di ricorso ex art. 709 ter c.p.c., che i provvedimenti del giudice di merito volti alla mera conformazione delle modalità concrete di esercizio della responsabilità genitoriale e di affidamento della prole, in quanto privi del carattere di definitività e di contenuto decisorio, non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.

Il principio è stato enunciato in una fattispecie in cui uno dei genitori aveva proposto ricorso per cassazione contro la decisione di merito che aveva autorizzato l’altro genitore ad iscrivere il minore presso una scuola nordamericana, consentendo anche il trasferimento della residenza.

Tuttavia, in una vicenda del tutto analoga, Sez. 1, n. 21553/2021, Dolmetta, Rv. 661923-01, è pervenuta a conclusioni opposte. In quest’ultimo caso, la S.C. ha, infatti, ritenuto che i provvedimenti de potestate, adottati in sede di reclamo ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. al fine di risolvere il contrasto tra i genitori, hanno natura stabile e carattere decisorio e, pertanto, nei loro confronti è ammesso il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., anche se sono destinati ad avere un’efficacia circoscritta nel tempo (nella specie, dovuta al fatto che si trattava di scegliere la scuola presso cui iscrivere il figlio per un anno scolastico).

Anche Sez. 1, n. 33612/2021, Nazzicone, Rv. 663106-01, aveva affermato che provvedimenti che regolano il diritto di visita del minore, anche se adottati in sede di reclamo ex art. 709 ter c.p.c., sono revocabili e modificabili non solo ex nunc per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche ex tunc sulla base di un riesame di merito o di legittimità delle originarie risultanze processuali, sicché, dovendo escludersi la ricorrenza dei caratteri della definitività e della decisorietà, nei loro confronti non è ammesso il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.

A diverse conclusioni è, invece, pervenuta Sez. 1, n. 04796/2022, Scalia, Rv. 664020-01, ove si è affermato che i provvedimenti giudiziali relativi alla modifica delle modalità di frequentazione e visita dei minori sono ricorribili per cassazione, con superamento del filtro dell’inammissibilità per difetto di decisorietà, ove si tratti di valutare l’errore di diritto per violazione del principio della bigenitorialità, che riceve tutela dall’art. 337 ter c.c. e dall’art. 8 CEDU.

La pronuncia si pone sulla linea di Sez. 1, n. 09764/2019, Scalia, Rv. 653876-01, ove si è ritenuto che, pur dovendosi riconoscere all’autorità giudiziaria ampia libertà in materia di diritto di affidamento di un figlio di età minore, è comunque necessario un rigoroso controllo sulle “restrizioni supplementari” (ovvero quelle apportate dalle autorità al diritto di visita dei genitori) e sulle garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare di cui all’art. 8 CEDU, onde scongiurare il rischio di troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età ed uno dei genitori (Corte EDU, sentenza 9 febbraio 2018, causa C-76171/13, Solarino c. Italia). Secondo la S.C., nell’interesse superiore del minore deve essere sempre assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, inteso quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione della prole (nella specie, la Corte ha cassato la decisione della Corte d’appello che, confermando la decisione di primo grado, aveva avallato la previsione secondo cui la frequentazione tra il padre e la figlia di cinque anni, affidata ad entrambi i genitori e collocata prevalentemente presso la madre, avrebbe potuto effettuarsi solo a fine settimana alterni, evidenziando che il giudice di merito non aveva illustrato le ragioni che lo inducevano ad escludere frequentazioni infrasettimanali tra il genitore e la bambina).

Occorre accertare, nel futuro, quale orientamento sarà destinato a prevalere.

Ovviamente, la questione non attiene alle ipotesi in cui le censure, pur essendo prospettate come violazione di norme di diritto, si sostanziano in una richiesta di rivalutazione, in fatto, delle scelte in concreto operate dal giudice di merito in ordine alle modalità di frequentazione tra genitori e figli. È, infatti, incontroverso che, in questi casi, le censure siano inammissibili (cfr. in argomento Sez. 6-1, n. 28244/2019, Nazzicone, Rv. 656088-01).

Il nodo da sciogliere attiene, invece, alla possibilità di valutare l’ammissibilità del ricorso per cassazione non soltanto sulla scorta della effettiva natura della censura effettuata, ma anche tenendo conto della distinzione tra le diverse tipologie di statuizioni impugnate (affidamento del figlio o modalità di frequentazione con il genitore), tenuto conto che, comunque, si rinvengono numerose pronunce che, senza operare la menzionata distinzione, hanno valutato direttamente, sotto il profilo dell’errore di diritto, anche statuizioni relative alle modalità di visita dei figli (v., ad esempio, oltre alle pronunce supra menzionate, Sez. 1, n. 19323/2020, Pazzi, Rv. 658973-01; Sez. 1, n. 03652/2020, Bisogni, Rv. 657047-01; Sez. 6-1, n. 18817/2015, Mercolino, Rv. 636765-01 e, da ultimo, Sez. 1, n. 04790/2022, Scalia, Rv. 664019-01).

Passando ad altro argomento, e con riferimento alle statuizioni adottate all’esito del procedimento ex art. 709 ter c.p.c., si deve, da ultimo, menzionare Sez. 1, n. 22100/2022, Parise, Rv. 665243-01, ove la S.C. ha affermato che il provvedimento di ammonimento non è ricorribile per cassazione (a differenza dei provvedimenti di risarcimento dei danni o di irrogazione della sanzione pecuniaria), in quanto privo dei caratteri della decisorietà e definitività.

7. L’adozione internazionale.

Nell’anno in rassegna, la S.C. ha nuovamente esaminato la questione della natura giuridica del provvedimento che, ai sensi dell’art. 35 della l. n. 184 del 1983, dichiara l’efficacia in Italia della pronuncia di adozione di uno Stato estero.

In particolare, Sez. 1, n. 27600/2022, Acierno, Rv. 665641-01, ha affermato che la pronuncia del Tribunale per i minorenni sul riconoscimento del provvedimento straniero in materia di adozione, ancorché adottata in forma di decreto, avendo carattere decisorio e definitivo, ha valore sostanziale di sentenza e, non essendo ravvisabile, in tale ipotesi, una competenza in unico grado, è impugnabile mediante l’appello e non direttamente con il ricorso per cassazione.

Negli stessi termini si era già pronunciata Sez. 1, n. 06079/2006, Panzani, Rv. 587794-01. Anche Sez. 1, n. 16990/2018, Pazzi, Rv. 649691-01, ha ritenuto che la menzionata pronuncia del Tribunale per i minorenni sul riconoscimento del provvedimento straniero in materia di adozione, ancorché adottata in forma di decreto, avendo valore sostanziale di sentenza (anche se adottata nella forma del decreto), risulta idonea al passaggio in giudicato, con la conseguenza che è inammissibile la domanda di revoca della pronuncia sopradescritta (nella specie, sia il Tribunale per i minorenni sia la Corte d’appello avevano rigettato la domanda di revoca proposta dai genitori adottivi di una minore straniera, all’esito di procedimento di adozione internazionale conclusosi con il decreto di riconoscimento del provvedimento straniero sopraindicato, ma la S.C. ha ritenuto ab origine inammissibile tale domanda, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione.).

8. Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno.

Com’è noto, le Sezioni Unite (Sez. U, n. 21985/2021, Criscuolo, Rv. 662034-01) hanno affermato che i decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno sono reclamabili ai sensi dell’art. 720 bis, comma 2, c.p.c. unicamente dinanzi alla Corte d’appello, quale che sia il loro contenuto (decisorio ovvero gestorio), mentre, ai fini della ricorribilità in cassazione dei provvedimenti assunti in tale sede, occorre verificare il carattere della decisorietà, quale connotato intrinseco dei provvedimenti suscettibili di essere sottoposti al vaglio del giudice di legittimità.

In tale ottica, Sez. 1, n. 32321/2022, Tricomi L., Rv. 666125-01, ha ritenuto che il decreto della Corte d’appello di rigetto del reclamo con il quale era stata chiesta la revoca dell’amministrazione di sostegno e la modifica dei poteri conferiti all’amministratore, benché relativo a decisioni modificabili in ogni tempo dal giudice tutelare, ha un contenuto generale, e pertanto decisorio, non concernendo l’autorizzazione a singoli atti di amministrazione, di talché esso è ricorribile per cassazione.

Con riguardo, invece, alla chiusura della procedura, Sez. 6-1, n. 04029/2022, Di Marzio M., Rv. 664215-01, ha rilevato che la disciplina sul rendimento del conto finale, prevista per la tutela degli incapaci, si applica anche all’amministrazione di sostegno, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 411 c.c., e pertanto l’impugnazione del decreto di approvazione del menzionato conto, emesso dal giudice monocratico in funzione di giudice tutelare, deve essere decisa dal Tribunale in sede contenziosa, ai sensi dell’art. 45 disp. att. c.c., con sentenza appellabile (ma non ricorribile per cassazione) e non dalla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 720 bis c.p.c.

9. La nomina dell’amministratore di condominio.

Nell’anno in rassegna, la S.C. si è interessata anche del procedimento ex art. 1129 c.c. sia pure con riferimento alla sola statuizione sulle spese.

In particolare, Sez. 6-2, n. 01799/2022, Bertuzzi, Rv. 663813-01, ha affermato che il procedimento per la nomina giudiziale di un amministratore di condominio, appartenendo all’ambito della volontaria giurisdizione ed essendo di natura non contenziosa, sfocia in un provvedimento che non deve regolare le spese, con la conseguenza che il decreto della Corte di appello, pronunciato in sede di reclamo, è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., in relazione alla parte in cui, regolando le spese, incide in maniera processualmente definitiva su situazioni di diritto soggettivo.

La decisione appena riportata si pone sul solco di una ricca giurisprudenza. In particolare, Sez. 6-2, n. 15995/2020, Scarpa, Rv. 658464-01, ha affermato che non è ammesso il ricorso straordinario per cassazione contro il decreto della Corte di appello che, in sede di reclamo, abbia provveduto sulla domanda di revoca dell’amministratore, al fine di proporre, sotto forma di vizi in iudicando o in procedendo, censure che rimettano in discussione la sussistenza o meno di gravi irregolarità nella gestione (nella specie, riconducibili alla mancata convocazione dell’assemblea), perché tale statuizione, adottata all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, è priva di efficacia decisoria e non incide su situazioni sostanziali di diritti o status, potendo invece il decreto essere impugnato davanti al giudice di legittimità limitatamente alla statuizione sulle spese di giudizio, concernente posizioni giuridiche soggettive di debito e credito, che discendono da un autonomo rapporto obbligatorio. Nello stesso senso, da ultimo Sez. 6-2, n. 07623/2019, Scarpa, Rv. 653375-01.

Anche Sez. 6-2, n. 25682/2020, Scarpa, Rv. 659707-01, ha ritenuto che contro il provvedimento della Corte d’appello che, nel decidere sull’istanza ex art. 1129 c.c., condanni una parte al pagamento delle spese è ammissibile il ricorso per cassazione, in applicazione del criterio generale della soccombenza, il quale si riferisce ad ogni tipo di processo senza distinzioni di natura e di rito e, pertanto, anche al procedimento camerale azionato in base agli artt. 1129, comma 11, c.c. e 64 disp. att. c.c. La pronuncia è conforme a numerosi precedenti tra cui Sez. 6-2, n. 09348/2017, Scarpa, Rv. 643815-01 e Sez. 6-2, n. 02986/2012, Manna F., Rv. 621556-01.

Entrambi i principi sono stati affermati anche da una oramai non più recente statuizione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 20957/2004, Napoletano, Rv. 577887-01).

Particolare rilievo assume, in argomento, Sez. 2, n. 05194/2002, Settimi, Rv. 553657-01 (confermata, in termini più generali, da Sez. 2, n. 24140/2004, Settimi, Rv. 578506-01), ove si precisa che i provvedimenti adottati dal Tribunale in camera di consiglio (nella specie, in materia di nomina di amministratori di condominio) sono soggetti a reclamo innanzi alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 739 c.p.c. Pertanto, la statuizione in materia di spese eventualmente adottata - peraltro erronea, non trattandosi di procedimenti contenziosi su diritti, dalla definizione dei quali possa derivare una situazione di soccombenza - è impugnabile per cassazione ex art. 111 Cost. solo ove detto reclamo non sia stato proposto, in modo tale da presentare, oltre al requisito della decisorietà (sicuramente posseduto, in quanto destinata a risolvere un contrasto in materia di diritti soggettivi concernente l’onere delle spese), anche quello della definitività. Ove, invece, sia stato proposto il predetto reclamo nei confronti del provvedimento di merito che la contiene, la statuizione sulle spese, non possedendo tale carattere di definitività - in quanto adottata come conseguenziale ad una determinazione la cui eventuale caducazione ad opera della corte d’appello comporterebbe necessariamente anche il suo venir meno - non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., ma deve essere impugnata, unitamente al provvedimento di merito, con il menzionato reclamo.

10. L’accettazione dell’eredità.

Ai sensi dell’art. 481 c.c., chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato deve dichiarare se accetta o rinuncia all’eredità, precisando che, trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare.

In argomento, Sez. 6-2, n. 00969/2022, Tedesco, Rv. 663917-01, ha ritenuto che l’ordinanza emessa in sede di reclamo avverso l’ordinanza resa dal Tribunale, ai sensi degli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c., con cui sia stato fissato il menzionato termine per accettare l’eredità, non è ricorribile per cassazione, in quanto priva di decisorietà e definitività, attesa anche la sua revocabilità e modificabilità alla stregua dell’art. 742 c.p.c.

Inoltre, Sez. 2, n. 24484/2022, Massafra, Rv. 665390-01, ha precisato che anche l’ordinanza emessa in sede di reclamo avverso il provvedimento reso ai sensi degli artt. 481 c.c. e 749 c.p.c. - con il quale, a seguito della fissazione del termine, si è dichiarata la decadenza del chiamato ad accettare l’eredità - non è ricorribile per cassazione in quanto, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, definisce un procedimento di tipo non contenzioso privo di un vero e proprio contraddittorio e non statuisce in via decisoria e definitiva attesa la sua revocabilità modificabilità alla stregua dell’art. 742 c.p.c.

Nella stessa ottica, Sez. 2, n. 02721/2010, De Chiara, Rv. 611540-01, ha evidenziato che il decreto con il quale il Tribunale rigetta l’istanza di proroga del termine per la redazione dell’inventario non è impugnabile con ricorso per cassazione a norma dell’art. 111 Cost., in quanto, pur riguardando posizioni di diritto soggettivo, esso chiude un procedimento di tipo non contenzioso privo di un vero e proprio contraddittorio e non statuisce in via decisoria e definitiva su dette posizioni, stante la sua revocabilità e modificabilità alla stregua dell’art. 742 c.p.c.

In passato, Sez. 2, n. 04897/1987, Marconi, Rv. 453518-01 ha, invece, affermato il carattere decisiorio e definitivo dell’ordinanza con cui si pronuncia sul reclamo avverso il decreto di fissazione del termine per l’accettazione dell’eredità (nella specie, revocandolo perché avente ad oggetto una seconda, non consentita, proroga del termine già assegnato, con la conseguente inefficacia della accettazione dell’eredità). La Corte ha, in particolare, rilevato che tale statuizione è volta a dirimere un conflitto fra diritti soggettivi e che la medesima non è suscettibile di modifica o di revoca, ai sensi del combinato disposto degli artt. 742 e 742 bis c.p.c., con la conseguenza che è da ritenere impugnabile con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (Sez. 2, n. 04897/1987, Marconi, Rv. 453518-01).

11. Il rifiuto di trascrizione di atti nei registri immobiliari.

Com’è noto, ai sensi dell’art. 745, comma 2, c.p.c., nel caso di rifiuto o di ritardo da parte dei pubblici depositari indicati nell’art. 743 c.p.c. nel rilascio di copie o estratti degli atti che detiene, è previsto un ricorso al Presidente del Tribunale nella cui circoscrizione il depositario esercita le sue funzioni.

La menzionata previsione si applica anche al rifiuto di trascrizione di un atto da parte del Conservatore dei registri immobiliari, in virtù del disposto degli artt. 113 bis disp. att. c.c.

In tale quadro, si colloca Sez. 1, n. 09742/2022, Caiazzo, Rv. 664371-01, ove la S.C. ha precisato che il procedimento avverso il rifiuto del Conservatore dei registri immobiliari (oggi direttore dell’Agenzia del territorio) di eseguire una trascrizione, previsto dall’art. 745 c.p.c., cui rinvia l’art. 113 bis disp. att. c.c., ha natura di volontaria giurisdizione non contenziosa, avendo esso ad oggetto non la risoluzione di un conflitto di interessi, ma il regolamento, secondo la legge, dell’interesse pubblico alla pubblicità immobiliare, cosicché in esso non è ravvisabile una parte vittoriosa o soccombente, tanto che il Presidente del Tribunale si limita a “sentire” il Conservatore, e il relativo provvedimento è insuscettibile di passare in giudicato; non può, pertanto, in tale procedimento, provvedersi alla condanna alle spese, che, se assunta, legittima al ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avendo tale pronuncia valenza decisoria.

Negli stessi termini si erano già pronunciate Sez. 1, n. 15131/2015, Campanile, Rv. 636206-01, e Sez. 1, n. 02095/2011, Dogliotti, Rv. 616409-01.

La fattispecie esaminata nell’anno in rassegna ha tuttavia una peculiarità, data dal fatto che la materia del contendere ha riguardato la richiesta di cancellazione dal pubblico registro immobiliare della trascrizione del trasferimento di un veicolo, operata in forza di un titolo risultato nullo, in applicazione del disposto dell’art. 40 del r.d. n. 1814 del 1927, che contiene la stessa procedura prevista per il rifiuto di trascrizione del Conservatore dei registri immobiliari, a cui è stato applicato lo stesso principio sopra enunciato.

12. Il frazionamento dell’ipoteca.

In consapevole difformità rispetto ad un precedente recentissimo e a definizione di ogni incertezza interpretativa, la S.C. nell’anno in rassegna ha esaminato la questione della ricorribilità per cassazione del provvedimento adottatato ex art. 39, comma 6 ter, d.lgs. n. 385 del 1993.

Sez. 1, n. 17632/2021, Dolmetta, Rv. 661613-01, aveva ritenuto che il decreto emesso dalla Corte di appello in sede di reclamo avverso il provvedimento con il quale il Presidente del Tribunale designa il notaio per la redazione dell’atto pubblico di frazionamento, ai sensi dell’art. 39, comma 6 ter, del d.lgs. n. 385 del 1993, non è ricorribile per cassazione, in quanto privo di contenuto decisorio, essendo inidoneo ad incidere sul diritto al frazionamento del finanziamento e della correlativa garanzia ipotecaria.

Sez. 1, n. 10637/2022, Fraulini, Rv. 664544-01, ha, invece, affermato che il provvedimento che accoglie o respinge la richiesta di nomina del notaio ai sensi dell’art. 39, comma 6 ter, d.lgs. n. 385 del 1993, è ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., in quanto idoneo ad incidere in via definitiva sul diritto dell’istante al frazionamento, decidendo sulla fondatezza della domanda nel contraddittorio delle parti e con attitudine alla stabilità pro iudicato.

In entrambe le pronuce, la materia del contendere ha avuto ad oggetto la revoca della nomina del notaio, adottata in sede di reclamo come conseguenza della ritenuta insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda ex art. 39 d.lgs. cit. Ma, secondo la più recente pronuncia, la natura del provvedimento è idonea a incidere in via definitiva sul diritto dell’istante al frazionamento, poiché un’eventuale reiterazione della domanda di nomina del notaio, successiva all’avvenuta revoca, incontrerebbe una preclusione da giudicato nel precedente provvedimento negativo, motivato sull’insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della precedente identica domanda. È per questo che il ricorso per cassazione è stato ritenuto ammissibile.

13. I provvedimenti in materia di arbitrato.

In ordine al procedimento di deposito del lodo, disciplinato dall’art. 825 c.p.c., particolare rilievo assume Sez. 1, n. 11803/2022, Terrusi, Rv. 664669-01, ove la Corte di cassazione ha precisato che non è ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. il provvedimento della Corte d’appello che, in sede di reclamo, neghi l’esecutorietà del lodo, non rimanendo preclusa, in tal caso, la possibilità di procedere ad esecuzione forzata, sia in quanto la parte può agire in via ordinaria per fare accertare la sussistenza dei requisiti cui è subordinata l’efficacia esecutiva del lodo sia in quanto essa può rinnovarne in alternativa il deposito, con il corredo della documentazione di cui sia stata precedentemente rilevata la mancanza o l’irregolarità.

La pronuncia si pone in continuità con Sez. 1, n. 21739/2016, Mercolino, Rv. 642628-01. Nella stessa ottica, Sez. 1, Sentenza n. 10450 del 14/05/2014, Lamorgese, Rv. 631224-01, aveva già evidenziato che è inammissibile il ricorso per cassazione contro il provvedimento di rigetto del reclamo nei confronti del decreto di dichiarazione di esecutorietà del lodo, poiché il lodo ha efficacia vincolante fra le parti dalla data della sua ultima sottoscrizione e, pertanto, deve escludersi che il decreto di esecutorietà sia in alcun modo assistito dal requisito della decisorietà, che è propria della sentenza arbitrale, né da quello della definitività, esistendo diversi modi per rimuoverne l’efficacia, con conseguente esclusione dell’attitudine di tale decreto a pregiudicare i diritti soggettivi derivanti dal rapporto definito con il lodo arbitrale, tenuto conto che la procedura ha una rilevanza limitata alla sola possibilità di mettere in esecuzione il lodo.

Per quanto riguarda, invece, la liquidazione del compenso agli arbitri, Sez. 1, n. 13395/2022, Iofrida, Rv. 664867-02, ha ribadito quanto già affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, Rv. 641779-02), spiegando che, alla luce della compiuta giurisdizionalizzazione dell’arbitrato, operata dal d.lgs. n. 40 del 2006, deve ritenersi ammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza resa dalla Corte di appello in sede di reclamo contro il provvedimento del Presidente del Tribunale di determinazione del compenso degli arbitri ex art. 814 c.p.c., poiché quell’ordinanza ha natura giurisdizionale a tutti gli effetti ed è caratterizzata dai requisiti di decisorietà e definitività, incidendo sul diritto soggettivo al compenso con efficacia di giudicato, senza che ne sia possibile la modifica o la revoca attraverso l’esperimento di alcun altro rimedio giurisdizionale.

14. Il procedimento disciplinare a carico di avvocati.

In argomento, Sez. U, n. 36671/2022, Criscuolo, Rv. 666377-01, ha affermato che, anche dopo la previsione di cui all’art. 8, comma 1, del Regolamento CNF n. 2 del 2014, che consente l’impugnazione davanti al Consiglio Nazionale Forense dell’ordinanza che decide sulla ricusazione di un membro del Consiglio distrettuale di disciplina, quale ulteriore strumento di garanzia del soggetto sottoposto a procedimento disciplinare, è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione contro il provvedimento reso sull’istanza di ricusazione, difettando quest’ultimo del requisito della definitività, atteso che l’eventuale vizio causato dall’incompatibilità del giudice invano ricusato si converte in motivo di nullità dell’attività da lui spiegata, e quindi in motivo di gravame della sentenza da lui (o col suo concorso) emessa.

La pronuncia, riferita alla statuizione sull’istanza di ricusazione nel procedimento disciplinare a carico di avvocati, riproduce lo stesso principio che, in generale, regola la ricusazione nel processo civile. È sufficiente menzionare, in proposito, Sez. U, n. 17636/2003, Lupo, Rv. 568339-01, e, da ultimo, Sez. 6-3, n. 01932/2015, Frasca, Rv. 634244-01, ove si afferma che l’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione perché, pur avendo natura decisoria, manca del necessario carattere di definitività e non preclude il riesame della questione nel corso del processo, attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal (o con il concorso del) iudex suspectus, in quanto l’eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice ricusato si risolve in motivo di nullità dell’attività svolta dal giudice stesso e, quindi, di gravame della sentenza da lui emessa.

15. Gli atti della procedura esecutiva.

Nell’anno in rassegna si rivengono importanti pronunce che affrontano il tema della proponibilità del ricorso straodinario per cassazione contro atti dell’opposizione agli atti esecutivi e della procedura di invisione endoesecutiva.

In particolare, Sez. 6-3, n. 24037/2022, Rossetti, Rv. 665596-01, ha affermato che, in tema di opposizione agli atti esecutivi, l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione provvede a definire la fase sommaria, quand’anche dichiari illegittimamente inammissibile l’opposizione, non è impugnabile con il ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost., in quanto priva del carattere della definitività.

Negli stessi termini si è già pronunciata Sez. 6-3, n. 30300/2019, Scoditti, Rv. 656163-01, che ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione, rilevato il mancato rispetto del termine perentorio per notificare il ricorso introduttivo, dichiari chiusa la fase sommaria ed inammissibile l’opposizione agli atti esecutivi, senza adottare i provvedimenti indilazionabili previsti dall’articolo 618 c.p.c. né concedere il termine per instaurare il giudizio di merito. Secondo la Corte di cassazione, la pronuncia conclusiva della fase sommaria, benché illegittimamente emessa, è priva del carattere della definitività, ben potendo la parte proporre reclamo al collegio per ottenere le misure cautelari invocate, ovvero dare inizio autonomamente al giudizio a cognizione piena, all’esito del quale conseguire una decisione sull’opposizione. Ad avviso della Corte, non assume rilievo, in senso contrario, neppure la circostanza che il giudice abbia provveduto sulle spese, posto che nella struttura delle opposizioni ai sensi degli artt. 615, comma 2, 617 e 619 c.p.c., così come emergente dalla riforma di cui alla l. n. 52 del 2006, il giudice dell’esecuzione, quando chiude la fase sommaria davanti a sé, deve pronunciarsi necessariamente sulle relative spese, potendosi, peraltro, ridiscutere tale statuizione nell’ambito del giudizio di merito.

Sez. 3, n. 11848/2022, Saija, Rv. 664806-01, ha, inoltre, ribadito, che è inammissibile il ricorso per cassazione contro l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, a conclusione della fase sommaria dell’opposizione agli atti esecutivi, decida il merito della controversia senza fissare il termine per l’introduzione del giudizio di merito, potendo la parte introdurre comunque tale giudizio per far valere in quella sede ogni doglianza, precisando tuttavia che, ove il provvedimento adottato abbia forma di sentenza (e non di ordinanza), quest’ultima dev’essere cassata senza rinvio, precludendo altrimenti l’introduzione del giudizio di merito in forza del principio del ne bis in idem.

Con riguardo, invece, al giudizio di divisione endoesecutivo, Sez. 2, n. 01620/2022, Tedesco, Rv. 663637-01, ha ritenuto che la vendita del bene comune, siccome indivisibile in natura, non comporta per sé stessa il compimento della divisione giudiziale, occorrendo a tal fine pur sempre l’approvazione del progetto di riparto del ricavato, ai sensi dell’art. 789 c.p.c., la quale segna il momento conclusivo, a partire dal quale decorre il termine per la riassunzione del processo esecutivo, sicchè è inammissibile l’impugnazione straordinaria, proposta ex art. 111 Cost. contro il decreto di trasferimento, per difetto del requisito della definitività.

16. I provvedimenti adottati nelle procedure fallimentari e in sede di concordato preventivo.

Questioni sull’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione si pongono frequentemente nell’ambito delle varie tipologie di procedure di liquidazione concorsuale, caratterizzate da incidenti di cognizione, assai differenti tra loro, decisi con provvedimenti in forma diversa dalla sentenza.

In materia di fallimento, deve essere subito menzionata Sez. 1, n. 33878/2022, Vella, Rv. 666239-01, ove si è ritenuto che il decreto del Tribunale, emesso in sede di reclamo ex art. 26 l.fall. nei confronti del rigetto della richiesta di autorizzazione del curatore a promuovere un giudizio civile, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento che ha natura ordinatoria ed esaurisce i suoi effetti all’interno della procedura fallimentare, in correlazione alla natura del provvedimento del giudice delegato, il quale, a sua volta, si configura come espressione di quei poteri amministrativi di direzione, sorveglianza ed autorizzazione previsti dall’art. 25, comma 1, l. fall. (nello stesso senso, già Sez. 1, n. 22959/2012, Didone, Rv. 624684-01).

Inoltre, Sez. 6-1, n. 35820/2022, Campese, Rv. 666295-01, ha affermato che la decisione della Corte d’appello, emessa in sede di reclamo avverso il provvedimento di revoca del curatore fallimentare, non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, poiché non viene in rilievo, in capo al curatore, una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e la revoca si connota alla stregua di atto di amministrazione interno alla procedura di natura meramente ordinatoria (alle stesse conclusioni erano già pervenute Sez. 1, n. 05094/2015, Cristiano, Rv. 634685-01 e Sez. 6-1, n. 11888/2016, Acierno, Rv. 639882-01).

Infine, sempre in tema di fallimento, Sez. 1, n. 19889/2022, Zuliani, Rv. 665221-01, ha precisato che è inammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di approvazione del rendiconto del curatore, perché avverso tale provvedimento è esperibile il reclamo alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 26 l. fall.

Per quanto riguarda, invece, il concordato preventivo, assume particolare rilievo Sez. 1, n. 16532/2022, Pazzi, Rv. 664966-01, ove si chiarisce che i provvedimenti assunti ex art. 169 bis l.fall., anche in sede di reclamo, sulla richiesta di autorizzazione alla sospensione o allo scioglimento dei contratti in corso, non sono impugnabili ex art. 111, comma 7, Cost., poiché costituiscono atti di esercizio della funzione di direzione della procedura concorsuale, non deputati a risolvere controversie su diritti, fermo restando che la parte non soddisfatta può adire il giudice per far valere, nell’ambito di una cognizione piena, la ritenuta sussistenza (o insussistenza) dei presupposti per lo scioglimento o la sospensione dei contratti (sulla reclamabilità dei summenzionati provvedimenti, anche se contenuti nel decreto che ammette alla procedura di concordato, si è pronunciata Sez. 1, n. 08008/2022, Vannucci, Rv. 664206-01).

17. I procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento.

Con riguardo ai procedimenti avviati per la composizione della crisi da sovraindebitamento, deve essere senza dubbio menzionata Sez. 1, n. 27301/2022, Abete, Rv. 665943-01, ove la S.C. ha affermato che non è proponibile il ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto che, in sede di reclamo, abbia confermato la dichiarazione di inammissibilità della proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti, trattandosi di provvedimento privo dei caratteri della decisorietà e della definitività e, pertanto, insuscettibile di passaggio in giudicato. La Corte ha anche precisato che tale conclusione non determina alcun vulnus al diritto di difesa, dal momento che non è preclusa la riproposizione della medesima domanda, anche prima del decorso dei cinque anni di cui all’art. 7, comma 2, lett. b), l. n. 3 del 2012, poiché tale termine opera solo se il debitore ha concretamente beneficiato degli effetti riconducibili a una procedura della medesima natura.

La pronuncia si pone sul solco di numerosi precedenti conformi ed esprime un orientamento oramai consolidato, secondo il quale il menzionato decreto non decide, nel contraddittorio tra le parti, su diritti soggettivi e, dunque, non è idoneo al giudicato (così Sez. 6-1, n. 06516/2017, Genovese, Rv. 644270-01; Sez. 6-1, n. 04500/2018, Terrusi, Rv. 647890-01; Sez. 1, n. 30534/2018, Pazzi, Rv. 651654-01).

A diverse conclusioni è pervenuta la S.C. per il caso di rigetto (e non di inammissibilità) della richiesta di omologazione del piano del consumatore.

In particolare, Sez. 1, n. 28013/2022, Abete, Rv. 665750-01, ha ritenuto che il decreto del Tribunale in composizione collegiale, che abbia rigettato il reclamo avverso il diniego del giudice monocratico di omologazione del piano del consumatore, proposto ai sensi dell’art. 12 bis della l. n. 3 del 2012, è impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di provvedimento avente carattere decisorio e definitivo, in quanto idoneo ad incidere su diritti soggettivi ed a regolamentare in modo incontrovertibile la dedotta situazione di sovraindebitamento. Secondo la Corte, la definitività si prospetta rebus sic stantibus, ossia in rapporto ed esclusivamente in rapporto alle condizioni che il consumatore ha offerto nel piano, e che evidentemente ha interesse a far assurgere a regula incontrovertibile del suo sovraindebitamento, proprio come avviene per i provvedimenti adottati ex art. 336 c.c., dalle Sezioni Unite ritenuti ricorribili per cassazione, all’esito del reclamo (Sez. U, n. 32359/2018, Sambito, Rv. 651820-02).

A diverse conclusioni è pervenuta Sez. 6-1, n. 19117/2017, Terrusi, Rv. 645686-01, con riguardo al decreto di annullamento, in sede di reclamo, dell’omologazione del menzionato piano del consumatore, evidenziando che il rifiuto di omologazione non impedisce di proporre altro e diverso accordo o piano di ristrutturazione dei debiti. Tuttavia, subito dopo, Sez. 1, n. 04451/2018, Dolmetta, Rv. 647424-01, ha affermato il contrario, ritenendo ammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto di rigetto del reclamo proposto nei confronti del provvedimento con cui il Tribunale, in composizione monocratica, abbia respinto l’istanza di omologazione del piano proposto dal consumatore, spiegando che si tratta di provvedimento dotato del requisito della definitività - non essendo non altrimenti impugnabile - e di quello della decisorietà. Queste stesse conclusioni sono state raggiunte da Sez. 1, n. 10095/2019, Dolmetta, Rv. 653692-01, che ha dichiarato l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di accoglimento del reclamo proposto nei confronti del provvedimento di omologazione del piano proposto dal consumatore, in ragione del carattere contenzioso del procedimento e dell’idoneità del provvedimento che lo definisce ad incidere su diritti soggettivi. La pronuncia più recente si è, dunque, adeguata all’opinione più recente che oramai può ritenersi consolidata.

18. L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge.

Nell’intento di dare nuova linfa all’istituto disciplinato dall’art. 363 c.p.c., il d.lgs n. 40 del 2006 ha apportato significative innovazioni, orientate ad estendere la possibilità, per la Suprema Corte, di pronunciarsi “nell’interesse della legge”, cioè ad affermare, a fronte di un provvedimento di merito erroneo, il principio di diritto astrattamente applicabile alla fattispecie, sia pure senza cassare il provvedimento impugnato né produrre effetti o conseguenze per le parti.

All’iniziativa del Procuratore generale presso la Corte di cassazione (necessaria nel previgente regime) si è, dunque, affiancato un potere officioso del giudice di legittimità, esercitabile in caso di inammissibilità del ricorso, allorquando la questione (che avrebbe dovuto essere) decisa si profili di particolare importanza.

Inoltre, il ricorso del Procuratore generale è ora esperibile non solo in caso di provvedimenti passati in cosa giudicata (per omessa proposizione di ricorso nei termini di legge ad opera delle parti o per rinuncia allo stesso) ma anche «quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile» - cioè a dire in ipotesi di provvedimenti privi del carattere della decisorietà e definitività, come, ad esempio, quelli di natura camerale e cautelare - al fine di permettere il sindacato di legittimità anche in relazione a statuizioni altrimenti destinate, in ragione della loro natura, a sfuggire all’indirizzo nomofilattico.

19. La richiesta del Procuratore Generale.

Come già anticipato, la richiesta di enunciazione del principio di diritto formulata dal Procuratore Generale presso la S.C. - ben distinta, anche sotto l’aspetto terminologico adoperato dal legislatore, dal ricorso che lo stesso Procuratore generale può proporre, in qualità di parte, per la cassazione di un provvedimento - ha la sola finalità di far correggere una erronea affermazione in iure contenuta in una decisione di merito, senza alcuna conseguenza o effetto sulla decisione stessa o sui diritti delle parti interessati dalla lite.

In argomento, assume particolare rilievo una pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 23469/2016, De Stefano, Rv. 641536-01), ove si è precisato che la richiesta di enunciazione del principio di diritto, formulata dal P.G., non costituisce un mezzo di impugnazione, costituendo l’atto di impulso di un procedimento autonomo, teso a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge, da svolgersi in assenza del contraddittorio con le parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento, perché carenti di un interesse attuale e concreto alla decisione, dato che il provvedimento presupposto non viene in alcun modo influenzato.

Tuttavia, come pure precisato da Sez. U, n. 00404/2011, Tirelli, Rv. 615718-01, il ricorso che il P.G. può promuovere, ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c., nell’interesse della legge, anche se non è in grado di incidere sulla fattispecie concreta, non può tuttavia prescinderne. Tale ricorso, infatti, pur non avendo natura impugnatoria, non può assumere carattere preventivo o esplorativo, dovendo il P.G. attivarsi soltanto in caso di pronuncia contraria alla legge, per denunciarne l’errore e chiedere alla Corte di ristabilire l’ordine del sistema, chiarendo l’esatta portata e il reale significato della normativa di riferimento.

In conclusione, i requisiti cui è condizionata l’enunciazione del principio di diritto su iniziativa del Procuratore generale presso la S.C. possono essere così individuati: a) nell’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento non impugnato o non impugnabile; b) nella reputata illegittimità del provvedimento stesso, quale indefettibile momento di collegamento con una concreta e determinata fattispecie, onde evitare richieste a carattere preventivo o esplorativo; c) nell’interesse della legge, generale e trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per la ritenuta importanza di una sua formulazione espressa (cfr., in motivazione, Sez. U, n. 01946/2017, Giusti, Rv. 642009-01).

È, pertanto, evidente che il potere attribuito al Procuratore generale presso la Corte di cassazione risponde, in ultima analisi, allo scopo di consentire alla Corte di svolgere la funzione di nomofilachia anche in materie di regola sottratte al sindacato di legittimità oppure in contesti in cui si palesi la necessità di interventi nomofilattici tempestivi e solleciti, con la formazione di un precedente di legittimità su tematiche oggetto di contrasti ermeneutici nella giurisprudenza di merito, di contenziosi seriali o comunque di rilevante impatto sociale.

Nell’anno in esame non sono state adottate pronunce a seguito di ricorso del Procuratore generale, ai sensi dell’art. 363, commi 1 e 2, c.p.c. Si rinvengono, invece, interessanti decisioni che hanno delineato l’ambito operativo dell’istituto previsto dall’art. 363, comma 3, c.p.c., oltre a quelle hanno dato applicazione a tale istituto, enunciando d’ufficio il principio di diritto nelle materie più varie.

20. Il potere ufficioso della Corte.

Come sopra accennato, l’art. 363, comma 3, c.p.c. prevede che il principio di diritto può essere pronunciato anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza.

La Corte di cassazione ha già precisato che l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363, comma 3, c.p.c. presuppone che la parte abbia proposto ricorso per cassazione, pur inammissibile, sicché non vi è luogo a provvedere sull’istanza di enunciazione del principio contenuta in una semplice missiva indirizzata da una delle parti al Primo Presidente della Corte di cassazione (Sez. 6-2, n. 10557/2015, Giusti, Rv. 635423-01).

Non vi è stata subito concordia sull’ammissibilità di una pronuncia ufficiosa del principio di diritto da parte delle Sezioni semplici della S.C., in sede camerale. La giurisprudenza più recente si è, tuttavia, orientata in senso favorevole a tale eventualità.

Già Sez. 2, n. 11185/2011, D’Ascola, Rv. 618138-01, aveva affermato tale possibilità. Successivamente, Sez. 3, n. 05665/2018, Porreca, Rv. 648294-01, ha, invece, ritenuto che la pronuncia in camera di consiglio conseguente all’adunanza non partecipata di cui all’art. 380 bis.1 c.p.c. - funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione e prive di peculiare rilevanza o complessità ex art. 375, comma 2, c.p.c. - non è compatibile con l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge a norma dell’art. 363, comma 3, c.p.c., presupponendo quest’ultima la particolare importanza della questione giuridica esaminata. Poi, è intervenuta Sez. 1, n. 10396/2021, Falabella, Rv. 661133-01, che ha nuovamente dichiarato che, nel processo in cassazione, il giudice può enunciare d’ufficio il principio di diritto anche all’esito del procedimento camerale disciplinato dall’art. 380 bis.1 c.p.c. (nella specie, peraltro, la S.C. ha statuito ex art. 363, comma 3, c.p.c., all’esito dell’adunanza camerale in cui ha pronunciato, non l’inammissibilità del ricorso, ma l’estinzione per intervenuta rinuncia al ricorso). Comunque, tra le pronunce ex art. 363, comma 3, c.p.c., adottate nel corso degli anni, se rinvengono molte assunte all’esito di procedimenti camerali.

Con specifico riferimento all’ambito operativo del potere ufficioso previsto dall’art. 363, comma 3, c.p.c., si deve considerare anche che la S.C. ha più volte precisato che la stessa può enunciare d’ufficio il principio di diritto nell’interesse della legge anche se la questione, che ritiene di particolare importanza, non è circoscritta alle ragioni per le quali il ricorso è stato dichiarato inammissibile, potendo investire tutte le questioni di merito o processuali, che sono state fatte oggetto del giudizio di legittimità (così Sez. 2, n. 11185/2011, D’Ascola, Rv. 618138-01, e Sez. 1, n. 10396/2021, Falabella, Rv. 661133-01).

In tale ottica, Sez. U, n. 20661/2014, Giusti, Rv. 632239-01, ha evidenziato che può essere affermata la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, quando la norma denunciata sia destinata a trovare applicazione nell’enunciazione del principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., in quanto la funzione nomofilattica sottesa alla pronuncia nell’interesse della legge non si esaurisce nella dimensione statica della legalità ordinaria.

Nell’anno in rassegna, Sez. U, n. 34387/2022, Manzon, Rv. 666077-01, ha precisato che, comunque, il motivo con il quale si chiede alle Sezioni Unite la pronuncia di un principio di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c. su ambiti estranei alle competenze della Corte è da ritenersi inammissibile, perché l’eventuale statuizione verrebbe a sconfinare nella giurisdizione altrui. Il principio è stato affermato in presenza di una richiesta formulata, quale vero e proprio motivo di impugnazione avverso una decisione del Consiglio di Stato, ove non erano prospettate questioni in materia di giurisdizione - ambito entro il quale è ammesso il ricorso per cassazione ex artt. 111, comma 8, Cost. e 362 c.p.c. - ma in materia edilizia, rientrante nell’alveo della giurisdizione propria del giudice amministrativo).

Negli stessi termini si è pronunciata Sez. U, n. 33988/2022, Vincenti, Rv. 666363-01, ove, sempre in tema di ricorso per cassazione contro le decisioni dei giudici speciali, si è spiegato che la Corte di cassazione è chiamata solo a regolare la giurisdizione e, pertanto, esclusivamente in tale ambito può pronunciarsi ai sensi dell’art. 363 c.p.c., non potendo invocarsi l’intervento nomofilattico in riferimento alle norme da applicare per la risoluzione della controversia, poiché in questo modo esorbiterebbe dai poteri ad essa affidati, invadendo l’ambito di giurisdizione attribuita al giudice speciale. In applicazione del principio enunciato, anche in questo caso le Sezioni Unite hanno dichiarato inammissibile la richiesta di una pronuncia nell’interesse della legge, riguardante la possibile natura retroattiva di una disposizione normativa, rilevante ai fini della decisione nel merito della vertenza, attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Le decisioni richiamate si allineano ad un orientamento già espresso, con riferimento a statuizioni adottate dal giudice contabile. Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 19700/2010, Salmè, Rv. 615284-01) avevano, infatti, già affermato che la richiesta di pronuncia del principio di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., rivolta alle Sezioni Unite dalla Procura generale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti, non merita accoglimento ove il ricorso sia finalizzato esclusivamente ad ottenere un’affermazione di massima su ambiti estranei alle competenze della Corte di cassazione (la statuizione ha riguardato un ricorso della Procura generale presso la Corte dei conti, volto ad ottenere l’enunciazione di un principio di diritto sul merito dell’attività giurisdizionale del giudice e più specificamente, sul potere della Corte dei conti di emettere pronunzie di accertamento negativo, aventi ad oggetto l’esercizio dei poteri istruttori del P.M. contabile).

21. I principi di diritto enunciati d’ufficio nell’anno in rassegna.

Come già anticipato, anche nell’anno in rassegna le pronuce adottate ex art. 363, comma 3, c.p.c. sono state numerose ed hanno riguardato questioni estremamente variegate.

In primo luogo, con riferimento ai diritti della persona, deve essere ricordata Sez. 1, n. 13400/2022, Acierno, Rv. 664761-01, ove la S.C. ha ritenuto, in materia di diritto di asilo del cittadino straniero, che la condizione di vulnerabilità, idonea a sorreggere il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, può essere fondata sull’allegazione di una situazione di disabilità fisica o psichica generatrice, nel Paese di origine, di un trattamento discriminatorio, pur non derivante da atti o comportamenti statuali, dovuto ad emarginazione sociale e relazionale, secondo un modello culturale diffuso e non contrastato, tale da integrare una grave violazione dei diritti umani così come garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione e dall’art. 1 e seguenti della Convenzione ONU fatta a New York nel 2006, ratificata in Italia con l. n. 18 del 2009.

Importante è anche la precisazione effettuata da Sez. 6-3, n. 19229/2022, Rossetti, Rv. 665202-01, ove la S.C. ha evidenziato che, in assenza di diverse disposizioni di legge, il danno alla persona dev’essere liquidato sulla base delle regole vigenti al momento della liquidazione, e non già al momento del fatto illecito. La fattispecie ha riguardato la liquidazione del danno biologico da lesioni “micropermanenti” derivanti da un sinistro stradale del 2005, correttamente effettuata dal giudice di merito alla stregua dell’art. 139 del d.lgs. n. 209 del 2005, entrato in vigore dopo il verificarsi del fatto illecito).

Per quanto riguarda il processo civile di cognizione, devono richiamarsi gli principi di diritto enunciati in una sentenza delle Sezioni Unite in ordine ai poteri e ai doveri del consulente tecnico d’ufficio.

In primo luogo, le Sezioni Unite hanno affermato che il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite il cui accertamento si rende necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti fatti principali rilevabili d’ufficio (Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-02). In particolare, il menzionato consulente del giudice, nei limiti sopra indicati, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti (non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti), tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio (Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-03). Tuttavia, qualora si tratti di esame contabile ai sensi dell’art. 198 c.p.c., il consulente nominato dal giudice, sempre nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza della disciplina del contraddittorio delle parti ivi prevista, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi sono diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni (Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-04).

Inoltre, le menzionate Sezioni Unite hanno anche precisato che l’accertamento ad opera del consulente tecnico del giudice di “fatti diversi dai fatti principali” dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, o l’acquisizione, nei predetti limiti, di documenti che il consulente accerti o acquisisca, al fine di rispondere ai quesiti a lui sottoposti, in violazione del contraddittorio delle parti è fonte di nullità relativa, rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso (Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-05). L’accertamento, invece, di “fatti principali” diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, che il consulente nominato dal giudice compia per rispondere ai quesiti a lui sottoposti, viola il principio della domanda e il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d’ufficio o, in difetto, di motivo di impugnazione da farsi a valere ai sensi dell’art. 161 c.p.c. (Sez. U, n. 03086/2022, Marulli, Rv. 663786-06).

Legati ad una fattispecie del tutto peculiare sono i principi di diritto enunciati da Sez. 1, n. 00191/2022, Nazzicone, Rv. 663897-01 e Rv. 663897-02, riguardanti l’azione di responsabilità ex artt. 2476 e 2407 c.c., promossa dall’ Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata (ANBSC) e dal Ministero dell’economia e delle finanze, nei confronti degli organi di gestione e di controllo di una s.r.l., le cui quote erano state confiscate all’esito di un giudizio penale per reati di criminalità organizzata.

La Corte di cassazione ha, prima di tutto, affermato che, nel caso in cui i menzionati soggetti statuali (il Ministero dell’economia e delle finanze, in qualità di titolare delle quote sociali confiscate, e l’ANBSC, in qualità di ente incaricato della loro gestione) promuovano, quali rappresentanti dello Stato, socio pubblico della menzionata s.r.l., l’azione di responsabilità prevista dagli artt. 2476 e 2407 c.c. nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società stessa, la “chiamata in giudizio” degli attori ad opera degli esponenti aziendali convenuti, che ne alleghino la corresponsabilità formulando domanda di manleva, non rientra nella fattispecie dell’art. 106 c.p.c. ma, essendo proposta nei confronti di chi è già parte in causa, costituisce una domanda riconvenzionale che, ai sensi dell’art. 167, comma 2, c.p.c., deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta (Sez. 1, n. 00191/2022, Nazzicone, Rv. 663897-01).

