PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE I - LA LEGGE PENALE

  • retroattività della legge
  • diritto penale

CAPITOLO I

SUCCESSIONE DI LEGGI PENALI - (IN) APPLICABILITÀ DELLA NORMA PENALE PIÙ FAVOREVOLE NEL PERIODO DI VACATIO LEGIS

(di Aldo Natalini )

Sommario

1 La riforma Cartabia e il problema della (invocata) retroattività della legge più favorevole nel periodo di (prolungata) vacatio legis. - 2 L’inapplicabilità delle norme di favore: Sez. 5, n. 45104 del 04/11/2022, Cipolla. - 3 L’immediata applicabilità delle norme di favore: Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, dep. 2023, Zanetti e altri. - 4 Il differimento del codice della crisi d’impresa e l’immediata applicabilità delle norme definitorie ivi contenute: Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, dep. 2022, Commisso, Rv. 283671-01. - Indice delle sentenze citate

1. La riforma Cartabia e il problema della (invocata) retroattività della legge più favorevole nel periodo di (prolungata) vacatio legis.

Il differimento di sessanta giorni – dal 1° novembre al 30 dicembre 2022 – dell’entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (cd. riforma Cartabia, attuativa della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), per effetto dell’art. 99-bis aggiunto dall’art. 7 del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 (convertito, senza modificazioni sul punto, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199), ha fatto affiorare nella giurisprudenza di legittimità l’inedito problema dell’eventuale applicabilità della legge penale più favorevole nel periodo di (prorogata) vacatio legis.

Invero, le molte norme di favore contenute nella riforma Cartabia – per tutte, l’introduzione del regime di procedibilità a querela per taluni reati contro il patrimonio o contro la persona (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2022), con conseguente possibile dispiegarsi della remissione di querela o della declaratoria di improcedibilità per difetto della stessa – hanno dato luogo alla interessante questione della (possibile) immediata applicabilità degli effetti in bonam partem, a fini penali, della disciplina in questione dopo la sua pubblicazione sebbene (frattanto) differita nella sua formale vigenza.

In altre parole, si è posto il dubbio se anche in questi casi sia configurabile, già durante la fase di vacatio legis, un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, con conseguente applicazione della disposizione di criminal law più favorevole ai sensi degli artt. 25 Cost., 7 CEDU e 2 cod. pen.

A sostegno di tale eventualità, sono state invocate due pronunce di legittimità secondo cui, in tema di abolitio criminis, è legittima la sentenza d’appello che non confermi la condanna per un reato che, al tempo della decisione, risulti abrogato, nonostante il periodo di vacatio legis ai sensi dell’art. 10 disp. prel. c.c. e dell’art. 73, terzo comma, Cost., in quanto la funzione di garanzia per i consociati, che è perseguita dalla previsione del suddetto termine volto a permettere la conoscenza della nuova norma, non comporta anche il perdurante dovere per il giudice di applicare una disposizione penale ormai abrogata per effetto di una successiva norma già valida (Sez. 1, n. 53602 del 18/05/2017, Carè, Rv. 271639-01; conf. Sez. 1, n. 39977 del 14/05/2019, Addis, Rv. 276949-01: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto applicabile la legge 28 aprile 2019, n. 36, che ha modificato la norma sulla legittima difesa, nel giudizio di legittimità celebratosi durante la vacatio legis).

Sulla problematica in esame – frattanto presto esauritasi con la definitiva entrata in vigore, dal 30 dicembre 2022, del d.lgs. n. 150 cit. – si sono registrate due pronunce di legittimità che sono giunte ad opposte conclusioni, mentre nella giurisprudenza di merito si è registrata una remissione alla Corte costituzionale la quale, chiamata a pronunciarsi sul differimento dell’entrata in vigore dell’intero d.lgs. n. 150 del 2022 (cfr. Trib. Siena, ord. 11 novembre 2022, che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.l. n. 162 del 2022), lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo con sentenza n. 151 del 2023, con cui ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, tanto con riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., che, soprattutto, con riguardo all’art. 73, terzo comma, Cost. (nel fondamentale rilievo che - secondo la costante e risalente giurisprudenza costituzionale - il momento cui deve essere riferito l’avvenuto perfezionamento del procedimento di approvazione del decreto legislativo coincide con l’emanazione dello stesso, senza che assuma rilievo il successivo termine di pubblicazione, il cui fine precipuo, in uno con la disciplina della vacatio legis, è quello di consentire la conoscibilità dell’atto, così da soddisfare una basilare esigenza di certezza del diritto, di talché “si deve ritenere che la scelta del legislatore di modulare la vacatio legis di un diverso atto normativo non sia di per sé costituzionalmente illegittima, senza contare che, nel caso di specie, il termine è stato differito e non anticipato, peraltro per un periodo ragionevolmente contenuto, ciò che di per sé potrebbe mirare a consentire una conoscenza più approfondita di una complessa e articolata disciplina normativa, quale quella contenuta nel d.lgs. n. 150 del 2022”: § 5.1), come pure, infine, in relazione al combinato disposto degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. in rif. all’art. 7, par. 1, CEDU (nel fondamentale rilievo che il d.lgs. n. 150 del 2022 “non ha mai acquisito vigenza” sicché i contenuti dell’atto - e, tra essi, l’estensione del regime di procedibilità a querela per i delitti per cui si procede nel giudizio a quo - “costituiscono un elemento il cui concreto rilievo, al metro del principio di retroattività della lex mitior, è inibito dal non aver conseguito l’atto stesso alcuna efficacia obbligatoria”).

2. L’inapplicabilità delle norme di favore: Sez. 5, n. 45104 del 04/11/2022, Cipolla.

Secondo una pronuncia della Quinta sezione, l’inapplicabilità del d.lgs. n. 150 del 2022 ai processi in corso [alla data del 1° novembre fino al 30 dicembre 2022] discende dall’autonomo intervento legislativo di cui all’art. 7 del d.l. n. 162 del 2022, la cui voluntas legis ha determinato il differimento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 cit., sicché il riferimento alla ratio di garanzia sottesa alla previsione del termine della vacatio volto a permettere la conoscenza della nuova norma non può sterilizzare i suoi effetti, ossia la non obbligatorietà della legge prima del decorso del termine della vacatio stessa (così Sez. 5, n. 45104 del 04/11/2022, Cipolla.).

La S.C. si è pronunciata in questo senso in una vicenda nella quale era intervenuta condanna, confermata in appello, per i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di lesioni volontarie aggravate dal nesso teleologico.

L’imputato aveva interposto ricorso per cassazione per l’annullamento della sentenza con conseguente invocata statuizione di non doversi procedere per estinzione del reato, per remissione di querela per condotte riparatorie, a seguito dell’accordo medio tempore intervenuto, in termini definitivi, con la persona offesa. Tra i motivi nuovi, la difesa aveva fatto espressa richiesta di immediata applicazione del d.lgs. n. 150 del 2020 nonostante il differimento ex lege dello stesso frattanto intervenuto, a fronte della invocata normativa più favorevole ivi contenuta che ha escluso la procedibilità d’ufficio anche del reato di lesioni contestato. Secondo la prospettiva del ricorrente, si imponeva una soluzione interpretativa che portasse a ritenere applicabili, già nel periodo di prolungata vacatio legis, le leggi penali (anche) sostanziali più favorevoli previste dal d.lgs. n. 150 del 2022: detta soluzione troverebbe avallo in quella giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto applicabile in giudizio lo ius novum più favorevole al reo già durante il periodo di vacatio legis (cfr. Sez. 1, n. 53602 del 18/05/2017, cit.; Sez. 1, n. 39977 del 14/05/2019, cit.).

Con la decisione in disamina la Corte ha accolto il ricorso dell’imputato per quanto riguarda il reato di cui all’art. 393 c.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, perché ritenuto estinto per remissione di querela; quanto, però, all’imputazione di lesioni volontarie, aggravate dall’art. 61, comma 1, n. 2, c.p., i giudici di legittimità hanno ritenuto necessario affrontare, in via preliminare, le questioni di diritto transitorio poste da ultimo dal ricorrente, in merito alla invocata disciplina di favore dettata dall’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 150 del 2022, in tema di sopravvenuta procedibilità a querela dell’art. 582 cod. pen.

In parte motiva la Corte ha anzitutto preso le mosse dalla circostanza che alla data della deliberazione della sentenza (4 novembre 2022) le disposizioni del d.lgs. n. 150 del 2022 non erano ancora entrate in vigore, essendone stata frattanto differita di sessanta giorni la fase di vacatio legis – prima della sua ordinaria scadenza per effetto del d.l. n. 162 cit., entrato in vigore il 31 ottobre 2022.

Ha poi giudicato necessario esaminare l’indirizzo espresso dalle sentenze di legittimità richiamate dal ricorrente, secondo le quali la funzione di garanzia per i consociati, perseguita dalla previsione del suddetto termine di vacatio volto a permettere la conoscenza della nuova norma, non comporta anche il perdurante dovere del giudice di applicare una disposizione penale ormai abrogata per effetto di una successiva norma già valida (Sez. 1, n. 53602 del 18/05/2017, cit.; Sez. 1, n. 39977 del 14/05/2019, cit.).

La Quinta sezione non ha condiviso questo orientamento per plurime ragioni.

In primo luogo, perché il riferimento alla ratio della disciplina della vacatio legis non può sterilizzare la chiara formulazione dei suoi effetti, ossia la “non obbligatorietà” della legge prima del decorso del termine della vacatio, secondo la formula di cui all’art. 10, comma 1, disp. prel. c.c., ovvero secondo, la più puntuale dizione dell’art. 73, comma terzo, Cost., in forza del quale, di regola e salvo diversa regolamentazione da essa stessa stabilita, la legge “entra in vigore” il quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione. L’univoco tenore delle due disposizioni citate rende ragione dell’autorevole opinione dottrinale secondo cui il periodo di vacatio costituisce il riferimento essenziale per fissare il momento in cui la legge entrerà in vigore.

Del resto, non è dubbio - secondo i giudici di legittimità - che, durante la vacatio legis, il legislatore possa intervenire per modificare la legge già approvata e promulgata e pubblicata, ma ancora non entrata in vigore. Come ricorda la Corte, ciò è già avvenuto di recente nella vicenda verificatasi in materia di sicurezza alimentare: l’art. 18 del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 27 aveva infatti stabilito l’abrogazione della quasi totalità dei reati ricompresi nella fondamentale legge 30 aprile 1962, n. 283, ma, prima della sua entrata in vigore (il 26 marzo 2021), l’art. 1 del d.l. 22 marzo 2021, n. 42 ha “ripristinato” alcuni dei reati previsti dall’art. 18 cit. come originariamente destinati all’abrogazione [cfr. relazione su novità normativa n. 13/21: “Abrogazione della disciplina igienica della produzione e vendita di sostanze alimentari (l. n. 283 del 1962 e succ. modif.) ad opera del d.lgs. n. 27 del 2021”; relazione su novità normativa n. 16/21: “Misure urgenti sulla disciplina sanzionatoria in materia di sicurezza alimentare (d.l. n. 42 del 2021): il ripristino delle contravvenzioni igienico-sanitarie e le prime ricadute operative del d.lgs. n. 27 del 2021 in tema di controlli ufficiali sugli alimenti”].

Si tratta - spiega la S.C. - di una vicenda analoga a quella in esame e, rispetto a essa, la giurisprudenza di legittimità non ha ravvisato alcun fenomeno di successione di leggi, sostenendo, infatti, che la condotta di chi pone in vendita alimenti in cattivo stato di conservazione costituisce tuttora reato, sebbene l’art. 5, lett. b), della legge 30 aprile 1962, n. 283 fosse stato abrogato dall’art. 18 del d.lgs. n. 27 cit., vigente a far data dal 26 marzo 2021, in quanto il precedente 25 marzo 2021 è entrato in vigore il d.l. n. 42 del 2021, che ha modificato l’art. 18 cit., ampliando il novero delle disposizioni della legge n. 283 del 1962 sottratte all’abrogazione, tra le quali il suddetto art. 5 (così Sez. 3, n. 34395 del 16/06/2021, Dragoti, Rv. 282365-01; contra però v. da ultimo Corte cost. n. 151 del 2023, cit.).

Nella risoluzione del caso in esame, decisivo è stato comunque il rilievo che, a ben vedere, esso - per i giudici della Quinta sezione - “non chiama in causa la problematica della vacatio legis, esauritasi, per il d.lgs. n. 150 del 2022, lo scorso 1° novembre 2022. L’inapplicabilità di tale d.lgs. discende, infatti, dal diverso, autonomo intervento legislativo di cui all’art. 7 d.l. n. 162 del 2022: è la voluntas legis espressa da quest’ultimo decreto-legge ad aver determinato il differimento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 cit., sicché il riferimento alla ratio di garanzia sottesa alla previsione del termine della vacatio volto a permettere la conoscenza della nuova norma – ratio su cui si fonda l’orientamento espresso dalle citate sentenze Carè e Addis sopra richiamate – è del tutto inconferente rispetto al differimento sancito dal d.l. n. 162 del 2022. Qui è il legislatore che ha statuito un differimento temporale dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 cit., sulla base di una norma che il giudice non può certo disapplicare” (così Sez. 5, n. 45104 del 04/11/2022, cit.; sempre in tema di riforma Cartabia, ma sul diverso profilo della non immediata applicabilità delle norme di delegazione legislative, in assenza dell’emanazione dei decreti delegati, v. invece Sez. 3, n. 45120 del 28/10/2022, Bove, Rv. 283773-01, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, lett. a, della legge delega 27 settembre 2021, n. 134, nella parte in cui la stessa non prevede che anche per i fatti commessi anteriormente alla sua promulgazione, prima di procedere all’esecuzione del provvedimento ablatorio, debba essere inviato, in difetto di precedente sequestro, un avviso al soggetto nei confronti del quale è disposta la confisca per equivalente, trattandosi di disposizione ad effetti tipicamente processuali, regolata dal principio tempus regit actum).

3. L’immediata applicabilità delle norme di favore: Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, dep. 2023, Zanetti e altri.

Altra decisione di legittimità resa però della Seconda sezione, peraltro espressasi in pari data alla Quinta sezione, è giunta ad esiti opposti, affermando viceversa che, in forza di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata (artt. 3 Cost., 7 CEDU e 49 CDFUE), sono da ritenere applicabili, in pendenza di giudizio, dopo la loro pubblicazione in Gazzetta, le norme più favorevoli contenute nel d.lgs. n. 150 del 2022 (nella specie in tema di sopravvenuta procedibilità a querela del reato di truffa aggravata dall’art. 61, n. 7, cod. pen.) le quali, anche durante il periodo di vacatio legis, possono produrre effetti in bonam partem, a fini penali (Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, dep. 2023, Zanetti e altri.).

La difesa degli imputati, nella vicenda al vaglio della Corte, in apposita memoria aveva evidenziato la remissione della querela in data 27 ottobre 2022, con contestuale accettazione degli imputati: detta circostanza assumeva rilevanza – secondo il ricorrente – in quanto l’art. 2, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 150 del 2022, all’art. 640, comma 3, cod. pen. ha soppresso le parole «o la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, comma 1, n. 7, del codice penale», con la conseguente procedibilità solo a querela di parte del reato di truffa aggravata. La presenza di un effetto più favorevole per i ricorrenti doveva perciò condurre ad applicare l’art. 2, comma 4, cod. pen. ad avviso della difesa.

I Supremi giudici della Seconda sezione hanno accolto tale tesi, annullando senza rinvio la sentenza di condanna per essere il reato estinto per intervenuta remissione della querela.

In parte motiva, la Corte richiama l’orientamento succitato – che viene stavolta espressamente condiviso – per il quale in tema di successione di leggi penali nel tempo, gli effetti di uno ius novum più favorevoli al reo sono applicabili, in pendenza del giudizio, anche durante il periodo della vacatio legis, in quanto la funzione di garanzia per i consociati, perseguita proprio dagli artt. 73, comma 3, Cost. e 10 disp. prel. c.c., prevedendo un termine per consentire la conoscenza della nuova norma, non preclude al giudice di tener conto di quella che è già una novazione legislativa (Sez. 1, n. 39977 del 18/05/2017, cit.). Si è in tal senso anche chiarito che, in tema di abolitio criminis, sebbene al momento dell’adozione della decisione non sia ancora interamente decorso il periodo di vacatio legis, ciò non comporta il perdurante onere del giudice di applicare una disposizione penale ormai abrogata per effetto di una successiva norma già valida (Sez. 1, n. 53602 del 18/05/2017, cit.).

In pendenza della vacatio legis la norma, dunque, già esiste nell’ordinamento in considerazione della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale e “proprio tale esistenza deve essere presa in considerazione dal giudice quando, pendente il giudizio, una sua mancata applicazione, che di fatto preclude la considerazione di un regime giuridico più favorevole per l’imputato, determinerebbe un reale pregiudizio, un effettivo regime di sfavore, nonostante l’intervenuto mutamento del paradigma normativo di riferimento, circostanza questa effettivamente ricorrente nel caso in esame” (Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, cit.). Difatti, la modifica conseguente all’introduzione nell’ordinamento dell’art. 2, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 150 del 2022 determina un diverso regime nella procedibilità del delitto di truffa, caratterizzato, appunto, dalla perseguibilità a querela anche nel caso in cui ricorra la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 7, cod. pen. “La piena applicazione di tale previsione, in presenza di una intervenuta remissione di querela e contestuale accettazione, determina all’evidenza un effetto di maggior favore per i ricorrenti che hanno tempestivamente proposto ricorso per cassazione. In particolare, occorre considerare come nel caso in esame ricorra sostanzialmente un mutamento della condizione di procedibilità del reato, derivante da una modifica normativa, seppure in regime di vacatio legis, intervenuta in pendenza di giudizio, che la parte dimostra di conoscere tanto da invocarne l’applicazione, attesi gli effetti più favorevoli nei suoi confronti, al fine di impedire il passaggio in giudicato della decisione” (così Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, cit.).

I giudici della Seconda sezione, dopo aver analizzato le ragioni “storiche” che hanno portato all’introduzione, da parte dell’art. 6 del d.l. n. 162 del 2022, di una proroga dell’originaria vacatio legis (ordinaria), individuate nella “riscontrata necessità di approntare misure attuative adeguate a garantire un ottimale impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici”, come evidenziato nella relazione illustrativa, concludono nel senso che le modificazioni apportate - nella parte in cui hanno ampliato l’area dei reati perseguibili a querela - in una cornice interpretativa costituzionalmente e convenzionalmente orientata (artt. 3 Cost., 7 CEDU e 49 CDFUE) sono da ritenersi applicabili, considerato che in tale finestra temporale possono produrre effetti in bonam partem, ai fini penali, in favore dei ricorrenti dopo la pubblicazione della disciplina in questione.

In tal senso viene allora condiviso il principio già enunciato da Sez. 1, n. 39977 del 14/05/2019, cit., nel senso che, pur non essendo posto in discussione il chiaro portato dell’art. 73 Cost. e dell’art. 10 disp. prel. c.c., si rileva come “la funzione di garanzia per i consociati e la necessità di apportare adeguate misure attuative per rendere meno traumatico l’avvio della riforma al sistema penale, non possono determinare il perdurante dovere del giudice di applicare una disposizione penale ormai modificata in senso favorevole per i ricorrenti grazie ad una successiva disposizione penale, già oggetto di pubblicazione e rinviata quanto alla sua efficacia sia a fine di conoscenza per realizzare le necessarie dotazioni e misure attuative della stessa, dovendosi escludere che in tale snodo il giudice abbia solo l’alternativa di rinviare la decisione o di ignorare la nuova disciplina, giungendo ad una decisione che determinerebbe il passaggio in giudicato del provvedimento nei confronti dei ricorrenti (Sez. 1, n. 53602 del 18/05/2017, Carè, Rv. 271639-01), che, dunque, pur in presenza di una remissione di querela ritualmente accettata non potrebbero rientrare nel campo previsionale e nell’ambito dei principi di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen., che nel suo inciso finale individua il limite alla portata della disposizione più favorevole nella pronuncia di sentenza irrevocabile” (Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, dep. 2023, cit.; contra però v. da ultimo Corte cost. n. 151 del 2023, cit.).

La sentenza si conclude con il richiamo a quella dottrina secondo la quale nessuna esigenza organizzativa può ragionevolmente giustificare la mancata applicazione della lex mitior, in un bilanciamento di interessi contrapposti che coinvolge anche la libertà personale.

4. Il differimento del codice della crisi d’impresa e l’immediata applicabilità delle norme definitorie ivi contenute: Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, dep. 2022, Commisso, Rv. 283671-01.

Una problematica solo in parte coincidente con quella occasionata dalla riforma Cartabia è stata affrontata, infine, dalla Terza sezione della Cassazione con riferimento al differimento dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (attuativo della legge 19 ottobre 2017, n. 155).

Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, dep. 2022, Commisso, Rv. 283671-01, ha affrontato la questione se le norme del d.lgs. n. 14 del 2019, delle quali pure è stata differita l’entrata in vigore ad opera del d.l. 24 agosto 2021, n. 118, possano e, in caso positivo, in quale misura, essere utilizzate dal giudice nell’ambito di una interpretazione logico-sistematica di altre norme dell’ordinamento.

La diversità di prospettiva rispetto alla suesposta tematica dell’(in)applicabilità delle norme di favore nel periodo di vacatio risiede nel fatto che, in questo caso, si verteva in tema di norme definitorie e non di norme in bonam partem agli effetti penali.

In proposito, i giudici della Terza sezione della Cassazione hanno affermato che la prevalenza del sequestro preventivo finalizzato alla confisca (diretta o per equivalente) del profitto dei reati tributari sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto del fallimento incontra il solo limite dell’appartenenza dei beni a terzi estranei al reato e trova la sua giustificazione anche nelle disposizioni degli artt. 317 e ss. del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, non escludendo la sua differita entrata in vigore che le norme definitorie in esso contenute, venute ad esistenza e a conoscenza con la promulgazione e la pubblicazione, siano utilizzabili, nell’ambito di un’interpretazione logico-sistematica di norme vigenti, contenute in altre leggi.

La S.C. è giunta a tale conclusione dopo aver richiamato la lezione interpretativa impartita dalla giurisprudenza di legittimità che – con orientamento non recente ma ritenuto tuttora valido, quantunque relativo a diversa fattispecie penalistica (relativa alla modifica dell’art. 63, comma terzo, cod. pen. in tema di circostanze ad effetto speciale) – ha affermato che la differita entrata in vigore di una legge agli effetti per cui essa è emanata non esclude che una norma definitoria contenuta nella stessa legge, venuta ad esistenza e a conoscenza con la sua promulgazione e pubblicazione, possa essere utilizzata ai fini dell’interpretazione di una norma, di immediata applicazione, contenuta in altra legge (Sez. 1, n. 02540 del 14/10/1985, Marion, Rv. 171111-01, secondo cui l’immediata applicazione dell’art. 1 legge 28 luglio 1984 n. 398, anche nella parte relativa alle circostanze “”ad effetto speciale non è preclusa dalla ritardata entrata in vigore della legge 31 luglio 1984 n. 400 contenente, all’art. 5, la definizione di tali circostanze; conf. Sez. 1, n. 00726 del 31/05/1985, Ricci, Rv. 170057-01; conf. Sez. 1, n. 00645 del 07/03/1985, Bassano, Rv. 168615-01; Sez. 2, n. 03731 del 14/11/1984, Melato, Rv. 166971-01).

Precisato che la categoria delle norme definitorie è riservata non solo a quelle che costituiscono esplicazione di un termine utilizzato in altre disposizioni ma anche a quelle che assolvono il compito di dettare principi generali o definire la funzione di un determinato istituto, concorrendo perciò alla individuazione del contenuto di altri precetti che presuppongono il concetto o il principio da esse definito, Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, cit., ha chiarito che la ratio del differimento delle disposizioni in parola si giustifica in forza dell’intima connessione di esse con i riti e le procedure prescritte dal codice della crisi d’impresa, che esige l’entrata in vigore simultanea di una serie di disposizioni tra loro strettamente collegate per il razionale funzionamento della nuova disciplina, che ha inaugurato un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o dello stato di insolvenza il quale, pur dovendo ricalcare il procedimento per la dichiarazione di fallimento disciplinato dall’art. 15 della legge fall., dovrà caratterizzarsi per particolare celerità. Diversamente ragionando – argomenta la decisione in esame – sarebbe del tutto privo di ragionevolezza e davvero incomprensibile il differimento dell’entrata in vigore di talune norme, comprese quelle di cui si discute, contenute nel d.lgs. n. 14 del 2019 (Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, dep. 2022, cit., § 3.2).

Anzi per queste specifiche disposizioni - alcune delle quali hanno un contenuto anche ricognitivo (artt. 317, comma 1, e 320), perché in linea con principi già fissati dall’ordinamento per altri analoghi fini, e perciò non dissonanti da esso, o meramente definitorie (art. 317, comma 2) - è evidente secondo la Corte che l’esegesi deve arrestarsi con la presa d’atto del principio da esse fissato (a titolo esemplificativo: le misure cautelari reali di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. prevalgono sulle procedure concorsuali; il sequestro penale impeditivo prevale a determinate condizioni, in mancanza delle quali è subvalente rispetto alle procedure concorsuali; il sequestro conservativo è sempre subvalente a queste ultime) e non può comportare l’anticipata applicazione di riti o il mero rinvio ad altre disposizioni e procedure, posto che il differimento ha costituito la ratio essendi della posticipata vigenza di esse.

In buona sostanza, si predica l’utilizzabilità delle norme “definitorie” contenute nel d.lgs. n. 14 del 2019 esclusivamente come tramiti interpretativi che consentono di convalidare un’interpretazione delle norme vigenti che già autonomamente sia in grado di supportare un determinato risultato esegetico.

Conclusivamente, per la S.C. i rapporti tra le procedure concorsuali e le misure cautelari reali possono essere dedotti con interpretazione logico-sistematica, oltre che dalle norme già vigenti nell’ordinamento anche dalla disciplina fissata dagli artt. 317 e ss. del d.lgs. n. 14 del 2019. “Infatti, il ricorso immediato a tali norme, esclusivamente quale sussidio interpretativo ai fini delle norme dalle quali deve trarsi la disciplina dei rapporti, allo stato, tra “sequestro penale e fallimento”, è consentito anche prima del 16 maggio 2022, termine previsto dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118 per l’entrata in vigore degli artt. 317 e ss. d.lgs. n. 14 del 2019. Ne consegue che la differita entrata in vigore di una legge, agli effetti per cui essa è emanata, non esclude che una o più norme definitorie contenute nella stessa legge, venute ad esistenza e a conoscenza con la sua promulgazione e pubblicazione, possano essere utilizzate ai fini della interpretazione di norme vigenti contenute in altre leggi” (Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, dep. 2022, cit., § 3.2).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 2, n. 03731 del 14/11/1984, Melato, Rv. 166971-01;

Sez. 1, n. 00645 del 07/03/1985, Bassano, Rv. 168615-01;

Sez. 1, n. 00726 del 31/05/1985, Ricci, Rv. 170057-01;

Sez. 1, n. 02540 del 14/10/1985, Marion, Rv. 171111-01;

Sez. 1, n. 53602 del 18/05/2017, Carè, Rv. 271639-01;

Sez. 1, n. 39977 del 14/05/2019, Addis, Rv. 276949-01;

Sez. 3, n. 34395 del 16/06/2021, Dragoti, Rv. 282365-01;

Sez. 3, n. 03575 del 26/11/2021, dep. 2022, Commisso, Rv. 23761-01;

Sez. 5, n. 45104 del 04/11/2022, Cipolla;

Sez. 3, n. 45120 del 28/10/2022, Bove, Rv. 283773-01;

Sez. 2, n. 02100 del 04/11/2022, dep. 2023, Zanetti e altri.

Sentenze della Corte costituzionale:

Corte cost., n. 151 del 2023

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE II - IL REATO

  • responsabilità penale
  • manifestazione sportiva
  • reato colposo

CAPITOLO I

ELEMENTO SOGGETTIVO - L’ATTIVITÀ SPORTIVA, IL RISCHIO, LA COLPA

(di Maria Eugenia Oggero )

Sommario

1 La colpa e le attività sportive pericolose nella tradizionale giurisprudenza. - 2 La dogmatica del “rischio consentito”. - 3 Il superamento del “rischio consentito” e l’applicazione dei principi generali in tema di colpa: le decisioni della Quarta Sezione nell’anno 2022. - Indice delle sentenze citate

1. La colpa e le attività sportive pericolose nella tradizionale giurisprudenza.

Nel corso dell’anno 2022, la Quarta Sezione è tornata ad occuparsi del tema delle pratiche sportive pericolose con due pronunce che paiono sensibilmente discostarsi dalla tradizionale impostazione seguita dalla giurisprudenza, con riferimento al tema degli eventi dannosi conseguenti all’esercizio di sport pericolosi.

È noto che l’esercizio dello sport, quand’anche di violenza ovvero connotato da “contatto” fisico, costituisca un’attività intrinsecamente pericolosa, dalla quale è probabile possano derivare conseguenze lesive per l’atleta; è tuttavia indiscussa la sua utilità e, come tale, la sua pratica è consentita dall’ordinamento.

La tradizionale elaborazione dottrinale e giurisprudenziale riconduce al paradigma del “rischio consentito” il relativo inquadramento dogmatico, concepito e sviluppato dalla dottrina con riferimento a quelle attività umane che, per quanto ontologicamente pericolose per l’incolumità, sono tuttavia reputate utili o necessarie, in un determinato momento storico, alla collettività.

Così, tra le altre, si pensi alla circolazione stradale, alla attività medico-chirurgica e, appunto, allo sport, anche quando sia violento.

Tanto con riguardo alla circolazione stradale, quanto alla disciplina medico-chirurgica, nell’affrontare l’analisi degli eventi dannosi connessi a tali contesti, ci si è progressivamente discostati dal criterio del “rischio consentito”, finendo per ricondurre tali problematiche allo statuto della colpa, sulla considerazione che soltanto così è possibile garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali di tassatività e personalità della responsabilità penale.

2. La dogmatica del “rischio consentito”.

L’elaborazione in tema di “rischio consentito” riposa sulla premessa del rispetto, da parte dell’agente, delle regole disciplinanti quello specifico ambito dell’attività umana in cui egli si muove, per cui l’assunzione di comportamenti pericolosi viene ammessa dall’ordinamento a patto di osservare la regolamentazione prevista in quel campo.

Calando i menzionati principi sul terreno dell’attività sportiva a contesto violento, secondo l’impostazione tradizionalmente seguita in giurisprudenza (cfr. Sez. 4, n. 9559 del 26/11/2015, dep. 2016, De Bardi, Rv. 266561-01, Sez. 4, n. 20595 del 28/04/2010, Pantano, Rv. 247342-01), in tanto essa viene considerata lecita, in quanto l’atleta abbia agito nell’osservanza dello statuto stabilito per quella pratica.

Di conseguenza, l’area del rischio consentito coincide con il rispetto delle regole che individuano, secondo la valutazione effettuata dal regolamento, il limite della componente di rischio che di cui ogni atleta accetta nell’intraprendere quella pratica: al di fuori di questo spazio, l’inosservanza delle regole comporta il travalicare nell’illecito.

Sotto quest’angolo visuale, il rispetto delle regole - altrimenti detto - costituisce il perimetro all’interno del quale l’eventuale accadimento lesivo non sarà ascrivibile all’agente, poiché intraprendere una pratica sportiva pericolosa implica, per ciascun partecipante, accettarne, in parte qua, le possibili conseguenze dannose.

Di contro, il “rischio consentito” non copre le azioni volontarie compiute al di fuori dell’azione sportiva (e solo occasionalmente originate dalla sua pratica) ovvero quelle che, pur se compatibili con il relativo contesto, sono tali da risultare, ex ante, sproporzionate rispetto alla finalità sportiva propria della disciplina praticata dall’atleta.

Evidentemente, il discorso è destinato ad assumere connotati diversi nel caso di trasgressione delle regole del gioco, regole che sono elaborate, nell’ambito delle varie discipline sportive, previa valutazione della ragionevole componente di rischio insita in un determinato sport.

Si impone di tenere distinte la violazione (pur volontaria) della regola del gioco dalla quale derivi, quale conseguenza non voluta e non accettata, la lesione, dall’ipotesi in cui l’inosservanza volontaria della regola sia sorretta dall’intenzione o dall’accettazione dell’evento cagionato dall’agente.

Nella prima delle ipotesi descritte, potrà configurarsi la responsabilità per colpa, laddove, trasgredita la regola a tutela dell’altrui incolumità, sia seguito - purché connesso tramite rapporto di causa-effetto - l’evento dannoso, mentre nel secondo caso la volontaria violazione della regola, scientemente diretta a ledere o con preventiva accettazione della lesione, darà luogo a responsabilità dolosa.

3. Il superamento del “rischio consentito” e l’applicazione dei principi generali in tema di colpa: le decisioni della Quarta Sezione nell’anno 2022.

Tratteggiate, per sommi capi, le linee direttrici seguite dalla giurisprudenza di legittimità, due decisioni, depositate dalla Quarta Sezione nell’anno 2022, rispettivamente, la sentenza Sez. 4, n. 3284 del 21/10/2021 (dep. 2022), Panzani, Rv. 282705-01 e la pronuncia della Sez. 4, n. 8609 del 28/10/2021 (dep. 2022), Contin, Rv. 282764-01, si segnalano per l’innovativa lettura del tema in oggetto.

La sentenza Sez. 4, “Panzani”, Rv. 282705-01, è stata così massimata: “In caso di lesioni personali colpose cagionate durante una competizione sportiva, ai fini della valutazione della responsabilità penale dell’atleta antagonista della vittima, devono essere applicati i criteri ordinari sulla colpevolezza, individuando la regola cautelare che presidia l’attività sportiva e la doverosità della condotta richiesta secondo canoni di prudenza, perizia e diligenza, nonchè di osservanza delle specifiche regole di gioco volte a evitare il pericolo di lesioni”.

La seconda decisione (Sez. 4, “Contin”, Rv. 282764-01) recita in massima: ”In tema di responsabilità per fatti dannosi cagionati dall’atleta durante l’attività sportiva, ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, non può farsi riferimento al criterio del rischio consentito e dell’agente modello, ma devono essere applicati i principi ordinari della colpevolezza nei reati caratterizzati dall’evento, che prevedono la verifica oggettiva del fatto dannoso, e dunque dell’azione e del nesso causale, nonchè la configurabilità del dolo o della colpa dell’agente. (In motivazione la Corte ha precisato che l’attività sportiva costituisce una pratica lecita ma pericolosa, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre i relativi rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o colposamente danneggiata a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari)”.

Entrambi gli arresti della Corte - che si pongono in relazione di organica sinergia - meritano qualche riflessione poiché pongono l’accento, procedendo ad una parziale rivisitazione del tradizionale orientamento incentrato sull’applicazione all’attività sportiva della dogmatica delle cause di giustificazione, sul rilievo che la natura, pacificamente lecita, dello sport sarebbe d’ostacolo all’applicazione della disciplina delle scriminanti, riguardante attività che, se non fossero imposte o consentite, sarebbero illecite per l’ordinamento.

Nell’impostazione delle due decisioni, occorre dunque abbandonare il terreno del “rischio consentito” e fare esclusivo ricorso alle generali categorie che informano la colpa.

Ne consegue che lo sportivo di una pratica “di contatto”, accanto al dovere di rispettare le regole che disciplinano lo sport intrapreso, è tenuto al più generale onere di osservanza delle regole cautelari, prudenziali e di diligenza e quindi la violazione del regolamento sportivo non esime dall’accertare se, nell’azione, sia rilevabile l’osservanza o meno delle generali prescrizioni prudenziali da parte dell’atleta.

Tralasciando l’ipotesi in cui la pratica sportiva, ove si traduca nella trasgressione volontaria delle regole, divenga solo l’occasione per ledere l’altrui incolumità (tema che, come noto, si inscrive nel perimetro della responsabilità dolosa), vanno distinti i danni conseguenti a condotte tenute nel rispetto delle regole sportive e gli eventi dannosi che, diversamente, siano originati da condotte trasgressive delle regole sportive medesime.

Nella sentenza “Panzani”, n. 3284 del 2021, la Corte puntualizza che liceità sportiva e liceità penale non sono perfettamente sovrapponibili e che, anche a fronte del rispetto delle prescrizioni sportive, occorre accertare se l’agente si sia fatto carico delle generali regole cautelari prudenziali, la cui inosservanza (colpa cd. generica) può configurare responsabilità.

Sotto questa visuale, potrebbe non essere del tutto chiaro quale onere prudenziale sia ascrivibile all’atleta di una pratica sportiva intrinsecamente violenta (tra tutte, il pugilato), in relazione alla quale non è agevole immaginare una trasgressione regolamentare che non coincida con una violazione prudenziale: certo che, prendendo atto della distinzione operata, da parte della Corte, tra due categorie di norme sportive, quelle finalizzate ad evitare eventi dannosi e quelle che, invece, perseguono differenti finalità, dalla violazione delle seconde deve escludersi che si origini una trasgressione colposamente rilevante.

Procedendo da tali premesse, il Collegio ha osservato che l’impostazione che fonda il limite fra illecito sportivo ed illecito penale sull’operatività della scriminante del rischio consentito non appare soddisfacente: l’attività sportiva non può essere correttamente riconducibile alla categoria dogmatica e normativa delle cause di giustificazione, trattandosi di un’attività lecita e regolata dalla normazione di ciascun specifico settore disciplinare, con la conseguenza che la sua pratica comporta l’accettazione per l’atleta della regola sportiva e del rischio ad essa connesso.

Se lo sport costituisce un’attività umana lecita, responsabilità sportiva e responsabilità penale sono destinate a muoversi su piani parzialmente diversi, essendo la prima disciplinata dai rispettivi regolamenti, che definiscono i limiti della correttezza del gioco, la seconda implicando la necessità che l’evento lesivo derivi da una condotta dolosa o colposa dell’agente.

Nell’analizzare quale rapporto corra tra la regola sportiva e quella cautelare volta ad evitare il prodursi di eventi dannosi, la Corte puntualizza che è necessario rifarsi alle regole ordinarie sulla colpevolezza colposa, individuando la regola cautelare che presidia l’attività, così come quella ossequiosa delle regole del gioco, specificamente volta ad evitare il pericolo di lesioni.

Tale operazione è necessaria, in quanto vi è un’area consentita in cui, se l’evento lesivo può dirsi certamente prevedibile, la condotta volta ad evitarlo non è per contro richiesta, poiché, in tale modo, si darebbe la paralisi dello sport di contatto, che invece è e resta attività lecita.

Nell’accettazione del regolamento riposa la liceità sportiva, ma, aggiunge la Corte, tale premessa non copre integralmente la liceità penale, che impone altresì il limite della prudenza, della perizia, della diligenza, cioè la necessità di regolare l’azione, affinchè non sia nociva.

Ne consegue la diversità fra l’illecito sportivo, il cui rilievo spetta all’arbitro, e quello penale, di competenza del giudice, il quale deve rifarsi ai criteri ordinari della colpa, fissati dall’art. 43 cod. pen. ed individuare la regola cautelare preesistente, impositiva della condotta doverosa di astensione (sempre nei limiti della disciplina lecita), ma anche accertare la prevedibilità dell’evento dannoso.

Soggiunge la Corte che, accettate queste premesse, appare chiaro che non può essere l’entità del danno cagionato a discriminare l’azione illecita, ma il criterio deve essere la trasgressione della norma cautelare prestabilita che renda prevedibile l’evento, sia perché disapplicata, sia perché inutilmente trascesa, al fine del raggiungimento del risultato.

In applicazione di tali principi, la Quarta Sezione ha disposto l’annullamento con rinvio (al giudice civile, maturata la prescrizione del reato) della decisione impugnata sul rilievo che, erroneamente, risultava essere stata fatta derivare, ex post, la violazione della regola cautelare dall’entità delle lesioni causate dall’atleta al suo avversario nel corso di un’azione calcistica (cd. tackle), sul rilievo che, nel calcio “a cinque”, il regolamento non consentiva quella condotta di gioco (e, dunque, secondo i principi del “rischio consentito”), omettendo invece di valutare se, nel caso concreto, fosse prevedibile che da quel gesto atletico conseguisse l’evento dannoso all’avversario (colpa generica).

La successiva decisione, Sez. 4, n. 8609 del 28/10/2021 (dep. 2022), Contin, Rv. 282764-01, emessa a pochi giorni da quella di cui si è trattato, si pone nel medesimo solco, sviluppando e arricchendo il percorso motivazionale già tracciato e alternativo alla teoria del “rischio consentito”, intrapreso con la sentenza “Panzani”, n. 3284 del 2021 (dep. 2022).

Secondo la Corte, affrontare i casi di responsabilità da esercizio dell’attività sportiva secondo le categorie del “rischio consentito” non soddisfa, poggiando sull’assioma per cui - trattandosi del rischio accettato dall’atleta in relazione al rispetto delle regole sportive - ogni violazione “esorbitante” da tali prescrizioni finisce per comportare la rilevanza penale della condotta, antisportiva e lesiva dell’altrui incolumità.

Rispetto alla precedente decisione, la Corte chiarisce e approfondisce il profilo secondo cui la dogmatica del rischio consentito - rimandando all’agente “modello”, homo eiusdem condicionis et professionis - solleva dubbi, in quanto àncora la condotta dell’agente ad un modello ideale e astratto di comportamento, al quale la condotta dell’agente reale finisce per doversi parametrare, all’esito di un’operazione ad alto tasso di discrezionalità giudiziale.

Viene dunque ribadita la scelta, volta ad un pregnante rispetto dei principi di tassatività e personalità della responsabilità penale, incentrata sull’utilizzo, anche in tale ambito di responsabilità, dei criteri generalmente elaborati in ambito di delitto colposo di evento, secondo il paradigma della colpa (nella sua dimensione soggettiva).

Diventa così necessario procedere alla ricostruzione dell’eventuale responsabilità, a partire dall’evento dannoso e per tramite dell’accertamento del nesso causale, attraverso la violazione della regola cautelare, sia essa di colpa generica, sia di colpa specifica (cfr., in tema, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo e altri, Rv. 281997-17).

Soltanto il rispetto della descritta sequenza potrà garantire la fedeltà del giudizio ai principi costituzionali - tra tutti, tassatività e personalità della responsabilità penale -, evitando di valutare la diligenza della condotta, <<...comparandola con quella di un agente ideale, in quanto tale virtuoso, onniscente e onnipotente, equivale a pretendere da quella stessa persona un comportamento doveroso basato su parametri essenzialmente soggettivi e, spesso, irrealistici>>.

In linea con il ragionamento giudiziale richiesto in tema di colpa medica - precisa la Corte - la ricostruzione dell’accaduto, anche nel caso di evento dannoso occorso nell’esercizio dell’attività sportiva, dovrà avvenire secondo le seguenti scansioni, così schematizzate:

• individuazione della regola cautelare preesistente e applicabile alla condotta;

• individuazione, ex ante, del comportamento doveroso prescritto, sulla base delle regole di diligenza, prudenza, perizia;

• individuazione delle regole cautelari applicabili a ciascuna attività sportiva, con la precisazione che non tutte le regole del gioco assumono la valenza di regole cautelari, non essendo tali quelle che, prevedendo condotte a cui vengono assegnate sanzioni sportive (ad esempio, sanzionanti il “fallo”), evidentemente ne presuppongono la compatibilità con la relativa disciplina;

• rilevanza del principio dell’affidamento, in quanto l’atleta, accettando le regole del gioco (che si impegna a rispettare), deve poter confidare nell’altrui lealtà e correttezza sportiva, quale rispetto delle regole del gioco da parte di tutti coloro che prendono parte alla pratica (dimensione cd. relazionale della colpa); principio che dovrà peraltro declinarsi, proprio in ragione del menzionato profilo relazionale, in base al particolare ambito (professionistico, amatoriale, dilettantistico) nel quale la pratica sportiva avviene.

E dunque, se l’atleta può e deve aspettarsi il contrasto, anche violento e travalicante nella commissione, durante un’azione di gioco, di un fallo da parte dell’avversario, sarà invece tradito nel suo affidamento (cioè nel rispetto, da parte dell’avversario, della lealtà sportiva), laddove l’azione oppositiva attinga ad una parte del suo corpo non interessata e non utile rispetto all’azione.

Diversamente, non sarà ravvisabile colpa, nel caso in cui l’atleta, cercando il goal, abbia colpito la palla in rovesciata - gesto previsto dal regolamento - così impattando accidentalmente il corpo dell’avversario, evenienza in linea con la lealtà e correttezza sportiva cui si è fatto cenno, dalla quale, tuttavia, non è certo imprevedibile possano derivare conseguenze dannose al terzo.

Sulla base delle articolate considerazioni, la Corte è quindi pervenuta all’annullamento con rinvio della decisione impugnata, ai fini dell’applicazione dei principi esposti.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 4, n. 20595 del 28/04/2010, Pantano, Rv. 247342-01;

Sez. 4, n. 9559 del 26/11/2015, dep. 2016, De Bardi, Rv. 266561-01;

Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997-17;

Sez. 4, n. 3284 del 21/10/2021, dep. 2022, Panzani, Rv. 282705-01;

Sez. 4, n. 8609 del 28/10/2021, dep. 2022, Contin, Rv. 282764-01.

  • reato
  • prescrizione della pena
  • circostanza aggravante

CAPITOLO II

CIRCOSTANZE - RECIDIVA QUALIFICATA, LIMITE MASSIMO ALL’AUMENTO DI PENA PREVISTO DALL’ART. 99, SESTO COMMA, COD. PEN. E SUA RILEVANZA SUL COMPUTO DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL REATO

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 Natura della recidiva qualificata e rilevanza dell’aumento della pena in concreto. - 3 Rilevanza del limite di cui all’art. 99, sesto comma, cod. pen. sul termine di prescrizione. - 4 La soluzione recepita dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

La Seconda sezione penale, con ordinanza in data 14 dicembre 2021, ha rimesso alle Sezioni unite la questione relativa alla incidenza del limite all’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. sotto un duplice profilo: quello della natura della recidiva qualificata come circostanza “ad effetto speciale”, e quello della sua rilevanza ai fini della determinazione del termine di prescrizione.

Sul punto si erano registrati due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo e maggioritario indirizzo, il termine di prescrizione andava computato tenendo conto dell’aumento massimo di pena previsto per la recidiva qualificata, ma con il limite previsto dall’art. 99, comma sesto, cod. pen., in base al quale l’aumento per la recidiva non può superare il cumulo delle pene inflitte con le precedenti condanne (Sez. 6, n. 51049 del 07/07/2015, Volpe, Rv. 265707-01). Per tale orientamento, la recidiva qualificata, la quale costituisce circostanza ad effetto speciale, incideva sul termine di prescrizione ai sensi dell’art. 157 cod. pen. Ai fini del computo di tale termine, tuttavia, si doveva tener conto anche del limite quantitativo alla commisurazione della pena posto dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. Ciò in forza del principio del favor rei, il quale impone che, tra la disposizione che stabilisce un aumento della pena base nella misura stabilita per ciascuna forma di recidiva qualificata e quella che prevede un tetto a tale aumento, debba darsi prevalenza a quella più favorevole.

Tali conclusioni, già affermate immediatamente dopo l’entrata in vigore della disciplina della recidiva, introdotta dal d.l. n. 99 del 1974, conv. in l. n. 220 del 1974 (ex plurimis, Sez. 2, n. 8492 del 16/05/1985, Tinnirello, Rv. 170553-01; Sez. 2, n. 4238 del 05/12/1980, dep. 1981, Lucarelli, Rv. 148763-01; Sez. 5, n. 7078 del 10/04/1979, Bolognani, Rv. 142698-01), venivano ribadite da Sez.5, n. 44099 del 24/09/2019, Graniello, Rv. 277607-01, la quale affermava altresì che il criterio di temperamento della pena stabilito dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. non incideva sulla natura della recidiva qualificata come circostanza ad effetto speciale e rilevava solo ai fini della determinazione del termine minimo di prescrizione e non anche di quello massimo. Al medesimo filone interpretativo si dovevano iscrivere anche Sez. 5, n. 45252 del 27/10/2021, Greco; Sez. 5, n. 27106 del 10/06/2021, Mannatrizio; Sez. 3, n. 16492 del 07/11/2018 (dep. 2019); Sez. 1, n. 48428 del 20/09/2019, Battisti; Sez. 4, n. 24078 del 27/02/2018, Vailatti.

Secondo altro orientamento interpretativo, la recidiva qualificata non poteva costituire circostanza ad effetto speciale allorché, in conseguenza dell’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 99 cod. pen., essa comportasse un aumento della pena pari o inferiore ad un terzo, dal momento che in forza dell’art. 63, terzo comma, cod. pen., tali possono considerarsi solo le aggravanti che determinino un aumento della pena superiore ad un terzo. Si era pertanto statuito che, ai fini del computo del termine di prescrizione, non potevano essere considerate le recidive qualificate che, per effetto del criterio moderatore, determinassero un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo (in tal senso si sono espresse Sez. 3, n. 34949 del 03/11/2020, S., Rv. 280504-02 e Sez. 3, n. 2519 del 14/12/2021, dep. 2022, Pistacchi, non massimata sul punto).

2. Natura della recidiva qualificata e rilevanza dell’aumento della pena in concreto.

2.1. Al fine di dirimere il delineato contrasto, le Sezioni Unite, con sentenza n. 30046 del 23/06/2022, Cirelli, Rv. 283328-01, hanno individuato due distinti, ma complementari, profili della questione. Il primo attiene alla definizione della recidiva qualificata (aggravata, reiterata semplice, e reiterata aggravata), ai sensi del secondo e quarto comma dell’art. 99 cod. pen., nel caso in cui, per effetto dell’applicazione del sesto comma della stessa disposizione, l’aumento di pena sia in concreto operato in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene alle conseguenze che il suddetto limite comporti sul computo sia del termine di prescrizione minimo, previsto dall’art. 157 cod. pen., sia di quello massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, secondo comma, cod. pen. per effetto di atti interruttivi del processo.

Quanto al primo profilo, le Sezioni unite premettono che costituisce un dato pacifico che la natura della recidiva qualificata, contestata nella forma aggravata, pluriaggravata o reiterata, allorché comporti un aumento della pena in misura superiore ad un terzo, debba qualificarsi come aggravante ad effetto speciale, inerente alla persona del colpevole, in tal senso deponendo la stratificata giurisprudenza delle Sezioni unite (sono richiamate Sez. U., n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664-01; Sez. U., n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044-01; Sez. U., n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319-01; Sez. U., n. 3585 del 24/09/2020, dep. 2021, Li Trenta, Rv. 280262-01).

Il problema nasce allorché, per effetto dell’applicazione del limite posto dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. – introdotto dal legislatore del 1974 al dichiarato scopo di temperare gli effetti applicativi della recidiva – l’aumento della pena sia in concreto pari o inferiore ad un terzo.

Le Sezioni unite evidenziano, innanzitutto, come l’art. 99 cod. pen., nel prevedere il tetto all’aumento di pena, faccia riferimento a tutte le forme di recidiva, e dunque anche a quella semplice, sicché, anche in presenza di un’unica precedente condanna, la quale può integrare tanto una recidiva semplice, quanto una aggravata (ma non reiterata), il limite viene determinato con riguardo alla pena inflitta con tale condanna. Da tanto si desume che il legislatore, con la previsione del sesto comma, non abbia inteso incidere sulla natura di ciascuna delle circostanze aggravanti previste dallo stesso art. 99 cod. pen.

2.2. Inoltre, nell’ambito di un’interpretazione logico-sistematica, viene richiamato l’art. 63, quarto comma, cod. pen., il quale stabilisce che, in caso di concorso di più aggravanti ad effetto speciale, il giudice applica la pena stabilita per la circostanza più grave, ma può aumentarla. Con tale disposizione, il legislatore ha riconosciuto che la natura di circostanza ad effetto speciale non viene meno per il fatto che il giudice, in relazione al riconoscimento di una o più circostanze ulteriori rispetto alla prima, operi in concreto un aumento uguale o inferiore ad un terzo, ovvero non ne operi alcuno.

Le Sezioni unite osservano come la giurisprudenza di legittimità abbia più volte evidenziato che, ai fini della prescrizione, le circostanze ad effetto speciale mantengono la loro natura anche se in concreto non possono comportare un aumento superiore ad un terzo ai sensi dell’art. 63, quarto comma, cod. pen. (vengono richiamate, ex multis, Sez. 6, n. 23831 del 14/05/2019, Pastore, Rv. 275986-01; Sez. 2, n. 47028 del 03/10/2013, Farinella, Rv. 257520-01; Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012, Lo Bianco, Rv. 253525-01).

Benché tale disposizione operi in modo differente rispetto all’art. 99, sesto comma, cod. pen., il quale prevede un tetto massimo di pena senza riconoscere al giudice alcun margine di discrezionalità, tuttavia le due disposizioni sono accomunate dal fatto che per entrambe il limite all’aumento di pena non incide sulla natura dell’aggravante.

2.3. Sempre nell’ottica di una ricostruzione unitaria del sistema, le Sezioni unite Cirelli richiamano gli approdi della giurisprudenza in tema di misure cautelari, con riguardo all’art. 278 cod. proc. pen. e all’incidenza del concorso di circostanze ad effetto speciale ai fini cautelari. Ricordano come in proposito le stesse Sezioni unite abbiano affermato che dette circostanze mantengono la propria natura anche allorché, per effetto dell’art. 63, quarto comma, cod. pen., esse determinino un aumento della pena pari ad un terzo, in quanto sarebbe irragionevole ritenere che l’aggravante muti la propria natura a seconda della sua collocazione nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti (Sez. U., n. 16 del 08/04/1998, Vitrano, Rv. 210709-01; Sez. U., n. 38518 del 27/11/2014, Ventrici, Rv. 264674-01).

Tale regula iuris – ad avviso delle Sezioni unite – è espressione della tendenza del legislatore di distinguere il momento della qualificazione della circostanza, che ha riguardo alla sua astratta incidenza sulla determinazione della pena, rispetto al momento della determinazione dei suoi effetti ai fini della commisurazione del concreto trattamento sanzionatorio.

2.4. In definitiva, dunque, le Sezioni unite affermano che il limite all’aumento di pena stabilito dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. in misura pari o inferiore ad un terzo della pena base non incide sulla natura della recidiva qualificata, contestata ai sensi del secondo, terzo e quarto comma, cod. pen., la quale rimane immutata. A ritenere diversamente, infatti, essa diverrebbe una circostanza aggravante «a geometria variabile», la cui natura sarebbe soggettivamente condizionata dalla misura del cumulo della pena risultante dalle precedenti condanne, in contrasto con l’esigenza di certezza e potrebbe comportare, nelle sue conseguenze pratiche, inammissibili disparità di trattamento.

3. Rilevanza del limite di cui all’art. 99, sesto comma, cod. pen. sul termine di prescrizione.

3.1. Quanto al secondo profilo della questione controversa, relativo alla incidenza del limite di cui all’art. 99, sesto comma, cod. pen. sulla determinazione del termine di prescrizione, la pronuncia in esame muove dalla considerazione che gli artt. 157, commi primo e secondo, e 161, secondo comma, cod. pen. non offrono dati univoci.

3.2. Con riguardo alle modalità di calcolo del termine minimo di prescrizione, l’art. 157, primo comma, cod. pen. dà rilievo al limite massimo della pena legale ai fini della determinazione del termine di prescrizione. Il secondo comma della stessa disposizione, nel precisare i criteri per il calcolo del tempo necessario a prescrivere, impone di tener conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante speciale o ad effetto speciale. Pertanto, quanto alla recidiva qualificata, questo sembrerebbe comportare la necessità di tener conto dell’incremento massimo stabilito dall’art. 99 cod. pen., senza che rilevi il criterio moderatore stabilito dall’ultimo comma. Tuttavia, resta dubbio se il riferimento all’aumento massimo di pena previsto per dette aggravanti debba essere riferito all’aumento in astratto ovvero in concreto.

Per quanto attiene alla determinazione del termine massimo di prescrizione, l’art. 161, secondo comma, cod. pen. non fa menzione dell’art. 99, sesto comma, non essendo tuttavia chiaro se questa omissione sia frutto di una scelta consapevole o di un involontario difetto di coordinamento.

Le Sezioni unite affermano che tale mancato richiamo del criterio di temperamento in entrambe le suddette disposizioni risponda ad una logica unitaria in base alla quale il computo della pena, ai fini del calcolo del termine di prescrizione, sia da effettuarsi in base a parametri oggettivi, generali e astratti e vada tenuto distinto da quello di determinazione della pena da irrogare al condannato, per il quale valgono criteri concreti e soggettivi.

Tale conclusione è maggiormente coerente con la natura della recidiva, caratterizzata da “marcata ambivalenza”, consentendo essa di condurre la sanzione finale oltre i limiti della pena edittale e, al contempo, fungendo da strumento di commisurazione della pena al fatto.

3.3. Inoltre, i presupposti operativi della recidiva sono diversi a seconda che i suoi effetti rilevino durante lo sviluppo del processo, ovvero ai fini della commisurazione della pena. Nel primo caso, il quale ricorre – tra l’altro – ai fini della determinazione del termine di prescrizione, è sufficiente che la recidiva qualificata sia contestata all’imputato e riconosciuta sussistente dal giudice nei suoi requisiti formali. Nel secondo caso, nella determinazione del trattamento sanzionatorio all’esito del processo, la recidiva qualificata deve essere riconosciuta e applicata previa verifica della sussistenza dei presupposti sostanziali, e cioè della maggior colpevolezza e della più elevata capacità del reo.

Una visione sistematica delle disposizioni in esame ha portato dunque le Sezioni unite a ritenere che le modalità di computo dei termini di prescrizione e commisurazione della pena in concreto al momento della pronuncia della sentenza devono avvenire in base a canoni differenti, sì da non ritenersi condivisibile quanto sostenuto dalle pronunce riconducibili al primo orientamento giurisprudenziale, il quale, come premesso sopra, sostiene che il limite di cui al sesto comma dell’art. 99 cit. rilevi ai soli fini del computo del termine minimo di prescrizione e non di quello massimo.

3.4. Tali conclusioni – ad avviso delle Sezioni unite – sono avvalorate anche da un’interpretazione teleologica delle disposizioni in parola, dalla quale emerge come la ratio della riforma della prescrizione intervenuta nel 2005 sia stata ispirata dalla volontà di oggettivizzare i criteri di computo del termine minimo, affievolendo il ruolo del giudice, il quale è stato privato di poteri discrezionali, ed ancorandone la determinazione a parametri generali, oggettivi e astratti. Alla medesima logica deve ritenersi ispirata la modifica dell’art. 161, secondo comma, cod. pen. Di conseguenza, la scelta di non richiamare il limite di cui al sesto comma dell’art. 99 cod. pen. deve ritenersi frutto di una scelta consapevole del legislatore, volta ad escludere che il calcolo della prescrizione possa essere condizionato da criteri mutevoli legati alle peculiarità soggettive del reo o alla sua biografia criminale.

3.5. In sostanza, secondo le Sezioni unite Cirelli, hanno ritenuto che le regole di commisurazione della pena, le quali devono essere calibrate sulla posizione soggettiva del condannato, sono diverse da quelle generali e astratte che rilevano per la determinazione del termine di prescrizione. Pertanto, mentre nel primo caso il giudice è tenuto a rispettare il “criterio di contenimento” posto dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. e può riconoscere sussistente la recidiva qualificata senza tuttavia applicare il relativo aumento di pena, ove la ritenga subvalente rispetto ad una circostanza attenuante, nel secondo caso il riconoscimento della recidiva qualificata anche in termini di subvalenza continua a produrre i suoi effetti sul temine di prescrizione.

Benché la riforma del 2005 abbia comportato un irrigidimento del sistema ai fini della determinazione del termine di prescrizione, ciò corrisponde alla volontà del legislatore e la verifica della compatibilità di tale impianto normativo con i principi costituzionali deve essere, eventualmente, valutata caso per caso.

Peraltro, le Sezioni unite hanno ricordato che la Corte costituzionale, già intervenuta più volte per temperare il rigorismo di talune conseguenze pratiche della riforma, ha riconosciuto che la scelta di instaurare una correlazione tendenziale tra il tempo necessario a prescrivere e la gravità del reato può rispondere ad un ragionevole esercizio del potere legislativo, tenuto conto dei vari interessi coinvolti dalla complessa disciplina della prescrizione (Corte cost., sent. n. 324 del 2008). Inoltre, nella successiva ord. n. 34 del 2009, il Giudice delle leggi ha riconosciuto l’esistenza di un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, secondo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., rilevando come la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo di prescrizione, incida già sul termine ordinario della stessa.

4. La soluzione recepita dalle Sezioni Unite.

Sulla scorta di tali argomentazioni, le Sezioni unite hanno affermato il principio di diritto così massimato: «In tema di recidiva, il limite all’aumento di pena previsto dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, prevista dal secondo e dal quarto comma del predetto articolo, come circostanza ad effetto speciale, né influisce sui termini di prescrizione, determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pen., come modificati dalla legge n. 251 del 2005, il cui computo è da effettuarsi secondo parametri oggettivi, generali e astratti».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 5, n. 7078 del 10/04/1979, Bolognani, Rv. 142698-01;

Sez. 2, n. 4238 del 05/12/1980, dep. 1981, Lucarelli, Rv. 148763-01;

Sez. 2, n. 8492 del 16/05/1985, Tinnirello, Rv. 170553-01;

Sez. U. n. 3152 del 31/01/1987, Paolini, Rv. 175354-01;

Sez. U. n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856-01;

Sez. U., n. 16 del 08/04/1998, Vitrano, Rv. 210709-01;

Sez. 1, n. 19841 del 31/03/2005, Panaro, Rv. 233262-01;

Sez. U., n. 20798 del 24/02/2011, P.g. in proc. Indelicato, Rv. 249664-01;

Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012, Lo Bianco, Rv. 253525-01;

Sez. 2, n. 47028 del 2013, Farinella, Rv. 257520-01;

Sez. 6, n. 51049 del 07/07/2015, Volpe, Rv. 265707-01;

Sez. U., n. 38518 del 27/11/2015, Ventrici, Rv. 264674-01;

Sez. U., n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044-01;

Sez. 3, n. 16492 del 07/11/2018 (dep. 2019);

Sez. 4, n. 24078 del 27/02/2018, Vailatti;

Sez. U., n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319-01;

Sez. 5, n. 44099 del 24/09/2019, Graniello, Rv. 277607-01;

Sez. 6, n. 23831 del 14/05/2019, Pastore Mario, Rv. 275986-01;

Sez. 1, n. 48428 del 20/09/2019, Battisti,;

Sez. 3, n. 34949 del 03/11/2020, S., Rv. 280504-02;

Sez. U., n. 3585 del 24/09/2020, Li Trenta, Rv. 280262-01;

Sez. 5, n. 27106 del 10/06/2021, Mannatrizio;

Sez. 5, n. 45252 del 27/10/2021, Greco;

Sez. 4, n. 38618 del 05/10/2021, Ferrara, Rv. 282057-01;

Sez. 3, n. 2519 del 14/12/2021, dep. 2022, Pistacchi, Rv. 282707-02.

  • reato
  • sospensione di pena

CAPITOLO III

ESTINZIONE DEL REATO E DELLA PENA - SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA SUBORDINATA ALL’ADEMPIMENTO DI UN OBBLIGO RISARCITORIO, E TERMINE PER PROVVEDERE

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La Giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa. - 3 Le Sezioni Unite n. 37503 del 23/06/2022. - 4 Il limite temporale per l’adempimento degli obblighi. - 5 Le conseguenze giuridiche della mancata fissazione del termine. - Elenco delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno 2022 le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere la questione di diritto: «se, in caso di sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento di un obbligo risarcitorio, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere allo stesso, qualora non fissato in sentenza, coincida con la data del passaggio in giudicato di quest’ultima o con la scadenza del termine, di cinque o due anni, previsto dall’art. 163 cod. pen.».

2. La Giurisprudenza di legittimità sulla questione controversa.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Prima sezione, con ordinanza n. 5813 del 19 gennaio 2022 ai sensi dell’articolo 618, comma 1, cod. proc. pen.

Secondo un primo indirizzo interpretativo, il termine entro il quale il condannato deve provvedere all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, qualora non sia stato fissato in sentenza, coincide con quello del passaggio in giudicato della stessa, trattandosi di obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile (tra le altre, Sez. 1, n. 13776 del 15/12/2020, dep. 2021, Ciacci, Rv. 281059-01; Sez. 1, n. 23742 del 08/07/2020 Priori, Rv. 279458-01; Sez. 1, n. 6368 del 28/01/2020, Incalcaterra, Rv. 278075-01; Sez. 1, n. 10867 del 16/01/2020, Cirota, Rv. 278693-01; Sez. 1, n. 47649 del 18/04/2019, Pucci, Rv. 277458-01; Sez. 1, n. 47862 del 28/06/2017, Gentiluomo, Rv. 271418-01).

Queste pronunce, come sottolineato nell’ordinanza di rimessione, muovono dal presupposto che l’individuazione del termine non può che collegarsi alla natura e al contenuto specifico dell’obbligazione il cui adempimento determina l’inizio di efficacia della concessa sospensione condizionale della pena, cosicché, qualora questa consista nell’obbligo di pagare una somma di denaro alla persona offesa, a titolo di restituzione o di risarcimento, anche solo parziale, del danno, detto termine non può che identificarsi con quello di adempimento delle obbligazioni pecuniarie previsto dall’art. 1183, primo comma, cod. civ.

Nelle decisioni espressione di tale orientamento si sostiene che la nozione di inadempimento dell’obbligazione deve essere mutuata dalla apposita norma civilistica (art. 1218 cod. civ.), secondo cui l’inadempimento consiste nel fatto oggettivo della mancata o inesatta esecuzione della prestazione, salva la prova, a carico del soggetto inadempiente, della impossibilità assoluta di esecuzione della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, come desumibile anche dalla disciplina prevista in tema di revoca della sospensione condizionale della pena, di cui all’art. 674 cod. proc. pen., che ne prevede la pronuncia all’esito di udienza camerale e quindi del contraddittorio, sicché, nel corso dell’incidente di esecuzione promosso per la revoca del beneficio della sospensione condizionale, il condannato può comunque dimostrare di avere nel frattempo adempiuto o di non aver potuto incolpevolmente adempiere.

Secondo il contrapposto orientamento giurisprudenziale, invece, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, qualora non sia stato fissato in sentenza, coincide con quello di cinque o due anni previsto dall’art. 163, cod. pen., atteso che la legge prende in considerazione tale periodo di tempo per valutare se il comportamento tenuto dal condannato lo renda meritevole del beneficio, sicché esso deve ritenersi implicitamente applicabile anche agli obblighi restitutori e risarcitori, ove non diversamente disposto (tra le altre, Sez. 5, n. 9855 del 08/11/2018, dep. 2019, Perticari, Rv. 275502-01; Sez. 4, n. 21583 del 06/05/2016, Giancane, Rv. 267280-01; Sez. l, n. 24642 del 27/05/2015, Hosu, Rv. 263974-01; Sez. 1, n. 42109 del 19/06/2013, Damiano, Rv. 256765-01; Sez. 1, n. 41428 del 07/10/2004, Raffo, Rv. 229939-01).

3. Le Sezioni Unite n. 37503 del 23/06/2022.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza del 23/06/2022 dep. 05/10/2022 n. 37503, Liguori, hanno affermato i principi di diritto così massimati:

«In caso di sospensione condizionale della pena subordinata all’adempimento di un obbligo risarcitorio, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere allo stesso, che costituisce elemento essenziale dell’istituto, va fissato dal giudice in sentenza ovvero, in mancanza, dal giudice dell’impugnazione, anche d’ufficio, o da quello dell’esecuzione, fermo restando che, ove non venga in tal modo fissato, lo stesso viene a coincidere con la scadenza dei termini di cinque o due anni previsti dall’art. 163 cod. pen. decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza. (In motivazione la Corte ha precisato che l’omessa fissazione del termine si traduce in un vizio di violazione di legge della sentenza)». Rv. 283577-01.

«La subordinazione della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena all’adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno in favore della parte lesa richiede che il giudice abbia determinato con precisione il "quantum" dello stesso, non essendo sufficiente a tal fine la pronuncia di condanna in forma solo generica». Rv. 283577-02.

Dopo aver illustrato le ripetute modifiche che hanno interessato l’art. 165, cod. pen., le S.U., nel tracciare le coordinate ermeneutiche necessarie per addivenire alla soluzione del quesito, si sono soffermate, in prima battuta, sulla funzione e natura del termine de qua.

In primo luogo ne hanno ribadito l’essenzialità e l’obbligatorietà, sconfessando apertamente l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’individuazione del limite temporale dipenderebbe dalla natura e dalla specie degli obblighi stessi, non potendosi stabilire un criterio che abbia validità universale (Sez. 1, n. 5217 del 22/09/2000, Bertoncello, Rv. 217351-01).

In secondo luogo poi, con specifico riferimento alle prestazioni di natura patrimoniale imposte al condannato in occasione della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, hanno chiarito che la ratio della previsione di siffatti "obblighi" va rinvenuta nell’esigenza di rafforzare la funzione special-preventiva che la sospensione condizionale della pena esplica nell’ambito del sistema sanzionatorio e ne hanno, pertanto, enfatizzato la natura non “privatistica” ma “pubblicistica” attesa la sua attinenza con una relazione obbligatoria che si stabilisce tra il condannato e la giustizia penale da cui dipende l’applicazione della pena.

Ulteriormente specificando il concetto, le Sezioni Unite hanno affermato l’irrilevanza della fissazione del termine in esame nel rapporto civilistico instauratosi tra l’imputato e la parte civile, evidenziando che la facoltà concessa a quest’ultima di ottenere l’adempimento della prestazione posta a carico dell’obbligato per il soddisfacimento degli interessi civili prescinde dalla fissazione o meno in sentenza del termine ex art. 165, cod. pen., potendo ella legittimamente agire per la tutela del suo diritto patrimoniale che sia fornito di immediata esigibilità, anche ricorrendo all’esecuzione forzata nei casi in cui abbia ottenuto, nel corso del processo, un sequestro conservativo che, con la sentenza irrevocabile di condanna al risarcimento del danno, si converte in pignoramento ex art. 320, cod. proc. pen.

Alla luce di tali considerazioni il Supremo Consesso ha posto in luce le finalità collegate al termine legale di cui all’art. 163, primo comma, cod. pen., e a quello giudiziale di cui all’art. 165, sesto comma, stesso codice.

Si è affermato che il primo è funzionale alla conferma o meno della prognosi di non recidiva, determinando, nel caso di conferma della prognosi formulata, l’estinzione del reato e, nel caso contrario, la revoca del beneficio, e trattandosi di una verifica che deve essere compiuta in un tempo predeterminato, il termine è stabilito, una tantum, dalla legge.

Il secondo, invece, serve per definire compiutamente il trattamento specialpreventivo riservato al condannato a pena condizionalmente sospesa e subordinata all’adempimento di un "obbligo risarcitorio".

Tanto precisato, il Supremo Consesso, chiarito che tale obbligo è esigibile solo all’esito di una richiesta proveniente dalla parte civile, ha ribadito il principio di diritto secondo cui la subordinazione della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena all’adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno in favore della parte lesa richiede che il giudice abbia determinato con precisione il "quantum" dello stesso, non essendo sufficiente a tal fine la pronuncia di condanna in forma solo generica.

4. Il limite temporale per l’adempimento degli obblighi.

Soffermandosi specificamente sul tema del limite temporale da fissare per l’adempimento degli obblighi, il Collegio ha affermato la non condivisibilità dell’impostazione interpretativa che colloca la decorrenza dell’adempimento degli obblighi risarcitori, ivi compresa la condanna alla provvisionale (che è ex lege esecutiva), ante iudicatum.

Ha messo in luce che una tale interpretazione contrasterebbe con il dettato costituzionale (art. 27, secondo comma, Cost.) e con quello convenzionale (art. 6, n. 2, CEDU), posto che la sospensione condizionale della pena presuppone una condanna (che si deve intendere come affermazione definitiva della responsabilità penale), con la conseguenza che, prima della sentenza irrevocabile, lo status di imputato impedisce, in costanza di una presunzione assoluta di non colpevolezza, che un beneficio possa essere revocato prima ancora che la colpevolezza non sia stata definitivamente accertata.

Tanto premesso, le Sezioni Unite hanno esplicitato le ragioni a fondamento della non condivisibilità di nessuno degli orientamenti dalla giurisprudenza di legittimità che hanno dato origine al contrasto.

Il primo, in forza del quale, in caso di sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento di una somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o di provvisionale in favore della parte civile, il termine entro il quale l’imputato deve provvedere all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, qualora non sia stato fissato in sentenza, coincide con quello del passaggio in giudicato della stessa, trattandosi di obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile, viene censurato dalle Sezioni Unite poiché farebbe coincidere impropriamente il dies a qua con il dies ad quem, svalutando la lettera della legge che, invece, richiede esplicitamente che sia stabilito un termine (diverso da quello iniziale) entro il quale il condannato debba adempiere la prestazione.

Tale lettura, si aggiunge, non terrebbe, inoltre conto della natura penalistica del termine ex art. 165, cod. pen., e della necessità di considerare in maniera distinta i profili civili e penali, alla luce della autonoma esercitabilità delle azioni civili nel corso del processo penale, nel caso di condanna alla provvisionale o di condanna alle restituzioni o al risarcimento dichiarata provvisoriamente esecutiva o, dopo il giudicato, di irrevocabilità delle statuizioni civili indipendentemente da ogni "ricaduta" sulla sospensione condizionale della pena, qualora il giudice penale non abbia stabilito nella sentenza il termine per adempiere all’obbligo risarcitorio.

Sotto altro profilo, le Sezioni Unite ritengono non pienamente condivisibile l’opposto orientamento secondo cui, qualora la sentenza non abbia fissato un termine entro il quale l’imputato debba adempiere all’obbligo cui è condizionato il beneficio, il termine per adempiere coincide con quello previsto dall’art. 163 cod. pen. (due o cinque anni a seconda che trattasi di contravvenzione o delitto), decorrendo lo stesso dal passaggio in giudicato della sentenza.

Tale interpretazione, si afferma, svilisce l’essenzialità del termine e, ricorrendo ad una fictio fondata sul presupposto che il termine sia contenuto per implicito nella sentenza, compie un’operazione interpretativa non consentita perché postula, nella sostanza, che sia l’estinzione del reato ad essere subordinata all’adempimento dell’obbligo risarcitorio, mentre, dal combinato disposto ex artt. 165, 167 e 168 cod. pen., si ricava che invece è la sospensione condizionale ad essere subordinata all’adempimento della prestazione dovuta.

Queste considerazioni portano le Sezioni Unite a ritenere che il termine di cui al sesto comma dell’art. 165 cod. pen. debba essere necessariamente individuato dal giudice in un momento precedente alla rispettiva scadenza dei termini di cui all’art. 163, cod. pen., in conformità al trattamento che, nel caso specifico, si ritiene di riservare al condannato a pena condizionalmente sospesa per il migliore perseguimento delle esigenze special-preventive in funzione del reinserimento sociale; esigenze che risulterebbero frustrate qualora si lasciasse al condannato la facoltà di adempiere in corrispondenza della scadenza del periodo di prova.

Ne consegue che i termini previsti dall’art. 163, cod. pen. non possono svolgere alcuna funzione meramente integrativa rispetto alla statuizione omessa dal giudice e imposta dall’art. 165, sesto comma, cod. pen., cosicché il condannato, così come non può essere obbligato ad adempiere, ai fini dell’efficacia della sospensione condizionale della pena, immediatamente dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna (che segna il solo dies a quo), non può, mutatis mutandis, essere autorizzato ad adempiere quando lo voglia, purché prima della scadenza dei termini legali, ma al più si dovrà ricorrere a "norme di chiusura del sistema" (ossia al combinato disposto degli artt. 167 e 168 cod. pen.), nei casi in cui il termine per adempiere all’onere risarcitorio non sia stato fissato né dal giudice della cognizione e neppure dal giudice dell’esecuzione entro la scadenza dei termini legali di cui all’art. 163 cod. pen.

5. Le conseguenze giuridiche della mancata fissazione del termine.

Le Sezioni Unite hanno anche illustrato le conseguenze giuridiche della mancata fissazione del termine in primo luogo escludendo il ricorso alla procedura di correzione dell’errore materiale trattandosi di una omessa statuizione obbligatoria a contenuto non predeterminato, dovendo il giudice, nel prevedere l’obbligo risarcitorio, tenere conto, con apprezzamento motivato, seppur discrezionale, della capacità economica del condannato e della sua concreta possibilità di sopportare l’onere del risarcimento del danno.

Hanno inoltre precisato che tale omissione si traduce in un vizio di legittimità che affligge la sentenza ed è inquadrabile nella violazione della legge penale sostanziale con la conseguenza che le parti interessate, e principalmente il pubblico ministero, possono impugnare la sentenza e che qualora la decisione non venga impugnata sul punto, il giudice d’appello può, d’ufficio o su sollecitazione delle parti, colmare la lacuna fissando il termine per l’adempimento dell’onere risarcitorio.

Passata in giudicato la sentenza, e perdurando l’omissione perché non riparata d’ufficio o a seguito di impugnazione di parte, il giudice dell’esecuzione, su richiesta di una parte interessata o del pubblico ministero, e a prescindere dalla circostanza che sia stata presentata una domanda di revoca della sospensione condizionale della pena, potrà provvedere alla fìssazione del termine.

Trattandosi di una statuizione obbligatoria ma omessa, “anche il giudice dell’esecuzione non trova preclusioni di sorta nel risolvere la questione devolutagli, ossia di fissare il termine per l’adempimento, posto che la violazione del termine comporta la revoca del beneficio e perciò costituisce, nel caso di specie, un presupposto per la revoca”.

Infine, qualora il giudice della cognizione non abbia stabilito il termine nella sentenza e successivamente il giudice dell’esecuzione non sia stato investito della fissazione del termine per l’adempimento dell’obbligo risarcitorio, lo stesso viene a coincidere con la scadenza dei termini di cinque o due anni previsti dall’art. 163 cod. pen.

Tanto si deduce dal combinato disposto di cui agli artt. 167 e 168 cod. pen., quali norme di chiusura della disciplina de qua, in considerazione della circostanza che il dies ad quem, in relazione al quale è commisurato l’onere risarcitorio, non può mai superare i termini previsti dall’art. 163 cod. pen., per la fondamentale ragione che, comunque decorso il rispettivo periodo di tempo, o il condannato a pena sospesa non ha commesso ulteriori reati ed ha ottemperato all’onere restitutorio oppure, pur essendosi astenuto dalla commissione di ulteriori reati, non risulta che abbia adempiuto agli oneri restitutori, con la conseguenza che, in mancanza di cause sopravvenute che abbiano reso impossibile la prestazione, il reato non può estinguersi (art. 167 cod. pen.) e la sospensione della pena dovrà, quindi, essere revocata (art. 168 cod. pen.).

Per cui, in definitiva, ove il termine manchi e non sia stato fissato dal giudice della cognizione o da quello della esecuzione, secondo le cadenze in precedenza ricostruite, esso coinciderà con quello di cinque o due anni previsto dall’art. 163 cod. pen., decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza.

. Elenco delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 1, n. 41428 del 07/10/2004, Raffo, Rv. 229939-01;

Sez. 1, n. 42109 del 19/06/2013, Damiano, Rv. 256765-01;

Sez. 1, n. 24642 del 27/05/2015, Hosu, Rv. 263974-01;

Sez. 4, n. 21583 del 06/05/2016, Giancane, Rv. 267280-01;

Sez. 1, n. 47862 del 28/06/2017, Gentiluomo, Rv. 271418-01;

Sez. 5, n. 9855 del 08/11/2018, dep. 2019, Perticari, Rv. 275502-01;

Sez. 1, n. 47649 del 18/04/2019, Pucci, Rv. 277458-01;

Sez. 1, n. 10867 del 16/01/2020, Cirota, Rv. 278693-01;

Sez. 1, n. 6368 del 28/01/2020, Incalcaterra, Rv. 278075-01;

Sez. 1, n. 23742 del 08/07/2020 Priori, Rv. 279458-01;

Sez. 1, n. 13776 del 15/12/2020, dep. 2021, Ciacci, Rv. 281059-01.

  • reato
  • procedura penale
  • sanzione sostitutiva
  • alleggerimento della pena

CAPITOLO III

ESTINZIONE DEL REATO E DELLA PENA - ANNULLAMENTO DELLA MESSA ALLA PROVAPOSITIVAMENTE ESITATA

(di Valeria Bove )

Sommario

1 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite all’udienza del 27/10/2022: l’informazione provvisoria n. 17/2022. - 2 La riconosciuta legittimazione ad impugnare del procuratore generale ed un suo possibile riflesso. - 3 I provvedimenti non meramente interlocutori ed i rimedi impugnatori nella messa alla prova. - 4 La mancanza di una norma che disciplini il caso dell’annullamento di una messa alla prova esitata positivamente. - 5 Natura e caratteristiche della messa alla prova. - 6 In conclusione, alcune riflessioni a margine. - Indice delle sentenze citate

1. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite all’udienza del 27/10/2022: l’informazione provvisoria n. 17/2022.

All’udienza del 27/10/2022 le Sezioni Unite hanno deliberato sulle seguenti questioni controverse:

«Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova (art. 464-bis cod. proc. pen.) e, in caso affermativo, per quali motivi.

Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare con ricorso per cassazione la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’articolo 464-septies cod. proc. pen.».

La soluzione adottata, contenuta nell’informazione provvisoria n. 17/2022 diffusa al termine dell’udienza, è la seguente:

«Il procuratore generale è legittimato, ai sensi dell’articolo 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., ad impugnare con ricorso per cassazione, per i motivi di cui all’articolo 606 cod. proc. pen., l’ordinanza di ammissione alla prova (art. 464-bis cod. proc. pen.), ritualmente comunicatagli ai sensi dell’articolo 128 cod. proc. pen.

In conformità a quanto previsto dall’articolo 586 cod. proc. pen., in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza, è legittimato ad impugnare quest’ultima, insieme con la sentenza, al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova.

L’istituto della ammissione alla prova (art. 168-bis cod. proc. pen.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.».

Non vengono in rilievo, in questa sede, i percorsi argomentativi seguiti dal Supremo consesso nella pronuncia adottata, le cui motivazioni nell’anno in rassegna non sono state depositate, ma solo alcune osservazioni a margine di essa, riguardanti un possibile riflesso della impugnazione dell’ordinanza di ammissione alla prova unitamente alla sentenza di proscioglimento, in caso di accoglimento e conseguente annullamento della messa alla prova positivamente esitata.

2. La riconosciuta legittimazione ad impugnare del procuratore generale ed un suo possibile riflesso.

A fronte di un’unica decisione espressa in consapevole contrasto da Sez. 6, n. 81317 del 9/4/2021, Stompanato, Rv. 281272-01, le Sezioni Unite, all’udienza del 27/10/2022, aderendo all’orientamento maggioritario, hanno riconosciuto il potere del procuratore generale presso la corte d’appello ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova, nonché, in caso di omessa comunicazione della stessa, ad impugnarla unitamente alla sentenza di proscioglimento per esito positivo della prova, con la possibilità di dedurre, in tale ipotesi, anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova.

L’accoglimento dell’opzione ermeneutica favorevole alla legittimazione processuale del procuratore generale a proporre impugnazione avverso l’ordinanza di ammissione (sempre sul presupposto che non gli sia stata comunicata) unitamente alla sentenza di proscioglimento per esito positivo della prova permette di intervenire in caso di messa alla prova che sia stata ammessa in carenza dei presupposti consentiti, annullando il provvedimento su cui essa si fonda, ma ha degli effetti ulteriori, in quanto, nel caso che occupa, la messa alla prova non è stata semplicemente ammessa, ma è stata anche eseguita e portata a termine, per altro con esito positivo, essendo stata pronunciata sentenza che ha dichiarato estinto il reato per tale causa.

Il tema che si intende analizzare riguarda proprio le conseguenze e le ripercussioni in caso di annullamento di una messa alla prova eseguita con esito positivo e i possibili rimedi che ha (se li ha) l’imputato che l’abbia portata a termine, nonostante la carenza dei presupposti (o la sussistenza di vizi) sui quali essa si fonda, e che costituiscono oggetto dell’impugnazione congiunta dell’ordinanza ex art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. e della sentenza di proscioglimento pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies, comma 1, cod. proc. pen.

3. I provvedimenti non meramente interlocutori ed i rimedi impugnatori nella messa alla prova.

Il sistema delle impugnazioni, nel rito speciale della messa alla prova, è disciplinato da poche disposizioni, che hanno per altro richiesto l’interpretazione della Suprema Corte, nel suo più ampio consesso, ma prima ancora di analizzare questo aspetto, è utile evidenziare quali siano i provvedimenti, non meramente interlocutori, adottabili nella messa alla prova.

In tale istituto, infatti, il giudice emette, molto più che in altri riti speciali, una serie di provvedimenti, alcuni meramente interlocutori, funzionali soprattutto ad individuare il più adeguato trattamento sanzionatorio e anche a seguirne l’esecuzione e l’esito; altri, non meramente interlocutori, dal contenuto spesso decisorio, rispetto ai quali, a differenza dei primi, è possibile, laddove consentito, proporre autonoma impugnazione.

Ebbene, volendo sintetizzare, il legislatore indica i provvedimenti non meramente interlocutori individuandoli, in primo luogo, nella sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen.); in secondo luogo, nell’ordinanza che decide, accogliendola o rigettandola, l’istanza di messa alla prova (art. 464-quater, cod. proc. pen.); quindi, nell’ordinanza che dichiara l’esito negativo della messa alla prova, con la quale si dispone che il procedimento riprenda il suo corso (art. 464-septies, comma 2, cod. proc. pen); ancora, nell’ordinanza che revoca la messa alla prova (art. 464-octies, cod. proc. pen.); ed infine, nella sentenza di proscioglimento che dichiara estinto il reato per esito positivo della prova (art. 464-septies, comma 1, cod. proc. pen.).

Le disposizioni normative che individuano, di conseguenza, i provvedimenti non meramente interlocutori che il giudice adotta nella messa alla prova, e che possono rilevare in questa sede, sono, di conseguenza, l’art. 464-quater, cod. proc. pen., che disciplina l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova, che potrà essere di rigetto o di accoglimento, ed in quest’ultimo caso il procedimento principale si sospende e la messa alla prova avrà esecuzione; l’art. 464-septies, cod. proc. pen., che individua il provvedimento adottabile in esito alla messa alla prova, per cui se la prova ha avuto esito positivo, il giudice dichiara estinto il reato con sentenza, e tale sentenza non può che inquadrarsi nel novero generale delle sentenze di proscioglimento; se, invece, la prova ha avuto esito negativo, il giudice pronuncia ordinanza con la quale dispone che il procedimento (potendo la messa alla prova essere richiesta anche nella fase delle indagini preliminari) riprenda il suo corso.

Quanto poi ai rimedi impugnatori azionabili avverso i provvedimenti non meramente interlocutori, il legislatore ne prevede soltanto tre.

Il primo a venire in rilievo – già oggetto di due decisioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte - è il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., esperibile dall’imputato, dal pubblico ministero (tra cui anche il procuratore generale, come si desume dall’informazione provvisoria n. 17/2022), anche su istanza della persona offesa, avverso la sola ordinanza di accoglimento dell’istanza di messa alla prova e non anche, in base a quanto stabilito da Sez. U., n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv. 267237-01, nei confronti dell’ordinanza di rigetto, che va impugnata unitamente alla sentenza ai sensi dell’art. 586 cod. proc. pen..

Viene inoltre ammessa la possibilità di una impugnazione autonoma (che sembra doversi intendere, evidentemente, con ricorso per cassazione) della persona offesa per omesso avviso dell’udienza o perché, pur essendo comparsa, non è stata sentita, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen.

Infine, il legislatore contempla il ricorso per cassazione per violazione di legge avverso l’ordinanza di revoca della messa alla prova (art. 464-octies, comma 3, cod. proc. pen.).

Il legislatore disciplina, altresì, gli effetti, sospensivi o meno, che si determinano sul procedimento principale o nel subprocedimento di esecuzione della messa alla prova in caso di adozione o di impugnazione dei provvedimenti non meramente interlocutori emessi, stabilendo che:

• in caso di adozione dell’ordinanza di ammissione alla prova, il procedimento principale si sospende (come si ricava dalla lettura congiunta degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen) e, per converso, non si sospende in caso di rigetto dell’istanza di messa alla prova;

• «[i]l procedimento si sospende in caso di impugnazione» (art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen.), disposizione questa che, alla luce di Sez. U., n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv. 267237-01, essendo già sospeso il procedimento principale in virtù dell’ammissione alla prova, va riferita esclusivamente al subprocedimento avente ad oggetto la messa alla prova, che pertanto, in caso di impugnazione dell’ordinanza di accoglimento della messa alla prova, non si sospende, con la conseguenza che la sua esecuzione andrà avanti;

• in caso di esito negativo della prova, il processo (rectius: procedimento) principale «riprenda il suo corso», e cessa dunque la sua sospensione, (art. 464-septies, comma 2, cod. proc. pen.);

• in caso di revoca, quando l’ordinanza che la dispone, adottata previa fissazione di udienza, «è divenuta definitiva, il procedimento riprende il suo corso dal momento in cui era stato sospeso e cessa l’esecuzione delle prescrizioni e degli obblighi di imposti.» (art. 464-octies, comma 4, cod. proc. pen).

Infine, con l’art. 657-bis cod. proc. pen., il legislatore si è premurato di assicurare, in sede di esecuzione della pena, un rimedio, favorevole all’imputato che abbia eseguito il programma trattamentale, permettendo di computare il periodo di messa alla prova: a tal fine, viene stabilito che in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova, il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detragga un periodo corrispondente a quello della prova eseguita, e che, ai fini della detrazione, tre giorni di prova sono equiparati ad un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a 250 euro di multa o di ammenda.

4. La mancanza di una norma che disciplini il caso dell’annullamento di una messa alla prova esitata positivamente.

Dal quadro normativo e giurisprudenziale descritto sembra emergere che non sia previsto un rimedio per la parte che abbia eseguito ed esitato positivamente la messa alla prova e, dunque, il programma di trattamento che la connota, qualora essa venga poi annullata per mancanza dei presupposti o più in generale per vizi di ammissione alla prova, nonostante il suo esito positivo e la pronuncia, anch’essa annullata, della sentenza di proscioglimento ex art. 464-septies cod. proc. pen.

L’unica disposizione, nel quadro normativo di riferimento, che disciplina l’ipotesi in cui si sia data esecuzione al programma di trattamento, e ciò nonostante il processo principale abbia ripreso il suo corso, è l’art. 657-bis cod. proc. pen., che tuttavia riguarda un caso molto diverso, ossia l’ipotesi di una messa alla prova revocata o esitata negativamente (e dunque, non l’esito positivo della messa alla prova), nel qual caso il processo principale riprende il suo corso, e, qualora si pervenga ad una pronuncia di condanna (e dunque non di proscioglimento), in sede di esecuzione della pena, è possibile computare il periodo di messa alla prova eseguito, in base ad un criterio aritmetico fissato dal legislatore.

La disposizione non sembra quindi applicabile per ottenere un ristoro “nell’immediato” in ordine alle voci trattamentali che siano state eseguite, in quanto essa incide solo sul trattamento sanzionatorio, prevedendo una detrazione di pena che va operata direttamente dal pubblico ministero secondo criteri di calcolo automatici.

Tuttavia, come si avrà modo di osservare in seguito, l’art. 657-bis cod. proc. pen. potrebbe venire in rilievo in relazione ad un caso ancora differente, ossia quello in cui, annullata la messa alla prova a seguito dell’accoglimento dell’impugnativa proposta avverso l’ordinanza di ammissione, si arrivi, una volta che il processo abbia ripreso il suo corso, a pronunciare una sentenza di condanna.

Al di fuori di tale ipotesi, che sarà di seguito analizzata, ed escluso che l’art. 657-bis cod. proc. pen. possa applicarsi al caso che occupa, non sembra neanche individuabile un’altra disposizione nel sistema cui potersi riferire, tenuto conto che i possibili rimedi (primo fra tutti, quello esperibile in caso di ingiusta detenzione) hanno applicazioni molto stringenti, non estendibili ad ipotesi differenti rispetto a quelle espressamente previste.

5. Natura e caratteristiche della messa alla prova.

In mancanza di una disposizione normativa cui potersi riferire per un immediato ristoro in caso di annullamento della messa alla prova positivamente esitata, sono possibili solo alcune osservazioni, che muovono da una considerazione di fondo.

Se la possibilità, per il procuratore generale, di impugnare, unitamente alla sentenza di proscioglimento ex art. 464-septies, comma 1, cod. proc. pen., anche l’ordinanza di ammissione alla prova che non gli sia stata comunicata, facendo valere in questi casi vizi relativi alla ammissione della prova (che dovrebbero essere limitati a quelli proponibili con il ricorso per cassazione, costituendo esso l’unico rimedio previsto dal legislatore), può porre il problema dei rimedi per “recuperare” o per ricevere un qualche ristoro in relazione a ciò che, con il programma di trattamento, è stato fatto, va anche evidenziato che tale problematica non si pone solo in questa ipotesi specifica, ma è, in qualche modo, insita nella messa alla prova.

Sia nelle sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite (Sez. U., n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv. 267237-01; Sez. U., n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238-01), che nelle varie pronunce della Corte costituzionale (si citano, fra tutte e a mero titolo esemplificativo, Corte cost. sentenze n. 91 del 2018; n. 68 del 2019, n. 131 del 2019, fino alle recentissime pronunce n. 146 del 2022, n. 163 del 2022 e n. 174 del 2022) si è rimarcato che l’istituto della messa alla prova ha una natura duplice: da un lato, rito speciale, alternativo al processo, con finalità deflative; dall’altro, strumento alternativo alla pena, ed anche al processo, in quanto beneficio/sanzione il cui esito positivo porta all’estinzione del reato (in ciò il beneficio), attraverso un percorso trattamentale, rieducativo, riparativo, ma con connotazioni anche sanzionatorie, che tuttavia, a differenza della sanzione-pena, non è coattivamente esigibile.

Primo istituto fra quelli innanzi ai tribunali ordinari ad annoverare tra le voci trattamentali un tipico strumento di giustizia riparativa (la mediazione), la messa alla prova abbandona l’ottica carcerocentrica e guarda all’imputato valorizzandone il percorso di recupero e risocializzazione, realizzato con un programma di trattamento, costituito da più voci sanzionatorie, che viene irrogato in assenza di un preventivo accertamento di penale responsabilità del fatto e che, una volta esauritosi con esito positivo, porta ad una pronuncia di estinzione del reato, senza con ciò violare la presunzione di innocenza, in ragione, da un lato, della richiesta che l’imputato avanza e del consenso da lui espresso sulle voci del programma di trattamento, e, dall’altro, della valutazione che il giudice compie, prima di sospendere il procedimento, in ordine all’insussistenza di cause di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. (Corte cost., sent. n. 91 del 2018).

Con la messa alla prova – che ha fatto da apripista e anche da modello di riferimento nell’ideazione ed elaborazione delle nuove modalità sanzionatorie previste dalla legge n. 134 del 2021, nella parte relativa alle pene sostitutive delle pene detentive brevi - viene in rilievo un istituto che è espressione del principio della pena come estrema ratio e che risponde ad un nuovo modo di concepire la sanzione, che assume i contorni di un vero e proprio trattamento complesso, di matrice sanzionatoria, elaborato dall’ufficio esecuzione penale esterna, con il consenso dell’imputato e sul quale il giudice, esercitando la proprio rigorosa discrezionalità, interviene, adattandolo alla situazione concreta e modulandolo rispetto alla personalità dell’imputato, così da individuare la risposta sanzionatoria più adeguata ed anche efficace.

6. In conclusione, alcune riflessioni a margine.

Un istituto come la messa alla prova risponde, dunque, a finalità risocializzanti, riparative, riparatorie ma al tempo stesso anche deflative ed è avendo presente queste sue connotazioni che sono state risolte alcune questioni problematiche che, in questo (quasi) decennio di applicazione si sono poste, tra cui, prima fra tutte, le problematiche derivanti dal sistema delle impugnazioni, disciplinato da poche disposizioni, di non facile interpretazione.

Ebbene, già nelle righe della pronuncia delle Sez. U., n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv. 267237-01, la problematica che qui si analizza è stata messa a fuoco, sia pur indirettamente, in quanto funzionale a risolvere il contrasto rimesso in quella sede al Supremo consesso.

Sez. U., Rigacci nell’interpretare la previsione contenuta nell’ultima parte dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. secondo cui «l’impugnazione non sospende il procedimento» e nel dare atto che da tale inciso entrambi gli orientamenti in contrasto traevano argomenti a sostegno delle rispettive ragioni, da riferirsi, per l’indirizzo favorevole all’impugnazione dell’ordinanza di rigetto, al procedimento di cognizione in corso, e, per il secondo indirizzo (cui hanno aderito le Sezioni Unite), esclusivamente al sub-procedimento avente ad oggetto la messa alla prova, si è soffermata sugli effetti riflessi che si determinano quando la messa alla prova vada avanti, nonostante l’impugnazione dell’ordinanza di ammissione.

Nel rimarcare che la prima interpretazione, favorevole all’immediata ricorribilità per cassazione del provvedimento di rigetto, appare "irragionevole" in presenza della espressa esclusione della sospensione del processo, in attesa della pronuncia della Corte di cassazione (viene citata, Sez. 5, n. 25566 del 03/06/2015, Marcozzi), il Supremo consesso afferma che «[l]a mancata sospensione del processo, nonostante il ricorso immediato, determinerebbe effetti dirompenti nel caso in cui la Cassazione dovesse annullare con rinvio l’ordinanza negativa, provocando situazioni paradossali sul processo, che nel frattempo potrebbe essersi concluso con la condanna dell’imputato, anche al risarcimento dei danni in favore della persona offesa costituita parte civile. Dinanzi al rischio di legittimare un modello processuale che reca evidenti controindicazioni di carattere funzionale, in grado di inceppare l’intero meccanismo procedimentale, appare fondata, oltre che ragionevole, un’interpretazione di sistema che superi le difficoltà individuate, affermando che la previsione che esclude la sospensione si riferisce non al processo su cui si innesta la richiesta dell’imputato, ma al procedimento di messa alla prova.».

In quella stessa decisione, è stato quindi affermato, nel privilegiare l’interpretazione che vuole immediatamente ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., esclusivamente l’ordinanza di accoglimento della messa alla prova che « ..nel caso di impugnazione dell’ordinanza positiva, ad esempio da parte del pubblico ministero, la previsione della non sospendibilità del procedimento di messa alla prova potrà avere conseguenze nell’ipotesi in cui l’ordinanza sia annullata, ma si tratta di una scelta del legislatore, che in questo modo privilegia la posizione dell’imputato ammesso alla probation e incentiva l’istituto a cui il legislatore attribuisce una valenza deflattiva.».

Alla luce delle motivazioni della sentenza Sez. U., Rigacci e in linea con quanto affermato da Sez. 5, n. 7231 del 16/11/2020 (dep. 2021), Hoelzi, emerge come sia già “immanente alle peculiarità” dell’istituto la possibilità che l’imputato esegua la messa alla prova e la porti a termine, anche con esito positivo, realizzando tutte quelle attività che compongono – quasi in un mosaico – il trattamento sanzionatorio, salvo poi vedersi annullare l’ammissione ed essere quindi costretto a dovere subire un processo, che avrà ripreso il suo corso.

Il ricorso immediatamente proposto, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. avverso l’ordinanza ammissiva della prova dal procuratore della Repubblica e – dopo la recente decisione delle Sezioni Unite di cui è stata diffusa l’informazione provvisoria n. 17/2022, - anche dal procuratore generale, al quale la decisione sia stata formalmente comunicata ai sensi dell’art. 128 cod. proc. pen., può infatti portare all’annullamento dell’ordinanza, che può intervenire quando il programma di trattamento, in cui si risolve la messa alla prova. sia già iniziato ed eventualmente anche terminato, e ciò in quanto – in ossequio alla lettura data da Sez. U., Rigacci – il subprocedimento di esecuzione della messa alla prova, a differenza del processo principale di cognizione, non essendo sospeso, va avanti, nonostante l’impugnazione proposta, e può anche giungere a termine.

È dunque immanente all’istituto l’ipotesi che la messa alla prova possa essere annullata anche quando essa sia stata positivamente esitata e ciò sia quando il processo principale non è giunto al suo epilogo, sia quando, come nel caso che qui si vuole analizzare, sia stata emessa sentenza di proscioglimento e la stessa venga impugnata unitamente all’ordinanza di ammissione, nell’ipotesi in cui il procuratore generale non abbia avuto comunicazione di quest’ultima.

La pronuncia di una sentenza di estinzione del reato non appare un fattore dirimente, in grado di generare, richiamando Sez. U., Rigacci “controindicazioni di carattere funzionale”, in quanto, come affermato da Sez. 5, n. 7231 del 16/11/2020 (dep. 2021), Hoelzi, «la casistica giudiziaria suggerisce svariati casi in cui una pronuncia dichiarativa dell’estinzione di un reato possa essere annullata per difetto dei presupposti che l’avevano occasionata (si pensi ad una remissione di querela invalida, o formalizzata in relazione ad una fattispecie criminosa da ritenere, al contrario, procedibile ex officio).».

Se è pur vero, dunque, che riconoscendo al procuratore generale il potere di impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova unitamente alla sentenza di proscioglimento per esito positivo della stessa (sempre che la prima non gli sia stata comunicata) vengono ampliate le ipotesi di eventuale regressione del procedimento, dovuto all’annullamento della messa alla prova, includendovi anche i casi della messa alla prova esitata positivamente, con inevitabili ricadute negative per l’imputato che vi sia stato sottoposto e anche, più in generale, sugli effetti deflativi che l’istituto comunque persegue, ciò tuttavia appare insito nelle connotazione di queste nuove forme sanzionatorie e risulta giustificato dalla necessità di fare in modo che anche strumenti alternativi alla pena o al processo, cui appartiene la messa alla prova, non vengano eseguiti in violazione di legge.

Tanto chiarito, alla luce di queste considerazioni, e richiamando quanto affermato in precedenza, forme di “immediato” ristoro non sembrano dunque possibili in caso di annullamento di una messa alla prova positivamente esitata: come già illustrato, non sembra poter trovare applicazione neanche l’art. 657-bis cod. proc. pen., non venendo in rilievo una pena da irrogare e, dunque, un trattamento sanzionatorio sul quale poter incidere, ma una sentenza che ha dichiarato estinto il reato.

Allo stesso modo, non sembrano esservi rimedi o forme di ristoro per l’imputato neanche nel caso in cui, a seguito dell’annullamento della prova esitata positivamente, il processo di cognizione principale si chiuda a sua volta con sentenza di proscioglimento.

Tuttavia, la norma di cui all’art. 657-bis cod. proc. pen. potrebbe venire in rilievo qualora il processo - una volta ripreso il suo corso, a seguito dell’annullamento della messa alla prova per la mancanza dei presupposti di ammissione dedotti con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. - pervenga poi ad una sentenza di condanna.

In tale ipotesi, si potrebbe forse discutere, prospettando eventualmente questione di legittimità costituzionale, di irragionevole disparità di trattamento tra i casi espressamente disciplinati dall’art. 657-bis cod. proc. pen., entrambi riferiti alla revoca o all’esito negativo della messa alla prova, e dunque al suo fallimento, e quello, dalla norma non previsto, relativo all’annullamento di una messa alla prova esitata positivamente, qualora venga successivamente pronunciata sentenza di condanna.

Potrebbe infatti venire in rilievo, in questa ipotesi, un possibile vulnus ai «principi di proporzionalità e individualizzazione della pena» arrecato dall’art. 657-bis cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la possibilità di alcuno scomputo sulla pena da eseguire in caso di annullamento della messa alla prova.

Sarebbe, questo, un intervento che, come rilevato nella pronuncia Corte cost., n. 68 del 2019, non sembra esulare dalle attribuzioni della Consulta, che le ha esercitate in un caso simile, seppur riferito all’affidamento in prova: esso, infatti, potrebbe essere modellato su quello operato da Corte cost., sent. n. 343 del 1987 con la quale l’allora comma 10 dell’art. 47, legge n. 354 del 1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), fu dichiarato illegittimo «nella parte in cui – in caso di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova – non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova».

Laddove non sia possibile adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 657-bis cod. proc. pen., un intervento sulla disposizione in esame, volto ad estendere il medesimo trattamento sanzionatorio ivi contemplato alla sentenza di condanna pronunciato dopo l’annullamento di una messa alla prova esitata positivamente, prescinde anche dalla circostanza che fosse stata a suo tempo emessa sentenza di proscioglimento per esito positivo della prova, trattandosi di una ricaduta del ricorso immediato per cassazione avverso l’ordinanza di accoglimento della messa alla prova, previsto dall’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen. e del disposto normativo, così come interpretata dal diritto vivente, in ragione del quale il sub-procedimento della messa alla prova non si sospende nelle more di esso.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione:

Sez. 5, n. 25566 del 03/06/2015, Marcozzi;

Sez. U., n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv. 267237-01;

Sez. U., n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238-01;

Sez. 6, n. 81317 del 9/4/2021, Stompanato, Rv. 281272-01;

Sez. 5, n. 7231 del 16/11/2020 (dep. 2021), Hoelzi.

Sentenze della Corte costituzionale:

Corte cost., n. 343 del 1987;

Corte cost., n. 91 del 2018;

Corte cost., n. 68 del 2019;

Corte cost., n. 131 del 2019;

Corte cost., n. 146 del 2022;

Corte cost., n. 163 del 2022;

Corte cost., n. 174 del 2022.

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE III - CAUSE DI NON PUNIBILITÀ E DI GIUSTIFICAZIONE

  • reato
  • procedura penale
  • sanzione penale
  • circostanza attenuante

CAPITOLO I

LE SEZIONI UNITE E LA NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL CASO DI REATO CONTINUATO

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Il principio affermato dalle Sezioni Unite. - 2 Gli orientamenti in contrasto. - 3 La soluzione prescelta dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Il principio affermato dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18891 del 27/1/2022, dep. 2022, Ubaldi, hanno affermato il principio di diritto così massimato:

«La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto la quale può essere riconosciuta dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che - salve le condizioni ostative tassativamente previste dall’art. 131-bis cod. pen. per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale - tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti». (Rv. 283064-01).

2. Gli orientamenti in contrasto.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Quinta sezione con ordinanza resa in data 8/10/2021, dep. 2021, con cui, ricostruita la vicenda processuale, si è posto in evidenza il contrasto interpretativo sussistente nella giurisprudenza di legittimità in ordine all’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 131-bis cod. proc. pen. all’ipotesi in cui ricorra un reato continuato.

Secondo un primo orientamento – seguito da Sez. 3, n. 29897 del 28/5/2015, Gau, Rv. 264034-01; Sez. 3, n. 43816 del 1/7/2015, Amodeo, Rv. 265084-01; Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265449-01; Sez. 2, n. 1 del 2/1/2017, Cattaneo, Rv. 268970-01; Sez. 5, n. 4852 del 14/11/2016, dep. 2017, De Marco, Rv. 269092-01; Sez. 2, n. 21849 del 7/2/2017, Morroi; Sez. 5, n. 28193 del 24/3/2017, Souini; Sez. 2, n. 28341 del 5/4/2017, Modou, Rv. 271001-01; Sez. 5, n. 48352, del 15/5/2017, Morgeanu, Rv. 271271-01; Sez. 5, n. 24768, del 18/5/2017, Acotto; Sez. 3, n. 776 del 4/4/2017, dep. 2018, Del Galdo, Rv. 271863-01; Sez. 1, n. 55450 del 24/10/2017, Greco, Rv. 271904-01 ; Sez. 6, n. 3353 del 13/12/2017, (dep. 2018), Lesmo, Rv. 272123-01; Sez. 3, n. 19159 del 29/3/2018, Fusaro, Rv. 273198-01; Sez. 2, 41453 del 16/5/2018, Ndaye Adams, Rv. 274237-01; Sez. 4, n. 44896, del 25/9/2018, Abramo, Rv. 274270-01; Sez. 6, n. 18192 del 20/3/2019, Franchi, Rv. 275955-01; Sez. 3, n. 50002 del 4/10/2019, Geri – è da escludersi in radice l’applicabilità della causa di non punibilità nel caso di più reati legati dal vincolo della continuazione apparendo questi espressione di un “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ovvero di una “devianza non occasionale”, ostativa al riconoscimento del beneficio in quanto priva di quel carattere di trascurabile offensività che, invece, deve caratterizzare “il fatto”, ove lo si voglia sussumere nel paradigma normativo di cui al citato art. 131-bis cod. pen.

Per tale opzione ermeneutica, dunque, quando il “fatto” presenta una dimensione “plurima” non può essere attribuita rilevanza all’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si sia articolato e, pertanto, ove si sia in presenza di più reati ascritti ad un medesimo soggetto, non ha alcuna importanza, ai fini dell’applicabilità della disposizione in questione, che essi siano avvinti o meno da un unico disegno criminoso. In altri termini, poiché dove c’è continuazione, c’è reiterazione, serialità, abitualità, ne consegue che il giudizio sulla tenuità del fatto non può essere effettuato e, quindi, il giudice, là dove rileva la continuazione, deve escludere automaticamente l’applicazione del beneficio di cui all’art. 131-bis cod. pen.

Secondo un diverso indirizzo interpretativo, si sostiene che, sia pure a determinate condizioni, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile anche nell’ipotesi di reato continuato non potendovi essere un’identificazione in senso assoluto tra continuazione e abitualità. La volontà del legislatore, si è osservato, è quella di escludere solo quei comportamenti espressione di una seriazione dell’attività criminosa, di un’abitudine al crimine desumibile dagli indici rivelatori di cui al terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen., che non sempre sono riscontrabili nel reato continuato.

Si sono espresse, in tal senso, sia pure con talune peculiarità, Sez. 2, n. 19932 del 29/3/2017, Di Bello, Rv. 270320-01; Sez. 5, n. 35590 del 31/5/2017, Battizzocco, Rv. 270998-01; Sez. 5, n. 5358 del 15/1/2018, Corradini, Rv. 272109-01; Sez. 2, n. 9495 del 7/2/2018, Grasso, Rv. 272523-01; Sez. 2, n. 41011 del 6/6/2018, Ba Elhadji, Rv. 274260-01; Sez. 5, n. 32626 del 26/3/2018, P., Rv. 274491-01; Sez. 4, n. 47772 del 25/9/2018, Bommartini, Rv. 274430-01; Sez. 4, n. 4649 dell’11/12/2018, Xhafa, Rv. 274959-01; Sez. 3, n. 16502 del 20/11/2018, dep. 2019, Pintilie; Sez. 2, n. 42579 del 10/9/2019, D’Ambrosio, Rv. 277928-01; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, dep. 2020, De Angelis, Rv. 278642-01; Sez. 2, n. 11591 del 27/1/2020, T, Rv. 278830-01; Sez. 5, n. 30434/2020, Innocenti, Rv. 279748-01; Sez. 3, n. 35630 del 13/7/2021, Nenci, Rv. 282034-01; Sez. 4, n. 36534 del 15/09/2021, Carrusci, Rv. 281922-01.

A sostegno di tale orientamento si afferma, innanzitutto, che esso è più conforme al tenore letterale delle disposizioni di cui all’art. 131-bis cod. pen. in quanto il legislatore, nell’individuare i fattori impeditivi alla qualificazione del fatto come espressivo della particolare tenuità dell’offesa, richiama, oltre alla pregressa dichiarazione a carico dell’agente di delinquente abituale, professionale o per tendenza, l’uguaglianza dell’indole dei reati commessi ovvero la circostanza che si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.