La stessa Corte ha, poi, precisato che, in tale processo, la difesa in giudizio del Ministero e dell’ANBSC è pienamente espletata dall’Avvocatura dello Stato, sia a favore dell’azione di responsabilità sia contro l’avversa domanda riconvenzionale, senza che abbia rilievo la l’erronea dichiarazione di contumacia, riferita alla domanda di manleva, essendo i soggetti statuali sopra indicati già presenti nel processo sin dall’inizio (Sez. 1, n. 00191/2022, Nazzicone, Rv. 663897-02).

Con riferimento all’azione revocatoria fallimentare, le Sezioni Unite, sempre in applicazione dell’art. 363, comma 3, c.p.c. hanno evidenziato che la revoca ex art. 67 l.fall. del pagamento eseguito in favore del creditore pignoratizio, con il ricavato della vendita del bene oggetto del pegno, determina il diritto del creditore che ha subito la revocatoria ad insinuarsi al passivo del fallimento con il medesimo privilegio nel rispetto delle regole distributive di cui agli articoli 111, 111 bis, 111 ter e 111 quater l.fall. (Sez. U, Sentenza n. 05049/2022, Acierno, Rv. 663853-02).

In tema di concordato fallimentare, Sez. 1, n. 25924/2022, Vella, Rv. 665535-01, ha, poi, rilevato che, alla proposta concordataria formulata dal terzo, con liberazione immediata del fallito ai sensi dell’art. 137, comma 7, l. fall., non si applica il divieto di accollo liberatorio del debito di imposta previsto dall’art. 8, comma 2, della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente).

Per quanto riguarda il processo di esecuzione, Sez. 3, n. 04688/2022, Fanticini, Rv. 663927-01, ha ritenuto che l’art. 35, comma 35 quinquies (aggiunto dall’art. 38, comma 1, lett. c), del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011), del d.l. n. 223 del 2006-che subordina la notificazione del titolo esecutivo e la promozione di azioni esecutive nei confronti degli enti previdenziali alla condizione che sia spirato il termine di centoventi giorni decorrente dalla ricezione della prescritta richiesta stragiudiziale di pagamento delle somme dovute a titolo di spese, competenze e altri compensi in favore di procuratori legalmente costituiti - trova applicazione anche in relazione ai titoli esecutivi formati anteriormente all’entrata in vigore della norma, con la conseguenza che, prima di notificare il titolo esecutivo o di procedere in executivis o anche solo di minacciare col precetto l’inizio dell’azione esecutiva, il creditore di dette somme è tenuto ad attendere lo spirare del termine di centoventi giorni decorrente dalla ricezione, da parte dell’ente previdenziale, della richiesta di pagamento, la quale va formulata con raccomandata con avviso di ritorno o posta elettronica certificata e deve contenere gli estremi del conto corrente bancario per l’accredito.

Da ultimo, va menzionata Sez. U, n. 26283/2022, Perrino, Rv. 665660-02, ove le Sezioni Unite, in tema di riscossione coattiva delle entrate pubbliche (anche extratributarie) mediante ruolo, ha dichiarato che l’art. 12, comma 4 bis, del d.P.R. n. 602 del 1973 (introdotto dall’art. 3 bis del d.l. n. 146 del 2021, come convertito dalla l. n. 215 del 2021) trova applicazione nei processi pendenti, poiché specifica, concretizzandolo, l’interesse alla tutela immediata rispetto al ruolo e alla cartella non notificata o invalidamente notificata, aggiungendo, inoltre, che sono manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale della predetta norma, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 104, 113 e 117 Cost., quest’ultimo con riguardo all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della Convenzione.

  • giurisdizione civile
  • procedimento giudiziario
  • prova
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO XV

GLI ALTRI MEZZI DI IMPUGNAZIONE

(di Valeria Pirari )

Sommario

1 Revocazione e questioni generali. - 2 Il dolo di una delle parti ex art. 395 n. 1, c.p.c. - 3 La falsità di prove acclarata e conosciuta successivamente ex art. 395, n. 2, c.p.c. - 4 L’errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa in relazione ad un fatto non controverso ex art. 395 n. 4, c.p.c. - 5 Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione. - 6 L’opposizione di terzo.

1. Revocazione e questioni generali.

La revocazione, quale mezzo di impugnazione a carattere eccezionale e a critica vincolata, può essere ordinaria, quando riguardi vizi che possono essere rilevati sulla base della sola sentenza (ipotesi di cui ai n. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c.), ovvero straordinaria, quando gli elementi di turbativa del giudizio possano essere conosciuti anche molto tempo dopo la sentenza, sì da dover essere sottratti a limitazioni temporali (casi di cui ai n. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c.), e può aggiungersi o sovrapporsi agli ordinari strumenti di gravame allorché emergano circostanze che possono avere inciso, deviandolo, sull’esito del giudizio, il quale, senza di esse, sarebbe stato differente. A questo proposito, Sez. 5, n. 26939/2022, Lume, Rv. 665802-01, ha chiarito come la pendenza del termine per la revocazione non impedisca, a norma dell’art. 391 bis c.p.c., il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto e ne ha perciò dedotto che, in tema di definizione agevolata della lite fiscale, l’art. 11, comma 3, del d.l. n. 50 del 2017, conv. dalla l. n. 96 del 2017, nel consentire la definizione delle controversie per le quali, alla data di presentazione della domanda, il processo non si sia concluso con pronuncia definitiva, ha riguardo alle sole controversie definite da decisione ancora impugnabile con i mezzi ordinari, ma non anche a quelle in cui l’unico rimedio esperibile sia la revocazione, facendone conseguire il rigetto della richiesta di sospensione del giudizio, avanzata invocando il procedimento di definizione agevolata della lite fiscale.

Peraltro, i ricorsi per cassazione contro la decisione di appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima vanno riuniti in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità nonostante si tratti di due gravami aventi ad oggetto distinti provvedimenti, atteso che la connessione esistente tra le due pronunce giustifica l’applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione contro la sentenza di appello l’esito di quello riguardante la sentenza di revocazione (Sez. L, n. 21315/2022, Garri, Rv. 665129-01).

Ai fini della sussistenza dell’interesse ad impugnare una sentenza con il mezzo della revocazione, rileva una nozione sostanziale e materiale di soccombenza, che faccia riferimento non già alla divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia, ma agli effetti pregiudizievoli che dalla medesima derivino nei confronti della parte stessa (Sez. 3, n. 27387/2022, Tatangelo, Rv. 665904-01).

L’errore revocatorio, che incide sulla formazione del giudizio di fatto contenuto nella decisione, va tenuto distinto dall’errore materiale, che colpisce la manifestazione della volontà espressa dal comando giudiziale, con la conseguenza che, mentre il ricorso per correzione di errore materiale non può essere convertito in un ricorso per revocazione, per il quale, assumendosi l’erroneità del deciso per effetto di un’errata percezione delle risultanze di fatto, vi è necessità di impugnazione, è ammissibile la conversione del ricorso per revocazione in quello per correzione dell’errore materiale che implica, al contrario, l’esattezza della decisione, nonostante l’erronea indicazione dei dati documentali (Sez. U, n. 12210/2022, Perrino, Rv. 664490-01).

In questi termini si è espressa anche Sez. 6-L, n. 35736/2022, Di Paola, Rv. 666165-01, che, in tema di esenzione dal pagamento di spese, competenze e onorari nei giudizi per prestazioni previdenziali, ha affermato come, in presenza di una dichiarazione resa nelle forme di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c., la statuizione del giudice sulla regolazione di spese abbia un contenuto sostanzialmente predeterminato, e quindi obbligato, sicché la mancata valutazione della richiesta di esenzione è emendabile attraverso il rimedio della correzione dell’errore materiale nel quale, eventualmente, può essere convertito il ricorso per revocazione.

Da un punto di vista procedurale, il precetto - sancito a pena di inammissibilità dall’art. 398 comma 2 c.p.c. - di indicare, fin dall’istanza di revocazione, le prove del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o della falsità, o del recupero dei documenti, impone che la data in questione debba costituire un preciso “thema probandum” e risultare “ab initio”, perché, dandosi ingresso al giudizio rescindente, è necessario conoscere, ai fini della decorrenza del termine perentorio, se, almeno secondo l’assunto di chi agisce, questo non appaia scaduto; non vale, pertanto, ad escludere la sanzione dell’inammissibilità, l’integrazione di tali indicazioni negli atti difensivi successivi a quello introduttivo, né l’eventuale accertamento d’ufficio svolto da parte del giudice ed inteso a precisare il giorno della scoperta (Sez. 2, n. 05031/2022, Carrato, Rv. 663937-01).

Peraltro, è inammissibile il ricorso per revocazione di una sentenza di appello impropriamente proposto dinanzi alla Corte di cassazione, anziché allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, non potendo il giudizio proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della “translatio iudicii”, attesa la specificità del ruolo di unico giudice di mera legittimità, rivestito dalla Corte di cassazione all’interno dell’ordinamento giudiziario (Sez. 2, n. 06325/2022, Cosentino, Rv. 664050-01).

L’istituto della revocazione può anche riguardare provvedimenti emessi dal giudice tributario. A tal proposito, Sez. 5, n. 02702/2022, Triscari, Rv. 663683-01, ha sostenuto che la verifica, da parte del giudice tributario di secondo grado, dell’avvenuto deposito dell’atto d’appello presso la segreteria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, quando il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario (ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992), costituisce oggetto di un accertamento di fatto, e non di un’interpretazione degli atti processuali, sicché la parte che lamenti la declaratoria di inammissibilità del gravame, da parte del giudice d’appello, sull’erroneo presupposto che il suddetto deposito non fosse avvenuto, ha l’onere di impugnare la sentenza con la revocazione ordinaria, e non col ricorso per cassazione, mentre Sez. 5, n. 15442/2022, Di Marzio, Rv. 664717-01, ha affermato che l’assenza di definitività del procedimento penale avente per oggetto l’accertamento di fatti di reato idonei a incidere sull’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, ed in particolare sulla liquidazione dell’importo dovuto, non osta alla definizione agevolata della lite, ai sensi del d.l. n. 119 del 2018, conv., con modif., dalla l. n. 136 del 2018, sia perché inidonea a rendere indeterminabile la somma dovuta per la definizione agevolata della controversia, sia perché l’Amministrazione finanziaria può sempre procedere al recupero degli importi indebitamente non versati, anche attraverso il procedimento di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., ove il definitivo accertamento penale ne faccia insorgere i presupposti.

Secondo Sez. 5, n. 14893/2022, Catallozzi, Rv. 664706-01, infine, nel processo tributario, l’impugnazione per revocazione per i motivi previsti dai nn. 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. - anche nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 9, comma 1, lett. cc), del d.lgs. n. 156 del 2015, che ha modificato l’art. 64, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 - è ammissibile nei confronti delle sentenze d’appello avverso le quali sia stato già proposto ricorso per cassazione o sia pendente il termine per proporlo, poiché nel giudizio di cassazione non sono ammessi nuovi accertamenti di fatto, né rivalutazioni del giudizio sul fatto compiuto dal giudice d’appello.

2. Il dolo di una delle parti ex art. 395 n. 1, c.p.c.

Il dolo processuale revocatorio non è integrato dalla mera violazione dell’obbligo di lealtà e probità previsto dall’art. 88 c.p.c., né dalle allegazioni false, dalle reticenze o dal mendacio, occorrendo ai fini della configurazione dalle fattispecie - per contro - un’attività intenzionalmente fraudolenta, che si concretizzi in artifizi o raggiri soggettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e ad impedire al giudice l’accertamento della verità, così pregiudicando l’esito del procedimento (in tal senso, Sez. 1, n. 31211/2022, Scotti, Rv. 665924-01, che ha qualificato quale ipotesi di dolo revocatorio il deposito di comparsa e memoria difformi da quelle contenute nel fascicolo d’ufficio, ritualmente depositate con timbro della cancelleria).

3. La falsità di prove acclarata e conosciuta successivamente ex art. 395, n. 2, c.p.c.

Secondo Sez. 3, n. 01169/2022, Iannello, Rv. 663771-01, qualora il giudicato civile di condanna sia l’effetto di attività processuale fraudolenta di una parte in danno dell’altra, posta in essere mediante la precostituzione e l’uso in giudizio di prove false, la parte danneggiata, oltre alla proposizione della impugnazione per revocazione, qualora la predetta attività integri gli estremi di un fatto-reato, può costituirsi parte civile nel relativo procedimento penale, così provocando l’esercizio del potere-dovere del giudice penale di statuire ed attuare concretamente l’obbligazione risarcitoria discendente in via diretta dall’accertamento fatto-reato stesso (art. 185 c.p.), senza che l’azione esercitata in sede penale possa trovare ostacolo nel giudicato civile che rimane travolto dall’accertamento penale. Tuttavia, in caso di estinzione del reato per qualsiasi causa, l’azione civile di responsabilità si trasferisce, con identica ampiezza, e quindi senza preclusioni in dipendenza del precedente giudicato civile, al giudice civile adito dalla parte danneggiata per ottenere il risarcimento del danno causato dal fatto-reato (nella specie, è stata cassata con rinvio la decisione di appello che aveva ritenuto non risarcibile il danno derivante dall’esecuzione di un decreto ingiuntivo, ottenuto in base a scritture la cui falsità era stata accertata in sede penale, affermando erroneamente che, decorso il termine per l’esperimento dell’impugnazione per revocazione ex art. 395, comma 1, n. 2 c.p.c., l’esecuzione intrapresa sulla base del monitorio costituisse atto lecito, sovrapponendo indebitamente la considerazione del decreto ingiuntivo come “regiudicata” rispetto a quella che, nella prospettiva aquiliana deve darsi dello stesso giudicato civile, quale “fatto storico”, frutto di un illecito, costitutivo del diritto al risarcimento del danno).

4. L’errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa in relazione ad un fatto non controverso ex art. 395 n. 4, c.p.c.

L’errore di fatto, idoneo a costituire motivo di revocazione, consiste in una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa, purché non cada su un punto controverso e non attenga ad un’errata valutazione delle risultanze processuali (vedi, Sez. 6-1, n. 2236/2022, Iofrida, Rv. 663756-01, che, a fronte della prospettazione della ricorrente che aveva lamentato la mancanza nel carteggio processuale del contratto cd. di servicing e l’insufficienza dell’ulteriore documentazione prodotta per dimostrare la legittimazione attiva della società incaricata di riscuotere un credito cd. a sofferenza, ha escluso l’esistenza di un vizio revocatorio, evidenziando trattarsi di fatti oggetto di controversia ed implicanti un’attività valutativa del giudice).

Secondo Sez. 5, n. 25752/2022, Di Marzio, Rv. 665868-01, ricorre, ad esempio, il vizio revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. nel caso in cui l’atto difensivo depositato dalla parte sia stato falsamente rappresentato e sia pertanto rimasto oggetto di un errore di percezione da parte del giudicante, avendo ciò comportato che la decisione assunta sia stata fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure sull’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, mentre, secondo Sez. L, n. 29750/2022, Cerulo, Rv. 665931-01, è inammissibile il ricorso per revocazione che, dietro la parvenza dell’allegazione di un errore di fatto rilevabile “ictu oculi” e in maniera incontrovertibile alla luce delle risultanze di causa, censuri, ai sensi degli artt. 391-bis, comma 1, e 395, n. 4 c.p.c., l’interpretazione che il provvedimento impugnato, sulla scorta di un’esatta percezione dei fatti, abbia dato del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, corollario di quello di specificità sancito dall’art. 366, comma 1, n. 6 del codice di rito (nella specie si è ritenuto che, pacifica la mancata trascrizione dell’atto di precetto, ritenuta in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il dissenso sulla necessità o meno di detta trascrizione non costituisse una doglianza attinente alla erronea percezione di un fatto).

Allo stesso modo, secondo Sez. 6-L, n. 36249/2022, De Marinis, Rv. 666211-01, la pronunzia del giudice, che si assuma erronea, sull’esistenza di uno o più fatti ritenuti pacifici per difetto di contestazione, costituisce frutto non di un errore meramente percettivo, ma di un’attività valutativa, nel senso che il giudice stesso, postasi la questione della mancanza di contestazioni in ordine all’esistenza di uno o più fatti determinati, l’ha risolta affermativamente all’esito di un giudizio, di per sé incompatibile con l’errore di fatto e non idoneo, quindi, a costituire motivo di revocazione a norma dell’art. 395 n. 4 c.p.c.

5. Revocazione delle pronunce della Corte di cassazione.

L’art. 391 bis c.p.c. ammette la correzione o la revocazione della sentenza o dell’ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione che sia affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’art. 287 c.p.c. ovvero da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4, consentendo alla parte di proporre a tal fine ricorso ai sensi degli artt. 365 e ss., nel termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione o di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento, o alla stessa Corte di provvedervi d’ufficio in ogni tempo.

La domanda di revocazione della sentenza della Corte di cassazione per errore di fatto deve contenere, a pena di inammissibilità, oltre all’indicazione del motivo della revocazione, prescritta dall’art. 398, comma 2, c.p.c., anche l’esposizione dei fatti di causa, richiesta dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., al fine di rendere agevole la comprensione della questione controversa e dei profili di censura formulati, in immediato coordinamento con il contenuto della sentenza impugnata (in questi termini, Sez. 3, n. 30720/2022, Scarano, Rv. 666067-02, che ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione in quanto privo di qualsivoglia indicazione relativa all’originario ricorso per cassazione).

La contestazione dell’errore di fatto revocatorio, ai sensi dell’art. 395, comma 1 n. 4 c.p.c., presuppone la sua decisività, requisito che deriva dalla natura straordinaria del rimedio e dall’esigenza di stabilità del giudicato, in ossequio al “principio di ragionevole durata del processo” e al connesso divieto di protrazione all’infinito dei giudizi; tale decisività non sussiste qualora l’impugnato provvedimento trovi fondamento anche in ulteriori ed autonome “rationes decidendi” rispetto alle quali non sia contestato alcun errore percettivo (alla stregua di tale principio, Sez. 3, n. 04678/2022, Vincenti, Rv. 664195-01, ha dichiarato l’inammissibilità dell’istanza di revocazione di una propria ordinanza che aveva erroneamente dichiarato l’improcedibilità del ricorso per mancata produzione, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., della relata di notificazione della sentenza di merito, ma che, nel prosieguo della motivazione, aveva altresì aggiunto che tutti i motivi del ricorso erano inammissibili, risultando così il denunziato errore percettivo inidoneo a travolgere l’ulteriore “ratio” del provvedimento impugnato).

Peraltro, la valutazione di “non inammissibilità” del ricorso per revocazione che la Corte compie ai fini del rinvio alla pubblica udienza della sezione semplice, in base all’art. 391 bis, comma 4, c.p.c. (come sostituito dall’art. 1bis comma 1, lett. l, n.3, del d.l. n. 168 del 2016), non preclude alla stessa Corte, all’esito dell’udienza pubblica, di dichiarare con sentenza l’inammissibilità del ricorso. Ciò in quanto la delibazione della sezione semplice non rimane vincolata dalla precedente valutazione ed anzi, in virtù della più ampia garanzia assicurata dal giudizio celebrato in pubblica udienza, si estende a tutte le questioni poste dal ricorso (Sez. 3, n. 10040/2022, Scarano, Rv. 664401-01, in conformità a Sez. 2, n. 20856/2019, Scarpa, Rv. 655181-01).

Costituisce errore di fatto denunciabile ex art. 395, n. 4, c.p.c., ad esempio, l’omessa percezione di questioni sulle quali il giudice d’appello non si è pronunciato in quanto ritenute, anche implicitamente, assorbite, senza che rilevi, ai fini della sua decisività, l’eventuale omessa riproposizione in sede di legittimità della questione assorbita, su cui non si forma giudicato implicito, atteso che può essere riproposta e decisa nel giudizio di rinvio (in tal senso Sez. 5, n. 01897/2022, Condello, Rv. 663676-01, che, in applicazione di tale principio, peraltro già affermato da Sez. 5, n. 23502/2018, Federici, Rv. 650515-01, ha ritenuto sussistente l’invocato errore revocatorio in una decisione della stessa Corte di cassazione che aveva accolto il ricorso dell’Agenzia fondato su una questione preliminare e deciso la causa nel merito rigettando la domanda del contribuente, senza avvedersi che quest’ultimo aveva riproposto in appello motivi di ricorso che erano stati assorbiti, come già in primo grado), oppure l’omesso esame delle memorie difensive, depositate ai sensi degli artt. 378, 380 bis o 380 bis, n. 1, c.p.c., con allegate sentenze invocate quali giudicati esterni tra le parti su un punto decisivo della controversia, ai fini dell’adozione di una statuizione diversa (Sez. 2, n. 17379/2022, Scarpa, Rv. 664889-01).

Allo stesso modo, è applicabile anche in sede di revocazione di sentenza della Corte di cassazione, lo “ius superveniens” introdotto dall’art. 23, comma 31, del d.l. n. 98 del 2011 che ha novellato l’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, purché l’entrata in vigore si sia realizzata in un momento successivo alla proposizione del ricorso o del controricorso e l’innovazione normativa sia stata evidenziata, nel giudizio “a quo”, con la memoria ex art. 378 c.p.c. (in tal senso, Sez. 5, n. 17479/2022, Manzon, Rv. 664863-02, che ha accolto il ricorso per revocazione avverso un’ordinanza pronunciata dalla stessa Corte dalla quale risultava evidente la mancata percezione dell’avvenuta presentazione della memoria ex art. 378 c.p.c. in cui la suddetta modificazione normativa era stata invocata dal contribuente quale “lex mitior”).

Non integra, invece, errore revocatorio né è causa di nullità della decisione impugnata la dedotta incompatibilità di uno dei cinque componenti del collegio decidente, in quanto non costituente una svista percettiva rilevante ex art. 391 bis c.p.c. (Sez. L, n. 30112/2022, Amendola, Rv. 665758-01), né la prospettazione di una errata valutazione in ordine alla ritualità della costituzione del controricorrente, per non avere la Corte rilevato che quest’ultimo aveva proceduto alla notifica del controricorso presso la cancelleria, sebbene il ricorso per cassazione contenesse l’indicazione della PEC del difensore del ricorrente, poiché l’errore, ove sussistente, non costituirebbe un errore di fatto, ma un errore di giudizio, conseguente a una errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali (Sez. 6-L, n. 24672/2022, Esposito, Rv. 665817-01), né il non essersi la Corte di cassazione avveduta, con riferimento alla notificazione della sentenza di secondo grado, che l’originaria l’indicazione dell’indirizzo P.E.C. dei due difensori del ricorrente, contenuta nella comparsa conclusionale, era stata modificata, nella successiva memoria di replica, mediante l’indicazione di uno solo di essi, in mancanza, però, di qualsivoglia corrispondente elezione di domicilio, atteso che, in tema di comunicazioni a mezzo posta elettronica certificata, il difensore esercente il patrocinio non può indicare, per le comunicazioni, la P.E.C. di altro avvocato, senza specificare di volersi domiciliare presso di lui, in quanto l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria deve avvenire automaticamente attraverso la ricerca nell’apposito registro, a prescindere dall’indicazione espressa della P.E.C., di modo che non può attribuirsi rilievo all’indicazione di una P.E.C. diversa da quella riferibile al legale in base agli appositi registri e riconducibile ad altro professionista, senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa alla dichiarazione di domiciliazione (Sez. 3, n. 30720/2022, Scarano, Rv. 666067-01).

Il ricorso per revocazione è, invece, inammissibile quando, dietro la parvenza dell’allegazione di un errore di fatto rilevabile “ictu oculi” e in maniera incontrovertibile alla luce delle risultanze di causa, censuri, ai sensi degli artt. 391-bis, comma 1, e 395, n. 4 c.p.c., l’interpretazione che il provvedimento impugnato, sulla scorta di un’esatta percezione dei fatti, abbia dato del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, corollario di quello di specificità sancito dall’art. 366, comma 1, n. 6 del codice di rito (in questi termini Sez. L, n. 29750/2022, Cerulo, Rv. 665931-01, secondo cui, data per pacifica la mancata trascrizione dell’atto di precetto, ritenuta in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il dissenso sulla necessità o meno di detta trascrizione non costituiva una doglianza attinente alla erronea percezione di un fatto), oppure quando sia proposto ai sensi degli artt. 362 c.p.c. e 111 Cost., censurandosi la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, giacché con esso non viene posta una questione di sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, dedotta una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è consentito ricorrere in sede di legittimità in base alle anzidette norme (Sez. U, n. 01603/2022, Rubino, Rv. 663722-01).

6. L’opposizione di terzo.

L’art. 404, c.p.c. prevede, al primo comma, che un terzo possa fare opposizione contro la sentenza, passata in giudicato o comunque esecutiva, pronunciata tra altre persone quando questa pregiudichi i suoi diritti (opposizione ordinaria) e, al secondo comma, che gli aventi causa e i creditori di una delle parti possano fare opposizione alla sentenza, quando sia l’effetto di dolo o collusione a loro danno. Il relativo procedimento è disciplinato dagli artt. 405 e ss. c.p.c. (opposizione revocatoria).

Come sostenuto da Sez. 3, n. 22710/2022, Cricenti, Rv. 665396-01, il terzo che, per effetto di una sentenza resa “inter alios” e passata in giudicato, abbia subito un pregiudizio giuridico, consistente nell’affermazione di un diritto incompatibile con quello che ritiene di vantare, non può proporre un autonomo giudizio per far valere tale diritto, ma deve esercitare l’opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404, comma 1, c.p.c. (in applicazione di tale principio, è stata cassata senza rinvio la sentenza resa sulla domanda di accertamento dell’inadempimento dell’obbligazione di pagamento del prezzo di una cessione di quote sociali, in quanto in un altro giudizio, promosso dai convenuti nei confronti del solo figlio dell’attore, con decisione passata in giudicato, era stato accertato che il ricorrente non aveva diritto al pagamento del prezzo delle quote cedute).

L’opposizione di terzo avverso una sentenza di appello può essere proposta dai litisconsorti necessari pretermessi fin dal primo grado, anche ove questi abbiano dedotto esclusivamente la violazione dell’integrità del contraddittorio, atteso che il giudizio su tale impugnazione si esaurisce nella sola fase rescindente trovando applicazione, per effetto del rinvio contenuto nell’art. 406 c.p.c., l’art. 354 c.p.c., che per la violazione del contraddittorio preclude al giudice di secondo grado di decidere la controversia nel merito, prevedendo la rimessione delle parti davanti al primo giudice (Sez. 2, n. 01441/2022, Bertuzzi, Rv. 663627-01).

Molteplici sono le fattispecie esaminate dalla Corte di cassazione anche nell’anno in rassegna, che, in concreto, hanno dato luogo ad un’opposizione di terzo ordinaria.

In particolare, è stata considerata suscettibile di opposizione di terzo ordinaria da colui che abbia acquistato a titolo derivativo la proprietà, la sentenza che abbia accertato l’acquisto per usucapione della proprietà di un bene in favore di un soggetto e nei confronti di chi, per effetto di un atto a titolo derivativo si era già spogliato del proprio diritto, in epoca anteriore alla data di introduzione del giudizio di usucapione, senza che possa assumere efficacia impeditiva la mancata trascrizione del titolo di acquisto atteso che, ai fini della produzione dell’effetto traslativo della proprietà ex art. 1376 c.c., rileva la sola conclusione dell’accordo manifestato nelle forme di legge (Sez. 6-2, n. 31807/2022, Criscuolo, Rv. 665997-01); oppure la sentenza resa “inter alios” che abbia ordinato la demolizione della cosa, anche qualora il comproprietario non specifichi il “pregiudizio” ex art. 404, comma 1 c.p.c., giacché questo, e il correlativo interesse ad impugnare, sono “in re ipsa”, discendendo dalla natura del “decisum”, implicante la distruzione della cosa oggetto del diritto sostanziale (in applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 35457/2022, Oliva, Rv. 666320-01, ha, in particolare, cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva escluso il litisconsorzio necessario tra due coniugi comproprietari in un giudizio di condanna alla rimozione di una veranda abusiva); oppure la sentenza che pregiudica le ragioni del soggetto che assume di essere proprietario dell’immobile oggetto di un procedimento di esecuzione per rilascio iniziato da chi, a sua volta, si professa proprietario dello stesso immobile sulla base di una sentenza che ne ha accertato l’usucapione all’esito di un precedente giudizio svoltosi contro un terzo, potendo egli far valere la sua pretesa dominicale attraverso tale azione avverso la sentenza che ne pregiudica le ragioni, di cui può altresì chiedere la sospensione ai sensi dell’art. 407 c.p.c., e non con il rimedio previsto dall’art. 615, comma 1 c.p.c. (Sez. 2, n. 08590/2022, Giannaccari, Rv. 664239-01); oppure la sentenza d’appello che, accogliendo la domanda dei condomini rimasti in causa in un caso di litisconsorzio facoltativo in cause scindibili, abbia pregiudicato i diritti del condomino, che, rimasto soccombente in primo grado, non abbia avanzato gravame in ordine alla domanda da lui spiegata. In questo caso, Sez. 2, n. 31827/2022, Scarpa, Rv. 665993-01, ha, appunto, affermato che, quando più condomini agiscono nello stesso processo verso altro condomino o verso un terzo sia per la cessazione delle immissioni a tutela della rispettiva unità immobiliare di proprietà esclusiva, sia a difesa della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., si determina una ipotesi di litisconsorzio facoltativo in cause scindibili, sicché, ove l’appello avverso la sentenza di primo grado, che abbia rigettato tutte le domande, sia proposto soltanto da alcuni degli attori originari, trova applicazione l’art. 332 c.p.c. e le pronunce non impugnate nei termini di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c. divengono irrevocabili, con la conseguenza che il condomino, rimasto soccombente in primo grado e che non abbia avanzato gravame in ordine alla domanda da lui spiegata, non può dedurre quali motivi di ricorso per cassazione questioni che abbiano formato oggetto di motivi specifici di appello proposti da altri condomini, né, in caso di accoglimento di questo appello, può ricorrere per cassazione, stante il difetto di soccombenza, ma è eventualmente legittimato, nel caso in cui abbia subito pregiudizio dalla sentenza pronunciata tra le parti rimaste in causa, a proporre giustappunto l’opposizione di terzo ai sensi dell’art 404, comma 1, c.p.c., oppure a proporre l’ opposizione di terzo all’esecuzione, ai sensi dell’art. 619 c.p.c., ove lamenti che sia l’esecuzione del titolo formatosi “inter alios” ad incidere sulla sua posizione.

L’opposizione di terzo revocatoria può, invece, essere proposta dal socio di una società di capitali, non nella sua qualità, onde far valere il pregiudizio patrimoniale che il danno al patrimonio sociale abbia prodotto sul valore della sua quota di partecipazione, attesa la natura meramente riflessa e non autonomamente risarcibile di tale pregiudizio, ma quale creditore della società, allorché abbia effettuato dazioni di denaro in favore dell’ente, che abbiano natura di vero e proprio finanziamento, riconducibile allo schema del mutuo, idoneo a far sorgere un credito restitutorio certo e non meramente eventuale (in tal senso, Sez. 6-1, n. 15875/2022, Campese, Rv. 664782-01, che ha cassato con rinvio la sentenza di merito, che aveva ritenuto il socio non legittimato a proporre opposizione di terzo avverso un lodo arbitrale, non avendo accertato se egli fosse anche creditore della società, verificando se la dazione di denaro da lui erogata avesse natura di finanziamento, non imputabile a capitale di rischio, e non di conferimento).

  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione del lavoro
  • impiegato dei servizi pubblici

CAPITOLO XVI

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Antonella Filomena Sarracino )

Sommario

1 La giurisdizione nelle controversie di lavoro e previdenziali. - 1.1 Riparto tra giudice italiano e giudice straniero. - 1.2 In tema di rinvio pregiudiziale. - 1.3 Giurisdizione e vicende del rapporto di impiego pubblico. - 1.4 Pubblico impiego privatizzato e giurisdizione contabile. - 2 La competenza. - 3 Il giudice: incompatibilità, imparzialità, astensione. - 4 Il conferimento della procura all’avvocato e la perpetuatio dello ius postulandi. - 5 Il giudizio di primo grado e di appello. Il rito cd. Fornero. - 5.1 Inammissibilità del gravame e motivazione anche nel merito. - 6 Il giudizio innanzi al giudice di legittimità: questioni. - 7 Il giudizio di rinvio. - 8 Il processo previdenziale ed assistenziale. - 9 La revocazione. - 10 In tema di giudicato. - 11 Questioni in tema di: tentativo di conciliazione, onere della prova, limiti alla prova testimoniale, dovere del giudice di pronunziare su tutta la domanda, motivazione riguardo alla CTU, spese legali. - 12 Sulla prevedibilità delle decisioni giudiziarie.

1. La giurisdizione nelle controversie di lavoro e previdenziali.

Nel corso dell’anno 2022, le Sezioni Unite, quanto ai rapporti di lavoro, hanno avuto modo di esaminare una pluralità di questioni che involgono la giurisdizione, nei rapporti con i giudici stranieri, nel riparto tra giudice amministrativo e giudice ordinario e tra quest’ultimo ed il giudice contabile.

1.1. Riparto tra giudice italiano e giudice straniero.

In tema di rapporti di lavoro prestato in Italia da cittadini italiani in favore degli organi militari e degli uffici civili dei Paesi aderenti alla NATO, l’art. 9 della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, resa esecutiva in Italia con l. n. 1355 del 1955, prevede che le condizioni di impiego e di lavoro delle persone assunte per i bisogni locali di manodopera - in particolare per quanto riguarda il salario, gli accessori e le condizioni di protezione dei lavoratori - al fine del soddisfacimento di esigenze materiali (cd. personale a statuto locale), sono regolate conformemente alla legislazione in vigore nello Stato di soggiorno. Ne consegue, ha affermato Sez. U, n. 02849/2022, Perrino, Rv. 663784-01, che sussiste la giurisdizione del giudice italiano a conoscere dell’azione intrapresa dal sindacato ai sensi dell’art. 28 st.lav., considerato che le “condizioni di protezione” presidiate dall’art. 9 della Convenzione sono appunto garantite dalla presenza sindacale attiva nei luoghi di lavoro, in applicazione degli artt. 2 e 39 Cost., che riconoscono l’azione sindacale come proiezione del riconoscimento e delle garanzie dei diritti inviolabili dei lavoratori, a ciò non ostando né che all’epoca della sottoscrizione e ratifica della predetta Convenzione non esistesse ancora lo Statuto dei lavoratori (venendo in rilievo un rinvio formale e non recettizio) né la configurabilità della responsabilità penale per il caso di inottemperanza al decreto ex art. 28 st.lav. (ipotesi rientrante nella disciplina prevista dalla medesima Convenzione).

Quanto alla controversia instaurata da una dipendente dell’Ambasciata degli Emirati Arabi Uniti in Italia, per il riconoscimento di differenze retributive, risarcimento danni da mobbing e da omissione contributiva, le S.U. hanno ritenuto, in base al principio dell’immunità ristretta, che sussista la giurisdizione del giudice italiano, atteso che la decisione richiesta attiene solo ad aspetti patrimoniali e non è, pertanto, idonea ad incidere sull’autonomia e le potestà pubblicistiche dell’ente estero; tale giurisdizione, in base ad una lettura coordinata dell’art. 11, par. 2, lett. f), della Convenzione delle Nazioni Unite, adottata a New York il 2 dicembre 2004, e ratificata in Italia con la l. n. 5 del 2013, e dell’art. 21 del Reg. CE n. 44/2001, è derogabile convenzionalmente, fatte salve considerazioni d’ordine pubblico, solo nei limiti in cui l’accordo attributivo di competenza, pattuito anteriormente al sorgere di una controversia, individuando dei fori aggiuntivi, offra la possibilità al lavoratore di adire, oltre ai giudici normalmente competenti, in applicazione delle norme speciali degli artt. 18 e 19 del Regolamento citato, altri giudici, ivi compresi quelli situati al di fuori dell’Unione (sul punto, cfr. Sez. U, n. 18801/2022, Esposito, Rv. 665034-01).

1.2. In tema di rinvio pregiudiziale.

Con Sez. L, n. 36776/2022, Rv. 666224-01, si è poi puntualizzato che in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, non sussiste alcun obbligo del giudice nazionale di ultima istanza di rimettere alla stessa Corte di giustizia UE la questione interpretativa del diritto unionale, ogni volta in cui - vertendosi in ipotesi di “acte clair” - la corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea è così ovvia da non lasciare spazio a nessun ragionevole dubbio, nonché nel caso - configurante un “acte éclairé” - nel quale la Corte ha già interpretato la questione in un caso simile ed in materia analoga in un altro procedimento in uno degli Stati membri.

1.3. Giurisdizione e vicende del rapporto di impiego pubblico.

In relazione ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità fisica, proposta da un dipendente in regime di diritto pubblico (nella specie, un professore universitario) nei confronti dell’Amministrazione, la soluzione della questione del riparto della giurisdizione è strettamente connessa all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se trattasi di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, se trattasi di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene, invece, al giudice ordinario. Al fine di tale accertamento è necessario considerare i tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, oppure se la condotta lesiva dell’amministrazione presenti caratteri tali da escluderne qualsiasi incidenza nella sfera giuridica di soggetti ad essa non legati da rapporto d’impiego; ne consegue che, ove venga dedotta la responsabilità contrattuale per violazione di specifici obblighi di protezione dei lavoratori, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche con riguardo all’azione per il danno complementare e differenziale (così Sez. U, n. 04872/2022, Tricomi, Rv. 664031-01).

In materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a procedure concorsuali nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, Sez. U, n. 04870/2022, Marotta, Rv. n. 663850-01, ha ritenuto che la cognizione della domanda, avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale, riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo “scorrimento” della graduatoria del concorso espletato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, facendosi valere, al di fuori dell’ambito della procedura concorsuale, il “diritto all’assunzione”. Nel caso di specie, la S.C. ha affermato che, in caso di rinuncia di un soggetto utilmente collocato in graduatoria, ai fini della giurisdizione del giudice ordinario rispetto al diritto allo “scorrimento” del ricorrente, non assumesse rilevanza la conformità a legge della scelta dell’ente locale di attingere ai lavoratori socialmente utili per la copertura dei posti vacanti.

Del pari in tema di giurisdizione, Sez. U, n. 22566/2022, Patti, Rv. 665451-01, in relazione alla posizione di un candidato collocato utilmente in graduatoria nell’ambito di una procedura concorsuale nel pubblico impiego contrattualizzato, il giudice di legittimità ha puntualizzato che spetta al giudice ordinario la cognizione della causa con la quale il concorrente faccia valere il proprio diritto all’assunzione, contestando le modalità di scorrimento della graduatoria, mentre, ove l’affermazione di tale diritto richieda la negazione degli effetti del provvedimento con cui l’Amministrazione abbia scelto di indire una nuova procedura concorsuale, anziché attingere alla menzionata graduatoria, la controversia è devoluta al giudice amministrativo, poiché investe l’esercizio di un potere di organizzazione degli uffici, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo.

Nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, in una causa in cui era stato prospettato il diritto allo scorrimento della graduatoria, a fronte della decisione della Ausl di coprire i posti vacanti tramite un nuovo concorso, senza procedere allo scorrimento della graduatoria di un concorso precedente, relativo, tra l’altro, a un diverso profilo professionale.

Il conferimento, da parte di un ente pubblico, di un incarico ad un professionista non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo, secondo quanto statuito da Sez. U, n. 09314/2022, Tricomi, Rv. 664226-01, costituisce espressione non di una potestà amministrativa, bensì di semplice autonomia privata ed è funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta parasubordinazione - da ricondurre pur sempre al lavoro autonomo - anche nella ipotesi in cui la collaborazione assuma carattere continuativo ed il professionista riceva direttive ed istruzioni dall’ente, onde anche la successiva delibera di revoca dell’incarico riveste natura non autoritativa, ma di recesso contrattuale, con conseguente attribuzione della controversia alla cognizione del giudice ordinario che, peraltro, assicura piena tutela con l’eventuale disapplicazione dell’atto presupposto.

Del pari spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, afferma Sez. U, n. 10215/2022, Giusti, Rv. n. 664228-01, la controversia avente ad oggetto il diniego di congedo retribuito, richiesto dal dipendente pubblico, ai sensi dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, per prestare assistenza ad un familiare convivente con handicap in situazione di gravità, essendo il diniego un atto di gestione del rapporto di lavoro fra la pubblica amministrazione e il dipendente che, pertanto, esula dall’ambito dei provvedimenti amministrativi autoritativi e si compendia in un atto adottato in base alla capacità e ai poteri propri del datore di lavoro privato, rispetto al quale sono configurabili soltanto diritti soggettivi.

La domanda proposta dai dipendenti dell’ARPAV, volta ad ottenere la condanna del datore al pagamento delle differenze arretrate in relazione alle quote residue dei fondi contrattuali, sottolinea Sez. U, n. 33365/2022, Garri, Rv. 666191-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto tutela la lesione del diritto soggettivo al pagamento di differenze sulla retribuzione, rispetto alla quale la illegittimità del mancato incremento dei fondi ad opera del datore, pur dedotta, costituisce una censura verificabile dal giudice in via incidentale.

Per Sez. U, n. 16767/2022, Mancino, Rv. 664755-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario anche la controversia avente ad oggetto l’efficacia di singole clausole di un contratto integrativo, che attiene a tipiche situazioni di diritto soggettivo, quali quelle nascenti dall’esercizio dell’autonomia contrattuale, in applicazione dell’art. 63, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, che devolve alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all’art. 40, rilevando la natura delle situazioni giuridiche implicate non solo nella fase procedimentale e precontrattuale, ma a maggior ragione una volta che il contratto sia effettivamente concluso, e dovendo riferirsi l’espressione “procedure”, di cui al citato comma 3 dell’art. 63, a qualsivoglia controversia inerente alle vicende suddette, dal momento delle trattative a quello del perfezionamento e dell’applicazione del contratto collettivo di qualsiasi livello.

Il principio è stato affermato in tema di fondi per la remunerazione del lavoro straordinario e di condizioni di particolare disagio, per la produttività collettiva e per il miglioramento del servizio, per il premio della qualità della prestazione individuale, nonché per il finanziamento delle fasce retributive, delle posizioni organizzative, del valore comune, dell’indennità professionale specifica.

Alla giurisdizione ordinaria, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, spetta pure la controversia sul diritto dell’INPS a procedere al recupero di somme già erogate a titolo di indennità di buonuscita agli avvocati dell’ente, venendo in rilievo un’azione di accertamento dell’illegittimità della richiesta restitutoria, posta in essere con gli strumenti privatistici di gestione del rapporto di lavoro (in tal senso si veda Sez. U, n. 24028/2022, Tricomi, Rv. 665454-01).

Sez. U, n. 28467/2022, Esposito, Rv. 665680-01, in tema di personale docente, ha statuito che le controversie sul conferimento di deleghe, ex art. 25, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 (come autenticamente interpretato dall’art. 14, comma 22, del d.l. n. 95 del 2012, conv. dalla l. n. 135 del 2012), rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto nell’affidamento di compiti specifici a determinati docenti non può ravvisarsi un provvedimento pubblicistico, ma un atto privatistico tipicamente gestionale del rapporto di lavoro, senza che assuma alcun rilievo, ai fini anzidetti, la discrezionalità che, in detto ambito, compete al dirigente scolastico.

Per contro, secondo Sez. 6-L, n. 07640/2022, Di Paolantonio, Rv. 664079-01, l’azione risarcitoria proposta nei confronti della pubblica amministrazione in relazione al danno prodotto dalla cancellazione dalle liste di collocamento non rientra fra le controversie previste dall’art. 409, n. 5, c.p.c., non venendo in rilievo una responsabilità derivante dal rapporto di lavoro ma dall’applicazione dei principi generali relativi alla responsabilità della predetta pubblica amministrazione; ne consegue l’applicazione della sospensione dei termini ex art. 1 della l. n. 742 del 1969 all’atto di riproposizione successivo alla dichiarazione di difetto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo.

Il rapporto di lavoro del personale della Polizia di Stato non è stato privatizzato, ma resta soggetto alla disciplina pubblicistica, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001; ne consegue che, come sottolineato da Sez. U, n. 11772/2022, Esposito L., Rv. 664489-01, la domanda proposta da un appartenente alla Polizia di Stato per ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un’infermità, ai fini della corresponsione dell’equo indennizzo, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Le controversie aventi ad oggetto la domanda di transito dai ruoli militari ai ruoli civili, ai sensi dell’art. 386 c.p.c. - secondo il quale la giurisdizione va determinata sulla base dell’oggetto della domanda, verificato alla stregua del “petitum” sostanziale - appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo quanto precisato da Sez. U, n. 20852/2022, Garri, Rv. 665082-01, atteso che, fino a quando non viene formalizzato il passaggio, il richiedente rimane nei ruoli militari e la pretesa, azionata per ottenere coattivamente dal giudice il riconoscimento del diritto, attiene allo svolgimento del rapporto di lavoro del militare, rimasto in regime di diritto pubblico, ex art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituendo il transito una misura di salvaguardia della posizione lavorativa per il caso di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento di determinate mansioni, pur persistendo l’idoneità allo svolgimento di altri compiti, seppure riferibili a ruoli diversi dell’amministrazione (quelli civili).

Alla stessa stregua, la giurisdizione per le controversie concernenti il rapporto di lavoro del personale militare, ivi comprese quelle riguardanti la ripetizione di indebito per somme non dovute, spetta in via esclusiva al giudice amministrativo, in quanto relative a rapporti di lavoro in regime di diritto pubblico, a norma dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 (così Sez. U, n. 30346/2022, Patti, Rv. 665914-01).

Per la vicinanza alle questioni trattate, va qui rammentata anche Sez. U, n. 01393/2022, Conti, Rv. 663718-01, in cui si afferma che poiché il militare di leva obbligatorio non è legato all’amministrazione da un rapporto di pubblico impiego, ma da un mero rapporto di servizio privo del carattere della spontaneità, destinato a cessare dopo il periodo di utilizzazione, ne consegue che la controversia promossa da un militare di leva nei confronti della P.A. per far valere pretese di natura patrimoniale, spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, vertendosi in materia di diritti soggettivi ed essendo esclusa l’esistenza di una controversia riconducibile a quelle espressamente devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il principio è stato dal giudice di legittimità enunziato in una fattispecie relativa al risarcimento del danno tanatologico - consistente nelle sofferenze prodotte dalla crescente consapevolezza dell’imminente decesso, trasferite “iure ereditatis” - subito da un militare a seguito della contrazione di un linfoma di Hodkin in conseguenza dell’impiego di uranio impoverito durante un’operazione militare all’estero.

Sez. L, n. 18327/2022, Spena, Rv. 664920-01, ricorda che la controversia avente ad oggetto il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un teatro di tradizione o di una istituzione concertistica orchestrale, ai sensi dell’art. 28 della l. n. 800 del 1967, (nella specie, la Fondazione Arturo Toscanini), atteso che la trasformazione di tali enti in fondazioni di diritto privato, disposta dal d.lgs. n. 367 del 1996, deve ritenersi inoperante, non risultando ancora emanato il relativo decreto ministeriale di attuazione, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario se tali enti sono di proprietà privata, ed alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se il teatro o l’orchestra sono gestiti direttamente da un ente locale nell’ambito della sua organizzazione tipica e con gli strumenti propri dell’azione amministrativa, permanendo, comunque, la natura privata dei rapporti di lavoro alle dipendenze di tali istituzioni, con la conseguente attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario, se l’ente pubblico si avvalga per l’esercizio di detta attività di un’organizzazione distinta e separata dalla struttura pubblicistica, dotata di autonomia patrimoniale, finanziaria e contabile.