Si osserva, allora, che: il comportamento è abituale, ai sensi dell’art. 131-bis, in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole anche se non ci sono condanne precedenti poiché il legislatore fa testuale riferimento alla «commissione di più reati»; una condotta è reiterata quando essa, con identiche modalità fenomeniche, venga ripetuta nel tempo; è abituale ove non sia episodica e si caratterizzi per una certa metodicità. La nozione di condotta plurima deve essere individuata avendo riguardo al fatto storico poiché solo così acquista un significato autonomo rispetto alle condotte abituali e reiterate.

Per tale indirizzo ermeneutico, quindi, occorre verificare in concreto se il “fatto” nella sua unitarietà, avuto riguardo alla natura degli illeciti unificati, alle modalità esecutive della condotta, all’intensità dell’elemento psicologico, al numero delle disposizioni violate, agli interessi tutelati, sia meritevole o meno di un apprezzamento di speciale tenuità. Per Sez. 4, n. 10111/2019, dep. 2020, De Angelis, cit., «la logica antinomia tra reato continuato e particolare tenuità del fatto è rilevabile solo nel caso in cui le violazioni, espressione del medesimo disegno criminoso, siano in numero tale da costituire di per sé dimostrazione di una certa serialità nel delinquere ovvero di una progressione criminosa, indicative di una particolare intensità del dolo o della versatilità offensiva tali da porre in evidenza un insanabile contrasto con il giudizio di particolare tenuità dell’offesa in tal modo arrecata, ovvero, in altre parole, ove detta reiterazione non sia espressiva di una chiara tendenza o inclinazione al crimine». Non assume rilievo, per tale decisione, che siano state violate più volte, con la medesima azione o con distinte azioni, purché nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, la stessa o più norme poiché ciò che rileva è l’unicità della volontà criminosa che non deve essere espressione di una certa serialità nel delinquere ovvero di una progressione criminosa.

A sostegno di siffatto orientamento si osserva poi (Sez. 3, n. 16502/2019, Pintilie, cit.) che l’adesione alla diversa opzione che esclude in radice l’applicabilità al reato continuato del beneficio in questione, appare “distonica” rispetto alla stessa sistematica sanzionatoria di cui è espressione l’art. 81 cod. pen. in quanto non solo pregiudica l’imputato che, pur beneficiando del regime di favore di cui al menzionato art. 81, non può poi beneficiare della disposizione di cui all’art. 131-bis cod. pen., ma comporta altresì «un’ingiustificata, ed ingiustificabile, disparità di trattamento con la figura, per ampi tratti identicamente considerata dal legislatore ed identicamente configurante una unificazione di più illeciti operante esclusivamente quoad poenam, del concorso formale tra reati, prevista dal primo comma dell’art. 81 cod. pen., in cui l’unicità della condotta, pur considerata la risultante di più pluralità di violazioni commesse, consentirebbe […] l’eventuale applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen».

In conclusione, quindi, per tale orientamento, spetta al giudice decidere, caso per caso, sulla meritevolezza o meno del beneficio da parte dell’imputato valutando attentamente, in relazione alla modalità della condotta e all’esiguità del danno o del pericolo, l’incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti in modo da superare la contraddizione insita nell’applicazione di sanzioni formalmente ineccepibili, ma sostanzialmente sproporzionate all’effettiva offensività dei fatti oggetto di giudizio.

3. La soluzione prescelta dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla questione, dopo aver soffermato l’attenzione sul fondamento e sugli elementi strutturali dell’istituto in questione onde poter individuare «punti di intersezione e eventuali profili di incompatibilità nelle ipotesi in cui i fatti oggetto del giudizio rientrino nella disciplina del reato continuato», hanno ritenuto di dover condividere l’impostazione delineata dal secondo indirizzo giurisprudenziale in quanto il primo dei due orientamenti presta il fianco, ad avviso del Supremo consesso, ad obiezioni sia di carattere testuale, sia di ordine logico sistematico.

Richiamato quanto affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 120 del 2019, secondo cui l’art. 131-bis ha riguardo ad «una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabilità finale di qualsiasi condotta in violazione di legge», le Sezioni Unite, dopo aver ricordato sia che l’articolo 131-bis «individua una “soglia massima di gravità” correlata ad una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, stabilendo per i titoli di reato che non eccedono tale soglia, una “linea di demarcazione trasversale” che esclude la punibilità delle condotte aventi “in concreto” un tasso di offensività marcatamente ridotto», sia che per la relazione illustrativa del decreto legislativo n. 28 del 2015 ai fini dell’esclusione della punibilità non è sufficiente la tenuità dell’offesa, ma occorre che reato oggetto del giudizio non si inserisca «in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi», hanno esaminato con particolare attenzione le disposizioni di cui al terzo comma di siffatto articolo affermando, innanzitutto, che la nozione di abitualità si riferisce a una qualità che si delinea progressivamente e si consolida nel tempo in conseguenza della realizzazione di plurime condotte omogenee e non si esaurisce nella manifestazione esterna del solo dato obiettivo della persistenza di una determinata condotta, ma si sostanzia nell’acquisizione di un «costume comportamentale» che non è sovrapponibile «ad una situazione connotata dalla mera reiterazione di azioni». A tal proposito, al fine di meglio sottolineare le differenze tra l’abitualità e la continuazione, viene richiamato quanto affermato da Sez. 1, n. 15955 del 8/1/2016, Eloumari, Rv. 266615-01 e, cioè, che «l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l’agente si sia previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo, che esprime, invece, l’opzione del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza, che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità esistenziali».

Parimenti, si osserva, la nozione di continuazione - per come delineata dalle Sez. U., n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074-01 secondo cui «il riconoscimento della continuazione, necessita […] di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea», non può collegarsi a quella di reati della stessa indole poiché, se da un lato il nesso della continuazione può legare fra loro condotte violative delle medesime disposizioni di legge, per altro verso, ben può ipotizzarsi una continuazione fra reati di indole diversa purché frutto di un’unica spinta a delinquere in grado di legare e avvincere a sé un insieme di reati. In relazione a quest’ultima ipotesi si osserva che il nesso di continuazione può sussistere anche tra condotte che, mosse da una deliberazione unitaria, violano differenti disposizioni di legge e che i “reati della stessa indole” – per individuare i quali, ai sensi dell’art. 101 cod. pen., occorre fare riferimento sia alla “natura dei fatti” sia ai “motivi che li determinarono” – possono comprendere anche i reati colposi (ontologicamente incompatibili con il reato continuato) e quelli commessi per effetto degli stessi impulsi o motivi a delinquere «che, ai fini dell’accertamento dell’unicità del disegno criminoso, costituiscono, di contro, solo uno dei molteplici indici rivelatori che giudice deve in concreto valorizzare nell’ambito di un approfondita e generale verifica del caso». A tale rilievo consegue che la tesi della non applicabilità dell’articolo 131-bis alla continuazione non può fondarsi sul richiamo, di cui al terzo comma di siffatta a disposizione, all’ipotesi ostativa della pluralità dei reati della stessa indole e non può, infine, neanche farsi rientrare nel richiamo ai reati che abbiano ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate” di cui all’ultima parte del terzo comma dell’articolo in questione.

Con riferimento a tale ultima ipotesi osservano i Giudici del Supremo consesso, che il dato testuale consente di ritenere che «il riferimento al carattere plurimo contraddistingue le condotte non già i reati come invece accade nell’ipotesi della continuazione»; il legislatore, nell’adoperare genericamente l’espressione "reati" non ha inteso fare riferimento, nel citato terzo comma, alle ipotesi di concorso di reati, quanto, piuttosto, a determinate categorie di fattispecie, ossia a quelle situazioni concrete in cui il singolo reato viene realizzato attraverso una pluralità di modelli comportamentali e non ha ripetuto l’inciso «anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità», utilizzato con riferimento alla sola ipotesi della pluralità di reati della stessa indole.

Il tenore letterale delle norme che disciplinano la causa di esclusione della punibilità di che trattasi e ragioni di ordine logico-sistematico non consentono, dunque, di desumere alcuna indicazione preclusiva dell’applicabilità del beneficio in questione al reato continuato dovendosi ritenere che «il legislatore abbia attribuito al giudice la possibilità di verificare la particolare tenuità dei singoli reati avvinti dalla continuazione, per escludere la sussistenza di quella condizione ostativa ed applicare, di conseguenza, la causa di non punibilità quando essi, in concreto, non risultino meritevoli di sanzione penale all’esito di una valutazione condotta sulla base dell’insieme dei criteri direttivi indicati nell’ art. 131-bis». Tale interpretazione, peraltro, si evidenzia, è conforme alla lettura fornita dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266591-01 che, pur non affrontando espressamente la tematica della compatibilità del reato continuato con la causa di esclusione della punibilità, ha tracciato alcuni punti fermi in argomento affermando, tra l’altro, che il terzo comma descrive tre ipotesi di comportamento abituale da ritenersi tassative «anche in considerazione del fatto che il legislatore non fornisce una definizione positiva di comportamento non abituale a cui ricondurre ulteriori casi di comportamento abituale». La norma, osservano le Sezioni Unite in quest’ultima sentenza, intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto «comportamenti seriali»; il riferimento poi a «reati» e non a «condanne» comporta che la pluralità di reati sia configurabile non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche quando l’accertamento del reato non sia ancora definitivo o si tratti di reati da giudicarsi nel medesimo procedimento o ancora quando, in precedenza, sia stata riconosciuta la causa di esclusione della punibilità di cui si discute; il tenore letterale lascia intendere «che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (almeno due) diversi da quelli oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen»; i reati possono essere successivi a quello in esame poiché si verte in un ambito diverso da quello della recidiva; può trattarsi di reati che violano una stessa disposizione di legge o anche quelli, previsti da disposizioni diverse, che presentano, nel concreto, caratteri fondamentali comuni. Con riferimento poi ai reati che hanno ad oggetto «condotte plurime, abituali e reiterate», per le Sezioni Unite “Tushaj”, rientrano in tale ambito «fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti (si pensi ad un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione da un consolidato regime di disinteresse per la sicurezza)»; reati il cui tratto tipico sia costituito dall’abitualità, ossia necessariamente abituali (si pensi al delitto di maltrattamenti); reati che presentano nel tipo condotte reiterate ( si pensi al delitto di atti persecutori).

Con riferimento in particolare all’affermazione delle Sezioni Unite “Tushaj”, secondo cui la serialità idonea ad integrare l’abitualità del comportamento è riscontrabile «quando l’autore faccia seguire a due reati della stessa indole un’ulteriore, analoga condotta illecita», si rileva, nella decisione “Ubaldi”, che osta all’applicazione della causa di esclusione della punibilità in questione l’ipotesi in cui è riscontrabile la commissione di tre diversi segmenti attraverso i quali si articola la sequenza comportamentale oggetto del bene disegno criminoso solo quando essi, all’esito di una valutazione discrezionale operata dal giudice nel caso concreto, possano ascriversi alla categoria normativa dei reati della stessa indole, ossia di quei reati che violano una medesima disposizione di legge o che, pur se previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti caratteristiche comuni per la natura dei fatti che li costituiscono o per i motivi che li hanno determinati. «La nozione di “stessa indole” [evidenzia la Corte] risulterà per lo più sovrapponibile nei casi concreti all’ipotesi in cui venga rilievo la forma della cd. “continuazione omogenea”, caratterizzata dalla plurima violazione della stessa disposizione di legge» per cui, nell’ipotesi in cui il medesimo disegno criminoso abbia riguardo alla realizzazione di reati del tutto eterogenei, viene meno qualsiasi preclusione all’applicazione dell’istituto previsto dall’articolo 131-bis.

La Corte rileva, poi, che la radicale esclusione del reato continuato dall’ambito applicativo della non punibilità per particolare tenuità del fatto rischierebbe di ingenerare delle incongruenze logico-sistematiche ove si consideri che pacificamente si riconosce l’applicabilità dell’istituto in esame all’ipotesi di concorso formale di reati. Non si è in presenza, all’evidenza, di due istituti identici, ma è indubbio che il legislatore, al fine di mitigare il cumulo materiale delle pene, considera le due figure in modo identico in quanto espressione entrambe di un’unitaria spinta a delinquere da ritenersi di minor allarme sociale rispetto alla diversa ipotesi in cui la reiterazione di più reati sia attribuibile a rinnovate e autonome ragioni. Si ricorda, quindi, che da tempo l’elaborazione giurisprudenziale è pervenuta all’individuazione della connotazione di “unitarietà” della continuazione tra i reati. Già con la sentenza n. 14 del 30/6/1994, Ronga, Rv. 214355-01 e successivamente con le sentenze n. 18775 del 17/12/2009, dep. 2010, Mammoliti, Rv. 246720-01 e n. 3286 del 27/11/2008, dep. 2009, Chiodi, Rv. 241755-01, le Sezioni Unite ebbero ad evidenziare che «la unitarietà del reato continuato deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato. Non vi è, quindi, una struttura unitaria da assumere come punto di partenza di rilievo generale. Al contrario, la considerazione unitaria del reato continuato richiede due condizioni: deve essere espressamente prevista da "apposita disposizione" o, comunque, deve garantire un risultato favorevole al reo. Ne deriva che al di fuori di queste due ipotesi non vi è alcuna unitarietà di cui tener conto e, di conseguenza, vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola». Per le Sezioni Unite “Ubaldi”, dunque, sarebbe incoerente ritenere del tutto preclusa l’applicazione della causa di non punibilità ad un istituto, qual è quello della continuazione, anch’esso «tradizionalmente plasmato sulla regola del favor rei» e che risponde ad esigenze e finalità sostanziali pur diverse, ma comunque pienamente conciliabili con quelle sottese alle disposizioni di cui all’art. 131-bis cod. pen.

In conclusione, dunque, tale ultima disposizione ha natura sostanziale ed una portata applicativa generale, riferibile, quindi, a tutte le ipotesi di reato rientranti nei parametri da essa previsti e non consente di desumere «alcuna indicazione preclusiva alla potenziale applicabilità della relativa disciplina al reato continuato, né sono previsti limiti di ordine temporale all’efficacia della condizione ostativa dell’abitualità del comportamento, con il logico corollario che il reato o i reati “precedenti” possono essere anche assai risalenti nel tempo rispetto a quell’oggetto del giudizio». In linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite “Tushaj” «le disposizioni contenute nell’art 131-bis cod. pen. non hanno riguardo alla condotta tipica, bensì alle forme di estrinsecazione del comportamento al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena». Qualsiasi offesa arrecata, dunque, può essere sempre ritenuta di particolare tenuità ove venga concretamente valutata in tal senso dal giudice sulla base delle modalità della condotta e del danno o del pericolo cagionato al bene giuridico protetto. «È il principio di proporzione, in definitiva, a costituire “il fondamento logico-funzionale e anche costituzionale dell’istituto” poiché la risposta sanzionatoria perderebbe, in assenza di un vaglio di meritevolezza della pena per i fatti di reato in concreto connotati da una speciale tenuità, la sua stessa base di legittimazione all’interno di una prospettiva costituzionalmente orientata». Poiché nella sua dinamica funzionale il reato continuato assume fisionomie tra loro sensibilmente diverse, potendo variare la tipologia del bene giuridico protetto, il numero dei reati, lo spazio temporale che distanzia i singoli episodi illeciti, l’omogeneità e la eterogeneità delle violazioni, la loro gravità in astratto, le forme e le modalità di realizzazione del disegno criminoso, l’eventuale “abitualità” del comportamento dovrà essere necessariamente valutata in concreto e sorretta da una motivazione adeguata in ordine alle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, dovendosi ritenere insufficiente il richiamo a mere clausole di stile. Il giudice, dunque, dovrà accertare se, in concreto, la ricorrenza di una pluralità di condotte illecite, frutto di un’unica risoluzione criminosa, presenti o meno i caratteri della particolare tenuità alla luce dei criteri direttivi stabiliti dall’articolo 131-bis, effettuando una valutazione discrezionale che tenga conto di una serie di indicatori rappresentati in particolare: «a) dalla natura e dalla gravità degli illeciti unificati; b) dalla tipologia dei beni giuridici lesi o posti in pericolo; c) dall’entità delle disposizioni di legge violate; d) dalle finalità e modalità esecutive delle condotte; e) dalle relative motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate; f) dall’arco temporale e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano; g) dall’intensità del dolo; h) dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti». Con riferimento a tale ultimo profilo, le Sezioni Unite – dopo aver ricordato che nell’attuale formulazione dell’articolo 131-bis non compare alcun riferimento ai comportamenti successivi alla consumazione del reato atteso il richiamo al solo primo comma dell’articolo 133 cod. pen. e che, anche sulla base del tenore letterale di tali disposizioni, la giurisprudenza di legittimità ha escluso la rilevanza del comportamento post delictum – hanno evidenziato che l’articolo 1, comma 21, della legge n. 134 del 2021, recante “la delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, stabilisce che, nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice penale in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto sono adottati nel rispetto di una serie di principi e criteri direttivi tra cui il criterio indicato nella lettera B, ove si attribuisce rilievo «alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa». Il tenore letterale di tale disposizione, pertanto, ad avviso delle Sezioni Unite, impone il superamento del precedente orientamento giurisprudenziale e comporta la necessità di valutare nel caso concreto, nell’ambito del giudizio di particolare tenuità dell’offesa, anche le condotte successive al reato che possono rilevare ai fini dell’apprezzamento dell’entità del danno, ovvero come possibile spia dell’intensità dell’elemento soggettivo.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. u, n. 14 del 30/6/1994, Ronga, Rv. 214355-01;

Sez. U., n. 3286 del 27/11/2008, dep. 2009, Chiodi, Rv. 241755-01;

Sez. U., n. 18775 del 17/12/2009, dep. 2010, Mammoliti, Rv. 246720-01;

Sez. 3, n. 29897 del 28/5/2015, Gau, Rv. 264034-01;

Sez. 3, n. 43816 del 1/7/2015, Amodeo, Rv. 265084-01;

Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265449-01;

Sez. U., n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266591-01;

Sez. 2, n. 1 del 2/1/2017, Cattaneo, Rv. 268970-01;

Sez. 5, n. 4852 del 14/11/2016, dep. 2017, De Marco, Rv. 269092-01;

Sez. 2, n. 21849 del 7/2/2017, Morroi;

Sez. 5, n. 28193 del 24/3/2017, Souini;

Sez. 2, n. 19932 del 29/3/2017, Di Bello, Rv. 270320-01;

Sez. 2, n. 28341 del 5/4/2017, Modou, Rv. 271001-01;

Sez. 5, n. 48352, del 15/5/2017, Morgeanu, Rv. 271271-01;

Sez. 5, n. 24768, del 18/5/2017, Acotto;

Sez. 5, n. 35590 del 31/5/2017, Battizzocco, Rv. 270998-01;

Sez. 3, n. 776 del 4/4/2017, dep. 2018, Del Galdo, Rv. 271863-01;

Sez. U., n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074-01;

Sez. 1, n. 55450 del 24/10/2017, Greco, Rv. 271904-01;

Sez. 6, n. 3353 del 13/12/2017, (dep. 2018), Lesmo, Rv. 272123-01;

Sez. 5, n. 5358 del 15/1/2018, Corradini, Rv. 272109-01;

Sez. 2, n. 9495 del 7/2/2018, Grasso, Rv. 272523-01;

Sez. 5, n. 32626 del 26/3/2018, P., Rv. 274491-01;

Sez. 3, n. 19159 del 29/3/2018, Fusaro, Rv. 273198-01;

Sez. 2, 41453 del 16/5/2018, Ndaye Adams, Rv. 274237-01;

Sez. 2, n. 41011 del 6/6/2018, Ba Elhadji, Rv. 274260-01;

Sez. 4, n. 44896, del 25/9/2018, Abramo, Rv. 274270-01;

Sez. 4, n. 47772 del 25/9/2018, Bommartini, Rv. 274430-01;

Sez. 3, n. 16502 del 20/11/2018, dep. 2019, Pintilie;

Sez. 4, n. 4649 dell’11/12/2018, Xhafa, Rv. 274959-01

Sez. 6, n. 18192 del 20/3/2019, Franchi, Rv. 275955-01;

Sez. 3, n. 50002 del 4/10/2019, Geri;

Sez. 2, n. 42579 del 10/9/2019, D’Ambrosio, Rv. 277928-01;

Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, dep. 2020, De Angelis, Rv. 278642-01;

Sez. 2, n. 11591 del 27/1/2020, T, Rv. 278830-01;

Sez. 5, n. 30434 del 13/7/2020, Innocenti, Rv. 279748-01;

Sez. 3, n. 35630 del 13/7/2021, Nenci, Rv. 282034-01;

Sez. 4, n. 36534 del 15/09/2021, Carrusci, Rv. 281922-01.

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., n. 120 del 2019.

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE IV - REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO LA PERSONALITÀ DELLO STATO

  • omicidio
  • reato
  • codice penale

CAPITOLO I

LA CONFIGURABILITÀ DELLA STRAGE “POLITICA” E LE DIFFERENZE RISPETTO AL DELITTO DI STRAGE “COMUNE”

(di Valeria Bove )

Sommario

1 Premessa. - 2 La vicenda. - 3 Le contrapposte censure mosse dai ricorrenti in relazione alla vicenda in esame. - 4 Le considerazioni della Suprema Corte sulla natura dei reati di strage. - 5 La dinamica dell’episodio e la valutazione degli elementi idonei a configurare il dolo nel delitto di strage cosiddetta “politica”. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno in rassegna è stata depositata la sentenza Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, PG c/ Cospito, che ha enucleato una serie di principi di diritto, tra cui quello sulle differenze tra la strage cosiddetta “comune” e la strage cosiddetta “politica”, così massimato: «Il delitto di strage "politica" di cui all’art. 285 cod. pen. si differenzia da quello di strage "comune" di cui all’art. 422 cod. pen. in quanto, per la configurabilità del primo, è richiesto il dolo subspecifico (fine motivo), che connette l’azione all’intento finalistico dell’agente di recare offesa alla compagine statuale, intesa come lesione anche alla personalità giuridica dello Stato, mentre, nel secondo, il fine specifico è costituito dall’intenzione di uccidere private persone.» (Rv. 283904-02).

2. La vicenda.

La vicenda cui afferisce la pronunzia in disamina, che ha riguardato plurime ipotesi di reato, è relativa ad un episodio specifico (Capo F dell’imputazione), concernente due ordigni esplosivi collocati vicino ad una scuola allievi dell’Arma dei Carabinieri e per il quale era intervenuta sentenza di condanna, sia in primo che in secondo grado, nei confronti di due coimputati, per il reato di cui all’art. 422 cod. pen. (cosiddetta strage “comune”), così diversamente qualificato il fatto contestato dall’accusa ai sensi dell’art. 285 cod. pen. (cosiddetta strage “politica”), avendo le corti di merito escluso, nella condotta ascritta agli imputati, il fine di attentare alla sicurezza dello Stato.

Correlata alla questione giuridica sottesa al capo di imputazione in disanima, l’analisi di un’ulteriore ipotesi di reato (contestata al capo L) relativa alla collocazione, a meno di un anno di distanza dall’episodio descritto, di tre ordigni esplosivi in cassonetti della spazzatura ubicati in un’area pedonale nella città di Torino, rispetto al quale l’accusa aveva egualmente contestato il reato di cui all’art. 285 cod. pen., riqualificato dal giudice di primo grado in “strage comune” e poi derubricato dal giudice di secondo grado nell’ipotesi prevista dall’art. 280, comma primo, seconda ipotesi, cod. pen. (attentato per finalità terroristiche o di eversione).

Viene dunque in rilievo il tema della qualificazione giuridica della condotta di chi collochi ordigni esplosivi, anche in luoghi altamente simbolici, quali, nello specifico, una scuola allievi dei Carabinieri, e dell’interpretazione da dare alla fattispecie di reato di cui all’art. 285 cod. pen., messa in discussione innanzi alla Suprema Corte a seguito dell’impugnazione proposta dal Procuratore generale che lamentava la diversa (e meno grave) ipotesi di reato ritenuta al capo F (e prim’ancora, già in primo grado, in relazione al reato di cui al capo L), e la ritenuta insussistenza del reato di cui all’art. 285 cod. pen..

3. Le contrapposte censure mosse dai ricorrenti in relazione alla vicenda in esame.

Nel ricorso proposto, lamentando vizi di violazione di legge e di motivazione in ordine all’interpretazione da dare all’art. 285 cod. pen., il Procuratore generale rileva che la statuizione di condanna, per il reato di cui al capo F, doveva ritenersi in contrasto con la citata norma incriminatrice, posto che il giudice di merito aveva condiviso le considerazioni del pubblico ministero in ordine al movente politico ed eversivo dell’attentato realizzato, non sussistente con riferimento al delitto di cui all’art. 422 cod. pen., riguardando esso solo i casi in cui l’agente abbia avuto di mira di uccidere privati cittadini.

La Corte di merito non avrebbe, inoltre, tenuto conto che l’attacco stragista effettuato presso la scuola allievi dei Carabinieri era stato realizzato in un luogo fortemente simbolico, dove vengono formati gli appartenenti ad uno dei tre principali corpi di polizia dello Stato, destinatari del compito di garantire la sicurezza dei cittadini e delle istituzioni nel loro complesso. Già solo questo aspetto costituiva, per il ricorrente, un indice della volontà di attaccare la sicurezza dello Stato e sarebbe stato idoneo a ritenere la diversa volontà di attentare ad esso e non già quella indirizzata al conseguimento di fini privati e ad uccidere, che caratterizza, invece, l’ipotesi delittuosa di “strage comune” di cui all’art. 422 cod. pen..

A sostegno della propria tesi, la Procura generale richiama alcune pronunce risalenti di legittimità, che valorizzano l’aspetto delle ripercussioni degli atti delittuosi sull’intera compagine statale come lesione alla personalità dello Stato, connotazione, questa, che avrebbe caratterizzato anche l’episodio in disamina.

Ulteriore doglianza – rispetto alla quale rileva la vicenda contestata al capo L - concerne l’omessa applicazione da parte del giudice di merito della circostanza aggravante di cui all’art. 1, d.l. n. 625 del 1979, convertito con modificazioni dalla legge n. 15 del 1980 (oggi art. 270-bis.1, comma primo, cod. pen., come inserito dall’art. 5, d.lgs n. 21 del 2018) relativa alla finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento democratico, ritenuta insussistente con riferimento alla vicenda di cui al capo F, e non anche nella condanna in primo grado per il reato di cui all’art. 422 cod. pen., così riqualificato il reato contestato al capo L, in ciò manifestando una evidente contraddittorietà nella decisione. Tale aspetto doveva intendersi essere stato comunque devoluto al giudice di secondo grado, dal momento che l’impugnazione proposta avverso la sentenza di primo grado, in relazione al reato di cui al capo L, era volta a contestare la qualificazione giuridica ex art. 422 cod. pen. (aggravato ai sensi dell’art. 1, d.l. n. 629 del 1979, citato), data al fatto nel suo complesso, così diversamente qualificato il delitto di cui all’art. 285 cod. pen., norma che quella finalità di terrorismo ed eversione contempla come elemento costitutivo.

La difesa degli imputati, per converso, contesta, con riferimento all’episodio di cui al capo F – trattato congiuntamente, tra gli altri, a quello di cui al capo L - gli elementi in base ai quali sono state loro ricondotte le missive relative agli attentati.

Le censure riguardano, in particolare, le consulenze tecniche del pubblico ministero eseguite sugli scritti e gli esiti delle stesse e delle indagini effettuate dal RIS, nonché il vizio di motivazione della decisione di merito, ritenuta contraddittoria, nella parte in cui i giudici di merito hanno sostenuto che gli imputati fossero soggetti particolarmente accorti nello sviare le indagini, per poi attribuire loro una condotta altamente imprudente, quale quella di aver confezionato due missive da casa loro, con l’uso di un normografo e di averle imbucate in una cassetta postale sita poco distante dalla loro abitazione, in una giornata domenicale che non prevedeva il ritiro della corrispondenza.

Lamenta, inoltre, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto di cui al capo F ex art. 422 cod. pen. in luogo del reato di cui agli artt. 280 o 280-bis cod. pen. In particolare, il giudice di merito avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’elemento soggettivo della intenzione di uccidere, tipico del reato di cui all’art. 422 cod. pen., malgrado esso non fosse rinvenibile nella rivendicazione dell’attentato, che dimostrerebbe come si sia trattato solo di un atto dimostrativo, senza l’intenzione di uccidere, elemento, questo, che avrebbe dovuto portare a ritenere provato il dolo eventuale, e dunque ad escludere il reato di strage cosiddetta “comune”, che non si configura nelle ipotesi in cui l’elemento soggettivo sia integrato dal dolo eventuale.

4. Le considerazioni della Suprema Corte sulla natura dei reati di strage.

La Corte chiarisce in premessa che i delitti di cui agli artt. 422 e 285 cod. pen. si configurano come reati di pericolo e cita, condividendoli, i principi di diritto espressi in tema di strage cosiddetta “comune” da Sez. 1, n. 33459 del 12/07/2001, Astro, Rv. 219845-01 e da Sez. 6, n. 16740 del 24/03/2021, Traini, Rv. 281053-01.

In particolare, Sez. 1, n. 33459 del 12/07/2001, Astro, Rv. 219845-01 ha affermato il principio di diritto, così massimato: «Si configura il delitto di strage allorché gli atti compiuti siano tali da porre in pericolo la pubblica incolumità e non siano limitati ad offendere soltanto la vita di una singola persona. (In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto correttamente qualificato il reato di strage nell’esplosione violenta di un’autovettura imbottita di tritolo e posteggiata presso un’abitazione).»

Sez. 6, n. 16740 del 24/03/2021, Traini, Rv. 281053-01 ha a sua volta espresso il seguente principio di diritto: «Integra il delitto di strage l’azione dell’imputato che non si esaurisca in una condotta unitaria, bensì si articoli in plurimi fatti, consistiti nell’esplodere singoli colpi di pistola nei confronti di vittime incontrate casualmente in un ambito spazio-temporale privo di significativa soluzione di continuità, poiché in tal maniera viene posta in pericolo l’incolumità pubblica e non solo la vita delle singole persone offese.»

Precisa, dunque, la Corte che il reato di strage è un reato a consumazione anticipata, che non ammette il tentativo: per la sua consumazione è quindi sufficiente che il colpevole compia atti che abbiano l’idoneità a cagionare una situazione di concreto pericolo per il bene tutelato, sicché si configura il delitto consumato quando il comportamento, in sé considerato, potrebbe integrare un’ipotesi di tentativo. La fattispecie consumata del delitto di strage presenta, quindi, la stessa struttura del delitto tentato, ma viene punita come delitto consumato proprio in ragione dell’importanza degli interessi che esso mira a tutelare.

In questi termini si è infatti espressa Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel, Rv. 188642-01 (richiamata dalla Corte) il cui principio di diritto risulta così massimato: «Il reato di strage è un reato a consumazione anticipata, che non ammette il tentativo: per la consumazione del delitto è sufficiente che il colpevole compia atti che abbiano l’idoneità a cagionare una situazione di concreto pericolo per il bene tutelato e, quindi, si considera come delitto consumato un comportamento, che, senza tale specifica previsione normativa, potrebbe configurare una ipotesi di tentativo. In altre parole, la fattispecie consumata del delitto di strage presenta la stessa struttura del delitto tentato, ma è punita come delitto consumato, in considerazione dell’importanza degli interessi, che essa tende a tutelare.».

Reati di pericolo, a consumazione anticipata, i due delitti, come chiarirà la Corte in un passaggio successivo della motivazione, devono rispondere al principio di necessaria concreta offensività, in ossequio a Corte cost., sent. n. 225 del 2008 (che, come si vedrà, viene evocata dai giudici di merito per escludere la sussistenza nel caso di specie del reato di strage cosiddetta “politica”).

Tanto premesso, le due fattispecie si differenziano tra loro solo in ragione dell’elemento soggettivo.

Sul punto, la Corte cita il principio di diritto espresso da Sez. U. n. 1 del 18/03/1970, Kofler, Rv. 115780-01, così massimato: «Il delitto di strage politica previsto dall’art 285 cod. pen. si differenzia da quello di strage comune soltanto per la presenza, nel primo reato, dell’elemento psicologico subspecifico (fine motivo), che segna la connessione tra l’Azione e l’intento finalistico di recare offesa alla personalità dello stato, restando per il resto identiche le due figure delittuose nell’elemento obiettivo e nell’elemento subiettivo proprio del reato (dolo). In altri termini, la strage è reato comune (contro la pubblica incolumità) se l’agente non abbia avuto altro fine che quello di uccidere private persone; diventa reato speciale politico (contro la personalità dello Stato) se l’intento dell’agente sia stato che l’evento si ripercuota sulla compagine statale come lesione alla persona giuridica dello stato.».

In termini conformi si sono espresse successive decisioni, indicate dalla Corte e di seguito riportate secondo un criterio di ordine cronologico.

Viene quindi in rilievo, Sez. 1, n. 1538 del 15/11/1978, dep. 1979, Azzi, Rv. 141121-01 che ha espresso il seguente principio: «La strage è reato comune contro la pubblica incolumità se l’agente non abbia avuto altro fine che quello di uccidere private persone; diventa reato speciale contro la personalità dello stato se l’intento dell’agente sia stato quello di far ripercuotere l’evento sulla compagine statale come lesione alla persona giuridica dello stato. (Conf. Sezioni Unite 18 marzo 1970, ric kofler, Sezione prima 16 dicembre 1977, ric feiedi)».

In termini, anche Sez. 1, n. 4017 del 18/11/1985, dep. 1986, Donati, Rv. 172769-01 («Il delitto di strage politica si differenzia da quello di strage comune per la presenza nel fatto dell’ulteriore dolo - cosiddetto sub specifico o fine motivo - che va identificato con l’intento finalistico di recare offesa alla personalità dello stato. Per il resto le due figure criminose sono identiche, sia nell’elemento materiale che in quello psicologico proprio della strage comune.».), nonché Sez. 5, n. 11290 del 12/10/1993, Andolina, Rv. 196462-01 che si è pronunciata sulla duplice, ma alternativa, connotazione che assume il dolo specifico nel reato di cui all’art. 285 cod. pen., mirando la commissione del fatto ad attentare la sicurezza dello Stato (fine di attentato), portando nel territorio dello Stato o in una parte di esso, la devastazione, il saccheggio o la strage (fine di cagionare gli indicati nocumenti), sicché è sufficiente, ai fini della consumazione del delitto, un fatto diretto a realizzare uno dei due fini, con esclusione dell’altro. Di seguito, il principio di diritto, così come massimato in Rv. 196462-01: «L’art. 285 cod. pen. prevede la commissione di un fatto, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, diretto a portare nel territorio dello Stato o in una parte di esso, la devastazione, il saccheggio o la strage. Pertanto, il reato è correlato ad un duplice dolo specifico, in rapporto al fine dell’attentato ed all’intento di cagionare determinati nocumenti. Ma tali obiettivi criminosi, secondo il significato letterale della norma, risultano prospettati alternativamente, sicché è sufficiente, ai fini della consumazione del delitto, un fatto diretto a realizzarne uno, con esclusione degli altri. (Sulla scorta del principio enunciato la S.C. ha escluso la violazione della relazione tra sentenza ed accusa contestata, poiché il giudice istruttore, nell’ordinanza di rinvio a giudizio, aveva precisato che la condotta degli imputati era diretta a cagionare solo devastazione (art. 419 cod. pen.), con esclusione, quindi, dell’ipotesi di strage, art. 422 cod. pen., ma pur sempre nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 285 cit.)».

Partendo da queste premesse, e aderendo all’orientamento indicato, la Corte analizza la decisione del giudice di secondo grado, di cui riporta ampi stralci, nei quali, descritti gli elementi in fatto ed indiziari che hanno connotato l’attentato alla scuola allievi dei Carabinieri, il giudice della corte d’assise di appello trae le proprie conclusioni e conferma la decisione del giudice di primo grado, nella parte in cui ha riqualificato il fatto nel diverso reato di cui all’art. 422 cod. pen., in tal modo pronunciando condanna ad una pena che, stante la mancanza di vittime decedute, risulta, nella specie, molto meno grave rispetto a quella di cui all’art. 285 cod. pen., che prevede l’ergastolo, anche nel caso in cui non vengano attinte persone.

5. La dinamica dell’episodio e la valutazione degli elementi idonei a configurare il dolo nel delitto di strage cosiddetta “politica”.

Gli elementi ricostruttivi della dinamica in fatto, indicati dal giudice di secondo grado e riportati dalla Suprema Corte, possono di seguito così sintetizzarsi:

• il consapevole utilizzo da parte degli agenti della cosiddetta “tecnica del richiamo”, che consiste nel far esplodere un ordigno di ridotta potenzialità offensiva al fine di attirare sul posto, per i primi rilievi, gli appartenenti alle forze dell’ordine o comunque i soccorritori, con l’intento di coinvolgerli nell’esplosione di un secondo e più potente ordigno (definito nel caso di specie, sulla scorta dei rilievi tecnici eseguiti, di “notevolissima potenzialità offensiva”), collocato a breve distanza dal primo e programmato per deflagrare dopo un lasso di tempo sufficiente ad assicurare la presenza sul posto degli obiettivi prefissati;

• la scelta della collocazione dei due ordigni: il primo, all’interno di un contenitore per la raccolta differenziata posizionato nei pressi del marciapiede dal quale accedere alla scuola allievi Carabinieri; il secondo, a circa 20 mt. dal primo e dunque in un raggio ideale per attingere in pieno il personale di polizia giudiziaria intervenuto, per la maggior parte – e verosimilmente – appartenente al corpo dell’Arma dei Carabinieri;

• la programmazione della seconda esplosione a circa trenta minuti dalla prima e dunque in un lasso di tempo che sarebbe stato già di per sé sufficiente ad assicurare la presenza sul posto del personale di polizia giudiziaria, incaricato dei primi rilievi (la circostanza che nel caso specifico non vi siano state perdite umane era dipeso da una mera casualità, dovuta alla «sottovalutazione della prima esplosione da parte dei militari intervenuti»);

• la potenza micidiale di entrambi gli ordigni, così come ricostruita dalla consulenza balistica: l’esplosione ritardata avrebbe avuto effetti lesivi incisivi e fortemente lesivi in quanto l’ambiente circostante e più in generale il punto di deflagrazione sarebbe stato saturato da schegge;

• la scelta di far esplodere gli ordigni, nella notte tra il 2 ed il 3 giugno e dunque in una data fortemente simbolica, come si desumeva dalla rivendicazione dell’attentato, in cui veniva rimarcato che esso era stato compiuto per festeggiare la nascita della «infame Repubblica italiana e l’altrettanto infame anniversario dell’arma dei carabinieri». In esso era peraltro esplicitato che la finalità era proprio quella di colpire non privati cittadini, ma appartenenti all’arma dei Carabinieri «perché 10, 100, 1000 Nassirya non sia solo uno slogan urlato, ma una realtà non solo nel lontano oriente ma anche nelle nostre città e nelle nostre valli»;

• il movente, legato «all’odio viscerale per l’Arma», che mirava al tempo stesso ad influenzare le scelte governative in materia di immigrazione.

Ebbene, gli elementi descritti hanno portato a due differenti letture: una, quella del giudice di merito; l’altra, della Corte di cassazione.

La Corte di merito ha ritenuto che essi integrassero il dolo del reato di strage cosiddetta “comune” e non già quello richiesto nel delitto di strage cosiddetta “politica”.

Hanno affermato i giudici di merito che, pur nella sussistenza di elementi sintomatici, quali la natura “non privatistica” dell’obiettivo ed il movente lato sensu politico dell’azione, essi non potevano ritenersi sufficienti ad integrare il reato di cui all’art. 285 cod. pen., in mancanza «dell’intento dell’agente che l’evento si ripercuota sulla compagine statale come lesione alla persona giuridica dello Stato sotto il particolare profilo della sua sicurezza».

Rimarcano i giudici che l’oggetto tutelato dall’art. 285 cod. pen., tenuto conto della gravità anche della pena (l’ergastolo), che impone una lettura di stretta interpretazione e costituzionalmente orientata, va individuato nella effettività e nella stabilità del potere statale, nella libera esplicazione dei poteri che la Costituzione riconosce agli organi di vertici e nella sicurezza dello Stato unitariamente inteso, non già quindi nella sicurezza di uno o più servitori dello Stato o nella salvaguardia di un indirizzo politico.

Nel caso in esame, per la Corte di merito, l’attentato non intendeva attingere la personalità dello Stato, i suoi poteri e la sicurezza del Paese e, sul piano dell’offensività in concreto, sarebbe stato comunque inidoneo a scalfirli.

In altri termini, la lettura degli elementi indicati non integra l’ulteriore elemento psicologico subspecifico del fine-motivo, richiesto per il reato di strage cosiddetta “politica”.

Differente la lettura di quegli stessi elementi, data dalla Suprema Corte.

Afferma il giudice di legittimità che la “notevolissima potenzialità offensiva” del secondo ordigno e dell’azione materiale nel suo complesso, se, per un verso, colloca l’attentato al di fuori delle condotte “prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva”, che, in ossequio ai principi espressi da Corte cost., sent. n. 225 del 2008, non sono connotate da concreta offensività, per altro verso, avrebbe reso necessario chiarire, anche sulla scorta di elementi concreti, perché essa sia stata valutata come una caratteristica inidonea ad ascrivere l’attentato nella categoria degli atti diretti ad attentare alla sicurezza dello Stato.

Al contrario, l’esplosione avrebbe potuto mietere molte vittime umane, e la circostanza che l’attentato non ne abbia procurate non rende l’azione connotata da minore potenzialità offensiva, essendosi trattato di una mera causalità (la sottovalutazione, da parte dei militari intervenuti della prima esplosione).

Aggiunge la Corte che le vittime potenziali erano non solo molte, ma erano state anche specificamente individuate, nella mente degli autori, nei “simbolici” rappresentanti delle forze dell’ordine, come dimostra l’ubicazione dei due ordigni nei pressi di una scuola allievi dei Carabinieri, soggetti (per altro in via di formazione) appartenenti a quel corpo «adibito precipuamente a tutelare la sicurezza dello Stato e che la stessa sentenza impugnata non stenta a definire correttamente “un’articolazione importante dei pubblici poteri”».

Ulteriori elementi, anch’essi fortemente simbolici, idonei a ritenere integrato il dolo della strage cosiddetta “politica” si ricavano, per la Corte, dallo stesso tenore della rivendicazione dell’attentato.

In questo senso, il profondo significato simbolico dell’attentato, commesso proprio nella notte della festa della Repubblica e della nascita dell’Arma dei Carabinieri, ed ancora, ancora, la volontà di uccidere non un qualunque rappresentante delle forze dell’ordine, ma “i giovani” Carabinieri di una delle più importanti scuole del paese «per dare loro un messaggio “già da piccoli” evocando a questi fini la strage di Nassirya, estremamente sanguinosa quanto alla perdita di vite umane appartenenti proprio alle forze dell’ordine italiane, vale a dire rimarcando la presenza del richiesto dolo sub specifico e cioè la volontà di uccidere non uno, ma tanti giovani allievi dell’Arma dei carabinieri. (“10, 100, 1000 Nassirya”)».

Afferma la Corte che tutto ciò basta ad integrare un vulnus per la sicurezza dello Stato e non alla sicurezza di uno o più servitori dello Stato o alla salvaguardia dell’indirizzo politico di maggioranza.

Il giudice di legittimità aggiunge anche che questi principi oltre ad essere stati espressi, in termini conformi, nelle sentenze sopra indicate, non si pongono neanche in contrasto con altre pronunce, menzionate nelle memorie presentate dalla difesa degli imputati: se infatti nei casi delle stragi di mafia in cui persero la vita i giudici Chinnici, Falcone e Borsellino, servitori dello Stato con importanti funzioni, è stata contestato e ritenuto il reato di strage comune di cui all’art. 422 cod. pen., è indubbio che in quelle ipotesi le contestazioni riguardavano vicende nelle quali si era in presenza di vittime umane per cui la distinzione tra reato di strage politica e quella di strage comune, sfuma e perde inevitabilmente di significato, essendo identiche le conseguenze sul piano sanzionatorio (a differenza, come visto, della vicenda in esame, in cui, non essendoci state vittime umane, la differenza tra il reato di cui all’art. 285 e quelli di cui agli artt. 422 e 280 cod. pen. assume una significativa rilevanza, essendo punito con l’ergastolo solo il primo). Mancava, quindi, in quelle ipotesi un concreto interesse da parte del Pubblico Ministero a contestate l’uno o l’altro delitto

In ogni caso, aggiunge la Corte, il reato di cui all’art. 285 cod. pen. è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione anche per episodi analoghi a quello oggi in esame: è questo il caso dell’attentato al carcere di Regina Coeli verificatosi nel 1979 (Sez. 5, n. 11290 del 12/10/1993, Andolina, Rv. 196462-01), nel quale non vi erano state perdite umane, o, ancora, dell’ordigno esplosivo collocato presso la caserma della Guardia di Finanza (con perdite umane) e nell’attacco ad un presidio di alpini (senza vittime).

Alla luce delle considerazioni indicate, nella sussistenza del dolo specifico richiesto, il fatto di cui al capo F è stato riqualificato dalla Corte nell’ipotesi di cui all’art. 285 cod. pen. e la sentenza è stata di conseguenza annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’assise per una nuova valutazione limitato solo al trattamento sanzionatorio.

Infine, l’aver ritenuto integrato, nella vicenda della scuola allievi dei Carabinieri, il (più grave) reato di strage cosiddetta “politica” ha comportato che la doglianza – avanzata in via subordinata – relativa al riconoscimento, qualora fosse stato confermato il reato di cui all’art. 442 cod. pen., della circostanza aggravante di cui all’art. 1, d.l. n. 625 del 1979, cit. (oggi art. 270-bis 1, comma primo, cod. pen.) è stata di fatto superata, non essendo la Corte chiamata a pronunciarsi anche su di essa.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione:

Sez. U, n. 1 del 18/03/1970, Kofler, Rv. 115780-01;

Sez. 1, n. 1538 del 15/11/1978, dep. 1979, Azzi, Rv. 141121-01;

Sez. 1, n. 4017 del 18/11/1985, dep. 1986, Donati, Rv. 172769-01;

Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel, Rv. 188642-01;

Sez. 5, n. 11290 del 12/10/1993, Andolina, Rv. 196462-01;

Sez. 1, n. 33459 del 12/07/2001, Astro, Rv. 219845-01;

Sez. 6, n. 16740 del 24/03/2021, Traini, Rv. 281053-01;

Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, PG c/ Cospito, Rv. 283904-02.

Sentenze della Corte costituzionale:

Corte cost., sent. n. 225 del 2008.

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE IV - REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO L’ASSISTENZA FAMILIARE

  • reato
  • codice penale
  • violenza domestica
  • convivenza
  • famiglia

CAPITOLO II

CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA “MORE UXORIO” E CONDOTTE VESSATORIE: MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA O ATTI PERSECUTORI?

(di Aldo Natalini )

Sommario

1 L’incerto discrimen tra art. 572 e art. 612-bis cod. pen. in caso di cessazione della convivenza more uxorio. - 2 L’indirizzo tradizionale sull’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. e la valorizzazione dei (persistenti) vincoli solidaristici. - 2.1 La pregressa giurisprudenza sulla nozione allargata di famiglia. - 2.2 L’immutata linea estensiva anche dopo l’introduzione del reato di atti persecutori. - 3 L’indirizzo sull’applicabilità dell’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. per sopravvenuta cessazione dei vincoli familiari. - 4 L’intervento del giudice delle leggi: la sentenza costituzionale n. 98 del 2021. - 5 La “ricomposizione” verso la tesi restrittiva: il distinguishing tra convivenza e coabitazione. - Indice delle sentenze citate

1. L’incerto discrimen tra art. 572 e art. 612-bis cod. pen. in caso di cessazione della convivenza more uxorio.

La commissione di condotte vessatorie e violente nel contesto di relazioni interpersonali non (più) qualificate dalla convivenza pone il problema della loro esatta qualificazione: si pone il dubbio – nella giurisprudenza di legittimità – se sia sussumibile sotto il reato di maltrattamenti in famiglia piuttosto che sotto quello di atti persecutori, quest’ultimo nella sua forma aggravata (art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., come sostituito dall’art. 1, comma 3, d.l. 14 agosto 2013, n. 93, modif. dalla legge di conversione 15 ottobre 2013, n. 119: «La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa […]»).

Di base, in presenza di condotte astrattamente riconducibili all’una o all’altra fattispecie delittuosa, la clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. («salvo che il fatto costituisca più grave reato») renderebbe applicabile il più grave reato, per pena edittale, di cui all’art. 572 cod. pen. quando la condotta abusante valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie durante la convivenza. Senonché, per effetto della novella del 2013, la circostanza aggravante di cui all’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. è stata estesa anche all’ipotesi in cui gli atti persecutori siano commessi dal coniuge non divorziato né separato, sicché si tratta di verificare – ai fini della corretta qualificazione giuridica degli agiti violenti e maltrattanti – se e come il rapporto di affidamento e la comunanza di vita e di affetti che contrassegnano il rapporto familiare di fatto instauratosi attraverso la convivenza esplichi effetti nella fase patologica del rapporto, ossia quando la convivenza è cessata, e come tali effetti possano rilevare nello stabilire l’esatto discrimen tra le fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 572 e 612-bis, comma secondo, cod. pen.

Sul punto, con riferimento ai casi di cessazione della convivenza more uxorio, nel corso del 2022 si sono registrate oscillazioni giurisprudenziali all’interno della Sesta sezione penale che, solo da ultimo, sembrano essersi “pacificate” a favore di una soluzione restrittiva poggiante su un distinguishing tra convivenza e coabitazione.

2. L’indirizzo tradizionale sull’applicabilità dell’art. 572 cod. pen. e la valorizzazione dei (persistenti) vincoli solidaristici.

Un primo - consolidato - indirizzo di legittimità valorizza l’intensità e l’attualità della relazione interpersonale nascente dagli obblighi derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale verso i figli, tale da incidere sui rapporti tra i soggetti interessati, connotandoli reciprocamente, come persone “della famiglia” agli effetti dell’art. 572 cod. pen., pur in assenza di coabitazione.

In quest’ottica, nei casi di cessazione della convivenza more uxorio, si è configurato il delitto di maltrattamenti in famiglia – anziché quello, aggravato, di atti persecutori – quando tra i soggetti permanga un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter cod. civ. (Sez. 6, n. 07259 del 10/03/2022, L.S., Rv. 283047-01: fattispecie in cui l’imputato era quotidianamente presente nella vita e nell’abitazione della ex convivente e della figlia minore, persone offese, per attendere ai compiti educativi e di assistenza inerenti alla genitorialità), essendo configurabile il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. “anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza” (Sez. 6, n. 19922 del 07/02/2019, G.).

Si è quindi più volte affermato che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe quello di atti persecutori (anche) quando, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanga comunque connotata da vincoli solidaristici, mentre si è ritenuto configurabile il reato di atti persecutori, nella forma aggravata prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., quando non residua neppure un’aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Sez. 6, n. 37077 del 31/11/2020, M., Rv. 280431-01; Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, C., Rv. 276697-01; Sez. 3, n. 43701 del 12/06/2019, G., Rv. 277987-01: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione di condanna che ha ravvisato il reato anche in relazione alle condotte tenute dal padre nei confronti della figlia naturale dopo la fine della convivenza; Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, S., Rv. 270673-01; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, Spazzoli ed altro, Rv. 267915-01; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078-01; in senso solo parzialmente conforme, v. Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 272134-01).

Secondo questo robusto indirizzo interpretativo, il dato materiale della mancanza di attualità della convivenza o della coabitazione, là dove vengano in considerazione condotte di maltrattamento di cui all’art. 572 cod. pen. adottate in un contesto familiare, “diviene recessivo e non rilevante al fine di escludere l’integrazione della fattispecie criminosa” (così Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, cit., in motiv. § 1.2). La riconducibilità al delitto di cui all’art. 572 cod. pen. delle condotte vessatorie in danno dell’ex convivente è, difatti, fatta discendere non (più) dal rapporto di coabitazione – ormai cessato – ma dal (persistente) legame familiare e dai vincoli giuridici per lo più declinati in relazione alla filiazione comune che costituisce la massima espressione di un rapporto vincolato da obblighi di assistenza e di solidarietà e che si proietta, in quanto genitori, sui partner (artt. 2, 29 e 30 Cost.; artt. 143 ss. e 315 ss. cod. civ.).

In tal senso, del resto, è risalente l’affermazione giurisprudenziale della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (Sez. 6, n. 01857 del 12/10/1989, Cancellieri, Rv. 183283-01; Sez. 6, n. 11463 del 29/04/1980, Musmarra, Rv. 146480-01; più di recente, ad es., Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, cit.; Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, cit.; Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, cit., in motiv. § 2, la quale però ha preteso, in assenza di materiale convivenza, che la filiazione non sia stata un esito occasionale dei rapporti sessuali ma - almeno nella fase iniziale del rapporto - si sia instaurata una significativa relazione di carattere sentimentale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale autonoma rispetto ai vincoli giuridici derivanti dalla filiazione; sulla reciproca solidarietà ed assistenza v. Sez. 6, n. 19922 del 07/02/2019, cit.). In quest’abbrivio – è stato altresì precisato – la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore naturale derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessariamente il rispetto reciproco tra genitori anche se non conviventi (Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, cit.; Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, cit., in motiv. § 3.1), sicché “anche la presenza dei figli è da sola suscettibile di riprodurre le condizioni di affidamento e sostanziale subordinazione psicologica, tipica della fattispecie in esame poiché il loro accudimento continua a collegare i genitori in vincolo solidaristico di fatto, ancorché circoscritto alla comune esigenza di educazione e cura dei figli, perché impone la permanenza dei contatti personali a tal fine” (così Sez. 6, n. 23830 del 07/05/2013, I., Rv. 256607-01, in motiv. § 2).

2.1. La pregressa giurisprudenza sulla nozione allargata di famiglia.

Al fondo del predicato allargamento oggettivo e temporale dell’ambito di applicazione dell’art. 572 cod. pen. anche alle condotte maltrattanti post-convivenza, v’è quella risalente e costante giurisprudenza di legittimità che, agli effetti di questo titolo delittuoso, già dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso aveva abbracciato una nozione di “famiglia” alquanto estesa, comprensiva di ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e strette consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, anche di “puro fatto” (così già Sez. 2, n. 00320 del 01/03/1966, Palumbo, Rv. 101563-01; Sez. 6, n. 01067 del 03/07/1990, dep. 1991, Soru ed altro, Rv. 186276-01; Sez. 3, n. 08953 del 03/07/1997, Miriani ed altro, Rv. 208444-01).

Orbene, tale portato giurisprudenziale – frutto dello sforzo interpretativo di ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, in un’epoca in cui non esisteva il reato di atti persecutori e quello di maltrattamenti era strutturato sulla (sola) famiglia “tradizionale” (ossia “legittima”), identificandone i componenti nei prossimi congiunti (art. 307, comma quarto, cod. pen.) – è giunto fino ai nostri giorni, passando attraverso variegati arresti improntati sulla necessità della durata e della stabilità della relazione (cfr. ad es. Sez. 6, n. 01999 del 09/12/1992, dep. 1993, Gelati, Rv. 193274-01, che richiedeva un “apprezzabile” periodo di convivenza; Sez. 6, n. 12545 del 18/10/2000, Tourabi, Rv. 218173-01, che esigeva la “stabile convivenza”, sia pure al di fuori della famiglia legittima).

Ad un certo punto, lungo una progressiva linea “espansiva” che dalla famiglia legittima (avente come referente l’art. 29 Cost.) ha dato vieppiù rilievo a quella di fatto ed a qualunque relazione sentimentale (artt. 2 e 3 Cost.), guardandosi alla sostanza (e non più alla forma) dei rapporti interpersonali (v. ad es. già Sez. 3, n. 01691 del 13/11/1985, dep. 1986, Spanu, Rv. 171979-01; Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, Gatto, Rv. 236757-01; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv. 239726-01; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472-01), ha preso piede un indirizzo giurisprudenziale che, giustappunto, non ha preteso più, agli effetti applicativi dell’art. 572 cod. pen., né la convivenza né la coabitazione (così già Sez. 6, n. 01587 del 18/12/1970, dep. 1971, Imbesi, Rv. 116811-01; Sez. 3, n. 08953 del 3/7/1997, cit., Rv. 208444-01) in quanto – si è ripetutamente argomentato – dall’espressione letterale della norma incriminatrice essi non costituiscono affatto un presupposto del reato di maltrattamenti (Sez. 6, n. 00282 del 26/01/1998, Traversa, Rv. 210838-01, la quale ha chiarito che la cessazione del rapporto di convivenza non influisce sulla configurabilità del reato de quo; Sez. 6, n. 49109 del 22/09/2003, Micheli, Rv. 227719-01; Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010, B. e altro, Rv. 248312-01).

In quest’ottica “espansiva”, il reato di maltrattamenti in famiglia è stato ravvisato anche in caso di coabitazione di breve durata, instabile o anomala (fra le molte, v. Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092-01; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, cit.) ovvero, in mancanza di coabitazione, qualora vi sia stata solo un’abituale relazione sessuale (v. già Sez. 6, n. 01587 del 18/12/1970, cit.) o quando la relazione sia stata di intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto di stabile di affidamento e solidarietà reciproche (Sez. 3, n. 44262 del 08/11/2005, Sciacchitano ed altro, Rv. 232904-01, secondo cui non è necessario che la convivenza abbia una certa durata, essendo sufficiente che sia istituita in una prospettiva di stabilità; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, cit.; Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015, P.M. in proc. Trotta, Rv. 264661-01: fattispecie relativa a maltrattamenti posti in essere dal suocero in danno della nuora non convivente; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, cit.); il presupposto di fatto dell’incriminazione è stato quindi rinvenuto anche in una mera relazione di carattere sentimentale, sempre che la stessa, comportando la frequentazione abituale delle rispettive abitazioni sia stata tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, cit.; Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010, cit.; Sez. 6, n. 23830 del 07/05/2013, cit.; Sez. 3, n. 43701 del 12/06/2019, cit.).

La S.C. è stata spesso netta nell’affermare la persistenza del reato di cui all’art. 572 cod. pen. financo in caso di separazione legale (oltre che di fatto) e, quindi, di cessata convivenza, in ragione del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e fedeltà, lascia tuttavia integri, sia pure in forma attenuata, i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione (v. già Sez. 6, n. 11463 del 29/04/1980, cit.: nella specie era stato ritenuto sussistente il reato di maltrattamento commesso dal marito nei confronti della moglie legalmente separata e con lui non coabitante; Sez. 6, n. 10023 del 07/10/1996, De Bustis, Rv. 206399-01; Sez. 6, n. 00282 del 26/01/1998, cit.; Sez. 6, n. 03570 del 01/02/1999, Valente, Rv. 213515-01; Sez. 6, n. 49109 del 22/09/2003, cit.; Sez. 6, n. 26571 del 26/06/2008, V., Rv. 241253-01; Sez. 6, n. 07369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026-01; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, cit., in motiv.; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, cit.), relazioni riconducibili a fonte legale destinate a venir meno solo con il divorzio che di quel legale segna lo scioglimento (Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, L., Rv. 258644-01; Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, cit.).

Da qui, il principio ha trovato poi una generalizzata applicazione in quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale alla cessazione della convivenza di fatto o di quella derivante da matrimonio per pronuncia di divorzio, non viene meno ogni consorzio familiare ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen. (sulla configurabilità dei maltrattamenti in famiglia: Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, cit.; Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, cit., in caso di cessazione di convivenza di fatto; Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, cit., in caso di cessazione di convivenza matrimoniale segnata da una sentenza di divorzio).

2.2. L’immutata linea estensiva anche dopo l’introduzione del reato di atti persecutori.

Questa intensa esegesi giurisprudenziale - che aveva ricondotto estensivamente nell’ambito della protezione penale di cui all’art. 572 cod. pen. la persona del convivente more uxorio ben prima della legge n. 172 del 2012 (introduttiva nella struttura dell’incriminazione dell’espressa punibilità delle condotte maltrattanti realizzate anche «in danno di persona [...] comunque convivente») - ha “resistito” anche in numerosi arresti successivi all’introduzione, nel 2009, dell’art. 612-bis cod. pen. che, nel prevedere, al comma secondo, una forma aggravata ove gli atti persecutori siano rivolti nei confronti del coniuge separato, così dando rilievo ad ambiti referenziali latamente legati alla comunità della famiglia (in senso stretto e suo proprio, con esclusione ab origine delle altre comunità assimilate ex art. 572, comma primo, cod. pen.), generebbe un “conflitto da risolversi facendo ricorso al principio di specialità espressamente richiamato dalla clausola di sussidiarietà contenuta nell’incipit dell’art. 612-bis cod. pen.” (così Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, cit., in motiv. § 1.1) ed alla successiva novella del 2013, giungendosi ad affermare che “l’interesse leso esclude che per lo stesso possa venire in considerazione il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. destinato residualmente ad operare in situazioni in cui non vengano in considerazione condotte maturate in ambito familiare” ampliamente inteso (Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, cit., in motiv. § 1.3).

In definitiva, si è riconosciuto, anche da ultimo, il reato di maltrattamenti anche in situazioni di non convivenza, ma in quanto succedute a precedente convivenza e, quindi, non nel senso di assenza di convivenza ma di cessata convivenza (così, ad es., Sez. 6, n. 07259 del 01/03/2022, cit.; Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, cit., in motiv. § ).

3. L’indirizzo sull’applicabilità dell’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. per sopravvenuta cessazione dei vincoli familiari.

Altro indirizzo giurisprudenziale – affermatosi a partire dal 2011 e progressivamente consolidatosi fino al 2022 in consapevole dissenso dall’altro – esclude la riconducibilità delle condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro dopo la cessazione della convivenza al reato di maltrattamenti in famiglia, ravvisando invece l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. (Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, L., Rv. 283003-02; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398-01, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento; Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254-01; Sez. 6, n. 10222 del 23/01/2019, C., Rv. 275617-01; Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, C., Rv. 268464-01; Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942-01; Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, dep. 2012, Frasca, Rv. 252906-01).

Nella sentenza Frasca – la “capofila” di questo divisamento – si era affermato per la prima volta che, ferma l’eventualità di un “concorso apparente di norme” [rectius: concorso formale o materiale, NdR] “che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati di maltrattamenti e di atti persecutori, il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. diviene idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale (Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, cit., in motiv.), con conseguente configurabilità del reato di stalking soltanto in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa; di contro, è ravvisabile il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto (conf. Sez. 6, n. 03356 del 13/12/2017, dep. 2018, F.; Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, cit., in motiv., ove si precisa che il reato previsto dall’art. 612-bis cod. pen. è configurabile nel caso di divorzio tra i coniugi ovvero di cessazione della relazione di fatto).

Il sostrato motivazionale che accomuna questo filone giurisprudenziale – quantomeno nei suoi arresti più significativi – al suesposto indirizzo “espansivo” (v. supra § 2) risiede nel principio di diritto secondo il quale il delitto di maltrattamenti in famiglia resta configurabile (anche) in danno di persona non convivente o non più convivente, “quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione” (così Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, cit.; Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, cit.), ovvero nella precisazione che anche in caso di separazione legale (oltre che di fatto) resta ferma la ravvisabilità del reato di maltrattamenti non corrispondendo al venir meno degli obblighi di convivenza e fedeltà “il venir meno anche dei doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi” (così Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, cit., che richiama Sez. 6, n. 03570 del 01/02/1999, cit.; Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, cit.).

Per il resto, questo divisamento giunge ad un’opposta soluzione qualificatoria: il principio reiteratamente enunciato – e massimato – è che, in tema di rapporti tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, “il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie; è invece configurabile l’ipotesi aggravata di atti persecutori, prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie di maltrattamenti per sopravvenuta cessazione del vincolo familiare e affettivo o comunque dalla sua attualità temporale” (Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, cit.; Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, cit.); e ciò – come significativamente precisato nel 2022, in netta contrapposizione con l’opposto filone – “nonostante la persistente condivisa genitorialità” (Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, cit.).

Lungo questa diversa prospettiva esegetica, la S.C. ha tratteggiato una netta linea di demarcazione temporale tra i due reati sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati: nel caso di convivenza more uxorio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte vessatorie tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori (Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, cit.; Sez. 6, n. 10222 del 23/01/2019, cit.; Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, cit.).

In uno degli arresti maggiormente significativi, viene bene esplicitata la ratio garantista che ispira questo filone, poggiante sul divieto di analogia in malam partem (artt. 25, comma secondo, Cost. e 14 disp. prel. c.c.): si afferma – in consapevole dissenso con le argomentazioni spostate dall’altro divisamento – che “la proiezione nel rapporto interpersonale fra persone ex conviventi del vincolo familiare, positivamente disciplinata con riferimento al rapporto tra genitori e figli, finirebbe col dilatare l’applicazione della previsione legislativa di cui all’art. 572 cod. pen. in assenza di una legge che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio e degli effetti giuridici che esso determina tra le parti quando ormai la relazione interpersonale è cessata ma incidendo in un settore cruciale, quale quello della individuazione dei confini tra lecito e illecito, in relazione ad un reato che può essere commesso solo dalle persone legate al soggetto passivo da un rapporto qualificato che determina un complesso di obblighi dell’agente, e che, anche nel momento di patologia del rapporto di coppia, deve fare i conti con la volontà dei conviventi di sottrarsi agli effetti giuridici tipici della famiglia matrimoniale (e oggi anche dell’unione civile) e sui quali si interverrebbe, invece, estendendo in malam partem la disciplina legislativa omologa a quella del vincolo coniugale” (così Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, cit., in motiv. § 8). Nell’assunto che i diversi “modelli” di famiglia che si affermano nella attuale società civile “richiedono tutele diversificate e adeguate ai singoli casi e non soluzioni uniche, valide indistintamente per tutte le fattispecie”, si conclude nel senso che l’opposta soluzione interpretativa favorevole alla perdurante applicabilità dell’art. 572 cod. pen. anche in caso di cessata convivenza “non sarebbe giustificabile (come in passato) dall’intento di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili […] dal momento che attraverso l’intervento legislativo del 2012, pur in presenza di alcune differenze, risulta garantita pari dignità e pari margini di tutela della situazione personale della vittima durante il rapporto di convivenza, attraverso la previsione dell’art. 572 cod. pen. e, dopo la cessazione del rapporto di convivenza, attraverso l’incriminazione delle condotte abusanti riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen., oltre che dalle fattispecie incriminatrici applicabili in relazione a specifiche condotte illecite” (ibidem).

4. L’intervento del giudice delle leggi: la sentenza costituzionale n. 98 del 2021.

Sulla problematica qualificatoria in disamina ha di recente inciso un significativo intervento interpretativo del giudice delle leggi (C. cost. n. 98 del 2021) al quale sembra essersi infine conformata l’ultima giurisprudenza sezionale della S.C., giungendo, infine, ad una “ricomposizione” della tematica qualificatoria in disamina.

Chiamata a pronunciarsi ex professo su una questione di rito sorta all’interno di un processo per maltrattamenti, la Consulta, pur dichiarando inammissibile l’eccezione di illegittimità costituzionale nella specie sollevata, ha dedicato un’attenta analisi alla fattispecie di cui all’art. 572 cod. pen. alla luce del corollario del principio di legalità rappresentato dal divieto di analogia in malam partem affidando infine all’interprete il compito di stabilire se relazioni affettive – per così dire – non tradizionali possano farsi rientrare nelle nozioni di “famiglia” e di “convivenza”, alla stregua dell’ordinario significato di queste espressioni.

La Corte costituzionale ha espressamente richiamato l’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, che ha ricondotto allo spettro applicativo dell’art. 572 cod. pen. fatti commessi nell’ambito di relazioni caratterizzate dalla condivisione di progetti di vita, e ha affermato il principio secondo cui l’art. 572 cod. pen. è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (v. supra § 2). Pertanto, il delitto sarebbe configurabile “anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza” (Sez. 6, n. 19922 del 07/02/2019, cit.).

Lo stesso giudice costituzionale ha, però, evidenziato la necessità di rivedere tale interpretazione alla luce delle riforme legislative intervenute in materia, rilevando che il d.l. n. 11 del 2009, convertito, con modif., dalla legge n. 38 del 2009, ha introdotto il delitto di atti persecutori e la legge n. 172 del 2012 ha esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona «comunque convivente» senza altro aggiungere.

La Consulta, allora, ha ritenuto necessario, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio, confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 disp. prel. c.c. nonché - implicitamente - dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta). Nella sentenza costituzionale n. 98 del 2021 si afferma che il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto è il testo della legge - non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza - che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.

La Corte costituzionale, nel valutare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel giudizio a quo, ha premesso che il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare tramite l’art. 572 cod. pen. una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi (v. supra § 2), deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque [...] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono - per quanto qui rileva - l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.

I giudici della Consulta concludono nel senso che il divieto di analogia in malam partem impone di appurare se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione - come quella che risultava intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo (ove si trattava di rapporto sentimentale protrattosi nell’arco di qualche mese, caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro) - consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima «famiglia» dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di «convivenza».

In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost. (C. cost. n. 98 del 2021).

5. La “ricomposizione” verso la tesi restrittiva: il distinguishing tra convivenza e coabitazione.

L’autorevole sollecitazione del giudice costituzionale è stata infine raccolta dall’ultima giurisprudenza dalla Sesta Sezione della Corte che, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro dopo la cessazione della convivenza, ha infine aderito alla tesi che esclude la configurabilità del reato di maltrattamenti, in favore dell’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (Sez. 6, n. 09663 del 16/02/2022, P., Rv. 283120-01; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D., Rv. 283436-01; Sez. 6, n. 38336 del 28/02/2022, D., Rv. 283939-01; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., cit., in motiv. § 3; Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, cit.).

In nome del divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14 disp. prel. c.c.), corollario del principio di legalità (art. 25, comma secondo, Cost.) ed alla luce di un apparato normativo che amplia ormai lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell’ambito delle relazioni interpersonali non qualificate, la S.C. si è assestata, nell’applicazione dell’art. 572 cod. pen., verso un’esegesi dei concetti di «famiglia» e di «convivenza» nell’accezione più ristretta: quella, cioè: “quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d’affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall’abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti)” (Sez. 6, n. 09663 del 16/02/2022, cit., in motiv. § 5; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, cit., in motiv.).

In quest’abbrivio - più restrittivo - non bastano più ad esempio momenti di coabitazione (per pochi mesi) nei fine settimana, a fondare un’ipotesi di convivenza, nella stessa misura in cui la Consulta dubita che “permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro” possano considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di «convivenza», da riconoscersi – si è puntualizzato da ultimo – “solamente laddove risulti acclarata l’esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità” (così Sez. 6, n. 38336 del 28/02/2022, cit., in motiv. § 2).

In definitiva, il distinguishing operato dall’ultima giurisprudenza sezionale – che ha infine “ricomposto”, in esito al dictum della Consulta, le oscillazioni qualificatorie registratesi in subiecta materia fino ai primi mesi del 2022 – tiene conto della circostanza che «convivenza» e «coabitazione» sono concetti fra loro differenti perché possono esservi relazioni di convivenza senza materiale coabitazione e situazioni di coabitazione non comportanti alcuna convivenza. Viene, quindi, per lo più rimesso al giudice di merito – nei giudizi di legittimità conclusisi con annullamento con rinvio – verificare se il concreto atteggiarsi dei rapporti intercorsi tra le parti private in lite sia sussumibile nella delineata nozione di «convivenza», rilevando, all’esito di tale indagine di fatto, se le condotte abusanti accertate rivestano penale rilevanza e, in caso affermativo, a quale fattispecie incriminatrice debbano ricondursi.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 2, n. 00320 del 01/03/1966, Palumbo, Rv. 101563-01;

Sez. 6, n. 01587 del 18/12/1970, dep. 1971, Imbesi, Rv. 116811-01;

Sez. 6, n. 11463 del 29/04/1980, Musmarra, Rv. 146480-01;

Sez. 3, n. 01691 del 13/11/1985, dep. 1986, Spanu, Rv. 171979-01;

Sez. 6, n. 01857 del 12/10/1989, Cancellieri, Rv. 183283-01;

Sez. 6, n. 01067 del 03/07/1990, dep. 1991, Soru ed altro, Rv. 186276-01;

Sez. 6, n. 01999 del 09/12/1992, dep. 1993, Gelati, Rv. 193274-01;

Sez. 6, n. 10023 del 07/10/1996, De Bustis, Rv. 206399-01;

Sez. 3, n. 08953 del 03/07/1997, Miriani ed altro, Rv. 208444-01;

Sez. 6, n. 00282 del 26/01/1998, Traversa, Rv. 210838-01;

Sez. 6, n. 03570 del 01/02/1999, Valente, Rv. 213515-01;

Sez. 6, n. 12545 del 18/10/2000, Tourabi, Rv. 218173-01;

Sez. 6, n. 49109 del 22/09/2003, Micheli, Rv. 227719-01;

Sez. 3, n. 44262 del 08/11/2005, Sciacchitano ed altro, Rv. 232904-01;

Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, Gatto, Rv. 236757-01;

Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv. 239726-01;

Sez. 6, n. 26571 del 26/06/2008, V., Rv. 241253-01;

Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010, B. e altro, Rv. 248312-01;

Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, dep. 2012, Frasca, Rv. 252906-01;

Sez. 6, n. 07369 del 13/11/2012, dep. 2013, M., Rv. 254026-01;

Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I. Rv. 255628-01;

Sez. 6, n. 23830 del 07/05/2013, I., Rv. 256607-01;

Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, L., Rv. 258644-01;

Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472-01;

Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078-01;

Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015, P.M. in proc. Trotta, Rv. 264661-01;

Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942-01;

Sez. 2, n. 39331 del 05/07/2016, Spazzoli ed altro, Rv. 267915-01;

Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, C., Rv. 268464-01;

Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, S., Rv. 270673-01;

Sez. 6, n. 03087 del 19/12/2017, dep. 2018, F., Rv. 272134-01;

Sez. 6, n. 03356 del 13/12/2017, dep. 2018, F.;

Sez. 6, n. 10222 del 23/01/2019, C., Rv. 275617-01;

Sez. 6, n. 19922 del 07/02/2019, G. ;

Sez. 6, n. 37628 del 25/06/2019, C., Rv. 276697-01;

Sez. 3, n. 43701 del 12/06/2019, G., Rv. 277987-01;

Sez. 6, n. 37077 del 31/11/2020, M., Rv. 280431-01;

Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092-01;

Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254-01;

Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398-01;

Sez. 6, n. 07259 del 10/03/2022, L.S., Rv. 283047-01;

Sez. 6, n. 09663 del 16/02/2022, P., Rv. 283120-01;

Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, L., Rv. 283003-02;

Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D., Rv. 283436-01;

Sez. 6, n. 38336 del 28/02/2022, D., Rv. 283939-01.

Sentenze della Corte costituzionale:

C. cost. n. 98 del 2021.

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE IV - REATI DEL CODICE PENALE - DELITTI CONTRO LA PERSONA

  • minore età civile
  • materiale audiovisivo
  • pornografia
  • pedofilia
  • pornografia infantile

CAPITOLO III

LA PRODUZIONE DI MATERIALE PORNOGRAFICO REALIZZATA CON IL CONSENSO DEL MINORE ULTRAQUATTORDICENNE, NEL CONTESTO DI UNA RELAZIONE CON PERSONA MAGGIORENNE

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le problematiche evidenziate dall’ordinanza di remissione. - 3 Le Sezioni Unite n. 4616 del 28/10/2021, (dep. 2022 ), D. - 4 La “pedopornografica domestica”. - 5 La produzione di materiale pedopornografico in costanza di una relazione affettiva tra un adulto e un minore. - 6 Circolazione del materiale pedopornografico “domestico” e “utilizzazione” del minore. - 7 Irrilevanza del consenso del minore alla diffusione di immagini autoprodotte. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno 2022 le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere la questione di diritto: «se, e in quali limiti, la condotta di produzione di materiale pornografico realizzata con il consenso del minore ultraquattordicenne, nel contesto di una relazione con persona maggiorenne, configuri il reato di cui all’art. 600-ter, primo comma, n. 1, cod. pen.».

2. Le problematiche evidenziate dall’ordinanza di remissione.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Terza sezione, con ordinanza del 22 aprile 2021 in cui si è evidenziata la particolare rilevanza della questione, alla luce della persistenza di profili problematici collegati alla nozione di pornografia minorile domestica, come definita nell’obiter dictum contenuto nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 51815 del 31/05/2018.

In particolare si è evidenziato che nella decisione citata le Sezioni Unite hanno affermato che non sussiste l’“utilizzazione del minore”, quale presupposto del reato di produzione di materiale pedopornografico di cui all’articolo 600-ter, primo comma, cod. pen., nel caso di realizzazione di immagini o video che abbiano ad oggetto la vita privata sessuale di un minore, che abbia raggiunto l’età del consenso sessuale, nell’ambito di un rapporto che, valutate le circostanze del caso, siano frutto di una libera scelta del minore non coartato da alcun condizionamento, e destinate ad uso strettamente privato.

Secondo il Collegio remittente quanto affermato dalle Sezioni Unite impone una messa in discussione se non altro sotto il profilo della “non completezza”.

In primo luogo, si osserva che il principio, condivisibile per quanto riguarda la produzione di materiale pedopornografico tra coetanei che abbiano raggiunto il consenso all’attività sessuale, merita una rimeditazione nel caso in cui la realizzazione di materiale pornografico avvenga nell’ambito di un rapporto interpersonale tra un minore ed un adulto, posto che evidentemente tale relazione “potrebbe non necessariamente essere caratterizzata da una posizione di supremazia ma che potrebbe risultare comunque arduo definire paritaria”.

In secondo luogo, la Terza Sezione sottolinea la necessità di stabilire se il consenso all’atto sessuale del minore infra sedicenne includa anche il consenso alla rappresentazione documentale o digitale dell’atto stesse se, alla luce dell’attuale sviluppo tecnologico e della fruibilità diffusa dei dispositivi di riproduzione di comune impiego, detta rappresentazione possa considerarsi una forma di espressione della sessualità, e quindi atto sessuale in sé, e in quanto tale dipendente dal consenso del minore infraquattordicenne.

La Sezione remittente pone, poi, il tema della divulgabilità del materiale pedopornografico “domestico” al di là della sfera dell’esclusivo uso privato dei protagonisti coinvolti nell’attività sessuale. In proposito il Collegio osserva che la formulazione letterale delle previsioni contenute nei commi uno e seguenti dell’art. 600-ter, cod. pen., potrebbe sollevare dei dubbi circa la riferibilità del divieto di commercializzazione, distribuzione, divulgazione e diffusione, sanzionato dai commi tre e quattro dell’art. 600-ter, cod. pen., al materiale prodotto in ambito domestico, riferendosi il primo comma, cui fanno rinvio il terzo e il quarto, al materiale prodotto attraverso “l’utilizzazione del minore” evenienza non sussistente nel caso di produzione pedopornografica destinata a rimanere privata.

Si sottolinea che una eventuale interpretazione restrittiva delle disposizioni sarebbe foriera di un grave vuoto di tutela nei casi di circolazione abusiva del materiale realizzato ad esclusivo uso dei soggetti coinvolti, non potendo ritenersi risolutiva, in tal senso, l’introduzione dell’art. 612-ter, cod. pen., con il quale si è inteso reprimere il fenomeno del cosiddetto “revenge porn” atteso che la disposizione non risulta occuparsi nello specifico della tutela della persona di età minore.

3. Le Sezioni Unite n. 4616 del 28/10/2021, (dep. 2022 ), D.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 4616 del 28/10/2021, (dep. 2022 ), D., hanno affermato i principi di diritto così massimati:

«Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 600-ter, comma primo, cod. pen., si ha "utilizzazione" del minore allorquando, all’esito di un accertamento complessivo che tenga conto del contesto di riferimento, dell’età, maturità, esperienza, stato di dipendenza del minore, si appalesino forme di coercizione o di condizionamento della volontà del minore stesso, restando escluse dalla rilevanza penale del fatto solo le condotte realmente prive di offensività rispetto all’integrità psico-fisica dello stesso». Rv. 282718-01.

«Ai fini dell’integrazione dei reati di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 600-ter cod. pen. non rileva il consenso del minore alla circolazione, comunque sempre vietata, del materiale prodotto, provenendo da soggetto che presuntivamente non ha ancora raggiunto un livello di maturità tale da consentirgli una valutazione consapevole circa le ricadute negative della mercificazione del proprio corpo attraverso la divulgazione delle immagini erotiche, anche in considerazione di una eventuale circolazione ritardata nel tempo rispetto al momento della loro realizzazione». Rv. 282718-03.

«In tema di reato di pornografia minorile di cui all’art. 600-ter, comma primo, cod. pen., è lecita unicamente la produzione di materiale pornografico realizzato senza la "utilizzazione" del minore e con il consenso espresso di colui che abbia raggiunto l’età per manifestarlo». Rv. 282718-04.

«In tema di pornografia minorile, la messa in circolazione del materiale abusivamente prodotto, ove contestuale alla produzione o, comunque, sin dall’inizio voluta da chi lo abbia realizzato, integra il reato di cui all’art. 600-ter, comma primo, cod. pen., mentre, se frutto di successiva determinazione, rientra nell’ambito applicativo dell’art.600-ter, commi terzo e quarto, cod. pen.». Rv. 282718-05.

4. La “pedopornografica domestica”.

Le Sezioni Unite, dopo un’articolata disamina delle modifiche normative che hanno interessato l’articolo 600-ter, cod. pen., riprendendo le conclusioni della sentenza n. 51815 del 2018, ribadiscono, in premessa: che la previsione del primo comma, relativa alla produzione di materiale pedopornografico, presuppone la diversità dell’autore della condotta dal soggetto ripreso, diversamente difettando l’elemento costitutivo dell’utilizzo del minore da parte di un soggetto terzo a cui fa riferimento il primo comma citato e che di conseguenza rimane esclusa dal concetto di produzione penalmente rilevante l’autoproduzione del materiale da parte del minore; che la produzione frutto dell’utilizzazione può realizzarsi non solo quando l’agente realizzi personalmente tale materiale ma anche quando sia il minore da lui istigato a realizzarlo; che per “utilizzazione” del minore s’intende la condotta di chi manovra, strumentalizza e sfrutta il minore servendosi dello stesso trasformandolo in una “res” piegata ai propri fini; e che in presenza di quest’asservimento, dovuto ad un differenziale di potere, nessun rilievo può essere riconosciuto ad un eventuale consenso del minore alla produzione, che per definizione, in un contesto impari, non può essere ritenuto libero e consapevole.

5. La produzione di materiale pedopornografico in costanza di una relazione affettiva tra un adulto e un minore.

Tanto chiarito, le Sezioni Unite affrontano analiticamente tutte le questioni messe in luce dalla Terza Sezione.

In primo luogo si afferma che anche in caso di produzione di materiale pornografico in costanza di una relazione affettiva tra un adulto e un minore s’impone la necessità di verificare analiticamente se essa sia frutto di “utilizzazione” del minore stesso e quindi di accertare se il primo abbia vinto la resistenza del secondo tramite “tecniche di manipolazione psicologica e di seduzione affettiva” sfruttando la superiorità in termini di età, esperienza, posizione sociale ovvero approfittando della condizione di inferiorità del minore, posto che quest’ultimo, soprattutto nell’ambito di una relazione con un soggetto maggiorenne, è evidentemente suscettibile di essere esposto a varie forme di condizionamento che includono il ricatto affettivo, la paura dell’abbandono, o il senso di colpevolizzazione.

Si aggiunge che il consenso del minore all’atto sessuale non include di per sé anche quello alla realizzazione di materiale di natura pedopornografica poiché tale attività, sia pure riconducibile l’autonomia sessuale del minore, rappresenta un quid pluris che si aggiunge all’atto sessuale, tanto da non potersi considerare automaticamente estrinsecazione della sua libertà sessuale.

Specificando ulteriormente il concetto illustrato, le Sezioni Unite evidenziano altresì che il consenso del minore deve sorreggere anche la conservazione del materiale pedopornografico frutto della cd. produzione domestica, come desumibile dalle numerose disposizioni nazionali e sovranazionali poste a tutela dei dati personali tra le quali, in particolare, gli artt. art. 23, lett. d), e 167 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e l’art. 9, comma 1, lett e) del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 27/04/2016, e la possibilità accordata dall’art. 144-bis del d.lgs. n. 196 del 2003 al titolare dei dati messi in circolazione abusivamente di richiedere direttamente tutela al Garante per la protezione dei dati personali.

6. Circolazione del materiale pedopornografico “domestico” e “utilizzazione” del minore.

In risposta alla sollecitazione posta in essere dalla Terza Sezione ed al paventato vuoto di tutela in ordine alla circolazione del materiale pedopornografico “domestico”, le Sezioni Unite osservano che, essendo tale produzione destinata a rimanere nella disponibilità esclusiva delle parti coinvolte, una sua eventuale circolazione comporta che il minore, non “utilizzato” nella fase iniziale della produzione, debba considerarsi “utilizzato” nella fase di cessione o diffusione delle immagini.

In base a questa ricostruzione, quindi, «se la circuitazione del materiale abusivamente prodotto è contestuale, o comunque, anche se successiva, sin dall’inizio voluta da chi lo ha realizzato, ricorre senz’altro la fattispecie del primo comma dell’articolo 600-ter, cod. pen., se invece la circolazione del materiale è frutto di una successiva determinazione di chi l’ha creato dovranno trovare applicazione i commi seguenti dell’art. 600-ter, cod. pen., in questo caso deve essere escluso, infatti, che possa rivivere la disposizione del comma primo, in quanto si tratterebbe di restituire tipicità ad una condotta che tipica non era al momento della realizzazione del materiale».

L’art. 600-ter, cod. pen., infatti, precisa il Collegio, è articolato su una pluralità di fattispecie incriminatrici indipendenti l’una dall’altra ed ordinate secondo una scala di disvalore e l’incriminazione di una condotta è subordinata alla circostanza che essa non integri di per sé reato in base alle fattispecie previste nei commi precedenti.

Lo stesso meccanismo regola la norma di “chiusura” dell’articolo 600-quater rispetto all’articolo 600-ter, cod. pen.

La circostanza che colui che realizza il materiale non debba rispondere del reato del comma primo, perché la condizione di “utilizzazione” del minore si è solo successivamente realizzata, implica l’imputazione di responsabilità per i commi successivi, in quanto la clausola di esclusione dell’incipit dei commi terzo e quarto “al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma” vale solo nel caso in cui il produttore sia concretamente punibile.

La responsabilità dell’adulto per la successiva diffusione del materiale resterà esclusa solo per eventi imprevedibili a lui non imputabili e solo nel caso in cui mostri di avere adottato le necessarie cautele per scongiurare di non averla potuta impedire.

Se la circolazione del materiale realizzato sarà imputabile all’iniziativa successiva del minore, la responsabilità della circolazione incomberà su quest’ultimo atteso che l’articolo 600-ter, cod. pen., per tutte le ipotesi regolate ai commi terzo e quarto, fa indistintamente riferimento a chiunque e pertanto non consente di operare distinzioni tra minore adulto.

7. Irrilevanza del consenso del minore alla diffusione di immagini autoprodotte.

La pronuncia del giudice nomofilattico si chiude con l’affermazione che il minore non può prestare validamente consenso alla circolazione del materiale realizzato, come condivisibilmente da ultimo affermato anche dalla terza sezione nella decisione n. 5522 del 1/11/2019, ciò in quanto soggetto che presuntivamente non ha ancora raggiunto quel livello di maturità tale da consentirgli una valutazione davvero consapevole in ordine alle ricadute negative della mercificazione del suo corpo attraverso la divulgazione delle immagini erotiche, anche in considerazione del fatto che la circolazione stessa potrebbe essere ritardata nel tempo rispetto al momento della realizzazione delle immagini o dei video; ed anche perché, che come si rileva dalla formulazione dell’articolo 600-ter, cod. pen., l’interesse tutelato non è unicamente quello dei soli minori materialmente utilizzati, ma è collettivo e riferibile a tutti i minori, anche a quelli non direttamente coinvolti, giacché le condotte sanzionate dalle disposizioni esaminate rispondono alla finalità di scongiurare che essi siano ridotti a mero strumento di soddisfazione sessuale subendo un processo trainante di avvicinamento ad un fenomeno degradante anche per effetto della desensibilizzazione prodotta dalla visione delle immagini poste in circolazione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 3, n. 5522 del 21/11/2019, dep. 2020, G., Rv. 278091-02;

Sez. U., n. 51815 del 31/05/2018, M., Rv. 274087-02;

Sez. U., n. 4616 del 28/10/2021 (dep. 2022 ), D., Rv. 282718-01;

Sez. U., n. 4616 del 28/10/2021 (dep. 2022 ), D., Rv. 282718-03;

Sez. U., n. 4616 del 28/10/2021 (dep. 2022 ), D., Rv. 282718-04;

Sez. U., n. 4616 del 28/10/2021 (dep. 2022 ), D., Rv. 282718-05.

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE V - LEGISLAZIONE COMPLEMENTARE

  • reato
  • discriminazione politica
  • discriminazione razziale
  • codice penale

CAPITOLO I

LE PUBBLICHE MANIFESTAZIONI ESTERIORI DI IDEE DISCRIMINATORIE O RAZZISTE

(di Fulvio Filocamo )

Sommario

1 Il rapporto di specialità tra il reato di cui all’art. 2 del d.l. n. 122 del 1993, conv. con modif. in l. n. 205 del 1993 e quello di cui all’art. 5 l. n. 645 del 1952, come modif. dall’art. 11 l. n. 152 del 1975. - Indice delle sentenze citate

1. Il rapporto di specialità tra il reato di cui all’art. 2 del d.l. n. 122 del 1993, conv. con modif. in l. n. 205 del 1993 e quello di cui all’art. 5 l. n. 645 del 1952, come modif. dall’art. 11 l. n. 152 del 1975.

La Prima sezione, con sentenza n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, Scordo, Rv. 282914-02, ha affermato il principio di diritto così massimato: «Non sussiste rapporto di specialità fra il reato di cui all’art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella l. 25 giugno 1993, n. 205, che incrimina le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano nell’attualità idee discriminatorie o razziste, e quello di cui all’art. 5 della legge 26 giugno 1952, n. 645, come modificato dall’art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che sanziona il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni simboliche usuali o di gesti evocativi del disciolto partito fascista, non sussistendo un rapporto di necessaria continenza tra le due fattispecie, caratterizzate da un diverso ambito applicativo».

Una impostazione fondata su diversi presupposti appare seguita dalla sentenza sempre di Sez. 1, n. 3806 del 19/11/2021, dep. 2022, Buzzi, Rv. 282500, di poco antecedente, la quale ritiene, al contrario, che sussista detto rapporto di specialità ed è così massimata: «Il reato di cui all’art. 2, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205, che sanziona le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano idee discriminatorie o razziste, si differenzia da quello di cui all’art. 5 l. 26 giugno 1952, n. 645 (legge Scelba), che richiede che le medesime condotte siano idonee a determinare il pericolo concreto di riorganizzazione del disciolto partito fascista, ponendosi in rapporto di specialità con il primo».

In entrambi i casi la Corte ha deciso su ricorsi relativi alla qualificazione giuridica delle modalità di realizzazione di manifestazioni pubbliche commemorative, a cui avevano partecipato i relativi imputati, nel primo caso dei caduti della Repubblica sociale italiana e nel secondo dei caduti della “rivoluzione fascista”, ove erano state realizzate manifestazioni esteriori simboliche evocative del regime fascista. Le pronunce in oggetto, senza avere avuto la possibilità di confrontarsi tra loro in quanto la seconda resa anteriormente al deposito della prima, hanno richiamato il dato normativo di cui all’art. 5 l. n. 645 del 1952, come modificato dall’art. 11 della l. n. 152 del 1975, che sanziona il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni simboliche usuali o di gesti evocativi del disciolto partito fascista, e quello di cui all’art. 2 del d.l. n. 122 del 1993, convertito con modificazioni nella l. n. 205 del 1993 (legge Mancino), che incrimina le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano nell’attualità idee discriminatorie o razziste, oggi trasfuso, con l’art. 2, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 21 del 2018, nell’art. 604-bis cod. pen. Nella prima decisione in esame è stata annullata senza rinvio la sentenza d’appello impugnata che, nell’operazione di qualificazione giuridica del fatto, ha applicato il criterio di specialità considerando l’opzione interpretativa di pericolo concreto del reato previsto dalla legge Scelba rispetto a quello, ritenuto di pericolo presunto, previsto dalla legge Mancino. La seconda, invece, ha confermato l’esattezza della qualificazione giuridica del fatto da qualificarsi come reato ai sensi dell’art. 2 l. n. 205 del 1993, non essendo stata contestata l’idoneità degli atti a costituire un pericolo per la ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’art. 5 l. n. 645 del 1952. Entrambe le decisioni hanno riconosciuto che le fattispecie incriminatrici possono avere elementi di interferenza fattuale tra loro, poiché il fascismo ha promosso storicamente la discriminazione e la violenza anche per motivi razziali.

Ciò che distingue le due decisioni appare attenere all’applicabilità, nelle fattispecie rispettivamente esaminate, del criterio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen. In particolare la sentenza Sez. 1, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, premette che, ai fini dell’applicazione della norma antidiscriminatoria di cui alla legge Mancino, bisogna far riferimento all’art. 3, l. n. 654 del 1975 (oggi all’art. 604-bis cod. pen. in virtù del richiamo espresso di cui all’art. 8 d.lgs. n. 21 del 2018), secondo la quale il nesso di correlazione contenuto nella norma richiede che non si tratti di una organizzazione “storica” ma esistente e operante nel momento in cui viene posta in essere la condotta penalmente rilevante. Essa evidenzia, inoltre, come sia comunque possibile che il gruppo o movimento attualmente esistente “si richiami ad ideologie passate che hanno coltivato analoghi disvalori in punto di discriminazione o violenza per motivi razziali, tra cui l’ideologia fascista o nazista” ovvero che possa far uso dei medesimi simboli “ai fini di identificazione della matrice ideologica”. L’elemento caratterizzante della norma è così individuato nel nesso funzionale tra l’organizzazione o gruppo attualmente esistente e il simbolo (anche fascista o nazista) con cui svolge una reale attività di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali. Da ciò viene fatta derivare l’esclusione del rapporto di specialità tra le due diverse fattispecie incriminatrici. L’art. 15 cod. pen., infatti, dispone che: “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. La valutazione sulla possibile apparente corrispondenza delle diverse fattispecie va realizzato in relazione alla struttura delle stesse attraverso il confronto dei rispettivi elementi costitutivi della loro tipicità e non tramite elementi esterni a essa come il diverso canone interpretativo. Si cita in proposito l’orientamento di legittimità rappresentato da Sez. U., n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano e altri, Rv. 248864-01, secondo cui “in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (art. 15 cod. pen.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle” e Sez. U., n. 20664 del 23/02/2017, Stalla e altro, Rv. 269668-01, così massimata “nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 cod. pen., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore”. Da ciò deriva che solo la verifica della sussistenza di un rapporto di continenza basato sugli elementi strutturali delle diverse, sia pure simili, fattispecie può consentire di individuare l’elemento specializzante che consenta di applicare la disposizione speciale, salvo che sia diversamente stabilito. Sulla base di dette considerazioni, Sez. 1, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, appare discostarsi espressamente da Sez. 1, n. 21409 del 27/3/2019, Leccisi, Rv. 275894-01, così massimata: «il cd. "saluto romano" o "saluto fascista" (nella specie accompagnato dall’espressione "presenti e ne siamo fieri") è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati" nel d.l. n. 122 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 205 del 1993 "ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall’art. 2 del citato d.l.». In motivazione si afferma che il “saluto fascista” ben può rientrare nella previsione incriminatrice di cui all’art. 2 d.l. n. 122 del 1993, trattandosi di una “manifestazione gestuale che rimanda alla ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e intolleranza”, il tutto in una dimensione di pericolo astratto. Sono citate a supporto, Sez. 1, n. 25184 del 4/3/2009, Saccardi, Rv. 243792-01 e Sez. 3, n. 37390 del 10/7/2007, Sposato, Rv. 237311-01. La ragione del dissenso è individuata nella necessità di rispettare il principio di tassatività delle norme penali e la necessaria corrispondenza tra fatto storico contestato e fattispecie incriminatrice astratta. Viene, infatti, affermato come nelle decisioni sopra indicate non si sia esaminata l’inerenza delle manifestazioni o gestualità ad “associazioni o gruppi attivi e presenti nell’attualità che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, come richiesto dalla norma. Secondo Sez. 1, n. 3806 del 19/11/2021, dep. 2022, che, invece, ritiene applicabile il criterio di cui all’art. 15 cod. pen., la continenza sussiste sul presupposto che l’ideologia fascista sia discriminatoria e finalizzata all’odio razziale e che il legislatore, in occasione del d.l. n. 122 del 1993, ha voluto considerare come sovrapponibili le condotte incriminate, identiche anche dal punto di vista sanzionatorio. Il d.l. n. 122 del 1993, che ha introdotto la norma antidiscriminatoria (art. 2 della l. di conversione n. 205 del 1993), ha, infatti, mantenuto espressamente in vigore le norme della legge Scelba, sia pure sostituendo il comma secondo dell’art. 4, l. n. 645 del 1952 (con l’art. 4, l. n. 205 del 1993) prevedendo che: “Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione …”. Da ciò viene desunto che i gruppi o movimenti fascisti rientrino nella previsione della legge Mancino, con la differenza “specializzante”, rispetto all’art. 5 della l. n. 645 del 1952, come modificato dall’art. 11 della l. n. 152 del 1975, che la condotta vietata dalla legge Scelba richiede l’ulteriore specifico rischio concreto di ricostituzione del disciolto partito fascista. Le decisioni in oggetto sono comunque concordi nel considerare la condotta vietata di rievocazione storica del disciolto partito fascista attraverso un determinato comportamento simbolico come un reato di pericolo concreto cosicché, sulla base della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia, risultano punibili “soltanto quelle manifestazioni che determinino il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi” (Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, dep. 2017, P.M. in proc. Goglio e altri, Rv. 269753-01). La selezione della norma applicabile va, quindi, individuata, secondo la sentenza Sez. 1, n. 3806 del 19/11/2021, dep. 2022, nella concretezza del pericolo che, per l’art. 2, legge. n. 205 del 1993 quale norma generale, è relativa a “ogni concreto pericolo di diffusione di idee basate” sulla discriminazione o sull’odio razziale mentre, per la legge Scelba quale norma speciale, è relativa al pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista, come requisito specializzante. Sul punto, infatti, si afferma che, “ferma restando l’apparente omogeneità delle condotte sanzionate, incentrate sul compimento di atti esteriori simbolici dei gruppi che propugnano le idee vietate ... la condotta vietata dalla legge Scelba richiede altresì uno specifico rischio che, invece, non è richiesto dalla fattispecie generale di cui all’art. 2, legge. n. 205 del 1993”. Dal punto di vista probatorio, viene conseguentemente affermato che alla condotta la quale richiami l’ideologia fascista o nazista, in virtù della presunzione discriminatoria e razziale della legge Scelba, può applicarsi la norma della legge Mancino senza doversi procedere all’accertamento della natura vietata dell’organizzazione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 3, n. 37390 del 10/7/2007, Sposato, Rv. 237311-01;

Sez. 1, n. 25184 del 4/3/2009, Saccardi, Rv. 243792-01;

Sez. U., n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano e altri, Rv. 248864-01;

Sez. 1, n. 11038 del 02/03/2016, dep. 2017, P.M. in proc. Goglio e altri, Rv. 269753-01;

Sez. U., n. 20664 del 23/02/2017, Stalla e altro, Rv. 269668-01;

Sez. 1, n. 21409 del 27/3/2019, Leccisi, Rv. 275894-01;

Sez.1, n. 7904 del 12/10/2021, dep. 2022, Scordo, Rv. 282914-02;

Sez. 1, n. 3806 del 19/11/2021, dep. 2022, Buzzi, Rv. 282500-01.

  • reato
  • abusivismo edilizio

CAPITOLO II

QUESTIONI IN TEMA DI DEMOLIZIONE DELLE OPERE ABUSIVE

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’omessa revoca dell’ordine di demolizione delle opere abusive e dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, conseguente all’annullamento senza rinvio della condanna per reati edilizi. - 3 Ordine di demolizione e reato di cui all’art. 44, comma 1, lett a) d.P.R. n. 380 del 2001. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno 2022 la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata ripetutamente su problematiche afferenti la disciplina dell’ordine di demolizione accessorio alla condanna per reati edilizi, in alcuni casi implementando la giurisprudenza preesistente sui temi già segnalati nella rassegna dell’anno 2021, in altri affrontando questioni nuove.

Tra queste ultime meritano una specifica menzione le pronunce di Sez. 3, n. 44465 del 02/11/2022, Paragliola, Rv. 283908-01 e Sez. 3, n. 18073 del 01/02/2022, Salinas, Rv. 283133-01.

2. L’omessa revoca dell’ordine di demolizione delle opere abusive e dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, conseguente all’annullamento senza rinvio della condanna per reati edilizi.

Tra le questioni processuali di maggiore interesse si segnala la sentenza di Sez. 3, n. 44465 del 02/11/2022, Paragliola, Rv. 283908-01 in cui si è affermato il principio in base al quale «l’omessa revoca dell’ordine di demolizione delle opere abusive e dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, conseguente all’annullamento senza rinvio della condanna per reati edilizi commessi in zona vincolata, costituisce errore materiale emendabile con il procedimento di correzione ex art. 130 cod. proc. pen., nel caso in cui la decisione annullata sia antecedente all’entrata in vigore dell’art. 625-bis cod. proc. pen., essendo escluso, in tale ipotesi, qualsiasi margine di discrezionalità del giudice».

Nella specie, i ricorrenti avevano chiesto la correzione dell’errore materiale contenuto nella sentenza pronunciata dalla Suprema Corte che, nel dichiarare estinti per prescrizione tutti i reati contravvenzionali in materia edilizia ascritti al proprio dante causa, aveva annullato senza rinvio la pronuncia impugnata resa dalla Corte di appello che aveva, a sua volta, confermato la condanna disposta Gip della Pretura Circondariale di Napoli rideterminando la pena in relazione al reato residuo di violazione dei sigilli, omettendo, tuttavia, di revocare le statuizioni accessorie alla condanna relative all’ordine di demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.

Rilevavano come la suddetta omissione «costituisse una mera dimenticanza materiale attesa la natura automatica della revoca delle statuizioni accessorie che presuppongono la sussistenza di una pronuncia di condanna», come previsto dall’art. 31, comma 9, d.P.R. 380 del 2001, e che la correzione era da ritenersi urgente attesa la pendenza del procedimento esecutivo attivato per effetto dell’ingiunzione demolitoria disposta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente.

I giudici della Terza Sezione, hanno accolto il ricorso affermando che nella fattispecie non si era in presenza di un error in judicando, emendabile solo attraverso l’impugnazione della sentenza, ma di vicenda processuale per la quale era possibile far ricorso alla procedura di correzione, tenuto conto che nel caso di specie essendo la sentenza risalente al 18 dicembre 1998, non poteva trovare applicazione il rimedio previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. che, sebbene riferito agli errori materiali o agli errori di fatto contenuti nelle pronunce della Corte di Cassazione, non era ancora in vigore, essendo avvenuta la sua introduzione nell’impianto codicistico con la legge n. 128 del 26.03.2001.

A tale conclusione i giudici della Terza Sezione sono pervenuti dopo un’accurata analisi della giurisprudenza di legittimità sul tema.

In primo luogo hanno dato conto dell’esistenza di un primo risalente indirizzo che, nel sottolineare l’effetto automatico derivante dall’estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva sull’ordine di demolizione che ne viene ipso jure travolto, ha ritenuto non accoglibile l’istanza di correzione di errore materiale proposta nei confronti di una precedente pronuncia della Corte di legittimità nella quale non vi era stata revoca espressa dell’ordine di demolizione contestualmente all’annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato (Sez. 3, n. 3099 del 06/10/2000, Bifulco, Rv. 217853-01; Sez. 3,n. 10209 del 20/02/2006,Riillo, Rv. 233673-01).

Hanno successivamente precisato che detta posizione è stata superata dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 7945 del 31 gennaio 2008, Boccia, Rv. 238426-01, che ha ampliato l’ambito di applicabilità della procedura di correzione di errore materiale, fino ad allora limitato ai soli casi di errori emendabili che non determinassero una modificazione sostanziale della precedente decisione, affermando che «la omissione di una statuizione obbligatoria di natura accessoria e a contenuto predeterminato non determina nullità e non attiene a una componente essenziale dell’atto, onde ad essa può porsi rimedio con la procedura di correzione di cui all’art. 130 cod. proc. pen.»; e che la speciale procedura era applicabile anche ai casi si errore omissivo caratterizzato da una divergenza “tra l’espressione usata dal giudice e quanto egli, pur nell’assenza di dirette risultanze della sua volontà in tal senso, avrebbe comunque dovuto univocamente esprimere in forza di un obbligo normativo”, giustificando tale assunto in base al fatto che l’art. 130 cod. proc. pen., non impone che il risultato della correzione da effettuare debba essere stato imprescindibilmente oggetto della effettiva volontà cosciente del giudice essendo richiesto, esclusivamente, che dall’errore non derivi la nullità dell’atto e che la sua rimozione non ne determini una modificazione essenziale, con la conseguenza che non può ritenersi inibita la correzione comportante l’applicazione automatica di quanto imposto dall’ordinamento, sempreché l’omissione non sia conseguenza di specifica deliberazione da parte del giudice.

Alla luce di quanto precisato dalle Sezioni Unite, i giudici della sentenza Paragliola hanno affermato la legittimità del ricorso al procedimento di correzione dell’errore materiale per l’omessa revoca delle sanzioni amministrative accessorie di natura obbligatoria ed a contenuto predeterminato – tra le quali appunto rientrano l’ordine di demolizione del manufatto abusivo e quello di rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese del condannato - poiché le stesse, in ragione della loro natura, escludono qualsivoglia margine di discrezionalità per il giudice.

E ciò anche in considerazione del fatto che non possono ritenersi ricomprese nelle competenze del giudice dell’esecuzione, stante il divieto di applicazione analogica dell’art. 676 cod. proc. pen. in quanto derogatorio al principio generale della irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali definitivi di cui all’art. 648 c.p.p., quelle relative alle sanzioni amministrative accessorie, strutturalmente diverse sia dalle pene accessorie che dalla confisca (Sez. 3, n. 10067 del 2/12/2009).

I giudici della Terza Sezione hanno altresì dato conto della sussistenza di un orientamento contrapposto, evidenziando che la disomogeneità dei due filoni interpretativi si giustifica alla luce delle differenti fattispecie decise.

L’omessa revoca dell’ordine di demolizione, si precisa, può infatti collegarsi sia al venir meno della pronuncia di condanna, ad esempio per assoluzione dell’imputato o per intervenuta estinzione del reato edilizio cui accede, sia per il verificarsi di condizioni fattuali sopraggiunte all’ordine stesso che ne determinano la necessità di revoca, si pensi, ad esempio, e in via meramente esemplificativa, alla avvenuta demolizione in esecuzione del relativo ordine impartito dall’autorità amministrativa, ovvero all’eventuale acquisizione del manufatto abusivo al patrimonio comunale in forza di una delibera che abbia dichiarato la sussistenza di prevalenti interessi pubblici.

Le due ipotesi, si chiarisce nel provvedimento, comportano una diversa gradazione del potere decisorio del giudice posto che nel primo caso la revoca dell’ordinanza è vincolata mentre nella seconda si configura come discrezionale essendovi la necessità di verificare la sussistenza delle condizioni fattuali che hanno determinato la misura.

Alla luce di tali considerazioni, quindi, la Suprema Corte ha ridimensionato il contrasto con una pluralità di successive pronunce che hanno escluso l’esperibilità del procedimento di cui all’art. 130 cod. proc. pen. evidenziando trattarsi di arresti riferiti al diverso caso in cui era stata omessa la pronuncia dell’ordine di demolizione con la sentenza dì condanna per reati edilizi (Sez. 3, n. 33642 del 21/04/2022, Laudani, Rv. 283473-01; Sez. 3, n. 33939 del 04/07/2006,Salata, Rv. 235052-01; Sez. 3, n. 17380 del 22/03/2007, Ruocco, Rv. 236494-01; Sez. 3, n. 4751 del 13/12/2007, Gabrielli, Rv. 239070-01).

3. Ordine di demolizione e reato di cui all’art. 44, comma 1, lett a) d.P.R. n. 380 del 2001.

In Sez. 3, n. 18073 del 01/02/2022, Salinas, Rv. 283133-01 si è affermato il principio secondo il quale, qualora il giudice pronunci condanna per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, che sanziona la inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal Tit. IV del T.U. Urb. in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire, può ordinare la demolizione delle opere abusive, posto che l’art. 31 del citato d.P.R. fa indistinto riferimento al “reato di cui all’art. 44”, senza ulteriori specificazioni.

I giudici di legittimità, osservato che nello spettro delle condotte punite dall’art. 44, lett. a), d.P.R. n.380 del 2001, rientrano tutte le opere realizzate in difformità dal permesso di costruire, comprese quelle realizzate in variazione essenziale, che costituiscono pur sempre una species del genus “difformità” (Sez. 3, n. 41167 del17/04/2012, Rv. 253599-01; Sez. 3, n. 8316 del 25/01/2005, Rv. 230977-01), disattendono, quindi consapevolmente l’insegnamento giurisprudenziale secondo il quale il giudice, ove pronunci condanna per il reato di cui all’art. 44, comma1, lett. a), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 non può ordinare la demolizione delle opere abusive, in quanto quest’ultima si applica esclusivamente agli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali (così Sez. 3, n. 41423del 29/09/2011, Rv. 251326-01, e Sez. 3, n. 49991 del30/04/2014, Rv. 261595-01).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 3, n. 3099 del 06/10/2000, Bifulco, Rv. 217853-01;

Sez. 3, n. 8316 del 25/01/2005, Rv. 230977-01;

Sez. 3, n. 10209 del 20/02/2006, Riillo, Rv. 233673-01;

Sez. 3, n. 33939 del 04/07/2006, Salata, Rv. 235052-01;

Sez. 3, n. 17380 del 22/03/2007, Ruocco, Rv. 236494-01;

Sez. 3, n. 4751 del 13/12/2007, Gabrielli, Rv. 239070-01;

Sez. U., n. 7945 del 31/01/2008, Boccia, Rv. 238426-01;

Sez. 3, n. 41423 del 29/09/2011, Rv. 251326-01;

Sez. 3, n. 41167 del 17/04/2012, Rv. 253599-01;

Sez. 3, n. 49991 del 30/04/2014, Rv. 261595-01;

Sez. 3, n. 18073 dell’01/02/2022, Salinas, Rv. 283133-01;

Sez. 3, n. 33642 del 21/04/2022, Laudani, Rv. 283473-01;

Sez. 3, n. 44465 del 02/11/2022, Paragliola, Rv. 283908-01.