Sez. L, n. 26820/2022, Tricomi, Rv. 665481- 01, ha altresì evidenziato che nelle controversie del pubblico impiego contrattualizzato, qualora il giudice ordinario di primo grado, investito di una domanda unitaria, relativa ad un rapporto di lavoro che abbraccia un arco temporale anteriore e successivo al 30 giugno 1998, rispetto alla quale non rileva il discrimine temporale ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, abbia declinato la propria giurisdizione sulla parte di domanda relativa al periodo anteriore al 30 giugno 1998 e deciso nel merito quella relativa al periodo successivo, mentre il giudice di secondo grado affermi la propria giurisdizione anche per il periodo precedente, non ricorre il presupposto di applicazione dell’art. 353 c.p.c., in quanto il primo giudice ha conosciuto anche nel merito della domanda, che rileva nella sua unitarietà, con sostanziale effetto sul periodo anteriore.

1.4. Pubblico impiego privatizzato e giurisdizione contabile.

Per Sez. U, n. 04114/2022, Grasso, Rv. 663844-01, appartiene alla giurisdizione contabile la controversia avente a oggetto l’azione del Procuratore contabile finalizzata al recupero, all’apposito fondo perequativo in favore dei dipendenti, dell’importo ingiustamente percepito dal pubblico dipendente che abbia svolto attività lavorativa remunerata in assenza di autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, essendosi in presenza di illecito erariale, consistente nell’inadempimento del lavoratore all’obbligo di corrispondere immediatamente alle casse dell’Erario quanto indebitamente percepito, e senza la necessità di una previa messa in mora.

Tocca, sia pur incidentalmente, i temi del riparto di giurisdizione con il giudice contabile, anche Sez. L, n. 04871/2022, Tricomi, Rv. 663851-01, in cui si delimita la giurisdizione del giudice amministrativo, affermata sulla domanda proposta dalla P.A. per la ripetizione delle somme indebitamente percepite dal dipendente pubblico per lo svolgimento di attività extraistituzionale non autorizzata dall’amministrazione di appartenenza, precisando che essa sussiste anche nel caso in cui sia stata contemporaneamente avviata l’azione di responsabilità erariale dinanzi alla Corte dei conti per i medesimi fatti materiali, attesa la assoluta autonomia tra le due azioni che, presentano presupposti diversi, avendo, la prima, una funzione riparatoria ed integralmente compensativa del danno e, la seconda, una funzione prevalentemente sanzionatoria, di modo che esse sono reciprocamente indipendenti, senza che possa prospettarsi una violazione del principio del ne bis in idem.

2. La competenza.

Quanto alla competenza in materia di lavoro, in tema di lavoro giornalistico, Sez. 6-L, n. 12907/2022, Cinque, Rv. 664504-01, ha precisato che l’ufficio di corrispondenza - quale luogo ove il giornalista corrispondente provvede alla elaborazione di notizie, provenienti da qualsiasi settore dell’area di corrispondenza, ed alla loro trasmissione in via continuativa alla redazione centrale, a prescindere dalla sussistenza o meno di una struttura multipersonale e di una dotazione di specifici mezzi datoriali - è tale anche se coincidente con l’abitazione privata del giornalista e configura quindi una “dipendenza alla quale è addetto il lavoratore”, rilevante ai sensi dell’art. 413 c.p.c. per le determinazioni sulla competenza per territorio.

Ai fini della individuazione della competenza per territorio del giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto di lavoro, Sez. 6-L, n. 14657/2022, Amendola F., Rv. 664714-01, ha poi affermato che il meccanismo previsto dagli artt. 1326, comma 1, e 1335 c.c. opera solo se manchino elementi per ritenere che una conoscenza dell’intervenuta accettazione si è avuta nel medesimo contesto di tempo e di luogo in cui è avvenuta la sottoscrizione della proposta per accettazioneM; in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto la competenza del tribunale nel cui circondario risultava redatta la lettera di assunzione e iniziata la prestazione, in assenza di elementi che consentissero di ritenere una pattuizione “inter absentes” e dunque di radicare la competenza nel luogo ove si trovava la sede della società.

3. Il giudice: incompatibilità, imparzialità, astensione.

La dedotta incompatibilità di uno dei cinque componenti del collegio decidente, non costituendo una svista percettiva rilevante ex art. 391 bis c.p.c., non integra né errore revocatorio, né è causa di nullità della decisione impugnata (Sez. L, n. 30112/2022, Amendola F., Rv. 665758-01).

L’autorizzazione del giudice ad astenersi, resa dal capo dell’ufficio ai sensi dell’art. 51, comma 2, c.p.c., costituisce atto sostanzialmente amministrativo, soggetto a forma scritta e la revoca dell’autorizzazione, attraverso la quale il giudice riacquista la capacità di compiere gli ulteriori atti processuali, deve essere parimenti resa dal capo dell’ufficio in forma scritta, previa valutazione del venir meno delle gravi ragioni di convenienza che erano alla base dell’autorizzazione revocata; ne consegue che la mancanza di tale atto di revoca determina un vizio di costituzione del giudice, che dà luogo a nullità della sentenza; in tal senso si è espressa Sez. L, n. 04768/2022, Spena, Rv. 663875-01.

La mancanza di imparzialità del giudicante - ha evidenziato Sez. L, n. 02165/2022, Negri Della Torre, Rv. 663735-01 - pur potendo rilevare sotto il diverso profilo deontologico e disciplinare, non produce la nullità della sentenza ove non incida sulla correttezza della decisione in quanto il nostro sistema processuale è caratterizzato dal principio di tassatività delle nullità, che limita le ipotesi di nullità degli atti processuali ai soli casi di espressa previsione di legge o di mancato raggiungimento dello scopo.

4. Il conferimento della procura all’avvocato e la perpetuatio dello ius postulandi.

La procura al difensore apposta a margine o in calce al ricorso per cassazione o anche su un foglio separato ma congiunto materialmente al ricorso, è, per sua natura, speciale e non richiede alcuno specifico riferimento al processo in corso, sicché é irrilevante la mancanza di un espresso richiamo al giudizio di legittimità ovvero che la formula adottata faccia cenno a poteri e facoltà solitamente rapportabili al procedimento di merito. Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto validamente rilasciata la procura, apposta su foglio separato unito al ricorso, il cui contenuto, seppur formulato genericamente, non si presentava incompatibile con la volontà della parte di conferire mandato ai fini della proposizione del ricorso per cassazione, atteso il richiamo all’art. 373 c.p.c. (così Sez. L, n. 09935/2022, Di Paola, Rv. 664232-01).

In materia di protezione internazionale - ha affermato Sez. L, n. 24265/2022, Boghetich, Rv. 665334-01 - la procura speciale per il ricorso per cassazione per le materie regolate dall’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008 e dalle disposizioni di legge successive che ad esse rimandano, deve contenere in modo esplicito l’indicazione della data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato e richiede che il difensore certifichi, anche solo con un’unica sottoscrizione, sia la data della procura successiva alla comunicazione, che l’autenticità della firma del conferente. Tale principio trova applicazione anche nei procedimenti instaurati avverso i provvedimenti dell’Unità Dublino, atteso che l’art. 3, comma 3 septies, del citato d.lgs., con riferimento alla procura speciale, ha la medesima formulazione del citato art. 35 bis, comma 13.

Per effetto del principio della cd. perpetuatio dell’ufficio di difensore (di cui è espressione l’art. 85 c.p.c.), nessuna efficacia può dispiegare, nell’ambito del giudizio di cassazione (oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio), la sopravvenuta rinuncia che il difensore del ricorrente abbia comunicato alla Corte prima dell’udienza di discussione già fissata, ha puntualizzato Sez. L, n. 28365/2022, Caso, Rv. 665734-01.

Nella specie, la S.C., rilevato che il giudizio di legittimità era stato ritualmente introdotto in base a ricorso recante valida procura, rispetto alla disposizione di cui all’art. 35 bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, rilasciata all’originario difensore, ha considerato ininfluente la rinuncia al mandato di quest’ultimo e la verifica di conformità alla citata disposizione del mandato poi conferito a diverso difensore.

5. Il giudizio di primo grado e di appello. Il rito cd. Fornero.

In tema di rinnovazione della notifica dell’atto introduttivo del giudizio, va rammentata Sez. 6-L, n. 35741/2022, Buffa, Rv. 666169-01, che si pone sulla scorta di un consolidato orientamento del giudice di legittimità (cfr. tra le tante, l’ultima massimata Sez. L, n. 22032/2010, Roselli F., Rv. 615509-01).

Viene infatti ribadito che l’ordine di rinnovo della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio (disposto ai sensi dell’art. 291 c.p.c. e, per il rito del lavoro, ai sensi dell’art. 421 c.p.c.) è provvedimento che corrisponde ad uno specifico modello processuale, potendo e dovendo essere emesso sempre che si verifichi la situazione normativamente considerata; ne consegue che l’atto che dispone la rinnovazione della notifica quando una rituale notifica vi sia già stata deve ritenersi nullo ai sensi dell’art. 156 c.p.c., perché non riconducibile al relativo modello processuale, in quanto emesso al di fuori delle ipotesi consentite e perché inidoneo a raggiungere il proprio scopo, consistente nella valida instaurazione del contraddittorio, essendo tale scopo già stato raggiunto per la ritualità della notifica della quale è stata erroneamente disposta la rinnovazione. La nullità del suddetto atto si trasmette agli atti successivi che ne dipendono, onde non può negarsi l’interesse ad affermare che l’ordine di rinnovazione è stato impartito al di fuori delle ipotesi consentite, in chi, destinatario inottemperante del medesimo, abbia poi subito le conseguenze della propria inottemperanza.

Nella specie, la S.C., in applicazione del principio, ha cassato la sentenza di secondo grado che – in presenza di atto di riassunzione notificato all’estero, tramite il Consolato di Londra che si era avvalso del servizio postale inglese, e con attestazione del mancato ritiro del plico - aveva dapprima ordinato la rinnovazione della notifica, ritenendo non provata la ricezione dell’atto da parte del destinatario residente all’estero, e poi dichiarato l’estinzione del giudizio, senza accertare se la notifica effettuata fosse valida secondo le disposizioni dello Stato di destinazione.

Quanto alla forma dell’appello, Sez. L, n. 24386/2022, Boghetich, Rv. 665335-01, in conformità con Sez. 3, n.24587/2018, Fiecconi, Rv. 650677-01, ha statuito che l’appello erroneamente proposto con ricorso, anziché con atto di citazione, è ammissibile ove sia notificato entro il termine di impugnazione; né rileva, in senso ostativo alla maturazione della decadenza dalla facoltà di proporre gravame, la circostanza che il decreto di fissazione dell’udienza sia stato emesso e comunicato dopo lo spirare di tale termine, poiché il tempestivo deposito del ricorso è soltanto uno degli elementi che concorre alla potenziale sanatoria dell’errore nella scelta del rito, non potendo la parte, relativamente agli altri elementi che non sono nella propria disponibilità, pretendere che l’ufficio provveda in tempi sufficienti a garantire detta sanatoria, né, tantomeno, invocare il diritto alla rimessione in termini, giacché l’errore sulla forma dell’atto di appello non è sussumibile nella causa non imputabile. Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva dichiarato inammissibile, perché tardivo, l’appello avverso la decisione su un’opposizione ad ordinanza ingiunzione - instaurata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011 proposta con ricorso anziché con citazione e notificata oltre il termine di 60 giorni.

Si è occupata del tema della possibilità di dichiarare inammissibile l’appello in caso di proposizione di querela di falso, Sez. L, n. 12453/2022, Cavallaro, Rv. 664601-01, affermando che in caso di proposizione di querela di falso, non può essere dichiarata l’inammissibilità dell’appello, ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., in quanto, trattandosi di causa in cui è obbligatorio l’intervento del P.M., tale declaratoria è preclusa dalla lettera dell’art. 348-bis c.p.c.; tale esclusione, che vale anche nelle ipotesi in cui il giudice dichiari la querela inammissibile, ritenendo integrata un’ipotesi di riempimento del foglio non absque, ma contra pacta, non opera ove la querela venga ritenuta nulla per mancata indicazione degli elementi e delle prove della falsità del documento, non sussistendo in tal caso l’obbligo di intervento del P.M. (in conformità con la precedente Sez. 3, n. 12920/2020, D’Arrigo, Rv. 658178-01.

Nel rito c.d. Fornero, di cui all’art. 1, commi 47 e ss., della l. n. 92 del 2012 - ha inoltre puntualizzato Sez. L, n. 05649/2022, Leo, Rv. 663989-01 - non è prevista la lettura del dispositivo in udienza e l’eventuale pronuncia, che comunque vi sia stata, costituisce una mera anticipazione della pubblicazione del dispositivo rispetto alla motivazione, di tal che non è ravvisabile alcuna nullità della sentenza depositata, successivamente, entro il termine di dieci giorni dalla data dell’udienza di discussione, di cui al comma 57 del citato art. 1, essendo fatta salva la finalità acceleratoria del rito speciale e non configurandosi alcun pregiudizio del diritto di difesa ai fini dell’impugnazione, i cui termini decorrono dal deposito della motivazione.

Dell’erronea scelta del rito, con riferimento ai rapporti tra il rito cd. Fornero e quello ordinario ex art. 414 c.p.c. si è poi occupata Sez. L, n. 02312/2022, Esposito, Rv. 663789-01, sottolineando che il ricorso proposto dal lavoratore ai sensi della l. n. 92 del 2012, ancorché dichiarato inammissibile per erroneità del rito, è idoneo ad impedire la decadenza prevista dall’art. 6 della l. n. 604 del 1966 con riferimento al successivo ricorso presentato dal medesimo lavoratore contro il licenziamento ex art. 414 c.p.c., poiché con la prima impugnazione è tempestivamente emersa la sua volontà di ottenere una pronuncia giudiziale e, comunque, il citato art. 6, derogando alla disciplina generale delle impugnative negoziali, è disposizione eccezionale da interpretare restrittivamente, sicché non è consentito un ampliamento in via interpretativa delle ipotesi di decadenza da esso previste.

Le Sezioni Unite hanno inoltre avuto modo di sottolineare che nel rito cd. Fornero, è ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto in pendenza del termine per l’opposizione ex art. 1, comma 51, della l. n. 92 del 2012, che costituisce una fase a cognizione piena nell’ambito dello stesso grado di giudizio, in quanto la pronunzia adottata all’esito della fase sommaria è suscettibile di essere rivista nel giudizio di opposizione anche d’ufficio ed a prescindere da una censura della parte interessata (cfr. Sez. U, n. 33362/2022, Garri, Rv. 666190-01).

5.1. Inammissibilità del gravame e motivazione anche nel merito.

In tema di impugnazione, ritiene Sez. L, n. 29529/2022, Cavallaro, Rv. 665839-01, allorché il giudice di appello, dopo aver rilevato l’inammissibilità del gravame, così privandosi della “potestas iudicandi”, abbia comunque esaminato il merito dell’impugnazione, poiché queste ultime argomentazioni restano puramente ipotetiche e virtuali, deve ritenersi inammissibile il ricorso in cassazione con il quale si pretenda un sindacato in ordine alla motivazione di merito svolta “ad abundantiam”, senza censurare la statuizione di inammissibilità, atteso che su questa unica “ratio decidendi” giuridicamente rilevante della sentenza impugnata si è formato il giudicato.

Ove il giudice, però, pur avendo dichiarato il ricorso inammissibile, anche in dispositivo, abbia proceduto al suo esame nel merito, esprimendosi, con motivazione preponderante e diffusa, nel senso della infondatezza, è ammissibile l’impugnazione della motivazione concernente sia l’inammissibilità che il merito, dovendosi riconoscere l’interesse della parte soccombente all’impugnazione di quello che si configura come un provvedimento di rigetto nel merito; ne consegue che in sede di legittimità, nonostante l’accoglimento della doglianza concernente l’inammissibilità, il motivo attinente al merito va comunque esaminato e non può reputarsi assorbito, avuto anche riguardo al principio di economia dei mezzi processuali (cfr. Sez. L, n. 28364/2022, Caso, Rv. 665733-01).

6. Il giudizio innanzi al giudice di legittimità: questioni.

Quanto ai profili di inammissibilità del giudizio di legittimità, Sez. L, n. 19775/2022, Cavallaro, Rv. 665078-01, evidenzia che è inammissibile il ricorso per cassazione notificato dopo la lettura del dispositivo e prima del deposito delle motivazioni, ferma restando la possibilità di tempestiva proposizione di un nuovo ricorso successivamente al deposito, non ostandovi il disposto dell’art. 358 c.p.c., a norma del quale soltanto l’intervenuta dichiarazione giudiziale di inammissibilità o improcedibilità del gravame - e non anche la semplice pendenza di una impugnazione in sé inammissibile o improcedibile - vale a precludere la sua valida rinnovazione, sempre che il termine utile non sia ancora decorso. Il principio generale dell’impugnabilità della sentenza solo dopo che sia depositato in cancelleria del testo, completo di dispositivo e motivazione e sia venuto a compimento il relativo procedimento di formazione, si applica, infatti, anche al rito del lavoro e soffre la sola deroga eccezionalmente prevista dall’art. 433 c.p.c. (appello con riserva di motivi), per il caso in cui sia stata intrapresa l’esecuzione forzata sulla base del dispositivo letto in udienza.

Sempre in tema di inammissibilità del giudizio di legittimità, si è precisato che la mancanza nella copia notificata del ricorso per cassazione, il cui originale risulti tempestivamente depositato, di una o più pagine non comporta l’inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica sanabile, con efficacia “ex tunc”, mediante nuova notifica di una copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell’intimato, salva la possibile concessione a quest’ultimo di un termine per integrare le sue difese (così Sez. L, n. 02537/2022, Patti, Rv. 663672-01). Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha rilevato che, nella fattispecie, la mancanza, nella copia notificata, dell’ultima pagina con le conclusioni non aveva pregiudicato l’intellegibilità del ricorso da parte del controricorrente, che aveva svolto difese nel merito esaurienti e pienamente consapevoli.

Con riguardo al ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, Sez. L, n. 24750/2022, Cavallaro, Rv. 665464-02, ha statuito che lo stesso ha natura di ricorso condizionato e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Non costituisce decisione implicita quella di merito adottata senza espressa pronunzia sulla tempestività o meno dell’azione giudiziaria rispetto ad una decadenza sostanziale comminata dalla legge.

In tema di limiti al giudizio di legittimità, per essere la questione riservata all’esame dei giudici di merito, vanno ricordate una pluralità di pronunzie.

Sez. L, n. 14669/2022, Boghetich, Rv. 664693-01, ha ricordato che l’accertamento se la parte abbia chiesto una pronuncia soltanto di condanna generica ovvero estesa al “quantum” attiene all’interpretazione della domanda, da condurre facendo esclusivo riferimento all’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ed è sottratto al sindacato di legittimità se correttamente motivato dal giudice di merito.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva interpretato la domanda, avente ad oggetto il trattamento retributivo, proposta senza alcuna specificazione nè quantificazione delle somme pretese, come diretta ad ottenere una condanna generica al pagamento dei suddetti emolumenti e indennità.

Del pari riservata al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità, è l’interpretazione degli accordi integrativi ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, sempre che nella motivazione non siano riscontrabili anomalie denunciabili ex art 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nuova formulazione; detta interpretazione va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, senza alcuna priorità dei due criteri, che devono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale, in un razionale gradualismo dei mezzi di interpretazione (Sez. L, n. 11666/2022, Pagetta, Rv. 664469-01).

Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, ricostruendo la volontà delle parti alla luce del tenore lessicale delle disposizioni del contratto integrativo aziendale Auchan del 2007 e verificando la coerenza del significato attribuito al testo con gli scopi perseguiti, aveva escluso che la voce retributiva “ex premio aziendale individuale ad personam”, per effetto di novazione, costituisse un premio individuale, incorporato nei singoli contratti individuali, e come tale insensibile alle modifiche non consensuali.

Alla stessa stregua, anche la valutazione circa la sussistenza degli elementi dai quali inferire l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato costituisce un accertamento di fatto, rispetto al quale il sindacato della Corte di cassazione è equiparabile al più generale sindacato sul ricorso al ragionamento presuntivo da parte del giudice di merito; pertanto, il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto come subordinato o autonomo è censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. solo per ciò che riguarda l’individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, per come tipizzati dall’art. 2094 c.c., mentre è sindacabile nei limiti ammessi dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. allorché si proponga di criticare il ragionamento (necessariamente presuntivo) concernente la scelta e la ponderazione degli elementi di fatto, altrimenti denominati indici o criteri sussidiari di subordinazione, che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (in tal senso, Sez. L, n. 22846/2022, Cavallaro, Rv. 665324-01).

Sulla stessa scia, Sez. L, n. 10745/2022, Cavallaro, Rv. 664334-02, ha ulteriormente puntualizzato che l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., anche nell’ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, nel ricostruire la volontà collettiva consacrata nell’Accordo Istituzionale tra la Regione Calabria e le parti sociali, in ordine al termine di presentazione delle domande per la mobilità in deroga, aveva ritenuto tardiva l’istanza presentata oltre il termine di 90 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, omettendo tuttavia di considerare, da un lato, la previsione negoziale circa la decorrenza del termine in questione anche dalla data “di cessazione di sostegno al reddito ordinario” e, dall’altro, la deduzione del ricorrente di aver fruito del trattamento di disoccupazione ordinaria.

Sulla scorta di un consolidato orientamento del giudice di legittimità, viene altresì ribadito che il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico (così Sez. L, n. 34189/2022, Di Paola, Rv. 666179-01).

Sempre in tema di ricorso per cassazione, avuto riguardo, invece, alla deduzione della questione dell’inammissibilità dell’appello, a norma dell’art. 342 c.p.c., integrante “error in procedendo”, che legittima l’esercizio, ad opera del giudice di legittimità, del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, si è sottolineato che detta questione presuppone pur sempre l’ammissibilità del motivo di censura, avuto riguardo al principio di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 4 e n, 6, c.p.c., che deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa Succi ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dalla trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza” (così Sez. L, n. 03612/2022, Patti, Rv. 663837-01).

Con riferimento all’ordinanza interlocutoria con la quale si dispone la rimessione alla pubblica udienza dall’adunanza camerale ex art. 380-bis, ultimo comma, c.p.c., Sez. L, n. 20544/2022, Mancino, Rv. 665118-01, ha precisato che detta ordinanza non dispiega effetti sull’ampiezza della cognizione, il cui oggetto verrà definito e delimitato a seguito della celebrazione della pubblica udienza, ma soltanto sulla modalità della cognizione stessa, rendendo necessario in concreto, come presupposto del suo esercizio, il contraddittorio orale tra le parti. Nella specie, la S.C., in relazione ad una ordinanza interlocutoria che, nel rimettere la causa alla pubblica udienza, aveva escluso la preclusione della proponibilità di una eccezione in appello, ha precisato che non poteva assumersi cassato o travolto un capo della sentenza gravata per effetto di statuizioni introdotte nella predetta ordinanza interlocutoria.

Da ultimo quanto al canale di accesso di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., si è precisato che la “decisività” del fatto, il cui omesso esame costituisce un vizio della sentenza censurabile per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), deve essere, a pena di inammissibilità del motivo, chiaramente allegata dal ricorrente, che è tenuto a rappresentare non solo quale sia il fatto di cui sia stato omesso l’esame, ma anche il rapporto di derivazione diretta tra l’omesso esame e la decisione, a lui sfavorevole, della controversia (cfr. Sez. L, n. 29954/2022, Leone, Rv. 665823-01).

Sez. L, n. 29763/2022, Cerulo, Rv. 665820-01, ha inoltre ricordato che la sentenza di primo grado che qualifichi come opposizione agli atti esecutivi quella proposta avverso l’avviso di addebito ex art. 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010, è impugnabile unicamente con il ricorso per cassazione, in mancanza del quale le relative statuizioni non possono essere rimesse in discussione attraverso l’impugnazione della pronuncia di secondo grado che le abbia confermate, in considerazione dell’avvenuta formazione del giudicato interno.

Della correzione degli errori materiali delle pronunzie del giudice di legittimità si è occupata da ultimo Sez. L, n. 36579/2022, Amendola F., Rv. 666206-01, affermando che il ricorso per correzione di errore materiale di una sentenza della S.C. per omessa pronuncia sulla distrazione delle spese può essere proposto dal difensore, fermo restando che, concernendo la correzione sia la posizione del soggetto passivo della condanna nelle spese, sia quella del soggetto attivo, riguardo al quale il difensore ha esercitato il suo ministero, il ricorso (o l’istanza) devono essere notificati ad entrambi, e l’omessa notifica disposta dalla S.C. determina l’inammissibilità del ricorso.

7. Il giudizio di rinvio.

Sez. L, n. 31908/2022, Di Paola, Rv. 665983-01, ha affermato che in caso di cassazione con rinvio per vizio di sussunzione della concreta ipotesi disciplinare, nella previsione della contrattazione collettiva - nello specifico veniva in rilievo un’ipotesi di licenziamento disciplinare - il giudice di rinvio, nel rinnovare detto giudizio di sussunzione, è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di effettuare una nuova valutazione della condotta contestata.

L’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla “regula iuris” enunciata dalla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., viene meno quando la norma da applicare in aderenza a tale principio sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente alla pronuncia rescindente, dovendo, in questo caso, farsi applicazione del diritto sopravvenuto (e, cioè, alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità), che travalica il principio di diritto enunciato dalla sentenza di rinvio; ne consegue che - a seguito degli interventi della Corte costituzionale sull’apparato sanzionatorio da applicare in caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 18, comma 7, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012 - il giudice del rinvio, accertata l’insussistenza del fatto posto a base di tale licenziamento, deve ordinare, in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica (così Sez. L, n. 30167/2022, Boghetich, Rv. 665840-01).

Per la vicinanza con il tema introdotto dalla pronunzia innanzi ricordata, va qui segnalata anche Sez. L, n. 20446/2022, Cavallaro, Rv. 665117-01, nella quale è stato indagato il tema della operatività dello “ius superveniens” costituito da una pronunzia di incostituzionalità in danno della parte impugnante.

In essa si è affermato che la previsione dell’art. 136 Cost., secondo cui la declaratoria di incostituzionalità di una norma di legge comporta che quest’ultima cessi di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, deve essere raccordata con i principi generali dell’ordinamento in materia di impugnazioni, e, in particolare, con quello secondo cui la funzione giurisdizionale di legittimità è esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse; ne consegue che, essendo i poteri del giudice dell’impugnazione determinati con riferimento all’impugnazione (tempestiva) delle parti, la mancata impugnazione della parte che potrebbe giovarsi della pronuncia di incostituzionalità impedisce che lo “ius superveniens” costituito dalla sentenza della Corte costituzionale possa operare in danno della parte impugnante, ostandovi il divieto di “reformatio in peius” di cui al combinato disposto degli artt. 100 e 112 c.p.c. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che l’inammissibilità del ricorso principale avente ad oggetto la sola questione della configurabilità dell’evasione - invece che dell’omissione - contributiva e la conseguente sopravvenuta inefficacia del ricorso incidentale tardivo, concernente anche la sussistenza del debito contributivo, precludesse l’applicazione dello “ius supeveniens” conseguente alla pronuncia della Corte cost. n. 104 del 2022 di illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 12, del d.l. n. 98 del 2011, conv. dalla l. n. 111 del 2011, nella parte in cui non prevede che gli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle soglie di reddito o di volume d’affari, di cui all’art. 22 della l. n. 576 del 1980, tenuti all’obbligo di iscrizione alla Gestione separata costituita presso l’INPS, siano esonerati dal pagamento delle sanzioni civili per l’omessa iscrizione con riguardo al periodo anteriore alla sua entrata in vigore.

8. Il processo previdenziale ed assistenziale.

In tema di prestazioni previdenziali e assistenziali, l’improponibilità della domanda giudiziaria derivante dalla mancata presentazione della domanda amministrativa all’ente previdenziale determina una temporanea carenza di giurisdizione, la quale, tuttavia, non è assimilabile al difetto assoluto di giurisdizione di cui agli artt. 37 e 382, comma 3, c.p.c., che si ha solo quando la situazione dedotta in giudizio resti al di fuori del campo giuridico per difetto di una norma o di un principio dell’ordinamento che la tuteli e non sia, quindi, neppure in astratto configurabile come diritto soggettivo o come interesse legittimo. In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha ritenuto precluso l’esame della questione di giurisdizione, essendo intervenuto il giudicato implicito sulla statuizione del primo giudice che, dichiarando improponibile la domanda per difetto di presentazione della domanda amministrativa, aveva implicitamente affermato la propria cognizione sul merito (così Sez. L, n. 10745/2022, Cavallaro, Rv. 664334-01).

In tema di spese di lite nei giudizi di previdenza e assistenza, Sez. L, n. 12454/2022, Cavallaro, Rv. 664516-01, ha poi escluso che alla parte soccombente non abbiente sia applicabile la previsione di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., sia in ragione di un argomento di carattere letterale, visto che l’art. 152 disp. att. c.p.c. fa salva l’applicazione alle controversie in esame del solo comma 1 del citato art. 96, sia di una interpretazione logico-sistematica che tenga conto della diversa “ratio” dei due commi, configurando il comma 1 una forma speciale di responsabilità extracontrattuale, derivante da un illecito processuale, mentre il comma 3, nel perseguire le finalità pubblicistiche correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, commina una sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.

Sez. L, n. 30594/2022, Cerulo, Rv. 665838-01, ai fini dell’esenzione dal pagamento di spese, competenze e onorari, nei giudizi per prestazioni previdenziali o assistenziali, ha altresì precisato che la dichiarazione sostitutiva di certificazione delle condizioni reddituali, da inserire nelle conclusioni dell’atto introduttivo, ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c., come modificato dall’art. 42, comma 11, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif., dalla l. n. 326 del 2003, è inefficace se non è sottoscritta dalla parte, poiché a tale dichiarazione la norma connette un’assunzione di responsabilità non delegabile al difensore, stabilendo che l’interessato si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito; ne consegue l’efficacia della dichiarazione sostitutiva, sottoscritta dalla parte, anche se redatta su foglio separato, purché materialmente congiunta al ricorso, così da formarne parte integrante, e richiamata nelle conclusioni del ricorso medesimo, mentre non è prescritta, come requisito di efficacia, l’autentica del difensore.

9. La revocazione.

Sez. L, n. 21315/2022, Garri, Rv. 665129-01, ha evidenziato che i ricorsi per cassazione contro la decisione di appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima vanno riuniti in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità nonostante si tratti di due gravami aventi ad oggetto distinti provvedimenti, atteso che la connessione esistente tra le due pronunce giustifica l’applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione contro la sentenza di appello l’esito di quello riguardante la sentenza di revocazione.

Per Sez. L, n. 29750/2022, Cerulo, Rv. 665931-01, è poi inammissibile il ricorso per revocazione che, dietro la parvenza dell’allegazione di un errore di fatto rilevabile “ictu oculi” e in maniera incontrovertibile alla luce delle risultanze di causa, censuri, ai sensi degli artt. 391-bis, comma 1, e 395, n. 4 c.p.c., l’interpretazione che il provvedimento impugnato, sulla scorta di un’esatta percezione dei fatti, abbia dato del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, corollario di quello di specificità sancito dall’art. 366, comma 1, n. 6 del codice di rito. Nella specie, la S.C. ha ritenuto che, pacifica la mancata trascrizione dell’atto di precetto, ritenuta in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il dissenso sulla necessità o meno di detta trascrizione non costituisse una doglianza attinente alla erronea percezione di un fatto.

Tratta del tema della correzione dell’errore materiale e della revocazione, Sez. 6-L, n. 35736/2022, Di Paolantonio, Rv. 666165-01, in cui si afferma che in tema di esenzione dal pagamento di spese, competenze e onorari nei giudizi per prestazioni previdenziali, in presenza di una dichiarazione resa nelle forme di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c., la statuizione del giudice sulla regolazione di spese ha un contenuto sostanzialmente predeterminato, e quindi obbligato, sicché la mancata valutazione della richiesta di esenzione è emendabile attraverso il rimedio della correzione dell’errore materiale nel quale, eventualmente, può essere convertito il ricorso per revocazione.

10. In tema di giudicato.

In tema di giudicato, Sez. L, n. 12754/2022, Calafiore, Rv. 664480-01, ha statuito che nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. Si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto; ne consegue che, quando la domanda è rigettata in primo grado in applicazione del termine di prescrizione correlato alla sua qualificazione giuridica, se il giudice d’appello procede d’ufficio ad una diversa qualificazione della stessa, alla quale è riferibile un differente termine prescrizionale, non opera il giudicato interno sul termine di prescrizione individuato dal primo giudice in correlazione alla qualificazione originaria della domanda.

In materia di dirigenza pubblica, il giudicato di rigetto della domanda volta ad ottenere il riconoscimento della parte variabile della retribuzione di posizione non impedisce la proposizione di un nuovo giudizio per il risarcimento del danno derivante dalla mancata graduazione delle funzioni, non essendo applicabile il principio della preclusione da cd. “dedotto e deducibile”, stante la diversità obiettiva dei fatti costitutivi tra l’azione - di prestazione dirigenziale, in sé idonea a quantificare la quota variabile della retribuzione, e quella - di risarcimento del danno da inadempimento - che si basa sul non avere il datore di lavoro dato corso a quanto necessario, ed a suo carico, per la determinazione di quella graduazione (così Sez. 6-L, n. 29111/2022, Bellè, Rv. 665804-01).

Della formazione del giudicato in caso di emissione di d.i. nei confronti dei soci di una società di persona si occupa Sez. L, n. 36942/2022, Cerulo, Rv. 666202-01, statuendo che il decreto ingiuntivo emesso nei confronti dei soci di una società di persone acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti di quello, tra loro, che non abbia proposto tempestiva opposizione, il quale non può giovarsi dell’estensione degli effetti dell’accoglimento dell’opposizione proposta da altro coobbligato, dal momento che la facoltà prevista dall’art. 1306, comma 2, c.c., presuppone, oltre a un’espressa dichiarazione in tal senso, che il condebitore sia rimasto estraneo al giudizio, non potendogli, pertanto, giovare ove questi sia vincolato da un giudicato formatosi direttamente nei suoi confronti, in virtù della mancata opposizione contro il decreto ingiuntivo.

11. Questioni in tema di: tentativo di conciliazione, onere della prova, limiti alla prova testimoniale, dovere del giudice di pronunziare su tutta la domanda, motivazione riguardo alla CTU, spese legali.

L’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto all’art. 65 del d.lgs. n. 165 del 2001, vigente “ratione temporis”, costituisce, al pari di quello di cui all’art. 412 bis c.p.c. - norme entrambe abrogate dalla l. n. 183 del 2010 - una condizione di procedibilità della domanda nel processo del lavoro, la cui mancanza deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c. e può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice, purché non oltre l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., con la conseguenza che ove l’improcedibilità dell’azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio (così Sez. L, n. 14759/2022, Spena, Rv. 664694-01).

Quanto ai limiti all’esperibilità della prova per testimoni, nell’ambito del licenziamento, Sez. L, n. 26532/2022, Michelini, Rv. 665480, ha affermato che, essendo il recesso datoriale atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, non è ammissibile la prova per testi, salvo che il documento sia andato perduto senza colpa, né tale divieto può essere superato con l’esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. e non sui requisiti di forma richiesti per l’atto. Nella specie, la S.C. ha affermato l’inefficacia del licenziamento per difetto di forma in relazione ad una lettera di licenziamento, priva di data certa, escludendo che la forma scritta del recesso datoriale e la modalità della sua comunicazione, potessero essere provate in via testimoniale.

Quanto alla delimitazione della domanda e del dovere del giudice di pronunciarsi entro detti confini, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., il giudice di legittimità ha ribadito che esso va riferito all’istanza con la quale la parte chiede l’emissione di un provvedimento giurisdizionale in merito al diritto sostanziale dedotto in giudizio, sicché non è configurabile un vizio di infrapetizione per l’omessa adozione, da parte del giudice, di un provvedimento di carattere ordinatorio, come quello relativo alla sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c. (cfr. Sez. L, n. 24812/2022, Marchese, Rv. 665466-01).

Sulla distribuzione dell’onere della prova, con riguardo al licenziamento collettivo, Sez. L, n. 15228/2022, Patti, Rv. 664698- 01, in continuità con Sez. L, n. 27165/2009, Zappia, Rv. 611301-01, ha ribadito che in tema di licenziamento collettivo, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di allegazione dei criteri di scelta e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell’anzianità e delle mansioni, incombe al lavoratore dimostrare l’illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata. Ne consegue che, ove il datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a consentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di comparare la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è ravvisabile in capo al lavoratore.

Con riguardo alla CTU, in conformità con l’orientamento già seguito dal giudice di legittimità (si veda Sez. 1, n. 17399/2015, Rv. 636775-01), si è ribadito che la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento, specie a fronte di una domanda di parte, costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza. Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che, nel giudizio avente ad oggetto la domanda proposta dagli eredi di un gestore di una stazione di servizio carburanti, per l’accertamento dell’origine lavorativa di una patologia tumorale ad eziologia multifattoriale (linfoma non Hodgkin) contratta dal dante causa, aveva respinto la richiesta di disporre una c.t.u. medico legale volta all’accertamento del nesso causale tra l’attività lavorativa e l’esposizione a benzene, e rigettato la domanda, limitandosi a rilevare la mancanza di connessione tra la patologia tumorale del “de cuius” con il suo ambiente di lavoro (così Sez. L, n. 37027/2022. Michelini, Rv. 666208-01).

Del caso di espletamento di una pluralità di CTU, si occupa Sez. L, n. 31511/2022, Cavallaro, Rv. 665999-02, statuendo che qualora nel corso del giudizio di merito vengano espletate più consulenze tecniche in tempi diversi e con risultati difformi, la sentenza che abbia motivato uniformandosi ad una sola di esse può essere censurata per cassazione solo nei ristretti limiti dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ossia qualora l’omessa considerazione dell’altra relazione peritale si sia tradotta nell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

Infine, in tema di spese processuali, Sez. 6-L, n. 35753/2022, Buffa, Rv. 666322-01, trattando della maggiorazione del compenso in relazione agli atti redatti con modalità informatiche idonee ad agevolarne la consultazione, precisa che detto aumento rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, esercitabile solo qualora il difensore abbia specificato il contenuto degli atti redatti con tali modalità e le tecniche informatiche utilizzate per consentire la ricerca testuale e la navigazione all’interno degli stessi ed è sindacabile in sede di legittimità solo se siano controllabili le ragioni che ne abbiano giustificato l’esercizio, che è basato su un apprezzamento di fatto delle tecniche in concreto adoperate.

12. Sulla prevedibilità delle decisioni giudiziarie.

Da ultimo va ricordata Sez. L, n. 33012/2022, Cinque, Rv. 666013-01, per aver affrontato, nell’alveo dei principi fondanti il processo, le questioni che attengono alla prevedibilità della decisione e agli obblighi imposti al giudicante, affermando che la prevedibilità delle decisioni giudiziarie costituisce principio generale del diritto dell’Unione, da collegarsi a quelli del giusto processo, di uguaglianza e di stabilità delle situazioni giuridiche, di modo che esso va considerato come una condizione essenziale per la fiducia di cui le autorità giudiziarie devono godere in uno Stato di diritto, sicché non è consentito discostarsi da precedenti emessi in sede di legittimità senza una plausibile giustificazione.

  • vendita
  • esecuzione della pena
  • esecuzione della sentenza
  • espropriazione

CAPITOLO XVII

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Titolo esecutivo. - 2 Spedizione in forma esecutiva e notifica del titolo. - 3 Precetto. - 4 Intervento nel processo esecutivo. - 5 Espropriazione mobiliare ed espropriazione presso terzi. - 6 Espropriazione immobiliare. - 6.1 (Segue) le regole della vendita immobiliare. - 6.2 (Segue) la stabilità della vendita forzata. - 7 Le esecuzioni in forma specifica. - 8 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 9 Opposizione all’esecuzione. - 10 Opposizione agli atti esecutivi. - 11 Sospensione ed estinzione dell’esecuzione.

1. Titolo esecutivo.

In ossequio al brocardo “nulla executio sine titulo”, che trova riscontro nel disposto dell’art. 474 c.p.c., l’imposizione del vincolo di pignoramento sul bene deve fondarsi su requisiti di legittimità formale e, cioè, l’avvio dell’azione esecutiva deve avvenire in forza di un titolo esecutivo esistente, valido ed efficace, ma le vicende relative al titolo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva (Sez. U, n. 00061/2014, Spirito, Rv. 628704-01).

In altre parole, se l’azione esecutiva è stata avviata in forza di un titolo esecutivo valido ed efficace, il pignoramento può continuare a spiegare effetti, in forza della c.d. “oggettivizzazione del titolo”, per la quale è sufficiente che, nel corso della procedura esecutiva, sussista almeno un titolo (da qualsiasi creditore posseduto, stante la struttura soggettiva “aperta” del processo ex latere creditoris) dall’inizio alla fine, senza soluzione di continuità; tuttavia, un’espropriazione forzata intrapresa per il recupero di un credito riconosciuto inesistente alla data del pignoramento è inficiata dall’originaria carenza del titolo esecutivo e tutti gli atti esecutivi sono affetti da invalidità, senza che possa assumere rilievo il successivo deposito di un atto d’intervento, fondato su un diverso credito, da parte dello stesso creditore procedente (Sez. 3, n. 23477/2022, Saija, Rv. 665605-01, si pone in continuità con la citata Sez. U, n. 00061/2014, Spirito, Rv. 628704-01, secondo cui il difetto originario del titolo posto a fondamento dell’azione esecutiva del creditore procedente impedisce che l’azione prosegua su impulso degli interventori titolati).

Nel corso del 2022 il titolo esecutivo è stato oggetto di alcune importanti decisioni delle Sezioni Unite.

Si segnala, in primis, Sez. U, n. 05633/2022, Scoditti, Rv. 664034-01, pronuncia che ha risolto una questione di massima di particolare importanza indicata dall’ordinanza interlocutoria di Sez. L, n. 12944/2021, Calafiore, non oggetto di massimazione; in particolare, il collegio rimettente si domandava se il titolo esecutivo costituito da una sentenza definitiva dovesse essere considerato, in sede esecutiva e di opposizione esecutiva, a) alla stregua di un “fatto”, rilevante non come decisione della controversia, bensì come titolo rappresentativo di un “diritto certo, liquido ed esigibile” (ai sensi dell’art. 474 c.p.c.) da soddisfare in sede esecutiva, e conseguentemente censurabile in sede di legittimità nei limiti dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. (secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante), oppure, al contrario, b) come quaestio juris e, dunque, censurabile nei diversi limiti della violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.

Così inquadrata la questione sottoposta (“ciò che deve qui verificarsi è se il giudicato possa rilevare all’interno del giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi quale valore giuridico o quale fatto”), nell’elaborata decisione sopra menzionata il supremo collegio della nomofilachia addiviene a riconoscere al titolo esecutivo giudiziale e già res iudicata il significato di “valore giuridico”, che rileva nel giudizio di opposizione esecutiva non già quale vincolo (esterno) per l’accertamento giurisdizionale, ma quale “diritto sostanziale del caso concreto” (in altri termini, “ciò che «fa stato» non è la sentenza passata in giudicato ma «l’accertamento» ivi contenuto”, sicché “il diritto sostanziale che trova applicazione con riferimento al rapporto non è quello previsto dalla legge generale e astratta, ma è quello corrispondente all’accertamento contenuto nella sentenza costituente cosa giudicata formale”).

Ne consegue che, in caso di denunciata violazione (in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) dell’art. 2909 c.c. con riferimento alla cosa giudicata corrispondente al titolo esecutivo giudiziale, il giudice di legittimità ha il potere e il dovere di interpretare il titolo esecutivo, perché “il giudicato somministra il diritto sostanziale applicabile per l’accertamento del diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata o per l’accertamento della legittimità degli atti esecutivi”.

In ordine alla sottoposizione della questione al giudice di legittimità, poiché il dovere di ricerca del diritto – secondo il principio “iura novit curia” – si riferisce soltanto al precetto generale e astratto facente parte del sistema gerarchico delle fonti, il ricorso per cassazione col quale si deduca la violazione dell’art. 2909 c.c. per erronea interpretazione, nell’opposizione esecutiva, del titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato deve contenere, a pena di inammissibilità, la specifica e rigorosa indicazione del precetto sostanziale di cui si denuncia l’errata interpretazione (ex art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c.) e (per l’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c.) della parte del provvedimento giurisdizionale passato in giudicato contenente il precetto sostanziale, nonché dell’eventuale elemento extratestuale, ritualmente acquisito nel giudizio di merito, che sia rilevante per l’interpretazione del giudicato (Sez. U, n. 05633/2022, Scoditti, Rv. 664034-02).

Un’altra importante decisione ha riguardato il titolo esecutivo costituito dal mutuo fondiario. Ci si riferisce, in particolare, a Sez. U, n. 33719/2022, Lamorgese, Rv. 666194-01 (investita della questione di massima di particolare importanza individuata dall’ordinanza interlocutoria di Sez. 1, n. 04117/2022, Vella), che ha risolto l’annoso problema degli effetti del superamento del limite di finanziabilità previsto dall’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993.

Sulla questione si erano registrati diversi e opposti orientamenti nella giurisprudenza di legittimità: secondo Sez. 1, n. 26672/2013, Ragonesi, Rv. 628977-01, il superamento del limite di finanziabilità non comporta alcuna nullità, neppure relativa, del contratto; al contrario, per Sez. 1, n. 17352/2017, Terrusi, Rv. 644846-01, il limite ex art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993 costituisce elemento essenziale del mutuo fondiario, con la conseguenza che il suo mancato rispetto ne determina la nullità (salva la possibilità di conversione in ordinario finanziamento ipotecario ove sussistano i presupposti ex art. 1424 c.c.); ancora diversa è la decisione di Sez. 3, n. 17439/2019, De Stefano, Rv. 654435-01, secondo cui la violazione della regola sul limite di finanziabilità assume rilievo ai fini della qualificazione del contratto di mutuo come fondiario, senza inficiarne in toto la validità, ma soltanto ai fini dell’applicabilità della disciplina di privilegio, sostanziale e processuale, per il creditore.

Con la succitata pronuncia, le Sezioni Unite hanno statuito, sostanzialmente ribadendo l’orientamento più risalente (espresso da Sez. 1, n. 26672/2013, Ragonesi, Rv. 628977-01), che la soglia di finanziabilità non è un elemento essenziale del mutuo fondiario, giacché non attiene al suo contenuto, né è posta a presidio della validità del negozio, ma costituisce un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto contrattuale; la violazione dell’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993 (norma di natura non imperativa), dunque, non può in alcun modo determinare la nullità del contratto e rileva ai soli fini della c.d. “vigilanza prudenziale” esercitata dall’Autorità di vigilanza sul sistema bancario.

La sentenza Sez. U, n. 33719/2022, Lamorgese, Rv. 666194-02, aggiunge altresì che, anche in ipotesi di superamento del limite di finanziabilità, non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto prescelto dalle parti e univocamente riconducibile al modello legale del mutuo fondiario, tantomeno allo scopo di neutralizzarne gli effetti legali propri.

Sempre in tema di titolo esecutivo costituito da un mutuo e, segnatamente, da un “mutuo solutorio” (cioè, stipulato per ripianare una pregressa esposizione debitoria del mutuatario verso il mutuante) si è pronunciata Sez. 3, n. 23149/2022, Rossetti, Rv. 665427-01, la quale – in dichiarato contrasto con Sez. 1, n. 01517/2021, Dolmetta, Rv. 660370-01, e con Sez. 1, n. 20896/2019, Dolmetta, Rv. 655022-01 – ha escluso che il predetto negozio possa essere nullo per contrarietà alla legge o all’ordine pubblico o che il medesimo possa essere qualificato alla stregua di una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente oppure quale “pactum de non petendo” in ragione della pretesa mancanza di un effettivo spostamento di denaro; infatti, al fine di integrare la “datio rei” propria del mutuo, l’accredito delle somme erogate sul conto corrente è sufficiente a porre l’importo del finanziamento nella disponibilità giuridica del mutuatario (per consentirgli, con l’estinzione di un debito pregresso, di purgare il patrimonio di una posta negativa).