  • reato
  • giurisdizione amministrativa
  • professioni del settore turistico
  • spazio marittimo
  • terreno demaniale
  • direttiva (UE)

CAPITOLO III

LE CONCESSIONI DEMANIALI E L’ANNOSA QUESTIONE DELLA PROROGA EX LEGE: TENSIONI TRA DIRITTO INTERNO E DIRITTO COMUNITARIO. LE ATTUALI EVOLUZIONI GIURISPRUDENZIALI

(di Maria Eugenia Oggero )

Sommario

1 Breve excursus sulla normativa interna e comunitaria in tema di concessioni demaniali marittime. - 2 La giurisprudenza amministrativa più recente. - 3 Le pronunce della Terza Sezione penale della Corte di cassazione nell’anno 2022. - Indice delle sentenze citate

1. Breve excursus sulla normativa interna e comunitaria in tema di concessioni demaniali marittime.

Nel corso dell’anno 2022, la Terza Sezione penale ha nuovamente affrontato l’annoso tema inerente il regime giuridico e la durata delle concessioni demaniali marittime, ad uso turistico ricreativo in particolare, nella misura in cui, in virtù dell’assunta mancanza del titolo concessorio, sia ipotizzabile, in capo all’operatore turistico, il reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

Giova premettere come, da ultimo, con l’art. 10-quater, comma 3, d. l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in legge 24 febbraio 2023, n. 14, sia stata ancora una volta disposto un differimento dell’efficacia delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, operazione che si pone nel solco dei pregressi interventi di proroga, già ripetutamente disposti dal legislatore (d. l. 30 dicembre 2009, n. 194, conv., con modificazioni, in legge 26 febbraio 2010, n. 25, e successivi, sino alla legge 30 dicembre 2018. n. 145, poi abrogata dalla legge 5 agosto 2022, n. 118, intitolata “Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”, seguita ai noti pronunciamenti del Consiglio di Stato di cui infra) e finalizzate a regolare la questione dell’assetto giuridico delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, in relazione alla compatibilità del diritto interno con il diritto unionale.

Il tema afferisce all’affidamento e al rinnovo delle concessioni demaniali disciplinate dal codice della navigazione, che - tradizionalmente - avevano luogo senza alcuna procedura di selezione tesa a garantire la libera concorrenza tra i potenziali aggiudicatari e comunque con un regime di preferenza (sulla base del “diritto di insistenza”) per il concessionario in essere.

È noto come l’art. 49 TFUE e la direttiva cd. Bolkestein (direttiva 2006/123/CE) abbiano posto in termini dirompenti per il settore il tema della (in)compatibilità di tale risalente assetto giuridico di diritto interno rispetto, appunto, alla disciplina euro-unitaria in materia di libera concorrenza e di libertà di stabilimento e come il legislatore nazionale sia più volte intervenuto in argomento, non senza introdurre nuove criticità alla disciplina in materia.

Per focalizzare l’attenzione soltanto sui passaggi più recenti, con l’art. 1, commi 682 e ss., della legge 30 dicembre 2018. n. 145 (legge finanziaria per il 2019), era stata disposta dal legislatore nazionale una proroga automatica sino al gennaio 2034 delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative in essere alla data di entrata in vigore della legge medesima: proroga ex lege poi ribadita dall’art. 182, comma 2, d. l. 19 maggio 2020, n. 34, conv., con modificazioni, in legge 17 luglio 2020, n. 77 e, ancora, dall’art. 100, comma 1, d. l. 14 agosto 2020, n. 104, conv., con modificazioni, in legge 13 ottobre 2020, n. 126 (normative volte ad affrontare le problematiche economiche causare dall’emergenza epidemiologica da COVID-19).

2. La giurisprudenza amministrativa più recente.

La giurisprudenza amministrativa, con due note decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del novembre 2021 (si tratta delle sentenze “gemelle” nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021), affrontando il tema in esame ed occupandosi, specificamente, del dovere del funzionario pubblico - prima ancora che del giudice nazionale - di non applicare la norma interna contrastante con il diritto comunitario, ha fissato alcuni principi di diritto rilevanti in ordine al regime giuridico delle concessioni demaniali balneari, del resto in linea con la pregressa giurisprudenza dello stesso giudice amministrativo e della Cassazione penale (per quest’ultima, cfr. Sez. 3, n. 21281 del 16/03/2018, Ragusi, Rv. 273222-01).

Secondo il giudice amministrativo, le norme nazionali che hanno disposto (e che, in futuro, dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreativa contrastano con il diritto comunitario (art. 49 TFUE e art. 12 della direttiva 2006/123/CE) e, pertanto, non debbono essere applicate né dai giudici, né dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che, anche nel caso in cui siano stati rilasciati atti di proroga dall’amministrazione, è esclusa la sussistenza di ogni legittimazione alla prosecuzione del rapporto da parte del concessionario.

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, riprendendo il filo dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, ha riaffermato, in coerenza con i principi già sottesi a decisioni risalenti, in primis, rispetto alla nota sentenza della Corte costituzionale 8 giugno 1984, n. 170 (“Granital”), che al funzionario e al giudice nazionale è attribuito il potere/dovere di non applicare la norma interna in contrasto con il diritto europeo; contrasto che, nel caso, è stato ritenuto senz’altro evidente e già acclarato, a seguito di rinvio pregiudiziale, dalla decisione della CGUE del 14/07/2016 -cause riunite C-458/14 e C-67/15.

Il Consiglio di Stato, ricordando la ratio e gli obiettivi sottesi all’art. 49 TFUE e all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, ha concluso affermando che il diritto dell’Unione impone che il rilascio ed il rinnovo delle concessioni demaniali marittime abbia luogo solo all’esito di una procedura ad evidenza pubblica. Ne è scaturita quindi la prognosi di netta incompatibilità della indicata disciplina interna, che prevedeva la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2018.

Ancora, è stato sancito, in quella sede, che le proroghe eventualmente disposte in applicazione di tale disciplina dovevano e debbono considerarsi tamquam non esset, in ragione del fatto che la legge-provvedimento (caratterizzata dall’intervenire su di un numero limitato di casi, alla stregua di un provvedimento amministrativo, invece che disporre, come è tipico della legge, in via generale e astratta), nel caso risulta contrastare con il diritto europeo e quindi non può essere applicata, come parimenti dovrà avvenire anche per gli eventuali atti applicativi, destinati ad identica sorte.

Il giudice amministrativo ha ritenuto infine di dovere tenere in considerazione le situazioni estremamente critiche che si sarebbero create, qualora le decisioni in tal senso avessero immediatamente prodotto effetti, spingendosi ad introdurre una regola volta a stemperare, nel tempo, gli effetti delle proprie decisioni.

Tale contenimento cronologico è stato giustificato sulla base dell’incertezza normativa e amministrativa del contesto, in definitiva sancendo che le concessioni in essere e la cui durata era stata, almeno nelle intenzioni, prorogata dal citato art. 1 della legge n. 145 del 2018, avrebbero conservato efficacia fino al 31 dicembre 2023.

Tale assetto è stato poi recepito dal legislatore agli artt. 3 e 4 della legge (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021) del 5 agosto 2022, n. 118, che, abrogando anche espressamente le citate norme di proroga di cui all’art. 1 della legge n. 145 del 2018 recanti la previsione del differimento al 2033, ha previsto analoga tempistica di scadenza delle concessioni (appunto al 31 dicembre 2023), termine oggi ulteriormente differito - con decisione connotata da intuitive, possibili criticità, stanti i suddetti principi e precedenti - dall’art. 10-quater, comma 3, d. l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in legge 24 febbraio 2023, n. 14.

Tanto che, con la sentenza del Cons, St, Sez. 6, 01/03/2023, n. 2192, in coerenza con le decisioni dell’Adunanza Plenaria di cui si è detto - in particolare, nella parte in cui precisano che anche le eventuali, future proroghe delle concessioni disposte dal legislatore, sarebbero state in contrasto con la disciplina euro-unitaria - l’art. 10- quater, comma 3, d. l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in legge 24 febbraio 2023, n. 14, è stato ritenuto in frontale contrasto con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, nella parte in cui prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere.

3. Le pronunce della Terza Sezione penale della Corte di cassazione nell’anno 2022.

Tratteggiate, sia pure per sommi capi, le più recenti evoluzioni sul tema, è opportuno incentrare l’analisi sulle pronunce che, in sede di legittimità, sono state emesse sul tema nell’anno 2022, originate da contestazioni, nei confronti di concessionari, del reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

Con la sentenza n. 15676 del 13/04/2022 (dep. 2022), Galli, la Terza Sezione è stata investita, in sede cautelare, dell’impugnazione avverso l’ordinanza di annullamento, da parte del Tribunale del Riesame, del dissequestro disposto dal GIP del Tribunale di Genova: ne era seguito il ripristino del sequestro preventivo già disposto con decreti 12.07.2019 e 08.11.2021 su un complesso balneare, appunto in relazione al reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

In origine, il giudice delle indagini preliminari aveva rigettato l’istanza di sequestro - a fronte dell’ipotizzato reato di cui all’art. 1161 cod. nav., - sul rilievo che il concessionario avesse fatto legittimo affidamento sulla comunicazione, lui indirizzata, con cui il Comune aveva recepito due precedenti leggi di proroga, fino al 31/12/2020, delle concessioni demaniali.

Il Tribunale del Riesame aveva confermato il provvedimento di rigetto dell’istanza, ritenendo insussistente il fumus in relazione all’elemento materiale del reato e assumendo che non fosse nei poteri del giudice disapplicare la normativa nazionale contenente la previsione dei rinnovi automatici delle concessioni demaniali, per contrasto con la direttiva n. 123/2006/CE (cd. direttiva Bolkestein), sul rilievo che la disapplicazione avrebbe finito per tradursi nell’applicazione in malam partem di tale normativa.

Successivamente la Corte di Cassazione, con sentenza del 06/03/ 2019, n. 25993 aveva annullato con rinvio la decisione del Tribunale del Riesame, rilevando l’inapplicabilità delle leggi di proroga alle concessioni già scadute e mai prorogate, neppure tacitamente.

Uniformandosi al menzionato principio di diritto, con ordinanza del 12.07.2019 il Tribunale del Riesame, in funzione di giudice di rinvio, aveva disposto il sequestro preventivo del tratto di arenile su cui insiste lo stabilimento balneare, misura successivamente confermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10218 del 07.02.2020, che aveva rigettato il ricorso formulato dalla difesa.

Con la successiva ordinanza del 3.12.2021, il medesimo GIP, accogliendo istanza difensiva finalizzata ad ottenere il dissequestro, aveva tuttavia revocato il vincolo, tanto sull’arenile quanto sull’immobile ivi insistente (nel frattempo, anch’esso sottoposto a vincolo reale), osservando che, a causa dell’errore incolpevole per effetto dell’oggettiva complessità del quadro normativo, non potesse esigersi che l’indagato ponesse fine all’occupazione.

Avverso tale decisione aveva interposto impugnazione il PM, ottenendo dal Tribunale del Riesame, con ordinanza del 27.12.2021 l’annullamento del provvedimento di dissequestro del GIP, con conseguente ripristino del vincolo cautelare sull’intera area, provvedimento impugnato con ricorso per cassazione, da cui è scaturita la decisione in oggetto.

Ciò premesso, la Corte ha riscontrato l’avvenuta formazione del cd. “giudicato cautelare” sulla questione relativa all’inapplicabilità della proroga automatica ex art. 1, comma 18, d. l. 30 dicembre 2009, n. 194 (conv. in legge 26 febbraio 2010, n. 25) alla concessione demaniale de qua, rilasciata nel 1998 e scaduta il 31 dicembre 2009, senza essere mai stata oggetto di proroghe.

Il tema posto dalla difesa e affrontato dalla Corte riguarda la configurabilità del novum, rispetto al giudicato cautelare, e l’assunta idoneità a superarlo, costituito dalle citate sentenze del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 9 novembre 2021.

Ha assunto la difesa ricorrente che, se è vero che la decisione del supremo giudice amministrativo ha sancito la disapplicazione della disciplina nazionale interna in materia contrastante con quella euro-unitaria, la medesima sentenza avrebbe anche incidentalmente precisato come non potevano conseguirne effetti penali in malam partem per il concessionario, ai fini della ipotizzata configurabilità del reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

Ad avviso della Corte di cassazione, secondo gli argomenti tratti dalla decisione dell’Adunanza Plenaria - per cui, disapplicata la normativa nazionale che ha ripetutamente disposto le proroghe automatiche delle concessioni demaniali turistico-ricreative, in contrasto con quella sovranazionale, non sarebbe comunque possibile determinare effetti penali in malam partem - deve concludersi per l’esclusiva incidenza sulle concessioni demaniali marittime turistico-ricreative rientranti nell’ambito della disciplina di proroga, normativa che non trova applicazione nel caso di specie.

La Suprema Corte osserva che il Consiglio di Stato, con le sentenze n. 17 e 18 del 2021 - in aggiunta all’acclarata incompatibilità comunitaria della disciplina nazionale di proroga ex lege delle concessioni demaniali già rilasciate per contrasto con gli artt. 49 e 56 TFUE, con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE e, ancora, rispetto ai principi enunciati dalla sentenza CGUE 14/07/2016 -, si è limitato ad evidenziare l’inconsistenza dei timori in relazione alle possibili ripercussioni in termini di responsabilità penale che sarebbero derivate dalla disapplicazione della normativa interna per contrasto con la normativa europea della normativa nazionale.

Secondo l’Adunanza Plenaria, non sono infatti condivisibili le preoccupazioni di quanti hanno ventilato possibili ripercussioni, in termini di responsabilità penale, nei confronti dei concessionari che, venute meno le proroghe ex lege per effetto della disapplicazione della norma che le dispone, si sarebbero trovati privi di titolo legittimante l’occupazione e quindi nell’astratta condizione di incorrere nel reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

Nessun timore può essere fondatamente nutrito, in quanto i principi costituzionali di riserva di legge statale e di irretroattività della legge penale - patrimonio giuridico degli Stati-membri e contro-limite alla primauté del diritto comunitario - sono d’ostacolo a che, dalla disapplicazione di una norma interna “anti-comunitaria”, possano conseguire effetti penali diretti in malam partem.

Affermato il principio della disapplicazione del diritto interno in quanto incompatibile con la disciplina euro-unitaria, è stato chiarito come tale operazione non possa dunque avere conseguenze in ordine alla responsabilità penale individuale.

Nell’esigenza di modulare nel tempo gli effetti, ritenuti dirompenti, della decisione, annota la Corte, il Consiglio di Stato ha altresì ritenuto congruo, come visto, differire al 31 dicembre 2023 l’operatività della decisione, nella speranza di un intervento legislativo che si desse carico di predisporre una disciplina tesa al riordino della materia, in senso conforme alla normativa comunitaria e, precipuamente, al rispetto dei principi di libera concorrenza, del mercato.

Alla luce del quadro tratteggiato, la Corte è dunque giunta a concludere, con riferimento al caso di specie, che le decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 17-18 del 2021 non erano atte a scalfire i principi cristallizzati nel “giudicato cautelare”, posto che, se l’Adunanza Plenaria ha differito al 31/12/2023 la disapplicazione della normativa nazionale di proroga delle concessioni demaniali ludico-ricreative, tale differimento riguarda soltanto le concessioni che hanno beneficiato delle proroghe ex lege, e tale non è la concessione facente capo al ricorrente, rilasciata nel 1998 e scaduta, senza essere mai stata oggetto di alcuna proroga.

Riguardo al peculiare profilo processuale della ventilata possibilità di revoca, ex art. 321, comma 3, cod. proc. pen., del sequestro preventivo oggetto di decisione, la Corte ha pertanto escluso che le decisioni del massimo Consesso della giustizia amministrativa potessero ascriversi al genus dei “fatti sopravvenuti”, incidenti sulle condizioni di applicabilità della misura cautelare reale, non assumendo le medesime rilevanza alcuna con riferimento a titoli concessioni scaduti e per i quali non è stata mai attivata la proroga ex lege.

È stato pure escluso dalla Corte che, nella specie, potesse dubitarsi circa la sussistenza dell’elemento psicologico del reato di occupazione abusiva di suolo demaniale, sul rilievo che l’acquiescenza dell’amministrazione verso il concessionario, in quanto fatto meramente negativo, non è idoneo ad ingenerare quel convincimento scusabile circa la liceità del comportamento di rilievo amministrativo, valutabile quale esimente, gravando per contro sull’operatore professionalmente attrezzato l’onere di informazione relativamente alla disciplina del settore in cui opera, onere che cede soltanto di fronte a peculiari comportamenti positivi della pubblica amministrazione ovvero per effetto di un pacifico orientamento giurisprudenziale dal quale l’agente tragga la convinzione circa la liceità del suo comportamento (cfr. Sez. U., n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885-01, Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015, Basile, Rv. 265424-01).

A pochi giorni di distanza dalla ora analizzata decisione n. 15676 del 13 aprile 2022 (dep. 2022), la Sezione Terza si è nuovamente pronunciata in argomento con sentenza n. 20737 del 28 aprile 2022, Messina e altri.

Nel caso, il ricorrente lamentava del pari l’omessa valutazione, nel giudizio cautelare, degli argomenti concernenti l’incidenza, rispetto all’ipotizzato reato di cui all’art. 1161 cod. nav., dei principi di cui alle sentenze nn. 17 e 18 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Si tratta delle questioni di cui si è dato conto, sulla cui base la Corte, preso atto della lacuna motivazionale della decisione impugnata, ha ravvisato la fondatezza del motivo, disponendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza del Tribunale del Riesame.

Il Collegio - richiamando la propria giurisprudenza (cfr. Sez. 3, n. 4763 del 24/11/2017 (dep. 2018), P.M. in proc. Pipitone, Rv. 272031-01) sulle condizioni di configurabilità del reato di occupazione arbitraria di spazio demaniale - ha invitato il giudice del rinvio ad accertare se la concessione in oggetto avesse o meno fruito della proroga ex lege di cui all’art. 1, comma 18, d. l. n. 194 del 2009, come convertito.

Tale accertamento, ha precisato la Corte, è essenziale ai fini, sia della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, sia per la valutazione del relativo dolo, <<posto che, l’eventuale disapplicazione ex tunc della normativa che via via ha prorogato la scadenza delle concessioni potrebbe comportare un’indebita interpretazione in malam partem, in quanto essa avrebbe l’effetto di rendere illegittima l’occupazione del demanio in un momento in cui, come detto, i ricorrenti facevano affidamento sulla legittimità del titolo e, in ogni caso, sulla proroga ex lege per effetto di un atto normativo, quale l’indicato art. 1, comma 18, D.L. n. 194 del 2009>>.

Pertanto, ha disposto a tale fine l’annullamento della decisione con rinvio per nuovo esame al Tribunale per il Riesame di Napoli.

A fine anno, la Terza Sezione ha poi emesso la ulteriore sentenza n. 404 del 14 dicembre 2022 (dep. 2023), PMT C/Giraldi, Rv. 283919-02, Rv. 283919-01, oggetto di duplice massimazione, nei seguenti termini.

“In tema di occupazione abusiva dei beni del demanio marittimo, la proroga "a tempo" dell’efficacia delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, introdotta dall’art. 3, comma 3, della legge 5 agosto 2022, n. 118, non si applica alle concessioni scadute prima del 27 agosto 2022, data di entrata in vigore della normativa. (Fattispecie relativa a concessione demaniale marittima rilasciata in data 01/01/2002 per la durata di sei anni e non automaticamente rinnovata perché scaduta, per mancato pagamento del canone, prima della proroga disposta "ex lege" dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, applicabile alle sole concessioni valide ed efficaci al momento dell’entrata in vigore del decreto).”.

“Integra il reato di cui all’art. 1161 cod. nav. l’occupazione dello spazio demaniale marittimo protrattasi oltre la scadenza della concessione, nel caso in cui quest’ultima sia avvenuta antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25, che ha prorogato l’efficacia delle sole concessioni demaniali al momento in essere, a nulla rilevando la mancata attivazione, da parte dell’Amministrazione, del procedimento di decadenza dal titolo per l’omesso pagamento del canone concessorio, di cui all’art. 47, comma 1, lett. d), cod. nav.”.

Ancora una volta, si tratta di decisione emessa in ambito cautelare reale, concernendo un ricorso del pubblico ministero avverso la revoca del sequestro preventivo disposta dal Tribunale del Riesame in relazione ad un complesso di opere ricadenti in area demaniale marittima, in quanto prive di titolo concessorio ed essendo quindi configurabile, in tesi, sempre il reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

La concessione demaniale marittima risultava essere stata rilasciata in capo alla società dell’indagato, per la durata di sei anni, in data 18.03.2002 (con validità dal 1.01.2002 al 31.12.2007). Era prevista la clausola di rinnovo automatico in forza dell’art. 1, comma 2, d. l. n. 400 del 1993, conv. con modificazioni, in legge n. 494 del 1993, come sostituito dall’art. 10, legge n. 88 del 2001 e, ancora, dalla legge n. 217 del 2011 (contenente la disciplina volta a favorire la definizione della procedura d’infrazione a carico dello Stato, avviata dalla Commissione Europea).

Il punto 10 delle condizioni indicate nella concessione demaniale in questione stabiliva il tacito rinnovo della concessione subordinato al pagamento dei canoni e al versamento dei depositi cauzionali entro il termine stabilito, a pena di decadenza e con l’onere di sgombero e riconsegna.

In tale quadro, la concessione non poteva ritenersi in vita al momento dell’introduzione del regime delle proroghe di cui al d.l. n. 194 del 2009 (conv., con modificazioni, in legge n. 25 del 2010) e successive modifiche ed integrazioni, per cui, a fronte della perdurante occupazione dell’area, doveva ritenersi configurabile il reato di occupazione abusiva di suolo demaniale, giusta la mancanza del titolo legittimante l’occupazione.

La Corte ha proceduto ad una puntuale ricostruzione del quadro normativo in tema di concessioni demaniali, con particolare riferimento alle modalità di assegnazione delle concessioni demaniali marittime, laddove l’originaria, tradizionale previsione, ex art. 37 cod. nav., del c.d. “diritto di insistenza” in favore del precedente concessionario in sede di rinnovo, si poneva in contrasto con la disciplina euro-unitaria (direttiva 2006/123/CE- cd. Bolkestein).

Tale disciplina era stata quindi abrogata, con d. l. n. 194 del 2009, conv., con modificazioni, in legge n. 25 del 2010, che contestualmente aveva previsto la proroga ex lege delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del decreto.

La Corte ha escluso la rilevanza, nella specie, della questione relativa alla proroga automatica delle concessioni, interessata, da ultimo, dall’art. 1, commi 682 e 683, della legge n. 145 del 2018, dichiarata incompatibile alla luce della direttiva 2006/123/CE, in quanto essa presupponeva l’esistenza di un titolo valido ed efficace, non già un titolo, come quello di specie, scaduto anteriormente alla normativa interna che ha ripetutamente prorogato, a partire dall’art. 1, comma 18, d. l. n. 194 del 2009, come convertito.

Il Collegio ha altresì rimarcato come difettassero comunque gli estremi per il rinnovo automatico, a causa dell’assenza dei presupposti, tra cui la regolare corresponsione dei canoni dovuti alla data della scadenza, oltre alla sottoscrizione e alla registrazione di un titolo valido, al quale ostava anche il mancato pagamento delle imposte regionali.

In conclusione, osservando come la concessione rilasciata alla società con scadenza al 31.12.2007 non poteva ritenersi esistente al momento dell’entrata in vigore del decreto legge n. 49 del 2009 - e quindi non poteva essere stata oggetto di proroga - la Corte ha ritenuto che la concessione demaniale in questione fosse scaduta, non prorogata e non prorogabile e che non avesse alcun rilievo la mancata attivazione del procedimento di decadenza da parte dell’amministrazione per mancato pagamento dei canoni, il cui relativo richiamo operato dal Tribunale del Riesame è stato ritenuto pertanto inconferente.

A fronte di tale quadro e ravvisata la configurabilità del reato di cui all’art. 1161 cod. nav. anche a fronte di una occupazione (non ex novo, ma) protrattasi oltre la scadenza del titolo (cfr. Sez. 3, n. 34622 del 22/06/2011, PM in proc. Barbieri, Rv. 250976-01), la Corte ha pure affrontato il tema dell’inapplicabilità, nel caso, della disposizione di cui all’art. 3, comma 3, della legge 5 agosto 2022, n. 118, in vigore dal 22 agosto 2022.

Ha precisato che detta previsione - introdotta recependo le indicazioni del giudice amministrativo e per fronteggiare le irrisolte criticità afferenti alle concessioni demaniali marittime nella prospettiva della necessaria armonizzazione della normativa nazionale a quella comunitaria - produce effetti limitati alle concessioni in essere a quella data, in tali casi escludendo la configurabilità, fino al 31.12.2023 (ovvero, a determinate condizioni, fino al 31.12.2024) del reato di cui all’art. 1161 cod. nav..

La condizione cui è subordinata tale tempistica differita è, per l’appunto, costituita dalla circostanza che si tratti di concessioni in essere alla data della sua entrata in vigore (22 agosto 2022), derivandone per contro l’inapplicabilità - evidenzia la Corte - alle concessioni scadute, come quella in esame, in cui risulta pertanto configurabile il contestato reato di cui all’art. 1161 cod. nav.

. Indice delle sentenze citate

Corte di cassazione:

Sez. U., n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885-01;

Sez. 3, n. 34622 del 22/06/2011, PM in proc. Barbieri, Rv. 250976-01;

Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015, Basile, Rv. 265424-01;

Sez. 3, n. 4763 del 24/11/2017 (dep. 2018), P.M. in proc. Pipitone, Rv. 272031-01;

Sez. 3, n. 21281 del 16/03/2018, Ragusi, Rv. 273222-01;

Sez. 3, n. 15676 del 13/04/2022, Galli;

Sez. 3, n. 20737 del 28/04/2022, Messina e altri;

Sez. 3, n. 404 del 14/12/2022 (dep. 2023), PMTc/Giraldi, Rv. 283919-01;

Sez. 3, n. 404 del 14/12/2022 (dep. 2023), PMTc/Giraldi, Rv. 283919-02.

Consiglio di Stato

Cons. Stato, Ad. Plen., 09/11/2021, n. 17;

Cons. Stato, Ad. Plen., 09/11/2021, n. 18;

Cons. Stato, Sez. 6, 01/03/2023, n. 2192.

Corte costituzionale

Corte cost., 08/06/1984, n. 170.

Corte di giustizia dell’Unione europea

CGUE del 14/07/2016 -cause riunite C-458/14 e C-67/15.

  • reato
  • liquidazione di società
  • imprenditore
  • amministratore
  • fallimento

CAPITOLO IV

ORIENTAMENTI IN TEMA DI BANCAROTTA IMPROPRIA

(di Michele Toriello )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli amministratori di diritto. - 3 I sindaci. - 4 Gli amministratori di fatto. - 5 Il concorso dell’extraneus. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

È noto che, accanto all’ipotesi della bancarotta propria, ascrivibile all’imprenditore commerciale ed ai soci illimitatamente responsabili delle società in nome collettivo e delle società in accomandita semplice dichiarati falliti in sede di estensione a norma dell’art. 147 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, la legge fallimentare contempla l’ipotesi della bancarotta impropria, ascrivibile agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci, ai liquidatori delle società - di persone o di capitali - dichiarate fallite, nonché all’institore dell’imprenditore individuale dichiarato fallito.

Le più recenti statuizioni della Quinta Sezione penale hanno consolidato gli orientamenti nomofilattici relativi ai soggetti attivi di tale delitto.

2. Gli amministratori di diritto.

Quanto agli amministratori - ai quali spettano, ai sensi dell’art. 2380-bis cod. civ., la gestione dell’impresa e la realizzazione delle operazioni necessarie all’attuazione dell’oggetto sociale - le pronunce di maggior interesse hanno affrontato il tema della responsabilità dei consiglieri che, nell’ambito di amministrazioni collegiali, non abbiano partecipato attivamente alla realizzazione della condotta oggetto di contestazione, perché non direttamente coinvolti nella gestione dell’impresa.

Ed invero, non sorgono particolari problemi interpretativi quando gli amministratori abbiano direttamente e materialmente partecipato alla perpetrazione dell’illecito, ad esempio redigendo ed approvando un bilancio falso, ovvero adottando la deliberazione distrattiva di beni della società: in tal caso le scelte operative vengono direttamente in considerazione come manifestazioni di un comportamento illegale del consiglio di amministrazione, ad esempio perché miranti a conseguire scopi pregiudizievoli per la società, del tutto estranei o addirittura contrari all’interesse della stessa, e collidenti con l’interesse personale di uno o più amministratori.

Con riferimento alla figura del consigliere privo di deleghe operative, il tradizionale orientamento di legittimità, formatosi a seguito della riscrittura dell’art. 2392 cod. civ. ad opera dell’art. 1 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, prevede che «In tema di reati societari, la previsione di cui all’art. 2381 cod. civ. - introdotta con il d.lgs. n. 6 del 2003 che ha modificato l’art. 2392 cod. civ. - riduce gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di delega; tuttavia, l’amministratore (con o senza delega) è penalmente responsabile, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., per la commissione dell’evento che viene a conoscere (anche al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvede ad impedire, posto che a tal riguardo l’art. 2932 cod. civ., nei limiti della nuova disciplina dell’art. 2381 cod. civ., risulta immutato. Ne deriva, altresì, che detta responsabilità richiede la dimostrazione, da parte dell’accusa, della presenza (e della percezione da parte degli imputati) di segnali perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito nonché l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta ma per l’amministratore privo di delega, onere che qualora non sia assolto dal ricorrente, nel silenzio della sentenza impugnata, si converte nella richiesta di una ricostruzione storica del fatto, improponibile in sede di legittimità» (Sez. 5, n. 23838 del 04/05/2007, Amato, Rv. 237251-01).

Si è, in proposito, osservato, che la riforma della disciplina delle società ha alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe, e che il dovere di agire in modo informato, cui soggiacciono tutti i componenti dell’organo gestorio, assume margini più definiti, e certamente meno ampi, rispetto a quelli del pregresso dovere generale di vigilanza sull’andamento della gestione.

I principi sono stati da ultimo ribaditi da Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Benassi, Rv. 284175-01.

La Corte ha preliminarmente rilevato che la riformulazione dell’art. 2381 cod. civ. ha posto a carico di ciascun amministratore, con o senza delega, l’obbligo di agire informato (cfr. il sesto comma della norma: «Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società»), a carico del presidente del consiglio di amministrazione l’obbligo del ragguaglio informativo (cfr. il primo comma della norma: «Provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri»), ed a carico degli amministratori delegati l’obbligo di riferire, con prestabilita periodicità, al consiglio di amministrazione ed al collegio sindacale «sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate» (cfr. il quinto comma della norma): «Letta tale disposizione in combinato disposto con quella di cui al novellato art. 2392, comma 1, cod. civ., ne viene che anche gli amministratori privi di deleghe sono responsabili verso la società, ma nei limiti delle attribuzioni loro proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa: dunque, non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di questi ultimi in virtù della conoscenza o della possibilità di conoscenza di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (Cass. Civ., Sez. 1, n. 17441 del 31/08/2016, Rv. 641165-01), tanto in forza del loro dovere di agire informati ex art. 2381, comma 6, cod. civ., che implica la possibilità di chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società, ma non riconosce loro un’autonoma potestà di indagine».

Così circoscritta la posizione di garanzia del consigliere non operativo, la Corte ha ritenuto configurabile a suo carico il concorso omissivo in fatti di bancarotta per violazione del dovere di agire informato, ex artt. 110 e 40, comma 2, cod. pen., «solo nella misura in cui il suo omesso intervento abbia avuto effettiva incidenza di contributo causale nella commissione del reato da parte dei consiglieri con delega. Ciò comporta che, compiuto il giudizio controfattuale necessario ai fini dell’affermazione della responsabilità omissiva impropria, il giudice di merito è tenuto a verificare se, qualora fossero state compiute dal consigliere senza delega le doverose attività di intervento, si sarebbero ugualmente realizzate le condotte integranti reato ascritte agli amministratori con delega».

In applicazione del principio, la Corte, esaminando il ricorso presentato dall’amministratore privo di deleghe condannato per non aver vigilato sulle operazioni di diminuzione del patrimonio della fallita e sulle plurime attività di cosmesi contabile poste in essere da altri componenti del consiglio di amministrazione, ha rilevato che i giudici di merito non avevano adeguatamente individuato le basi sulle quali poggiava la ritenuta sussistenza del concorso per omesso impedimento dell’evento.

Si è, in particolare, sottolineato che non è affatto sufficiente constatare che il consigliere privo di deleghe non si sia attivato per scongiurare l’illecito, essendo necessario accertare, a monte, se egli fosse venuto a conoscenza di “segnali di allarme” che avrebbero dovuto indurlo ad un più penetrante controllo dell’attività degli altri consiglieri: si tratta, ha chiarito la Corte, dell’espressione di una linea interpretativa «attenta ad evitare che siano pronunciate condanne basate su una responsabilità di posizione ovvero fondate su un rimprovero per colpa anziché per dolo, come richiesto per l’integrazione delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e 223 legge fall.».

Non ci si può, dunque, limitare a sostenere che vi fossero elementi dai quali desumere un evento pregiudizievole per la società, o almeno il rischio della verifica di un evento di tal genere, poiché «è necessario che il consigliere privo di delega ne sia concretamente venuto a conoscenza e sia rimasto volontariamente inerte così avallando le condotte mendaci o distrattive degli amministratori dotati di deleghe (Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Rv. 256939-01). Tanto perché la sussistenza di fattori di anomalia evidenti, se comporta in chi li colse un chiaro addebito per colpa, finanche grave, non consente di affermare, oltre ogni ragione le dubbio, che l’inerzia, ciò nonostante serbata, da parte di chi sarebbe stato tenuto ad attivarsi - nel caso di specie, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2381, comma 6, e 2392 cod. civ. - sia ex se espressiva della volontaria adesione all’evento pregiudizievole, rappresentato dalla condotta criminosa altrui, il cui concreto verificarsi si sia affacciato nella prospettiva conoscitiva del soggetto agente che ne abbia accettato il rischio».

La Corte ha, pertanto, ribadito che la responsabilità concorsuale dell’amministratore senza deleghe non può fondarsi sulla sola posizione di garanzia, non può discendere dalla mera constatazione del mancato esercizio dei doveri di intervento, ma presuppone la necessaria esistenza di «puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, dimostrativi di un’omissione esorbitante dalla dimensione meramente colposa ed espressiva, piuttosto, di una volontaria partecipazione alle condotte illecite degli amministratori con delega, nella forma del dolo eventuale»: ciò comporta che «anche il rilievo dell’esistenza di segnali di allarme esige una loro considerazione contestualizzata: ad esempio, non può non essere accompagnato dall’accertamento dell’elaborazione che degli stessi sia stata fatta dal consigliere non operativo, ben essendo possibile che questi li abbia sottovalutati o non adeguatamente percepiti, tanto indirizzando, se del caso, verso un suo comportamento colposo e non certo doloso».

La rigorosa analisi di tutte le circostanze del caso concreto deve necessariamente illuminare il percorso ricostruttivo del giudice di merito, al fine di comprendere se ed in quale misura il consigliere privo di deleghe sia stato messo nelle condizioni di cogliere i segnali di allarme della situazione di squilibrio finanziario e patrimoniale della società: solo in tal modo, sottolinea la Corte, può esserne affidabilmente dimostrato il moto interiore, così che possa ragionevolmente affermarsi che egli - in coerenza con quanto autorevolmente statuito in tema di reati omissivi dalla nota sentenza Espenhahn - si è «rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi» (cfr. Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104-01).

In applicazione dei principi fin qui illustrati, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna dell’imputato, «il cui operato si sarebbe dovuto certamente valutare tenendo conto della sua preparazione tecnica, della caratura dei suoi interventi prima e dopo la realizzazione dei fatti illeciti, della concreta dinamica relazionale esistente in seno al consiglio di amministrazione, dei rilievi effettuati sulla gestione del consorzio da parte degli organi di controllo», censurando che se ne fosse affermata la responsabilità sull’insufficiente dato secondo cui la mera presenza di gravi profili di criticità nell’informazione societaria (e l’oggettiva percepibilità di tali indici di anomalia) l’avrebbe obbligato, in ragione della posizione di garanzia rivestita, ad attivarsi, di modo che, non avendolo fatto, avrebbe, per ciò solo, voluto concorrere nella condotta delittuosa degli amministratori delegati, affermando il principio di diritto che è stato così massimato: «In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega».

Alcune pronunce della Quinta Sezione penale hanno, altresì, approfondito la tematica della responsabilità dell’amministratore di diritto, quando si accerti che la società fallita è stata in concreto gestita da un amministratore di fatto.

Secondo il tradizionale insegnamento dei giudici di legittimità, «In tema di bancarotta fraudolenta, mentre con riguardo a quella documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita (cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo all’ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto» (Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, C., Rv. 274166-01).

Ne consegue che, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, il prestanome non può impostare la propria difesa sostenendo che vi fosse un amministratore di fatto, poiché egli ha il diretto e personale obbligo di tenere e conservare libri e scritture; è, tuttavia, evidente che la sola qualifica di amministratore formale non può, di per sé, comportare l’automatica affermazione di responsabilità, poiché ciò contrasterebbe con il principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 Cost.: vengono, dunque, in rilievo le ordinarie regole in tema di concorso di persone, di modo che, come è stato recentemente statuito, «In tema di bancarotta fraudolenta documentale cd. “generica”, per la sussistenza del dolo dell’amministratore solo formale non occorre che questi si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati nella contabilità volti ad impedire o a rendere più difficoltosa la ricostruzione degli affari della fallita, ma è sufficiente che l’abdicazione agli obblighi da cui è gravato sia accompagnata dalla rappresentazione della significativa possibilità dell’alterazione fraudolenta della contabilità e dal mancato esercizio dei poteri-doveri di vigilanza e controllo che gli competono» (Sez. 5, n. 44666 del 04/11/2021, La Porta, Rv. 282280-01).

Analoghi principi devono essere seguiti quando siano contestate ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale: la responsabilità del prestanome non può presumersi in virtù del semplice dato di avere egli acconsentito a ricoprire formalmente la carica, sicché, salvi i casi nei quali egli abbia partecipato continuativamente ed attivamente alla gestione della società, e/o abbia mantenuto consuetudini di vita in comune con l’amministratore di fatto, la responsabilità dell’amministratore di diritto per i delitti dolosi commessi da quello di fatto rimane ancorata all’accertamento di un effettivo coefficiente psicologico conforme a quello richiesto per la sussistenza del tipo di reato, non potendo la stessa essere ritenuta né sulla base della mera titolarità della carica, né in forza di comportamenti esclusivamente negligenti nell’espletamento (o nel mancato espletamento) delle mansioni alla stessa connesse.

I principi sono stati, da ultimo, ribaditi da Sez. 5, n. 44387 del 05/10/2022, Leo, che, nel ricostruire i rapporti tra l’amministratore di fatto e quello di diritto, ha statuito che «l’amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall’amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico (art. 2392 cod. civ.) di impedire, e, dal punto di vista soggettivo, se sia raggiunta la prova che egli aveva la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distraeva, occultava, dissimulava, distruggeva o dissipava i beni sociali, esponeva o riconosceva passività inesistenti»: dunque, l’affermazione della responsabilità dell’amministratore di diritto presuppone che si accerti «in che modo questi si sia posto, dal punto di vista soggettivo, rispetto al fatto delittuoso, al fine di verificare se vi abbia aderito, anche solo implicitamente», valorizzando elementi sintomatici quali il suo coinvolgimento nelle vicende societarie, i suoi rapporti con l’amministratore di fatto e con i soci, la conoscenza che egli abbia avuto - o abbia scientemente evitato di avere - dei fatti sociali, le ragioni che lo abbiano indotto ad assumere la carica di amministratore, le utilità che ne abbia eventualmente percepito o che gli siano state promesse.

Applicando il principio ad una fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione, la Corte ha concluso nel senso che «non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto».

3. I sindaci.

L’art. 236, comma 2, n. 1, legge fall. annovera tra i soggetti attivi del delitto di bancarotta, accanto ad amministratori, direttori generali e liquidatori della società ammessa al concordato preventivo, anche i sindaci: il collegio sindacale è un tipico organo di controllo, chiamato a vigilare sull’amministrazione della società, con il compito di garantire l’osservanza della legge ed il rispetto dell’atto costitutivo, nonché di accertare che la contabilità sia tenuta in modo regolare.

Proprio in forza degli obblighi di cui agli artt. 2403 e 2404 cod. civ., i giudici di legittimità affermano il concorso dei sindaci nel reato commesso dagli amministratori della fallita ogni qual volta sia ravvisabile una condotta di omesso controllo, con la precisazione che detto controllo, pur non potendo naturalmente investire il merito delle scelte imprenditoriali, «non si esaurisce in una mera verifica formale o in un riscontro contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione» (Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis, Rv. 266646-01).

Il concorso dei componenti del collegio sindacale nei reati commessi dagli amministratori della società - «a tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali» (Sez. 5, n. 18985 del 14/01/2016, De Cuppis, Rv. 267009-01) - può, dunque, essere integrato dall’omissione del rigoroso riscontro di congruità tra i dati effettivi della gestione e la loro rappresentazione contabile, dovendo i sindaci esercitare il potere-dovere di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento della società e delle sue operazioni gestorie.

Una pronuncia che, tra le altre, ha contribuito a ricostruire meglio lo statuto di responsabilità penale dei sindaci per concorso nei reati di bancarotta commessi dagli amministratori - Sez. 5, n. 26399 del 05/03/2014, Zandano, Rv. 260215-01 - ha sottolineato come, sia nella disciplina del codice civile, sia nell’assetto novellato dalla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, il collegio sindacale rappresenta un organo di controllo tipico, chiamato a vigilare sull’amministrazione della società, con il compito di garantire l’osservanza della legge ed il rispetto dell’atto costitutivo, nonché di accertare che la contabilità sia tenuta in modo regolare.

E tuttavia, tutte le pronunce fin qui citate hanno chiarito che la responsabilità dei sindaci, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sussiste solo qualora emergano puntuali elementi sintomatici, dotati del necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del potere di controllo - e, pertanto l’inadempimento dei poteri doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso ad impedire le condotte degli amministratori - esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole volontà di agire anche a costo di far derivare dall’omesso controllo la commissione di illiceità da parte degli amministratori.

La sentenza Zandano da ultimo citata ha evidenziato, molto significativamente, alcuni “indicatori” della volontà dolosa di concorrere nel reato, per evitare il rischio di una responsabilità ascritta solo a titolo di negligenza o, peggio, derivante dalla mera posizione di controllo: ad esempio, la circostanza che i sindaci siano espressione del medesimo gruppo di controllo della società, ovvero la circostanza che essi abbiano del tutto omesso, malgrado la situazione critica della società, ogni minimo controllo.

Dunque, grava sui sindaci il dovere di intervenire tutte le volte in cui abbiano conoscenza di attività illecite compiute dagli amministratori: la loro responsabilità non può essere affermata in modo automatico, unicamente in ragione della posizione di garanzia assunta con la carica, essendo necessario accertare che con la loro condotta omissiva essi abbiano apportato un effettivo contributo causale alla condotta degli amministratori, agendo, quantomeno, con dolo eventuale, riscontrabile alla luce di «puntuali elementi sintomatici - quali, ad esempio, con riferimento al reato di bancarotta documentale, la tenuta caotica dei libri e delle scritture contabili da parte degli amministratori, la partecipazione attiva alle assemblee societarie di approvazione dei bilanci, il fornire pareri favorevoli diretti ad ottenere l’approvazione delle relative delibere -, per consapevole accettazione del rischio che l’omesso controllo avrebbe potuto consentire la commissione di illiceità da parte degli amministratori» (così, in motivazione. Sez. 5, n. 15639 del 23/02/2016, Bendici).

Tali “puntuali elementi sintomatici” devono essere inoltre «dotati di necessario spessore indiziario, in forza dei quali l’omissione del dovere di controllo - e, pertanto, l’inadempimento dei poteri/doveri di vigilanza il cui esercizio sarebbe valso a impedire le condotte distrattive degli amministratori - esorbiti dalla dimensione meramente colposa» (così, in motivazione, Sez. 5, n. 42046 del 26/05/2017, Ganzerli).

I principi fin qui illustrati sono stati ribaditi dalle più recenti pronunce della Quinta sezione penale.

In particolare, Sez. 5, n. 20867 del 17/03/2021, D’Alessandro, Rv. 281260-01, ha evidenziato che, nel caso oggetto del suo scrutinio, i giudici di merito, nel condannare i componenti del collegio sindacale di una cooperativa a responsabilità limitata, non avevano fornito spiegazioni adeguate sul canone di attribuzione della responsabilità omissiva, facendo generico riferimento ad alcuni indicatori di dissesto che, tuttavia, erano risultati evidenti solo dopo il commissariamento governativo e la liquidazione coatta amministrativa dell’ente, e non avevano esaurientemente esplicitato in quale modo i sindaci avrebbero potuto impedire l’evento contestato, posto che le operazioni distrattive venivano compiute dagli amministratori secondo schemi particolarmente complessi che erano sono stati in grado di ingannare gli enti pubblici preposti a singole porzioni di controllo della gestione societaria.

«La corte d’appello, dunque, - si legge nelle motivazioni della sentenza - incorre nell’errore motivazionale di far corrispondere il piano di responsabilità dei ricorrenti ex art. 40 cpv. cod. pen. alla mera loro posizione di garanzia, valutando astrattamente gli indubbi doveri e poteri di controllo loro attribuiti per legge e, a posteriori, le numerose irregolarità riscontrate, senza verificare la concreta possibilità di avvedersi delle anomalie da parte dei sindaci, con ciò non tenendo conto della piattaforma istruttoria [..] Egualmente fondata è l’osservazione diretta a criticare la carenza motivazionale del provvedimento d’appello [..] riferita all’assenza di un reale giudizio controfattuale sulla base del quale poter fondare la responsabilità omissiva dei sindaci nel caso di specie [..] La corte d’appello non ha chiarito adeguatamente se, qualora i sindaci avessero adempiuto pienamente ai loro compiti di controllo, invece omessi, la condotta distruttiva si sarebbe comunque verificata oppure non; e ciò era tanto più necessario alla luce delle modalità peculiari con le quali essa è stata realizzata ed alle quali si è fatto riferimento, poiché, secondo la prospettazione difensiva, dette modalità avrebbero consentito comunque di superare indenne il vaglio di controllo, ancorché realizzato dai ricorrenti. La sentenza impugnata rivela, infatti, un evidente vuoto motivazionale quanto al giudizio controfattuale, che, pur costituendo un elemento determinante nella ricostruzione della quota causale attribuibile ai ricorrenti ai fini del concorso nel reato di bancarotta fraudolenta commesso dagli amministratori, non è stato affatto tenuto in conto, neppure quale astratto canone di verifica».

La Corte ha, dunque, annullato con rinvio la sentenza di condanna dei componenti del collegio sindacale, statuendo il principio di diritto che è stato così massimato: «La responsabilità per concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta dei componenti del collegio sindacale non può essere desunta solo dalla posizione di garanzia rivestita e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo, ma postula la verifica dell’esistenza di elementi, dotati di adeguato e necessario spessore indiziario, sintomatici della partecipazione, causalmente libera dei sindaci stessi all’attività degli amministratori ovvero dell’effettiva incidenza causale dell’omesso esercizio dei doveri di controllo sulla commissione del reato».

In altra recente pronuncia si è chiarito che l’obbligo giuridico gravante sui componenti del collegio sindacale, la cui violazione può astrattamente rilevare nella logica del menzionato art. 40, comma 2, cod. pen., sub specie dell’equivalenza giuridica, sul piano della causalità, tra il non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire ed il cagionarlo, «non può che riguardare, proprio per la pregnanza della sua esplicazione, soltanto i membri effettivi e non anche i supplenti, e dunque solo chi faccia parte pieno iure dell’organo collegiale [..] Invero i doveri di vigilanza di cui all’art. 2403 cod. civ. sono imposti solo ai membri effettivi, incombendo a quelli supplenti soltanto nei casi in cui siano di diritto subentrati ai primi. Correlativamente, i poteri ispettivi spettano solo ai membri effettivi e non competono a quelli supplenti nell’ambito di estemporanee, autonome, iniziative da parte loro».

La Corte ha conseguenzialmente annullato con rinvio il provvedimento con il quale il tribunale del riesame aveva confermato l’ordinanza coercitiva emessa a carico di un sindaco supplente, censurando tanto che fosse stata erroneamente accomunata la posizione del sindaco supplente a quella dei sindaci effettivi, quanto che non fosse stato indicato in quale modo l’indagato avesse causalmente contribuito alla commissione dei reati oggetto della contestazione provvisoria, statuendo il principio di diritto così massimato: «In tema di bancarotta fraudolenta impropria, è configurabile in capo ai sindaci supplenti il concorso omissivo per violazione dei doveri di vigilanza e dei poteri ispettivi che competono ai componenti del collegio sindacale, solo in caso di morte, rinunzia o decadenza dei sindaci titolari e solo nella misura in cui l’omesso controllo abbia avuto effettiva incidenza di contributo causale nella commissione del reato da parte degli amministratori» (Sez. 5, n. 19540 del 20/04/2022, Mataluni, Rv. 283073-03).

Da ultimo, la Corte ha chiarito che la configurabilità di ipotesi di responsabilità a carico dei sindaci non presuppone affatto che anche l’amministratore, o alcuno degli altri soggetti indicati dalla norma incriminatrice, abbiano tenuto condotte di bancarotta: si è, in proposito, evidenziato che l’art. 223, comma 1, legge.fall., a mente del quale «si applicano le pene stabilite dall’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti da tale articolo», include i sindaci nel novero di coloro che devono rispondere, in proprio, delle condotte illecite descritte nel medesimo art. 216 cit.; dunque, «i componenti del collegio sindacale possono essere gli agenti del reato proprio di bancarotta, patrimoniale, documentale o preferenziale, senza che vi sia necessità che essi concorrano con gli altri soggetti contemplati nel medesimo comma. Non avendo i sindaci poteri di gestione diretta del patrimonio della società, la questione della loro diretta responsabilità si risolve piuttosto nella selezione delle concrete condotte, autonomamente consumate da costoro, che possano configurare una distrazione o una dissipazione (oltre che le altre condotte alternativamente previste dall’art. 216, comma, 1 n. 1, legge fall. che è la fattispecie oggetto del presente giudizio). Né può affermarsi, come sostengono le difese, che le condotte loro contestate, per concretare il reato proprio, debbano rientrare nelle funzioni del sindaco di una società, posto che altrimenti, l’inserimento del sindaco nel novero di chi commette i delitti puniti dall’art. 216 non avrebbe oggetto alcuno, visto che, in tale funzione, non rientrano la gestione dei beni sociali (e non potrebbero quindi i sindaci rispondere dei reati di bancarotta patrimoniale o preferenziale) e la tenuta della contabilità (dovendosi così escludere la loro responsabilità, autonoma, per il reato di bancarotta documentale)».

Nel confermare la sentenza di condanna per il delitto di cui agli articoli 223, comma 1, e 216, comma 1, n. 1, legge fall. del sindaco che, venuto in possesso, nell’arco di un decennio, delle somme destinate al versamento dei tributi, se ne era, invece, appropriato, la Corte ha statuito il principio di diritto che è stato così massimato: «I componenti del collegio sindacale di una società fallita, che abbiano posto in essere una delle condotte incriminate dall’art. 216 legge fall., rispondono in proprio del delitto di bancarotta, anche quando non vi sia stato il concorso dell’amministratore ovvero di alcuno degli altri soggetti indicati dall’art. 223 legge fall. (Fattispecie relativa alla distrazione perpetrata dal presidente del collegio sindacale, al quale in più occasioni l’amministratore della fallita aveva consegnato somme di denaro destinate al pagamento dei tributi)» (Sez. 5, n. 7222 del 18/01/2023, Boscolo, Rv. 284046-01).

4. Gli amministratori di fatto.

Il delitto di bancarotta è, come è noto, un reato proprio, potendo essere commesso unicamente dall’imprenditore o dai soggetti che la norma incriminatrice ad esso equipara: il criterio di selezione delle qualifiche soggettive e, quindi, la questione dell’estensione della responsabilità penale tipica dei soggetti preposti alla direzione ed al controllo della società a coloro che, senza avere ricevuto formale investitura da parte dell’organo competente, in concreto esercitino le stesse funzioni, hanno da sempre interessato la dottrina e la giurisprudenza, prevalentemente schierate, ancor prima della riforma del 2002, a favore della teoria cd. sostanziale o funzionalistica, a scapito di quella formale.

La nozione di imprenditore è stata, dunque, tradizionalmente interpretata in maniera estensiva, così da consentire l’incriminazione dell’amministratore di fatto, soggetto che, pur non essendo stato investito formalmente di alcuna carica in seno alla società, esercita il potere di decidere sulla gestione del patrimonio sociale e svolge concretamente le funzioni inerenti a qualifiche che non ricopre: ed invero, posto che molto frequentemente l’effettiva gestione dell’impresa (o di settori o di ambiti della stessa) è esercitata da soggetti diversi da quelli che formalmente ricoprono la relativa carica o il relativo ruolo, sarebbe irrazionale, nonché in contrasto con l’interesse protetto dalle disposizioni in materia di bancarotta, esonerare questi soggetti dagli obblighi che incombono sull’imprenditore.

Le modifiche al codice civile introdotte dal d.lgs. n. 61 del 2002, hanno definitivamente sancito la correttezza dell’orientamento già prevalente: ed invero, nel suo nuovo testo, l’art. 2639 cod. civ. - a mente del quale «Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione» - impone di equiparare al soggetto investito formalmente di una qualifica colui che eserciti in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti a quella qualifica; l’univoca giurisprudenza di legittimità ritiene che la norma, ancorché riferita esplicitamente ai reati societari di cui al codice civile, sia espressione di un principio generale che permea tutto il sistema, applicabile anche a settori diversi dal diritto penale societario, tra i quali, in primis, il diritto penale fallimentare (cfr., in termini, Sez. 5, n. 39535 del 20/06/2012, Antonucci, Rv. 253363-01: «La configurazione nell’art. 2639 cod. civ. della nozione di amministratore di fatto non comporta che questi possa essere ritenuto autore esclusivamente dei reati societari e non anche di quelli fallimentari»).

Dunque, le disposizioni di cui agli artt. 216 e 223 legge fall. trovano applicazione anche con riferimento ai fatti di bancarotta commessi da quanti svolgano in via di fatto le funzioni inerenti alle qualità ivi elencate, poiché deve intendersi che, quando si riferiscono agli amministratori, ovvero ai direttori generali, ovvero agli altri soggetti, le citate norme non intendono valorizzare l’aspetto formale della qualifica, ma bensì il concreto esercizio delle funzioni corrispondenti a quella qualifica.

In conseguenza di ciò, l’amministratore di fatto risponde in proprio ed autonomamente del reato, quale diretto destinatario delle norme incriminatrici con riferimento alle concrete funzioni esercitate, e la sua responsabilità - quale intraneus - prescinde da quella dell’amministratore legale, ben potendo configurarsi anche quando quest’ultima sia stata esclusa.

Quanto all’individuazione dei caratteri peculiari della figura, l’esercizio “in modo continuativo e significativo” dei poteri tipici inerenti alla qualifica non presuppone necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, essendo sufficiente l’esercizio di una almeno apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale.

Le condizioni al ricorrere delle quali si ritiene che la società sia stata gestita da un amministratore di fatto sono, cumulativamente, due: l’una di tipo quantitativo-temporale, consistente nell’esercizio, non occasionale e continuativo, delle funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto, caratterizzato da autonomia decisionale (essendo, dunque, insufficiente il compimento di sporadici atti di gestione); l’altra, di stampo qualitativo, per cui gli atti posti in essere devono essere “significativi”, nel senso che devono rispecchiare i poteri tipici della carica, non potendo esaurirsi in mansioni meramente esecutive o accessorie.

Occorre, dunque, fare riferimento ad indici sintomatici della partecipazione alle fasi nevralgiche della vita dell’impresa ed alle sue strategie economiche poste in atto in violazione del complesso dei doveri posti a presidio dell’interesse dei creditori, dei terzi e del mercato, quali il diretto intervento nella gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l’intervento nella declinazione delle strategie di impresa e nelle fasi nevralgiche dell’ente economico, lo svolgimento di fatto di funzioni gerarchiche e direttive, svolte in qualunque momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione, ovvero nei rapporti con dipendenti, fornitori, finanziatori e clienti.

Il consolidato orientamento nomofilattico è stato ribadito anche nelle più recenti pronunce dei giudici di legittimità.

Sez. 5, n. 47387 del 25/11/2022, Saba , ha ribadito che «la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione, ma significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, richiedendo l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale; ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive - in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare - il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione».

In applicazione del principio, Sez. 5, n. 43642 del 13/09/2022, Poeta, ha ritenuto che la qualifica di amministratore di fatto dell’imputato fosse stata adeguatamente dimostrata sulla base del fatto che «egli gestiva direttamente i rapporti bancari (in virtù di una delega disgiunta di cui era titolare) e quelli con i fornitori (sottoscrivendo in prima persona gli ordini di acquisto)», attività che venivano svolte con piena autonomia decisionale ed operativa. Nello stesso senso si è espressa, tra le altre, Sez. 5, n. 44211 del 04/10/2022, Aligjoni, che ha tratto elementi decisivi per configurare la compartecipazione dell’amministratrice apparente negli illeciti perpetrati dall’amministratore di fatto dalla circostanza che la prima, legata al secondo da rapporti di parentela, avesse «ricoperto la carica di amministratrice per oltre due anni, tempo questo del tutto idoneo a consentire una compiuta valutazione del contesto societario, tenuto anche conto dei necessari adempimenti di spettanza dell’amministratore formale», avesse avuto con il curatore fallimentare una interlocuzione che lasciava evincere la sua consapevolezza delle operazioni distruttive, ed avesse «cointeressenze» nella società a favore della quale erano state effettuate le distrazioni. Sez. 5, n. 4865 del 25/11/2021, dep. 2022, Capece, Rv. 282775-01 ha, invece, chiarito che «la qualifica di amministratore di fatto di una società non può trarsi solo dal conferimento di una procura generale ad negotia, ma richiede l’individuazione di prove significative e concludenti dello svolgimento delle funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività imprenditoriale, anche a mezzo dell’attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa», annullando con rinvio la sentenza di condanna che aveva ricondotto all’imputato la qualifica di amministratore di fatto sol perché gli era stata rilasciata una procura generale e gli era stata affidata la gestione - che non risultava avesse generato passività - di alcuni conti correnti sociali (in termini, in fattispecie sostanzialmente analoga, Sez. 5, n. 27424 del 22/06/2022, Scalmato)

Sez. 2, n. 36556 del 24/05/2022, Desiata, Rv. 283850-01, ha confermato che i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 legge fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, e non già rapportandosi alle mere qualifiche formali, ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta.

Infine, Sez. 5, n. 47320 del 21/09/2022, Bettoni, ha chiarito che «il soggetto che, ai sensi della disciplina dettata dall’art. 2639, c.c., assume la qualifica di amministratore di fatto della società fallita è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, tra i quali vanno ricomprese le condotte dell’amministratore di diritto, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali condotte, in applicazione della regola di cui all’art. 40, co. 2, c. p.», rigettando il ricorso dell’amministratore di fatto condannato per bancarotta fraudolenta documentale a cagione della integrale sottrazione delle scritture contabili, mai rivenute dagli organi del fallimento. La pronuncia ribadisce quanto, in epoca recente, statuito da Sez. 5, n. 36870 del 21/12/2020, Marelli, Rv. 280133-01, che aveva tratto dal principio in base al quale l’amministratore di fatto è gravato di tutti i doveri che fanno capo all’amministratore formale, la conseguenza che egli, pur non essendo legittimato a presentare istanza di fallimento per la società amministrata di fatto, risponde in ogni caso del reato di cui agli artt. 224 e 217, comma primo, legge fall. ove non si attivi perché detta istanza venga presentata dal pubblico ministero, anch’egli legittimato ai sensi dell’art. 6 legge fall.

5. Il concorso dell’extraneus.

La natura di reato proprio dei delitti di bancarotta non esclude il possibile concorso di un extraneus, in ossequio alle generali regole dettate dagli artt. 110 ss. cod. pen.: possono, invero, assumere rilievo penale le condotte di coloro che, intranei alla società ma privi delle qualifiche richieste dalle norme incriminatrici (ad esempio un dipendente, un collaboratore), siano coinvolti in singoli fatti tipici previsti dalla legge, ovvero quelle dei professionisti che forniscano la propria consulenza nel corso della vita dell’impresa, tutte le volte in cui il consiglio prestato ecceda i limiti della consulenza professionale, assumendo i contorni di una vera e propria partecipazione alla programmazione o comunque alla perpetrazione dell’illecito.

Dunque, in presenza di una condotta tipica, commessa in consapevole concorso con l’intraneus, che abbia avuto influenza causale sul verificarsi del fatto, anche l’extraneus può concorrere nel delitto di bancarotta, in ossequio al tradizionale insegnamento dei giudici di legittimità, secondo cui «In tema di reati fallimentari, è configurabile il concorso nel reato di bancarotta fraudolenta da parte di persona estranea al fallimento qualora la condotta realizzata in concorso col fallito sia stata efficiente per la produzione dell’evento e il terzo concorrente abbia operato con la consapevolezza e la volontà di aiutare l’imprenditore in dissesto a frustrare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori dell’impresa» (Sez. 5, n. 27367 del 26/04/2011, Rosace, Rv. 250409-01).

La conferma dell’applicabilità dei principi generali in materia di concorso di persone ai reati di bancarotta si desume anche dal testo dell’art. 232 legge fall., a mente del quale la responsabilità dei terzi per i reati ivi previsti si configura «fuori dai casi di concorso in bancarotta»: inciso che, evidentemente, non avrebbe senso di esistere se ai reati di bancarotta non si applicassero gli artt. 110 ss. cod. pen.

Mentre, con riferimento all’elemento materiale del reato, non vi è ragione di derogare al generale principio in base al quale il contributo fornito dal concorrente, idoneo a favorire la produzione dell’evento, può avere natura materiale o morale, con riguardo all’elemento soggettivo la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni statuito che il concorrente deve aver agito con la consapevolezza e la volontà di aiutare il soggetto qualificato in dissesto a frustrare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori dell’impresa: «il dolo del concorrente extraneus nel reato proprio dell’amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza dell’intervenuta dichiarazione di fallimento» (Sez. 5, n. 26501 del 31/03/2021, Abate, Rv. 281555-01).

Le più recenti pronunce della Quinta Sezione penale hanno dato continuità agli orientamenti appena illustrati.

Sez. 5, n. 39800 del 16/09/2022, Donnini, nel ribadire che «Sulla base dei principi che regolano il concorso di persona nel reato (e dunque anche nel reato proprio), non è dubbio che in materia di reati fallimentari, nell’ipotesi di fatti di bancarotta fraudolenta documentale, e con riferimento alla partecipazione dell’extraneus nel reato proprio dell’amministratore di società, il soggetto esterno alla struttura sociale concorre ex art. 110 cod. pen. allorché, in modo consapevole, ponga in essere una condotta che eserciti una influenza causale sulla sottrazione, distruzione o falsificazione della contabilità”, ha chiarito che non è necessario che la condotta tipica venga materialmente perpetrata dall’intraneus, essendo il delitto configurabile anche quando quest’ultimo si sia avvalso dell’ausilio dell’extraneus sotto il profilo esecutivo e materiale: ed invero, “è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che il professionista risponde dei delitti di bancarotta quale concorrente vuoi per l’apporto materiale offerto alla realizzazione del reato, vuoi per il contributo morale [..] È del pari incontroverso che la condotta tipica può essere realizzata anche dal solo commercialista, purché d’intesa con l’amministratore [..] In sintesi basta il concorso, morale o materiale non fa differenza, dell’extraneus con l’intraneus».

Sez. 5, n. 21475 del 29/03/2022, Frasconi, Rv. 283080-01, giudicando della responsabilità del soggetto che, collaborando con l’amministratore della fallita per la tenuta dei sistemi informatici, aveva posto in essere, su richiesta dello stesso, operazioni di correzione e di rimozione di documenti informatici, così da uniformare la contabilità informatica a quella cartacea, anch’essa falsificata o comunque carente e lacunosa per effetto di plurime condotte di bancarotta documentale per soppressione, ha statuito che «Concorre in qualità di extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta documentale il tecnico informatico che, consapevole dei propositi illeciti dell’amministratore di una società in dissesto, lo aiuti a eliminare dalle banche dati file contenenti documentazione contabile, così da impedire la ricostruzione della situazione economica, patrimoniale e degli affari della fallita, nella consapevolezza di cagionare – con tale condotta - pregiudizio ai creditori sociali», evidenziando che è certamente sufficiente, per la configurabilità della fattispecie concorsuale, che l’extraneus agisca con la consapevolezza che la propria condotta determinerà un pregiudizio per i creditori, «non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società» (ed invero, l’evento del reato non è rappresentato dal fallimento, bensì dalla lesione dell’interesse patrimoniale della massa), che, al più, «può rilevare sul piano probatorio quale indice significativo della rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi dei creditori«».

Per converso, Sez. 5, n. 37101 del 15/06/2022, Cardarelli, Rv. 283597-01, ha statuito che «il parere reso dal legale della società in seguito fallita costituisce contributo causalmente rilevante rispetto alla condotta tipica di bancarotta solo nel caso in cui sia risultato decisivo per l’assunzione della condotta da parte dell’intraneus», rigettando il ricorso del procuratore generale avverso la sentenza di assoluzione del legale al quale si contestava di aver «reso consigli di incerta valenza causale in merito ad un’operazione - di fatto aggravante il dissesto della società - di aumento fittizio del capitale sociale e di emissione di un prestito obbligazionario convertibile in azioni», rimarcando, tra l’altro, che, per poter integrare un contributo concorsuale rilevante, il parere avrebbe dovuto «risultare decisivo per l’assunzione della condotta dell’intraneo», «decisività questa nella fattispecie non emergente».

Sez. 5, n. 40023 del 19/09/2022, Bosio, Rv. 283757-01, ha dato continuità al principio in base al quale l’accordo tra l’extraneus e l’intraneus è elemento dirimente ai fini di sussumere la condotta del primo nell’alveo della disposizione di cui all’art. 216 legge fall., piuttosto che nel perimetro applicativo di quella di cui all’art. 232 legge fall.: si è, pertanto, statuito che «Il delitto di ricettazione prefallimentare si configura solo nel caso in cui difetti l’accordo con l’imprenditore dichiarato fallito, sicché il fatto del terzo estraneo non fallito che, in accordo con l’imprenditore, distragga beni prima del fallimento è punibile a titolo di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale».

Sez. 5, n. 1636 del 12/10/2021, dep. 2022, De Marco, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale del responsabile amministrativo e contabile della fallita, rilevando che i giudici di merito, dopo aver escluso che l’imputato potesse essere qualificato come amministratore di fatto della società, non avevano chiarito «in cosa sia consistito lo specifico contributo causale apportato» dall’imputato nel reato commesso dall’amministratore, addebitando allo stesso «una sorta di responsabilità “da posizione” esclusivamente in forza del suo ruolo formale di responsabile amministrativo contabile, senza, tuttavia, specificare la consistenza causale del suo contributo concorsuale, ad esempio, in termini di “consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori” o di “assistenza nella conclusione dei negozi” o, ancora, di rafforzamento, “con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni”, dell’altrui progetto delittuoso. I Giudici dell’appello, in definitiva, si sono limitati a descrivere una condotta oggettiva “staticamente” coincidente con il ruolo formale esercitato dal ricorrente, dalla quale hanno inteso, erroneamente, inferire - e con un salto logico - l’integrazione dell’elemento soggettivo del reato, senza rendersi conto che, in mancanza di una sufficiente specificazione del concreto “dinamico” contributo concorsuale apportato dall’extraneus nel reato dell’amministratore di diritto, la posizione soggettiva dell’imputato non avrebbe potuto in alcun modo travalicare il perimetro della mera connivenza non punibile»: la mera circostanza che un soggetto abbia ricoperto una determinata carica aziendale non è di per sé sufficiente ad argomentarne la responsabilità concorsuale, essendo necessario individuare lo “specifico contributo causale” apportato da quel soggetto al reato commesso dall’agente qualificato.

Infine, Sez. 5, n. 49443 del 03/11/2022, Magri, ha ribadito, in punto di elemento soggettivo, che «il dolo del concorrente extraneus nella bancarotta distrattiva dell’amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 5, n. 23838 del 04/05/2007, Amato, Rv. 237251-01;

Sez. 5, n. 27367 del 26/04/2011, Rosace, Rv. 250409-01;

Sez. 5, n. 39535 del 20/06/2012, Antonucci, Rv. 253363-01;

Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Berlucchi, Rv. 256939-01;

Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534-01;

Sez. 5, n. 26399 del 05/03/2014, Zandano, Rv. 260215-01;

Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104-01;

Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261105-01;

Sez. 5, n. 23992 del 23/02/2015, A., Rv. 265306-01;

Sez. 5, n. 18985 del 14/01/2016, De Cuppis, Rv. 267009-01;

Sez. 5, n. 15639 del 23/02/2016, Bendici;

Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis, Rv. 266646-01;

Sez. 5, n. 42046 del 26/05/2017, Ganzerli;

Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, C., Rv. 274166-01;

Sez. 5, n. 12912 del 06/02/2020, Pauselli, Rv. 279040-01;

Sez. 5, n. 36870 del 21/12/2020, Marelli, Rv. 280133-01;

Sez. 5, n. 7437 del 15/10/2020, dep. 2021, Cimoli, Rv. 280550-03;

Sez. 5, n. 20867 del 17/03/2021, D’Alessandro, Rv. 281260-01;

Sez. 5, n. 26501 del 31/03/2021, Abate, Rv. 281555-01;

Sez. 5, n. 30197 del 01/06/2021, D’Avino, Rv. 281867-01;

Sez. 5, n. 1636 del 12/10/2021, dep. 2022, De Marco;

Sez. 5, n. 44666 del 04/11/2021, La Porta, Rv. 282280-01;

Sez. 5, n. 4865 del 25/11/2021, dep. 2022, Capece, Rv. 282775-01;

Sez. 5, n. 21475 del 29/03/2022, Frasconi, Rv. 283080-01;

Sez. 5, n. 19540 del 20/04/2022, Mataluni, Rv. 283073-03;

Sez. 5, n. 27424 del 22/06/2022, Scalmato;

Sez. 2, n. 36556 del 24/05/2022, Desiata, Rv. 283850-01;

Sez. 5, n. 37101 del 15/06/2022, Cardarelli, Rv. 283597-01;

Sez. 5, n. 43642 del 13/09/2022, Poeta;

Sez. 5, n. 39800 del 16/09/2022, Donnini;

Sez. 5, n. 40023 del 19/09/2022. Bosio, Rv. 283757-01;

Sez. 5, n. 47320 del 21/09/2022, Bettoni;

Sez. 5, n. 44211 del 04/10/2022, Aligjoni;

Sez. 5, n. 44387 del 05/10/2022, Leo;

Sez. 5, n. 49443 del 03/11/2022, Magri;

Sez. 5, n. 47387 del 25/11/2022, Saba;

Sez. 5, n. 7222 del 18/01/2023, Boscolo, Rv. 284046-01.

  • reato
  • associazione
  • responsabilità penale
  • società
  • classe dirigente

CAPITOLO V

RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI PER I REATI DEI SOGGETTI APICALI

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Colpa di organizzazione e modelli organizzativi e di gestione nel sistema della responsabilità degli enti. - 2 Idoneità del modello, condotte fraudolentemente elusive ed autonomia dell’organo di vigilanza. - 3 Rilevanza della delega di funzioni e ricadute in tema di responsabilità del soggetto collettivo. - Indice delle sentenze citate

1. Colpa di organizzazione e modelli organizzativi e di gestione nel sistema della responsabilità degli enti.

Nel panorama delle decisioni in tema di responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231 del 2001, appare meritevole di attenzione, per visione di sistema e rigore ricostruttivo, la sentenza Sez. 6, n. 23401 del 11/11/2021, depositata nel 2022, Impregilo s.p.a, Rv. 283437-01-02-03-04-05-06, inerente all’illecito del soggetto collettivo per i reati commessi dai soggetti che vi ricoprono posizione apicale.

La pronuncia costituisce l’epilogo di una articolata vicenda processuale, che ha origine nel reato di aggiotaggio societario ex art. 2637 cod. civ. ascritto al presidente del consiglio di amministrazione e all’amministratore delegato di Impregilo s.p.a. - dichiarato estinto per prescrizione nel corso del giudizio - e marca, per plurimi profili, un significativo overturning rispetto alla pregressa decisione di annullamento con rinvio adottata dalla Corte su impulso dei ricorrenti (Sez. 5, n. 4677 del 18/12/2013, dep. 2014, Impregilo, Rv. 257988-01; Rv. 257987-01).

La Corte aderisce ad una concezione dell’illecito corporativo basata sul paradigma della colpa, che “espande” in tutte le sue implicazioni.

Archiviata la pregressa impostazione, c.d. monistica, che aveva inquadrato nell’archetipo del concorso di persone la relazione tra persona fisica autrice del reato presupposto ed ente collettivo (Sez. U., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti s.p.a., in motivazione), la sentenza in rassegna articola la sua ricostruzione a partire dalle coordinate interpretative tracciate da Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261112-01, nella vicenda Thyssenkrupp - e ancor prima da Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247666-01 - per le quali la responsabilità dell’ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio è responsabilità per un illecito autonomo, che trova base giustificativa in una “colpa di organizzazione” per non essersi lo stesso dotato di un’organizzazione adeguata.

Il meccanismo operativo è quello del reato colposo di evento, dove l’evento è rappresentato dalla commissione del reato della persona fisica, mentre la previsione di cui all’ art. 6 del decreto n. 231, nella parte in cui stabilisce che l’adozione preventiva di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire il rischio della commissione di reati consente all’ente di andare esente da responsabilità, evidenzia che si è in presenza di una colpa normativa, basata sulla violazione di una regola cautelare, specificamente intesa al perseguimento dell’indicato fine prevenzionale.

È imperativo allora, per la Corte, che la responsabilità dell’ente - tertium genus, per la compresenza di aspetti propri di quella penale e di quella amministrativa - sia resa conforme ai presidi costituzionali del divieto di responsabilità per fatto altrui e del principio di colpevolezza (art. 27 Cost.) ed in questo percorso ermeneutico di progressiva “antropomorfizzazione dell’ente” – come è stato scritto in dottrina – la responsabilità del soggetto metaindividuale va ancorata ad un giudizio di autonoma rimproverabilità.

La sentenza in rassegna precisa, ancora, che il sistema non presenta elementi di torsione neppure con le garanzie difensive: laddove l’art. 6 cit. correla l’ assenza di responsabilità alla prova, da parte dell’ente, della idoneità del modello, non opera alcuna inversione dell’onere dimostrativo, giacché incombe all’accusa dimostrare in primis l’esistenza del reato presupposto e la sua riferibilità alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell’ente e, ai fini della estensione “per rimbalzo” di tale responsabilità dall’individuo al soggetto collettivo, individuare quei “precisi canali che teleologicamente colleghino l’azione dell’una all’interesse dell’altro” (Sez. 5, n. 4677 del 18/12/2013, dep. 2014, Impregilo, Rv. 257988-01).

2. Idoneità del modello, condotte fraudolentemente elusive ed autonomia dell’organo di vigilanza.

Su tale sostrato teorico, la sentenza “Impregilo 2” sviluppa tre nuclei concettuali del tema della responsabilità degli enti relativi a:

• l’idoneità del modello di organizzazione e di gestione approntato dall’ente;

• l’elusione fraudolenta del modello;

• l’autonomia dell’organismo di vigilanza rispetto all’attività dei vertici societari.

Snodo cruciale del giudizio di responsabilità è anzitutto, la valutazione di idoneità ed efficace attuazione del modello.

Facendo applicazione delle categorie concettuali tipiche della colpa, la Corte precisa che tale apprezzamento non può essere basato sul solo dato della consumazione dell’illecito, secondo l’inferenza del post hoc, propter hoc, in quanto, così ragionando, la clausola di esonero prevista dall’art. 6 non avrebbe alcuno spazio applicativo, rimanendo di fatto vanificata.

Avuto riguardo al criterio di imputazione dell’illecito fondato sulla colpa normativa, per inosservanza della regola a contenuto prevenzionale, è necessario che il risultato offensivo concretizzi il rischio tipico che la regola era diretta a prevenire. In tale prospettiva, il giudice è chiamato a formulare un giudizio epistemico-valutativo di tipo controfattuale, secondo il criterio della c.d. prognosi postuma: deve cioè idealmente collocarsi nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare la valenza impeditiva del c.d. comportamento alternativo lecito, ossia che l’osservanza del modello organizzativo virtuoso, per come esso è stato attuato in concreto, avrebbe eliminato o ridotto il pericolo di verificazione di illeciti della stessa specie di quello posto in essere; il che significa che la valutazione della compliance alle regole cautelari deve essere calibrata sulla singola organizzazione e non può essere compiuta su base “totalizzante”.

Solo in presenza di un tale giudizio prognostico può dunque ravvisarsi una relazione causale tra violazione della regola ed evento-reato.

Viene poi osservato come la previsione, contenuta nell’art. 6, comma 4, cit., secondo cui i modelli possono essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero della Giustizia, per eventuali osservazioni di concerto con i Ministeri competenti, risponde alla duplice esigenza: a) di orientare i soggetti collettivi nella costruzione di modelli, rispondenti ad elevati standards qualitativi, differenziati per categorie di imprese; b) di scongiurare possibili disomogeneità nella loro valutazione giudiziale.

Benché orientativi, ove si conformino ai detti codici - equiparabili a linee guida settoriali – i modelli vincolano il giudice ad esplicitare le ragioni per le quali, nonostante la loro adozione, si sia ritenuta sussistente la colpa di organizzazione.

L’effettività del modello postula, poi, un processo - che si vuole evolutivo e dinamico - di autonormazione, a cui tutto il sistema è all’evidenza orientato, dovendo il soggetto collettivo farsi garante del proprio rischio e, dunque, valutare i possibili reati correlati alla singolarità della propria organizzazione ed individuare le regole prevenzionali più appropriate.

Sulla base di tali premesse, la sentenza ha ritenuto essere congruo presidio preventivo, nel caso sottoposto al suo scrutinio, l’accertato approntamento da parte di Impregilo s.p.a. di un modello basato su procedure complesse per le comunicazioni, nonché sull’affidamento congiunto ai due organi di vertice assoluti dell’approvazione di quelle price sensitive, concernenti la società e le sue controllate, relative alla gestione di assets significativi, con facoltà di divulgarle anche disgiuntamente, ma comunque in modo “completo, tempestivo, adeguato e non selettivo”.

Sviluppando il parallelismo con la responsabilità per colpa della persona fisica, la sentenza in rassegna ha poi ritenuto, in relazione all’organismo di controllo costituito da Impregilo s.p.a. che, pur potendosi condividere le criticità espresse dalla sentenza rescindente della Quinta Sezione, quanto alla sua mancanza di autonomia (trattandosi del responsabile dell’internal auditing, operante alle dipendenze del presidente del consiglio di amministrazione) tuttavia tale deficit sia ininfluente sul piano causale, e così pure che sia ininfluente la composizione monocratica dell’organo, che era apparsa al Collegio rescindente anch’essa sintomatica di inidoneità, rispetto alla commissione dello specifico reato di aggiotaggio, in quanto frutto, questo, di un’iniziativa estemporanea dei vertici, tra loro concordata in tempi ristrettissimi e dunque sostanzialmente fraudolenta.

Il tema dei requisiti di autonomia ed indipendenza era non nuovo e già esplorato dalla giurisprudenza, ove si consideri che anche in altra vicenda, relativa alla responsabilità ex decreto 231 del 2001 di società del gruppo Ilva s.p.a. di Taranto, la Corte aveva valutato non idoneo il modello organizzativo, per non essere stato istituito un organismo di vigilanza provvisto di poteri di controllo autonomi ed effettivi, bensì sottoposto alle dirette dipendenze del soggetto controllato ( v. Sez. 2, n. 52316 del 27/09/2016, Riva, Rv. 268964-01, in cui si era accertato che l’organismo di vigilanza della holding era presieduto da un consigliere d’amministrazione di una società partecipata, nonché da soggetti legati da rapporti fiduciari con gli amministratori della controllante); ma è del tutto inedita rispetto a tali arresti la riflessione, compiuta in Impregilo 2, sulla inesigibilità di poteri ancor più pervasivi, laddove questi finiscano con lo snaturare la funzione che il legislatore ha attribuito all’organismo di controllo, che è quella di vigilare su funzionamento ed osservanza dei modelli e di curarne l’aggiornamento, per assimilarlo invece ad un supervisore dell’attività dei soggetti attributari di poteri direttivi e d’indirizzo dell’impresa.

Una tale ingerenza, peraltro difficilmente praticabile con riferimento agli atti meramente comunicativi adottati dagli organi apicali, non solo esorbita dal profilo funzionale come sopra delineato dalla norma per tale organismo, che è quella, in buona sostanza, di individuare e segnalare le criticità del modello e delle modalità attuative, ma finirebbe essa stessa col compromettere l’autonomia del controllante, determinando commistioni di piani, e potrebbe rivelarsi forse nociva, posto che l’autonomia dei vertici è coessenziale “al fascio di poteri e responsabilità loro riconosciuti dalla legge”.

Il tema si intreccia, all’evidenza, con quello relativo alla elusione fraudolenta del modello organizzativo e di gestione, quale ulteriore - e più sfuggente - presupposto in presenza del quale l’ente può sottrarsi alla responsabilità per il fatto dei soggetti in posizione apicale.

È tale, per la Corte, una condotta avente portata decettiva ossia, come già aveva precisato la sentenza rescindente, “ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola”, che si ponga rispetto al modello in dissonanza non frontale, giacché, in tale evenienza, è certo che il reato costituisce il risultato di una scelta autonoma ed insidiosa della persona fisica che prescinde da un deficit organizzativo.

Dunque, quando il sistema di prevenzione sia tale da non potere essere aggirato se non fraudolentemente, il rischio della commissione di reati può ritenersi socialmente accettabile.

L’esigenza di rinvenire prova, ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’ente, di una specifica colpa di organizzazione, quale elemento che connota la tipicità dell’illecito amministrativo, è stata ribadita, nel periodo in rassegna, anche dalla coeva Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina, Rv. 283247-01.

Sottolineando la necessità di cogliere la specificità della colpa dell’ente rispetto a quella dei soggetti autori del reato, in coerenza con la sostanziale autonomia dell’illecito corporativo, la sentenza pone l’accento tonico su quanto deve connotare il giudizio di rimproverabilità nei confronti del primo.

Ebbene, ove difettino gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente – da riscontrare con il rigore e la completezza di cui si è sin qui detto - non può ritenersi ex se esaustiva neppure la mancanza od inidoneità degli specifici modelli di organizzazione, e tantomeno la loro inefficace attuazione.

Nella vicenda portata all’attenzione dei Giudici di legittimità, era stata ritenuta la responsabilità dell’ente per le lesioni di cui era rimasta vittima la lavoratrice di una cartotecnica, in base alla generica assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro che contemplasse un organo di vigilanza preposto alla verifica dei sistemi di sicurezza delle macchine operatrici. La Corte ha evidenziato come si fossero esclusivamente richiamati, dai Giudici di merito, profili di responsabilità (in particolare, con riguardo alla riscontrata mancanza del dispositivo di spegnimento automatico del macchinario, la cui implementazione avrebbe impedito l’evento, ed all’omessa verifica periodica della sua funzionalità) innegabilmente riferibili agli amministratori della società, quali datori di lavoro tenuti al rispetto delle norme di prevenzione ai sensi del d.lgs. n. 81 del 2008 sulla salute nei luoghi di lavoro, che tuttavia non per questo sono automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale, secondo un improprio e semplificante processo di traslazione, giacché, diversamente, si finisce con l’alterare un ordine logico sequenziale di verifiche, intersecando piani di azione destinati - come detto - a rimanere distinti.

3. Rilevanza della delega di funzioni e ricadute in tema di responsabilità del soggetto collettivo.

Nell’anno decorso, altra pronuncia (Sez. 4, n. 34943 del 24/05/2022, Italpizza s.r.l.) ha poi esaminato, anche ai fini del giudizio di responsabilità dell’ente, la questione della possibilità di identificare nel delegato alla gestione della sicurezza un soggetto apicale della compagine societaria.

La decisione muove da una puntuale ermeneusi dell’art. 5, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 231 del 2001, lì dove dispone che la società è responsabile per i reati commessi “da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione o il controllo dello stesso” ed esamina la rilevanza che può assumere la delega di funzioni ai fini della responsabilità degli enti.

Richiamate le storiche Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014 Espenhahn, cit. e Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo Rv. 281997-01, Rv. 26112-01, la sentenza evidenzia come la natura della relazione tra gli autori dei reati e l’ente costituisca un presupposto indefettibile dell’imputazione al soggetto collettivo degli effetti del loro operato, soprattutto per la tendenza a ritenere l’agire dei soggetti apicali ex se espressivo di colpa di organizzazione, in ragione del rapporto di immedesimazione organica.

Dunque, la struttura dell’illecito corporativo trova decisiva implicazione nella qualità della persona fisica autrice della condotta criminosa (nello stesso senso v. Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, Bonomelli, Rv. 267048-01), giacché, ove si tratti di uno dei soggetti indicati dalla lettera a) dell’art. 5 del decreto 231, l’adozione e la efficace attuazione di idoneo modello non sono sufficienti ad escludere la responsabilità dell’ente, occorrendo altresì che esso sia stato fraudolentemente eluso, mentre, nel caso di soggetto sottoposto, secondo la nozione che si attinge dall’art. 5 lett. b), l’adozione e l’efficace attuazione di un modello idoneo possono consentire l’esonero, anche quando il reato sia stato reso possibile dalla violazione degli obblighi di direzione e controllo gravanti sui soggetti apicali.

Ciò posto, precisa la Corte che l’art. 5, comma 1, lett. a), non ha inteso richiamare le posizioni apicali previste dalla legislazione del settore lavoristico (datore di lavoro, dirigente, preposto), bensì sta ad indicare, in termini generali e omnicomprensivi, “la massima espressione di rappresentanza e di gestione della persona giuridica”.

Più in dettaglio, la nozione di rappresentanza evoca, sotto il profilo sostanziale e processuale, un insieme di poteri in forza dei quali l’organo esprime all’esterno la volontà dell’ente in relazione agli atti che rientrano nell’esercizio delle sue funzioni e costituisce, indipendentemente dal conferimento di specifica procura, proiezione del ruolo dallo stesso rivestito all’interno della compagine; mentre le nozioni di amministrazione e di direzione dell’ente o di una singola unità organizzativa evocano la massima espressione dei poteri di indirizzo, di elaborazione delle scelte strategiche della organizzazione aziendale, della assunzione delle decisioni e dei deliberati attraverso i quali l’ente persegue le proprie finalità.

Posta tale premessa ricostruttiva, si è osservato che la direzione postula un atto “prepositurale” con cui il dirigente viene indirizzato all’intera organizzazione aziendale, ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, e viene investito di attribuzioni che, per ampiezza e per poteri di iniziativa e di discrezionalità, siano tali, pur se nel rispetto delle direttive programmatiche generali, da imprimere un indirizzo o un orientamento al governo complessivo dell’azienda, cui si correla una corrispondente responsabilità ad alto livello.

Se così è, deve escludersi che tali connotazioni possano riferirsi al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale ricopre una funzione di ausilio, diretta a supportare, ma non a sostituire, il datore di lavoro, essendogli demandati compiti piuttosto tesi alla individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, alla elaborazione delle misure preventive e protettive, nonché inerenti alle pratiche di informazione e formazione dei dipendenti. La nomina e la collaborazione resa in ragione del rapporto di ausiliarietà e di subordinazione al datore di lavoro non valgono, perciò, a sollevare il datore di lavoro e i dirigenti dalla vigilanza e dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni (Sez.4, n. 24958 del 26/04/2017, Rescio, Rv. 270286-01).

Né a diverse conclusioni può pervenirsi quand’anche sia intervenuta – come nella specie – una delega traslativa di ulteriori poteri in relazione ad un settore, ancorchè nevralgico, come quello della prevenzione infortuni, essendo pur sempre il delegato tenuto a rapportarsi al datore, ai fini dell’adozione delle misure che esulino dai poteri di gestione e di spesa a lui attribuiti, ed essendo, ancor più a monte, imprescindibile l’osservanza dei limiti al potere di delega di cui all’art. 16 del d.lgs. n. 81 del 2001, e di quelli inerenti sia alla valutazione dei rischi, sia alla elaborazione del relativo documento (Sez. 4, n. 27295 del 2/12/2016, Furlan, Rv. 270355-01).

Disponendo l’annullamento con rinvio della pronunzia impugnata, la Corte ha dunque prescritto che i Giudici di merito riconsiderassero, oltre a tali limiti, anche normativi, eventuali fattori atti a depotenziare la portata della delega.

Se, nei gradi precedenti di giudizio, si era valorizzato che, in forza della procura, era stato consentito al responsabile del servizio di sicurezza di compiere scelte decisionali, con esclusione di ingerenza dell’organo amministrativo dell’azienda e con diretta disponibilità della provvista economica necessaria per l’adempimento dei compiti stessi, entro il limite di euro 25.000, ed anche di sottoscrivere il documento di valutazione dei rischi, la Corte ha ammonito i Giudici del rescissorio dal fondare il ragionamento probatorio sul suggestivo, ma non contestualizzato, argomento difensivo fondato sull’autonomia decisionale conferita al delegato alla funzione prevenzionistica, anche nel caso in cui risultassero osservate le prescrizioni indicate dall’art.16 del d.lgs. n. 81 del 2008; e ciò perché tale autonomia - peraltro del tutto limitata nella vicenda al vaglio, in ragione del tetto di spesa prefissato - costituisce solo il presupposto necessario all’esercizio della delega stessa, ma è da sola inesaustiva a fare emergere i caratteri della sovraordinazione apicale e a fondare, conseguentemente, la correlata responsabilità amministrativa dell’ente.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. U., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239922-23-24-25-26-27;

Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261112-01;

Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247666-01;

Sez. 5, n. 4677 del 18/12/2013, dep. 2014, Impregilo Rv. 257988-01, Rv. 257987-01;

Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, Bonomelli, Rv. 267048-01;

Sez. 2, n. 52316 del 27/09/2016, Riva, Rv. 268964-01;

Sez. 4, n. 27295 del 2/12/2016, Furlan, Rv. 270355-01;

Sez.4, n. 24958 del 26/04/2017, Rescio, Rv. 270286-01;

Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997-01;

Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina, Rv. 283247-01;

Sez. 4, n. 34943 del 24/05/2022, Italpizza s.r.l.

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE V - MISURE DI PREVENZIONE

  • reato
  • restrizione di libertà
  • confisca di beni

CAPITOLO I

ORIENTAMENTI IN MATERIA DI MISURE DI PREVENZIONE

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Misure di prevenzione personali. - 2 Singole fattispecie di reato. - 3 Procedimento in materia di misure di prevenzione personali. - 4 Confisca di prevenzione. - 5 Rapporto con il procedimento penale. - 6 Confisca e sospensione dei termini di efficacia. - 7 Confisca per equivalente. - 8 Indagini patrimoniali. - 9 Il procedimento delle misure di prevenzione patrimoniali, con particolare riferimento alla tutela dei terzi. - Indice delle sentenze

1. Misure di prevenzione personali.

Alcune interessanti decisioni sono state rese in tema di contenuto delle prescrizioni inerenti ad alcune delle misure di prevenzione personali.

In tema di rapporto tra misura di prevenzione personale e quelle volte a garantire lo svolgimento in sicurezza delle manifestazioni sportive di cui alla legge n. 401 del 1989, Sez. 2, n. 18264 del 31/03/2022, Boiocchi, Rv. 283060-01 ha affermato che, laddove vi sia un’effettiva e puntuale motivazione, ed a prescindere dalla disciplina specifica di cui alla predetta legge è legittima, nel contesto delle prescrizioni facoltative di cui all’art. 8, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, quella del divieto di frequentazione dello stadio e di avvicinamento a zone limitrofe durante lo svolgimento di manifestazioni sportive, quali luoghi aperti al pubblico e non di pubblica riunione.

La Corte ha fatto applicazione di quanto affermato da Sez. U., n. 46595 del 28/03/2019, Acquaviva, Rv. 277007-01 secondo cui «la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso disposta in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico».

In particolare, secondo tale arresto, la prescrizione non riguarda gli stadi (luoghi aperti al pubblico), e, ove ricorra una effettiva e puntuale motivazione, a prescindere dalla disciplina applicabile a casi particolari di cui alla legge n. 401 del 1989, comunque, permane la possibilità, per il giudice di prevenzione, di imporre tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale ai sensi dell’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011.

Sez. 1, n. 37678 del 03/05/2022, Khaldi, Rv. 283887-01 ha affermato che «la prescrizione accessoria aggiuntiva dell’obbligo di presentazione all’Autorità di pubblica sicurezza è applicabile esclusivamente al sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno».

La ratio del principio (affermato per la prima volta) è stata rinvenuta, sostanzialmente, nella previsione di cui all’art. 8, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 alla luce del suo contenuto letterale (l’avverbio “inoltre”), della sua collocazione «topografica» («in coda alle disposizioni sulle prescrizioni accessorie, "tipizzate" e "non tipizzate", previste solo per la misura di prevenzione della sorveglianza speciale (senza obbligo di soggiorno)»), dell’esigenza di una «maggiore incisività della misura accessoria dell’obbligo di soggiorno, correlata, all’evidenza, alla maggiore pericolosità sociale del proposto».

Tali elementi giustificano la tesi secondo cui l’obbligo di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza sia stato specificamente ed effettivamente concepito per il solo caso del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno, «proprio al fine di assicurare una maggiore efficacia e vincolatività dell’obbligo stesso nei confronti di persona che si stima più pericolosa».

La Corte ha anche precisato che non rientra tra le attribuzioni del giudice chiamato a pronunciarsi sul reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 la disapplicazione del provvedimento genetico della misura che non si sia attenuto al predetto principio, potendo lo stesso essere impugnato quello stesso provvedimento secondo le regole generali in tema di impugnazione dei provvedimenti applicativi delle misure di prevenzione.

Sez. 5, n. 23388 del 01/04/2022, Perillo, Rv. 283433-01 ha affermato il principio di diritto secondo cui «la sospensione della esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per effetto della detenzione per espiazione pena non preclude all’interessato la proposizione dell’istanza di revoca ai sensi dell’art. 11, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, purché sostenuta da un interesse concreto e attuale comprovato dal richiedente la revoca».

La Corte, si è così posta in consapevole contrasto con altro precedente risalente a Sez. 6, n. 26243 del 24/06/2020, Mammino, Rv. 279612-01 che aveva, invece, affermato la preclusione assoluta dell’istanza di rivalutazione della pericolosità in conseguenza della condizione di detenzione del sottoposto alla misura.

Con l’arresto indicato la Corte ha messo in rilievo come gli elementi che richiedono una rivalutazione poiché è cessata o mutata la causa genetica del provvedimento possono emergere anche in una fase anteriore all’applicazione della misura, anche per effetto dell’esito positivo del trattamento risocializzante, potendosi determinare «quantomeno sulla possibile caducazione degli effetti delle misure di prevenzione, che, ai sensi dell’art. 67 d.lgs. n. 159 del 2011, discendono automaticamente dal provvedimento definitivo di loro applicazione».

2. Singole fattispecie di reato.

Alcune pronunce hanno riguardato specifiche fattispecie di reato previste nel d.lgs. n. 159 del 2011.

In tema di rapporto tra avviso orale e reato di cui all’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011 consistente nella guida di un autoveicolo senza patente vanno segnalate due sentenze tra loro contrastanti.

Sez. 1, n. 47713 del 27/10/2022, Tatangelo, Rv. 283820-01 ha, infatti, affermato che «non integra il reato di cui all’art. 73 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la guida di un autoveicolo senza patente, o dopo che la stessa sia stata revocata, da parte del destinatario di un mero avviso orale del questore, che, senza la prescrizione dei divieti previsti dall’art. 3, comma 4, del citato d.lgs., non costituisce misura di prevenzione, non comportando limitazioni alla libertà personale», mentre Sez. 1, n. 418 del 17/11/2022, dep. 2023, Lombardo, Rv. 283945-01 il difforme principio secondo cui «il reato di cui all’art. 73 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che sanziona la guida di un autoveicolo senza patente o dopo che la stessa sia stata revocata, da parte di persona sottoposta a misura di prevenzione, è configurabile anche nel caso in cui quest’ultima sia stata disposta dall’autorità amministrativa».

Alcune sentenze hanno ribadito principi che possono ritenersi, allo stato, consolidati in materia di violazione delle prescrizioni al foglio di via che integra la condotta sanzionata dall’art. 76, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 e che consiste nella contravvenzione alle disposizioni di cui all’art. 2 del medesimo decreto legislativo, il quale stabilisce, testualmente, che «qualora le persone indicate nell’articolo 1 siano pericolose per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dei luoghi di residenza, il questore può rimandarvele con provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, inibendo loro di ritornare, senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni, nel comune dal quale sono allontanate».

A tale proposito, Sez. 1, n. 14023 del 17/02/2022, Ciurar, Rv. 282851-01 ha affermato che «l’ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio si caratterizza per la duplice intimazione di fare rientro nel luogo di residenza e di non ritornare nel Comune oggetto dell’ordine di allontanamento, sicchè la mancanza di una delle due prescrizioni determina l’illegittimità del provvedimento, rilevabile dal giudice penale al fine di disapplicarlo per difformità dalla fattispecie tipica, con la conseguente insussistenza del reato di cui all’art. 76, comma 3, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159».

Si tratta di orientamento ribadito da Sez. 1, n. 24163 del 11/03/2022, Maccabiani, Rv. 283403-01 ove si rinviene anche la precisazione che l’insussistenza del reato può derivare anche dal «mancato accertamento del luogo di residenza del destinatario della misura, con conseguente omissione dell’ordine di rimpatrio».

Il principio, come anticipato, è coerente con quanto, recentemente affermato, fra le altre, da Sez. 1, n. 13975 del 05/03/2020, Kim, Rv. 278821-01 e che attesta il superamento del contrario minoritario orientamento, da ultimo, espresso in Sez. 1, n. 460 del 14/11/2018, dep. 2019, Laslo, Rv. 276155-01 secondo cui, invece, deve ritenersi legittimo il provvedimento del questore contenente il solo divieto ritornare in un determinato territorio comunale e non anche l’ordine di rientro nel luogo di residenza.

Con riferimento alle sanzioni penali per la violazione delle disposizioni inerenti alle misure di prevenzione patrimoniali, Sez. 1, n. 25765 del 21/12/2021, dep. 2022, Calabria, Rv. 283312-01 ha affermato che «il reato previsto dall’art. 76, comma 5, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è configurabile rispetto alla condotta di chi eluda o tenti di eludere l’esecuzione del provvedimento di amministrazione giudiziaria dei beni personali, disposta ai sensi dell’art. 33 d.lgs. citato, non trovando applicazione con riferimento alla confisca, la cui elusione integra la diversa fattispecie di cui all’art. 334, comma terzo, cod. pen.».

La decisione è in continuità con quanto deciso da Sez. 6, n. 51899 del 19/09/2019, Assumma, Rv. 277730-01 e che trova fondamento nell’esigenza di assicurare il rispetto dei principi di legalità, tassatività e riserva di legge per evitare l’ampliamento del dato testuale che delimita la configurazione normativa dell’illecito ed estendere l’ambito oggettivo di applicazione della norma incriminatrice a situazioni dalla stessa non previste.

È stato così disatteso il diverso orientamento (Sez. 2, n. 12863 del 27/01/2017, Orsino, Rv. 270582-01 e Sez. 2, n. 11867 del 01/02/2017, Muto, Rv. 269557-01) secondo cui il reato di cui alla predetta norma sarebbe ravvisabile anche nel caso di condotte elusive sia del sequestro preventivo finalizzato alla confisca che della confisca prevista dall’art. 240 cod. pen. a seguito di sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.

3. Procedimento in materia di misure di prevenzione personali.

Sono state emesse alcune decisioni significative in tema di competenza in ordine ai provvedimenti relativi alla sequenza procedimentale che può caratterizzare le vicende esecutive delle misure di prevenzione personali.

Sez. 1, n. 25797 del 18/05/2022, Tribunale di Milano, Rv. 283313-01 ha affermato il principio inedito per cui «in tema di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, spetta al presidente del tribunale che ha applicato la misura di prevenzione la competenza a provvedere sull’istanza di autorizzazione del prevenuto ad allontanarsi temporaneamente dal luogo di soggiorno coatto, non rilevando l’intervenuto trasferimento di dimora».

A tale proposito, la Corte ha precisato che il richiamo all’art. 5 operato dall’art. 12, comma 2, d. lgs. n. 159 del 2011 deve essere inteso come riferito alla situazione di fatto esistente al momento della richiesta della misura di prevenzione, da ciò derivando la competenza per territorio del tribunale del luogo dell’ufficio giudiziario che ha applicato la misura di prevenzione.

In tal senso depongono sia argomenti di natura letterale che logica essendo il giudice che ha applicato la misura quello che possiede maggiori e più attendibili elementi per potere esaminare le richieste del sorvegliato speciale.

Sez. 1, n. 43878 del 09/09/2022, Tribunale di Reggio Calabria, Rv. 283744-01 ha affrontato e risolto, anche in questo caso con affermazione inedita, la questione della competenza a provvedere sulla rivalutazione della pericolosità nel caso di cessata detenzione ultrabiennale ai sensi dell’art. 14, comma 2.ter, d.lgs. n. 159 del 2011 nel caso di pendenza del gravame avverso il provvedimento applicativo.

È stata affermata la competenza del giudice del gravame, precisando che la competenza del giudice che ha applicato la misura eventualmente interessata dalla domanda di revoca, modificazione o aggravamento, «presuppone la definitività della decisione impositiva, atteggiandosi a competenza di tipo esecutivo, lì dove, in pendenza del giudizio di secondo grado, e a fronte di misura (provvisoriamente esecutiva, ma) ancora in predicato, l’oggetto della domanda refluisce nel più ampio potere-dovere di generale riesame della pericolosità del proposto, intestato al giudice superiore».

Sez. 2, n. 19329 del 31/03/2022, Radosavljevic, Rv. 283188-01 ha invece affermato che «in tema di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, l’autorizzazione ad allontanarsi dalla propria abitazione in modo stabile e continuativo per esigenze di lavoro e la sua revoca, implicando un giudizio, rispettivamente, di ridotta o aumentata pericolosità del proposto e una modifica permanente delle prescrizioni, rientra nella previsione di cui all’art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 e non in quella di cui all’art. 12 del medesimo decreto, sicchè, in assenza di specifica regolamentazione, trova applicazione il procedimento ordinario di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 159 del 2011, che postula che la decisione sia presa con la garanzia del contraddittorio tra le parti».

Si tratta della sostanziale applicazione del principio, risalente a Sez. 1, n. 9590 del 29/11/2000, dep. 2001, Cassarà, Rv. 218551-01 e Sez. 1, n. 10356 del 29/01/2004, Somma, Rv. 227186-01 che avevano reso analoga affermazione limitatamente all’autorizzazione a permanente e non alla sua revoca (fattispecie, invece, considerata nella sentenza di interesse).

Nel solco di un consolidato orientamento si colloca, invece, Sez. 2, n. 15483 del 25/02/2022, Anania, Rv. 283224-01 che ha ribadito il principio per cui «in tema di misure di prevenzione, l’astratta compatibilità tra la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e l’affidamento in prova al servizio sociale non esime il giudice del procedimento di prevenzione dall’obbligo di valutare, in concreto, la possibilità della contemporanea esecuzione, nei confronti del medesimo soggetto, di misure coercitive diverse, in quanto, ferma restando la plausibilità di un giudizio di pericolosità compiuto sugli stessi presupposti fattuali, ma a fini diversi, è necessario che il giudice del procedimento di prevenzione supporti con elementi concreti il giudizio sull’attuale pericolosità del proposto, adeguando la motivazione del provvedimento alla situazione specifica».

Si tratta di arresto coerente con i precedenti costituiti da Sez. 1, n. 45277 del 10/10/2013, Grillo, Rv. 257478-01; Sez. 1, n. 3681 del 18/01/2007, De Fusco, Rv. 235798-01; Sez. 5, n. 8119 del 19/11/2003, dep. 2004, Tusla, Rv. 228771-01.

4. Confisca di prevenzione.

Sez. 6, n. 7072 del 14/07/2021, dep. 2022, Zummo, Rv. 283462-01 ha risolto la questione relativa all’ambito di estensione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca, con particolare riguardo alla esatta individuazione della derivazione causale tra l’attività illegale e l’acquisizione del bene o la formazione della provvista per essa impiegata, escludendo l’applicazione rigida del criterio cronologico e richiamando, a tale proposito, la giurisprudenza più recente formatasi sul punto (fra le molte Sez. 6, n. 36421 del 06/09/2021, Palmieri, Rv. 281990-01).

A proposito, quindi dell’impresa “a partecipazione mafiosa” ha affermato che quando l’attività si è espansa sotto la protezione di un’associazione mafiosa, «ne risulta contaminato tutto il capitale sociale e l’intero patrimonio aziendale, divenendo essi stessi parti dell’impresa "a partecipazione mafiosa" che, come tali, sono soggette a confisca, a nulla rilevando l’iniziale carattere lecito delle quote versate dai diversi soci».

In tale prospettiva, è stata affermata l’impossibilità di separare, a fini ablatori, la quota ideale riconducibile all’utilizzo di risorse illecite, essendo normalmente impossibile distinguerla da quella riferibile alla capacità e all’iniziativa imprenditoriale legittima.

Sez. 1, n. 12229 del 12/10/2021, dep. 2022, UBI Banca, Rv. 282849-01 ha esaminato la questione dell’opponibilità della confisca precisando che deve essere qualificata come contratto di pegno irregolare la sottoscrizione di obbligazioni bancarie dematerializzate a garanzia di un’apertura di credito, in quanto attributiva alla banca creditrice della facoltà di disporre dei relativi titoli o documenti di legittimazione, pur in correlazione funzionale con il rapporto obbligatorio principale, con conseguente inopponibilità della confisca disposta sugli stessi.

La qualificazione ai sensi dell’art. 1851 cod. civ. è avvenuta con riguardo a titoli dematerializzati (quote obbligazionarie indistinte in quanto non singolarmente individuate), quindi fungibili e, in quanto tali, oggetto di pegno necessariamente irregolare, frutto anche dell’attribuzione alla banca di specifiche facoltà di disposizione.

In tema di rapporto tra confisca di prevenzione e reato di evasione fiscale, Sez. 1, n. 20160 del 16/11/2021, dep. 2022, Bonaffini, Rv. 283089-01 ha ribadito che «chi è dedito in modo continuativo a condotte di evasione degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosità sociale che lo colloca nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sicchè i beni a lui derivanti dal reinvestimento della provvista finanziaria illecitamente realizzata possono essere oggetto di confisca, in quanto provento di delitto».

Si tratta di principio conforme a quello dell’orientamento ormai consolidato sul punto.

In tal senso Sez. 1, n. 53636 del 15/06/2017, Gargano, Rv. 272167-01; Sez. 2, n. 13566 del 19/02/2019, Maccione, Rv. 275771-01; Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, Pomilio, Rv. 278679-02.

Sez. 2, n. 4189 del 26/11/2021, dep. 2022, Sgroi, Rv. 282811-01 ha risolto una questione di diritto transitorio affermando che nel caso di confisca di prevenzione "post-mortem" «ove la misura ablatoria sia disposta "in via autonoma" ai sensi dell’art. 2-ter, comma 11, legge 31 maggio 1965, n. 575, a seguito di sequestro preventivo eseguito in data anteriore all’entrata in vigore della novella introdotta dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, non trova applicazione il termine perentorio annuale (prorogabile sino a due anni in casi di particolare complessità delle indagini), previsto, a pena d’invalidità, per l’emissione della confisca, dal comma 3 del medesimo art. 2-ter, ma quello quinquennale per l’avvio del procedimento stabilito dalla disciplina transitoria di cui all’art. 117 d.lgs. n. 159 del 2011, che decorre dal decesso della persona in vita socialmente pericolosa».

In materia di termine decadenziale, Sez. 2, n. 11351 del 25/02/2022, D’Onghia, Rv. 282960-01 ha affermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 18, 29, 34-ter d.lgs. 6 n. 159 del 2011, per contrasto con gli artt. 3, 24, comma secondo, 27, comma secondo, 111, commi primo e secondo, Cost. e 6, § 1, CEDU, «nella parte in cui non è previsto, rispetto al momento della cessazione della pericolosità del proposto, un termine di decadenza dell’azione propositiva o di prescrizione della misura di prevenzione, posto che costituisce presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale la sussistenza della pericolosità al momento dell’acquisto del bene, che a quest’ultimo si trasferisce in via permanente e tendenzialmente indissolubile, poiché frutto dell’illecita acquisizione da parte del soggetto pericoloso».

La ragione dell’affermazione di tale principio è stata rinvenuta nella sottrazione della confisca di prevenzione (anche tenuto conto di quanto statuito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 24 del 2019 e dalle Sezioni Unite con la sentenza Spinelli) allo statuto costituzionale e convenzionale delle pene e nella individuazione della ratio della confisca nel vizio originario della costituzione dello stesso diritto di proprietà.

Si tratta, peraltro, di principio che si pone in continuità con Sez. 6, n. 10153 del 18/10/2012, dep. 2013, Rv. 254546-01 oggetto di espresso richiamo in motivazione.

Di particolare rilievo quanto deciso da Sez. 1, n. 34905 del 29/04/2022, Ruocco, Rv. 283501–01 nel senso che «in sede di procedimento di revoca della misura, è consentito, nel rispetto del principio del contradditorio, il diverso inquadramento tipico della condizione soggettiva di pericolosità, sulla base delle fonti dimostrative disponibili e di quelle sopravvenute».

Nella fattispecie si trattava di riqualificazione dell’inquadramento tipico di pericolosità del proposto ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011, in quello di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) del medesimo d.lgs.

La Corte ha ritenuto che l’essenza stessa del giudizio revocatorio - in qualsiasi settore dell’ordinamento processuale e, quindi anche in quello della revisione ex art. 630 cod. proc. pen. - «è quella di prendere atto del novum potenzialmente incidente sul giudicato e di effettuare, con ampi poteri cognitivi, un «nuovo giudizio» (in detti termini v. Sez. I n. 3924 del 6.10.1993, Rv. 19559) che tenga conto del portato probatorio preesistente e dei fatti (di qualunque natura) sopravvenuti».

Infatti, la cognizione del giudice della revocazione include il «diverso inquadramento tipico della condotta in sede di prevenzione, così come risulta possibile - semprerispettando il contraddittorio - una diversa qualificazione o considerazione di unelemento del reato in sede di giudizio di revisione del giudicato penale».

Sul punto è stata richiamata anche Sez. U., n. 3513 del 16/12/2021, dep. 2022, Fiorentino, Rv. 282474-01 che, in motivazione, ha illustrato ampiamente l’estensione degli spazi cognitivi a disposizione del giudice nella fase revocatoria.

Sez. 5, n. 28695 del 19/05/2022, Priolo, Rv. 283542-01 è intervenuta sulla questione che, fino a qualche tempo fa, era controversa e che attiene al contenuto dell’avviso di fissazione dell’udienza di comparizione nei confronti della persona proposta.

È stato affermato il principio che tale avviso «non deve necessariamente indicare il tipo di pericolosità posta a fondamento della richiesta, essendo sufficiente, onde assicurare alla difesa un contraddittorio effettivo e congruo, la sola indicazione degli elementi di fatto dai quali la si ritiene desumibile, sicchè non si configura violazione del principio di correlazione tra contestazione e decisione nel caso in cui il provvedimento applicativo della misura ritenga sussistente una categoria di pericolosità sociale diversa o ulteriore rispetto a quella indicata nella proposta».