Del resto, l’uscita del denaro dal patrimonio dell’istituto di credito mutuante, e l’acquisizione dello stesso al patrimonio del mutuatario, costituisce effettiva erogazione dei fondi, ancorché una parte delle somme erogare venga versata dalla banca su un deposito cauzionale infruttifero, destinato ad essere svincolato in conseguenza dell’adempimento degli obblighi e delle condizioni contrattuali (Sez. 3, n. 09229/2022, Fanticini, Rv. 664557-01, ha escluso che potesse disconoscersi la natura di titolo esecutivo a un contratto di mutuo, stipulato per atto pubblico, nel quale, subito dopo l’erogazione della somma pattuita, si prevedeva che la stessa fosse riconsegnata all’istituto di credito, al fine di essere custodita in un deposito cauzionale infruttifero a garanzia dell’adempimento di obbligazioni accessorie dei mutuatari).

Nel catalogo dei titoli esecutivi può includersi anche l’ordinanza di reclamo adottata dal collegio ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c.; sebbene i provvedimenti cautelari e gli interdetti possessori non diano luogo, di regola, ad esecuzione forzata, bensì ad attuazione, la conferma del rigetto della richiesta di reintegra nel possesso costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle spese di giudizio e sostituisce integralmente l’ordinanza reclamata (Sez. 3, n. 03291/2022, Saija, Rv. 663774-01, dove si precisa che, se l’esecuzione non ha avuto inizio in base al primo titolo esecutivo, va notificato il solo provvedimento emesso sul reclamo).

Va ascritto al novero dei titoli esecutivi idonei all’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare anche il verbale di conciliazione giudiziale: infatti – in difformità dalla risalente decisione di Sez. 3, n. 00258/1997, Calabrese, Rv. 501697-01 (secondo cui l’art. 612 c.p.c. menziona, come titolo, soltanto il provvedimento giudiziale di condanna, perché occorre un previo accertamento della fungibilità e della coercibilità dell’obbligo di fare o di non fare), ma sulla base delle statuizioni della sentenza n. 336 del 2002 della Corte costituzionale – Sez. 6-3, n. 28871/2022, Valle, Rv. 665767-01, ha affermato che il verbale ben può fondare l’esecuzione in forma specifica, perché i presupposti di fungibilità e coercibilità dell’obbligo sono stati vagliati in sede di formazione dell’accordo conciliativo dal giudice che lo ha promosso e sotto la cui vigilanza esso è stato concluso.

Per poter valere come titolo esecutivo, l’assegno bancario deve essere in regola, sin dall’origine, con l’imposta di bollo: l’assegno postdatato (recante data successiva a quella della sua emissione) ha il valore di una promessa di pagamento ed una funzione equivalente a quella del vaglia cambiario, sicché lo stesso va assoggettato ad imposta proporzionale al valore, così come previsto dall’art. 6 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 647 del 1972, non già ad imposta in misura fissa (Sez. 6-3, n. 35192/2022, Rossetti, Rv. 666424-01).

Quanto all’autenticità della sottoscrizione dell’assegno bancario impiegato come titolo esecutivo, la stessa può essere contestata con l’ordinario strumento processuale idoneo a contrastare l’apparenza dell’esecutività del titolo e, cioè, mediante il disconoscimento ex art. 214 c.p.c., con conseguente onere del creditore opposto che intenda valersi del titolo esecutivo stragiudiziale di chiederne la verificazione ai sensi dell’art. 216 c.p.c. (Sez. 3, n. 27381/2022, Guizzi, Rv. 665929-01, in difformità da Sez. 6-1, n. 28874/2019, L. Tricomi, Rv. 656092-01).

A norma dell’art. 474, comma 1, c.p.c., il credito individuato nel titolo esecutivo deve avere gli indefettibili connotati della certezza, liquidità ed esigibilità.

Perciò, è da considerare irrimediabilmente illegittimo un titolo esecutivo giudiziale che, nel dispositivo, si limiti a condannare al pagamento di accessori “dal dì del dovuto”, senza altra specificazione e senza espressa o implicita menzione di tale decorrenza nel corpo della motivazione (Sez. 3, n. 08576/2013, Rv. 625875-01); tuttavia, può rappresentare idoneo titolo esecutivo – anche per il credito relativo agli interessi – il decreto ingiuntivo che accoglie il ricorso monitorio “come da domanda”, sempre che, attraverso una interpretazione complessiva del provvedimento e del ricorso, sia possibile individuare una specifica richiesta di liquidazione degli interessi, nonché la determinazione di questi (Sez. 6-3, n. 10230/2022, Tatangelo, Rv. 664461-01).

Il fallimento del debitore opponente, sopraggiunto nel corso dell’opposizione, non determina affatto la caducazione del decreto ingiuntivo opposto, né l’inesistenza giuridica del provvedimento già emesso: perciò, il decreto monitorio costituisce titolo esecutivo contro il debitore tornato in bonis e giustifica l’intervento nella procedura esecutiva instaurata dopo la chiusura del fallimento (Sez. 3, n. 08110/2022, Fanticini, Rv. 664251-01); analogamente, Sez. 3, n. 26806/2022, Guizzi, Rv. 665899-01, ha statuito che il creditore munito di titolo nei confronti del soggetto poi fallito può agire in executivis contro il debitore tornato in bonis all’esito di un concordato fallimentare, senza che sia necessaria la pregressa insinuazione al passivo, la cui mancanza non determina l’estinzione del titolo.

Peculiari disposizioni limitano l’efficacia del titolo esecutivo, a salvaguardia di interessi pubblicistici, e tra queste rientra anche l’art. 35, comma 35 quinquies (aggiunto dall’art. 38, comma 1, lett. c), del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011), del d.l. n. 223 del 2006, norma che subordina la notificazione del titolo esecutivo e la promozione di azioni esecutive nei confronti degli enti previdenziali alla condizione che sia spirato il termine di 120 giorni decorrente dalla ricezione della prescritta richiesta stragiudiziale di pagamento delle somme dovute a titolo di spese, competenze e altri compensi in favore di procuratori legalmente costituiti; secondo Sez. 3, n. 04688/2022, Fanticini Rv. 663927-01, la citata norma trova applicazione anche in relazione ai titoli esecutivi formati anteriormente alla sua entrata in vigore, sicché, prima di notificare il titolo esecutivo o di procedere in executivis o anche solo di minacciare col precetto l’inizio dell’azione esecutiva, il creditore di dette somme è tenuto ad attendere lo spirare del menzionato termine.

L’esigenza di uno specifico titolo esecutivo è stata rimarcata con riguardo al recupero dell’indennità da abusiva occupazione di suolo pubblico: l’equiparazione, stabilita con regolamento comunale, della predetta indennità al canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche (c.d. “COSAP”) non consente all’amministrazione di agire direttamente con la riscossione coattiva mediante ruolo formato autonomamente, in quanto la pretesa creditoria attiene ad un’entrata patrimoniale di natura privatistica e, dunque, occorre munirsi preventivamente di un titolo (Sez. 3, n. 07188/2022, Saija, Rv. 664246-01).

2. Spedizione in forma esecutiva e notifica del titolo.

Nella sequenza disegnata dal vigente codice di rito, gli atti prodromici ad ogni tipologia di procedura esecutiva sono costituiti dalla spedizione in forma esecutiva del titolo, dalla sua notificazione, dalla notificazione dell’atto di precetto.

La spedizione del titolo in forma esecutiva (peraltro, abrogata dal d.lgs. n. 149 del 2022, di prossima applicazione) è, comunque, una formalità che non incide sul diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma soltanto sulle modalità con cui questa è avviata: perciò, l’opposizione di merito (sul diritto di agire in executivis) proposta dal debitore congiuntamente a quella di rito (volta a contestare la mancanza di tale formula) comporta, ex art. 156 c.p.c., la sanatoria dell’omissione, poiché la contestazione dell’esistenza del diritto di agire esecutivamente rivela che il debitore ha ben individuato sia il soggetto creditore, sia il debito per cui si procede, dimostrando così il raggiungimento dello scopo (Sez. 3, n. 14275/2022, Rossetti, Rv. 664642-01, in riferimento ad ordinanza di assegnazione pronunciata dal giudice dell’esecuzione all’esito del pignoramento presso terzi).

Peraltro, la notificazione del titolo munito di formula esecutiva non è richiesta nell’ipotesi prevista dall’art. 654, comma 2, c.p.c., secondo cui è necessario che nel precetto si faccia menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’apposizione della formula; la predetta norma si riferisce, evidentemente, al decreto ingiuntivo divenuto esecutivo dopo la sua emanazione (per essere stata rigettata l’opposizione all’ingiunzione o per essersi estinto il relativo giudizio), mentre il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ex art. 642 c.p.c. costituisce titolo perfettamente valido per l’esecuzione forzata e nell’atto di precetto, successivamente notificato al debitore, è sufficiente dare atto degli estremi della notificazione del provvedimento monitorio (Sez. 6-3, n. 08870/2022, Valle, Rv. 664466-01).

Si è rilevato, poi, che l’art. 654, comma 2, c.p.c. è norma eccezionale e, conseguentemente, trova applicazione solo in riferimento al decreto ingiuntivo, mentre il precetto fondato su titolo esecutivo costituito da mutuo fondiario non deve necessariamente indicare l’apposizione della formula esecutiva sull’atto, né la data di esecuzione di detta formalità (Sez. 3, n. 11242/2022, Fanticini, Rv. 664510-01).

Un’eccezione alla regola della notificazione del titolo esecutivo si rinviene nell’art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 385 del 1993, che esclude l’obbligo di preventiva notifica del mutuo fondiario; la predetta disposizione trova il suo presupposto (oggettivo) nella tipologia del credito azionato e, dunque, anche in caso di espropriazione diretta nei confronti del terzo proprietario del bene ipotecato, il titolare del credito fondiario è esonerato dalla previa notifica del titolo (Sez. 3, n. 27848/2022, Fanticini, Rv. 665930-02).

La notifica del titolo in forma esecutiva (e anche del precetto) costituisce, invece, formalità necessaria – in quanto prescritta a pena di nullità del precetto (da denunciare nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, comma 1, c.p.c.) – per promuovere l’azione esecutiva nei confronti del singolo condomino sulla base di un titolo esecutivo giudiziale formatosi nei confronti del condominio, posto che al destinatario dell’atto deve essere consentito lo spontaneo adempimento o, di contro, lo svolgimento di opportune contestazioni circa il proprio status di partecipe al condominio (Sez. 3, n. 20590/2022, Rossi, Rv. 665112-01, nello stesso senso di Sez. 6-3, n. 08150/2017, Rubino, Rv. 643823-01).

3. Precetto.

L’art. 480, comma 2, c.p.c., come modificato dal d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015, stabilisce che «Il precetto deve altresì contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un piano del consumatore».

La disposizione aveva suscitato perplessità (sulle finalità dell’avvertimento) e dubbi interpretativi (sulle conseguenze derivanti dalla mancanza del predetto contenuto): a dirimere le questioni è intervenuta Sez. 3, n. 23343/2022, Saija, Rv. 665436-01, chiarendo che l’avvertimento de quo, teso a rendere edotto l’esecutato della possibilità di porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento mediante le procedure di composizione della crisi di cui alla l. n. 3 del 2012, ha una finalità precipuamente “promozionale” delle citate procedure e statuendo altresì che l’omissione non determina alcuna nullità, bensì una mera irregolarità, dell’atto di intimazione.

Non costituisce requisito formale, prescritto a pena di nullità del precetto, nemmeno la mancata illustrazione del procedimento logico-giuridico e del calcolo matematico seguiti per determinare la somma indicata nell’atto di intimazione e domandata in base al titolo esecutivo (Sez. 3, n. 08906/2022, Tatangelo, Rv. 664254-01).

Nella riscossione coattiva, la cartella di pagamento funge (anche) da precetto (Sez. U, n. 33408/2021, Perrino, Rv. 662698-01): pertanto, la contestazione di suoi vizi formali va qualificata come opposizione agli atti esecutivi, appartenente alla competenza, per materia, del tribunale (non del giudice di pace) e, per territorio, del giudice del luogo di notifica dell’atto (Sez. 6-3, n. 03582/2022, Rossetti, Rv. 664072-01, ha accolto il regolamento dell’opponente avverso l’ordinanza del tribunale che, in relazione a cartella di pagamento emessa per la riscossione di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, aveva declinato la propria competenza in favore del giudice di pace del luogo in cui erano state commesse le infrazioni); inoltre, non è indispensabile che la cartella, emessa per la riscossione coattiva di spese di giustizia, rechi l’indicazione degli estremi identificativi o della data di notifica del precedente accertamento, giacché gli altri elementi che consentono l’individuazione univoca dell’atto presupposto sono di per sé idonei a tutelare il diritto di difesa del contribuente (Sez. 6-3, n. 07234/2022, Porreca, Rv. 664443-01).

Non riguarda, invece, aspetti meramente formali – bensì l’abuso del processo nelle forme dell’abusivo frazionamento del credito – la decisione di Sez. 3, n. 33443/2022, Guizzi, Rv. 666143-02, che, in tema di spese processuali, ha stigmatizzato il contegno del creditore procedente, il quale – dopo avere intimato al debitore, con un primo atto di precetto, il pagamento delle spese legali liquidate per il giudizio di appello conclusosi con la conferma della decisione adottata in prime cure – aveva poi notificato un successivo atto di precetto minacciando l’esecuzione forzata per il pagamento delle spese legali liquidate in primo grado, oltre a quelle relative a tale seconda intimazione.

A norma dell’art. 481, comma 1, c.p.c., l’efficacia del precetto soggiace ad un termine acceleratorio di 90 giorni, decorrente dalla sua notificazione, entro il quale dev’essere iniziata l’esecuzione forzata; il secondo comma della menzionata disposizione stabilisce che il termine resta sospeso se è proposta un’opposizione esecutiva e che la sua ripresa, stante il rinvio all’art. 627 c.p.c., è legata al passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o alla comunicazione della sentenza di appello che rigetta l’opposizione.

Come precisato da Sez. 3, n. 02347/2022, Guizzi, Rv. 663710-01, la sospensione del termine di efficacia del precetto in pendenza di un’opposizione non impedisce al creditore di procedere all’esecuzione forzata, senza alcuna necessità di attendere la definizione del giudizio di opposizione.

Qualora la sospensione ex art. 481, comma 2, c.p.c. sia conseguenza di un’opposizione a norma dell’art. 617 c.p.c. (la cui decisione è inappellabile ex art. 618 c.p.c.), in caso di ricorso per cassazione avverso la pronuncia del tribunale il termine di efficacia del precetto riprende a decorrere dalla definizione del giudizio di legittimità (Sez. 3, n. 27848/2022, Fanticini, Rv. 665930-01).

4. Intervento nel processo esecutivo.

Per regola generale dell’art. 499 c.p.c., nell’espropriazione forzata possono intervenire soltanto i creditori che siano titolari di un credito fondato su titolo esecutivo nei confronti dell’esecutato.

La medesima disposizione contempla, tuttavia, delle eccezioni, ammettendo a partecipare al processo esecutivo anche i creditori che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri, nonché quelli che erano titolari di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture contabili ex art. 2214 c.c.

Soltanto questi ultimi sono onerati – ai sensi dell’art. 499, comma 3, c.p.c. – di depositare e notificare l’estratto autentico notarile delle scritture contabili, adempimenti non richiesti ai creditori sine titulo aventi un diritto di prelazione (nella specie, ipoteca) risultante da pubblici registri (Sez. 3, n. 15996/2022, Fanticini, Rv. 664899-01; la decisione non ha esaminato, in mancanza di specifiche censure, l’ulteriore adempimento prescritto dalla norma e, cioè, la notificazione al debitore, entro i dieci giorni successivi al deposito, di copia del ricorso per intervento).

La contestazione degli altri creditori riguardante la ritualità dell’intervento svolto in mancanza di titolo esecutivo non può essere inclusa tra le opposizioni ex art. 617 c.p.c., ma integra una controversia distributiva, in quanto solo al momento della distribuzione del ricavato sorge l’interesse dei creditori concorrenti che, prima di allora, non subiscono alcun concreto pregiudizio dall’intervento sine titulo (Sez. 3, n. 15996/2022, Fanticini, Rv. 664899-03).

Fatto salvo quanto esposto nel prosieguo, l’intervento dà diritto a partecipare alla distribuzione del ricavato (art. 500 c.p.c.), ma, in difetto di una rituale estensione del pignoramento, non comporta ex se un ampliamento dell’oggetto dell’espropriazione: con particolare riferimento alla procedura esecutiva presso terzi, l’oggetto dell’espropriazione è costituito dall’importo del credito precettato aumentato della metà (come previsto dall’art. 546, comma 1, c.p.c.) e il successivo intervento, anche se effettuato dal medesimo creditore procedente, non consente il superamento del predetto limite e l’assegnazione di crediti in misura maggiore (Sez. 3, n. 01170/2022, Rossetti, Rv. 663700-01).

Dal combinato disposto degli artt. 499, 500 e 510 c.p.c. si evince che la distribuzione del ricavato non può coinvolgere i creditori privi di titolo esecutivo, a meno che il loro credito non sia stato riconosciuto, implicitamente o esplicitamente, dal debitore nell’apposita udienza (di verifica dei crediti) che il giudice dell’esecuzione è tenuto a fissare nel momento in cui pronuncia l’ordinanza di vendita; per i creditori “disconosciuti” (in tutto o in parte), invece, l’accantonamento nel riparto di importi a loro favore è subordinato alla formulazione di apposita istanza e al tempestivo avvio dell’azione necessaria per munirsi del titolo.

Già Sez. 3, n. 00774/2016, De Stefano, Rv. 638650-01, aveva statuito che i creditori sine titulo intervenuti oltre il termine per la fissazione o lo svolgimento dell’udienza di verifica dei crediti devono essere trattati alla stregua di creditori il cui credito sia stato disconosciuto, con la conseguenza che, per assicurarsi il diritto all’accantonamento in sede di distribuzione, essi sono tenuti a presentare specifica istanza e a dimostrare di aver agito, entro trenta giorni dalla data dell’intervento tardivo, per conseguire il titolo esecutivo mancante.

Prendendo le mosse dalla citata pronuncia, Sez. 3, n. 15996/2022, Fanticini, Rv. 664899-02, ha sancito il principio secondo cui la partecipazione al sub-procedimento di verifica dei crediti costituisce – per i creditori intervenuti senza titolo esecutivo – requisito per l’accesso alla distribuzione del ricavato; infatti, le relative disposizioni sono poste a presidio di un interesse pubblico processuale alla regolarità e celerità della ripartizione e, dunque, il giudice dell’esecuzione deve autonomamente adottare il provvedimento di fissazione dell’udienza di verifica, in mancanza del quale è onere del creditore interessato avanzare tempestiva istanza affinché l’udienza predetta si svolga durante la fase liquidativa del processo esecutivo (infatti, una volta iniziata la fase distributiva, non possono essere accolte richieste di fissazione dell’udienza di verifica del credito o di rimessione in termini del creditore rimasto inerte).

Infine, con riguardo al peculiare (ma non infrequente) caso in cui l’intervento nell’espropriazione sia svolto da un creditore non titolato, ma titolare di garanzia ipotecaria prestata dall’esecutato per il debito di un terzo, la pronuncia di Sez. 3, n. 15996/2022, Fanticini, Rv. 664899-04, spiega che all’udienza di verifica dei crediti devono essere necessariamente convocati sia l’esecutato, sia il debitore principale, unico soggetto legittimato a riconoscere (in tutto o in parte) o a disconoscere il credito dell’intervenuto sine titulo.

5. Espropriazione mobiliare ed espropriazione presso terzi.

Nella rara giurisprudenza di legittimità sul tema dell’espropriazione mobiliare, si richiama Sez. 6-3, n. 18676/2022, Valle, Rv. 665200-01, che – nel ribadire che il pignoramento negativo non segna inizio dell’esecuzione forzata (il quale implica un pignoramento eseguito dall’ufficiale giudiziario e, dunque, la sottoposizione di beni mobili al vincolo di espropriazione) – ha escluso l’applicabilità dell’art. 95 c.p.c. in relazione alle spese del precetto divenuto inefficace per decorso del termine di novanta giorni.

Con specifico riguardo all’espropriazione mobiliare condotta dall’agente della riscossione, va rilevata d’ufficio l’improponibilità dell’opposizione di terzo ai sensi dell’art. 58, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e, cioè, quando beni i mobili pignorati sono stati rinvenuti nella casa di abitazione o nell’azienda del debitore o in altri luoghi a quello appartenenti e hanno già formato oggetto di una precedente vendita nell’ambito di una procedura di espropriazione forzata promossa a carico dello stesso debitore (Sez. 3, n. 08902/2022, Tatangelo, Rv. 664551-01).

Decisamente più ampia è la produzione della nomofilachia in materia di espropriazione forzata di crediti presso terzi.

Innanzitutto, per quanto concerne i crediti suscettibili di esecuzione, Sez. 3, n. 31844/2022, Saija, Rv. 666055-01, ha precisato che sono pignorabili anche i crediti futuri, non esigibili, condizionati e finanche eventuali, con il solo limite della loro riconducibilità ad un rapporto giuridico identificato e già esistente; può essere espropriato, pertanto, anche il credito al pagamento del prezzo del promittente venditore, riveniente da un contratto preliminare, il quale, anche se eventuale (in quanto legato alla realizzazione del programma negoziale), è specificamente collegato ad un rapporto esistente e possiede capacità satisfattiva futura, concretamente prospettabile nel momento dell’assegnazione.

Sempre in tema di oggetto del pignoramento, con la sottoposizione alla procedura di un credito ereditario vantato da uno degli eredi nei confronti di un terzo, il procedente (se non ha espressamente limitato l’estensione del vincolo alla sola quota di spettanza del proprio debitore) aggredisce l’intero importo del credito, perché – a differenza dei debiti ereditari (che si dividono pro quota ex art. 752 c.c.) – i crediti ereditari ricadono nella comunione e possono essere fatti valere per l’intero da ciascuno dei coeredi, restando affidata al giudizio di divisione la successiva ripartizione (Sez. 3, n. 18331/2022, Rossi, Rv. 665020-01).

Il processo di espropriazione forzata di crediti in danno della P.A. va radicato innanzi al giudice competente a norma dell’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. e, cioè, nella formulazione anteriore alla modifica apportata dall’art. 1, commi 29 e 37, della l. n. 206 del 2021, al “giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”, “salvo quanto disposto dalle leggi speciali”: il riferimento alla disciplina di leggi speciali comporta l’attribuzione a queste del significato di regola esclusiva e, perciò, nel caso in cui il terzo sia la Banca d’Italia, vanno applicate le norme di contabilità pubblica che, valorizzando la residenza del creditore per individuare l’ambito della competenza delle Tesorerie Provinciali per mezzo delle quali il pagamento avviene, assegnano la competenza per territorio, per le domande di pagamento contro la P.A., al giudice del luogo in cui ha sede la Sezione di Tesoreria della provincia nella quale il creditore è domiciliato, senza che assumano rilievo la sede legale (posta a Roma) ovvero il luogo ove sussiste il rapporto del terzo con il debitore esecutato (nella specie, il MIUR) (Sez. 6-L, n. 20396/2022, Di Paolantonio, Rv. 665121-01).

È opportuno osservare, comunque, che l’esecuzione forzata nei confronti dell’ente locale può reputarsi legittima soltanto se la P.A. è da considerare debitrice e, dunque, prendendo in esame anche le sue peculiari modalità di adempimento: qualora sia data la comunicazione al creditore dell’avvenuta emissione del mandato di pagamento (previa liquidazione della spesa, emissione e trasmissione del mandato al tesoriere), si deve ritenere eseguito l’adempimento, senza che residui spazio per l’attuazione coattiva del diritto, poiché è il creditore stesso, a questo punto, a dover collaborare per ricevere il pagamento (Sez. 6-3, n. 00077/2022, Valle, Rv. 663521-01).

L’opponibilità ai creditori di fatti estintivi o modificativi dei crediti pignorati è regolata dall’art. 2918 c.c., disposizione che è applicabile ogniqualvolta rilevi l’efficacia di una cessione o di una “liberazione di pigioni e di fitti non ancora scaduti” – espressione che va riferita ad ogni ipotesi di estinzione (incluso il pagamento anticipato o la remissione del debito) – e, dunque, sia quando il pignoramento abbia colpito direttamente i crediti per canoni, sia quando l’espropriazione di questi ultimi costituisca conseguenza ex art. 2912 c.c. del pignoramento del bene locato (Sez. 3, n. 35876/2022, Tatangelo, Rv 666286-01, in relazione ad una procedura di espropriazione presso terzi di canoni dovuti in virtù di un contratto di affitto di azienda).

Nell’espropriazione presso terzi, l’ordinanza emessa a norma dell’art. 553 c.p.c., con cui il giudice dell’esecuzione assegna in pagamento al creditore, salvo esazione, il credito pignorato, determina la conclusione del processo esecutivo e ciò implica l’improponibilità dell’opposizione all’esecuzione, posto che il diritto di agire in executivis può essere contestato solo fintanto che è minacciato o viene esercitato dal creditore; perciò, qualora sopraggiungano circostanze modificative o estintive, il debitore può esercitare, nell’ambito dell’ordinario processo di cognizione, le azioni tese ad accertare che il terzo pignorato non è più tenuto ad effettuare pagamenti al creditore assegnatario del credito e anche, se del caso, ad ottenere la restituzione delle somme già incassate (Sez. 3, n. 12690/2022, Fanticini, Rv. 664812-01, ha ritenuto inammissibile l’opposizione ex art. 615 c.p.c., successiva all’ordinanza di assegnazione del credito, con cui il debitore aveva dedotto la sopravvenuta dichiarazione di inefficacia, ex art. 188 disp. att. c.p.c., del decreto ingiuntivo che aveva retto l’esecuzione forzata).

Con l’ordinanza ex art. 553 c.p.c. il giudice dell’esecuzione è tenuto a liquidare le spese di procedura sostenute dal creditore e il provvedimento può anche estendersi esplicitamente alle competenze e agli esborsi successivi; è onere del creditore istante segnalare al giudice l’esatto importo delle spese vive già sostenute e di quelle successive assolutamente indispensabili, fermo restando che, nel compimento della suddetta liquidazione, l’ultimo periodo dell’art. 4 del d.m. n. 55 del 2014, consente di ridurre fino al settanta per cento il compenso per la “fase di trattazione o conclusiva” di cui al punto 17 della tabella allegata al medesimo decreto senza necessità di una specifica motivazione (Sez. 3, n. 07349/2022, De Stefano, Rv. 664396-01).

In ogni caso, con l’ordinanza di assegnazione il giudice può espressamente addebitare all’esecutato anche il costo di registrazione del provvedimento e il relativo importo va annoverato tra le spese di esecuzione liquidate al creditore, il quale può avanzarne pretesa in sede di escussione del terzo, purché nei limiti della capienza del credito assegnato; da ciò deriva il difetto di interesse del creditore procedente ad ottenere un ulteriore titolo esecutivo contro l’originario debitore per la ripetizione delle spese di registrazione e solo l’impossibilità di recupero dell’esborso dal terzo consente, in via residuale, di aggredire nuovamente il debitore originario (Sez. 6-3, n. 07231/2022, Porreca, Rv. 664442-01).

Per effetto delle riforme legislative del 2012 e del 2015 le disposizioni degli artt. 548 e 549 c.p.c. hanno subito una profonda modifica: sparito l’accertamento dell’obbligo del terzo come processo di cognizione incidentale autonomo, il legislatore ha previsto che sia il giudice dell’esecuzione, con propria ordinanza suscettibile di opposizione ex art. 617 c.p.c., ad esaminare le contestazioni sulla dichiarazione resa dal terzo o ad accertare, ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione, la sussistenza e l’entità del credito a seguito della mancata dichiarazione del terzo (art. 549 c.p.c.); se, invece, in esito a mancata comparizione o ad omessa dichiarazione del terzo, il credito pignorato è univocamente identificato nell’atto di pignoramento in base alle allegazioni del creditore, il credito stesso si considera non contestato e il giudice provvede con ordinanza di assegnazione, che “il terzo può impugnare nelle forme e nei termini di cui all’articolo 617, … se prova di non averne avuto tempestiva conoscenza per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore” (art. 548 c.p.c.).

In realtà, lo spazio per il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi è più ampio rispetto alla limitata ipotesi dell’art. 548, comma 2, c.p.c., perché l’ordinanza di assegnazione può essere impugnata per far valere vizi propri dell’atto (Sez. 3, n. 16234/2022, Fanticini, Rv. 665105-01, in riferimento ad una fattispecie in cui il terzo pignorato aveva opposto l’ordinanza di assegnazione per far constare la sua illegittimità, dato che – in mancanza di un credito identificabile sulla scorta delle allegazioni del pignoramento – non poteva essere applicato il meccanismo della ficta confessio).

Di grande importanza è la decisione della Terza sezione che ricostruisce il procedimento di accertamento “endoesecutivo” dell’obbligo del terzo ex art. 549 c.p.c. (in seguito alle modifiche apportate dalla l. n. 228 del 2012, dal d.l. n. 132 del 2014 e dal d.l. n. 83 del 2015) e risolve numerose problematiche che avevano alimentato contrasti interpretativi in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Come già esposto, dopo la novella legislativa, l’accertamento dell’obbligo del terzo assume le caratteristiche di un subprocedimento contenzioso interno alla procedura esecutiva e, dunque, funzionalmente devoluto al giudice dell’esecuzione; conseguentemente, l’ordinanza conclusiva è priva di rilievo o efficacia panprocessuale e inidonea alla formazione di un giudicato sull’an o sul quantum del debito del terzo nei confronti dell’esecutato (Sez. 3, n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-01).

Il presupposto del subprocedimento è costituito dalla contestazione della dichiarazione del terzo o dall’esigenza di superare il suo silenzio e, quindi, quale condizione di procedibilità richiede una specifica istanza ex art. 486 c.p.c. della parte interessata, contenente l’allegazione del petitum e della causa petendi e, cioè, l’indicazione della misura del credito del debitore verso il terzo e del titolo dell’obbligazione da accertare (Sez. 3, n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-02).

L’accertamento “endoesecutivo” dell’obbligo del terzo non soggiace a specifiche regole procedurali: infatti, l’indispensabile istaurazione del contraddittorio (deformalizzato) tra creditore, debitore e terzo pignorato può avvenire con qualsiasi modalità funzionale ad assicurare che l’istanza della parte interessata sia portata a conoscenza delle altre parti (necessarie), finanche con la notificazione ai soggetti non comparsi all’udienza del verbale che contiene la formulazione dell’istanza (Sez. 3, n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-03); non è previsto un regime di preclusioni analogo a quello dei giudizi di cognizione e il giudice dell’esecuzione può anche disporre ex officio i mezzi di prova ritenuti necessari, persino superando i limiti di ammissibilità stabiliti dal codice civile e le rigide modalità di assunzione prescritte dal codice di rito (Sez. 3, n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-04).

Pur trattandosi di un subprocedimento interno al processo esecutivo, la regolamentazione delle spese, da eseguire con l’ordinanza finale, non può essere compiuta in base al criterio sancito dall’art. 95 c.p.c. per l’espropriazione forzata (in quanto incompatibile con l’incidente di accertamento), ma, in via analogica, secondo il principio della soccombenza per causalità, salva la facoltà di compensazione ex art. 92 c.p.c. (Sez. 3, n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-05); conseguentemente, per la liquidazione vanno applicate, sempre per analogia, le tariffe della tabella 2 dell’allegato unico del d.m. n. 55 del 2014 (Sez. 3, n. 23123/2022, Rossi, Rv. 665425-06).

In considerazione della struttura dell’espropriazione presso terzi e in base al precedente di Sez. 3, n. 13533/2021, Rossetti, Rv. 661412-01, nel 2022 si è affermato che il litisconsorzio necessario tra il creditore, il debitore e il terzo pignorato non riguarda soltanto i giudizi di opposizione esecutiva, ma anche il giudizio di reclamo avverso l’estinzione del processo esecutivo (Sez. 3, n. 32445/2022, Fanticini, Rv. 666112-01); inoltre, stante l’applicabilità delle norme della procedura ordinaria all’espropriazione coattiva di crediti a mezzo ruolo, compiuta ai sensi dell’art. 72-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, anche nelle opposizioni esecutive esattoriali sussiste litisconsorzio necessario fra il creditore (individuato nell’agente della riscossione), il debitore e il terzo pignorato (Sez. 3, n. 16236/2022, Fanticini, Rv. 665106-01).

6. Espropriazione immobiliare.

Il pignoramento immobiliare è strutturato come una fattispecie a formazione progressiva e si compone di due momenti processuali, ai quali corrispondono due diversi adempimenti del creditore procedente: la notifica dell’atto al debitore esecutato e la sua trascrizione nei registri immobiliari (Sez. 3, n. 07998/2015, Barreca, Rv. 635099-01).

Eventuali errori o imprecisioni riguardanti l’identificazione del bene negli atti di provenienza non inficiano di per sé la validità dell’atto di pignoramento, dato che i terzi sono necessariamente tenuti a pignorare ciò che risulta intestato al debitore in base alle risultanze dei registri immobiliari (ancorché i dati catastali non siano aggiornati), sempre che non vi sia incertezza sulla fisica identificazione dei cespiti ed ove sussista continuità tra i dati catastali precedenti e quelli corretti all’atto dell’imposizione del vincolo (Sez. 3, n. 07342/2022, Fanticini, Rv. 664248-01).

La procedura di espropriazione forzata promossa contro l’intestatario dell’immobile non ha alcuna incidenza interruttiva sul decorso del termine per l’usucapione da parte del possessore; infatti, non è configurabile l’interruzione del possesso per vicende giudiziali tra l’intestatario del bene e i terzi, le quali non comportano alcuna conseguenza nella continuità del possesso (Sez. 6-2, n. 05582/2022, Grasso, Rv. 663988-01).

Nelle ipotesi di “riunione” di plurime procedure esecutive (nel significato illustrato da Sez. 3, n. 40847/2021, Fanticini, Rv. 663442-02) originate da diversi pignoramenti, spetta al giudice dell’esecuzione individuare il creditore procedente, in base al criterio della concreta promozione degli atti del processo (attraverso la formulazione delle relative istanze e il compimento delle necessarie attività) e non alla mera priorità temporale nell’effettuazione dei pignoramenti (Sez. 2, n. 06113/2022, Casadonte, Rv. 663956-01, con specifico riferimento alla selezione del soggetto a cui attribuire l’obbligo di anticipazione delle spese, ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.P.R. n. 115 del 2002).

6.1. (Segue) le regole della vendita immobiliare.

Nel corso del 2022, più volte la S.C. ha rimarcato l’esigenza di un rigoroso rispetto delle regole che disciplinano il sub-procedimento di vendita, affidato, per regola generale, ad un professionista delegato.

Il professionista a cui sono affidate, ex art. 591 bis c.p.c., le operazioni di vendita esercita funzioni lato sensu di c.d. giurisdizione esecutiva, è qualificabile come ausiliario sui generis, se non proprio alla stregua di un quasi alter ego dell’ufficio del giudice dell’esecuzione (così Sez. 3, n. 04149/2019, De Stefano, in motivazione), e, in tal guisa, partecipa alla giurisdizione: ne consegue che lo stesso non può contraddire o prendere posizione sulla fondatezza o meno di una opposizione agli atti esecutivi, da chiunque proposta, perché ciò determinerebbe un vulnus alla terzietà dell’ufficio nel suo complesso (Sez. 3, n. 16219/2022, Saija, Rv. 664904-01, ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva del professionista delegato in un procedimento di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., nonostante questi si fosse costituito nella fase sommaria, contestando la fondatezza dell’opposizione e chiedendo altresì la condanna alla refusione delle spese da parte dell’opponente).

Nell’ambito delle competenze attribuite al professionista delegato non rientra la valutazione circa il regime fiscale della vendita forzata, poiché l’assoggettamento della vendita ad imposta, l’individuazione del tributo e la liquidazione del dovuto spettano in via esclusiva all’Agenzia delle Entrate; ciononostante, è evidente che il regime fiscale incida sulla complessiva convenienza dell’acquisto ed è opportuno che il professionista si attivi tempestivamente – se del caso con interpello ex art. 11, comma 1, lett. a), l. n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente) – ad acquisire informazioni sul trattamento tributario dell’alienazione per fornire ai soggetti interessati un’adeguata notizia negli avvisi ex art. 490 c.p.c. (Sez. 3, n. 15912/2022, Saija, Rv. 664835-02).

Le regole dettate dal giudice dell’esecuzione nell’ordinanza di vendita o di delega – con riguardo agli adempimenti, alle modalità, ai termini e, in generale, alle condizioni alle quali l’esperimento di vendita è soggetto – presidiano esigenze (pubblicistiche) di certezza, legittimità, trasparenza, correttezza ed efficienza, immanenti al sistema dell’espropriazione forzata (così Sez. 3, n. 11171/2015, De Stefano, in motivazione, ripresa da diverse successive pronunce): conseguentemente, non occorre la prova di aver subito uno specifico pregiudizio per far valere, con l’opposizione agli atti esecutivi, la violazione della lex specialis della gara (Sez. 3, n. 18421/2022, Saija, Rv. 665021-02), ha riconosciuto l’interesse del debitore esecutato a censurare – impugnando ex art. 617 c.p.c. il decreto di trasferimento – il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione aveva ritenuto validamente effettuato il versamento del prezzo, da parte dell’unico offerente, oltre il termine ex art. 585 c.p.c., stante l’alterazione delle regole del subprocedimento); peraltro, il risultato dell’annullamento dell’aggiudicazione – e, così, lo scopo di scongiurare il rischio di un’immediata perdita della proprietà del bene pignorato, alla cui conservazione potrebbe addivenirsi con modalità alternative alla liquidazione – rende manifesto l’interesse del debitore all’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il decreto di trasferimento, anche al solo fine di far valere la difformità delle modalità di pagamento del prezzo di aggiudicazione rispetto alle indicazioni contenute nell’avviso di vendita (Sez. 3, n. 14542/2022, Tatangelo, Rv. 664820-01; analogamente, Sez. 3, n. 35867/2022, Tatangelo, Rv 666284-01); anche un soggetto estraneo al processo esecutivo – come l’offerente escluso dalla partecipazione ad un esperimento di vendita per inammissibilità dell’offerta a causa di vizi formali – può essere leso nella sua sfera giuridica da un provvedimento adottato dal giudice dell’esecuzione e, in quanto, interessato al regolare svolgimento della procedura e destinatario degli atti di questa, è legittimato all’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il relativo provvedimento del giudice dell’esecuzione; nei predetti termini si è pronunciata Sez. 3, n. 23338/2022, Rossi, Rv. 665435-01, con riferimento a vendita non oggetto di delega al professionista, mentre, in caso di delega, il provvedimento di esclusione dell’offerente è assoggettato al reclamo ex art. 591 ter c.p.c., la cui proposizione con esito negativo o il cui mancato esperimento non precludono in alcun modo l’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione (come recentemente ribadito da Sez. 3, n. 14542/2022, Tatangelo, sul punto non massimata). Si deve poi ritenere che la modifica dell’ultimo periodo dell’art. 591 ter c.p.c. (introdotta dall’art. 13, comma 1, lettera cc bis), del d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015) – la quale ha previsto, per le contestazioni relative alle ordinanze del giudice dell’esecuzione in tema di atti del professionista delegato, il rimedio del reclamo al collegio (in sostituzione dell’opposizione agli atti esecutivi) – trovi immediata applicazione anche nei processi pendenti e che, dunque, essa riguardi tutti i provvedimenti emessi a decorrere dal 21 agosto 2015 (Sez. 3, n. 35855/2022, Tatangelo, Rv 666283-01).

Al fine di garantire il rispetto dei principi sui quali è imperniata la vendita forzata (in particolare, del principio di trasparenza), è essenziale il rispetto delle regole in tema di pubblicità degli avvisi (art. 490 c.p.c.).

Il legislatore d.l. n. 83 del 2015, conv. con modif. dalla l. n. 132 del 2015, ha esplicitamente prescritto l’obbligatorietà di una nuova modalità pubblicitaria – l’inserimento dell’avviso sul portale del Ministero della giustizia e, segnatamente, nell’area del “portale delle vendite pubbliche” (P.V.P.) – e, a riprova dell’importanza attribuita a tale adempimento, lo ha presidiato con la sanzione di estinzione prevista dall’art. 631 bis c.p.c.

Chiamata per la prima volta a pronunciarsi sulla portata di quest’ultima disposizione la S.C. ha statuito che l’omessa pubblicazione dell’avviso di vendita sul portale delle vendite pubbliche conduce all’estinzione – tipica, automatica e oggetto di provvedimento meramente ricognitivo del giudice dell’esecuzione – della procedura solo se: a) il termine per la relativa pubblicazione è stato espressamente fissato dal giudice dell’esecuzione o dal professionista delegato (che si deve intendere a ciò abilitato) o è implicitamente desumibile dal riferimento al periodo di “almeno quarantacinque giorni prima del termine per la presentazione delle offerte” previsto dall’art. 490, comma 3, c.p.c.; b) il predetto termine è spirato invano in conseguenza dell’inerzia (o dell’inadempimento) del creditore, incaricato dell’esecuzione della pubblicità sul P.V.P. (Sez. 3, n. 08113/2022, Fanticini, Rv. 664549-02).

L’omissione delle altre forme di pubblicità prescritte dal giudice, invece, non determina l’estinzione del processo esecutivo ex art. 631 bis c.p.c.: non si tratta, tuttavia, di una mancanza irrilevante, perché essa comporta, prima della vendita, la chiusura anticipata della procedura e, dopo la vendita, se tempestivamente denunciata con l’opposizione agli atti esecutivi, la caducazione del decreto di trasferimento (Sez. 3, n. 08113/2022, Fanticini, Rv. 664549-03).

Esula dall’ambito dell’art. 631 bis c.p.c. l’omesso versamento, nel termine prescritto, del contributo per la pubblicazione sul P.V.P. (previsto dall’art. 18 bis del d.P.R. n. 115 del 2002), inadempimento che – al pari dell’anticipazione (ex artt. 95 c.p.c. e 8 d.P.R. n. 115 del 2002) delle spese per le altre forme di pubblicità – può giustificare una pronuncia di improseguibilità del processo esecutivo (Sez. 3, n. 08113/2022, Fanticini, Rv. 664549-04).

Alla gara per aggiudicarsi l’immobile pignorato può partecipare, come offerente, anche il creditore pignorante o intervenuto, dato che l’istanza di assegnazione ex art. 589 c.p.c. è una mera facoltà e non un obbligo (Sez. 3, n. 15912/2022, Saija, Rv. 664835-04).

Più volte la S.C. ha affermato, in maniera inequivoca, che il termine per il versamento del saldo del prezzo da parte dell’aggiudicatario è perentorio e non prorogabile (Sez. 3, n. 32136/2019, Rossetti, Rv. 656506-02; Sez. 3, n. 11171/2015, De Stefano, Rv. 635438-01; Sez. U, n. 00262/2010, Spagna Musso, Rv. 611129-01); l’affermazione si attaglia anche alla liquidazione dell’attivo fallimentare, se l’avviso di vendita (lex specialis della vendita “deformalizzata” disposta dal curatore) prevede la decadenza dell’aggiudicatario per mancato versamento del saldo prezzo nel termine indicato (Sez. 1, n. 26076/2022, D’Orazio, Rv. 665537-01, ha escluso che possa essere concessa, ex post e a richiesta dell’interessato, una proroga, ferma restando la disposizione dell’art. 153, comma 2, c.p.c. in caso di decadenza per causa non imputabile).

Nella giurisprudenza di merito e nelle prassi si registrava, tuttavia, un contrasto sull’applicabilità della c.d. “sospensione feriale” al predetto termine; a risolvere detto contrasto è intervenuta – con ampia motivazione (che si è fatta carico anche della confutazione del precedente di Sez. 1, n. 12004/2012, Di Virgilio, Rv. 623387-01) – la decisione di Sez. 3, n. 18421/2022, Saija, Rv. 665021-01, affermando che il termine per il versamento del saldo del prezzo è di natura sostanziale e, come tale, esso non è soggetto alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale prevista dall’art. 1 della l. n. 742 del 1969.

In ogni caso, non può pronunciarsi la decadenza (ex art. 587 c.p.c.) dell’aggiudicatario se il prezzo è stato versato entro il termine, mentre il pagamento dell’imposta a cui è assoggettata la vendita (nella specie, l’IVA) attiene alla tassazione del trasferimento immobiliare e non può considerarsi parte integrante del prezzo da versare (Sez. 3, n. 15912/2022, Saija, Rv. 664835-01).

Alcuni istituti del processo esecutivo sono indubbiamente rivolti a conseguire dall’alienazione forzata il massimo risultato economico, a vantaggio dei creditori e dello stesso debitore, la cui esdebitazione è facilitata dalla migliore liquidazione del cespite del suo patrimonio.

A tale scopo assume fondamentale rilievo l’ordine di liberazione ex art. 560 c.p.c., che – secondo Sez. 3, n. 09877/2022, De Stefano, Rv. 664400-01 – costituisce regola generale nelle espropriazioni immobiliari, come si desume dall’esplicita disciplina dei casi e dei tempi in cui è esclusa l’emissione del provvedimento nei confronti del debitore e del suo nucleo familiare abitanti nel cespite staggito; proprio la citata pronuncia conferma, altresì, che l’ordine di liberazione è funzionale agli scopi del processo di espropriazione forzata e, in particolare, all’esigenza pubblicistica di garantire la gara per la liquidazione del bene pignorato alle migliori condizioni possibili, notoriamente connesse, sul mercato dei potenziali acquirenti, allo stato di immediata, piena e incondizionata disponibilità dell’immobile.

Nell’ambito dei suoi poteri e, se del caso, convocati gli interessati a norma dell’art. 485 c.p.c., il giudice dell’esecuzione può ordinare la liberazione anche a soggetti terzi (ed estranei alla procedura) e il provvedimento è comunque attuato dal custode, senza necessità di conseguire un apposito titolo giudiziale in sede cognitiva; per un motivo di ordine pubblico processuale – che impone l’anticipazione degli effetti favorevoli dell’aggiudicazione e del decreto di trasferimento e del regime di efficacia ultra partes di quest’ultimo – l’inopponibilità all’acquirente della locazione “a canone vile” anteriore al pignoramento sancita dall’art. 2923, comma 3, c.c. va estesa anche alla procedura (e, cioè, al custode) o ai creditori che ad essa danno impulso, ferma restando la tutela, nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi, delle ragioni dei vari soggetti coinvolti o pregiudicati dalla liberazione così ordinata (Sez. 3, n. 09877/2022, De Stefano, Rv. 664400-02).

Per determinare se la locazione stipulata anteriormente al pignoramento rientra nell’ambito applicativo dell’art. 2923, comma 3, c.c., il canone locativo deve risultare inferiore di un terzo al giusto prezzo o a quello risultante da precedenti locazioni; per la relativa valutazione il giudice può ricorrere a qualsiasi elemento probatorio offerto dalle parti (Sez. 3, n. 23508/2022, Saija, Rv. 665608-01, che esamina il raffronto tra il canone di sublocazione dell’immobile e quello pattuito per la sua locazione).

Nei limiti dell’art. 2918 c.c. possono essere opposti i fatti estintivi o modificativi consistenti nella “liberazione di pigioni e di fitti non ancora scaduti” (che sono, di regola, oggetto di pignoramento immobiliare ex art. 2912 c.c.), espressione che ricomprende ogni ipotesi di estinzione, incluso il pagamento anticipato o la remissione del debito (Sez. 3, n. 35876/2022, Tatangelo, Rv 666286-01).

Al contrario, l’opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare, emesso in sede di separazione personale o divorzio, dipende esclusivamente dalla sua trascrizione in data anteriore a quella del diritto del terzo (incluso il pignoramento dell’immobile): infatti, il vigente art. 337 sexies c.c. (come già il precedente ed identico art. 155 quater c.c.) ha innovato l’ordinamento prevedendo la trascrivibilità dell’assegnazione della casa coniugale, il cui regime di opponibilità segue il principio prior in tempore potior in jure proprio dell’art. 2644 c.c. e non più quello dell’art. 1599 c.c. (cioè, l’opponibilità dell’assegnazione non trascritta nei limiti del novennio) (Sez. 3, n. 12387/2022, Porreca, Rv. 664811-01).

6.2. (Segue) la stabilità della vendita forzata.

Ratio ispiratrice della legislazione in materia di espropriazioni coattive e delle tendenze evolutive della relativa giurisprudenza di nomofilachia negli ultimi lustri (valga, ex plurimis, il richiamo a Sez. U, n. 21110/2012, Rordorf, Rv. 624256-01) è il rafforzamento della tutela della posizione dell’aggiudicatario, condotto, in specie, attraverso una lettura ermeneutica estensiva del disposto dell’art. 2929 c.c. e finalizzato, in ultima analisi, ad una maggiore affidabilità ed appetibilità delle vendite forzate, onde conseguire un migliore risultato dall’esecuzione (chiarissima, sul punto, è la motivazione di Sez. 3, n. 03709/2019, D’Arrigo).

L’acquisto dell’aggiudicatario è preservato, dall’art. 2929 c.c., rispetto ad eventuali vizi del processo esecutivo, ma a condizione che non si tratti di irregolarità attinenti al subprocedimento di vendita; infatti, l’accoglimento dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il decreto di trasferimento immobiliare comporta la declaratoria di inefficacia dell’atto traslativo anche in pregiudizio dei diritti dell’aggiudicatario, nonostante la sua trascrizione, poiché il disposto dell’art. 2929 c.c. riguarda solo gli atti esecutivi precedenti alla vendita o all’assegnazione (Sez. 3, n. 31255/2022, Tatangelo, Rv. 666110-02).

È pacifico, poi, che l’acquisto dell’aggiudicatario non avviene a titolo universale e, anzi, proprio l’art. 2919, comma 1, c.c. sancisce la natura derivativa dell’acquisto in executivis e, così, il principio secondo cui nemo plus juris quam ipse habet transferre potest; un’ulteriore conferma deriva dall’art. 2921 c.c. che, se letto in confronto con l’art. 2920 c.c. (riguardante l’esecuzione su cosa mobile), stabilisce che nell’esecuzione immobiliare i terzi titolari di diritti reali sulla cosa possono far valere le loro pretese anche nei confronti dell’acquirente di buona fede (Sez. 3, n. 27677/2022, Fanticini, in motivazione); ai fini della configurabilità di un acquisto a titolo derivativo (e non originario) non rileva che l’acquisto sia indipendente dalla volontà del precedente proprietario e disposto con provvedimento giudiziale, ma, piuttosto, il fatto che quest’ultimo opera la trasmissione dello stesso diritto del debitore esecutato (Sez. 2, n. 25926/2022, Tedesco, Rv. 665593-01, osserva che – in caso di espropriazione forzata dell’immobile in pendenza di un giudizio promosso contro il proprietario – la sentenza che definisce quella controversia deve ritenersi opponibile, ai sensi dell’art 111, comma 4 c.p.c., all’aggiudicatario nella sua qualità di successore a titolo particolare nel diritto controverso, salve le limitazioni previste dagli artt. 2915 e 2919 c.c.).

L’esigenza di salvaguardare la stabilità degli effetti della vendita forzata (e l’interesse dell’aggiudicatario) impone una lettura dell’art. 2919 c.c. tale da limitare le iniziative tese a denunciare l’erroneo trasferimento all’aggiudicatario di un cespite oggetto di pignoramento; ne consegue che, a differenza dei terzi estranei, le parti del processo esecutivo sono onerate di esperire tempestivamente l’opposizione ex art. 617 c.p.c. e che, di contro, è inammissibile una loro autonoma azione volta a contrastare gli effetti dell’esecuzione, ponendoli nel nulla o limitandoli (Sez. 3, n. 27677/2022, Fanticini, Rv. 665907-01, ha cassato senza rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto ammissibile l’azione di rivendicazione, proposta nei confronti dell’aggiudicatario da parte di un soggetto che assumeva di essere comproprietario del bene pignorato e che, pur avendo preso parte al processo esecutivo, aveva omesso di proporre l’opposizione ex art. 617 c.p.c.). Analogamente, Sez. 2, n. 04005/2022, Giannaccari, Rv. 663822-01, ha statuito che il terzo che vanti un diritto reale sul bene immobile oggetto di esecuzione forzata può proporre soltanto opposizione agli atti esecutivi, se ha partecipato al procedimento esecutivo (al contrario, il terzo estraneo ha a disposizione il rimedio dell’opposizione ex art. 619 c.p.c. nel corso del processo e può, in esito alla vendita, rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario).

7. Le esecuzioni in forma specifica.

Solo un ridotto numero di pronunce ha riguardato le esecuzioni in forma specifica e, segnatamente, quelle relative ad obblighi di fare o non fare (artt. 612 ss. c.p.c.).

Come già osservato, è importante – soprattutto perché in contrasto con Sez. 3, n. 00258/1997, Calabrese, Rv. 501697-01 e fondata sul più recente orientamento della Corte costituzionale – l’affermazione di Sez. 6-3, n. 28871/2022, Valle, Rv. 665767-01, secondo cui anche il verbale di conciliazione giudiziale può costituire titolo esecutivo idoneo all’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare.

In caso di condanna di un soggetto ad un facere – in particolare, all’esecuzione di determinate opere su un immobile – l’acquisizione del cespite da parte della P.A. non incide sul diritto di agire in executivis consacrato nel titolo esecutivo, ma, al più, può legittimare il successore a titolo particolare ad intervenire nel processo a tutela delle proprie ragioni (Sez. 3, n. 35873/2022, Ambrosi, Rv 666285-01).

Nessuna pregiudizialità logica può prospettarsi tra l’opposizione avente ad oggetto l’accertamento degli specifici lavori da eseguire coattivamente ex art. 612 c.p.c. e l’opposizione al decreto ex art. 614 c.p.c. relativo alle spese anticipate dal creditore per i lavori già effettuati: conseguentemente, è illegittima l’ordinanza che dispone la sospensione del secondo giudizio, potendosi, casomai, ipotizzare una riunione delle cause per ragioni di connessione (Sez. 6-3, n. 11212/2022, Cricenti, Rv. 664836-01).

L’esecuzione (in forma specifica) per rilascio può essere condotta anche nei confronti di un soggetto diverso da quello menzionato nel titolo esecutivo, che assume, in diverse ipotesi, efficacia ultra partes: è il caso, ad esempio, della sentenza pronunciata nei confronti del conduttore (in ragione di nullità del contratto, risoluzione, scadenza della locazione) o del provvedimento di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione o morosità, i quali spiegano effetti anche nei confronti del subconduttore, ancorché quest’ultimo non abbia partecipato al giudizio, poiché la subconduzione comporta la nascita di un rapporto obbligatorio derivato, la cui sorte dipende da quella del rapporto principale (Sez. 6-3, n. 09899/2022, Iannello, Rv. 664455-02).

Sempre in tema di esecuzione ex artt. 605 ss. c.p.c., Sez. 2, n. 08590/2022, Giannaccari, Rv. 664239-01, ha statuito che il contrasto tra chi assume di essere proprietario dell’immobile e chi agisce per il rilascio, professandosi proprietario dello stesso cespite in base a sentenza di usucapione (resa in un giudizio contro un terzo), va risolto non con il rimedio dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., bensì con l’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404, comma 1, c.p.c.

8. Opposizioni esecutive: profili comuni.

Costituisce approdo di una progressiva elaborazione giurisprudenziale (culminata nella basilare Sez. 3, n. 25170/2018, Tatangelo, Rv. 651161-01) ed è oramai jus receptum il c.d. principio di “bifasicità” delle opposizioni esecutive e, cioè, la loro articolazione in giudizi caratterizzati da unitarietà, ma scanditi da una fase preliminare, necessaria e sommaria fase endoesecutiva innanzi al giudice dell’esecuzione e da una successiva fase di merito, meramente eventuale, a cognizione piena.

Nel solco dell’orientamento succitato si inserisce Sez. 3, n. 17913/2022, Valle, Rv. 665017-01, che, da un lato, ribadisce la struttura bifasica dell’opposizione (nella specie, di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c.) e, dall’altro, conferma la natura unitaria del rimedio, dalla quale discende, come corollario, che l’atto di citazione per introdurre la fase di merito è validamente notificato presso il difensore nominato con la procura alle liti rilasciata già nella fase endoesecutiva, a meno che non sia stata esplicitata, per una diversa volontà della parte, una limitazione a tale fase della validità del mandato difensivo.

Col provvedimento conclusivo della fase sommaria il giudice dell’esecuzione è tenuto a fissare il termine perentorio per l’instaurazione della fase di merito a cognizione piena, nonché a liquidare le spese della prima fase; qualora sia stata disposta, con l’ordinanza conclusiva, la sospensione della procedura omettendo la pronuncia sulle spese, costituisce un onere della parte vittoriosa e interessata alla loro liquidazione l’instaurazione del giudizio di merito prima della scadenza del termine fissato o, quantomeno, la presentazione di un’istanza di integrazione del provvedimento (ai sensi dell’art. 289 c.p.c.), anche allo scopo di garantire alle altre parti (previa eventuale rimessione in termini) la possibilità di contestare la liquidazione nella fase di merito dell’opposizione (Sez. 3, n. 12977/2022, Saija, Rv. 664631-02, ha altresì statuito che, in caso di inerzia della parte vittoriosa, le spese non sono più ripetibili, né altrimenti liquidabili).

In nessun caso è consentita l’impugnazione con ricorso per cassazione dell’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione abbia concluso la fase sommaria, nemmeno nel caso in cui abbia deciso il merito della controversia senza fissare il termine per l’introduzione del giudizio di merito (Sez. 3, n. 11848/2022, Saija, Rv. 664806-01), sottolinea, peraltro, che la parte può introdurre comunque tale giudizio per far valere in quella sede ogni doglianza) e neanche nell’ipotesi in cui, a definizione della fase endoesecutiva, sia stata illegittimamente dichiarata inammissibile l’opposizione (Sez. 6-3, n. 24037/2022, Rossetti, Rv. 665596-01).

Non è mai ammessa, nelle opposizioni esecutive, la formulazione di domande nuove o la deduzione di motivi diversi rispetto a quanto prospettato nell’atto introduttivo (e, cioè, nel ricorso al giudice dell’esecuzione), né l’opposizione può essere accolta sulla base di motivi rilevati d’ufficio e diversi da quelli inizialmente dedotti, ancorché essi siano tali da comportare la caducazione del titolo esecutivo o l’insussistenza del diritto del creditore di procedere all’esecuzione forzata (Sez. 3, n. 09226/2022, Tatangelo, Rv. 664260-01).

Nel caso in cui venga proposta un’opposizione all’esecuzione e il giudice dell’esecuzione si avveda, con verifica compiuta ex officio, della sussistenza dei presupposti per una chiusura anticipata del processo esecutivo, deve dichiarare improseguibile l’esecuzione forzata e disporre la liberazione dei beni, ma – in ossequio al principio di bifasicità – è comunque tenuto a fissare il termine perentorio per introdurre il giudizio di merito, il quale non risente (nelle opposizioni ex art. 615 c.p.c.) della disposta chiusura della procedura (Sez. 3, n. 11241/2022, Fanticini, Rv. 664509-02).

Al contrario, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo di formazione giudiziale in forza del quale l’azione esecutiva era stata intrapresa determina la cessazione della materia del contendere nell’opposizione all’esecuzione (basata su diverse contestazioni del diritto di agire in executivis) e non già il suo accoglimento, con conseguente necessità di regolare le spese processuali secondo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare unicamente in relazione agli originari motivi di opposizione (Sez. 3, n. 09899/2022, Iannello, Rv. 664455-01, conforme a Sez. U, n. 25478/2021, F.M. Cirillo, Rv. 662368-01).

Secondo consolidata giurisprudenza, non si applica alle opposizioni esecutive la sospensione feriale dei termini processuali; alla relativa disciplina si sottraggono pure le controversie insorte in fase di distribuzione ex art. 512 c.p.c., anche nel caso in cui il diritto del creditore a partecipare alla distribuzione sia contestato deducendo la nullità, la simulazione o l’inefficacia del fatto costitutivo del credito da questi fatto valere (Sez. 6-3, n. 13797/2022, Tatangelo, Rv. 664648-01, ha escluso l’applicabilità della sospensione feriale all’opposizione distributiva promossa dal creditore procedente nei confronti della creditrice intervenuta, in quanto le domande di accertamento dell’esistenza e dell’opponibilità del credito di cui all’intervento – in ragione della pretesa simulazione o inefficacia degli accordi stipulati con il debitore in sede di separazione coniugale – erano state svolte al solo scopo di ottenere l’esclusione dell’intervenuta dalla distribuzione della somma ricavata).

9. Opposizione all’esecuzione.

Ferma la competenza funzionale del giudice dell’esecuzione sulla fase sommaria, la competenza sulla causa di merito sull’opposizione all’esecuzione si ripartisce, in senso verticale, per materia e per valore.

La devoluzione ratione materiae opera secondo i criteri stabiliti dall’art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011 in relazione all’opposizione all’intimazione di pagamento – configurata come opposizione all’esecuzione – riguardante la riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie riconducibili a violazioni del codice della strada: la competenza spetta al giudice di pace e la controversia deve essere decisa secondo diritto e non secondo equità (Sez. 6-2, n. 14304/2022, Varrone, Rv. 664915-01).

Circa il riparto per valore tra giudice di pace e tribunale, Sez. 6-3, n. 02882/2022, Fiecconi, Rv. 663867-01, ha chiarito che il valore della controversia si determina in base al “credito per cui si procede” a norma dell’art. 17 c.p.c. e, cioè, con riferimento all’importo indicato nell’atto di intimazione – nella specie, rivolto pro quota nei confronti dei singoli condomini di un condominio, contro cui si era formato il titolo – senza che assumano rilevanza l’unitarietà dell’originaria obbligazione e lo svolgimento di un’unica opposizione da parte dei singoli debitori.

L’opposizione ex art. 615 c.p.c. è volta a contestare il diritto del creditore di procedere all’esecuzione forzata (ancorché solo minacciata col precetto); conseguentemente, poiché l’interdetto possessorio non è suscettibile di esecuzione forzata, bensì di attuazione ex art. 669 duodecies c.p.c., è inammissibile l’opposizione al precetto (atto che non è configurabile nel procedimento di attuazione) poiché ogni contestazione va proposta al giudice che ha emanato il provvedimento (Sez. 3, n. 27392/2022, Valle, Rv. 665951-01).

Parimenti inammissibile è l’opposizione avanzata dall’esecutato per contestare la proprietà dei beni staggiti: difatti, l’affermazione di non essere proprietario dei beni pignorati rende evidente il difetto d’interesse ad agire dell’opponente, che non subisce alcun pregiudizio dall’espropriazione di cespiti di un terzo (Sez. 3, n. 35005/2022, Condello, Rv 666278-01).

Va qualificata come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. la contestazione con cui l’opponente lamenti l’indeterminatezza della pretesa erariale per la mancanza di corrispondenza tra le spese indicate nelle cartelle di pagamento per spese di giustizia (alle quali siano sottesi provvedimenti adottati dal giudice penale) e quelle liquidate nel processo penale: la relativa controversia è riservata alla cognizione del giudice civile, perché attiene a questione logicamente precedente a quella concernente la definizione del perimetro di applicabilità della condanna, devoluta invece alla cognizione del giudice dell’esecuzione penale (Sez. 3, n. 23297/2022, Saija, Rv. 665434-01).

È consolidato l’orientamento secondo cui il thema decidendum dell’opposizione proposta avverso l’esecuzione minacciata (o intrapresa) in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale è limitato ai fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto a procedere verificatisi posteriormente alla formazione del titolo esecutivo, mentre quelli accaduti anteriormente vanno necessariamente (ed esclusivamente) dedotti nel giudizio di cognizione preordinato alla formazione del titolo stesso.

Il principio trova concreta applicazione anche nel caso in cui le società di noleggio di veicoli senza conducente deducano l’inapplicabilità, nei loro confronti, dell’art. 196 c.d.s.; la contestazione della legittimazione passiva rispetto alla pretesa creditoria per violazioni del codice della strada non va svolta attraverso l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., bensì con l’impugnazione, innanzi al prefetto o al giudice di pace, dei verbali di accertamento (Sez. 3, n. 32920/2022, Guizzi, Rv. 666115-01).

Di particolare rilievo è la decisione di Sez. 3, n. 15376/2022, Rubino, Rv. 664831-01, in tema di ripartizione degli oneri probatori nell’opposizione avviata in forza di un titolo esecutivo giudiziale: spetta all’opposto – cioè, al creditore procedente – la prova che il titolo esiste ed è efficace; compete, invece, all’esecutato opponente l’onere di provare che un fatto sopravvenuto ha determinato il venir meno del diritto di agire in executivis nei suoi confronti. Pertanto, se il titolo esecutivo è costituito da una sentenza di condanna a titolo di rivalsa, il creditore procedente è tenuto a dimostrare l’avvenuto pagamento delle somme che intenda ripetere dall’esecutato, trattandosi di elemento costitutivo della fattispecie posta a fondamento del credito azionato.

Rispetto ad un titolo esecutivo di origine stragiudiziale, invece, l’opponente può porre in dubbio la sua stessa validità, come nell’ipotesi in cui sia svolta una contestazione sull’autenticità della sottoscrizione di un assegno bancario, per la quale è sufficiente il disconoscimento ex art. 214 c.p.c. (Sez. 3, n. 27381/2022, Guizzi, Rv. 665929-01, onera il creditore opposto, che intenda valersi del titolo esecutivo stragiudiziale, di chiedere la verificazione ai sensi dell’art. 216 c.p.c.).

Sempre in tema di oneri probatori, Sez. 3, n. 33749/2022, Rossi, Rv. 666151-01, ha statuito che incombe sul debitore opponente l’onere di allegare e provare la tempestività del versamento della somma intimata rispetto alla data di notificazione della cartella di pagamento, ai sensi dell’art. 25, comma 2, d.P.R. n. 602 del 1973, poiché si tratta di fatto estintivo del diritto di credito azionato dall’agente della riscossione tale da impedire la riscossione coattiva.

Si deve ravvisare una coincidenza (tale da determinare litispendenza o riunione delle cause) tra l’opposizione “a precetto” ex art. 615, comma 1, c.p.c., e la successiva opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c., se proposte avverso il medesimo titolo esecutivo e fondate su fatti costitutivi identici concernenti l’inesistenza del diritto di procedere all’esecuzione forzata (Sez. 3, n. 26285/2019, D’Arrigo, Rv. 655494-01); va esclusa, tuttavia, la litispendenza quando il debitore ha avanzato, con la seconda opposizione, anche contestazioni “formali” ex art. 617 c.p.c. (segnatamente, la tardività del deposito della nota di trascrizione del pignoramento) all’esecuzione intrapresa, perché in tale ipotesi la seconda controversia presenta un quid pluris sufficiente a distinguerla dall’altra (Sez. 6-3, n. 26541/2022, Porreca, Rv. 665716-01).

Secondo Sez. 2, n. 14705/2022, Oliva, Rv. 664790-02, nell’opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c. assumono rilievo e devono essere considerate ai fini della decisione anche le vicende relative al credito successive alla data di notificazione del precetto: conseguentemente, il creditore opposto, se non ha precisato nell’atto di intimazione la fonte del suo credito, può fornire detta specificazione nel corso del giudizio di opposizione, documentando l’esistenza e l’importo attuale del credito stesso, e il giudice è tenuto a procedere ad una loro verifica alla data della decisione, tenendo conto delle deduzioni e allegazioni fornite.

Come già esposto, poiché l’opposizione all’esecuzione è volta a contestare il diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata, il rimedio può essere spiegato soltanto se il predetto diritto è minacciato o esercitato dal creditore, non già dopo che il processo esecutivo si è definitivamente concluso (nella specie, con l’emissione dell’ordinanza ex art. 553 c.p.c.) (Sez. 3, n. 12690/2022, Fanticini, Rv. 664812-01).

Ai fini della liquidazione delle spese nei giudizi di opposizione all’esecuzione avverso cartelle di pagamento e ruoli esattoriali, va distinta la posizione dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione rispetto a quella dell’ente impositore: se la cartella di pagamento è annullata o se è accertata l’intervenuta prescrizione del credito a causa dell’omessa notifica dell’atto presupposto, l’accoglimento dell’opposizione discende da omissioni dell’ente impositore, il quale ne risponde nei rapporti interni con l’agente della riscossione, fermo il principio della solidarietà nelle spese di lite rispetto all’opponente; se, invece, l’accoglimento dipende esclusivamente dalla mancata notifica della cartella o dalla prescrizione del credito dovuta all’inerzia, dopo la notifica della cartella stessa, dell’agente della riscossione, l’illegittimità dell’atto è interamente addebitabile a quest’ultimo e non si giustifica una condanna solidale dell’ente alla rifusione delle spese (Sez. 6-2, n. 07716/2022, Oliva, Rv. 664192-01).

10. Opposizione agli atti esecutivi.

L’ambito – oggettivo e soggettivo – dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. è stato oggetto di plurime pronunce nel corso del 2022.

Da Sez. 3, n. 14282/2022, Fanticini, Rv. 664846-01, si è affermato, infatti, che possono formare oggetto dell’opposizione de qua soltanto gli atti esecutivi e, cioè, quelli compiuti dalle parti per la promozione dell’esecuzione forzata oppure i provvedimenti ordinatori del giudice dell’esecuzione volti all’instaurazione, prosecuzione o definizione della procedura; al contrario, non sono suscettibili di opposizione ex art. 617 c.p.c. gli atti preparatori, privi di un’autonoma rilevanza nell’azione esecutiva e tesi alla mera direzione del processo o all’interlocuzione con le parti o gli ausiliari, i quali sono assunti nella prospettiva della futura adozione di altri e diversi provvedimenti. Sotto il profilo soggettivo, poi, la stessa pronuncia ha statuito che è indispensabile che gli atti esecutivi riverberino effetti pregiudizievoli in danno degli interessati a rimuoverli.

Nello stesso solco si inserisce Sez. 3, n. 23338/2022, Rossi, Rv. 665435-01, che riconosce la legittimazione all’opposizione ex art. 617 c.p.c. all’offerente (che non è parte del processo esecutivo) escluso dalla partecipazione ad un esperimento di vendita, proprio perché il provvedimento (del giudice dell’esecuzione) di esclusione è da includere nel novero degli atti esecutivi e pregiudica il diritto del soggetto estromesso a concorrere per l’aggiudicazione del bene pignorato.

La legittimazione e l’interesse a proporre l’opposizione ex art. 617 c.p.c. sono stati riconosciuti al debitore esecutato (Sez. 3, n. 14542/2022, Tatangelo, Rv. 664820-01, in relazione ad un’opposizione al decreto di trasferimento fondata sulla difformità delle modalità di pagamento del prezzo rispetto alle indicazioni contenute nell’avviso di vendita) e, più in generale, alle parti del procedimento esecutivo per la violazione della lex specialis del sub-procedimento di vendita, senza necessità di dimostrare uno specifico pregiudizio (Sez. 3, n. 18421/2022, Saija, Rv. 665021-02; in termini similari, Sez. 3, n. 35867/2022, Tatangelo, Rv 666284-01).

Non solo: per i soggetti che prendono parte al processo esecutivo l’opposizione ex art. 617 c.p.c. costituisce l’unico strumento per denunciare i vizi della procedura, inclusa l’erroneità del decreto di trasferimento all’aggiudicatario di un cespite pignorato, ma diverso da quello indicato nell’avviso di vendita (Sez. 3, n. 27677/2022, Fanticini, Rv. 665907-01, ha dichiarato inammissibile l’autonoma azione di rivendica esperita da una parte della procedura per contrastare gli effetti dell’esecuzione).

Va fatta valere con l’opposizione agli atti esecutivi l’erronea indicazione, nel decreto di trasferimento, di servitù attive o passive riguardanti il bene trasferito, in quanto il procedimento di correzione di errore materiale ex art. 287 c.p.c. è riservato al mero difetto di corrispondenza tra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, mentre la suddetta questione attiene ad aspetti sostanziali incidenti sul contenuto del diritto trasferito rispetto a quello posto in vendita e pubblicizzato (Sez. 3, n. 16219/2022, Saija, Rv. 664904-02, ha annullato il decreto con il quale il giudice dell’esecuzione aveva proceduto alla correzione dei decreti di trasferimento, eliminandovi il riferimento alla servitù di passaggio gravante su un lotto in favore dell’altro, benché di tale servitù si desse atto nella perizia e nell’avviso di vendita).

L’opposizione agli atti esecutivi costituisce strumento atto a contrastare l’affermazione o il diniego di competenza del giudice dell’esecuzione: è infatti inammissibile il regolamento di competenza richiesto d’ufficio per risolvere un conflitto attinente all’individuazione del giudice competente per l’esecuzione forzata, posto che non viene in discussione la potestas iudicandi, ma solo l’osservanza delle norme che attengono al quomodo della procedura (Sez. 6-3, n. 03040/2022, Guizzi, Rv. 664067-01; Sez. 6-3, n. 04506/2022, Guizzi, Rv. 664073-01). Del pari è inammissibile, in pendenza di un processo di esecuzione, la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione (Sez. U, n. 01216/2022, Rubino, Rv. 663715-01, ha altresì escluso la proponibilità del regolamento nei giudizi di opposizione incidentali all’esecuzione, posto che la giurisdizione, una volta che il processo esecutivo è iniziato, non può che spettare al giudice ordinario, senza che assuma rilievo l’origine del titolo o la qualità soggettiva di P.A. del debitore).

Pure il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione applica o non applica (anche implicitamente) la sospensione della procedura in favore delle vittime di richieste estorsive o di usura (ex art. 20, comma 4, della l. n. 44 del 1999) è suscettibile di opposizione agli atti esecutivi, perché riguarda le modalità attraverso le quali il processo esecutivo deve svolgersi (eventualmente con l’applicazione della temporanea dilazione prevista dalla citata disposizione) e non investe il diritto del creditore di agire in executivis (Sez. 3, n. 23154/2022, Fanticini, Rv. 665428-01).

Con la contestazione di vizi formali della cartella di pagamento, il destinatario promuove un’azione che va qualificata come opposizione agli atti esecutivi e spetta alla competenza, per materia, del tribunale (non del giudice di pace) e, per territorio, del giudice del luogo di notifica dell’atto (Sez. 6-3, n. 03582/2022, Rossetti, Rv. 664072-01).

In ogni caso, a fronte di un’erronea qualificazione come opposizione agli atti esecutivi compiuta dal giudice di primo grado (nella specie, si contestava l’avviso di addebito ex art. 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla l. n. 122 del 2010), l’unico mezzo di impugnazione è costituito dal ricorso per cassazione (Sez. L, n. 29763/2022, Cerulo, Rv. 665820-01).

Connaturato all’opposizione ex art. 617 c.p.c. è il termine decadenziale prescritto per la sua proposizione: Sez. 3, n. 35878/2022, Fanticini, Rv 666303-01, esclude in radice che si possa ipotizzare una opposizione agli atti esecutivi del tutto svincolata dal predetto termine perentorio; questo assume rilievo anche in presenza di gravi difetti degli atti del processo esecutivo o di situazioni invalidanti che si risolvono in nullità non sanabili, rispetto alle quali il rimedio ex art. 617 c.p.c. va impiegato avverso i successivi atti della procedura in cui il vizio insanabile si riproduce, ma pur sempre nel termine perentorio decorrente dal giorno in cui essi siano compiuti o conosciuti e, comunque, entro gli sbarramenti preclusivi correlati alla conclusione delle singole fasi del processo (Sez. U, n. 11178/1995, Vittoria, Rv. 494405-01).

Nell’opposizione ex art. 617 c.p.c. il valore della lite va determinato, per la liquidazione delle spese, in relazione al “peso” economico delle controversie e dunque: (a) per la fase precedente l’inizio dell’esecuzione, in base al valore del credito per cui si procede; (b) per la fase successiva, in base agli effetti economici dell’accoglimento o del rigetto dell’opposizione; (c) nel caso di opposizione all’intervento di un creditore, in base al solo credito vantato dall’interveniente; (d) nel caso in cui non sia possibile determinare gli effetti economici dell’accoglimento o del rigetto dell’opposizione, in base al valore del bene esecutato; (e) nel caso, infine, in cui l’opposizione riguardi un atto esecutivo che non riguardi direttamente il bene pignorato, ovvero il valore di quest’ultimo non sia determinabile, la causa va ritenuta di valore indeterminabile (Sez. 3, n. 35878/2022, Fanticini, Rv 666303-02; per la determinazione del valore nelle opposizioni ex art. 615 c.p.c., v. Sez. 6-3, n. 38370/2021, Tatangelo, Rv. 663342-01).

11. Sospensione ed estinzione dell’esecuzione.

La sospensione dell’esecuzione prevista dall’art. 624 bis c.p.c. è disposta su istanza delle parti, le quali possono dare ulteriore impulso al processo esecutivo depositando istanza di riassunzione nel termine perentorio di dieci giorni dalla cessazione del periodo di sospensione (Sez. 3, n. 06015/2017, Chiarini, Rv. 643402-01), ma si tratta – come chiarito da Sez. U, n. 07877/2022, M. Di Marzio, Rv. 664408-02 – di un termine ad quem, dato che anche prima della scadenza il creditore può proporre l’istanza per la fissazione dell’udienza e per la riattivazione della procedura.

La sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione a conclusione della fase sommaria dell’opposizione esecutiva può determinare – in concorso con l’inerzia della parte interessata all’introduzione della fase di merito – un effetto esiziale sulla procedura. È questo, infatti, il risultato al quale conduce l’art. 624, comma 3, c.p.c., norma che ha un’evidente finalità deflattiva, connessa alla natura anticipatoria della sospensione: il creditore opposto soccombente nella fase endoesecutiva può lasciar spirare il termine per l’avvio del processo di cognizione e, così, prestare acquiescenza “in prospettiva” alla decisione del giudice dell’esecuzione (o del collegio di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.); decorso inutilmente il predetto termine, l’esecutato opponente ottiene l’immediato arresto della procedura, così anticipando gli effetti di una vittoriosa opposizione (Sez. 3, n. 12977/2022, Saija, Rv. 664631-03).

Non si addiviene all’estinzione della procedura ex art. 624, comma 3, c.p.c., invece, se il giudizio di merito è introdotto a seguito della sospensione dell’esecuzione e poi definito in rito (Sez. 3, n. 01172/2022, Porreca, Rv. 663701-01, ha escluso che la procedura esecutiva – già sospesa ex art. 624, comma 1, c.p.c., e poi riassunta dal creditore – si fosse estinta, perché il merito si era concluso col passaggio in giudicato della sentenza che aveva dichiarato inammissibile, per carenza di interesse, l’opposizione del debitore).

Se è mancata (o è stata tardivamente compiuta) l’introduzione del giudizio di merito dopo la sospensione della procedura, con l’ordinanza di estinzione ex art. 624, comma 3, c.p.c. si devono liquidare le spese del processo esecutivo (tra le quali, necessariamente, i compensi spettanti agli ausiliari del giudice), non già quelle della fase sommaria dell’opposizione esecutiva (Sez. 3, n. 12977/2022, Saija, Rv. 664631-01, ha precisato che l’erronea statuizione sulle spese dell’opposizione va contestata col reclamo al collegio ex art. 630, comma 3, c.p.c., in forza di quanto previsto dall’art. 624, comma 3, ultimo periodo, c.p.c.).

L’unico rimedio contro i provvedimenti in materia di estinzione (“tipica” e, cioè, in uno dei casi previsti dal codice di rito) adottati dal giudice dell’esecuzione è costituito dal reclamo previsto dall’art. 630, commi 2 e 3, c.p.c., restando irrilevante che l’istanza di declaratoria di estinzione sia stata accolta o respinta e nel contempo escluso che il debitore possa proporre opposizione ex art. 615 c.p.c., per far valere l’improseguibilità dell’esecuzione dopo la verificazione della causa di estinzione, ovvero ex art. 617 c.p.c., per contestare i successivi atti del processo esecutivo compiuti nonostante la verificazione di una causa di estinzione non dichiarata (Sez. 6-3, n. 10238/2022, Tatangelo, Rv. 664566-01).

Il reclamo ex art. 630, comma 3, c.p.c. è un procedimento di cognizione autonomo rispetto al processo esecutivo e, per tale ragione, l’atto introduttivo non ha natura endoprocessuale, con conseguente inoperatività dell’obbligo di suo deposito telematico di cui all’art. 16 bis, commi 1 e 2, del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 221 del 2012 (Sez. U, n. 07877/2022, M. Di Marzio, Rv. 664408-01).

Il procedimento di reclamo avverso la mancata declaratoria di estinzione è insensibile alla conclusione della procedura esecutiva, coincidente con la vendita del bene pignorato e la distribuzione del ricavato ai creditori; non può prospettarsi, infatti, una cessazione della materia del contendere, perché l’accertamento dell’anteriorità dell’estinzione al compimento dei predetti atti esecutivi ne comporterebbe l’inefficacia ai sensi dell’art. 632, comma 2, c.p.c. (Sez. 3, n. 08113/2022, Fanticini, Rv. 664549-01).

Se la chiusura del processo è disposta dal giudice dell’esecuzione in ipotesi diverse da quelle tipizzate dal codice di rito (c.d. estinzione “atipica”, più correttamente definita come improcedibilità, improseguibilità o chiusura anticipata), il provvedimento è impugnabile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi e non col reclamo ex art. 630 c.p.c., da reputarsi inammissibile (Sez. 3, n. 08905/2022, Tatangelo, Rv. 664552-01; Sez. 3, n. 11241/2022, Fanticini, Rv. 664509-01); l’inammissibilità del reclamo non è suscettibile di sanatoria, né il rimedio può essere riqualificato in opposizione agli atti esecutivi, sia per l’impossibilità di attribuire alla domanda una qualificazione diversa da quella espressamente voluta dalla parte, sia per la destinazione dell’atto al collegio (anziché al giudice dell’esecuzione), sia per la struttura necessariamente bifasica dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. (Sez. 3, n. 11241/2022, Fanticini, Rv. 664509-03).

Il rilievo officioso dei presupposti per la chiusura anticipata dell’esecuzione supera le questioni poste dall’esecutato con l’opposizione ex art. 615 c.p.c.: il giudice, infatti, è tenuto a dichiarare improseguibile il processo e a disporre la liberazione dei beni (se non è già intervenuta l’aggiudicazione o l’assegnazione), nonché a provvedere sulle spese dell’esecuzione in favore del debitore (se assistito con difesa tecnica), mentre è superflua la pronuncia sull’eventuale istanza di sospensione del processo esecutivo (Sez. 3, n. 11241/2022, Fanticini, Rv. 664509-02).

  • giudice
  • procedura speciale
  • sfratto
  • esecuzione della sentenza
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XVIII

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Cecilia Bernardo )

Sommario

1 Il procedimento d’ingiunzione: la competenza. - 2 I poteri del giudice. - 3 Notificazione del d.i. - 4 L’esecutorietà del d.i. - 5 Il giudizio di opposizione a d.i. - 5.1 Il giudizio di opposizione a d.i.: la fase introduttiva. - 5.2 I poteri processuali dell’opponente. - 5.3 La provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto. - 5.4 Il giudizio di opposizione a d.i.: la fase decisoria. - 5.5 L’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo. - 6 Il procedimento per convalida di sfratto. - 7 Il procedimento possessorio. - 8 I procedimenti di istruzione preventiva. - 9 Il procedimento sommario di cognizione: i poteri del giudice. - 9.1 L’impugnazione dell’ordinanza conclusiva. - 10 I procedimenti in camera di consiglio. - 11 L’opposizione a sanzioni amministrative.

1. Il procedimento d’ingiunzione: la competenza.

Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte ha avuto modo di affrontare più volte le problematiche relative al procedimento monitorio. In primo luogo, meritano attenzione due pronunce in tema di competenza, entrambe afferenti il pagamento dei compensi degli avvocati, i quali, ai sensi del terzo comma dell’art. 637 c.p.c., possono proporre domanda d’ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo sono iscritti.

A tal riguardo, Sez. 6-3, n. 00567/2022, Iannello, Rv. 663818-01, ha ritenuto che il foro speciale di cui all’art. 637, comma 3, c.p.c. trovi applicazione solo se la domanda monitoria abbia ad oggetto l’onorario per prestazioni professionali rese dall’avvocato direttamente al cliente rappresentato e difeso in giudizio e non anche ove si riferisca al credito al compenso maturato dal medesimo professionista nei confronti del Ministero dello Sviluppo economico per l’attività da lui svolta quale componente di un comitato di esperti incaricati della valutazione di proposte progettuali, non venendo in rilievo un’attività prettamente difensiva per la quale sia richiesta l’iscrizione all’albo. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 2, n. 07674/2019, Dongiacomo, Rv. 653152-01, secondo cui il foro speciale di cui all’art. 637, comma 3, c.p.c. trova applicazione solo se la domanda monitoria abbia ad oggetto l’onorario per prestazioni professionali rese dall’avvocato direttamente al cliente rappresentato e difeso in giudizio e non anche ove si riferisca al credito al compenso maturato dal medesimo professionista nei confronti di un diverso collega che lo abbia incaricato, in forza di un ordinario contratto di mandato, sia pure a beneficio di un terzo, dello svolgimento di singoli atti processuali nell’interesse del proprio assistito.

Inoltre, Sez. 6-2, n. 08406/2022, Abete, Rv. 664433-01, ha affermato che, ove un avvocato abbia presentato ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento delle competenze professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro speciale di cui agli artt. 637, comma 3, c.p.c. e 14, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011, il rapporto tra quest’ultimo ed il foro speciale della residenza o del domicilio del consumatore, previsto dall’art. 33, comma 2, lettera u), del d.lgs. n. 206 del 2005, va risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore. La pronuncia è conforme a Sez. 6-3, n. 05703/2014, Amendola, Rv. 630504-01.

2. I poteri del giudice.

Nell’ambito del procedimento monitorio, tra i poteri del giudice vi è anche quello, attribuito dall’art. 641, comma 2, c.p.c., di ridurre o aumentare il termine entro il quale il debitore può proporre opposizione al decreto ingiuntivo “se concorrono giusti motivi”. Al riguardo, Sez. 2, n. 23418/2022, Trapuzzano, Rv. 665383-01, ha affermato che tale termine non si sottrae all’obbligo di motivazione imposto dal precedente comma 1 (“con decreto motivato”) per l’emissione del provvedimento di ingiunzione, se esistono le condizioni previste dall’art. 633 c.p.c. Pertanto, i motivi che consentono la modifica della durata di detto termine, nonché le ragioni che li caratterizzano come “giusti”, devono essere enunciati nel provvedimento, quantomeno con rinvio implicito alle condizioni che ne giustificano la sussistenza, specificamente rappresentate dal creditore nel testo del ricorso, in modo che si possa ritenere, da un lato, che il giudice le abbia vagliate ed accolte e, dall’altro, garantito il diritto di difesa del debitore ingiunto. La decisione si pone in linea di continuità con Sez. 6-2, n. 20561/2017, D’Ascola, Rv. 645346-01, che ha affermato il medesimo principio, ritenendo rispettato l’obbligo di motivazione della riduzione del termine, mediante l’espresso riferimento all’esiguità della somma ingiunta, al lungo lasso di tempo trascorso, nonché ai reiterati solleciti.

3. Notificazione del d.i.

In una pronuncia è stato affrontato il problema della notificazione del decreto ingiuntivo ad un soggetto diverso dal reale debitore. In tal caso, Sez. 6-3, n. 21213/2022, Guizzi, Rv. 665206-01, ha ritenuto che, qualora in sede di opposizione venga riscontrato che l’errore derivi dalle ambigue indicazioni contenute nel ricorso, debba essere dichiarato il difetto di titolarità, dal lato passivo, del rapporto obbligatorio in capo all’opponente, con le dovute conseguenze anche in relazione alle spese del giudizio. Al riguardo, interessante ricordare che Sez. 3, n. 09911/2011, Amatucci, Rv. 617792-01, ha affermato che, quando un decreto ingiuntivo sia notificato a soggetto diverso dal debitore effettivo, ma che potrebbe essere considerato debitore a causa delle ambigue indicazioni contenute nel ricorso, questo è legittimato a proporre opposizione avverso l’ingiunzione. Ed infatti, in caso contrario, non essendo più possibile la successiva esatta identificazione del soggetto destinatario della pretesa, il decreto ingiuntivo acquisterebbe autorità di cosa giudicata e qualità di titolo esecutivo ove non opposto dall’ingiunto, con conseguente incidenza pregiudizievole nella sfera giuridica sostanziale dell’intimato.

4. L’esecutorietà del d.i.

Con riferimento alla fase di esecuzione del decreto ingiuntivo, Sez. 3, n. 23162/2022, Valle, Rv. 665430-01, ha precisato che il debito per imposta di registro sul decreto ingiuntivo, avendo natura accessoria rispetto alla somma oggetto dell’ingiunzione, prescinde dalle successive vicende del provvedimento monitorio. Di conseguenza, in sede di esecuzione del decreto ingiuntivo, spetta al creditore, nei confronti del debitore, il rimborso della intera somma pagata per la registrazione, anche qualora il decreto ingiuntivo sia successivamente revocato in seguito al parziale accoglimento dell’opposizione. La pronuncia appare in linea con quanto recentemente affermato dalla Sez. 5, n. 04327/2021, Reggiani, Rv. 660666-01, secondo cui il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo è assoggettato ad imposta di registro sugli atti giudiziari anche se, in pendenza del giudizio di opposizione, l’esecutorietà dello stesso viene sospesa; ciò perché solo l’intervento di una decisione definitiva, che all’esito del giudizio di opposizione revochi, annulli o dichiari la nullità del decreto ingiuntivo opposto, esclude la debenza del tributo ex art. 37 del d.P.R. n. 131 del 1986.

Quanto agli strumenti processuali che rimangono a disposizione del debitore ingiunto avverso un decreto ingiuntivo non opposto, Sez. 6-2, n. 05811/2022, Scarpa, Rv. 664185-01, ha affermato che al condomino, al quale sia intimato il pagamento di una somma di danaro in base ad un decreto ingiuntivo non opposto ottenuto nei confronti del condominio, va riconosciuta la disponibilità dei rimedi dell’opposizione a precetto e dell’opposizione tardiva al decreto, potendosi far valere, rispettivamente, mediante opposizione le ragioni di nullità del decreto ovverosia i vizi in cui sia incorso il giudice nel procedere o nel giudicare e con opposizione a precetto le ragioni che si traducono nella stessa mancanza del titolo esecutivo o in altri vizi del procedimento esecutivo. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 3, n. 09205/2001, Vittoria, Rv. 547978-01, la quale ha affermato che, qualora sia intimato il pagamento di una somma di danaro in base ad un decreto ingiuntivo non opposto, la parte ha a disposizione il rimedio dell’opposizione a precetto e dell’opposizione tardiva al decreto. La scelta tra i due mezzi deve essere compiuta secondo la regola per cui, quando l’esecuzione è minacciata sulla base di un titolo di formazione giudiziale, debbono essere fatte valere mediante impugnazione le ragioni di nullità della decisione ovverosia i vizi in cui sia incorso il giudice nel procedere o nel giudicare, mentre debbono essere fatte valere con opposizione a precetto le ragioni che si traducono nella stessa mancanza del titolo esecutivo.

Sempre con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto, Sez. L, n. 36942/2022, Cerulo, Rv. 666202-01, ha affermato che il decreto ingiuntivo emesso nei confronti dei soci di una società di persone acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti di quello, tra loro, che non abbia proposto tempestiva opposizione, il quale non può giovarsi dell’estensione degli effetti dell’accoglimento dell’opposizione proposta da altro coobbligato. Ed infatti, la facoltà prevista dall’art. 1306, comma 2, c.c., presuppone, oltre a un’espressa dichiarazione in tal senso, che il condebitore sia rimasto estraneo al giudizio, non potendogli, pertanto, giovare ove questi sia vincolato da un giudicato formatosi direttamente nei suoi confronti, in virtù della mancata opposizione contro il decreto ingiuntivo. Tale principio si pone in linea di continuità con quanto affermato dalla Sez. 3, n. 15376/2016, Barreca, Rv. 641158-01, secondo cui il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto sia nei confronti della società di persone che dei singoli soci illimitatamente responsabili, acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti del socio che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all’eventuale accoglimento dell’opposizione avanzata dalla società o da altro socio. Inoltre, appare una specificazione di quanto statuito dalla Sez. 3, n. 27906/2011, Barreca, Rv. 620983-01, in base alla quale la sentenza pronunciata tra il creditore ed uno dei coobbligati in solido, se passata in giudicato, può acquistare efficacia nei confronti degli altri condebitori solo se questi sollevino tempestivamente la relativa eccezione e sempre che la sentenza non sia fondata su ragioni personali, mentre è escluso che tale efficacia extrasoggettiva del giudicato possa essere rilevata d’ufficio.

Infine, con riferimento al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c., Sez. 6-3, n. 08870/2022, Valle, Rv. 664466-01, ha precisato che questo costituisce titolo perfettamente valido per l’esecuzione forzata, essendo sufficiente che l’atto di precetto, successivamente notificato al debitore, contenga gli estremi della notificazione del decreto ingiuntivo stesso. Non è, invece, applicabile, in tal caso, la disposizione di cui all’art. 654, comma 2, c.p.c., secondo cui è necessario che nel precetto si faccia menzione del provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e dell’apposizione della formula esecutiva, trattandosi di norma dettata per l’ipotesi in cui il decreto ingiuntivo diventi esecutivo dopo la sua emanazione, per essere stata rigettata l’opposizione all’ingiunzione o per essersi estinto il relativo giudizio. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 3, n. 01656/1975, Bonelli, Rv. 375267-01.

5. Il giudizio di opposizione a d.i.

Molto attesa era la pronuncia con la quale le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione di massima di particolare importanza riguardante la qualificazione dell’opposizione a decreto ingiuntivo quale impugnazione o quale giudizio ordinario di cognizione e la conseguente applicabilità o meno dell’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011, che fa espressamente riferimento all’atto che promuove una controversia e non già all’atto che dà impulso ad un procedimento giurisdizionale già introdotto dall’opposto. Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-02, ha innanzitutto affermato che l’opposizione prevista dall’art. 645 c.p.c. non è una actio nullitatis o un’azione di impugnativa nei confronti dell’emessa ingiunzione, ma un ordinario giudizio sulla domanda del creditore che si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio, non quale giudizio autonomo, ma come fase ulteriore - anche se eventuale - del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo. Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, nell’ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di locazione di immobili urbani, soggetta al rito speciale di cui all’art. 447 bis c.p.c., erroneamente proposta con citazione, anziché con ricorso, non opera la disciplina di mutamento del rito di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 150 del 2011 - che è applicabile quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dai modelli regolati dal medesimo decreto -, producendo l’atto gli effetti del ricorso, in virtù del principio di conversione, se comunque venga depositato in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641 c.p.c. (Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-03). Infine, con la medesima pronuncia le Sezioni Unite hanno statuito che, nell’ipotesi in cui la sentenza impugnata, nel definire il giudizio, abbia dichiarato inammissibile per tardività l’opposizione a decreto ingiuntivo, i motivi di appello - che a norma dell’art. 342 c.p.c. devono indicare la parte del provvedimento impugnato e le circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza i fini della decisione appellata - non possono concernere anche il merito della domanda, che non ha neppure formato oggetto della pronuncia, in quanto, in tale evenienza, l’impugnazione della statuizione sulla questione pregiudiziale inerente alla inammissibilità dell’opposizione costituisce comunque manifestazione di volontà di proseguire nel giudizio, con implicita riproposizione della domanda principale, dovendo perciò il giudice di appello, che ritenga ammissibile l’opposizione, pronunciarsi nel merito delle questioni dedotte in primo grado, non rientrando tale ipotesi tra i casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c. (Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-01). La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. 5, n. 01322/2018, Tedesco, Rv. 646918-01, secondo cui, in tema di appello, la regola per cui le domande non esaminate perché ritenute assorbite, pur non potendo costituire oggetto di motivo d’appello, devono comunque essere riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c., non trova applicazione in caso di impugnazione della decisione che ha giudicato inammissibile il ricorso di primo grado, la quale costituisce comunque manifestazione di volontà di proseguire nel giudizio, con implicita riproposizione della domanda principale, specialmente quando tale volontà sia anche chiaramente espressa con l’esplicito rinvio, nelle conclusioni dei motivi di appello, al ricorso introduttivo, non avendo altrimenti alcuna valida e concreta ragione la sola impugnativa della questione pregiudiziale di rito.