È stata così data continuità a Sez. 1, n. 25701 del 28/06/2006, Arena, Rv. 234847-01; Sez. 2, n. 28638 del 06/03/2008, Bardellino, Rv. 240611-01; Sez. 1, n. 32032 del 10/06/2013, De Angelis, Rv. 256451-01; Sez. 1, n. 8038 del 05/02/2019, Manauro, Rv. 274915-01.

Risulta così, allo stato, abbandonato il difforme orientamento secondo cui, invece, «nel procedimento di prevenzione, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 6 settembre 2011, l’invito a comparire deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione non solo della misura di cui si chiede l’applicazione, ma anche della forma di pericolosità contestata» (Sez. 1, n. 51843 del 14/11/2014, Santarelli, Rv. 261608-01; Sez. 1, n. 49279 del 30/11/2004, Scutti, Rv. 230769-01; Sez. 1, n. 35767 del 05/07/2013, Bellini, Rv. 256751-01).

In continuità con altro precedente conforme (Sez. 1, n. 30219 del 15/01/2016, De Padova, Rv. 267326-01) si è posta anche Sez. 5, n. 24930 del 26/05/2022, Falletta, Rv. 283508-01 con la quale è stato ribadito che «una volta dimostrata la sproporzione tra redditi e investimenti, l’onere difensivo della dimostrazione della legittima provenienza di un bene non può essere assolto dalla mera allegazione di una plusvalenza derivante dalla operazione commerciale di acquisto e rivendita di altro bene di proprietà del destinatario della misura, laddove manchi la giustificazione della provenienza delle risorse utilizzate per l’acquisizione del bene stesso».

Nella fattispecie si verteva in materia di acquisto di un immobile che era avvenuto con denaro provento dell’attività, lecita, di distribuzione di carburante che, tuttavia, a sua volta, era stata frutto di un iniziale investimento di proventi illeciti, siccome formatisi in costanza della partecipazione del proposto ad un’associazione mafiosa.

Per quanto riguarda, inoltre, l’onere della prova che grava sul terzo che rivendichi l’effettiva disponibilità del bene, ritenuto fittiziamente intestato al proposto, con specifico riguardo alla possibilità di giustificare con proventi da evasione fiscale la sproporzione tra quanto posseduto e la propria capacità economica Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, Stanek, Rv. 283798-02 ha fornito risposta positiva, precisando anche che, qualora ne ricorrano i presupposti, ben potrà disporsi, nella sede propria, un’ablazione nei confronti del terzo in relazione alle sue condotte.

In sostanza, secondo tale lettura, non sarebbero estensibili al terzo le previsioni di cui all’art. 24, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011 secondo cui, in ogni caso, il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.

Si tratta di orientamento difforme rispetto alla Sez. 1, n. 12629 del 16/01/2019, Macrì, Rv. 274988-01 pervenuta alla soluzione opposta ma motivatamente disattesa nell’arresto più recente.

5. Rapporto con il procedimento penale.

In tema di rapporto tra giudizio di prevenzione e procedimento penale e, segnatamente, di incidenza del giudicato assolutorio di merito nel corso del primo, si segnala Sez. 5, n. 5741 del 22/11/2021, dep. 2022, Alfano, Rv. 282892-01 che ha affermato il principio per cui «il sopravvenuto giudicato penale di assoluzione dal reato di intestazione fittizia di beni previsto dall’art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 (oggi art. 512-bis cod. pen.), non integra automaticamente la causa di revoca ex art. 7, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 della confisca deliberata ai sensi dell’art. 2-ter, comma 3, legge 31 maggio 1975, n. 575, in quanto la misura di prevenzione può essere revocata solo qualora il processo penale abbia accertato l’assoluta estraneità del proposto, ritenuto pericoloso, ai fatti reato sulla base dei quali era stata ordinata la confisca, attesa l’autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello penale».

La Corte ha dichiaratamente fatto applicazione dell’orientamento prevalente formatosi in tema di revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011; orientamento nel quale rientra anche Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, Staniscia, Rv. 282655-01 con la quale è stato, ulteriormente, declinato il suddetto principio dell’autonomia tra giudizio penale e quello di prevenzione nel senso che il giudice, proprio in ragione della predetta autonomia, «può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., ove risultino delineati con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività quei fatti che, pur ritenuti insufficienti - nel merito o per preclusioni processuali - per una condanna penale, ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità»

Si tratta di orientamento che si colloca in termini di conformità rispetto ai precedenti costituiti da Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Pandico, Rv. 266364-01; Sez. 2, n. 19880 del 29/03/2019, Grillo, Rv. 276917-01; Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply soc. coop, Rv. 277225-01; Sez. 2, n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862-01.

Sono difformi, invece, Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264319-01; Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, Zangrillo, Rv. 280145-01 secondo cui, invece, il principio della “valutazione autonoma” non può spingersi al punto da consentire, in sede di verifica della pericolosità generica del soggetto proposto per l’applicazione di misura ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, il giudizio di rilevanza di fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione.

A fondamento di tale affermazione è stata posta la circostanza che «la negazione penale irrevocabile di un determinato fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità».

L’orientamento da ultimo affermato, comunque, non esclude la perdurante validità di quello ulteriore secondo cui il giudice della prevenzione chiamato a verificare la pericolosità del soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione può operare un’autonoma utilizzazione dei fatti oggetto di un procedimento penale che non si sia concluso con una sentenza di condanna, purché «la decisione assolutoria non abbia negato la sussistenza del fatto che assume rilevanza ai fini del giudizio prognostico» (fra le molte, Sez. 5, n. 48090 del 08/10/2019, Ruggeri, Rv. 277908-01 espressamente richiamata e condivisa nella sentenza segnalata).

Pur non contraddicendo espressamente l’orientamento maggioritario e richiamando il principio dell’autonomia dei giudizi per come sin qui descritta, Sez. 1, n. 34905 del 29/04/2022, Ruocco, Rv. 283501-02 ha affermato che «nel procedimento di revoca non può essere confermato l’inquadramento tipico di pericolosità del proposto di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, quando in sede penale sia stata definitivamente esclusa la natura mafiosa dell’associazione a delinquere cui accedeva la suddetta fattispecie di pericolosità qualificata».

Ciò non esclude, secondo la Corte, la validità attuale del principio per cui deve essere ribadita la diversità fra le nozioni di “partecipazione” all’associazione mafiosa e di “appartenenza” alla stessa, dovendosi, tuttavia, negare la configurabilità di un’appartenenza ad un sodalizio la cui esistenza sia stata esclusa con sentenza passata in giudicato.

6. Confisca e sospensione dei termini di efficacia.

In ordine alla sospensione dei termini di efficacia della confisca a norma dell’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, Sez. 5, n. 4951 del 10/12/2021, dep. 2022, Chiovaro, Rv. 282895-01 ha deciso che essa si determina per effetto del provvedimento di differimento dell’udienza emesso in accoglimento di un’istanza della difesa.

In particolare, la Corte ha precisato che si applicano al procedimento di prevenzione, oltre alle cause di sospensione del termine di efficacia di cui all’art. 24, comma 2, del citato d.lgs., anche quelle di sospensione del procedimento stabilite in via generale, ivi compresa quella conseguente al differimento dell’udienza su istanza di parte, ex art. 159 cod. pen. che qualifica il rinvio ad istanza di parte quale causa di sospensione del procedimento o del processo che trova, pertanto, applicazione anche nel procedimento di prevenzione.

Nella prospettiva del contemperamento delle esigenze difensive con quelle di sollecita definizione del procedimento di prevenzione, Sez. 1, n. 17164 del 17/12/2021, dep. 2022, Di Giovanni, Rv. 283057-01 ha affermato che «la sospensione dei termini di efficacia del provvedimento ablativo in conseguenza dell’accoglimento della richiesta difensiva di rinvio del procedimento, ai sensi dell’art. 304, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., richiamato dall’art. 24, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è subordinata alla verifica che l’istanza di differimento non sia fondata su inderogabili esigenze difensive che rendano necessario il rinvio della trattazione per il riequilibrio del contraddittorio».

Nella fattispecie la Corte ha ritenuto illegittima la sospensione dei termini per il rinvio disposto a seguito di richiesta difensiva per l’esame della nuova produzione documentale del pubblico ministero e, viceversa, legittima quella conseguente al differimento disposto in accoglimento di un’istanza finalizzata alla verifica del contenuto di una memoria illustrativa.

Si tratta della sostanziale applicazione del principio di diritto affermato da Sez. 5, n. 30757 del 29/09/2020, Nicosia, Rv. 279747-01 secondo cui «l’accoglimento della richiesta difensiva di rinvio del procedimento per la necessità di esaminare gli atti prodotti dal pubblico ministero non determina la sospensione dei termini di efficacia della confisca, versandosi in un’ipotesi di rinvio disposto a seguito della concessione di termini per la difesa, contemplata come causa di esclusione della sospensione dei termini dall’art. 304, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., il cui contenuto è richiamato dall’art. 24, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159» che, a sua volta, si pone in contrasto con Sez. 1, n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939-01 che ha ritenuto, invece, l’accoglimento della richiesta difensiva di rinvio del procedimento per necessità di esame degli atti idoneo a determinare la sospensione dei termini di efficacia della confisca.

7. Confisca per equivalente.

In tema di confisca per equivalente (introdotta dall’art. 2-ter, comma decimo della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 per effetto del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni dalla legge n. 24 luglio 2008, n. 125 e consentita secondo i limiti e le modalità fissate dall’art. 25 d.lgs. n. 159 del 2011, come modificato dall’art. 5, comma 9, legge 17 ottobre 2017, n. 161) si registrano due significativi interventi della Corte.

Con una prima sentenza è stato affrontato il tema del se - ed a quali condizioni - sia consentita la misura su beni entrati nel patrimonio del proposto in un momento antecedente rispetto alla insorgenza della condizione soggettiva di pericolosità.

In primo luogo, la confisca opera solo nel caso in cui non siano rinvenuti beni sequestrabili a norma dell’art. 20 d.lgs. n. 159 del 2011, ovvero di quelli correlabili alla condizione soggettiva di pericolosità del proposto.

Si determina, in tal modo, l’«incremento patrimoniale confiscabile» e, verificata l’impossibilità oggettiva di procedere alla confisca dei beni così individuati, sarà possibile «traslare il valore dei beni non più confiscabili su “altri” di legittima provenienza, rinvenuti nel patrimonio del proposto, svincolati, a questo punto, dal presupposto della correlazione temporale».

Si esclude, quindi, l’assimilazione della confisca per equivalente nel sistema della prevenzione a quella penale giungendo ad affermare che «può essere disposta la confisca per equivalente, ex art. 25 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, di beni di legittima provenienza rinvenuti nel patrimonio del proposto solo nel caso di riscontrata impossibilità oggettiva di ablazione dei beni acquisiti in costanza di condizione di pericolosità tipica» (Sez. 1, n. 16324 del 16/12/2021, dep. 2022, La Mantia, Rv. 283308-01).

La funzione di ablazione di beni che non abbiano alcun collegamento con la pericolosità sociale del proposto è stata sostanzialmente ribadita da Sez. 5, n. 40415 del 27/09/2022, Cardone, Rv. 283869-01 con la quale è stato precisato che «il divieto di applicazione retroattiva della confisca per equivalente, derivante dalla natura sanzionatoria dell’istituto, non si traduce nell’impossibilità di ablazione dei beni di cui il proposto abbia acquisito la disponibilità, diretta o indiretta, anteriormente alla manifestazione della sua pericolosità, ma nell’inapplicabilità della misura ai procedimenti già pendenti alla data di entrata in vigore della disposizione che tale misura ha introdotto».

8. Indagini patrimoniali.

In tema di indagini patrimoniali, Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559-02 ha chiarito che «in tema di misure di prevenzione patrimoniali, volte a colpire patrimoni non "minimi", ma cospicui e sproporzionati rispetto a redditi leciti, non assumono rilievo, ai fini dell’accertamento della sproporzione tra il valore degli acquisti e i redditi e le attività dichiarate, i paramenti introdotti dalla normativa sul reddito di cittadinanza - riferibile a famiglie in difficoltà economica - e riveste mero valore indiziario la spesa media calcolata in base ai parametri ISTAT».

Il riferimento agli indici ISTAT si colloca in continuità con altro recente precedente della Corte sul punto (Sez. 2, n. 36833 del 28/09/2021, Caroppo, Rv. 282361-01), mentre l’esclusione del riferimento al parametro del reddito di cittadinanza è stata giustificata con la circostanza che lo stesso è stato introdotto per sostenere famiglie in difficoltà economica.

Sul punto delle indagini patrimoniali si è pronunciata anche Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, Stanek, Rv. 283798-01 affermando che «l’art. 19, comma 3, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non introduce alcun limite soggettivo o temporale all’attività investigativa da svolgersi ai fini dell’applicazione della misura, ma indica le particolari categorie di soggetti - coniuge, figli e conviventi nell’ultimo quinquennio - in relazione ai quali la fittizia intestazione dei beni in favore del proposto è legittimamente presunta, senza la necessità di specifici accertamenti, quando non risulti la disponibilità di risorse economiche proprie».

Ha richiamato quanto deciso da Sez. U., n. 12621 del 22/12/2016 - dep. 2017, Rv. 270081-01 che ha descritto l’attività di indagine come suscettibile di essere svolta «a forma libera» e svincolata da limiti temporali, anche attraverso iniziative officiose del Tribunale nel corso del procedimento di prevenzione: «attività, questa, che può essere svolta nei confronti di coloro che possono assumere la qualità di terzo intestatario e nei confronti di tutti coloro per i quali è possibile accertare i presupposti della operatività delle presunzioni previste dall’art. 26 d.lgs. cit.».

Tale lettura è stata ritenuta in sentenza contrastante con il principio espresso da Sez. 1, n. 18365 del 20/01/2017, Moceri, Rv. 269823-01.

9. Il procedimento delle misure di prevenzione patrimoniali, con particolare riferimento alla tutela dei terzi.

Numerosi gli interventi della Corte aventi ad oggetto il procedimento di prevenzione.

In tema di capacità del giudice rileva quanto affermato da Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l., Rv. 283137-04 nel senso che «l’incompatibilità del giudice delegato, che abbia pronunciato il decreto di esecutività dello stato passivo, a far parte del collegio chiamato a decidere sulla conseguente opposizione non determina una nullità deducibile in sede di impugnazione, in quanto tale condizione, non escludendo la "potestas iudicandi" del predetto giudice, quale magistrato addetto al tribunale che dell’impugnazione è il giudice naturale, può dar luogo soltanto - salvi i casi di interesse proprio e diretto nella causa - all’esercizio del potere di ricusazione, che la parte interessata ha l’onere di far valere, in caso di mancata astensione, nelle forme e nei termini previsti dal codice di rito».

Rileva anche quanto deciso da Sez. 6, n. 11531 del 01/02/2022, Francia, Rv. 283051-01 in ordine alla disciplina emergenziale per l’emergenza da COVID – 19.

Con la sentenza è stato affermato che l’istanza di «trattazione orale del giudizio d’appello deve essere formulata dalle parti nel termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell’udienza, ai sensi del comma 4 dell’art. 23-bis del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, essendo il più breve termine di cinque giorni previsto, in deroga, dal successivo comma 7 limitato ai soli appelli cautelari».

A tale proposito, la Corte ha precisato che alle impugnazioni in materia si applica il combinato disposto di cui agli artt. 10, comma 4, e 27, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, in riferimento agli artt. 601, comma 3, e 680 cod. proc. pen.

In ordine al requisito della specificità dei motivi di appello, Sez. 2, n. 16553 del 31/03/2022, Milano, Rv. 282965-01 (in conformità a Sez. 6, n. 28825 del 21/09/2017, dep. 2018, Scuto, Rv. 273664-01) ha enunciato il principio secondo cui «l’appello avverso i provvedimenti in tema di misure di prevenzione deve qualificarsi come impugnazione ed è pertanto soggetto alla relativa disciplina, compreso l’art. 581 cod. proc. pen., sicchè deve essere ritenuto inammissibile per difetto di specificità l’appello che non contenga l’enunciazione dei motivi».

Si tratta di fattispecie in cui la Corte, preso atto della mancata proposizione, con l’atto d’appello, del motivo fondato sulla persistenza della pericolosità del soggetto ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata con la quale è stata esclusa la possibilità di esaminare d’ufficio il profilo non oggetto di censura.

Sempre in materia di giudizio di appello, Sez. 5, n. 5749 del 23/11/2021, dep. 2022, De Rosa, Rv. 282780-01 ha affermato che possono essere utilizzati nuovi elementi probatori, preesistenti o sopravvenuti, introdotti anche dal pubblico ministero, purché nell’ambito del devolutum e nel rispetto del principio del contraddittorio.

Il passaggio che rende legittima la predetta utilizzazione è costituito dal deposito nella segreteria del procuratore generale degli atti ulteriori che, nel corso dell’udienza camerale, devono formare oggetto di una specifica richiesta di acquisizione, sulla quale il giudice, all’esito dell’interlocuzione di tutte le parti, provvede valutandone la legittimità, la rilevanza e la non superfluità.

Nella fattispecie, sono stati utilizzati per la decisione atti trasmessi dalla Procura della Repubblica alla Corte di appello dopo l’emissione del decreto di primo grado e prima dell’udienza di discussione nel corso della quale non è stato dato atto della ulteriore acquisizione istruttoria.

Altro significativo principio fissato dalla medesima sentenza (Rv. 282780-02) è quello per cui «la natura cognitiva e giurisdizionale del procedimento impone di ritenere che la rinuncia ad una domanda originaria debba essere espressamente formalizzata non potendosi implicitamente ricavare da fatti concludenti, sicché, ove il pubblico ministero abbia rassegnato conclusioni orali in termini non del tutto conformi alla richiesta formulata per iscritto, non può da ciò ricavarsi il significato concludente del venir meno dell’interesse ad una pronuncia sulla questione originariamente dedotta».

Sul punto è stato, peraltro, evidenziato come il procedimento possa essere avviato su impulso dei soggetti legittimati a chiedere all’autorità giudiziaria che venga applicata una misura di prevenzione personale.

Ne deriva che le conclusioni della parte pubblica non conformi all’originaria richiesta non possono essere espressive del venir meno dell’interesse a una pronuncia sull’oggetto della questione originariamente dedotta.

In punto di tutela del contraddittorio nel procedimento di prevenzione, segnatamente in quello funzionale all’applicazione di misure patrimoniali, rileva quanto deciso da Sez. 2, n. 21814 del 26/04/2022, Vinci, Rv. 283341-01 ove è stato affermato che «l’indagine sui presupposti del sequestro postula un accertamento di merito relativo ad ogni singolo bene, sicchè i principi generali che regolano le impugnazioni escludono la possibilità di una domanda di sequestro oggettivamente "nuova" in sede di appello, posto che, ove così non fosse, verrebbe rimesso all’arbitrio della parte richiedente comprimere o estendere il contraddittorio e la difesa attraverso la scelta del grado di giudizio nel quale esercitare il potere di richiesta».

Nel caso di specie, la segnalazione tardiva del bene da sottoporre a sequestro era stata effettuata dall’amministratore giudiziario.

In tal modo la Corte ha assicurato continuità al risalente indirizzo espresso da Sez. 1, n. 3134 del 21/04/1999, Corria, Rv. 213836-01.

In tema di giudizio di cassazione, Sez. 5, n. 1861 del 28/10/2021, dep. 2022, Raggi, Rv. 282539-01 ha affermato che il ricorso che anziché evidenziare una reale mancanza o apparenza della motivazione del decreto impugnato, «si limiti a censurare genericamente la tecnica del "copia-incolla", di per sé insuscettibile di integrare una carenza logico-argomentativa, è inammissibile perché aspecifico e perché non integra un’ipotesi di violazione di legge - l’unica prevista dal disposto dell’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 - che ricorre quando il decreto omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo nel senso che, singolarmente considerato, sarebbe tale da poter determinare un esito opposto del giudizio».

Si tratta di arresto che, pur nella singolarità della fattispecie considerata, si colloca perfettamente in linea con l’orientamento costante della Corte in materia di limiti del ricorso per cassazione nella materia delle misure di prevenzione, con particolare riferimento a Sez. U., n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246-01.

Sul tema rileva, altresì Sez. 5, n. 702 del 28/09/2021, dep. 2022, Spezio, Rv. 282872-01 con la quale è stata affermato che non è consentito il ricorso per cassazione avverso il decreto con cui la corte d’appello delibera sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dell’esecutività della revoca del sequestro, ai sensi dell’art. 27, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011, nel quale è trasfuso l’art. 3-ter, comma 3, legge 31 maggio 1965, n. 575.

La sospensione della esecutività della revoca è sempre suscettibile di rivisitazione da parte della Corte di appello a seguito di specifiche istanze di parte, ma non è impugnabile con ricorso per cassazione, in assenza di una norma specifica che lo consenta.

Con altra decisione in tema di ricorso per cassazione, è stato affermato che «il ricorso per cassazione avverso la decisione di rigetto della richiesta di revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011, da presentarsi nelle forme di cui all’art. 630 e ss. cod. proc. pen., deve essere proposto nel termine di quindici giorni ai sensi dell’art. 585, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.» (Sez. 5, n. 23391 del 01/04/2022, Spinelli, Rv. 283128-01)

La Corte ha precisato che, non trovando applicazione la limitazione stabilita dall’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 in ordine ai motivi deducibili in cassazione, per il principio di tassatività che governa la materia delle impugnazioni, deve essere esclusa l’applicazione del più breve termine di dieci giorni ivi previsto.

Nella materia delle impugnazioni delle misure di prevenzione, la Corte ha affermato l’operatività, in virtù del richiamo operato dall’art. 10, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011, dei principi di tassatività, legittimazione ed interesse ad impugnare, estensione del potere di proporre impugnazione in capo al difensore del proposto all’atto del deposito del provvedimento, di forma dell’atto di impugnazione con obbligatoria indicazione dei motivi, di modalità di presentazione della impugnazione, di rinunzia alla stessa, di inammissibilità e condanna alle spese.

Con particolare riguardo al rigetto della richiesta di revoca del sequestro, è stato affermato che «anche a seguito della modifica dell’art. 27 d.lgs.6 settembre 2011, n. 159, disposta dall’art. 6 legge 17 ottobre 2017 n. 161, il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca del sequestro, non essendo incluso nel novero di quelli appellabili, è inoppugnabile e il ricorso per cassazione erroneamente proposto non può essere convertito in opposizione ex art. 568 cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 17489 del 14/01/2022, Mattucci, Rv. 283309-01).

L’arresto si pone in contrasto consapevole, limitatamente al profilo della conversione del ricorso in opposizione, con quanto deciso da Sez. 2, n. 4729 del 16/01/2018, Parra, Rv. 272084-01.

Un interessante e inedito principio è stato affermato in punto di inerenza alla procedura di verifica dei crediti di cui agli artt. 52 e seguenti d.lgs. n. 159 del 2011 di posizioni creditorie vantate verso il soggetto destinatario della confisca e derivanti da illecito extracontrattuale.

In punto di accertamento dell’anteriorità del credito e di rapporto dell’eventuale giudizio di cognizione che abbia avuto ad oggetto la posizione creditoria del terzo, Sez. 1, n. 22222 del 26/01/2022, Fallimento Anemone, Rv. 283123-01 ha deciso che «l’esistenza delle posizioni creditorie in data antecedente al sequestro deve risultare accertata in un separato giudizio di cognizione, in quanto il giudice della prevenzione è tenuto alla mera verifica, ex art. 59 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, delle condizioni di ammissione del credito sulla base dei documenti attestanti il fatto illecito che vi ha dato luogo».

Per completezza, si segnala che, a fronte di tale orientamento, vi è un recente arresto difforme costituito da Sez. 6, n. 13474 del 21/03/2023, Ass. Antiraket, Rv. 284276-01 secondo cui, invece, la previsione di cui all’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 che esclude pregiudizi derivanti dalla confisca verso diritti di credito dei terzi risultanti da atti aventi data certa anteriore al sequestro, deve intendersi nel senso che il relativo diritto sia sorto antecedentemente all’applicazione della misura cautelare, non rilevando che esso sia divenuto certo, liquido ed esigibile in un momento successivo, anche per effetto di un accertamento giurisdizionale.

Due significativi arresti vanno segnalati in punto di efficacia preclusiva del giudicato.

Sez. 5, n. 2762 del 23/11/2021, dep. 2022, Sarnataro, Rv. 282738-01 ha affermato che, nel caso di sopravvenuta modifica normativa, è legittimo l’avvio di un nuovo procedimento quando ricorrano le nuove condizioni richieste per l’applicazione della misura, non ostandovi il giudicato formatosi sulla base della pregressa disciplina.

In particolare, la Corte ha ritenuto che la revoca della confisca, disposta sulla base della precedente formulazione dell’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965, che consentiva l’applicazione delle misure patrimoniali solo in concomitanza con quelle personali, non preclude la rinnovazione dell’istanza di prevenzione alla luce delle modifiche normative che ne permettono l’applicazione autonoma e disgiunta.

Si tratta di orientamento conforme al precedente costituito da Sez. 6, n. 53941 del 03/10/2018, Sabatelli, Rv. 274585-01 che ha affermato il più generale principio per cui è applicabile il principio del ne bis in idem in materia di prevenzione ove lo stesso opera rebus sic stantibus e non impedisce la rivalutazione della pericolosità ai fini dell’applicazione di una misura precedentemente rigettata, nel caso in cui siano sopravvenuti elementi nuovi, che possono consistere anche in modifiche normative.

In linea con i principi espressi da tale orientamento (espressamente richiamato in motivazione) Sez. 6, n. 7072 del 14/07/2021, dep. 2022, Zummo, Rv. 283462-02 ha, inoltre, precisato che la preclusione che deriva dal divieto di bis in idem nel procedimento di prevenzione, per effetto della statuizione giudiziale definitiva resa in procedimenti diversi è subordinata all’ identità del «compendio probatorio e del "thema decidendum" con riguardo sia all’oggetto che ai presupposti di esso».

Nella fattispecie era stata dedotta la liceità di depositi bancari, già riconosciuta in procedimenti anche non penali; la Corte ha affermato che il giudizio di liceità di un determinato bene è inscindibilmente collegato alla disciplina normativa relativa all’oggetto di causa, sicché non è preclusa una successiva verifica di tale condizione in relazione ad altro istituto giuridico, fondato su requisiti normativi diversi.

In tema di competenza, Sez. 1, n. 45197 del 08/07/2022, Cappellano Seminara, Rv. 283781-01 ha affermato che «in tema di misure di prevenzione, il ricorso per cassazione ex art. 42, comma 7, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, avverso la decisione della Corte di appello sull’opposizione al decreto di liquidazione dei compensi spettanti all’amministratore giudiziario dei beni sequestrati o confiscati dev’essere trattato e deciso dalle sezioni civili della Corte, stante la natura civilistica della controversia» estendendo, in pratica, alla materia di interesse i principi elaborati dalla stessa giurisprudenza di legittimità sia civile che penale (espressamente richiamata in sentenza) secondo cui la trattazione del ricorso per cassazione avverso il provvedimento che decide sulla liquidazione dei compensi ai difensori e agli altri ausiliari del giudice spetta alle sezioni civili della Corte, a prescindere dalla natura del procedimento ai quale inerisce il decreto opposto.

Con l’importante arresto costituito da Sez. 2, n. 24311 del 01/04/2022, Coscia, sono stati affermati significativi principi in materia di verifica dei diritti vantati dai terzi:

Rv. 283626-01 riguarda il principio per cui «la separazione dei beni assoggettati a sequestro o a confisca determina, in ragione dell’autonomia dell’accertamento endo-prevenzionale, la devoluzione al giudice delegato dal tribunale di prevenzione della verifica ex artt. 52 e ss. d.lgs. 6 settembre 2011, n. 150, dei crediti e dei diritti dei terzi, sicchè, ove siano pendenti giudizi di impugnazione ai sensi dell’art. 98 legge fall., relativi a crediti e a diritti inerenti a rapporti oggetto del sequestro di prevenzione, prevale l’accertamento interno a tale procedimento». Si tratta di principio difforme da Sez. 1, n. 4691 del 28/01/2020, Francia, Rv. 278189-02 (rispetto alla quale si afferma un motivato dissenso) secondo cui, invece, «ai fini dell’ammissione allo stato passivo, il giudice della confisca, in assenza di una disposizione di legge che estenda in modo generalizzato il suo ambito di intervento, è vincolato agli esiti dell’accertamento definitivo in sede civile sull’ "an" e sul "quantum" del credito, salvo il potere di verifica della sua strumentalità rispetto alla attività illecita e dell’insussistenza delle condizioni di incolpevole affidamento del creditore»;

Rv. 283626-03 secondo cui «ai fini dell’ammissione al passivo di un credito nato da un rapporto di prestazione d’opera professionale, l’inopponibilità della data della scrittura privata da cui origina il rapporto, perché carente del requisito della certezza di cui all’art. 2704 cod. civ., non riguarda il contenuto del negozio, sicché lo stesso e la sua conclusione in data anteriore al sequestro possono comunque formare oggetto di prova»;

Rv. 283626-02 relativa alla non tardività della produzione di documenti effettuata con l’atto di opposizione, tenuto conto che «il divieto di cui all’art. 59, comma 8, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, riguarda i soli documenti nuovi prodotti all’udienza fissata per la verifica dei crediti».

In sostanziale coerenza due principi affermati da Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l.:

Rv. 283137-02 secondo cui «l’avvenuta ammissione del credito al passivo non è vincolante in sede di prevenzione, in quanto il cd. "giudicato endofallimentare", ai sensi dell’art. 96, comma 6, legge fall., copre la sola statuizione di rigetto o di accoglimento della domanda di ammissione ed esaurisce, quindi, la sua portata all’interno della procedura fallimentare»;

Rv. 283137-01 relativa al principio per cui «il giudice delegato, investito della verifica dei diritti di credito dei terzi nei confronti dei beni oggetto di confisca di prevenzione in funzione dell’accertamento della ricorrenza della data certa dei crediti anteriore al sequestro ex art. 52 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, deve tener conto di tutte le ipotesi contemplate dall’art. 2704 cod. civ. e, dunque, non solo dei fatti tipici, quali la registrazione o la riproduzione in atto pubblico, ma anche di tutti quei fatti non previsti dalla norma che consentano di stabilire, in modo certo, l’anteriorità della formazione del documento».

Sez. 6, n. 12510 del 02/02/2022, Vieni, Rv. 283108-01 ha affermato, inoltre, che nel caso di domanda di ammissione allo stato passivo da parte del terzo creditore, il tribunale è tenuto, in ordine logico, «a verificare "in primis" il nesso di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita del proposto e, solo all’esito, gli elementi dimostrativi di buona fede addotti dal creditore, anche alla luce dei parametri indicati dal comma 3 dell’art. 52, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159», senza che possano rilevare le preclusioni di cui all’art. 58, comma 5-ter, d.lgs. n. 159 cit. che attengono solo a profili di natura istruttoria idonee ad incidere sul merito della domanda, ma non sulla sua ammissibilità.

Circa la natura dell’istruttoria volta alla verifica dei crediti nel procedimento di opposizione allo stato passivo promosso dai creditori esclusi, Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l., Rv. 283137-03 ha anche precisato che «l’esperibilità di ulteriore attività istruttoria è limitata, ex art. 59, comma 8, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, come novellato dall’art. 21 legge 17 ottobre 2017, n. 161, alla sola produzione di documenti "nuovi", anche se preesistenti alla verifica dei crediti, purché la parte dimostri di esserne venuta in possesso, in maniera incolpevole, successivamente alla verifica dello stato passivo e di non aver potuto allegarli, usando l’ordinaria diligenza, alla domanda di cui all’art. 58, comma 1, lett. c), d.lgs n. 159 del 2011, in dipendenza di un fatto a lei non imputabile».

L’estensione della verifica della buona fede del terzo a fideiussore che abbia prestato garanzia per la concessione del credito è stata affermata da Sez. 1, n. 29111 del 31/03/2022, Juliet, Rv. 283374-01.

Sez. 5, n. 8984 del 19/01/2022, Celentano, Rv. 283979-02, in tema di latitudine dell’onere della prova del terzo ha precisato che non può porsi a carico dello stesso, ritenuto fittizio intestatario dei beni oggetto della richiesta di confisca, «l’onere probatorio di dimostrazione della legittima provenienza delle risorse utilizzate per gli acquisti, non essendo egli, per definizione, il soggetto portatore di pericolosità, poiché il primo passaggio della dimostrazione della scissione tra titolarità formale del bene e impiego delle risorse spetta comunque alla pubblica accusa».

Si tratta di arresto che si pone in continuità con Sez. 1, n. 13375 del 20/09/2017, dep. 2018, Brussolo, Rv. 272703-01, oltre che con Sez. 2, n. 18569 del 12/03/2019, Pisani, secondo cui sul terzo non grava alcun onere probatorio, avendo egli, piuttosto, un onere di allegazione consistente nel confutare la tesi accusatoria dell’intestazione formale e nell’indicare elementi fattuali che dimostrino che quel bene è di sua esclusiva proprietà e disponibilità.

In sostanza, mentre all’accusa compete la produzione degli elementi dimostrativi della sproporzione tra il reddito e il patrimonio e della provenienza delle risorse impiegate per gli acquisti dal soggetto portatore di pericolosità, «sul terzo grava un onere di allegazione di fatti, situazioni, eventi che ragionevolmente e plausibilmente siano atti ad indicare la lecita provenienza dei beni oggetto di richiesta di misura patrimoniale e siano, ovviamente, riscontrabili».

In conformità a un orientamento piuttosto consolidato (in tal senso anche Sez. 6, n. 14143 del 06/02/2019, Monte dei Paschi di Siena, Rv. 275533-01; Sez. 6, n. 32524 del 16/06/2015, Banca Ragusa, Rv. 264373-01), Sez. 5, n. 1869 del 17/11/2021, dep. 2022, Deutsche Bank, Rv. 282734-01 ha ribadito che «in tema di tutela di diritti di credito dei terzi nella confisca di prevenzione, la strumentalità di un credito derivante dalla concessione di un mutuo ipotecario al proposto, può presumersi, fino a prova contraria, nei casi di corrispondenza temporale tra l’insorgenza del credito e l’accertata pericolosità sociale, dovendosi ritenere che l’incrementata disponibilità di mezzi finanziari sia senz’altro idonea ad agevolare, pur indirettamente, la realizzazione delle attività illecite».

Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito di escludere dallo stato passivo, formato nel corso del procedimento di prevenzione, l’istituto bancario che aveva erogato, nel periodo in cui si era già manifestata la pericolosità sociale del proposto, un mutuo ipotecario, ritenuto espediente utile per reimmettere nel circuito legale il danaro di provenienza illecita.

Per la categoria particolare dei creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti per il quali non si applica la disciplina del d.lgs. n. 159 del 2011 (nonché anche quelli appartenenti alle altre categorie di creditori richiamate dall’art. 1, comma 198, legge 24 dicembre 2012, n. 228, quale risultante a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 94 del 2015) Sez. U., n. 39608 del 22/02/2018, Business Partner Italia, Rv. 273660-01 ha deciso che devono presentare la domanda di ammissione del loro credito al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge n. 228 del 2012, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della stessa legge, in quanto si tratta di termine di decadenza che decorre indipendentemente dalle predette comunicazioni

In coerenza con tale principio Sez. 5, n. 2742 del 30/09/2021, dep. 2022, Agate, Rv. 282653-01 ha affermato anche che «la comunicazione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, di cui all’art. 1, comma 206, della legge n. 228 del 2012, ha natura di mera pubblicità - notizia sicché la decorrenza, per il creditore ipotecario, del termine di decadenza, di 180 giorni dalla decisione, per proporre al giudice dell’esecuzione domanda di ammissione al credito, va ancorata alla prova dell’effettiva conoscenza, da parte del terzo, del procedimento di prevenzione».

Vanno, infine segnalate due arresti con i quali la Corte ha affrontato la questione dell’applicazione dei principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019.

Sez. 5, n. 19227 del 24/01/2022, Immobiliare Peonia, Rv. 283397-01 ha affermato l’applicabilità delle misure di prevenzione «nei confronti dei soggetti cd. pericolosi generici, che rientrano nella categoria di cui all’art. 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche nel caso di condotte poste in essere prima della sentenza interpretativa di rigetto n. 24 del 2019, poiché con essa la Corte costituzionale, aderendo all’interpretazione giurisprudenziale della disposizione maggiormente restrittiva, si è limitata a ricondurre nelle maglie della determinatezza solo condotte palesemente sintomatiche di pericolosità generica».

Inoltre, Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559-01 (nel solco di un orientamento consolidato espresso, da ultimo, da Sez. 5, n. 38737 del 10/07/2019, Giorgitto, Rv. 276648-01) ha precisato che «la lettura "tassativizzante" della categoria di pericolosità generica di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 6 settembre 2011 n. 159, affermata nella sentenza della Corte cost. n. 24 del 2019, alla luce dei principi espressi dalla Corte Edu, Grande Camera, nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, trova applicazione anche con riferimento alle condotte antecedenti alla pronuncia del giudice delle leggi, la quale ha recepito l’interpretazione consolidata che la Corte di cassazione ha dato del contenuto della norma, consacrandola quale diritto vivente, sulla cui base sono state ritenute la sufficiente determinatezza della fattispecie, nonché la prevedibilità delle conseguenze della violazione».

. Indice delle sentenze

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 1, n. 3134 del 21/04/1999, Corria, Rv. 213836-01;

Sez. 1, n. 9590 del 29/11/2000, dep. 2001, Cassarà, Rv. 218551-01;

Sez. 5, n. 8119 del 19/11/2003, dep. 2004, Tusla, Rv. 228771-01;

Sez. 1, n. 10356 del 29/01/2004, Somma, Rv. 227186-01;

Sez. 1, n. 49279 del 30/11/2004, Scutti, Rv. 230769-01;

Sez. 1, n. 25701 del 28/06/2006, Arena, Rv. 234847-01;

Sez. 1, n. 3681 del 18/01/2007, De Fusco, Rv. 235798-01;

Sez. 2, n. 28638 del 06/03/2008, Bardellino, Rv. 240611-01;

Sez. 6, n. 10153 del 18/10/2012, dep. 2013, Rv. 254546-01;

Sez. 1, n. 32032 del 10/06/2013, De Angelis, Rv. 256451-01;

Sez. 1, n. 35767 del 05/07/2013, Bellini, Rv. 256751-01;

Sez. 1, n. 45277 del 10/10/2013, Grillo, Rv. 257478-01;

Sez. U., n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246-01;

Sez. 1, n. 51843 del 14/11/2014, Santarelli, Rv. 261608-01;

Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264319-01;

Sez. 6, n. 32524 del 16/06/2015, Banca Ragusa, Rv. 264373-01;

Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Pandico, Rv. 266364-01;

Sez. 1, n. 30219 del 15/01/2016, De Padova, Rv. 267326-01;

Sez. U., n. 12621 del 22/12/2016 - dep. 2017, Rv. 270081-01;

Sez. 1, n. 18365 del 20/01/2017, Moceri, Rv. 269823-01;

Sez. 2, n. 12863 del 27/01/2017, Orsino, Rv. 270582-01;

Sez. 2, n. 11867 del 01/02/2017, Muto, Rv. 269557-01;

Sez. 1, n. 53636 del 15/06/2017, Gargano, Rv. 272167-01;

Sez. 1, n. 13375 del 20/09/2017, dep. 2018, Brussolo, Rv. 272703-01;

Sez. 6, n. 28825 del 21/09/2017, dep. 2018, Scuto, Rv. 273664-01;

Sez. 2, n. 4729 del 16/01/2018, Parra, Rv. 272084-01;

Sez. U., n. 39608 del 22/02/2018, Business Partner Italia, Rv. 273660-01;

Sez. 6, n. 53941 del 03/10/2018, Sabatelli, Rv. 274585-01;

Sez. 1, n. 460 del 14/11/2018, dep. 2019, Laslo, Rv. 276155-01;

Sez. 1, n. 12629 del 16/01/2019, Macrì, Rv. 274988-01;

Sez. 1, n. 8038 del 05/02/2019, Manauro, Rv. 274915-01;

Sez. 6, n. 14143 del 06/02/2019, Monte dei Paschi di Siena, Rv. 275533;

Sez. 1, n. 35793 del 15/02/2019, Amodeo, Rv. 276939-01;

Sez. 2, n. 13566 del 19/02/2019, Maccione, Rv. 275771-01;

Sez. 2, n. 18569 del 12/03/2019, Pisani;

Sez. U., n. 46595 del 28/03/2019, Acquaviva, Rv. 277007-01;

Sez. 2, n. 19880 del 29/03/2019, Grillo, Rv. 276917-01;

Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply soc. coop, Rv. 277225-01;

Sez. 5, n. 38737 del 10/07/2019, Giorgitto, Rv. 276648;

Sez. 6, n. 51899 del 19/09/2019, Assumma, Rv. 277730-01;

Sez. 5, n. 48090 del 08/10/2019, Ruggeri, Rv. 277908-01;

Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, Pomilio, Rv. 278679-02;

Sez. 1, n. 4691 del 28/01/2020, Francia, Rv. 278189-02;

Sez. 1, n. 13975 del 05/03/2020, Kim, Rv. 278821-01;

Sez. 6, n. 26243 del 24/06/2020, Mammino, Rv. 279612-01;

Sez. 5, n. 30757 del 29/09/2020, Nicosia, Rv. 279747-01;

Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, Zangrillo, Rv. 280145-01;

Sez. 2, n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862-01;

Sez. 6, n. 7072 del 14/07/2021, dep. 2022, Zummo, Rv. 283462-01;

Sez. 6, n. 7072 del 14/07/2021, dep. 2022, Zummo, Rv. 283462-02;

Sez. 6, n. 36421 del 06/09/2021, Palmieri, Rv. 281990-01;

Sez. 2, n. 36833 del 28/09/2021, Caroppo, Rv. 282361-01;

Sez. 5, n. 702 del 28/09/2021, dep. 2022, Spezio, Rv. 282872-01;

Sez. 5, n. 2742 del 30/09/2021, dep. 2022, Agate, Rv. 282653-01;

Sez. 1, n. 12229 del 12/10/2021, dep. 2022, UBI Banca, Rv. 282849-01;

Sez. 5, n. 1861 del 28/10/2021, dep. 2022, Raggi, Rv. 282539;

Sez. 1, n. 20160 del 16/11/2021, dep. 2022, Bonaffini, Rv. 283089-01;

Sez. 5, n. 1869 del 17/11/2021, dep. 2022, Deutsche Bank, Rv. 282734;

Sez. 5, n. 5741 del 22/11/2021, dep. 2022, Alfano, Rv. 282892-01;

Sez. 5, n. 5749 del 23/11/2021, dep. 2022, De Rosa, Rv. 282780-01;

Sez. 5, n. 2762 del 23/11/2021, dep. 2022, Sarnataro, Rv. 282738-01;

Sez. 2, n. 4189 del 26/11/2021, dep. 2022, Sgroi, Rv. 282811-01;

Sez. 5, n. 4951 del 10/12/2021, dep. 2022, Chiovaro, Rv. 282895-01;

Sez. U., n. 3513 del 16/12/2021, dep. 2022, Fiorentino, Rv. 282474-01;

Sez. 1, n. 16324 del 16/12/2021, dep. 2022, La Mantia, Rv. 283308-01;

Sez. 1, n. 17164 del 17/12/2021, dep. 2022, Di Giovanni, Rv. 283057-01;

Sez. 1, n. 25765 del 21/12/2021, dep. 2022, Calabria, Rv. 283312-01;

Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, Staniscia, Rv. 282655-01;

Sez. 1, n. 17489 del 14/01/2022, Mattucci, Rv. 283309-01;

Sez. 5, n. 8984 del 19/01/2022, Celentano, Rv. 283979-02;

Sez. 5, n. 19227 del 24/01/2022, Immobiliare Peonia, Rv. 283397;

Sez. 1, n. 22222 del 26/01/2022, Fallimento Anemone, Rv. 283123-01;

Sez. 6, n. 11531 del 01/02/2022, Francia, Rv. 283051-01;

Sez. 6, n. 12510 del 02/02/2022, Vieni, Rv. 283108-01;

Sez. 1, n. 14023 del 17/02/2022, Ciurar, Rv. 282851-01;

Sez. 2, n. 15483 del 25/02/2022, Anania, Rv. 283224-01;

Sez. 2, n. 11351 del 25/02/2022, D’Onghia, Rv. 282960-01;

Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l., Rv. 283137-01;

Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l., Rv. 283137-02;

Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l., Rv. 283137-03;

Sez. 5, n. 22618 del 07/03/2022, Gruppo E Ceramiche s.r.l., Rv. 283137-04;

Sez. 1, n. 24163 del 11/03/2022, Maccabiani, Rv. 283403-01;

Sez. 2, n. 19329 del 31/03/2022, Radosavljevic, Rv. 283188-01;

Sez. 2, n. 18264 del 31/03/2022, Boiocchi, Rv. 283060-01;

Sez. 1, n. 29111 del 31/03/2022, Juliet, Rv. 283374-01;

Sez. 2, n. 16553 del 31/03/2022, Milano, Rv. 282965-01;

Sez. 2, n. 24311 del 01/04/2022, Coscia, Rv. 283626 -01;

Sez. 2, n. 24311 del 01/04/2022, Coscia, Rv. 283626-02;

Sez. 2, n. 24311 del 01/04/2022, Coscia, Rv. 283626-03;

Sez. 5, n. 23388 del 01/04/2022, Perillo, Rv. 283433 -01;

Sez. 5, n. 23391 del 01/04/2022, Spinelli, Rv. 283128-01;

Sez. 2, n. 21814 del 26/04/2022, Vinci, Rv. 283341-01;

Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559-01;

Sez. 2, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559-02;

Sez. 1, n. 34905 del 29/04/2022, Ruocco, Rv. 283501-01;

Sez. 1, n. 34905 del 29/04/2022, Ruocco, Rv. 283501-02;

Sez. 1, n. 37678 del 03/05/2022, Khaldi, Rv. 283887-01;

Sez. 1, n. 25797 del 18/05/2022, Tribunale di Milano, Rv. 283313-01;

Sez. 5, n. 28695 del 19/05/2022, Priolo, Rv. 283542-01;

Sez. 5, n. 24930 del 26/05/2022, Falletta, Rv. 283508-01;

Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, Stanek, Rv. 283798-01;

Sez. 5, n. 37297 del 23/06/2022, Stanek, Rv. 283798-02;

Sez. 1, n. 45197 del 08/07/2022, Cappellano Seminara, Rv. 283781-01;

Sez. 1, n. 43878 del 09/09/2022, Tribunale di Reggio Calabria, Rv. 283744-01;

Sez. 5, n. 40415 del 27/09/2022, Cardone, Rv. 283869-01;

Sez. 1, n. 47713 del 27/10/2022, Tatangelo, Rv. 283820-01;

Sez. 1, n. 418 del 17/11/2022, dep. 2023, Lombardo, Rv. 283945-01;

Sez. 6, n. 13474 del 21/03/2023, Ass. Antiraket, Rv. 284276-01.

  • procedura penale
  • confisca di beni
  • prova

CAPITOLO II

LA NOZIONE DI PROVA NUOVA RILEVANTE AI FINI DELLA REVOCAZIONE DELLA CONFISCA DI PREVENZIONE

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione controversa. - 3 I precedenti interventi delle Sezioni Unite in tema di revoca delle misure di prevenzione. - 4 Gli orientamenti sulla questione oggetto di contrasto. - 4.1 L’assimilazione alla revisione di cui all’art. 630 cod. pen. - 4.2 L’interpretazione restrittiva. - 5 Lo scopo della revocazione di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011. - 6 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite. - 6.1 I riferimenti alle fonti sovranazionali. - 6.2 Il procedimento di cognizione e quello di prevenzione. Il giudicato e gli standard probatori. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Con ordinanza n. 4292 del 22 novembre 2021 la Quinta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alla decisione delle Sezioni Unite la soluzione del contrasto interpretativo in merito alla questione seguente: «se, ai fini della revocazione della confisca ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella nozione di “prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento” debbano includersi o meno, anche le prove preesistenti alla definizione del giudizio che, sebbene deducibili in tale sede, non siano però state dedotte, e perciò valutate, in conformità alla nozione di prova nuova come elaborata ai fini della revisione nel procedimento penale».

2. La questione controversa.

Il provvedimento interlocutorio è stato emesso nel corso del procedimento avente ad oggetto il ricorso proposto avverso l’ordinanza della Corte di appello di Caltanissetta che aveva rigettato l’istanza di revocazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca dei beni disposta con decreto divenuto irrevocabile.

La Corte di appello aveva rilevato che la prova nuova decisiva dedotta (nella specie, una consulenza tecnica di parte) avrebbe potuto essere richiesta nell’ambito del giudizio concluso con il decreto definitivo.

I giudici di merito avevano prestato, quindi, adesione all’orientamento secondo cui la «prova nuova» è solo quella scoperta dopo che la misura di prevenzione è divenuta definitiva o quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del procedimento, non essendo assimilabile il procedimento di revocazione a quello di revisione di cui all’art. 630, cod. proc. pen.

3. I precedenti interventi delle Sezioni Unite in tema di revoca delle misure di prevenzione.

Con la sentenza in esame è stato segnalato come, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, l’istituto della revoca della misura di prevenzione personale fosse disciplinato dal solo art. 7, comma secondo, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, limitatamente all’ipotesi di cessazione della causa che aveva determinato l’applicazione della misura.

Con due interventi le Sezioni Unite avevano operato un’estensione dell’applicazione dell’istituto.

Una pima sentenza (Sez. U., n. 18 del 10/12/1997, dep. 1998, Pisco, Rv. 210041-01) aveva escluso l’applicabilità, in via analogica, dell’istituto della revisione ai provvedimenti applicativi delle misure di prevenzione poiché il riconoscimento della mancanza originaria delle condizioni legittimanti l’ablazione potrebbe avvenire con la revoca di cui all’art. 7, comma secondo, della legge n. 1423 del 1956.

In tale prospettiva, l’istanza di revoca avrebbe potuto essere consentita in presenza di elementi nuovi che, se relativi al difetto genetico dei presupposti applicativi, non necessariamente dovevano essere sopravvenuti alla sua adozione potendo trattarsi di «circostanze non valutate nel corso del relativo giudizio».

Con altro intervento (Sez. U., n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, Auddino, Rv. 234955-01) era stato esteso l’ambito di operatività dell’impugnazione straordinaria nel caso di misure di prevenzione patrimoniali mediante l’affermazione secondo cui il meccanismo di cui all’art. 7, comma secondo, legge n. 1423 del 1956 è applicabile anche al caso di provvedimento di confisca a norma dell’art. 2-ter, comma terzo, legge 31 maggio 1975 n. 575, che sia «affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita».

4. Gli orientamenti sulla questione oggetto di contrasto.

In ordine al tema devoluto alla cognizione delle Sezioni Unite sono stati indicati due orientamenti.

4.1. L’assimilazione alla revisione di cui all’art. 630 cod. pen.

Secondo una prima tesi, espressa, in particolare, da Sez. 5, n. 148 del 04/11/2015, dep. 2016, Baratta, Rv. 2659226-01, «in tema di misure di prevenzione, la revoca per difetto genetico dei presupposti di adozione può disporsi in presenza di "elementi nuovi", non necessariamente sopravvenuti purché mai valutati nel corso del procedimento di prevenzione, stante il carattere di rimedio straordinario dell’istituto che non può, pertanto, trasformarsi in un anomalo strumento di impugnazione».

In tale filone interpretativo, espressione anche di una lettura secondo cui l’istituto della revoca si sovrappone a quello della revisione di cui agli artt. 630 e ss. cod. proc. pen., sono state ricondotte anche Sez. 2, n. 41507 del 24/09/2013, Auddino, Rv. 257334-01; Sez. 2, n. 4312 del 13/01/2012, Penna, Rv. 251811-01; Sez. 6, n. 3943 del 15/01/2016, Bonanno, Rv. 267016-01; Sez. 1, n. 21369 del 14/05/2008, Provenzano, Rv. 240094-01.

Nel medesimo contesto interpretativo è stato espressamente fatto riferimento all’ammissibilità di motivi «deducibili» ma non concretamente dedotti e, quindi «mai valutati».

In tal senso è stata richiamata Sez. 1, n. 10343 del 05/11/2020, dep. 2021, Venuti, Rv. 280856-01, anch’essa inscrivibile nell’orientamento che riconduce alla revisione le «linee ermeneutiche regolatrici dell’applicazione tanto dell’art. 7 l. n. 1423/1956 che di quella dell’art. 28 d.lgs. n. 159/2011».

4.2. L’interpretazione restrittiva.

Altro orientamento propone l’interpretazione secondo cui le prove possono ritenersi «nuove» solo se sono sopravvenute alla definizione del procedimento di prevenzione, con esclusione di quelle deducibili ma, per qualsiasi motivo, non dedotte.

Secondo tale lettura, la novità della prova esige il dato della sua sopravvenienza alla conclusione del procedimento di prevenzione, potendo solo in tal modo essere assicurata l’esigenza di non sottoporre a nuova valutazione elementi già esaminati o non valutati in quanto non dedotti.

A tale proposito sono state richiamate Sez. 6, n. 44609 del 06/10/2015, Alvaro, Rv. 265081-01; Sez. 2, n. 11818 del 07/12/2012, dep. 2013, Ercolano, Rv. 255530-01 e Sez. 1, n. 20318 del 30/03/2010, Buda.

Alcune sentenze hanno anche affermato, con ulteriore finalità restrittiva, che la sopravvenienza deve essere riferita alla formazione della prova che deve essere avvenuta dopo la conclusione del procedimento di prevenzione, ad eccezione dell’allegazione dell’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore.

In tal senso Sez. 1, n. 1649 del 28/09/2021, dep. 2022, Esposto, Rv. 282485-01; Sez. 2, n. 28305 del 25/06/2021, Bellinvia, Rv. 281803-01; Sez. 6, n. 27689 del 18/05/2021, Mollica, Rv. 281692-01; Sez. 1, n. 12762 del 16/02/2021, Roberto, Rv. 280800-01; Sez. 5, n. 3031 del 30/11/2017, dep. 2018, Lagaren, Rv. 272104-01.

Sez. 5, n. 28628 del 24/03/2017, Di Giorgio, Rv. 270238-01 ha segnalato l’assimilabilità dell’istituto di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011 a quello della revocazione di cui 395 cod. proc. civ., con particolare riguardo all’ipotesi di cui al primo comma, n. 3) che contempla il caso in cui «dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore».

Secondo tale lettura, le prove devono essere state scoperte successivamente alla definitività del provvedimento, siano esse preesistenti alla formazione del giudicato ovvero formatesi in data successiva.

In tal senso sono state richiamate anche Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019, Fiorani, Rv. 276472-01; Sez. 2, n. 19414 del 12/03/2019, Ficara, Rv. 276063-01 e Sez. 2, 14 luglio 2020, n. 23928, Trupia, Rv. 279488-01.

A conferma della necessità del requisito della sopravvenienza della prova, Sez. 6, n. 26341 del 09/05/2019, De Virgilio, Rv. 276075-01 ha segnalato come l’art. 28, comma 3, d.lgs. n. 159 cit. abbia previsto un termine di decadenza per la proposizione della richiesta di revocazione, mentre l’istanza di revisione non è soggetta ad alcun limite temporale.

5. Lo scopo della revocazione di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011.

La finalità dell’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011 è stata individuata in quella della previsione di uno strumento unico in grado di mediare le esigenze della stabilità del giudicato di prevenzione e quella di garantire un rimedio per il caso di errore giudiziario.

Si tratta di un mezzo straordinario di impugnazione, per come si desume anche dalla sua collocazione all’interno della sistematica del d.lgs. n. 159 del 2011 ove la relativa disciplina si trova immediatamente dopo quella delle impugnazioni ordinarie.

Il rimedio, nel caso in cui i beni oggetto della misura siano stati già assegnati, avviene nelle forme previste dall’art. 46 d.lgs. n. 159 del 2011, ossia per equivalente, in ragione dell’esigenza di garantire tutela ai soggetti destinatari dell’assegnazione dei beni confiscati.