In linea con la suindicata pronuncia delle Sezioni Unite si pongono anche due pronunce immediatamente successive. In particolare, Sez. 2, n. 29406/2022, Besso Marcheis, Rv. 666482-01, ha affermato che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è ammissibile l’intervento volontario del terzo, nelle sue tre forme di intervento principale, litisconsortile e adesivo, trattandosi di un ordinario processo di primo grado che devolve al giudice il completo esame del rapporto giuridico controverso e non il semplice controllo della legittimità del decreto. In secondo luogo, con riferimento alla domanda monitoria di pagamento di una somma a titolo di caparra confirmatoria, conseguente ad un’implicita pronunzia costitutiva di risoluzione del contratto preliminare, Sez. 2, n. 35068/2022, Trapuzzano, Rv. 666325-02, ha affermato che il diritto non può considerarsi né liquido né esigibile in quanto il suo riconoscimento dipende dalla modificazione del diritto sostanziale operata dal giudice con la sentenza costitutiva. Ne consegue che se, da un lato, il decreto ingiuntivo non può essere emesso, d’altro canto, una volta emesso, il giudice dell’opposizione non può limitarsi a dichiarare la nullità del decreto ingiuntivo, ma deve pronunciarsi sull’intero rapporto dedotto in giudizio e conoscere anche la domanda di risoluzione del contratto sottesa alla richiesta di decreto ingiuntivo.

5.1. Il giudizio di opposizione a d.i.: la fase introduttiva.

Con riferimento all’introduzione del giudizio di opposizione, Sez. 6-2, n. 32176/2022, Besso Marcheis, Rv 666162-01, ha osservato che, qualora l’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo sia privo della sottoscrizione del difensore, soltanto il totale difetto di sottoscrizione comporta l’inesistenza dell’atto, che invece non si verifica quando quell’elemento formale, al quale l’ordinamento attribuisce la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, sia desumibile da altri elementi indicati nell’atto stesso. Devesi, pertanto, escludere l’inesistenza dell’atto introduttivo allorché la sottoscrizione del difensore, pur mancando in calce ad esso, figuri apposta per certificare l’autenticità della firma di rilascio della procura alle liti, redatta a margine dell’atto stesso, giacché, in tal caso, la firma del difensore ha lo scopo non solo di certificare l’autografia del mandato, ma anche di sottoscrivere la domanda di ingiunzione e di assumerne, conseguentemente, la paternità. Analogo principio risulta espresso dalla Sez. 1, n. 08042/2006, Giusti, Rv. 587973-01, con riferimento alla domanda d’ingiunzione.

Con riferimento alla competenza a decidere sull’opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 6-2, n. 08693/2022, Abete, Rv. 664502-01, ha ribadito che la competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento è inderogabile ed immodificabile, anche per ragioni di connessione. Ne deriva che il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, in caso sia proposta domanda riconvenzionale di competenza della sezione specializzata delle imprese di altro tribunale, è tenuto a separare le due cause, rimettendo quella relativa a quest’ultima domanda dinanzi al tribunale competente, ferma restando nel prosieguo l’eventuale applicazione delle disposizioni in tema di sospensione dei processi. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 6-1, n. 19738/2017, Di Marzio, Rv. 645691-01.

Infine, è stata esaminata l’ipotesi della contemporanea pendenza del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo per la restituzione di somme versate a seguito di una sentenza di condanna ed il giudizio di impugnazione avverso la sentenza predetta. Al riguardo, Sez. 6-L, n. 29302/2022, Ponterio, Rv. 665807-01, ha ritenuto che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto la restituzione di somme versate a seguito di una sentenza di condanna in primo grado, poi riformata in appello, non possa essere sospeso ex art. 337, comma 2, c.p.c., in attesa della decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la stessa sentenza di riforma, atteso che tra i due procedimenti non ricorre un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tale da giustificare la sospensione dell’opposizione suddetta, e costituente presupposto comune alle ipotesi di sospensione sia necessaria, ex art. 295 c.p.c., che facoltativa, ai sensi del richiamato art. 337, comma 2, c.p.c., in quest’ultima occorrendo, peraltro, anche una valutazione del giudice della causa dipendente sulla controvertibilità effettiva della decisione impugnata. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha cassato l’ordinanza con cui il giudice di merito aveva sospeso il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, mirato ad ottenere la restituzione dell’indennità risarcitoria già versata dal datore al lavoratore per effetto di pronunzia di illegittimità del licenziamento, poi riformata ed ancora pendente in sede di legittimità, rilevando, da un lato, l’insussistenza di un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tra il procedimento di impugnativa del licenziamento e quello sospeso e, dall’altro l’omessa indicazione delle ragioni per le quali non era stata riconosciuta l’autorità di tale decisione. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 6-3, n. 12773/2017, Vincenti, Rv. 644296-01.

5.2. I poteri processuali dell’opponente.

Come ormai affermato anche dalle Sezioni Unite (v. sopra Sez. U, n. 00927/2022, Scarpa, Rv. 663586-02), l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’opposto, che assume la posizione sostanziale di attore, mentre l’opponente, il quale assume la posizione sostanziale di convenuto, ha l’onere di contestare il diritto azionato con il ricorso, facendo valere l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda o l’esistenza di fatti estintivi o modificativi di tale diritto. Ciò in quanto il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si atteggia come un procedimento il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all’accertamento, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza, dei fatti costitutivi del diritto in contestazione.

Al riguardo, Sez. 1, n. 09633/2022, Scotti, Rv. 664369-01, ha precisato che il convenuto opposto può proporre con la comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata una domanda nuova, diversa da quella posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui l’opponente non abbia proposto una domanda o un’eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto, qualora tale domanda si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, attenga allo stesso sostanziale bene della vita e sia connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta, ciò rispondendo a finalità di economia processuale e di ragionevole durata del processo. Tale potere va riconosciuto all’opposto, quale attore in senso sostanziale, potendosi egli avvalere delle stesse facoltà di modifica della domanda riconosciute, nel giudizio ordinario, all’attore formale e sostanziale dall’art. 183 c.p.c.

Tale pronuncia si pone in consapevole contrasto con quanto ritenuto da Sez. 2, n. 05415/2019, Bellini, Rv. 652929-02; il contrasto tra i due descritti orientamenti nasce dalle diverse conseguenze che si intendono annettere alla proposizione, da parte del convenuto opposto nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, di una domanda nuova, diversa da quella posta a fondamento del ricorso monitorio.

Infatti Sez. 2, n. 05415/2019, Bellini, Rv. 652929-02 e, prima ancora, Sez. 1, n. 16564/2018, Nazzicone, Rv. 649670-01, ritengono che tale domanda sia inammissibile, salvo nel caso in cui l’opponente abbia proposto, a sua volta, una domanda riconvenzionale e che, quindi, la domanda nuova del convenuto opposto sarebbe ammissibile solo nei limiti della reconventio reconventionis, dovendo dipendere dal titolo dedotto in causa ovvero da quello che già appartiene alla stessa come mezzo di eccezione o di domanda riconvenzionale. Per contro, la pronuncia del 2022 in esame si mostra di opposto avviso, affermando chiaramente che una domanda di tal tipo, seppur diversa da quella posta a fondamento del ricorso monitorio, è ammissibile anche qualora l’opponente non abbia proposto a sua volta una domanda o un’eccezione riconvenzionale, purché tale domanda nuova si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, attenga allo stesso sostanziale bene della vita e sia connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta.

5.3. La provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.

Con riferimento all’ordinanza ex art. 648 c.p.c., con cui il giudice dell’opposizione concede o nega la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, Sez. 6-3, n. 24683/2022, Scrima, Rv. 665597-02, in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 6-2, n. 24658/2019, Fortunato, Rv. 655421-01, ha ribadito che tale provvedimento non è impugnabile con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., neppure laddove il giudice, ai fini di tale decisione, abbia conosciuto di questioni di merito rilevanti per accertare la sussistenza del fumus del diritto in contestazione, trattandosi di provvedimento inidoneo ad interferire sulla definizione della causa, il quale produce effetti meramente interinali, destinati ad esaurirsi con la sentenza che pronunzia sull’opposizione.

5.4. Il giudizio di opposizione a d.i.: la fase decisoria.

La Suprema Corte è intervenuta anche con riferimento alla fase decisoria del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

In particolare, Sez. 3, n. 26397/2022, Graziosi, Rv. 665652-01, ha affermato che, in caso di revoca del decreto ingiuntivo all’esito del giudizio di opposizione, se la revoca non è oggetto di impugnazione, il decreto ingiuntivo resta privo di effetti e non acquisisce autorità di giudicato, e ciò anche nel caso in cui tale decisione non sia corretta e sia intervenuto il pagamento della somma oggetto di ingiunzione. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso con cui era dedotta la violazione del giudicato esterno che il ricorrente sosteneva essere costituito da un precedente decreto ingiuntivo opposto, in una fattispecie in cui il giudice aveva dichiarato “improcedibile” l’opposizione per tardività, condannando la parte opponente al pagamento delle spese di lite, e, al contempo, aveva revocato il decreto ingiuntivo, in ragione dell’avvenuto pagamento ad opera dell’opponente delle somme oggetto di ingiunzione. Non si registrano precedenti sul punto.

Con riferimento alla competenza, Sez. 6-1, n. 01121/2022, Mercolino, Rv. 663541-01, ha ritenuto che la sentenza con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiara l’incompetenza territoriale non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull’opposizione, ma contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicché quello che trasmigra innanzi al giudice ad quem non è più una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l’accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio. In tale giudizio riassunto è, pertanto, ammissibile l’istanza di autorizzazione alla chiamata del terzo, seppur non avanzata in precedenza, potendo la riassunzione cumulare in sé anche la funzione introduttiva di un nuovo giudizio e non traducendosi ciò in una violazione del contraddittorio, in quanto il chiamato non resta assoggettato alle preclusioni e alle decadenze eventualmente già maturate nella precedente fase del giudizio. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme della Sez. 1, n. 01372/2016, Nazzicone, Rv. 638491-01.

La Suprema Corte è, altresì, intervenuta in tema di spese legali del procedimento di ingiunzione, nel caso in cui il decreto ingiuntivo venga revocato in esito al giudizio di opposizione. Al riguardo, Sez. 2, n. 24482/2022, Criscuolo, Rv. 665389-01, ha ritenuto che la revoca del decreto ingiuntivo non costituisca motivo sufficiente per rendere irripetibili dal creditore le spese della fase monitoria, occorrendo aver riguardo, invece, all’esito complessivo del giudizio, sicché la valutazione della soccombenza dovrà confrontarsi con il risultato finale della lite anche in relazione a tali spese. Analogo principio era stato espresso da Sez. 6-2, n. 17854/2020, Abete, Rv. 658965-01, secondo cui, ai fini della condanna alle spese di giudizio, la valutazione di soccombenza va sempre rapportata all’esito finale della lite, anche nell’ipotesi di giudizio seguìto ad opposizione ex art. 645 c.p.c. Di conseguenza, non può considerarsi soccombente il creditore opposto che veda conclusivamente riconosciuto, anche in parte minima, il proprio credito rispetto alla domanda monitoria, legittimamente subendo la revoca integrale del decreto ingiuntivo e la condanna alla restituzione di quanto, eccedente rispetto al dovuto, percepito in dipendenza della provvisoria esecutività.

Infine, nell’ambito del regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U, n. 20633/2022, Carrato, Rv. 665080-02, ha ribadito che, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, quando all’esito del regolamento preventivo di giurisdizione sia stato dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice nazionale, si determina una improseguibilità del giudizio di merito, in quanto il giudice italiano, pure avendo avuto il potere di adottare il provvedimento poi opposto, non ha più quello di decidere la relativa controversia, se non limitandosi a dichiarare la nullità del ridetto decreto monitorio. La decisione si pone in linea di continuità con il precedente conforme delle Sez. U, n. 22433/2018, Genovese, Rv. 650459-03.

5.5. L’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo.

Per la proposizione dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, l’art. 650 c.p.c. prevede, al primo comma, il termine ordinario di quaranta giorni decorrente dalla conoscenza del decreto irregolarmente notificato e, al terzo comma, il termine di chiusura di dieci giorni dal compimento del primo atto di esecuzione. Al riguardo, Sez. 6-1, n. 07560/2022, Tricomi, Rv. 664561-01, ha ribadito che il termine ordinario per proporre opposizione tardiva, ai sensi del primo comma dell’art. 650 c.p.c., è di quaranta giorni dalla conoscenza, comunque avuta, del decreto da parte dell’ingiunto, fermo restando che, indipendentemente dalla fruizione di tale termine, in applicazione del terzo comma dell’art. 650 c.p.c., l’opposizione è comunque inammissibile decorsi dieci giorni dall’inizio dell’esecuzione. In applicazione di tale principio, la S.C. ha respinto il ricorso contro la sentenza che aveva dichiarato inammissibile l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, proposta nei dieci giorni dall’inizio dell’esecuzione, ma oltre quaranta giorni dalla notificazione, ritualmente eseguita, del precetto. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. L, n. 17759/2011, De Renzis, Rv. 618768-01, in cui risulta affermato che il termine stabilito dal terzo comma non esclude l’operatività di quello previsto dal primo comma.

6. Il procedimento per convalida di sfratto.

Nell’anno in rassegna, la Suprema Corte si è occupata in varie pronunce del procedimento per convalida di sfratto.

In primo luogo, nell’ambito di un regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U, n. 11454/2022, Scrima, Rv. 664666-01, ha precisato che i provvedimenti resi dal giudice nella fase preliminare del procedimento per convalida di sfratto di cui agli artt. 657 e segg. c.p.c., in quanto aventi carattere provvisorio, non integrano decisione nel merito e, pertanto, non ostano alla proponibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione di cui all’art. 41 c.p.c. La pronuncia è conforme al precedente Sez. U, n. 02335/1988, Di Ciò, Rv. 458110-01.

Con riferimento all’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c., Sez. 6-3, n. 13956/2022, Iannello, Rv. 664649-01, ha affermato che si tratta di un provvedimento non impugnabile, né idoneo al giudicato, poiché non ha carattere irrevocabile e non statuisce in via definitiva sui diritti e sulle eccezioni delle parti, la cui risoluzione è riservata invece alla successiva fase di merito, in cui intimante ed intimato cristallizzano il thema decidendum. Di conseguenza, l’omessa pronuncia su domande o eccezioni sollevate nella fase sommaria o in quella di merito può essere fatta valere solo con l’impugnazione della sentenza che definisce il giudizio incardinato ai sensi dell’art. 667 c.p.c. Principio conforme risulta espresso dalla Sez. 6-3, n. 12846/2014, Barreca, Rv. 631861-01.

Invece, con riferimento al provvedimento di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione o morosità, nonché alla sentenza pronunciata per qualsiasi ragione (nullità, risoluzione, scadenza della locazione, rinuncia del conduttore-sublocatore al contratto in corso) nei confronti del conduttore, Sez. 6-3, n. 09899/2022, Iannello, Rv. 664455-02, ha chiarito che tali provvedimenti esplicano l’efficacia di titolo esecutivo nei confronti del subconduttore, ancorché quest’ultimo non abbia partecipato al giudizio, né sia menzionato nel titolo, in quanto la subconduzione comporta la nascita di un rapporto obbligatorio derivato, la cui sorte dipende da quella del rapporto principale di conduzione, ai sensi dell’art. 1595, comma 3, c.c.

La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente conforme Sez. 3, n. 23302/2007, Finocchiaro, Rv. 600245-01, che, in applicazione di tale principio, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo che, a fronte del provvedimento di convalida di sfratto per finita locazione passato in cosa giudicata, emesso palesemente sul presupposto che il contratto integrava una locazione ad uso di abitazione di natura transitoria ed opponibile, oltre che al conduttore, anche al subconduttore, era preclusa, per il ricordato giudicato, alla corte di appello ogni verifica sulla qualificazione giuridica sia del contratto di locazione che del contratto di sublocazione e, pertanto, ogni indagine diretta ad attribuire alla sublocazione una durata maggiore del contratto di locazione da cui la stessa derivava.

7. Il procedimento possessorio.

Nell’ambito dei procedimenti speciali rientra anche il procedimento possessorio, disciplinato dagli artt. 703 e ss. c.p.c., con riferimento al quale la Suprema Corte ha affermato alcuni importanti principi nell’anno in rassegna.

Innanzitutto, dopo aver ribadito che il procedimento possessorio, come risultante dalle modifiche apportate all’art. 703 c.p.c. dal d.l. n. 35 del 2005, conv. dalla l. n. 80 del 2005, pur diviso in due fasi, conserva la sua struttura unitaria, Sez. 6-2, n. 32350/2022, Besso Marcheis, Rv. 666166-01, ha evidenziato che l’istanza di prosecuzione non deve essere notificata al contumace, non essendo introduttiva di un nuovo giudizio, né essendo tale incombenza prevista dall’art. 292 c.p.c., poiché la fase eventuale di merito non è che la prosecuzione di quella sommaria ed è retta, perciò, dagli atti introduttivi della fase interdittale. Analogo principio era stato affermato da Sez. 2, n. 04845/2012, Carrato, Rv. 622375-01, secondo cui la procura, conferita al difensore per l’introduzione di un giudizio possessorio, legittima l’avvocato, in mancanza di una diversa ed esplicita volontà della parte, a depositare altresì l’istanza di fissazione della trattazione del merito.

Inoltre, Sez. 3, n. 27392/2022, Valle, Rv. 665951-01, ha ribadito che l’interdetto possessorio, a differenza della sentenza resa nella successiva fase di merito, non è suscettibile di esecuzione forzata ma solo di attuazione, ai sensi dell’art. 669 duodecies c.p.c., con la conseguenza che è inammissibile sia l’intimazione del precetto sia la proposizione di opposizioni allo stesso, dovendo proporsi ogni contestazione al giudice che ha emanato il provvedimento. Al riguardo, Sez. 3, n. 06621/2008, Scarano, Rv. 602618-01, aveva affermato l’analogo principio, in base al quale, per procedere all’esecuzione dei provvedimenti possessori di natura sommaria, non deve essere seguita la disciplina normativa dell’esecuzione forzata relativa agli obblighi di fare stabilita negli artt. 612 e 614 c.p.c. Pertanto, a tal fine, non è necessaria la notificazione del precetto (con la conseguenza che le spese sostenute per la sua eventuale intimazione non sono ripetibili) ma, esclusivamente, la notifica del titolo esecutivo, e, in caso di contestazione relativa alle modalità di attuazione del provvedimento, deve essere proposto ricorso, ai sensi dell’art. 669 duodecies c.p.c. allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento sommario.

La Suprema Corte è, altresì, intervenuta sul divieto stabilito dall’art. 705 c.p.c. di proporre il giudizio petitorio finché non sia definito il giudizio possessorio e la decisione eseguita. In particolare, Sez. 2, n. 24236/2022, Criscuolo, Rv. 665558-01, in conformità al precedente della Sez. 2, n. 10588/2012, Bertuzzi, Rv. 622878-01, ha ribadito che tale divieto riguarda il solo convenuto nel giudizio possessorio, trovando la propria ratio nell’esigenza di evitare che la tutela possessoria chiesta dall’attore possa essere paralizzata, prima della sua completa attuazione, dall’opposizione diretta ad accertare l’inesistenza dello ius possidendi. Per contro, l’attore in possessorio può proporre azione petitoria, anche in pendenza del medesimo giudizio possessorio, dovendosi interpretare tale proposizione come finalizzata ad un rafforzamento della tutela giuridica, e non già come rinuncia all’azione possessoria. Detta facoltà, tuttavia, non può essere esercitata nello stesso giudizio possessorio, ma soltanto con separata iniziativa, introducendo la domanda petitoria una causa petendi e un petitum completamente diversi, dal che deriva l’inammissibilità della stessa se proposta dall’attore nella fase di merito del procedimento possessorio, la quale costituisce mera prosecuzione della fase sommaria.

Infine, due pronunce attengono al riparto di giurisdizione in tema di tutela possessoria. Al riguardo, in una fattispecie relativa al presunto spoglio esercitato mediante chiusura di un passaggio a livello ferroviario, Sez. U, n. 33242/2022, Criscuolo, Rv 666187-01, ha affermato che è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo l’azione possessoria con cui si denunci un comportamento dell’Amministrazione ricollegabile a un provvedimento formale, indipendentemente dalla legittimità o meno dello stesso, ovvero dal corretto esercizio del potere autoritativo. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo, poiché tale attività materiale era conseguente all’adozione di un provvedimento amministrativo, contestabile eventualmente innanzi al Tar. La pronuncia si pone in linea di continuità con Sez. U, n. 29087/2019, Sambito, Rv. 655801-01, secondo cui le azioni possessorie nei confronti della pubblica amministrazione sono esperibili davanti al giudice ordinario solo quando il comportamento della medesima non si ricolleghi ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio dei poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti (di fronte ai quali le posizioni soggettive del privato hanno natura non di diritto soggettivo, bensì di interesse legittimo, tutelabile, quindi, davanti al giudice amministrativo), ma si concreti e si risolva in una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali, mentre, ove dette azioni siano proposte in relazione a comportamenti attuati in esecuzione di poteri pubblici o comunque di atti amministrativi, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.

In secondo luogo, Sez. U, n. 28802/2022, Orilia, Rv. 665941-01, ha affermato che spettano al giudice ordinario - e non al Commissario per la liquidazione degli usi civici - sia le controversie tra privati in cui l’accertamento sulla qualità del terreno che si assume di “uso civico” (cd. qualitas fundi) debba essere risolto incidenter tantum, per essere stata la relativa eccezione sollevata al solo scopo di negare l’esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare, risolvendosi la stessa nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato, sia quelle in cui insorga una questione possessoria su un terreno, la cui appartenenza al demanio civico sia già stata oggetto di accertamento coperto da giudicato, non avendo essa più attinenza con la qualitas soli, che notoriamente afferisce al petitorio. Al riguardo, appare utile ricordare che, secondo quanto ritenuto da Sez. U, n. 07894/2003, Elefante, Rv. 563343-01, la giurisdizione dei commissari per la liquidazione degli usi civici ha ad oggetto, ai sensi dell’art. 29 della l. n. 1766 del 1927, tutte le controversie relative all’accertamento, alla valutazione e alla liquidazione dei diritti di uso civico, allo scioglimento delle promiscuità e alla rivendicazione e ripartizione delle terre, e quindi, in sostanza, ogni controversia circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico e degli altri diritti di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un comune o di una frazione, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni affidate ai commissari stessi. In tale ambito, l’azione di rivendica è consentita solo per recuperare i terreni e il pieno e pacifico godimento degli usi civici da parte della collettività beneficiaria, non anche ai privati (o alla Pubblica amministrazione, che agisca iure privatorum) per ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà e conseguire il possesso del bene.

8. I procedimenti di istruzione preventiva.

L’accertamento tecnico preventivo può essere chiesto prima dell’instaurazione della causa o in corso di essa; qualora venga proposto ante causam, il successivo giudizio di merito non ne costituisce una sua riassunzione.

Sulla base di tale principio, Sez. 2, n. 24490/2022, Papa, Rv. 665392-01, ha statuito che l’eventuale tempestività di un’eccezione non rilevabile d’ufficio, formulata nell’ambito di un procedimento di accertamento tecnico preventivo, non è destinata a spandere effetto nel giudizio di merito poi instaurato non costituendo, quest’ultimo, una riassunzione del primo. Di conseguenza, il termine decadenziale prescritto dall’art. 166 c.p.c. opera comunque, ancorché la medesima eccezione sia stata proposta nella fase cautelare preventiva. La pronuncia si pone in linea di continuità Sez. 6-2, n. 20881/2016, Abete, Rv. 641402-01, secondo cui l’eccezione di incompetenza (nella specie, per territorio derogabile, ancorché convenzionalmente esclusivo) formulata nell’ambito del procedimento di accertamento tecnico preventivo è inefficace nel successivo giudizio di merito, non costituendo quest’ultimo una riassunzione del primo nel quale può traslare quella eccezione così da rendere inoperante la preclusione di cui all’art. 38, comma 1, c.p.c.

Analogo principio è stato affermato anche con riferimento all’accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi ex art. 8 della l. n. 24 del 2017 da Sez. 6-3, n. 05046/2022, Dell’Utri, Rv. 663868-01, secondo cui il rinvio all’istituto di cui all’art. 696 bis c.p.c. fa sì che il provvedimento con cui il giudice affermi o neghi la propria competenza per territorio a provvedere sulla relativa istanza non assuma alcuna efficacia preclusiva o vincolante nel successivo giudizio di merito, con la conseguenza che il mancato rilievo d’ufficio dell’incompetenza (derogabile o inderogabile), o l’omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti, non determina il consolidamento della competenza, in capo all’ufficio giudiziario adito, anche ai fini del successivo giudizio di merito, non operando nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni delineato, per il giudizio a cognizione piena, dall’art. 38 c.p.c.

9. Il procedimento sommario di cognizione: i poteri del giudice.

In diverse pronunce la Suprema Corte si è occupata del procedimento sommario di cognizione.

In primo luogo, con riferimento ai poteri del giudice, Sez. 2, n. 14734/2022, Trapuzzano, Rv. 664793-01, ha chiarito che la scelta di mutare il rito rientra nella discrezionalità del giudice, il quale è tenuto a verificare, in relazione all’intero complesso delle difese svolte, se la controversia sia compatibile con un’istruttoria semplificata, la quale non impone di decidere in base alle sole prove documentali, potendo essere articolate anche prove costituende, da assumersi con modalità deformalizzate, che, se non ammesse ingiustificatamente in primo grado, devono essere disposte nel processo d’appello, al fine di evitare che il rito prescelto pregiudichi le ragioni sostanziali del ricorrente. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto contrario agli artt. 702 bis e ss. il rigetto delle invocate prove costituende, perché comportanti un’attività istruttoria complessa, e la contestuale negazione del mutamento del rito, sul presupposto che il ricorrente fosse vincolato al rito prescelto, con conseguente rigetto delle domande da lui proposte per l’insufficienza della documentazione prodotta. Analogo principio risulta affermato già da Sez. 1, n. 06563/2017, Dolmetta, Rv. 644753-02, secondo cui la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702 bis e ss. c.p.c. e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti, bensì all’intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l’altro, della complessità della controversia, del numero e della natura delle questioni in discussione.

La Suprema Corte, poi, ha ritenuto che la pronuncia di inammissibilità, adottata ai sensi dell’art. 702 ter, comma 2, c.p.c. per erronea scelta del rito, senza disporre il mutamento del rito da sommario ordinario ex art. 702 bis c.p.c. a sommario speciale (ex art. 14 d.lgs. 150 del 2011), non sia ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento avente natura meramente processuale che non statuisce in modo definitivo su un diritto soggettivo e che non impedisce la riproposizione della domanda secondo il rito correttamente applicabile. (Principio enunciato da Sez. 6-2, n. 00983/2022, Fortunato, Rv. 663810-01, con riferimento ad una fattispecie in cui il tribunale adito aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda, rilevando che la causa era stata proposta con il rito sommario di cui agli artt. 702 bis e ss. e che, trattandosi di controversia concernente la spettanza del compenso del difensore per il patrocinio civile, la controversia non rientrava tra quelle contemplate dall’art. 702 bis c.p.c. - cause a decisione collegiale -, dovendo trovare applicazione l’art. 14 d.lgs. n. 150 del 2011).

Infine, Sez. 2, n. 34501/2022, Scarpa, Rv. 666316-01, ha ritenuto che l’opposizione a decreto ingiuntivo, avente ad oggetto la richiesta di liquidazione di compensi maturati per la difesa in un processo penale, non essendo soggetta alla disciplina del procedimento sommario di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, perché applicabile alle sole controversie civili, possa svolgersi nelle forme del processo ordinario ex artt. 163 e ss. c.p.c. ovvero, in alternativa, del procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. innanzi al tribunale in composizione monocratica. Di conseguenza, ai fini della verifica del rispetto del termine di cui all’art. 641 c.p.c., deve aversi riguardo, nel primo caso, alla data della notificazione della citazione e, nel secondo caso, alla data del deposito del ricorso, sicché è in facoltà dell’opponente optare per quest’ultimo procedimento, siccome applicabile in tutte le controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica. La pronuncia si pone in linea di continuità con il precedente della Sez. 6-2, n. 06817/2021, Criscuolo, Rv. 660853-01, che, sempre con riferimento alla controversia avente ad oggetto la richiesta di liquidazione di compensi maturati per la difesa della parte civile nel processo penale, ha ritenuto che la stessa non sia soggetta alla disciplina del procedimento sommario di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 - applicabile alle sole controversie di cui all’art. 28 della l. n. 794 del 1942, riguardante i compensi per prestazioni giudiziali in materia civile - ma a quella del processo ordinario ovvero, in alternativa, del procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. innanzi al tribunale in composizione monocratica, con conseguente appellabilità del provvedimento che definisce il relativo giudizio, essendo l’immediato ricorso per cassazione limitato alle decisioni rese ai sensi dell’art. 14 cit.. Il principio è stato affermato in una fattispecie, in cui la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso immediato per cassazione avverso l’ordinanza con la quale il tribunale in composizione monocratica aveva rigettato la domanda proposta ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. e, perciò, soggetta all’appello ex art. 702 quater c.p.c.

9.1. L’impugnazione dell’ordinanza conclusiva.

Nell’anno in rassegna le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla questione se, nelle controversie regolate dal rito sommario di cognizione, per la parte costituita il termine per proporre impugnazione possa farsi decorrere - anche quando non vi sia stata una comunicazione della Cancelleria del provvedimento in testo integrale - dal giorno dell’udienza in cui il provvedimento è stato pronunciato e letto, senza dare alcun rilievo al fatto che la lettura sia avvenuta a fine udienza in assenza della parte e non contestualmente alla trattazione della singola causa, senza alcun avviso preventivo degli avvocati in ordine all’adozione di tale prassi. Sul punto si erano formati due orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità, il termine per proporre appello avverso l’ordinanza resa in udienza e inserita a verbale decorre, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell’udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tal sede a “comunicazione” ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.; questa impostazione esclude, altresì, l’applicabilità del termine lungo per l’appello in ragione della ratio deflattiva dell’istituto e di garanzia della ragionevole durata del processo. Queste posizioni erano state sostenute da Sez. 2, n. 14478/2018, Sabato, Rv. 648976-02, poi ribadite, con specifico riferimento ai procedimenti in materia di protezione internazionale, da Sez. 1, n. 14669/2021, Caradonna, Rv. 661400-01.

A tale primo indirizzo, si affiancava altro orientamento, che ha ritenuto appellabile l’ordinanza ai sensi dell’art. 702 quater, comma 6, c.p.c. nel termine semestrale stabilito dall’art. 327 c.p.c. (precisando che tale termine che opera per tutti i provvedimenti a carattere decisorio e definitivo, Sez. 3, n. 16893/2018, Graziosi, Rv. 649509-01) ed ha poi affermato la decorrenza del termine breve di impugnazione, a norma dell’art. 702 quater c.p.c., dalla comunicazione o dalla notificazione dell’ordinanza, espressamente escludendo l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 281 sexies c.p.c. (Sez. 6-1, n. 13439/2021).

Tale secondo orientamento risulta seguito anche da due pronunce dell’anno in rassegna. In particolare, Sez. 6-2, n. 05079/2022, Dongiacomo, Rv. 664178-01, ha precisato che, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni previsto dall’art. 702 quater c.p.c. per la proposizione dell’appello avverso l’ordinanza emessa ex art. 702 ter, comma 6, c.p.c., la comunicazione di cancelleria deve avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione. Ne consegue che ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni per l’appello occorre fare riferimento alla data di notificazione del provvedimento ad istanza di parte, ovvero, se anteriore, alla detta comunicazione di cancelleria in forma integrale, ossia comprensiva di dispositivo e motivazione. Analoghi principi risultano espressi da Sez. 6-2, n. 05661/2022, Criscuolo, Rv. 664182-01, secondo cui la disciplina speciale di cui all’art. 702 quater c.p.c. ha inteso unicamente introdurre l’accelerazione del termine di impugnazione, di norma correlato alla notificazione del provvedimento, anche in caso di sua comunicazione, svincolandolo dall’impulso della controparte, ma non anche assorbire implicitamente il comma 1 dell’art. 327 c.p.c., atteso che una tale evenienza richiederebbe un esplicito intervento del legislatore, nella specie insussistente. Peraltro, tale esito non vale per la sola parte contumace, per la quale non è prescritta la comunicazione del provvedimento, ma si estende altresì alla parte costituita cui non sia stata fatta la comunicazione.

Risolvendo il suindicato contrasto, Sez. U, n. 28975/2022, Patti, Rv. 665762-01, ha affermato che il termine di trenta giorni per l’impugnazione dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c. decorre, per la parte costituita, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell’art. 281 sexies c.p.c.; in mancanza delle suddette formalità l’ordinanza, a norma dell’art. 327 c.p.c., può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla pubblicazione.

Infine, sempre in tema di impugnabilità dell’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione, Sez. 6-2, n. 04665/2022, Abete, Rv. 663970-01, ha precisato che, in tema di compensi dovuti dal cliente al proprio difensore per attività stragiudiziale non correlata ad attività giudiziale, il provvedimento di liquidazione è adottato con le forme del rito sommario ex art. 702 bis e ss. c.p.c., e non già ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, con la conseguenza che lo stesso sarà appellabile e non ricorribile in cassazione.

Al riguardo, appare interessante ricordare il principio affermato dalla Sez. 6-2, n. 26347/2019, Fortunato, Rv. 655750-01, secondo cui, anche in seguito all’entrata in vigore dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, al fine di stabilire il regime di impugnazione del provvedimento con cui si liquidano gli onorari e le altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, assume rilevanza la forma adottata dal giudice in base alla qualificazione che egli abbia dato, implicitamente o esplicitamente, all’azione esercitata in giudizio.

10. I procedimenti in camera di consiglio.

Alcune pronunce dell’anno in rassegna hanno riguardato i procedimenti in camera di consiglio, ribadendo e specificando il principio secondo cui i provvedimenti emessi in sede di volontaria giurisdizione sono privi di valenza decisoria, non avendo natura contenziosa. Di conseguenza, non sono impugnabili ex art. 111 Cost. dinanzi alla Corte di cassazione, ad eccezione del capo relativo alla regolamentazione delle spese di lite, che invece ha valenza decisoria, incidendo in maniera processualmente definitiva su situazioni di diritto soggettivo.

In particolare, Sez. 2, n. 21081/2022, Carrato, Rv. 665098-01, ha evidenziato che il procedimento di cui all’art. 40 del r.d. n. 1814 del 1927 - con il quale la parte interessata può ottenere l’adempimento di una formalità da eseguirsi nel Pubblico Registro Automobilistico (PRA) a mezzo del Presidente del Tribunale - ha natura di volontaria giurisdizione, non ravvisandosi una parte vittoriosa o soccombente e avendo ad oggetto il regolamento, secondo la legge, dell’interesse pubblico alla pubblicità dei beni mobili registrati. Di conseguenza, i provvedimenti emessi in tale sede sono privi dei caratteri della decisorietà e della definitività e, perciò, non sono impugnabili con ricorso in sede di legittimità. Con la medesima pronuncia, tuttavia, Sez. 2, n. 21081/2022, Carrato, Rv. 665098-02, ha ritenuto che a tale regola facciano eccezione i capi della decisione contenenti una statuizione sulla regolazione delle spese giudiziali, poiché tale statuizione è dotata di carattere decisorio e, di conseguenza, può essere oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.

Con riferimento, poi, al procedimento avverso il rifiuto del Conservatore dei registri immobiliari (oggi direttore dell’Agenzia del territorio) di eseguire una trascrizione, previsto dall’art. 745 c.p.c., cui rinvia l’art. 113 bis disp. att. c.c., Sez. 1, n. 09742/2022, Caiazzo, Rv. 664371-01, ne ha riconosciuto la natura di volontaria giurisdizione non contenziosa, avendo esso ad oggetto non la risoluzione di un conflitto di interessi, ma il regolamento, secondo la legge, dell’interesse pubblico alla pubblicità immobiliare, cosicché in esso non è ravvisabile una parte vittoriosa o soccombente, tanto che il presidente del tribunale si limita a “sentire” il Conservatore e il relativo provvedimento è insuscettibile di passare in giudicato. Di conseguenza, in tale procedimento non può provvedersi alla condanna alle spese, che, se assunta, legittima al ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avendo tale pronuncia valenza decisoria. Tale pronuncia risulta conforme al precedente della Sez. 1, n. 15131/2015, Campanile, Rv. 636206-01.

Infine, con riferimento al procedimento per la nomina giudiziale di un amministratore di condominio, Sez. 6-2, n. 01799/2022, Bertuzzi, Rv. 663813-01, ha affermato che tale procedimento, appartenendo all’ambito della volontaria giurisdizione ed essendo di natura non contenziosa, sfocia in un provvedimento che non deve regolare le spese, con la conseguenza che il decreto della corte di appello, pronunciato in sede di reclamo, è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111 Cost., in relazione alla parte in cui, regolando le spese, incide in maniera processualmente definitiva su situazioni di diritto soggettivo.

11. L’opposizione a sanzioni amministrative.

Da ultimo, appare interessante menzionare due pronunce relative ai procedimenti di opposizione ad ordinanza ingiunzione.

Nella prima, Sez. 2, n. 01056/2022, Besso Marcheis, Rv. 663569-01, ha chiarito che nel procedimento di opposizione alle ingiunzioni di pagamento di sanzioni amministrative, di cui all’art. 22 della l. n. 689 del 1981, la tardività della contestazione dell’illecito, cui consegue, ex art. 14 stessa legge, l’effetto estintivo dell’obbligo di pagare la somma dovuta a titolo di sanzione, non può essere rilevata d’ufficio, ma costituisce oggetto di eccezione in senso stretto che deve essere dedotta come motivo specifico di opposizione, atteso che nel predetto procedimento, strutturato in conformità al modello del processo civile, trovano applicazione le regole della domanda (art. 99 c.p.c.), della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e del divieto della pronuncia d’ufficio su eccezioni rimesse esclusivamente all’iniziativa della parte (art. 112 c.p.c.). La pronuncia appare una specificazione del principio affermato da Sez. 2, n. 00232/2016, Matera, Rv. 638385-01, secondo cui, in tema di opposizione al verbale di contestazione di violazione del codice della strada, ai sensi dell’art. 204 bis dello stesso codice e degli artt. 22 e 23 della l. n. 689 del 1981, l’oggetto del giudizio è delimitato dai motivi dedotti dall’opponente, entro i termini di legge, con l’atto introduttivo, sicché il giudice non può rilevare d’ufficio vizi diversi.

Nella seconda, Sez. 6-2, n. 24866/2022, Oliva, Rv. 665575-01, ha ritenuto che, in tema di procedimento di opposizione ad ordinanza ingiunzione, emessa per il trasporto di animali non idonei al viaggio, il giudice del procedimento può far ricorso al ragionamento presuntivo poiché l’art. 6, comma 9, del d.lgs. n. 150 del 2011 non gli pone alcuna limitazione istruttoria, tenuto conto altresì del fatto che la condotta sanzionata non è istantanea, ma prolungata nel tempo, ditalché correttamente il giudice del merito, ai fini dell’accertamento della violazione, può inferire dalle condizioni di arrivo dell’animale le sue condizioni alla partenza. Al riguardo, può essere utile ricordare quanto affermato da Sez. 6-2, n. 29426/2021, Picaroni, Rv. 662804-01, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle disposizioni sulla protezione degli animali durante il trasporto, rientrano nella condotta sanzionata dall’art. 7 del d.lgs. n. 151 del 2007 le operazioni di carico, scarico, trasferimento e riposo, fino all’arrivo dell’animale nel luogo di destinazione. Di conseguenza, la violazione della richiamata disposizione deve ritenersi integrata nel luogo in cui viene accertata l’inidoneità dell’animale ad essere trasferito da un luogo ad un altro e, dunque, anche durante il trasporto.

  • spese processuali
  • giurisdizione arbitrale
  • competenza giurisdizionale
  • arbitraggio
  • pubblica amministrazione
  • conflitto di giurisdizioni

CAPITOLO XIX

L’ARBITRATO

(di Luigi La Battaglia )

Sommario

1 Convenzione d’arbitrato: interpretazione, potestas iudicandi e suoi limiti. - 2 Nullità della convenzione ed eccezione di difetto di potestas iudicandi. - 3 L’arbitrato irrituale. - 4 L’arbitrato societario. - 5 Le spese ed il compenso degli arbitri. - 6 Pubblica Amministrazione e arbitrato. - 7 Il lodo e l’impugnazione per nullità. - 8 Questioni di giurisdizione e di competenza. - 9 L’esecuzione del lodo arbitrale.

1. Convenzione d’arbitrato: interpretazione, potestas iudicandi e suoi limiti.

L’art. 808, comma 2, c.p.c., stabilisce il principio secondo il quale la clausola compromissoria non costituisce un accessorio del contratto nel quale è inserita, ma possiede una propria individualità ed autonomia, nettamente distinta da quella del contratto cui accede. Il potere di convenire la clausola compromissoria deriva, peraltro, da quello di stipulare il contratto, sicché - come chiarito da Sez. 1, n. 11802/2022, Terrusi, Rv. 664668-01 - compete anche all’impresa mandataria di un’associazione temporanea di imprese, la quale abbia ricevuto dalle imprese associate, in forza del sottostante mandato con rappresentanza, il potere di rappre-sentarle anche nei rapporti con i terzi, in vista della migliore realizzazione dell’opera per la quale l’associazione è stata costituita (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto una impresa mandante inclusa nel perimetro di efficacia soggettiva della clausola compromissoria contenuta nel contratto di subappalto concluso con un terzo dalla mandataria dell’a.t.i. con cui la prima era riunita in associazione per la realizzazione di lavori pubblici).

Sempre in tema di efficacia soggettiva della clausola compromissoria, Sez. 1, n. 04338/2022, Amatore, Rv. 664013-01, ha affermato che la clausola compromissoria contenuta in un contratto a favore di terzo è opponibile a quest’ultimo qualora egli abbia manifestato la volontà di profittare della stipulazione, dal momento che tale volontà non può non riguardare tutte le clausole contrattuali nel loro insieme.

L’art. 808-quater c.p.c. dispone che, “nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”. Criterio dirimente (che definisce l’estensione ma anche i limiti della competenza arbitrale) è, dunque, dato dalla circostanza che il contratto rappresenti causa petendi della controversia. Il principio è stato ribadito, nell’anno in rassegna, da Sez. 1, n. 31350/2022, Casadonte, Rv. 665989-01, che ha conseguentemente escluso che agli arbitri possano essere devolute domande di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale, le quali nel contratto rinvengono unicamente un presupposto di fatto (nella specie, si trattava di un’azione ex art. 1669 c.c., in cui era stata dedotta la responsabilità per gravi difetti di un immobile).

Sempre in relazione al perimetro oggettivo di efficacia della clausola compromissoria, dev’essere ricordata Sez. 3, n. 29932/2022, Guizzi, Rv. 666304-01, secondo la quale la presenza di una clausola compromissoria in seno a un contratto valevole come titolo esecutivo stragiudiziale (nella specie, si trattava di un atto pubblico di compravendita di partecipazioni sociali) non dà luogo, di per sé, a un “pactum de non exequendo ad tempus” (avente l’effetto di subordinare l’esercizio dell’azione esecutiva alla formazione del giudicato sul provvedimento che ne rappresenti il titolo), essendo necessario che tale pattuizione sia chiaramente contemplata dalle parti nel testo contrattuale.

Secondo Sez. 2, n. 04711/2022, Giannaccari, Rv. 663886-01, non integra una clausola compromissoria la previsione del regolamento di condominio che, per i casi di contrasto tra condomini, preveda l’obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite (nella specie, presso l’Associazione della proprietà edilizia), valendo la stessa piuttosto ad istituire una condizione di procedibilità della domanda (in modo, peraltro, inammissibile, giacché i presupposti processuali per la validità del procedimento sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nell’autonomia privata).

2. Nullità della convenzione ed eccezione di difetto di potestas iudicandi.

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 807, comma 1, e 808, comma 1, ult. parte, c.p.c., la clausola compromissoria richiede la forma scritta ad substantiam, la quale - secondo quanto evidenziato da Sez. U, n. 15713/2022, Falaschi, Rv. 664751-01 - non richiede necessariamente che la corrispondente volontà delle parti sia espressa in un unico documento, essendo compatibile con lo scambio delle missive contenenti la proposta e l’accettazione, ex art. 1326 c.c., del deferimento della controversia ad arbitri (nel caso di specie, la società proponente aveva inserito la clausola compromissoria nella proposta contrattuale, ma, prima che l’altra parte accettasse, aveva agito con un procedimento monitorio nei confronti di quest’ultima, in tal modo tenendo un contegno incompatibile con la volontà di devolvere in arbitri la controversia, tale, dunque, da integrare una revoca tacita della proposta stessa).

Prendendo le mosse dal consolidato principio per cui la produzione in giudizio, ad opera della parte che non l’aveva sottoscritta, di una scrittura privata, costituisce equipollente della mancata sottoscrizione contestuale e perciò perfeziona, sul piano sostanziale o su quello probatorio, il contratto in essa contenuto, Sez. 6-3, n. 2666/2022, Scrima, Rv. 663866-01 e 663866-02, ha precisato che tale effetto non può estendersi alla clausola compromissoria eventualmente contenuta nella scrittura stessa, rivestendo il contegno della parte, in tal caso, un significato logicamente antitetico, in quanto volto a far valere la pretesa dinanzi al giudice (nel caso di specie si trattava, peraltro, di contratto per adesione, per cui ulteriore ostacolo all’operatività della clausola compromissoria discendeva dall’impossibilità di ritenere che la produzione in giudizio del contratto nel quale era contenuta potesse surrogare la specifica approvazione per iscritto).

Nell’ipotesi in cui, invece, la clausola compromissoria sia addirittura inesistente, la carenza assoluta di potere degli arbitri non può essere sanata dal successivo comportamento delle parti, come invece accade nelle ipotesi di nullità, ai sensi del combinato disposto degli artt. 829, comma 1, n. 4, c.p.c., e 817 c.p.c., del quale deve escludersi l’applicazione analogica, ponendosi la competenza arbitrale come derogatoria alla competenza del giudice naturale (in tal senso, Sez. 1, n. 02066/2022, Scalia, Rv. 663944-01).

3. L’arbitrato irrituale.

L’arbitrato cd. irrituale si pone come strumento di risoluzione contrattuale delle contestazioni insorte o che possono insorgere in ordine a determinati rapporti giuridici, imperniato sull’affidamento a terzi del compito di definire la relativa contro-versia mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento che le parti si impegnano a considerare espressione della loro volontà (si veda, per una definizione in questi termini, Sez. 2, n. 14986/2021, Scarpa, Rv. 661513-01, e Sez. 1, n. 24558/2015, De Marzo, Rv. 637984-01). Esso - ha affermato Sez. 2, n. 12058/2022, Carrato, Rv. 664389-01 - si differenzia dal contratto di transazione, per il fatto che la risoluzione della controversia da parte degli arbitri non implica reciproche concessioni tra le parti, né - a differenza di quanto avviene per il lodo emesso in seno all’arbitrato rituale - è eseguibile coattivamente, essendo rimessa l’attuazione dei diritti cristallizzati nel lodo contrattuale esclusivamente al comportamento delle parti.

Ogni contestazione circa la natura rituale o irrituale dell’arbitrato dev’essere sollevata nel corso del giudizio arbitrale ex art. 817 c.p.c., sicché, ove ciò non sia avvenuto, è inammissibile la proposizione di tale questione mediante l’impugnazione del lodo (in tali termini, nell’anno in rassegna, Sez. 1, n. 02066/2022, Scalia, Rv. 663944-02).

4. L’arbitrato societario.

Nel 2022 si è pronunciata sull’art. 36 d.lgs. n. 5 del 2003 (secondo il quale, “anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell’articolo 829, secondo comma, del codice di procedura civile quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari”) Sez. 1, n. 16780/2022, Falabella, Rv. 664945-01, che, con riferimento a una clausola compromissoria stipulata prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006, ha ritenuto ammissibile l’impugnazione per errores in iudicando del lodo avente ad oggetto l’impugnazione di una delibera del consiglio di amministrazione di una s.r.l., siccome estensivamente equiparabile alle deliberazioni assembleari).

Con riguardo, invece, alla clausola contenuta nello statuto di una società di persone, volta a devolvere alla competenza arbitrale ogni controversia tra i soci o tra questi e la società, Sez. 1, n. 25927/2022, D’Orazio, Rv. 665874-01, ha chiarito che la stessa non comporta l’attribuzione agli arbitri del potere di decidere l’esclusione del socio (e, dunque, di derogare al disposto dell’art. 2287 c.c., che tale potere riconosce alla maggioranza dei soci, sulla base di un procedimento “endosocietario”), ma solo la devoluzione a questi ultimi della cognizione sulla con-troversia conseguente all’adozione della delibera di esclusione.

5. Le spese ed il compenso degli arbitri.

Dal contratto d’opera intellettuale alla base dell’arbitrato deriva il diritto degli arbitri al compenso, la cui “autoliquidazione”, secondo l’art. 814, comma 2, c.p.c., è vincolante per le parti solo ove accettata da queste ultime. In mancanza, la determinazione delle spese e dell’onorario compete al Presidente del tribunale, su ricorso degli arbitri stessi. Il criterio di riferimento, nel caso in cui il collegio arbitrale sia composto di soli avvocati, è quello della tariffa professionale forense, senza possibilità, per il Presidente del tribunale che procede alla liquidazione, di fare ricorso a criteri equitativi (in questi termini si è espressa Sez. 1, n. 11963/2022, Campese, Rv. 664676-01). Con specifico riguardo alla tariffa di cui al d.m. n. 140/2012, Sez. 1, n. 13395/2022, Iofrida, Rv. 664867-01, ha ribadito che si deve far riferimento ai parametri previsti per l’attività stragiudiziale (art. 6, comma 2, d.m. citato), con la conseguenza che il valore della controversia deve essere determinato sulla base delle richieste contenute nella domanda e non di quanto attribuito con il lodo: non si applica, infatti, la regola di cui al precedente art. 5 d.m. n. 140 (che, per i giudizi per pagamento di somme, rimanda “alla somma attribuita alla parte vincitrice e non alla somma domandata”), posto che esso riguarda l’attività giudiziale svolta dagli avvocati, “e non dall’arbitro che svolge un’attività giudicante, sia pure extragiudiziale, e non può interferire in alcun modo sulla fissazione del valore della domanda”.

Lo stesso principio, relativamente a una fattispecie cui era applicabile ratione temporis il d.m. n. 55/2014, è stato affermato da Sez. 1, n. 11963/2022, Campese, Rv. 664676-02, puntualizzando che nessun effetto può spiegare la pronunzia emessa dal collegio arbitrale, anche solo di inammissibilità o di improcedibilità della domanda, atteso che un ipotetico criterio di determinazione ex post del valore della causa sulla base del concreto decisum sarebbe in contrasto con le regole fissate nel codice di procedura civile (richiamate dall’art. 5, comma 1, d.m. citato).

Sempre con riferimento al d.m. n. 55/2014, Sez. 1, n. 11800/2022, Iofrida, Rv. 664667-01, ha chiarito che ciascuno dei componenti di un collegio arbitrale composto da avvocati ha diritto, in applicazione dell’art. 23, ad un compenso integrale per l’attività prestata, non potendosi liquidare un compenso unico da suddividere per tre.

Il provvedimento del Presidente del tribunale di determinazione del compenso degli arbitri è reclamabile dinanzi alla Corte d’Appello ai sensi dell’art. 814, ult. comma, c.p.c.; quest’ultima decide con ordinanza che, alla luce della compiuta giurisdizionalizzazione dell’arbitrato, operata dal d.lgs. n. 40 del 2006, è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., essendo caratterizzata dai requisiti di decisorietà e definitività, in considerazione della sua incidenza sul diritto soggettivo al compenso e alla sua attitudine al giudicato, senza che ne sia possibile la modifica o la revoca attraverso l’esperimento di alcun altro rimedio giurisdizionale (Sez. 1, n. 13395/2022, Iofrida, Rv. 664867-02, sulla falsariga del precedente costituito da Sez. U, n. 25045/2016, Ragonesi, Rv. 641779-02).

Sull’argomento del diritto al compenso degli arbitri si è espressa, nel 2022, anche Sez. 2, n. 00789/2022, Fortunato, Rv. 663625-01, secondo cui tale diritto non è assoggettato alla prescrizione prevista dall’art. 2956, comma 1, n. 2), c.c., in quanto le prescrizioni presuntive trovano applicazione solo con riferimento ai rapporti che si svolgono senza formalità, mentre la costituzione del collegio e l’investitura dei suoi componenti non ha luogo in via informale ma all’esito di una particolare procedura (artt. 810 e 813 c.p.c.) che richiede uno scambio di atti redatti per iscritto a pena di nullità e che può implicare, al pari della procedura di liquidazione diretta da parte degli arbitri, anche l’intervento suppletivo dell’autorità giudiziaria.

Infine, facendo applicazione della disposizione di cui all’art. 816-septies c.p.c., Sez. 1, n. 03259/2022, Di Marzio M., Rv. 664037-01, ha evidenziato che, nel caso di subordinazione, da parte degli arbitri, della prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili, il mancato versamento del fondo spese nel termine fissato determina ipso iure lo scioglimento del vincolo derivante dalla convenzione di arbitrato, limitatamente alla controversia che ha dato origine al procedimento arbitrale, non necessitando alcuna dichiarazione in tal senso degli arbitri.

6. Pubblica Amministrazione e arbitrato.

In ordine alla competenza della camera arbitrale per la nomina del terzo arbitro in caso di disaccordo delle parti, ai sensi dell’art. 241, comma 15, d.lgs. n. 163 del 2006, Sez. 1, n. 27613/2022, Tricomi L., Rv. 665642-01, ha evidenziato che la stessa sussiste ove la costituzione del collegio arbitrale previsto da clausola compromissoria abbia avuto luogo successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 163 del 2006, sicché, ove tale nomina sia stata effettuata dal Presidente del tribunale, si determina un’irregolare costituzione del collegio, denunciabile in sede di im-pugnazione del lodo ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c.

Tale nullità non ricorre, invece, allorquando - in presenza di una clausola compromissoria che, rinviando all’art. 43 del d.P.R. n. 1063 del 1962, preveda un collegio arbitrale composto da cinque membri - le parti, a seguito della successiva abrogazione di tale norma (sostituita dall’art. 32 del d.P.R. n. 109 del 1994, che prevede un collegio arbitrale composto da tre membri), manifestino, anche indi-rettamente, la concorde volontà di nominare tre arbitri, (così Sez. 1, n. 10845/2022, Scalia, Rv. 664733-01, delineando un meccanismo di sanatoria che preclude il rilievo officioso da parte del giudice dell’impugnazione del lodo).

Sempre dal punto di vista dell’efficacia della legge nel tempo, Sez. 2, n. 12689/2022, Tedesco, Rv. 664665-01, ha affermato che il limite massimo del compenso, fissato dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 53 del 2010, non si applica ai collegi arbitrali già costituiti alla data di entrata in vigore del predetto d.lgs., neanche qualora la composizione dell’organo sia stata successivamente modificata, atteso che ciò che condiziona il regime giuridico applicabile è il momento iniziale di costituzione del collegio, non inciso, nella sua identità, dall’eventuale sostituzione dei suoi membri, così come stabilito nella disciplina transitoria di cui all’art. 4, comma 7, del d.l. n. 40 del 2010, conv., con modif., dalla l. n. 73 del 2010.

7. Il lodo e l’impugnazione per nullità.

L’art. 817, comma 2, c.p.c., preclude l’impugnazione del lodo alla parte che non abbia eccepito, nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri, l’incompetenza di questi ultimi per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione d’arbitrato. Richiamando tale disposizione, Sez. U, n. 19852/2022, Di Marzio M., Rv. 665037-01, ha, dunque, concluso per la rilevabilità d’ufficio, in sede di impugnazione del lodo per nullità, della non arbitrabilità della controversia (perché avente ad oggetto diritti indisponibili o per l’esistenza di una espressa norma proibitiva), anche qualora la relativa eccezione non sia stata formulata in sede arbitrale.

Pronunciandosi in tema di nullità del lodo per contrarietà all’ordine pubblico (unico caso in cui è ammissibile l’impugnazione del lodo per violazione di norme di diritto relative al merito della controversia, in forza dell’art. 829, comma 3, c.p.c.), Sez. 1, n. 27615/2022, Reggiani, Rv. 665643-01, ha escluso che la decisione arbitrale possa essere impugnata per violazione del divieto del patto commissorio, poiché il disposto dell’art. 2744 c.c., pur trattandosi di una norma imperativa, non esprime in sé un valore insopprimibile dell’ordinamento, essendo posto a tutela del patrimonio del contraente, tant’è che lo stesso legislatore ha previsto casi in cui tale divieto non si applica ex art. 6 del d.lgs. n. 170 del 2004.

Attengono all’ordine pubblico comunitario, invece, le disposizioni comminanti le cd. nullità di protezione (nella specie, si trattava della violazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 2005, che impone al costruttore l’obbligo di rilasciare e consegnare all’acquirente una fideiussione di importo corrispondente alle somme riscosse), sicchè - come puntualizzato da Sez. 2, n. 14405/2022, Besso Marcheis, Rv. 664688-01, nel caso in cui gli arbitri non le abbiano segnalate alle parti, la relativa decisione è impugnabile ai sensi dell’art. 829, comma 3, c.p.c., con conseguente obbligo per il giudice statale dell’impugnazione di rilevare la nullità.

Parimenti, integra nullità del lodo l’omessa adozione da parte degli arbitri, ai sensi dell’art. 816-sexies c.p.c., delle misure idonee a garantire il contraddittorio con i soggetti legittimati a proseguire il giudizio, in caso di morte della parte nel corso del giudizio medesimo, di modo che - secondo Sez. 1, n. 11245/2022, Falabella, Rv. 664736-01 - in caso di impugnazione del lodo, il giudice del gravame non può decidere la causa nel merito, dovendo arrestare il giudizio alla sola fase rescindente.

Dalla cognizione del giudice dell’impugnazione del lodo - ha affermato Sez. 1, n. 27954/2022, Fidanzia, Rv. 665693-01 - esorbita, per contro, la valutazione dei fatti dedotti e delle prove acquisite nel corso del procedimento arbitrale, negozialmente rimessa alla competenza istituzionale degli arbitri (nel caso di specie la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in una fattispecie in cui veniva in rilievo una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., aveva dichiarato la nullità di un lodo arbitrale per ragioni attinenti al merito delle valutazioni operate dagli arbitri in ordine alla gravità dei reciproci inadempimenti delle parti).

Neppure è possibile impugnare il lodo per manifesta iniquità ed erroneità della determinazione ex art. 1349 c.c., allorquando, in mancanza di accordo sulla nomina del terzo arbitratore, le parti abbiano attivato un giudizio arbitrale, prevalendo, in tal caso, la normativa speciale di cui agli artt. 806 e 827 c.p.c.: ha statuito in tal senso Sez. 1, n. 16648/2022, Lamorgese, Rv. 664873-01, che ha escluso ogni dubbio di legittimità costituzionale della disciplina, sul presupposto che la limitazione dei casi di impugnabilità è frutto della scelta delle parti di prevedere nel contratto una clausola compromissoria.

Infine, ribadendo un principio già espresso, dieci anni prima, da Sez. 1, n. 15086/2012, Ragonesi, Rv. 623671-01, Sez. 1, n. 3260/2022, Parise, Rv. 664101-01, ha statuito che la decisione della Corte d’appello sulla impugnazione del lodo per violazione delle norme di legge in tema di interpretazione dei contratti può essere censurata con ricorso per cassazione per vizi propri della sentenza medesima e non per vizi del lodo, spettando al giudice di legittimità verificare soltanto che la Corte di merito abbia esaminato la questione interpretativa e abbia dato motivazione adeguata e corretta della soluzione adottata.

8. Questioni di giurisdizione e di competenza.

Sez. 1, n. 24689/2022, Marulli, Rv. 665629-01, si è soffermata sull’accordo processuale scaturente dall’adesione di una parte all’eccezione di incompetenza arbitrale proposta dalla controparte, che determina l’immediata e definitiva caducazione del potere di giudizio in capo agli arbitri, i quali, conseguentemente, non possono più statuire sulla propria competenza, neppure nel caso in cui, prima della loro pronuncia, l’eccezione suddetta sia stata rinunciata (nel caso di specie, un’associazione tra professionisti, all’atto di costituirsi dinanzi agli arbitri, aveva eccepito la loro incompetenza, per essere la controparte receduta dall’associazione medesima, e dunque non più vincolata alle norme statutarie contemplanti la devoluzione della lite in arbitrato, per poi successivamente rinunciare all’eccezione, ma dopo che la convenuta vi aveva aderito).

Nell’ipotesi (per certi versi speculare) in cui il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in conseguenza di una clausola compromissoria per arbitrato estero, non venga eccepito dalle parti, esso - secondo quanto notato da Sez. U, n. 17244/2022, Carrato, Rv. 664757 - 01 - non può essere rilevato d’ufficio - stante l’imprescindibile carattere volontario dell’arbitrato, in virtù del quale le parti, pur in presenza di una clausola compromissoria, possono sempre concordemente optare per una decisione da parte del giudice ordinario, anche tacitamente, mediante l’introduzione del giudizio in via ordinaria alla quale non faccia seguito la proposizione dell’eccezione di compromesso; né, in caso di contumacia del convenuto, risulta applicabile l’art. 11 della l. n. 218 del 1995, che non contempla espressamente l’ipotesi in cui alla base del difetto di giurisdizione vi sia una con-venzione di arbitrato estero.

9. L’esecuzione del lodo arbitrale.

Sez. 1, n. 11803/2022, Terrusi, Rv. 664669-01, ha affermato che non è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., il provvedimento della Corte d’appello che, in sede di reclamo, neghi l’esecutorietà del lodo, non rimanendo preclusa, in tal caso, la possibilità di procedere ad esecuzione forzata, sia in quanto la parte può agire in via ordinaria per fare accertare la sussistenza dei requisiti cui è subordinata l’efficacia esecutiva del lodo, sia in quanto essa può rinnovarne in alternativa il deposito, con il corredo della documentazione di cui sia stata precedentemente rilevata la mancanza o l’irregolarità.

Nell’annualità in rassegna si è pronunciata, in ordine al riconoscimento e all’esecuzione del lodo arbitrale straniero, Sez. 1, n. 03255/2022, Di Marzio M., Rv. 664011-01, ai termini della quale, in applicazione dell’art. 5, comma 2, lett. b), della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (resa esecutiva con la l. n. 62 del 1968), il requisito della non contrarietà all’ordine pubblico deve essere riscontrato con riferimento alla parte dispositiva, nella quale si compendia il decisum della pronuncia arbitrale e, anche se, a tal fine, è consentito prendere in esame il contenuto del lodo, ciò non può mai tradursi in un controllo sulla motivazione, il quale darebbe corso a quel riesame nel merito categoricamente escluso dalla Convenzione (in applicazione di tale principio, la Cassazione ha respinto il ricorso con il quale era stata dedotta la contrarietà all’ordine pubblico del lodo straniero per essere stato emesso sulla base di testimonianze e altre prove indicate come false in base ad argomenti già trattati, e respinti, dall’autorità giudiziaria straniera in sede di impugnazione dello stesso lodo).

  • competenza giurisdizionale

DIALOGANDO CON IL MERITO

IL GIURAMENTO DEL CURATORE: UN PROBLEMA APERTO

(di Alessandro Farolfi )

Sommario

1 Introduzione: prove legali e libero convincimento. - 2 Il giuramento in sede civile. - 3 Il giuramento del curatore: la tesi tradizionale. - 3.1 Segue: le aperture di Sez. 1 n. 15570 del 2015. - 4 Il revirement del 2022. - 5 La parola alle Sezioni Unite.

1. Introduzione: prove legali e libero convincimento.

Le prove legali rappresentano quei mezzi di prova di cui è il legislatore ad operare ex ante ed una volta per tutte la valutazione, definendone il risultato probatorio in modo vincolante, sia per le parti che per il giudice.

Alla base di tale predeterminazione stanno alcune presunzioni generali non scritte che l’ordinamento, pur nel suo mutevole conformarsi ed adattarsi alla realtà sociale, economica e giudiziaria, recepisce nella sua intrinseca immanenza, conferendo un maggior grado di attendibilità, vincolante ed obbligatorio, ad alcuni mezzi di prova rispetto ad altri.

Così è per la confessione, sulla scorta della regola di giudizio per cui difficilmente un soggetto confessa a proprio danno fatti controversi se ciò non è vero, essendo piuttosto massimamente frequente il contrario (cioè che la parte tende a riferire in giudizio unicamente i fatti a sé favorevoli).

Così, ancora, per la prevalenza assegnata ad alcuni documenti scritti, rispetto alle prove orali ed alla testimonianza in particolare, sia per il maggior grado di incertezza che quest’ultima conosce in generale, essendo le dichiarazioni il frutto dei corruttibili ricordi che dei fatti ha il testimone, molto spesso dovuto altresì ai non infallibili sensi che ne hanno consentito la percezione, sia comunque per un certo grado di “sfiducia” che l’ordinamento nutre rispetto a soggetti, potenzialmente esposti all’interesse che le parti e gli stessi dichiaranti nutrono nell’esito della causa.

Le prove legali, peraltro, sono al tempo stesso, certamente, il retaggio di un’epoca storica più antica, segnata dalla diffidenza verso le capacità professionali del giudice, sì che la loro sopravvivenza intanto si giustifica in quanto è espressione di principi di carattere residuale rispetto ad un opposto e prevalente principio di libera valutazione delle prove, sia perché, in epoca moderna, la prova civile appare unicamente incentrata ed ancorata alla dimostrazione dei fatti contestati e non del “torto” o della “ragione” in assoluto.

Si può anzi ritenere che nel momento in cui la prova legale offre indubbi spazi per una semplificazione probatoria ed un maggior grado di certezza giuridica, essa si risolve tuttavia in una forte limitazione del diritto alla prova delle parti, non essendo a queste consentito, se non in certe situazioni altrettanto eccezionali (si pensi alla querela di falso), rimettere in discussione il fatto così come risultante dalla prova legale.

Proprio per questo, a ben vedere, la formulazione dell’art. 116 c.p.c. assegna al catalogo delle prove legali il carattere del numero chiuso, insuscettibile cioè di estensione analogica a casi diversi, dovendo infatti ritenersi tutt’ora convincente il rapporto fra eccezione (prova legale) e regola generale (libero convincimento del giudice).

Pur con tale precisazione, il numero delle prove legali è tutt’altro che irrilevante, e si riconduce – in rapida successione - alle seguenti previsioni: artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 2720, 2733, 2734, 2735, 2738 c.c. ed art. 239 c.p.c.

2. Il giuramento in sede civile.

Il codice civile dedica al giuramento gli artt. 2736 e ss. Come è intuitivo, questo istituto rappresenta, essenzialmente, un retaggio dell’antico diritto romano, nella sua originaria sovrapposizione fra ius e fas, come pure del successivo sviluppo che lo stesso ebbe nel diritto giustinianeo, ove perduto il riferimento agli antichi dei (iusurandum per Iovem deosque Panateis) e ricondottolo piuttosto al dogma della fede cristiana, diviene mezzo di prova formale e assoluto, nel quale il rifiuto di giurare e di riferire il giuramento, o di prestare il giuramento riferito in iure, s’interpreta come segno manifestae turpitudinis et confessionis (Dig., XII, 2, de iureiurando, 38).

In termini essenzialmente schematici può qui ricordarsi come il giuramento, quale mezzo di prova, perduto ogni riferimento religioso (vds. l’attuale formula dell’art. 238 c.p.c.), rappresenti essenziale manifestazione del potere dispositivo delle parti, come evidenzia l’art. 2739 c.c., che appunto lo impedisce quando riguardi diritti di cui le parti non possono disporre. In tal senso anche l’art. 2737 c.c., che richiama le condizioni di capacità per prestare la confessione, di cui al precedente art. 2731 c.c. Inoltre, il giuramento mal si concilia – ed è in effetti escluso – quando riguardi contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam; quando concerne fatti avvenuti alla presenza di un pubblico ufficiale e risultino da un atto da lui formato, in quanto in tal caso la fede privilegiata che assiste tale verbalizzazione deve essere previamente rimossa con la querela di falso, ovvero, ancora, quando lo si voglia prestato su di un fatto illecito.

Più in particolare, il giuramento può essere decisorio, quando è deferito (o riferito) all’altra parte per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa. Può essere invece suppletorio quando è il giudice a deferirlo d’ufficio ad una delle parti, in caso di incertezza probatoria (il codice parla di domanda o eccezioni che non sono pienamente provate, ma che non sono neppure del tutto sfornite di prova). Il giuramento può, ancora, essere estimatorio, se deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata in giudizio e non è possibile accertarlo altrimenti.

Pur non essendo certo compito di queste pagine approfondire ulteriormente l’istituto, ai fini di questo sintetico approfondimento occorre almeno ricordare che l’art. 2960 c.c., in tema di prescrizioni presuntive, prevede che la parte cui è stata eccepita la prescrizione presuntiva può deferire all’altra parte il giuramento, al fine di stabilire se si è verificata l’estinzione del debito. Precisa il secondo comma della stessa disposizione che il giuramento può anche essere in tal caso deferito al coniuge superstite e agli eredi o loro rappresentanti legali per far dichiarare agli stessi se hanno notizia dell’estinzione del debito. Da qui, fra l’altro, come meglio si vedrà, l’ulteriore distinzione fra giuramento de veritate, giuramento de scientia e de notitia.

3. Il giuramento del curatore: la tesi tradizionale.

La tesi tradizionale nega che al curatore sia deferibile il giuramento. Ed infatti, pur se a tale organo spetta la rappresentanza processuale in luogo del fallito, si ritiene da un lato che lo stesso assuma una posizione di terzietà rispetto a quest’ultimo e che, dall’altro, ove pure volesse escludersi tale condizione – almeno per quei giudizi in cui esercita in giudizio azioni rinvenute nel patrimonio del debitore insolvente – la circostanza che il curatore non possa compiere atti di straordinaria amministrazione, fra cui la transazione e la disposizione dei diritti contesi, senza l’autorizzazione degli altri organi della procedura, comunque lo priva della possibilità di disporre del diritto su cui il giuramento si vorrebbe deferire, con conseguente inammissibilità di tale mezzo di prova, in relazione a quanto prevede l’art. 2737 c.c., che a sua volta rinvia alla capacità di rendere la confessione, pure essa esclusa per il curatore.

Tale conclusione, peraltro, si accompagna al diffuso convincimento che al curatore sia comunque possibile sollevare l’eccezione di prescrizione presuntiva nei confronti del creditore che domandi l’insinuazione al passivo del proprio diritto di credito. Tale istituto, come è noto, risulta disciplinato dagli artt. 2954 e ss. c.c. e si basa sull’idea di fondo per cui, in taluni rapporti per i quali è tradizionalmente difficoltoso munirsi di prove scritte dei pagamenti, è possibile far valere una prescrizione del diritto che – a differenza di quella ordinaria – si fonda su una presunzione di pagamento, piuttosto che sull’inazione del diritto, tanto è vero che, come aggiunge l’art. 2959 c.c., l’eccezione si ha per rigettata qualora la parte eccipiente abbia comunque ammesso in giudizio che l’obbligazione non è estinta.

Ora, l’orientamento tradizionale è stato anche recentemente ribadito proprio in ipotesi di giuramento decisorio necessario per vincere l’eccezione di prescrizione presuntiva (cfr. Cass. n. 19418/2017, con richiamo a Cass. n. 23427/2016, Cass. n. 25286/2013, Cass. n. 3573/2011), altresì osservandosi che talune osservazioni contrarie della dottrina non potrebbero “valere a rendere inapplicabile l’istituto della prescrizione presuntiva nell’ambito del procedimento di ammissione al passivo fallimentare”, in quanto ciò significherebbe “mettere il curatore fallimentare in una posizione deteriore rispetto a quella dei comuni debitori” (in tal senso, vds. Cass. n. 12044/2020).

3.1. Segue: le aperture di Sez. 1 n. 15570 del 2015.

La decisione resa da Sez. 1, n. 15570/2015, Ferro, Rv. 636275-01, così come massimata da questo ufficio, ha ritenuto che nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione su interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all’obbligazione dedotta in giudizio, né gli è deferibile il giuramento decisorio.

In realtà, nella motivazione, la decisione del S.C. dopo aver sancito la parziale inammissibilità del primo motivo di impugnazione e confermato che al fallito non può essere deferito il giuramento decisorio, in quanto non è parte del giudizio di opposizione allo stato passivo e neppure ha la disponibilità dei diritti della massa, si è occupata con una particolare attenzione della posizione del curatore. A tal riguardo, dopo aver comunque premesso che nel caso concreto non era possibile – per difetto di formulazione dei motivi di censura e dei limiti di critica meritale propri del giudizio di legittimità – entrare nel “cuore” delle motivazioni contenute nel provvedimento impugnato, la decisione ha evidenziato che “se le deduzioni del curatore fallimentare in un giudizio civile sono prive di qualsiasi valore confessorio, stante la sua qualità di terzo rispetto all’imprenditore fallito (cfr. Cass. n. 25286/2013, oltre che la cit. Cass. n. 3573/2011), parimenti e a maggior ragione è inammissibile che egli possa - nel giudizio di opposizione allo stato passivo - rendere il giuramento decisorio ovvero essere sollecitato alla confessione sull’interrogatorio formale avente ad oggetto il fatto estintivo in sè dell’obbligazione, consistente in una vicenda solutoria riferibile a circostanze appartenenti a una condotta del fallito e non invece propria, non essendo il curatore titolare della prerogativa di disporre del diritto cui i fatti da confessare o su cui giurare si riferiscono”. Secondo la decisione richiamata, quindi, va invero ribadito l’indirizzo, già espresso in non recenti arresti, per cui l’art. 2731 c.c. nega efficacia - e con riguardo alla stessa capacità richiamata dall’art. 2737 c.c. per il giuramento decisorio - alla confessione che provenga da persona incapace di disporre del diritto a cui i fatti si riferiscono; e tale è, invero, il curatore del fallimento, che non può disporre da solo di un diritto della massa dedotto in giudizio, come si evince dalla legge fallimentare, all’art. 35 ratione temporis applicabile, che richiede, per le transazioni e le rinunzie alle liti, un decreto motivato del giudice delegato, previa audizione del comitato dei creditori (cfr. Cass. n. 723/1978, Cass. n. 1314/1975, Cass. n. 1916/1972 e Cass. n. 4474/1998 e n. 9881/1997 per il commissario liquidatore delle l.c.a.).

La motivazione ribadisce poi come tale conclusione possa essere ritenuta valida anche dopo le riforme del 2006-2007, che pure hanno attribuito maggiore autonomia alla figura del curatore, in quanto “a causa della necessità di ricorrere all’autorizzazione preventiva o l’approvazione successiva, viene a mancare l’identità tra la parte processuale ed il soggetto legittimato a giurare, la legittimità a prestare il giuramento viene appunto negata”.

A tal punto, tuttavia, la decisione - nella parte in cui pone in correlazione la possibilità di eccepire la prescrizione presuntiva da parte del curatore ed i mezzi di difesa della controparte - osserva in modo suggestivo che la possibilità conseguente per il creditore, che si veda opposta la prescrizione medesima, di deferire il giuramento circa l’estinzione del debito, potrebbe conferire un fondamento implicito alla ritenuta legittimazione del curatore a ricevere la delazione del giuramento de scientia ai sensi dell’art. 2960 c.c., laddove il secondo comma, individuando alcune categorie di soggetti portatori di interessi altrui, consente di estendere tale legittimazione oltre le figure del coniuge superstite, degli eredi o dei loro rappresentanti legali; per contro, una lettura della disposizione secondo un criterio di enumerazione tassativa porterebbe ad escludere la sua estensione oltre i predetti soggetti nominati, non potendosi ricomprendere tra essi anche il curatore; ma in tal caso, piuttosto che il citato art. 2960, comma 2, c.c., potrebbe allora soccorrere il principio dell’opponibilità della prescrizione presuntiva da parte dei terzi contenuto nell’art. 2939 c.c., vale a dire dell’operatività generale e logicamente connessa delle due norme e della possibile incongruenza del sistema se si ritenesse non deferibile in assoluto il giuramento a soggetto ritenuto comunque in grado di eccepire la prescrizione presuntiva. Per poi concludere che, in ogni caso, la formula del giuramento che in concreto era stata utilizzata dal creditore appariva inidonea, qualunque tesi si fosse voluta seguire, a determinare l’esito del giudizio, non potendo che fondarsi sulla conoscenza dei fatti appresi e non certo su di un fatto proprio del curatore. Con il che, l’esito dell’impugnazione appariva comunque segnato.

4. Il revirement del 2022.

Pur a fronte di una tesi tradizionale del tutto consolidata (salvo le aperture ricordate nel paragrafo precedenti, costituenti comunque un obiter dictum rispetto alla specifica soluzione processuale adottata di inammissibilità/rigetto dei motivi di ricorso), nel corso dell’anno appena trascorso il tema del giuramento del curatore è giunto nuovamente all’attenzione della S.C., che ha ritenuto di offrire una soluzione inedita e fortemente innovativa.

Sez. 1, n. 20602/2022, Di Marzio, Rv. 665229-01, ha infatti affermato, come da massima redatta da questo ufficio, che in tema di accertamento del passivo fallimentare, a fronte dell’insinuazione di un credito maturato in forza di un rapporto riconducibile alla previsione dell’articolo 2956, n. 2, c.c., ove il curatore eccepisca la prescrizione presuntiva del credito e il creditore gli deferisca il giuramento decisorio, la dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento sia avvenuto o meno costituisce mancato giuramento, dovendo egli subire le conseguenze dell’affermazione dell’estinzione del debito implicita nella sollevata eccezione di prescrizione presuntiva.

Nel caso in esame uno studio tecnico associato aveva presentato domanda di ammissione al passivo in un fallimento, al fine di ottenere il riconoscimento del proprio credito di prestazione d’opera professionale svolta in favore di una società poi fallita.

In sede di opposizione, il Giudice di prime cure, a fronte dell’eccezione di prescrizione presuntiva sollevata dalla curatela, aveva ammesso il giuramento decisorio ex art. 2960 c.c. deferito dall’asserito creditore; il curatore dichiarava di non poter giurare non essendo a conoscenza se il pagamento fosse stato eseguito o meno. Ora, non sussistendo prova del fatto contrario alla presunzione di avvenuta estinzione del rapporto eccepita dalla curatela, il credito non veniva riconosciuto.

Avverso tale decisione, il creditore proponeva riscorso per cassazione, rilevando che la dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento fosse avvenuto o meno, doveva piuttosto intendersi come mancato giuramento, come tale sfavorevole alla parte eccipiente chiamata a giurare.

Come già ricordato, l’orientamento tradizionale aveva ritenuto di estendere anche al curatore la possibilità di eccepire la prescrizione presuntiva, ma senza consentirgli di prestare il giuramento decisorio in quanto lo stesso “non ha la disponibilità del diritto controverso”. Tuttavia, tale conclusione, secondo l’arresto del 2022, deve in realtà ritenersi contraddittoria, in quanto lascia il presunto creditore “disarmato” di fronte all’eccezione sollevata dal curatore, in violazione dei principi del giusto processo che impongono la parità delle armi concesse alle parti in giudizio.

La Suprema Corte ha quindi ricordato che la prescrizione presuntiva opera in modo dissimile da quella estintiva: se, infatti, nella prima è il pagamento presunto che fonda l’estinzione del diritto di credito, nella seconda il decorso del termine determina l’estinzione del diritto, per una presunzione assoluta di abbandono dello stesso. Quindi, con la prescrizione presuntiva il debitore riconosce la originaria sussistenza dell’obbligazione e sostiene, piuttosto, di aver adempiuto, quindi afferma implicitamente di aver pagato, come dimostra il breve termine presuntivo decorso senza alcuna rimostranza da parte del preteso creditore.

La Corte ha quindi dedotto che è ragionevole intendere la prescrizione presuntiva ed il deferimento del giuramento come fra loro avvinti da un inestricabile collegamento, da intendersi “simul stabunt, simul cadent”. Difatti, ad avviso della decisione appena richiamata, l’eccezione di prescrizione presuntiva ed il deferimento del giuramento decisorio vanno di “pari passo”, non potendosi ritenere conforme al sistema che il debitore possa da un lato eccepire la prescrizione presuntiva e che il creditore non possa avvalersi del giuramento decisorio.

Ora, riconoscere valore alla dichiarazione del curatore di non sapere se il pagamento sia stato o no effettuato, comporterebbe una vanificazione dello strumento probatorio attribuito al creditore a fronte dell’eccezione di prescrizione presuntiva. Tuttavia, a ben vedere, il curatore che eccepisce la prescrizione presuntiva è come se stesse affermando: “il credito è stato pagato”; ma egli non può simultaneamente anche dichiarare, “non so se il pagamento è stato effettuato”, in forza di un immanente divieto, proprio dell’ordimento processuale civile, del “venire contra factum proprium”.

In realtà, secondo la decisione richiamata, il giuramento di cui al secondo comma dell’articolo 2960 c.c. dovrebbe ritenersi di una specie particolare, rispetto al giuramento “sulla conoscenza che il giurante ha di un fatto altrui”, di cui all’articolo 2739 c.c. Pertanto, il curatore che eccepisce la prescrizione presuntiva, assumendo implicitamente ma con certezza che il debito è stato estinto, nel quadro di applicazione del secondo comma dell’articolo 2960 c.c., si espone all’eventualità che il creditore gli deferisca il giuramento sulla veridicità del pagamento, ma a tal punto non può che subire le conseguenze della scelta fatta.

In definitiva, se si riconosce al curatore il potere di formulare l’eccezione di prescrizione presuntiva, e la correlativa possibilità di deferirgli il giuramento de scientia, secondo la ricostruzione già prefigurata ipoteticamente dalla Corte nella sentenza del 24 luglio 2015, n. 15570, allora dovrebbe ritenersi possibile ammettere anche che la “dichiarazione di ignorare” produca nei confronti del curatore gli stessi effetti che la medesima dichiarazione ha in caso di giuramento de veritate.

Per le suesposte considerazioni, la Suprema Corte ha evidenziato che, nel caso in esame, la dichiarazione così resa dal curatore costituiva un mancato giuramento, ritenendo sussistente l’errore censurato e commesso dal Tribunale nell’affermare che “non è stata raggiunta prova alcuna del fatto contrario alla presunzione fatta valere dalla curatela”.

5. La parola alle Sezioni Unite.

Nell’ultima parte dell’anno in rassegna, infine, si deve dare conto dell’ordinanza interlocutoria Sez. 1, n. 33400/2022, Vella, secondo cui occorre rimettere al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, le seguenti questioni: i) se, nell’ambito del giudizio di accertamento del passivo fallimentare, il curatore fallimentare sia legittimato a opporre la prescrizione presuntiva (nel caso di specie ex art. 2956, n. 2, c.c.), in quanto parte processuale, ai sensi dell’art. 95, comma 1, l. fall., o comunque in quanto terzo interessato, ai sensi dell’art. 2939 c.c., tenuto conto della correlazione posta tra tale eccezione e la possibilità per la controparte di deferire giuramento “per accertare se si è verificata l’estinzione del debito” (art. 2960, comma 1, c.c.); ii) se l’art. 2739 c.c. e l’art. 2737 c.c. (che per la capacità di deferire o riferire il giuramento rinvia all’art. 2731 c.c. in tema di confessione) ostino alla prestazione del giuramento decisorio da parte del curatore fallimentare, in quanto terzo privo della capacità di disporre del diritto, oppure ostino solo al suo potere di deferire e riferire il giuramento, ma non di prestarlo, anche in relazione all’inquadramento della prescrizione presuntiva come presunzione legale relativa, con limitazione dei mezzi di prova contraria, ovvero come ipotesi speciale di prescrizione, superabile solo dall’ammissione in giudizio che l’obbligazione non è stata estinta (art. 2959 c.c.), o dal particolare valore attribuito dalla legge al giuramento decisorio; iii) se, in particolare, ove si escluda la deferibilità del giuramento su fatto non “proprio”, ma del fallito (cd. giuramento de veritate), al curatore fallimentare possa essere comunque deferito il giuramento sulla conoscenza che egli ne abbia - tenuto conto delle interlocuzioni tra curatore e fallito imposte dagli art. 16, comma 1, n. 3), e art. 49 L. Fall., la cui inosservanza è penalmente sanzionata (art. 220 L. Fall.) - e se, in tal caso, si tratti del cd. giuramento de scientia, ex art. 2739 c.c., comma 2, ovvero del cd. giuramento de notitia, ex art. 2960, comma 2, c.c., norma espressamente riferita al coniuge superstite o agli eredi del debitore e ai loro rappresentanti legali, ma in tesi applicabile analogicamente; iv) se, una volta ammesso il giuramento de scientia o de notitia, la dichiarazione del curatore di non essere a conoscenza dell’avvenuta estinzione del debito equivalga a prestazione favorevole al giurante, lasciando in vita la presunzione di pagamento, o assuma invece gli effetti del rifiuto del giuramento, favorevole al creditore - come avviene nel giuramento de veritate - e se tale conclusione debba valere per tutti i soggetti che prestino giuramento de scientia o de notitia, ovvero solo per il curatore fallimentare.

Si deve ancora ricordare, per completezza, che anche la Corte costituzionale ha in passato preso atto dell’indirizzo giurisprudenziale tradizionale, nel disattendere una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2960 c.c., comma 2, osservando, in una pronuncia peraltro assai remota, che: “la giurisprudenza costante della Corte di cassazione e la dottrina dominante ritengono che l’art. 2960 c.c., comma 2, pur se formulato con una locuzione apparentemente diversa da quella dell’art. 2142 c.c. del 1865, non abbia carattere innovativo e vada sostanzialmente inteso in conformità della interpretazione divenuta pacifica sotto l’impero della previgente legislazione, che cioè, trattandosi di giuramento de scientia, la dichiarazione di ignorare i fatti non importa rifiuto di giurare, bensì giuramento in senso negativo per cui la lite va decisa in senso favorevole al giurante” (Corte costituzionale 21 novembre 1973, n. 162).

Peraltro, lo stesso istituto della prescrizione presuntiva si presta, forse, ad una qualche rimeditazione, essendo nato rispetto a rapporti fondati sull’intuitus personae o sulla esiguità del valore delle singole transazioni che, oggi, andrebbero forse circoscritti rispetto ai casi in cui l’ordinamento prevede obblighi di fatturazione quando non veri e propri oneri di forma.

L’ultima parola, come giusto che sia, spetta ora al massimo organo di nomofilachia.

  • giurisdizione tributaria
  • diritto tributario

APPROFONDIMENTO TEMATICO

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA CON PARTICOLARE RIGUARDO AI PROFILI ATTINENTI ALLA CORTE DI CASSAZIONE

(di Francesco Graziano )

Sommario

1 Premessa: gli obiettivi della l. n. 130 del 2022. - 2 Contenzioso pendente in Corte di cassazione alla data del 31 dicembre 2021 e istituzione della sezione tributaria presso la Suprema Corte. - 3 Definizione agevolata dei giudizi pendenti presso la Corte di cassazione. - 4 La nozione di «controversie tributarie pendenti» e gli atti definibili. - 5 Rinuncia all’indennizzo per equa riparazione e spese di giudizio. - 6 Le controversie escluse dalla definizione agevolata. - 7 Le modalità di accesso alla definizione agevolata. - 8 Il diniego alla definizione agevolata. - 9 Considerazioni conclusive sulla definizione agevolata di cui alla l. n. 130 del 2022. - 10 La legge 29 dicembre 2022, n. 197 (cd. “legge di bilancio 2023”): nuove misure deflattive per il contenzioso tributario, con particolare riguardo al processo dinanzi alla Corte di cassazione.

1. Premessa: gli obiettivi della l. n. 130 del 2022.

Nella Gazzetta Ufficiale n. 204 del 1° settembre 2022 è stata pubblicata la legge 31 agosto 2022, n. 130 che reca “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”, frutto dell’approvazione in Parlamento di alcuni emendamenti all’originario disegno di legge di iniziativa governativa.

Con tale intervento il Governo, considerato l’impatto che la giustizia tributaria ha sulla fiducia degli operatori economici, compresi gli investitori esteri, si è proposto di rispettare gli impegni assunti con il PNRR.

Nel PNRR il Governo si è prefissato l’obiettivo di intervenire sulla giustizia tributaria per ridurre il numero di ricorsi alla Corte di cassazione e consentire una loro trattazione più spedita. Il Piano, secondo quanto evidenziato nel dossier predisposto dal Servizio Studi del Senato della Repubblica in data 6 agosto 2022, muove dalla considerazione di quanto il contenzioso tributario sia una componente importante dell’arretrato della cassazione (50.000 ricorsi pendenti nel 2020) e di quanto spesso le decisioni della cassazione conducano all’annullamento delle decisioni delle Commissioni tributarie regionali (nel 47% dei casi nel 2020).

Tale obiettivo, secondo il Governo doveva essere perseguito:

- assicurando un migliore accesso alle fonti giurisprudenziali mediante il perfezionamento delle piattaforme tecnologiche e la loro piena accessibilità da parte del pubblico;

- introducendo il rinvio pregiudiziale per risolvere dubbi interpretativi, per prevenire la formazione di decisioni difformi dagli orientamenti consolidati della Corte di cassazione;

- rafforzando le dotazioni di personale e intervenendo, mediante adeguati incentivi economici, sul personale ausiliario.

I Ministri della giustizia e dell’economia hanno insediato una commissione di studio chiamata a proporre al Governo un disegno di riforma della giustizia tributaria (Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, cd. Commissione Della Cananea).

La Commissione ha presentato la propria relazione finale il 30 giugno 2021. Il disegno di legge è stato quindi presentato in Senato il 1° giugno 2022.

Il PNRR individua per l’attuazione della riforma il termine del quarto trimestre del 2022. In particolare, esso si propone di conseguire, entro il suddetto termine, la riforma del quadro giuridico con l’obiettivo di rendere più efficace l’applicazione della legislazione tributaria e ridurre l’elevato numero di ricorsi alla Corte di cassazione.

Va rammentato che nel PNRR (pagg. 59 - 60) il contenzioso tributario viene considerato un settore cruciale per l’impatto che può avere sulla fiducia degli operatori economici, anche nella prospettiva degli investimenti esteri. Esso risente fortemente delle criticità legate ai tempi dell’amministrazione della giustizia.

In particolare, come riportato nel PNRR:

- sotto il profilo quantitativo, il contenzioso tributario è una componente molto importante dell’arretrato che si è accumulato dinanzi alla Corte di cassazione. Secondo stime recenti, nonostante gli sforzi profusi sia dalla Sezione specializzata, sia dal personale ausiliario, alla fine del 2020 vi erano oltre 50.000 ricorsi. Viene tuttavia aggiunto che, poiché vi è stata una contrazione del contenzioso in appello dinanzi alle commissioni tributarie regionali (da 47.015 appelli nel 2019 a 42.701 nel 2020) e una contrazione ancora più marcata delle controversie pendenti in primo grado davanti alle commissioni tributarie provinciali (da 142.522 nel 2019 a 108.699 nel 2020), il flusso era destinato a ridursi in grado significativo;

- sotto il profilo qualitativo, le decisioni adottate dalla Corte di cassazione comportano molto spesso l’annullamento di quanto è stato deciso in appello dalle commissioni tributarie regionali: si è passati dal 52 % nel 2016 al 47 % nel 2020, con variazioni non particolarmente significative negli ultimi cinque anni;

- Sotto il profilo temporale, i tempi di giacenza dei ricorsi in cassazione sono in alcuni casi lunghi, aggiungendosi alla durata dei giudizi svolti nei due precedenti gradi di giudizio.

Il PNRR pone quindi l’obiettivo di ridurre il numero di ricorsi alla cassazione e farli decidere più speditamente.

2. Contenzioso pendente in Corte di cassazione alla data del 31 dicembre 2021 e istituzione della sezione tributaria presso la Suprema Corte.

L’art. 3 prevede l’istituzione presso la Corte di cassazione di una sezione civile incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia tributaria.

Spetta al Primo Presidente della cassazione adottare provvedimenti organizzativi adeguati al fine di stabilizzare gli orientamenti di legittimità e di agevolare la rapida definizione dei procedimenti pendenti presso la Corte di cassazione in materia tributaria, favorendo l’acquisizione di una specifica competenza da parte dei magistrati assegnati alla suddetta sezione (comma 2).

I dati statistici riferibili alle controversie in cassazione, riportati nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, mostrano l’elevata incidenza, pari al 42,6%, delle controversie di natura tributaria rispetto al totale dei procedimenti civili (in particolare i ricorsi in materia tributaria sono 47.364 su un totale di 111.241). Alla fine del 2020, le pendenze complessive dei giudizi civili in cassazione erano 120.473, di queste ben 53.482 in materia tributaria, pari a oltre il 44% del contenzioso civile pendente.

Come si legge nel dossier predisposto dal Servizio Studi del Senato della Repubblica (al quale si è già sopra fatto riferimento), nonostante l’elevato numero di controversie tributarie, il 2021 ha comunque fatto registrare:

- una diminuzione del contenzioso tributario di nuova iscrizione, che è passato dai 9.840 ricorsi del 2020 ai 9.339 nel 2021 (segnando così una riduzione pari al 5,1% rispetto al 2020);

- una riduzione del numero dei ricorsi tributari pendenti, che è passato da 53.482 del 2020 a 47.364 nel 2021 (6.118 in meno rispetto all’anno precedente). Per completezza si evidenzia che, al 31 dicembre 2021, il contenzioso tributario ha rappresentato il 42,6% del totale dei procedimenti incardinati nella giustizia civile (in leggero calo rispetto al dato registrato nell’anno 2020, del 44,4%);

- un incremento del numero di ricorsi tributari definiti con la pubblicazione del provvedimento, passato da 9.070 nel 2020 a 15.518 nel 2021, con un incremento del 71% rispetto all’anno precedente.

La disposizione ha lo scopo, piuttosto evidente, di cristallizzare, a livello normativo, una situazione già presente da diversi anni presso la S.C., a seguito dell’emanazione, nel 1999, del decreto n. 61 del Primo Presidente, con il quale venne istituita la Quinta Sezione Civile.

In particolare, dalla lettura e disamina del programma di gestione per l’anno 2022, risulta assai agevole desumere tutte le misure e gli sforzi organizzativi già in atto allo scopo di favorire sia la rapida definizione dei procedimenti pendenti, sia la stabilizzazione degli orientamenti giurisprudenziali di legittimità, anche attraverso l’impiego degli addetti all’Ufficio per il Processo ed una costante collaborazione con l’Ufficio del Massimario.

3. Definizione agevolata dei giudizi pendenti presso la Corte di cassazione.

L’art. 5 della l. n. 130 del 2022 disciplina la definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti dinanzi alla Corte di cassazione.

Come osservato dalla dottrina, la necessità di riformare il sistema delle tutele riguardanti il fisco era già da tempo avvertita e si è manifestata in modo ancora più intenso quando sono state precisate le azioni da intraprendere nel quadro del PNRR approvato dal Parlamento e accolto dalla Commissione europea.

Proprio sul presupposto che una riforma strutturale della giustizia tributaria fosse una delle priorità d’azione indicate dal Governo, il Ministro della giustizia e il Ministro dell’economia e delle finanze hanno istituito nell’aprile del 2021 una Commissione per la giustizia tributaria (composta da magistrati e docenti universitari), attribuendole il duplice compito di esaminare le criticità esistenti e elaborare proposte di misure e di interventi legislativi, con l’obiettivo di migliorare la qualità della “risposta” giudiziaria e ridurre i tempi del processo.

Particolare attenzione è stata quindi dedicata alla tematica dell’imponente arretrato riguardante i ricorsi presentati dinanzi alla Suprema Corte di cassazione, nella consapevolezza che, su tale problema, influisce certamente la limitata dotazione di magistrati, la convenienza per le parti private a coltivare il giudizio fino all’ultimo grado e, infine, anche la riluttanza dei dirigenti pubblici ad abbandonare pretese di dubbia fondatezza. È innegabile, infatti, che non esista, oggi, in Europa, alcuna Corte di ultima istanza con un carico di lavoro paragonabile a quello della Corte di cassazione italiana. Non vi è alcun altro giudice delle liti tributarie che abbia un arretrato lontanamente paragonabile a quello italiano.

Il legislatore si è quindi determinato a incoraggiare la Corte di cassazione a compiere ulteriori sforzi sia nella direzione dell’incremento della dotazione organica della sezione tributaria, sia in quella dell’aumento - mediante le proprie disposizioni amministrative, più agevolmente modificabili rispetto a quelle legislative - del tempo di permanenza all’interno della sezione.

Di indubbio interesse è l’opinione di quella dottrina secondo cui il problema poteva essere avviato a soluzione in maniera diversa e, cioè, facendo tesoro dell’esperienza acquisita all’interno del processo amministrativo e di quello contabile circa l’utilizzo di istituti che richiedono ai ricorrenti di ribadire entro un preciso termine la persistenza dell’interesse.

Il comma 1 regola la definizione delle controversie tributarie che presentino i concomitanti seguenti requisiti: - siano escluse dall’applicazione del comma 6 dello stesso art. 5; - siano pendenti, alla data del 15 luglio 2022, innanzi alla Corte di cassazione, ai sensi dall’art. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; - in esse, l’Agenzia delle entrate risulti integralmente soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio; - il loro valore, determinato ai sensi dell’art. 16, comma 3, della l. 27 dicembre 2002, n. 289, sia non superiore a 100.000 euro. Quest’ultimo, in particolare, definisce il valore della lite, da assumere a base del calcolo per la definizione, come «l’importo dell’imposta che ha formato oggetto di contestazione in primo grado, al netto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento; in caso di liti relative alla irrogazione di sanzioni non collegate al tributo, delle stesse si tiene conto ai fini del valore della lite; il valore della lite è determinato con riferimento a ciascun atto introduttivo del giudizio, indipendentemente dal numero di soggetti interessati e dai tributi in esso indicati».

Il comma 1 dell’art. 5 l. n. 130 del 2022 prevede, dunque, che le suddette controversie siano definite, a domanda dei soggetti indicati al comma 3 (vale a dire i soggetti che hanno proposto l’atto introduttivo del giudizio o di chi vi è subentrato o ne hanno la legittimazione), con decreto assunto ai sensi dell’art. 391 c.p.c. (decreto di estinzione del processo che interviene nell’ipotesi in cui non sia stata fissata la data della decisione), previo il pagamento di un importo pari al 5 % del valore della controversia determinato sempre ai sensi dell’art. 16, comma 3, della l. n. 289 del 2002.

Il comma 2 reca disciplina della definizione delle controversie tributarie che si differenziano da quelle di cui al comma 1 in relazione a due profili: 1) in esse l’Agenzia delle entrate risulti soccombente in tutto o in parte in uno dei gradi di merito; 2) il loro valore, determinato ai sensi dell’art. 16, comma 3, l. n. 289 del 2002, non risulti superiore a 50.000 euro.

Tali controversie possono essere definite, sempre a domanda dei soggetti indicati al comma 3, con decreto assunto ai sensi dell’art. 391 c.p.c., previo il pagamento di un importo pari al 20 % del loro valore, determinato così come sopra chiarito.

Il comma 3 ribadisce che le controversie tributarie di cui ai commi 1 e 2 possono essere definite a domanda del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio o di chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione.

Il comma 4 definisce controversie tributarie pendenti quelle per le quali il ricorso per cassazione sia stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore delle disposizioni dell’articolo in esame (cioè entro la data del 16 settembre 2022), purché, alla data della presentazione della domanda di definizione (di cui al comma 8), non sia intervenuta una sentenza definitiva.

Il comma 5 prevede che l’adesione alla definizione agevolata delle controversie tributarie di cui ai commi 1 e 2 comporta, quale effetto, anche la contestuale rinuncia a ogni eventuale pretesa di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89.

In ogni caso le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate.

Il comma 6 individua le controversie escluse dall’applicazione dell’articolo in esame nelle controversie concernenti anche solo in parte: a) le risorse proprie tradizionali previste dall’art. 2, paragrafo 1, lettera a), delle decisioni 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, e 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione; b) le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato, ai sensi dell’art. 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015. Giova evidenziare che la decisione 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007 è stata abrogata dall’art. 10 della decisione 2014/335/UE/Euratom, a sua volta abrogata dall’art. 11, par. 1, della decisione 14 dicembre 2020, n. 2020/2053/Euratom, che disciplina attualmente il sistema delle risorse proprie dell’Unione europea.

Il comma 7 individua il perfezionamento della definizione nella presentazione della domanda di definizione di cui al comma 8 e nel pagamento degli importi dovuti entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento normativo di cui si tratta. Dunque, poiché il legislatore ha individuato nel pagamento un co-elemento perfezionativo della fattispecie, il mancato pagamento impedisce il perfezionamento della definizione agevolata.

Qualora non ci siano importi da versare, la definizione si perfeziona con la sola presentazione della domanda. Per la definizione vanno scomputati, ai sensi del comma 9 i versamenti già effettuati in pendenza di giudizio. Dunque, l’assenza di importi da versare può scaturire proprio da tali versamenti già eseguiti.

Più specificamente, l’importo da versare per la definizione, cosiddetto “importo netto dovuto”, si calcola al netto delle somme pagate prima della presentazione della domanda di definizione a titolo di riscossione provvisoria in pendenza del termine di impugnazione dell’atto ovvero in pendenza del giudizio. Possono essere scomputati tutti gli importi di spettanza dell’Agenzia delle entrate pagati, in particolare, a titolo provvisorio per tributi, sanzioni amministrative, interessi, sempre che siano ancora in contestazione nella lite che si intende definire. In sintesi, vanno scomputati tutti gli importi in contestazione di spettanza dell’Agenzia delle entrate, già pagati in esecuzione dell’atto impugnato.

Il comma 8 dispone che, entro il termine di cui al comma 7 (vale a dire entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame) per ciascuna controversia autonoma - vale a dire controversia relativa a ciascun atto impugnato - sia presentata una distinta domanda di definizione esente dall’imposta di bollo e sia effettuato un distinto versamento.

Il comma 9 prevede che, ai fini della definizione delle controversie, si tenga conto di eventuali versamenti già effettuati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio, fermo restando il rispetto delle percentuali di cui ai commi 1 e 2.

La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione. La norma dovrebbe ritenersi dettata in deroga al principio generale della “condictio indebiti”. In altri termini, qualora le somme già versate in pendenza di giudizio siano di ammontare superiore rispetto all’importo dovuto per la chiusura della lite, non spetta il rimborso della differenza, in deroga a quanto previsto negli artt. 2033 e segg. c.c.

Gli effetti della definizione perfezionata prevalgono su quelli delle eventuali pronunce giurisdizionali non passate in giudicato anteriormente alla data di entrata in vigore del provvedimento in esame. Deve trattarsi, naturalmente, di pronunce giurisdizionali già venute ad esistenza e, quindi, già pubblicate. In altri termini, con il perfezionamento, la definizione agevolata retroagisce e prevale sull’efficacia di eventuali sentenze depositate prima del 16 settembre 2022 e non passate in giudicato alla data di presentazione della domanda di definizione agevolata della controversia.

Pertanto, a seguito del perfezionamento della definizione della lite, tali sentenze, in deroga a quanto disposto dall’articolo 68 del d.lgs. n. 546 del 1992, cessano di costituire titolo per eventuali rimborsi o sgravi.

Il comma 10, dispone che le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta di sospensione al giudice, dichiarando di volersi avvalere delle disposizioni della norma in esame. Sebbene il tenore letterale della disposizione conduca a ritenere che l’istanza di sospensione debba essere rivolta alla Corte (in tal senso dovrebbe essere intesa l’espressione “giudice” che fa riferimento, con tutta evidenza, all’organo giudicante), si ritiene che tale richiesta, inserendosi all’interno di un procedimento già pendente, ben possa essere indirizzata anche al Presidente della Sezione Tributaria.

In tal caso il processo è sospeso fino alla scadenza del termine di cui al comma 7 (vale a dire entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame). Giunta tale scadenza, inizierà a decorrere il termine di due mesi di cui al comma 12 su cui si tornerà tra breve.

Il comma 11 prevede che l’eventuale diniego della definizione debba essere notificato entro 30 giorni con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali.

Il diniego è impugnabile entro 60 giorni (dalla suddetta notificazione) dinanzi alla Corte di cassazione. Naturalmente, dell’impugnazione sarà investita la sezione tributaria della S.C..

Il comma 12 dispone che, in mancanza di istanza di trattazione presentata dalla parte interessata, entro due mesi decorrenti dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo del comma 10 (trattasi sempre del termine di cui al comma 7), il processo sia dichiarato estinto, con decreto del Presidente. In altri termini, in presenza di un processo sospeso e giunta la scadenza prevista dal comma 7, inizierà a decorrere un termine pari a due mesi entro il quale la parte interessata avrà l’onere di proporre istanza di trattazione. In mancanza di quest’ultima, il processo di cassazione sarà dichiarato estinto mediante decreto presidenziale. È evidente che l’espressione “parte interessata” debba intendersi riferita a quella parte che ha interesse a non veder estinguere il giudizio di cassazione, dal momento che tale estinzione comporta, come più volte chiarito dalla S.C., il passaggio in giudicato della sentenza oggetto di impugnazione. Naturalmente, nelle ipotesi in cui il contribuente abbia visto perfezionata la definizione agevolata richiesta e quest’ultima non abbia formato oggetto di diniego da parte dell’amministrazione finanziaria, lo stesso contribuente potrà avere interesse alla presentazione dell’istanza di trattazione dinanzi alla Corte, al fine di sentir dichiarare perfezionata la definizione agevolata. Tuttavia, al riguardo, si ritiene suscettibile di applicazione, per evidente identità di “ratio”, l’orientamento giurisprudenziale formatosi in ordine all’istituto previsto dall’art. 6 d.l. n. 119 del 2018 e secondo cui “In tema di processo tributario, ove sia stata dichiarata l’estinzione del processo ex art. 6, comma 13, del d.l. n. 119 del 2018, conv., con modif., dalla l. n. 136 del 2018, poiché il contribuente, dopo aver aderito alla definizione agevolata della controversia, non ha depositato l’istanza di trattazione, l’istanza di revoca di tale declaratoria, proposta dal contribuente ai sensi dell’art. 391, comma 3, c.p.c., al fine di far constatare l’avvenuto perfezionamento della definizione agevolata, con conseguente estinzione del giudizio, è inammissibile per carenza di interesse, attesa l’identità tra l’esito processuale attuale e quello perseguito.” .

L’impugnazione del diniego di definizione agevolata, dinanzi alla Corte, prevista dal comma 11, vale anche come istanza di trattazione.

Il comma 13 prevede che la definizione perfezionata dal coobbligato giovi in favore degli altri, inclusi quelli per i quali la controversia non sia più pendente, fatte salve le disposizioni relative alla definizione delle controversie autonome ai sensi del secondo periodo del comma 8.

Il comma 14 dispone che con uno o più provvedimenti del direttore dell’Agenzia delle entrate siano stabilite le modalità di attuazione dell’articolo in esame.

Il comma 15 dispone che ciascun ente territoriale possa stabilire, con le forme previste dalla legislazione vigente per l’adozione dei propri atti, l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo in esame alle controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte il medesimo ente o un suo ente strumentale.

Come può agevolmente desumersi dalla lettura dele testo originario dei primi due commi dell’art. 5, essi menzionavano le controversie pendenti in cassazione alla data del 15 luglio 2022, mentre il comma 4 definiva come «controversie tributarie pendenti» quelle per le quali il ricorso per cassazione è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore della legge, purché, alla data della presentazione della domanda, non sia intervenuta una sentenza definitiva. Si trattava di evidente discrasia meritevole di essere superata mediante un intervento normativo urgente ad hoc, verosimilmente nella forma del decreto - legge approvato in tempi ristretti. Ciò si è realizzato mediante il d.l. n. 115 del 2022. Diversamente si sarebbe corso il rischio di esegesi strumentali e di un incremento del contenzioso proprio nel grado di legittimità che la riforma voleva alleggerire.

Il tenore letterale della norma in commento ricalca, per molti aspetti, quello dell’art. 6 d.l. 23 ottobre 2018, n. 119, conv. con modif. nella l. n. 136 del 2018.

Ne deriva che potranno ritenersi suscettibili di trovare applicazione, all’istituto in esame, gli orientamenti giurisprudenziali di legittimità emersi con riguardo al predetto condono fiscale.

Tra questi, a titolo esemplificativo si rammenta, con particolare riguardo al requisito dell’integrale soccombenza dell’Agenzia delle Entrate in tutti i precedenti gradi di giudizio, quello secondo cui «In tema di processo tributario, la definizione agevolata delle controversie pendenti avanti alla Corte di cassazione con il pagamento di un importo pari al 5 % del valore della controversia, ai sensi dell’art. 6, comma 2-ter, del d.l. n. 119 del 2018, conv. dalla l. n. 136 del 2018, presuppone che l’Agenzia delle entrate sia risultata soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio dai quali, come si evince dall’espresso riferimento del comma 1 dell’art. 6 citato alle controversie pendenti in ogni stato e grado del giudizio compreso quello in cassazione e anche a seguito di rinvio, non può escludersi quello di legittimità concluso favorevolmente per l’Agenzia delle entrate con la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio al giudice del merito per una nuova pronuncia.» .

Ancora, è stato affermato che «In tema di processo tributario, la definizione agevolata delle controversie pendenti avanti alla Corte di cassazione con il pagamento di un importo pari al 5 % del valore della controversia, ai sensi del comma 2-ter dell’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, conv. in l. n. 136 del 2018, presuppone che l’Agenzia delle entrate sia risultata soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio, dovendosi pertanto accertare, ai fini dell’applicabilità di tale disposizione, se le sentenze pronunciate nei gradi di merito siano favorevoli al contribuente ovvero all’Ufficio.» .

Ancora, con riguardo alla natura giuridica del termine contemplato dal comma 11 per la notificazione del diniego alla definizione agevolata, si rammenta l’orientamento secondo cui «In tema di definizione agevolata delle controversie tributarie, il termine per l’espressione di diniego dell’istanza, fissato dall’art. 6, comma 12, del d.l. n. 119 del 2018, conv. dalla l. n. 136 del 2018, ha natura perentoria, in ossequio al principio di doverosità dell’azione amministrativa, che impone alla P.A. di esercitare i poteri conferiti in un lasso temporale ragionevole, e non richiedendo il citato d.l. n. 119, ai fini della estinzione del giudizio, il deposito da parte dell’Agenzia delle entrate dell’attestazione di regolarità della domanda di definizione.» .

Infine, con specifico riguardo al concetto di controversia autonoma, contenuto nel comma 8, può essere richiamato l’orientamento secondo cui «In tema di definizione agevolata ex d.l. n. 119 del 2018 (conv. con modif. dalla l. n. 136 del 2018), per controversia autonoma deve intendersi quella, unitariamente considerata, relativa a ciascun atto impugnato, senza inferire in alcun modo sul contenuto dell’atto medesimo, con la conseguenza che ove coesistano nella stessa controversia (ossia, nello stesso atto impugnato) una pluralità di pretese, alcune delle quali intangibili alla definizione, è precluso integralmente il ricorso alla definizione per la totalità delle riprese. Ciò risulta sia dall’interpretazione sistematica della disciplina di riferimento che dall’interpretazione teleologica della norma, nonché dalla circostanza in forza della quale il legislatore per specifiche ipotesi, come quella di cui all’art. 6, comma 4, del medesimo articolo, ha esplicitamente preso in considerazione la natura della pretesa sì da superare la stessa fondamentale distinzione ancorata alla unicità della controversia e dell’atto impugnato.».

4. La nozione di «controversie tributarie pendenti» e gli atti definibili.

Come già detto, il comma 4 dell’art. 5 l. n. 130 del 2022 definisce controversie tributarie pendenti quelle per le quali il ricorso per cassazione sia stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore delle disposizioni dell’articolo in esame (quindi, entro il 16 settembre 2022) e purché alla data della presentazione della domanda di definizione (di cui al comma 8), non sia intervenuta una sentenza definitiva.

Inizialmente dal testo della legge emergeva un disallineamento delle date tra i commi 1 e 2 e il comma 4. Infatti, l’art. 5 stabiliva, ai commi 1 e 2, per le due ipotesi agevolate una (prima) soglia di sbarramento temporale. Per la definizione su istanza del contribuente, le controversie dovevano essere pendenti innanzi alla S.C. al 15 luglio 2022, mentre in relazione alla definizione di «causa pendente» dettata dal successivo comma 4, il riferimento era (ed è), invece, alla notificazione del ricorso per cassazione alla controparte «entro la data di entrata in vigore» della legge (e, quindi, entro la data del 16 settembre 2022).

Con la conversione in l. n. 142 del 2022 del d.l. n. 115 del 2022, il Parlamento ha approvato un emendamento che ha sopperito a tale disallineamento modificando la data entro la quale si devono considerare i ricorsi in cassazione oggetto della definizione agevolata delle liti stabilendo che possono essere definite tutte le impugnazioni fiscali notificate entro il 16 settembre 2022 (art. 41 bis d.l. n. 115 del 2022).

Va evidenziato, inoltre, che non è necessaria che risulti essersi perfezionata, entro la data del 16 settembre 2022, anche la costituzione in giudizio presso la Corte, requisito non richiesto dalla norma.

Come osservato, l’ampia nozione impiegata di «controversie tributarie» e l’assenza di qualsivoglia ulteriore specificazione (del tipo «relative a pretesa erariale» oppure «aventi ad oggetto atti impositivi» come, invece, era stata inserita nell’art. 6, comma 1, del d.l. n. 119 del 2018) comporta che, ferme restando le esclusioni espressamente previste al comma 6, siano senz’altro suscettibili di estinzione tutte le liti tributarie di debito (avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione di sanzioni, atti di imposizione di qualunque tipo) e di credito (dinieghi di rimborso). Vi rientrano, quindi, non solo le controversie relative ad atti impositivi in senso stretto ma anche quelle relative a cartelle conseguenti a meri atti di liquidazione ovvero emesse in sede di controllo automatizzato ex art. 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973.

Ciò, del resto, trova conferma nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, avendo Sez. U, n. 18298/2021, Napolitano, Rv. 661547-01, in riferimento alla precedente normativa sulla definizione agevolata (art. 6 d.l. n. 119 del 2018), confermato che la ratio deflattiva delle discipline condonistiche richiede una nozione ampia di “atto impositivo”. In assenza di una norma definitoria, i confini di tale presupposto possono essere individuati tenendo conto dei caratteri che, pur diversamente modulati, ne scandiscono il regime giuridico sotto il profilo dell’esercizio di un potere autoritativo, dell’emanazione all’esito di un procedimento amministrativo il cui svolgimento si manifesta nella motivazione dell’atto, e della garanzia di tutela giurisdizionale.

In particolare, le Sezioni unite hanno affermato che «In tema di definizione agevolata, anche il giudizio avente ad oggetto l’impugnazione della cartella emessa in sede di controllo automatizzato ex art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, con la quale l’Amministrazione finanziaria liquida le imposte calcolate sui dati forniti dallo stesso contribuente, dà origine a una controversia suscettibile di definizione ai sensi dell’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, conv. dalla l. n. 136 del 2018, qualora la predetta cartella costituisca il primo ed unico atto col quale la pretesa fiscale è comunicata al contribuente, essendo come tale impugnabile, ex art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, non solo per vizi propri, ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva.».

Nell’ipotesi in cui la cartella (o, meglio, l’iscrizione a ruolo) scaturisca dall’irrogazione di una sanzione amministrativa, «essa configura un atto impositivo, non diversamente da come sarebbe accaduto se fosse stato impugnato un avviso di accertamento, unicamente nel suo contenuto sanzionatorio, o un atto di contestazione e, pertanto, può costituire oggetto di definizione agevolata». In ragione della mancanza di previa contestazione, all’iscrizione a ruolo e alla correlata cartella di pagamento viene attribuita natura di atto complesso, «che, oltre a svolgere la funzione di un comune precetto, ‘imponÈ per la prima volta al contribuente una prestazione determinata nell’an e nel quantum».

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno in definitiva attribuito efficacia dirimente al criterio funzionale, privilegiando un’interpretazione della normativa premiale «tesa a ridurre al minimo le situazioni ‘astrattamentÈ preclusive della possibilità del contribuente di potersi avvalere della procedura di definizione della lite fiscale prevista dalla legge e ad assumere come ‘criterio guida’ per un giudizio sulla definibilità della specifica controversia l’analisi ‘caso per caso’ delle singole fattispecie litigiose» .

5. Rinuncia all’indennizzo per equa riparazione e spese di giudizio.

Il comma 5 dell’art. 5 della l. n. 130 del 2022 dispone che l’adesione alla definizione agevolata delle controversie tributarie di cui ai commi 1 e 2 comporta la contestuale rinuncia a ogni eventuale pretesa di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001. In ogni caso, le spese del giudizio estinto restano a carico della parte che le ha anticipate.

Come noto, il legislatore aveva dettato una normativa volta a riconoscere un’equa riparazione a chi avesse subito un danno, patrimoniale o meno, a seguito di un processo dalla durata irragionevole. L’art. 2 della l. n. 89 del 2001 prevede, infatti, che «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione».

Al riguardo, le sezioni unite della S.C. hanno sottolineato che la cd. “legge Pinto” è stata «determinata dalla necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi in modo da realizzare quel principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo sul quale si fonda il sistema europeo di protezione di diritti dell’uomo” e dal quale deriva che gli Stati, che hanno ratificato la Convenzione, devono riconoscere a tali diritti “una protezione effettiva (art. 13 CEDU) e cioè tale da porre rimedio alle eventuali violazioni senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo». Un tale rimedio, infatti, non esisteva nel nostro ordinamento: pertanto, i ricorsi contro l’Italia per violazione dell’art. 6 CEDU avevano finito con il confluire tutti dinanzi al giudice europeo. La l. n. 89 del 2001 ha, dunque, posto riparo a quelle precedenti inadempienze dell’Italia, restituendo all’intervento della Corte europea il carattere suo proprio di sussidiarietà (e non di supplenza) rispetto all’intervento interno.

Da ciò è derivata, secondo la S.C., «la perfetta simmetria di contenuto della norma nazionale rispetto al precetto comunitario, nel senso e per la ragione (chiaramente esplicitati nei lavori preparatori) che il meccanismo riparatorio, introdotto dal legislatore italiano del 2001, mira ad assicurare al ricorrente “una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro dell’istanza internazionale”, poiché il riferimento diretto all’art. 6, quale all’uopo inserito nel testo dell’art. 2 della legge n. 89/2001, consente di trasferire sul piano interno “i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale. ... Questa simmetria tra i due piani (interno ed internazionale) di tutela dei diritti dell’uomo, coessenziale, come detto, all’attuazione del principio di sussidiarietà, si realizza, appunto, conformando la fattispecie violativa cui è ricollegata l’equa riparazione ex lege n. 89/2001 a quella disegnata dalla norma comunitaria di riferimento, come in concreto (quest’ultima) vive attraverso l’esegesi della Corte di Strasburgo».

La S.C. ha peraltro chiarito che «la Corte dei diritti dell’Uomo, dopo aver premesso che la nozione di controversia in materia civile e di controversia in materia penale, va determinata “in modo autonomo” da essa Corte, poiché qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l’oggetto e la portata della Convenzione, ha già avuto a tal fine occasione di escludere che rientrino nella sfera di applicazione della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni — pur di natura patrimoniale — che “risultino da una legislazione fiscale” ed attengano, invece che ai diritti di natura civile, a doveri civici imposti in una società democratica» . Da ciò quindi la conclusione «che l’equa riparazione prevista dalla legge nazionale per la violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU non è riferibile alla eventuale eccessiva protrazione della durata di controversie, involgenti la potestà impositiva dello Stato, che dal quadro di tutela della norma comunitaria restano — per come visto — escluse» .

E la stessa S.C., dopo avere non contemplato la rilevanza dell’esplicito riferimento al Ministero delle finanze quando si tratti di procedimenti tributari, aggiunge che è priva di rilevanza anche l’argomentazione secondo cui nulla avrebbe impedito al legislatore nazionale di ampliare l’ambito della tutela predisposto dalla Convenzione, estendendo l’equa riparazione anche alle procedure tributarie in senso stretto. Infatti, quel che vincola l’interprete non è ciò che il legislatore avrebbe in astratto potuto, ma ciò che esso ha in concreto voluto disporre. Ed il legislatore del 2001 (come inequivocabilmente si è visto emergere dalla lettera, dalla “ratio”, dal sistema e dai fini della l. n. 89 del 2001) ha inteso propriamente ed esclusivamente far coincidere l’area di operatività dell’equa riparazione con quella (di violazione) delle garanzie assicurate dalla CEDU.

6. Le controversie escluse dalla definizione agevolata.

Ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 130 del 2022, le controversie escluse dalla definizione agevolata sono quelle che concernenti, in tutto o in parte, le risorse proprie tradizionali previste dall’art. 2, paragrafo 1, lettera a) della decisione 14 dicembre 2020, n. 2020/2053/Euratom. Quest’ultima, infatti, ha precisato che: «Costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio dell’Unione le entrate provenienti: a) dalle risorse proprie tradizionali costituite da prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni dell’Unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione del trattato, ormai scaduto, che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero».

Tra le altre controversie escluse il legislatore individua quelle concernenti le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato, ai sensi dell’art. 16 del regolamento UE del 13 luglio 2015, n. 1589.

Infine, dalla lettura dell’art. 5 l. n. 130 del 2022 si ricava, implicitamente, anche l’esclusione della sanabilità delle liti fiscali instaurate dal contribuente in cui quest’ultimo risulti essere rimasto soccombente in entrambi i gradi di merito. Aggiungasi, inoltre, che non sono mai definibili, a prescindere dalla sorte dei giudizi di merito, le liti tributarie di valore superiore a 100.000 euro.

7. Le modalità di accesso alla definizione agevolata.

La definizione si perfeziona, alla stregua comma 7 dell’art. 5 l. n. 130 del 2022, mediante la presentazione della domanda (esente da imposta di bollo) entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge, e, quindi, entro il 16 gennaio 2023 (considerando che il centoventesimo giorno cade di sabato 14 gennaio) con il pagamento degli importi dovuti.

Qualora non vi siano importi da versare, la definizione si perfeziona con la mera presentazione della domanda.

Invero, i due indicati «adempimenti amministrativi» incombenti sul contribuente non sono idonei a «perfezionare la definizione», bensì soltanto ad avviare il procedimento di «definizione agevolata» del rapporto d’imposta. In termini più chiari, la presentazione della domanda ed il versamento degli importi dovuti perfezionano la fase di avvio della definizione agevolata e non la definizione agevolata in quanto tale. E ciò, in quanto il contribuente non è titolare di un diritto soggettivo perfetto alla definizione agevolata (già al momento della presentazione della domanda), ma soltanto di un diritto potestativo all’avvio del relativo procedimento amministrativo (che ha ad oggetto la definizione del rapporto giuridico d’imposta secondo regole eccezionali e diverse da quelle ordinariamente applicabili) .

Il comma 8 dispone, poi, che entro il termine di cui al comma 7 (entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del provvedimento in esame) per ciascuna controversia autonoma (e, cioè, controversia relativa a ciascun atto impugnato) sia presentata una distinta domanda di definizione esente dall’imposta di bollo e sia effettuato un distinto versamento.

In base al comma 13, la definizione perfezionata dal coobbligato giova in favore degli altri debitori, inclusi quelli per i quali la controversia non sia più pendente, fatte salve le controversie autonome.

L’Agenzia delle entrate, con provvedimento del 16 settembre 2022, n. 356446, ha approvato sia il modello di domanda da utilizzare dai soggetti che hanno proposto l’atto introduttivo del giudizio di primo grado (o di chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione) che intendono definire, mediante il versamento delle somme sia le relative istruzioni.

Il contribuente può presentare tale domanda per ciascuna controversia entro il 16 gennaio 2023 tramite posta elettronica certificata ed il pagamento delle somme dovute deve essere effettuato tramite modello F24. Non è ammessa la rateizzazione. A partire dal 16 settembre 2022 data di entrata in vigore della legge e fino al 16 gennaio 2023, per ciascuna controversia tributaria autonoma, ossia relativa al singolo atto impugnato, va presentata all’Agenzia delle entrate una distinta domanda di definizione, esente dall’imposta di bollo, utilizzando esclusivamente il modello reso disponibile dall’Agenzia delle Entrate stessa, con allegata la copia di un documento di identità del firmatario dell’istanza e la quietanza del versamento effettuato mediante modello F24.

Il provvedimento direttoriale ribadisce poi quanto già indicato dal comma 9 dell’art. 5 l. n. 130 del 2022, vale a dire che, ai fini della definizione delle controversie, si dovrà tenere conto di eventuali versamenti già effettuati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio, fermo restando il rispetto delle percentuali di cui ai commi 1 e 2 (5 e 20 %).

La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione.

È evidente che la previsione potrebbe rendere non appagante l’accesso alla sanatoria in tutti quei casi in cui il contribuente sia rimasto soccombente, in tutto o in parte, in grado d’appello, con conseguente riscossione da parte dell’Ufficio di tutta la somma dovuta, comprese le sanzioni e gli interessi. Egli in tal caso, infatti, ha già versato (se non l’intera somma, verosimilmente) più del venti % previsto per chiudere la controversia, di talché potrebbe non avere nessun interesse ad accedervi. Si pensi, a titolo esemplificativo, ad un avviso di accertamento relativo a recupero a tassazione di 90.000,00 euro, esecutivo, all’esito del quale il contribuente abbia versato, senza rateizzazione, un terzo dell’imposta (quindi 30.000 euro), nei termini di presentazione del ricorso dinanzi alla commissione tributaria provinciale. Anche se il contribuente avesse vinto in primo e secondo grado, con conseguente annullamento dell’atto ma senza poter conseguire la restituzione di quanto già versato, qualora volesse chiudere la controversia pendente in cassazione su ricorso dell’Agenzia delle Entrate, in base alla disposizione normativa di cui si tratta (che in questo caso prevederebbe il versamento del 5 %, ossia di 4.500,00 euro), egli subirebbe una perdita, nella specie pari a 25.500,00 euro.

8. Il diniego alla definizione agevolata.

Il comma 11 dell’art. 5 l. n. 130 del 2022 prevede che l’eventuale diniego della definizione debba essere notificato entro trenta giorni con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali. Tale diniego è impugnabile entro sessanta giorni dinanzi alla Corte di cassazione. L’impugnazione del diniego di definizione (che, come rilevato, costituisce ipotesi del tutto eccezionale di impugnativa direttamente in cassazione di un provvedimento amministrativo) ha determinato in passato rilevanti perplessità in riferimento ai precedenti interventi normativi di tipo condonistico, perché si osservava che la legge ordinaria finiva per stravolgere la natura della Corte di cassazione quale giudice di legittimità al quale è affidato il compito di assicurare l’uniformità nell’interpretazione della legge ed al quale, dunque, non si poteva e non si doveva richiedere un sindacato di legittimità e di merito su un atto amministrativo e si sollevavano anche dubbi di legittimità costituzionale.

Tale perplessità è stata nondimeno superata ravvisando la sussistenza di un’eccezionale ipotesi di giurisdizione di merito della Corte di cassazione.

Il secondo profilo, cioè quello di possibile illegittimità costituzionale, è stato ritenuto manifestamente infondato, in quanto scelta non irragionevole, tenuto anche conto del fatto che la garanzia del doppio grado della giurisdizione di merito non ha copertura costituzionale generalizzata, cosicché un differente assetto della disciplina in ordine a tale profilo non sarebbe, in sé, censurabile.

Per completezza di analisi, deve poi evidenziarsi che il giudice dell’impugnazione, essendo chiamato a giudicare per la prima volta della legittimità di un atto tributario e non già di una sentenza di primo grado, dovrebbe considerarsi giudice di primo grado pur dovendo l’impugnativa del diniego essere proposta nelle forme e nel rispetto delle norme processuali proprie del giudizio di impugnazione. Pertanto, qualora il diniego avverso alla definizione agevolata sia impugnato dinanzi alla Corte di cassazione, quest’ultima si trasforma da giudice di impugnazione in giudice di primo grado, con una sfera di competenza estesa sia alla legittimità che al merito del provvedimento di diniego di cui si tratta.

9. Considerazioni conclusive sulla definizione agevolata di cui alla l. n. 130 del 2022.

Nei prossimi mesi sarà possibile comprendere se la definizione agevolata di cui all’art. 5 della legge n. 130 del 2022 produrrà gli auspicati effetti deflattivi.

Va evidenziato che, secondo il comunicato stampa del MEF n. 165 del 20 settembre 2022 sul rapporto trimestrale sul contenzioso tributario aprile – giugno 2022 le pendenze complessive al 30 giugno 2022 si attestano a poco meno di 268 mila unità, con una riduzione su base annua del 10% mentre il dato congiunturale del trimestre precedente registra invece una lieve ripresa dell’arretrato (+2,24%). I ricorsi pervenuti nel secondo trimestre mostrano un aumento tendenziale del 39%, mentre le definizioni sono diminuite del 15%.

Il raffronto con il trimestre precedente evidenzia una lieve ripresa delle pendenze (+2,24%), maggiormente rilevante nel primo grado di giudizio (+6,8%) e causata dal deposito di un numero di nuovi ricorsi superiore al numero delle definizioni.

Le nuove controversie instaurate in entrambi i gradi di giudizio nel secondo trimestre 2022, pari a 51.900, risultano in aumento del 38,6% rispetto all’analogo periodo del 2021.

Tale incremento è correlato alla ripresa delle attività di accertamento e riscossione dei tributi da parte degli enti impositori.

I ricorsi presentati presso le Commissioni tributarie provinciali (CTP) sono stati pari a 41.047, in aumento tendenziale del 60,6%, mentre le definizioni, pari a 31.464, hanno registrato una diminuzione del 17,0%. Nelle Commissioni tributarie regionali (CTR), gli appelli pervenuti nel medesimo periodo risultano pari a 10.853 unità, inferiori dell’8,6% rispetto al precedente anno; le definizioni, che si attestano a 14.559 provvedimenti, sono diminuite del 9,5%.

Secondo avveduta dottrina, da tali dati può agevolmente desumersi come per ridurre sia il contenzioso che i relativi tempi di definizione occorra incidere non solo a valle (dinanzi alla Corte di cassazione) ma soprattutto a monte (nella fase amministrativa). E ciò, in particolare valorizzando l’autotutela e la mediazione, che andrebbero affidate ad un giudice e non alla stessa amministrazione finanziaria, incentivando la conciliazione tra le parti ed evitando l’abuso dell’impugnazione di entrambe le parti che rischia di ingolfare sempre di più la Suprema Corte.

Altra dottrina ha osservato che affinché la definizione avesse potuto avere un effetto deflattivo di rilievo, sarebbe stato opportuno forse prevedere non solo che dagli importi dovuti per condonare «si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio» (art. 5, comma 9, l. n. 130 del 2022), ma anche che l’eventuale eccedenza dovesse essere restituita al contribuente, mentre, sempre secondo l’art. 5 comma 9, «La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione». Dunque, poiché è stato riproposto tale inciso, come nel d.l. n. 119 del 2018, molti contribuenti, secondo tale dottrina, non avranno alcun interesse ad aderire al condono, soprattutto quando (come avviene di norma), dopo la soccombenza in Commissione tributaria siano stati costretti a pagare l’intero importo indicato nell’atto impugnato [come previsto dall’art. 68, comma 1, lett. c) d.lgs. n. 546 del 1992]. Tali somme, infatti, anche se nettamente superiori a quelle necessarie per definire la controversia, non verrebbero mai restituite, cosicché per i contribuenti risulta assai più vantaggioso proseguire la causa.

Del resto, la giurisprudenza di legittimità, in passato, aveva già avuto modo di affermare che «in tema di condono fiscale l. n. 289/2002, ex art. 16, il recupero delle maggiori somme versate dal contribuente anteriormente alla definizione agevolata della lite e relative al medesimo rapporto tributario, non è consentito e spetta nel solo caso eccezionale e derogatorio, di cui al citato art. 16, comma 5, di totale soccombenza dell’Amministrazione finanziaria nel giudizio di merito, stante il principio generale, informatore della disciplina del condono, per cui la novazione del rapporto tributario litigioso estingue i reciproci debiti e crediti tra le parti. (cfr. Cass. n. 16339/2014, Cass. n. 4573/2019). È stato, in particolare, osservato che la norma in esame ha natura di disposizione eccezionale e derogatoria della previsione generale in forza della quale il condono, in quanto incide in via definitiva sui debiti tributari dei contribuenti, che vengono ad essere definiti transattivamente con il versamento delle somme a tal fine dovute, non può dare luogo a restituzione alcuna degli importi in precedenza corrisposti (cfr. Cass. Sez. un. 14828/2008), sebbene eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione stessa. La disposizione derogatoria di cui alla l. n. 289/2002, art. 16, comma 5, in quanto tale di stretta applicazione, e perciò applicabile solo in relazione alla fattispecie ivi prevista — concerne, in altri termini, la sola ipotesi in cui le somme versate, in forza delle disposizioni vigenti in tema di riscossione in pendenza di lite (d.lgs. n. 546 del 1992, art. 68), eccedenti quelle da corrispondere per la definizione condonale, non risultino più dovute a seguito dell’ultima pronuncia di merito, sfavorevole all’amministrazione (Cass. n. 27744/2008)».

Nondimeno, tale orientamento ben avrebbe potuto non essere ritenuto vincolante per il legislatore, dal momento che l’applicazione del principio, per un verso, comporta che molti soggetti non saranno interessati a definire la lite, per altro verso, creerà una disparità di trattamento in situazioni processuali identiche, a favore dei contribuenti che non hanno spontaneamente versato quanto dovuto in sede di riscossione graduale, rispetto a quelli che hanno tempestivamente provveduto al pagamento e che, proprio per tale motivo, si trovano a dover pagare somme maggiori per usufruire del condono rispetto ai primi (per effetto della mancata restituzione della differenza) .

Qualora, dunque, nell’ottica di ottenere una massima adesione alla definizione agevolata, la legge avesse previsto (per la prima volta) il divieto di restituzione della differenza tra le somme già versate e quelle necessarie per la definizione, si sarebbe senza dubbio ampliata la platea dei soggetti interessati al condono.

Aggiungasi che la nuova definizione agevolata delle liti in cassazione risulta altresì fortemente limitata dal valore ridotto delle controversie interessate, dall’esclusione di quelle in cui vi sia stato un doppio giudizio di merito negativo per il contribuente e dalla sua parametrazione al valore della lite in primo grado.

10. La legge 29 dicembre 2022, n. 197 (cd. “legge di bilancio 2023”): nuove misure deflattive per il contenzioso tributario, con particolare riguardo al processo dinanzi alla Corte di cassazione.

La l. n. 197 del 2022, in vigore, salvo quanto diversamente previsto, dal 1° gennaio 2023, ha introdotto una serie di misure orientate a diminuire il carico giudiziario tributario. Tra queste, le più rilevanti in questa sede sono senz’altro rappresentate dalla definizione agevolata delle controversie tributarie (art. 1, commi 186 – 205, l. n. 197 del 2022) e dalla rinuncia al ricorso per cassazione a seguito della definizione transattiva con la controparte (art. 1, commi 213 – 218, l. n. 197 del 2022).

L’art. 1, ai commi 186-205, introduce una modalità di definizione agevolata delle controversie tributarie, applicabile alternativamente rispetto alla definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione di cui all’art. 5 l. n. 130 del 2022, che, come espressamente affermato dal comma 204, «rimane ferma».

L’istituto in esame ha valenza tendenzialmente generale in merito alla tipologia di entrate tributarie, fatte salve le eccezioni di cui al comma 193 in forza della quale sono espressamente escluse da tale sanatoria le risorse proprie tradizionali dell’UE, l’IVA riscossa all’importazione e le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato ai sensi dell’art. 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015.

L’esatto ambito applicativo della definizione agevolata è chiarito negli artt. 186 e 192.

Quest’ultima disposizione definisce il perimetro temporale delle controversie definibili con un duplice requisito: il primo consiste nell’avvenuta notificazione del ricorso in primo grado entro la data di entrata in vigore della legge (è sufficiente, in altri termini, la proposizione del ricorso ai sensi dell’articolo 20 d.lgs. n. 546 del 1992, a prescindere dall’avvenuta costituzione in giudizio del ricorrente); il secondo, di tipo negativo, consiste nell’esclusione dalla sanatoria di quelle controversie per le quali sia già intervenuta pronuncia giudiziale definitiva, ovvero la stessa intervenga prima della data della presentazione della domanda di cui al comma 186.

L’ambito delle controversie definibili ai sensi del comma 192 è tuttavia ristretto, sotto il profilo soggettivo, dal comma 186, che limita l’applicazione della definizione agevolata esclusivamente alle controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui sia parte l’Agenzia delle entrate ovvero l’Agenzia delle dogane e dei monopoli. Orbene, com’è noto, possono essere parti del processo tributario, oltre all’Agenzia delle Entrate ed all’Agenzia delle Dogane, anche gli enti territoriali e l’agente della riscossione (nonché i concessionari dei tributi locali).

Nondimeno, il legislatore ha ritenuto di escludere tali controversie dal perimetro applicativo della nuova definizione agevolata, salvo quanto previsto dal comma 205 che, infatti, rimette a ciascun ente territoriale la facoltà di stabilire, entro il 31 marzo 2023, l’applicazione della definizione agevolata alle controversie in cui è parte il medesimo ente, ovvero un suo ente strumentale. Nulla è peraltro previsto per le controversie tributarie in cui è parte l’agente della riscossione (oggi Agenzia delle entrate riscossione).

Per tale ragione, sono da ritenere escluse dalla definizione agevolata, oltre alle liti tributarie per le quali gli enti locali non abbiano esercitato la predetta facoltà, tutte quelle concernenti vizi riferibili agli atti propri dell’Agenzia delle entrate riscossione (si pensi, a titolo esemplificativo, ai vizi di notificazione attinenti alla cartella di pagamento).

Diversamente, sono invece da ritenere tendenzialmente incluse tutte quelle concernenti vizi riferibili ad atti emessi dall’ente impositore, anche se impugnati unitamente alla cartella di pagamento come, ad esempio, in caso di vizi dell’iscrizione a ruolo emessa in sede di controllo automatizzato, ex art. 36 bis, d.P.R. n. 600 del 1973.

Non assume, invece, più specifico rilievo, ai fini della definizione agevolata, la distinzione tra atti impositivi e meri atti di liquidazione o riscossione.

La definizione, che ha effetto anche nei confronti del coobbligato (art. 1, comma 202, l. n. 197 del 2022), richiede il pagamento di un importo commisurato al valore della controversia stessa, stabilito ai sensi dell’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 e, cioè, importo del tributo oggetto di impugnazione, al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato. In caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste.

La percentuale dell’importo da corrispondere varia in funzione dello stato della controversia e dell’esito della pronuncia o delle pronunce precedenti. Ad esempio, in caso di ricorso pendente iscritto nel primo grado, la controversia può essere definita con il pagamento del 90 % del valore della controversia (art. 1, comma 187, l. n. 197 del 2022). In caso di soccombenza in primo grado della competente agenzia fiscale, con conseguente annullamento integrale dell’atto impugnato, l’importo da versare è pari 40 % del valore della controversia, mentre se la soccombenza è intervenuta all’esito della pronuncia di secondo grado, l’importo sarà pari al 15 % (art. 1, comma 188, l. n. 197 del 2022).

Nel caso di pronuncia che annulla parzialmente l’atto impugnato, il comma 189 prevede che l’importo del tributo confermato dal giudice è dovuto interamente, al netto di interessi e sanzioni; per la parte del tributo oggetto di annullamento si applica, invece, la disciplina prevista dal comma 188, con conseguente riduzione al 15 %.

Le controversie tributarie pendenti innanzi alla Corte di cassazione, precedute da pronunce di primo e secondo grado in cui sia stato annullato integralmente l’atto impugnato, possono essere definite con il pagamento di un importo pari al 5 % del valore della controversia (art. 1, comma 190, l. n. 197 del 2022).

La domanda di definizione agevolata - una per ciascun atto impugnato - deve essere presentata entro il 30 giugno 2023, è esente dall’imposta di bollo e richiede un distinto versamento (art. 1, comma 195, l. n. 197 del 2022). Dagli importi dovuti si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio, senza che mai possa esserci diritto alla restituzione delle somme eccedenti (art. 1, comma 196).

La definizione agevolata si perfeziona con la presentazione della domanda e con il pagamento degli importi dovuti entro il 30 giugno 2023. È ammesso per gli importi superiori a mille euro il pagamento rateale fino ad un massimo di venti rate trimestrali, di pari importo, scadenti come per legge, maggiorate degli interessi legali. Nel caso di versamento rateale, la definizione agevolata si perfeziona con la presentazione della domanda ed il pagamento degli importi dovuti con il versamento della prima rata entro il termine previsto del 30 giugno 2023. Qualora non ci siano importi da versare, la definizione si perfeziona con la sola presentazione della domanda (art. 1, comma 194, l. n. 197 del 2022).

Le controversie definibili - per essere sospese fino al 10 luglio 2023 - richiedono una apposita istanza del contribuente al giudice. Entro la stessa data, il contribuente ha l’onere di depositare presso lo stesso organo giurisdizionale copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata (art. 1, comma 197, l. n. 197 del 2022), deposito che ha un duplice effetto: 1) estinzione del processo con decreto del presidente della sezione o con ordinanza in camera di consiglio se è stata fissata la data della decisione; 2) spese del processo a carico della parte che le abbia anticipate (art. 1, comma 198).

Il diniego della definizione agevolata deve essere notificato entro il 31 luglio 2024, ed è impugnabile entro sessanta giorni dinanzi all’organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia (art. 1, comma 200, l. n. 197 del 2022).

Nell’ipotesi in cui il diniego della definizione agevolata dovesse intervenire successivamente all’estinzione del processo, il provvedimento di diniego è impugnabile dinanzi all’organo giurisdizionale che ha dichiarato l’estinzione del processo; entro il medesimo termine (di sessanta giorni), congiuntamente all’impugnazione del diniego, dovrà essere chiesta la revocazione del provvedimento di estinzione (art. 1, comma 201, l. n. 197 del 2022).

È da ricordare un effetto automatico della novella legislativa. Per le controversie definibili, infatti, sono sospesi per nove mesi i termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione, nonché per la proposizione del controricorso in cassazione che scadono tra il 1° gennaio ed il 31 luglio 2023 (art. 1, comma 199).

Il comma 213 dell’art. 1 l. n. 197 del 2022, prevede, poi, che, in alternativa alla definizione agevolata di cui ai commi da 186 a 205, nelle controversie tributarie pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge innanzi alla Corte di cassazione in cui sia parte l’Agenzia delle entrate ed aventi ad oggetto atti impositivi , il ricorrente, entro il 30 giugno 2023, può rinunciare al ricorso principale o incidentale a seguito dell’intervenuta definizione transattiva con la controparte, perfezionatasi ai sensi del comma 215, di tutte le pretese azionate in giudizio. Tale definizione transattiva comporta il pagamento delle somme dovute per le imposte, le sanzioni ridotte a un diciottesimo del minimo edittale, nonché gli interessi ed eventuali accessori (art. 1, comma 214).

Il comma 215 contempla, ai fini del perfezionamento della definizione transattiva, la sottoscrizione di un accordo tra le parti, nonché il pagamento integrale di quanto dovuto entro il termine di venti giorni dalla predetta sottoscrizione. Pertanto, tale perfezionamento appare, con tutta evidenza, il risultato di una fattispecie a formazione progressiva per la quale non sarà sufficiente la sola sottoscrizione della transazione, dovendo a quest’ultima fare seguito altresì il pagamento di tutti gli importi dovuti entro il termine già sopra menzionato.

Non è ammessa la compensazione, né vi è luogo alla restituzione delle somme già versate, ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione transattiva (art. 1, comma 216, l. n. 197 del 2022).

Alla rinuncia agevolata si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 390 c.p.c.

Sono infine escluse dalla definizione agevolata le controversie concernenti, anche solo in parte, i dazi, l’IVA riscossa all’importazione e le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato (art. 1, comma 218, l. n. 197 del 2022).