La procedura applicabile, per come espressamente previsto nello stesso art. 28, è quella stabilita per il procedimento di revisione, compresa la disciplina di cui all’art. 11 cod. proc. pen. ai fini della individuazione del giudice competente.

Sono stati richiamati alcuni passaggi argomentativi dell’altro recente intervento delle Sezioni Unite sull’istituto in questione (Sez. U., n. 3513 del 16/12/2021, dep. 2022, Fiorentino, Rv. 282474-01) che ha individuato la ratio dell’istituto nell’accertamento di un difetto originario dei presupposti per la confisca e precisato che sono ad esso estranei gli eventuali vizi procedimentali che hanno condotto all’adozione del provvedimento.

Quale ulteriore premessa alla risoluzione della questione devoluta, le Sezioni Unite hanno svolto ampie considerazioni in punto di funzione della revocazione del giudicato penale di prevenzione patrimoniale, segnalandone gli elementi distintivi rispetto alla revisione del giudicato penale di condanna.

Diversa è la finalità della confisca di prevenzione rispetto all’accertamento penale dal quale si differenzia assolvendo la prima alla funzione di ripristinare la situazione patrimoniale che si sarebbe verificata qualora il bene non fosse stato illecitamente acquisito.

Le fonti normative della prevenzione patrimoniale sono state individuate negli artt. 41 e 42 Cost. e nell’art. 1 Protocollo addizionale CEDU in materia di protezione della proprietà, sottoscritto a Parigi il 20 marzo 1952 e ratificato con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 24 del 2019, ha individuato le garanzie costituzionali e convenzionali alle quali è subordinata la legittimità delle misure di prevenzione patrimoniali.

Deve, infatti, trattarsi di misure previste dalla legge, la restrizione deve essere «necessaria» e quindi proporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti, la relativa applicazione deve essere disposta all’esito di un procedimento che deve rispettare i canoni del giusto processo garantito dalla legge e assicurare la piena tutela del diritto di difesa.

L’origine del contrasto sviluppatosi in punto di individuazione dei presupposti legittimanti la revocazione di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159 cit. è stata individuata in un passaggio argomentativo della sentenza delle Sezioni Unite Auddino.

Riferendosi all’estensione della previsione di cui all’art. 7 della legge n. 1423 cit., dopo avere precisato che la possibilità di rimettere in discussione il provvedimento definitivo è esclusa con riferimento a quanto già valutato o, comunque, deducibile, nel procedimento definito, le Sezioni Unite, avevano esplicitamente affermato che la richiesta di rimozione del provvedimento definitivo deve «muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui agli artt. 630 e ss. cod. proc. pen.» assumendo rilievo, alla luce del rinvio esplicito a Sez. U., n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, Rv. 220443-01, le prove sopravvenute alla sentenza definitiva, quelle scoperte successivamente, quelle non acquisite nel precedente giudizio o, acquisite ma non valutate neanche implicitamente.

Le Sezioni Unite si sono quindi poste il problema della permanente validità dell’approdo al quale erano in precedenza pervenute ovvero della necessità di una interpretazione rinnovata alla luce del mutato quadro normativo di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159 cit.

Non si è mancato di considerare che il rinnovato assetto normativo richiama espressamente l’istituto della revocazione (a tale proposito è stato richiamato anche l’art. 62 d.lgs. n. 159 cit.) che, a sua volta, evoca il mezzo di impugnazione straordinario disciplinato dall’art. 395 cod. proc. civ.

6. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 43668 del 26/05/2022, Lo Duca, Rv. 283707-01, hanno pronunciato il seguente principio di diritto: «in tema di confisca di prevenzione, la prova nuova, rilevante ai fini della revocazione della misura ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 159, è sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva, mentre non lo è quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore».

Hanno quindi aderito all’orientamento più restrittivo di cui al secondo degli indirizzi interpretativi descritti.

È stata esclusa la possibilità di utilizzare i parametri elaborati dalla giurisprudenza in punto di prove legittimanti la richiesta di cui all’art. 630 cod. proc. pen.

In tal senso, in primo luogo, è stato richiamato il testo dell’art. 28, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 cit. che compie riferimento alle prove «sopravvenute alla conclusione del procedimento», laddove la formulazione dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. riguarda la scoperta di prove nuove, «così ammettendo espressamente che le prove nuove siano non solo quelle sopravvenute dopo la condanna, ma anche quelle già prima esistenti, delle quali, tuttavia, sia stata acquisita la conoscenza in epoca successiva».

Fra le prove sopravvenute rilevanti devono farsi rientrare anche quelle scoperte successivamente alla definitività del provvedimento, ma preesistenti, anche se incolpevolmente ignorate.

Devono essere esclusi gli elementi probatori acquisiti nel procedimento di prevenzione.

A sostegno di tale interpretazione, è stata richiamata la previsione di cui all’art. 28, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 cit. laddove, con riguardo alle sentenze penali definitive che escludono i presupposti di applicazione della confisca, si fa riferimento a quelle «sopravvenute» o anche solo «conosciute» dopo la conclusione del procedimento di prevenzione.

Tale deve essere, secondo le Sezioni Unite, il criterio che deve guidare l’interprete nella valutazione della novità della prova rilevante ai fini dell’art. 28 d.lgs. n. 159 cit.

6.1. I riferimenti alle fonti sovranazionali.

È stato ricordato, inoltre, come l’art. 4, par. 2, Prot. 7 CEDU, ammetta «la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta».

La giurisprudenza sovranazionale ha precisato che le circostanze già esistenti durante il processo integrano le «nuove rivelazioni», mentre quelle che sorgono dopo costituiscono «fatti sopravvenuti».

Tale soluzione è stata ritenuta «concretamente idonea a garantire, se applicata in relazione alla riapertura dei procedimenti in materia di prevenzione patrimoniale, una ragionevole e non sproporzionata incidenza limitatrice sul piano della tutela del diritto di proprietà».

6.2. Il procedimento di cognizione e quello di prevenzione. Il giudicato e gli standard probatori.

Le Sezioni Unite si sono, inoltre, soffermate sulle diverse esigenze poste a fondamento della stabilità del giudicato di prevenzione e di quello penale.

L’estraneità della confisca di prevenzione allo «statuto anche costituzionale delle condanne che irrogano pene» consente di evidenziare maggiormente la funzione ripristinatoria rispetto agli acquisti effettuati dal pericoloso sociale mediante un titolo non conforme all’ordinamento.

Occorre tenere conto anche del fatto che la misura di prevenzione si presenta «non già come una sanzione (…) quanto invece la naturale conseguenza dell’illecita acquisizione dei beni che ne formano l’oggetto».

La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019 ha evidenziato come la misura tragga origine da un «vizio genetico nella costituzione del diritto di proprietà».

Ulteriormente, è stata segnalata la giurisprudenza convenzionale che, escludendo la natura penale della confisca, la riconduce ad una sorta di «azione civile in rem finalizzata al recupero dei beni illegittimamente accumulati dal loro titolare» e l’assimilazione, sulla base della giurisprudenza di legittimità, della posizione del proposto o del terzo erroneamente attinti dalla confisca al soggetto leso all’esito di una decisione nel contesto di una controversia civile.

Da ciò l’esclusione che la nozione di prova idonea a sovvertire il giudicato possa ricavarsi dal sistema penale.

Coerente con tale impostazione appare l’affermazione delle Sezioni Unite Fiorentino secondo cui le misure di prevenzione sono estranee allo statuto convenzionale e costituzionale delle pene e sono caratterizzate da un concetto di «giudicato» del tutto peculiare ed affatto diverso da quello delle misure personali.

La stessa relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 159 cit. ha evidenziato l’esigenza di attribuire al giudicato di prevenzione una stabilità peculiare al punto che, nel caso in cui venga meno il provvedimento di confisca, eventuali ipotesi satisfattorie potranno avvenire «per equivalente».

L’individuazione di un autonomo istituto volto a sovvertire il giudicato dei provvedimenti definitivi di confisca è stata interpretata dalle Sezioni Unite Fiorentino proprio nel senso di attribuire al giudicato di prevenzione patrimoniale una maggiore stabilità.

A favore dell’interpretazione adottata, la sentenza in esame ha, altresì, messo in evidenza le diversità tra gli «statuti probatori» del procedimento di prevenzione e di quello penale.

Diversi sono l’oggetto dell’accertamento, gli strumenti di verifica e le finalità dei procedimenti.

In particolare, l’azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale, può proseguire nei confronti degli eredi e degli aventi causa ed il giudicato penale di assoluzione non integra causa di revocazione, dovendo essere accertata «l’assoluta estraneità del proposto ai fatti reato alla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca».

Considerata la diversità dei modelli procedimentali, è giustificata, secondo la Corte di cassazione, l’eterogeneità del concetto di novum probatorio nel processo penale ed in quello di prevenzione.

Nello stesso senso depone la previsione del termine decadenziale di sei mesi dalla scoperta della prova nuova; termine dal quale decorre quello per la proposizione dell’istanza di revocazione e che trova ragione nell’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici.

Pertanto, «le nuove prove che rendono ammissibile il rimedio straordinario devono individuarsi in quelle che non è stato possibile dedurre nell’ambito del procedimento, perché riguardanti fatti decisivi e mezzi per dimostrarli incolpevolmente sconosciuti al momento del giudizio».

Proprio la previsione del termine decadenziale non appare compatibile con il caso di una prova introdotta nel procedimento ma non implicitamente valutata.

Conseguenza di tale impostazione è quella che assegna rilevanza alle sole prove materialmente formate o scoperte incolpevolmente dopo la definitività della confisca, senza che possano rilevare quelle deducibili ma non dedotte nel procedimento di prevenzione.

Sono escluse quelle che «pur accessibili e dunque sottoponibili alla valutazione del giudice del procedimento, abbiano assunto consistenza o un particolare significato dopo la sua conclusione, anche semplicemente sulla base dell’esperimento delle corrispondenti iniziative difensive».

È la stessa previsione normativa che depone in tal senso laddove l’art. 28, comma 3, d.lgs. n. 159 cit. stabilisce il termine decadenziale e alla lett. a) prevede espressamente che le prove nuove decisive siano quelle «scoperte» il che esclude la compatibilità di tale condizione con «un precedente comportamento privo dell’ordinaria diligenza da parte dell’interessato, o con un suo atteggiamento meramente omissivo».

Le prove deducibili , ma non dedotte, possono, quindi, sostenere la richiesta di revocazione nel solo caso in cui venga addotta l’impossibilità di proporle per causa a lui non imputabile, secondo il testo dell’art. 28, comma 3, d.lgs. n. 159 cit.

Si tratta delle nozioni classiche di «caso fortuito» e «forza maggiore» che assegnano rilievo alle situazioni imprevedibili o connotate dalla caratteristica della «irresistibilità».

Non rientrano in tale nozione quelle condizioni che, attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza, avrebbero potuto essere superate.

Nel caso in cui venga dedotta l’esistenza di una condizione di forza maggiore, grava su chi invoca la circostanza l’onere della relativa prova.

Alla luce della motivazione come riassunta è stato formulato il principio di diritto sopra riportato e rigettato il ricorso avverso l’ordinanza reiettiva della richiesta di revocazione, sulla scorta della mancanza del requisito della «novità» della prova vertendosi, nel caso di specie, in tema di prove tardivamente acquisite alla luce di un comportamento privo del requisito dell’ordinaria diligenza essendo stata chiesta la valutazione di documenti (sulla base dei quali è stata redatta una consulenza tecnica di parte) preesistenti alla definitività del provvedimento di confisca ma richiesti (e quindi acquisiti) successivamente alla stessa.

. Indice delle sentenze citate

Corte di cassazione:

Sez. U., n. 18 del 10/12/1997, dep. 1998, Pisco, Rv. 210041-01;

Sez. U., n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, 220443-01;

Sez. U., n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, Auddino, Rv. 234955-01;

Sez. 1, n. 21369 del 14/05/2008, Provenzano, Rv. 240094-01;

Sez. 1, n. 20318 del 30/03/2010, Buda;

Sez. 2, n. 4312 del 13/01/2012, Penna, Rv. 251811-01;

Sez. 2, n. 11818 del 07/12/2012, dep. 2013, Ercolano, Rv. 255530-01;

Sez. 2, n. 41507 del 24/09/2013, Auddino, Rv. 257334-01;

Sez. 6, n. 44609 del 06/10/2015, Alvaro, Rv. 265081-01;

Sez. 5, n. 148 del 04/11/2015, dep. 2016, Baratta, Rv. 2659226-01;

Sez. 6, n. 3943 del 15/01/2016, Bonanno, Rv. 267016-01;

Sez. 5, n. 28628 del 24/03/2017, Di Giorgio, Rv. 270238-01;

Sez. 5, n. 3031 del 30/11/2017, dep. 2018, Lagaren, Rv. 272104-01;

Sez. 2, n. 19414 del 12/03/2019, Ficara, Rv. 276063-01;

Sez. 6, n. 26341 del 09/05/2019, De Virgilio, Rv. 276075-01;

Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019, Fiorani, Rv. 276472-01;

Sez. 2, n. 23928 del 14/07/2020, Trupia, Rv. 279488-01;

Sez. 1, n. 10343 del 05/11/2020, dep. 2021, Venuti, Rv. 280856-01;

Sez. 1, n. 12762 del 16/02/2021, Roberto, Rv. 280800-01;

Sez. 6, n. 27689 del 18/05/2021, Mollica, Rv. 281692-01;

Sez. 6, n. 27689 del 18/05/2021, Mollica, Rv. 281692-01;

Sez. 1, n. 1649 del 28/09/2021, dep. 2022, Esposto, Rv. 282485-01;

Sez. U., n. 3513 del 16/12/2021, dep. 2022, Fiorentino, Rv. 282474-01;

Sez. U., n. 43668 del 26/05/2022, Lo Duca, Rv. 283707-01.

Corte costituzionale:

Sentenza n. 24 del 2019.

  • giudice
  • giudizio
  • procedura penale
  • ricusazione

CAPITOLO III

APPLICABILITÀ AL PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE DEL MOTIVO DI RICUSAZIONE PREVISTO DALL’ART. 37 COD. PROC. PEN. NEL CASO IN CUI IL GIUDICE ABBIA PRECEDENTEMENTE ESPRESSO VALUTAZIONI DI MERITO SULLO STESSO FATTO, NEI CONFRONTI DEL MEDESIMO SOGGETTO, IN ALTRO PROCEDIMENTO DI PREVENZIONE OD IN UN GIUDIZIO PENALE.

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Premessa. - 2 I quesiti sottoposti alle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione. - 3 L’orientamento contrario all’applicabilità al procedimento di prevenzione dell’intera disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice e del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui questi abbia precedentemente espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto, in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale. - 4 L’orientamento favorevole all’applicabilità al procedimento di prevenzione dell’intera disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice e del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui questi abbia espresso, in precedenza, valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto, in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale. - 5 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 25951 del 24/02/2022 (depositata il successivo 06/07/2022), hanno affermato il principio di diritto massimato nei seguenti termini «Al procedimento di prevenzione è applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo effettuato dalla Corte costituzionale con sent. n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia, in precedenza, espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale».

2. I quesiti sottoposti alle Sezioni Unite e l’ordinanza di rimessione.

La Corte, nel suo più esteso consesso, è giunta a enunciare l’indicato principio di diritto in quanto precedentemente investita della risoluzione delle seguenti questioni controverse:

«se, e in quali limiti, la disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice sia applicabile anche al processo di prevenzione»;

«se al procedimento di prevenzione sia applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui il giudice abbia, in precedenza, espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale».

Il delinearsi di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sul tema dell’applicabilità al processo di prevenzione del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. (come risultante a seguito dell’intervento additivo della Corte costituzionale effettuato con sent. n. 283 del 2000), laddove il giudice abbia espresso, in precedenza, valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale – tema che si è ritenuto involga quello dell’applicabilità al processo di prevenzione della disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice – ha reso necessario l’intervento della Corte a Sezioni Unite. La trattazione del ricorso è stata, quindi, rimessa al supremo consesso con ordinanza della Quinta Sezione penale n. 38902 del 05/10/2021 (dep. 2021).

3. L’orientamento contrario all’applicabilità al procedimento di prevenzione dell’intera disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice e del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui questi abbia precedentemente espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto, in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale.

L’orientamento secondo cui non è consentita l’applicabilità al procedimento di prevenzione dell’intera disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice, nonché del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui questi abbia espresso, in precedenza, valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto, in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale, trae origine da una pronunzia resa dalla Suprema Corte sul finire del primo decennio di questo secolo – Sez. 6, n. 22960 del 30/01/2008, Di Vincenzo, Rv. 240363-01 – in cui si affermò che, se è vero che l’effetto pregiudicante può derivare da un provvedimento diverso dalla sentenza e manifestarsi nell’ambito di un procedimento diverso dal giudizio penale, è altrettanto vero che la funzione pregiudicata va individuata in una decisione attinente alla responsabilità penale, sicché le norme relative all’incompatibilità e alla ricusazione non sono invocabili con riferimento a distinte procedure in materia di prevenzione, in quanto, per il carattere eccezionale delle stesse, non può evocarsi, in tal caso, «la situazione d’incompatibilità di cui all’art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.», che postula espressamente che l’attività pregiudicata si concluda con la pronunzia di una sentenza, ossia con un giudizio di merito sulla responsabilità dell’imputato in ordine a fatti sui quali il giudice abbia in precedenza indebitamente manifestato il proprio convincimento.

Si inseriscono in tale filone giurisprudenziale, traendo spunto da vicende processuali non sovrapponibili, Sez. 1, n. 15834 del 19/03/2009, Sanna, Rv. 243747-01, Sez. 1, n. 43081 del 27/05/2016, Arena, Rv. 268665-01 (in cui la Suprema Corte ha sostenuto che la portata della sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2000 è manifestamente unidirezionale e non biunivoca, potendo il giudizio di prevenzione essere fonte di pregiudizio in sede penale e non viceversa), Sez. 5, n. 23629 del 19/02/2018, Torcasio, Rv. 273281-01 (pronunzia in cui si è sostenuto che un’interpretazione estensiva e, quindi, “bidirezionale” di quanto affermato dalla Consulta nella citata decisione non può farsi derivare dalla progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione), Sez. 6, n. 51793 del 13/09/2018, Moccia, Rv. 274576-01 e, in epoca più recente, Sez. 2, n. 37060 dell’11/01/2019, Paltrinieri, Rv. 277038-01 (pronunzia in cui, dopo essersi ribadita l’indubbia natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione, si è sostenuto che la sua conformazione normativa reca una connotazione sui generis, in quanto modellata non già sull’archetipo del giudizio penale cognitivo, ma su quello di esecuzione e, segnatamente, del procedimento destinato all’applicazione delle misure di sicurezza, secondo il riferimento contenuto nell’art. 4, comma 12, della l. n. 1423 del 1956 e con la precisazione operata dall’art. 7, comma 9, del d.lgs. n. 159 del 2011, che fa esplicito rinvio, per quanto non espressamente regolato, all’art. 666 cod. proc. pen.).

4. L’orientamento favorevole all’applicabilità al procedimento di prevenzione dell’intera disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice e del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui questi abbia espresso, in precedenza, valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto, in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale.

L’orientamento che propugna l’applicabilità al procedimento di prevenzione dell’intera disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice, nonché del motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nel caso in cui questi abbia espresso, in precedenza, valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto, in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale, trae origine da una pronunzia – Sez. 5, n. 3278 del 16/10/2008, dep. 2009, Nicitra, Rv. 242942-01 – resa dalla Suprema Corte in epoca coeva al delinearsi della contrapposta opzione ermeneutica.

Nell’occasione, si è osservato che la giurisprudenza di legittimità e talune pronunzie della Consulta hanno riconosciuto carattere di giurisdizionalità al procedimento di prevenzione, ritenendo ad esso applicabili le garanzie previste per il giudizio di cognizione a tutela dei diritti di difesa, le norme che garantiscono la partecipazione al procedimento della parte, quelle in tema di impedimento a comparire della stessa e del suo difensore, quelle in materia di competenza territoriale, il principio di immutabilità del giudice sancito dall’art. 525, comma 2, cod. proc. pen. e le norme in tema di rimessione del processo.

Si è, quindi, sostenuto che l’applicabilità dell’istituto della ricusazione al procedimento di prevenzione si fonda sul fatto che allo stesso, per la sua natura giurisdizionale, si applicano le norme del processo penale e, pertanto, anche quelle che tendono a garantire un giudice terzo e imparziale, aggiungendo che, per effetto del rinvio che l’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 ha, a suo tempo, fatto alle norme del procedimento penale, deve escludersi che ciò si traduca in un’interpretazione analogica o estensiva.

Si è, altresì, evidenziato che è del tutto irrilevante la circostanza che l’art. 37 cod. proc. pen. indichi come provvedimento decisorio la sola sentenza e non anche il decreto, che, come è noto, definisce il procedimento di prevenzione, essendosi chiarito nella giurisprudenza di legittimità che la decisione che dispone le misure di prevenzione assume natura sostanziale di sentenza, in quanto pronunzia di merito che conclude una fase o un grado processuale, suscettibile di impugnazione e idonea ad acquisire autorità di giudicato.

Tanto chiarito, si è posto in rilievo che la Consulta, con sentenza n. 283 del 2000, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti dello stesso soggetto, sostenendo che gli effetti di tale pronunzia si producono anche nel procedimento di prevenzione, in quanto è stato in essa precisato che l’effetto pregiudicante si può verificare anche quando il giudizio sia stato espresso in un procedimento diverso e, quindi, anche nel caso in cui i procedimenti abbiano oggetto e finalità differenti.

Successivamente, hanno sposato la medesima opzione interpretativa Sez. 4, n. 26670 del 15/02/2011, Torrisi, Rv. 250954-01, Sez. 6, n. 6757 del 07/11/2013, dep. 2014, Alma, Rv. 258992-01 (pronunzia in cui si è affermato che non può genericamente sostenersi che il decreto applicativo della misura di prevenzione non contiene indebite manifestazioni di convincimento sui fatti oggetto d’imputazione in ragione della circostanza che il procedimento penale è caratterizzato dalla finalità di accertare la sussistenza di responsabilità in ordine a una data imputazione, mentre quello di prevenzione implica una valutazione afferente la pericolosità sociale del proposto), Sez. 5, n. 32077 del 24/06/2014, Valente e altro, Rv. 261643-01 e Sez. 5, n. 32492 del 10/07/2015, Lampada, Rv. 264621-01 (decisione in cui si è sostenuto che l’evoluzione giurisprudenziale favorevole all’attrazione del processo di prevenzione all’area dei procedimenti giurisdizionali legittima la conclusione che il principio di terzietà e imparzialità del giudice, consacrato dall’art. 111, comma 2, Cost., deve trovare applicazione anche nell’ambito del rito che disciplina l’irrogazione delle misure di prevenzione e che, pertanto, risulta in esso applicabile anche la disposizione sulla ricusazione prevista dall’art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., nel testo risultante dalla sentenza additiva della Corte costituzionale 283 del 2000).

Aderenti al filone interpretativo de quo risultano anche Sez. 6, n. 15979 dell’08/03/2016, Lampada, Rv. 266533-01, Sez. 1, n. 28651 del 18/05/2017, Staniscia e Sez. 6, n. 41975 del 02/04/2019, Inzitari, Rv. 277373-01 (decisione in cui si è affermato che la menzionata sentenza della Consulta n. 283 del 2000 impedisce di sostenere la tesi della cd. unidirezionalità, posto che fa espresso richiamo a precedenti decisioni significative del fatto che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra procedimento penale e di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo, in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari, sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso, nell’ambito del procedimento di prevenzione, una valutazione sull’esistenza dell’associazione e sull’appartenenza a essa della persona imputata nel successivo processo penale).

Da ultimo, risulta in linea con l’orientamento giurisprudenziale in disamina Sez. 1, n. 4330 del 10/12/2020, dep. 2021, Lampada, Rv. 280753-01.

In tale pronunzia la Corte ha affermato che la giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione impone l’applicazione allo stesso delle regole del giusto processo secondo le linee prescritte dagli art. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU, aggiungendo che il principio di necessaria terzietà del giudice non può subire ridimensionamenti in materia di decisioni giurisdizionali incidenti su beni di rango costituzionale, personali (art. 113 Cost.) e patrimoniali (artt. 41 e 42 Cost.), in ragione delle peculiarità strutturali e di accertamento che caratterizzano il procedimento di prevenzione.

Ha sostenuto, inoltre, che non appare condivisibile la tesi secondo cui la sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2000 – dichiarativa dell’incostituzionalità dell’art. 37, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione sullo stesso fatto nei confronti del medesimo ricorrente – sia riferibile al solo caso di decisione da emettere nel procedimento penale e non anche a quello in cui la precedente attività pregiudicante riguardi i fatti su cui dovrà fondarsi la decisione sulla misura di prevenzione, personale o patrimoniale, chiarendo che tale sentenza ha richiamato precedenti pronunzie della stessa Corte (segnatamente le sentenza n. 306 del 1997 e l’ordinanza n. 178 del 1999), in cui si era posto in rilievo che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudice può essere determinante anche in rapporto alla decisione in sede di prevenzione e, dunque, anche per il giudice chiamato ad adottarla e concludendo che, alla luce di una lettura coerente e organica delle direttive fissate dalla Corte costituzionale, non è possibile limitare il contenuto espansivo rappresentato dalla menzionata declaratoria d’illegittimità, sì da ritenere una direttrice pregiudicante di tipo unidirezionale, che lasci fuori dal presidio il procedimento giurisdizionalizzato di prevenzione.

A conclusione del proprio argomentato, il giudice di legittimità ha osservato, infine, che non può condurre a una diversa conclusione l’insegnamento secondo cui, nel procedimento di prevenzione, l’attività pregiudicante del giudice non può derivare da valutazioni dallo stesso espresse in precedenti provvedimenti circa la sussistenza dei presupposti del sequestro dei beni in vista della loro confisca, atteso che, in tal caso, assume rilievo la dirimente considerazione che si tratta di decisioni comunque attribuite all’unico giudice funzionalmente designato per il grado, senza specifiche previsioni d’incompatibilità riferite agli atti compiuti nel procedimento e distinzioni per fasi decisionali.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

Con la decisione assunta all’udienza del 24/02/2022, le Sezioni unite hanno dato risposta al secondo dei quesiti dianzi riportati, affermando – come sopra anticipato – che «Al procedimento di prevenzione è applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo effettuato dalla Corte costituzionale con sent. n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia, in precedenza, espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale».

Con riferimento al primo quesito posto, col quale si chiedeva se la disciplina processuale delle cause di incompatibilità del giudice fosse applicabile anche al procedimento di prevenzione ed eventualmente in che limiti, i giudici del Supremo Consesso hanno chiarito, invece, che la ratio dell’istituto dell’incompatibilità è quella di preservare l’autonomia della funzione giudiziaria, onde garantirne l’imparzialità, rispetto ad attività compiute in fasi e gradi anteriori del medesimo processo, mentre, al contrario, la causa giustificatrice dell’istituto della ricusazione (così come dell’astensione, con la sola eccezione dell’ipotesi di cui all’art. 36, comma 1, lett. g), cod. proc. pen., che richiama le situazioni di incompatibilità del giudice al fine di farne motivo di astensione e di ricusazione mediante il rinvio all’art. 37, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.) è quella di garantire l’imparzialità del giudicante, a prescindere da ogni riferimento alla struttura del processo e ai suoi diversi momenti di svolgimento.

Hanno ulteriormente precisato che l’istituto dell’incompatibilità opera all’interno del medesimo procedimento in cui è esercitata la funzione pregiudicata e che le situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità del giudice si riferiscono ad atti o funzioni che hanno di per sé effetto pregiudicante, a prescindere dallo specifico contenuto dell’atto stesso o dalle modalità con cui la funzione è esercitata, mentre gli istituti dell’astensione e della ricusazione si connotano per il riferimento a situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità della funzione giudicante, che, ad eccezione di quelle aventi come presupposto casi d’incompatibilità, preesistono di regola al procedimento o, comunque, si collocano al di fuori di esso.

Tanto premesso, con riguardo all’interrogativo posto dall’ordinanza di rimessione circa l’integrale applicabilità nel processo di prevenzione delle cause di incompatibilità del codice di rito, la Corte ha ritenuto di non poter procedere all’esame della questione in presenza di fattispecie non pertinente alla soluzione del quesito sottoposto a cognizione, evidenziando che la sua definizione presupporrebbe comunque la proposizione di un incidente di costituzionalità, concretamente inammissibile per irrilevanza.

Ha posto in rilievo, infatti, che non si verte nell’ambito di applicazione della previsione dell’art. 34 cod. proc. pen., posto che la situazione pregiudicante risulta maturata nel procedimento penale e quella pregiudicata o pregiudicabile nel distinto procedimento di prevenzione.

Focalizzata quindi l’attenzione sul secondo quesito, la Corte ha affermato l’applicabilità dell’indicata causa di ricusazione anche al rito della prevenzione.

In particolare, i giudici del Supremo Consesso hanno posto in rilievo che l’impronta garantista – espressiva dell’esigenza sistematica che il procedimento di prevenzione sia conforme al modello del processo ordinario – acquista particolare significato ermeneutico, in quanto l’imparzialità del giudice è tra i “naturalia” di qualsiasi forma di processo, come esplicitamente affermato dall’art. 111, comma 2, Cost., secondo cui «ogni processo si svolge ... davanti a giudice terzo e imparziale».

Hanno aggiunto quindi che, sul piano del diritto convenzionale, l’art. 6, par. 1, CEDU sancisce il diritto di ogni individuo ad essere giudicato «da parte di un tribunale indipendente e imparziale», laddove l’imparzialità dev’essere apprezzata come assenza di pregiudizi o preconcetti, suscettibile di accertamento in modi diversi.

Tanto premesso, hanno sostenuto che l’opzione condivisa prende le mosse dalla ritenuta giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, derivante dall’attitudine della materia a incidere su diritti fondamentali, quali la libertà personale (di cui all’art. 13 Cost.), la libertà di circolazione (di cui all’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU) e il diritto di proprietà e di iniziativa economica (di cui agli artt. 41 e 42 Cost. e 1 Prot. add. CEDU).

Hanno, altresì, rilevato che il principio d’imparzialità del giudice trova solenne affermazione nell’art. 111, comma 2, Cost. (secondo cui «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale») e trova ulteriore ed esplicito riconoscimento, come diritto dell’individuo, sia nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (che sancisce il «diritto a un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale»), sia nell’art. 14, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (secondo cui «Ogni individuo ha diritto ad un’equa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito dalla legge»).

Hanno aggiunto, poi, che, sebbene non risultino decisioni della Corte EDU attinenti allo specifico tema dell’applicabilità al procedimento di prevenzione delle disposizioni in tema di ricusazione, è innegabile che, sul piano generale, il diritto a essere giudicati da un giudice imparziale trovi un solido ancoraggio a livello sovranazionale, in quanto compreso nel catalogo dei diritti del “procès équitable”, sicchè è destinato ad avere concreta applicazione nel procedimento di prevenzione.

Ad ulteriore conforto dell’opzione ermeneutica privilegiata, i giudici del Supremo Consesso hanno evidenziato che nessuno degli argomenti spesi dai fautori della tesi restrittiva può assumere carattere dirimente ai fini dell’esclusione o dell’irrilevanza della garanzia de qua.

In particolare, hanno rilevato che non si profila come decisivo l’argomento secondo cui nella prevenzione non v’è differenziazione di fasi e v’è coincidenza tra giudice della cautela e giudice della decisione di primo grado, posto che le misure anticipatorie adottate in sede di prevenzione non attengono alla cautela personale, ma a quella patrimoniale e che nel processo ordinario il giudizio sulla cautela reale non è mai pregiudicante.

Hanno ulteriormente osservato che tutt’altro che decisivo è anche l’argomento secondo cui il rapporto pregiudicante/pregiudicabile sarebbe stato fissato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 283 del 2000 come unidirezionale e non bidirezionale, nel senso che la decisione sulla prevenzione potrebbe pregiudicare quella successiva di merito e non viceversa, evidenziando che il giudice delle leggi ha espressamente riconosciuto che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (così nella sent. n. 306 del 1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nell’ambito del procedimento di prevenzione una valutazione sull’esistenza dell’associazione e sull’appartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale (così nell’ord. n. 178 del 1999).

Ad analoga conclusione sono pervenuti con riguardo all’argomento secondo cui il procedimento di prevenzione non potrebbe recepire l’integrale innesto di taluni istituti della giurisdizione penale in ragione delle profonde differenze caratterizzanti le fattispecie, osservando che non si comprendono le ragioni in forza delle quali la terzietà del giudice dovrebbe atteggiarsi diversamente nei due procedimenti, dal momento che il principio in parola non costituisce mera “modulazione del diritto di difesa”, ma rappresenta, insieme all’imparzialità, un elemento base ineludibile del processo.

Hanno aggiunto, ancora, che del tutto fallace è la differenziazione tra i procedimenti basata sulla ritenuta diversità di struttura della valutazione giudiziale, di tipo prognostico nel giudizio di prevenzione e di natura cognitiva in quello penale, osservando che l’esigenza di terzietà del giudice deve presiedere a qualsiasi procedimento, in quanto precondizione della giurisdizione.

Tanto chiarito, la Corte ha aggiunto che resta da appurare se sia possibile riconoscere direttamente l’applicabilità al giudice della prevenzione del motivo di ricusazione di cui all’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., giusta la previsione introdotta dalla Corte costituzionale con sent. n. 283 del 2000, o se tale operazione sia impedita, dovendo essere veicolata dalla previa proposizione di un’incidente di costituzionalità, necessario prodromo di una pronuncia manipolativa o additiva.

Al riguardo, ha quindi sostenuto che può riconoscersi la diretta applicabilità al giudice della prevenzione del motivo di ricusazione di cui all’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. senza necessità di ricorrere alla valutazione della Consulta alla luce dei principi espressi dalla Corte costituzionale che, nella sent. n. 283 del 2000, ha riconosciuto che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari, sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito.

Ha aggiunto poi che dalla lettura coordinata dell’evocata pronunzia con la sentenza n. 306 del 1997 e con l’ordinanza n. 178 del 1999 è possibile ricavare una precisa trama di principi che rende pienamente definito il perimetro di estensione del “dictum” in questione e che permette di riconoscerne l’evidente attitudine espansiva, idonea a imporre la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 37 cod. proc. pen., nel senso della ricusabilità anche del giudice chiamato ad assumere una decisione conclusiva nel procedimento di prevenzione laddove abbia già espresso, in un procedimento penale, valutazioni di merito sullo stesso fatto e nei confronti del medesimo soggetto.

Alla luce delle osservazioni complessivamente esposte, il Supremo consesso ha concluso, quindi, affermando che «al procedimento di prevenzione è applicabile il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo effettuato dalla Corte costituzionale con sent. n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia, in precedenza, espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 6, n. 22960 del 30/01/2008, Di Vincenzo, Rv. 240363-01;

Sez. 5, n. 3278 del 16/10/2008, dep. 2009, Nicitra, Rv. 242942-01;

Sez. 1, n. 15834 del 19/03/2009, Sanna, Rv. 243747-01;

Sez. 4, n. 26670 del 15/02/2011, Torrisi, Rv. 250954-01;

Sez. 6, n. 6757 del 07/11/2013, dep. 2014, Alma, Rv. 258992-01;

Sez. 5, n. 32077 del 24/06/2014, Valente e altro, Rv. 261643-01;

Sez. 5, n. 32492 del 10/07/2015, Lampada, Rv. 264621-01;

Sez. 6, n. 15979 dell’08/03/2016, Lampada, Rv. 266533-01;

Sez. 1, n. 43081 del 27/05/2016, Arena, Rv. 268665-01;

Sez. 1, n. 28651 del 18/05/2017, Staniscia;

Sez. 5, n. 23629 del 19/02/2018, Torcasio, Rv. 273281-01;

Sez. 6, n. 51793 del 13/09/2018, Moccia, Rv. 274576-01;

Sez. 2, n. 37060 dell’11/01/2019, Paltrinieri, Rv. 277038-01;

Sez. 6, n. 41975 del 02/04/2019, Inzitari, Rv. 277373-01;

Sez. 1, n. 4330 del 10/12/2020, dep. 2021, Lampada, Rv. 280753-01.

PARTE SECONDA IL CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ DEL PROFITTO

  • reato
  • procedura civile
  • procedura penale
  • sequestro di beni
  • confisca di beni

CAPITOLO I

L’APPLICABILITÀ DEI LIMITI DI CUI ALL’ART. 545 COD. PROC. CIV. ALLA CONFISCA PER EQUIVALENTE

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 La disciplina normativa. - 3 Il contrasto di giurisprudenza. - 3.1 L’applicabilità integrale dell’art. 545 cod. proc. civ. - 3.2 La tesi dell’inapplicabilità della norma processuale civile. - 3.3 La tesi intermedia. - 4 La soluzione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

Con ordinanza n. 38068 del 7 settembre 2021 la Terza sezione della Corte di cassazione, ha rimesso alla decisione alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto interpretativo in merito alla questione seguente: «se, e in quali eventuali termini, si applichino alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato, i limiti di impignorabilità delle somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché quelle dovute a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall’art. 545 cod. proc. civ.».

Il provvedimento interlocutorio è stato emesso nel corso del procedimento avente a oggetto i ricorsi proposti avverso l’ordinanza del Tribunale con la quale era stato respinto l’appello cautelare presentato nei confronti di ordinanza reiettiva della richiesta di restituzione di una somma di denaro oggetto di sequestro preventivo per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 contestato agli indagati per avere, nella qualità di coamministratori di una s.r.l. , al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, utilizzato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti nelle dichiarazioni relative ai periodi di imposta dal 2014 al 2019.

2. La disciplina normativa.

Con riferimento alla questione rimessa dalla Terza Sezione, per come sintetizzata, le Sezioni Unite hanno preliminarmente descritto l’ambito di applicazione della norma processualcivilistica evidenziando il regime di assoluta impignorabilità delineato dal secondo comma dell’art. 545 cod. proc. civ. distinguendolo da quello di pignorabilità relativa di cui ai commi successivi.

In particolare, quanto ai commi terzo e quarto, è stata segnalata la previsione di un regime di pignorabilità differenziato, in base alla natura del credito azionato (crediti alimentari o tributi dovuti allo Stato), per le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a cause di licenziamento.

Al quinto comma è previsto un innalzamento della quota pignorabile qualora concorrano più cause di credito.

Il settimo comma, invece, prevede un sistema misto con riferimento al regime di pignorabilità dei trattamenti pensionistici.

È stato, altresì, messo in evidenza come la Corte costituzionale e la stessa giurisprudenza di legittimità civile (con specifico riguardo al regime relativo alle pensioni), abbiano individuato la funzione della disposizione in quella di contemperare la protezione del credito con quella del lavoratore di mantenere una retribuzione congrua quale forma di garanzia di un’esistenza libera e dignitosa.

Analoga tutela viene assicurata al pensionato con riferimento ai mezzi necessari al mantenimento delle proprie esigenze di vita.

3. Il contrasto di giurisprudenza.

In ordine alla questione devoluta, sono stati indicati tre orientamenti.

3.1. L’applicabilità integrale dell’art. 545 cod. proc. civ.

Secondo il primo orientamento, espresso, in particolare, da Sez. 6, n. 25168 del 16/04/2008, Puliga, Rv. 2405672, l’art. 545 cod. proc. civ. sarebbe applicabile tout court, al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, in ragione della natura della norma che costituisce «regola di carattere generale espressione dei diritti inalienabili della persona, consacrati, in particolare, negli artt. 2 e 38 Cost., appartenendo a tale categoria gli emolumenti retributivi o pensionistici e gli assegni di carattere alimentare nella misura impignorabile prevista dalla norma».

In tale filone interpretativo, espressione anche di una lettura costituzionalmente orientata delle norme in materia di sequestro preventivo, sono state ricondotte Sez. 1, n. 41905 del 23/9/2009, Cardilli, Rv. 245049; Sez. 3, n. 17386 del 7/12/2018, dep. 2019, Calandrini; Sez. 3, n. 15099 del 22/3/2016, Moreschi; Sez. 3, n. 14606 del 14/3/2019, Di Franco, Rv. 275836; Sez. 6, n. 13422 del 13/3/2019, Feriozzi; Sez. 6, n. 8822 dell’8/1/2020, Iannuzzo, Rv. 278560; Sez. 2, n. 9767 del 18/11/2014, dep. 2015, Allotta, Rv. 263290; Sez. 2, n. 15795 del 10/2/2015, Intelisano, Rv. 263234.

3.2. La tesi dell’inapplicabilità della norma processuale civile.

Altro orientamento sostiene la tesi secondo cui sarebbero inapplicabili i limiti di cui agli artt. 545 e 546 cod. proc. civ. trattandosi di norme processualicivilistiche che disciplinano i rapporti tra privati e che integrano eccezioni al principio della responsabilità patrimoniale.

Al contrario, le disposizioni in materia di sequestro per equivalente trovano giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi pubblicistici funzionali a sanzionare le condotte illecite anche sulla base di fonti sovranazionali quali il Trattato di Lisbona, la Decisione quadro 2001/500/GAI e, ancora, la Direttiva 2014/42/UE.

A tale orientamento è stata ricondotta Sez. 2, n. 10655 del 2/10/2019, P.M. e Savona, Rv. 279461.

3.3. La tesi intermedia.

Secondo una terza opzione interpretativa, andrebbe operata una distinzione di ordine temporale: qualora la corresponsione delle somme sia avvenuta prima del provvedimento di sequestro, le prime possono essere oggetto di ablazione integrale in quanto, ormai, confuse nel patrimonio mobiliare del destinatario del provvedimento; sarebbero, invece, operativi i limiti laddove fosse ancora in essere il solo credito alla corresponsione delle somme predette al momento del sequestro.

In tal senso Sez. 3, n. 12902 del 20/11/2015, dep. 2016, Merli, Rv. 266761, e Sez. 3, n. 44912 del 7/4/2016, Bernasconi, Rv. 268771.

4. La soluzione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 26252 del 24/02/2022, Cinaglia, Rv. 283245, hanno pronunciato il principio di diritto come di seguito massimato: «i limiti di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall’art. 545 cod. proc. civ., si applicano anche alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato».

È stata esclusa la condivisibilità dell’orientamento intermedio da ultimo riportato in quanto porrebbe non tanto problemi di applicabilità dei limiti di cui all’art. 545 cod. proc. civ., quanto di operatività o non operatività radicale della disposizione citata.

In ogni caso, a frapporre un ostacolo decisivo all’opzione interpretativa in questione sarebbe lo stesso art. 545 cod. proc. civ. che al comma ottavo (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla legge 6 agosto 2015, n. 132) disciplina proprio le somme accreditate sul conto corrente bancario o postale intestato al lavoratore.

È stato previsto un regime di parziale impignorabilità (non già di assoluta impignorabilità) differenziato proprio in base al momento dell’accredito.

Proprio la legge di riforma ha previsto una differente entità delle limitazioni ai fini della pignorabilità, escludendo una forma di radicale impignorabilità.

Nel risolvere direttamente la questione devoluta, le Sezioni Unite hanno condiviso il primo orientamento sopra descritto.

Si tratta di una regola generale che deve trovare applicazione anche nella materia esaminata in ragione della sua «diretta discendenza da principi di ordine costituzionale».

Il riferimento all’art. 2 Cost. si giustifica, secondo l’orientamento condiviso, con la riconducibilità degli emolumenti e degli assegni di carattere alimentare ai diritti inalienabili della persona.

Sono stati richiamati, inoltre, valori dotati di garanzia costituzionale quali la dignità della persona, la solidarietà sociale ed economica, il diritto del lavoratore ad assicurare a sé stesso e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Si tratta di principi evocati anche dalla citata giurisprudenza civile e dalla Corte costituzionale nella costante ricerca di un equilibrio tra esigenze di tutela dei creditori e la salvaguardia di retribuzioni e pensioni.

Tale lettura è stata, inoltre, ritenuta coerente con la stessa giurisprudenza della Corte EDU e le fonti normative sovranazionali.

A tale proposito sono state richiamate le decisioni 13 maggio 2014, Paulet c. Regno Unito e del 5 marzo 2019, Uzan e altri c. Turchia in punto di valorizzazione del criterio della proporzionalità della misura ablativa rispetto alle garanzie del diritto di proprietà con riferimento alla pubblica utilità perseguita con la misura.

A livello di normativa sono stati richiamati l’art. 52 della CDFUE, i considerando nn. 17, 18 e 41 della Direttiva 2014/42/UE, il n. 21 del Regolamento 2018/1805.

Ulteriore riferimento è stato compiuto a tutta l’elaborazione giurisprudenziale di legittimità con la quale sono stati reiteratamente affermati i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità in tema di sequestro con specifico riferimento all’onere motivazionale del giudice «tenuto a dare adeguatamente conto della impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica».

Fra le molte, a tale proposito, si ricorda Sez. U., n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548.

All’applicabilità della norma al sequestro per equivalente non può, dunque, opporsi la tesi della natura pubblicistica degli interessi tutelati dalle disposizioni penali siccome lo stesso art. 545, comma quarto, cod. proc. civ. prevede limiti alla pignorabilità per crediti proprio di natura pubblicistica, quali quelli tributari.

Né assume rilievo decisivo il mancato richiamo dell’art. 321 cod. proc. pen. ai «limiti» entro i quali la legge consente il pignoramento dei beni che è presente nell’art. 316 cod. proc. pen.

L’assenza del predetto riferimento, infatti, è stata giustificata con quanto previsto dall’art. 104 disp. att. cod. proc. pen. che, disciplinando l’esecuzione del sequestro preventivo, dispone che la stessa avvenga, relativamente ai beni mobili e ai crediti, «nelle forme prescritte dal codice di procedura civile per il pignoramento presso il debitore o presso il terzo in quanto applicabili».

È stato evidenziato come tra le forme che vanno seguite rientrano, per il pignoramento presso terzi, quelle di cui all’art. 546 cod. proc. civ. che, a sua volta, richiama i limiti previsti dall’art. 545 cod. proc. civ. e dalle speciali disposizioni di legge.

Ne consegue che il mancato richiamo di cui all’art. 321 cod. proc. pen., a fronte della sequenza ora descritta, non pone ostacoli all’interpretazione prescelta dalle Sezioni Unite.

La Corte ha segnalato, altresì, come anche l’opposto indirizzo abbia affermato la necessità di evitare che possa esservi un indiscriminato assoggettamento a sequestro e una privazione eccessiva per il destinatario del provvedimento, proprio in virtù del ricordato principio di proporzionalità.

Il problema, secondo le Sezioni Unite, quindi, non è tanto quello dell’applicazione di limiti, quanto quello della loro individuazione: secondo l’orientamento seguito i limiti sono quelli processualcivilistici, secondo l’altra opzione andrebbero, invece, valutati caso per caso, in base alle allegazioni difensive.

A tale proposito è stato evidenziato come non possa dubitarsi che «mentre il primo criterio trova un solido aggancio in una generale valutazione del legislatore la cui compressione al solo aspetto esecutivo civilistico sarebbe, su un piano sistematico-razionale, assai difficilmente giustificabile se non a prezzo di evidenti dissimmetrie con i principi costituzionali, il secondo pare affidarsi a valutazioni di carattere discrezionale, tanto più opinabili a fronte di scelte già effettuate dallo stesso legislatore e ad una necessaria tendenziale ricerca di soluzioni omogenee, salvo che la regolamentazione normativa sia già di per sé indicativa di una opzione volutamente settoriale».

Il percorso argomentativo della Corte, sul punto, è stato completato con l’affermazione secondo cui, affinché possano ritenersi operanti i limiti di pignorabilità nella cautela penale è necessario che l’interessato assolva precisi oneri di allegazione e di prova sul punto.

È, quindi, necessario che emerga la natura qualificata dei crediti.

Per completezza, si segnala come la Corte abbia, infine, condiviso l’orientamento della giurisprudenza civile secondo cui non sono assimilabili ai crediti di lavoro o pensionistici quelli per emolumenti derivanti da incarico di amministratore di persone giuridiche.

A tale proposito ha fatto proprio quanto deciso da Sez. U civ., n. 1545 del 20/01/2017, Rv. 642004 e dalla stessa giurisprudenza delle Sezioni Penali (Sez. 3, n. 14250 del 18/01/2021, Marconi, Rv. 282020).

Ciò è stato giustificato con la particolarità del rapporto societario rispetto a quelli descritti dall’art. 545 cod. proc. civ. che si basa sulla immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e con l’assenza del requisito della coordinazione con la conseguente esclusione della sua ricomprensione nell’ambito dell’art. 409, comma terzo, cod. proc. civ.

. Indice delle sentenze citate

Corte di cassazione:

Sez. 6, n. 25168 del 16/04/2008, Puliga, Rv. 2405672-01;

Sez. 1, n. 41905 del 23/9/2009, Cardilli, Rv. 245049-01;

Sez. 2, n. 9767 del 18/11/2014, dep. 2015, Allotta, Rv. 263290-01;

Sez. 2, n. 15795 del 10/2/2015, Intelisano, Rv. 263234-01;

Sez. 3, n. 12902 del 20/11/2015, dep. 2016, Merli, Rv. 266761-01;

Sez. 3, n. 15099 del 22/3/2016, Moreschi;

Sez. 3, n. 44912 del 7/4/2016, Bernasconi, Rv. 268771-01;

Sez. U., n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548-01;

Sez. 3, n. 17386 del 7/12/2018, dep. 2019, Calandrini;

Sez. 6, n. 13422 del 13/3/2019, Feriozzi;

Sez. 3, n. 14606 del 14/3/2019, Di Franco, Rv. 275836-01;

Sez. 2, n. 10655 del 2/10/2019, P.M. e Savona, Rv. 279461-01;

Sez. 6, n. 8822 dell’8/1/2020, Iannuzzo, Rv. 278560-01;

Sez. 3, n. 14250 del 18/01/2021, Marconi, Rv. 282020-01;

Sez. U., n. 26252 del 24/02/2022, Cinaglia, Rv. 283245-01;

Sez. U civ., n. 1545 del 20/01/2017, Rv. 642004-01.

  • credito
  • detrazione fiscale
  • sequestro di beni
  • reato tributario
  • fatturazione

CAPITOLO II

LE DECISIONI CAUTELARI DELLA SUPREMA CORTE RIGUARDANTI L’ILLECITA FRUIZIONE DI INCENTIVI CORRELATI AL CD. “SUPERBONUS 110%”.

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Premessa. - 2 La decisione assertiva della suscettibilità di apprensione con sequestro preventivo impeditivo dei crediti dei terzi cessionari dell’incentivo correlato al cd. “superbonus 110%”, di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modifiche, dalla l. n. 77 del 2020. - 3 La decisione assertiva della sussistenza del “fumus” del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a fronte della condotta di chi, avendo monetizzato il credito derivante dalla realizzazione di opere suscettibili di fruire dell’agevolazione fiscale del cd. “superbonus 110%” mediante la sua cessione o lo sconto in fattura, ... - 4 La decisione indicativa delle condizioni necessarie perché il terzo cessionario di crediti d’imposta, di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modifiche, dalla l. n. 77 del 2020, sia tenuto indenne dal sequestro preventivo dei medesimi funzionale alla confisca. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nel corso dell’anno 2022 la Corte di Cassazione ha emesso talune pronunzie di particolare rilievo in tema di sequestro preventivo del profitto del delitto di truffa o di delitti tributari, laddove costituito dall’indebita percezione dei vantaggi economici correlati al cd. “superbonus 110%”.

In questa sede si procederà alla disamina delle decisioni di maggiore impatto, che saranno analizzate partitamente, tenendo conto delle diverse fattispecie di reato oggetto di contestazione e della diversa finalità dei sequestri preventivi disposti nelle singole vicende concrete.

2. La decisione assertiva della suscettibilità di apprensione con sequestro preventivo impeditivo dei crediti dei terzi cessionari dell’incentivo correlato al cd. “superbonus 110%”, di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modifiche, dalla l. n. 77 del 2020.

Procedendo allo scrutinio delle indicate decisioni secondo un criterio di ordine cronologico, viene in rilievo, innanzitutto, Sez. 3, n. 40865 del 21/09/2022, Decio, Rv. 283701-01, sentenza in cui si è affermato il principio di diritto così massimato: «In tema di sequestro preventivo impeditivo relativo al delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, sono suscettibili di apprensione i crediti dei terzi cessionari di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 (oggetto del cd. “superbonus 110%”), posto che gli stessi, derivando dal diritto alla detrazione di imposta spettante al committente delle opere, costituiscono cose pertinenti al reato, senza che rilevi la condizione soggettiva di detti terzi, in conformità alle norme processualpenalistiche che non risultano derogate dalla disciplina in oggetto».

La vicenda concreta, cui afferisce la pronunzia in disamina, riguarda il sequestro preventivo, con finalità impeditiva, dei crediti d’imposta di un istituto finanziario, nascenti dalla cessione in suo favore, da parte di soggetto indagato per i delitti di associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato, emissione di fatture per operazioni inesistenti e indebita compensazione, del proprio diritto all’incentivo economico correlato all’esecuzione di interventi di ristrutturazione beneficianti del cd. “superbonus 110%”.

Viene, dunque, in rilievo il tema della sequestrabilità in capo al cessionario, terzo estraneo al reato, dei crediti di imposta allo stesso ceduti dal soggetto indagato, percettore dell’incentivo previsto dalla normativa sul cd. “superbonus 110%”.

Orbene, la Corte afferma innanzitutto che i crediti ceduti alla banca debbono essere considerati “cosa pertinente al reato”, non potendosi ritenere che, per effetto della cessione e della correlata rinunzia all’originario diritto alla detrazione (consentite al beneficiario dell’incentivo ex art. 121, comma 1, lett. b), d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modifiche, dalla legge n. 77 del 2020), sorga in capo al cessionario un diritto di credito a titolo originario, depurato, cioè, dai vizi eventualmente inficianti il diritto alla detrazione.

Chiarisce infatti che, per effetto della cessione, non si verifica l’estinzione del diritto alla detrazione in capo al beneficiario, con contestuale costituzione ex nihilo di un diritto di credito in capo al cessionario, né si attiva un fenomeno novativo, ma si determina, piuttosto, l’evoluzione della prima situazione giuridica soggettiva nella seconda, espediente tecnico necessario per consentire quella cessione a terzi ritenuta dal legislatore fattore ulteriormente incentivante la procedura.

Sostiene ancora la Suprema Corte che fornisce riscontro all’esistenza di un nesso di derivazione tra il credito ceduto e l’originario diritto alla detrazione il disposto di cui all’art. 121, comma 6, del d.l. citato, che prevede espressamente la possibilità che siano chiamati a rispondere, in caso di concorso con il beneficiario dell’incentivo, anche il fornitore di beni o servizi e il cessionario del credito.

Da ultimo, aggiunge che non vale a smentire la prospettata conclusione la previsione dell’art. 28-ter d.l. n. 4 del 2022, convertito, con modifiche, dalla legge n. 25 del 2022, a termini del quale «l’utilizzo dei crediti d’imposta di cui agli articoli 121 e 122 del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, nel caso in cui tali crediti siano oggetto di sequestro disposto dall’Autorità giudiziaria può avvenire, una volta cessati gli effetti del provvedimento di sequestro, entro i termini di cui agli articoli 121, comma 3, e 122, comma 3, del medesimo d.l. n. 34 del 2020, aumentati di un periodo pari alla durata del sequestro medesimo, fermo restando il rispetto del limite annuale di utilizzo dei predetti crediti d’imposta previsto dalle richiamate disposizioni».

Assume infatti il giudice di legittimità che nulla autorizza a sostenere che la possibilità, riconosciuta al cessionario, di utilizzare i crediti in compensazione o per ulteriori trasferimenti, allorquando vengono meno gli effetti del vincolo, si traduca nell’insensibilità degli stessi rispetto alla misura cautelare, emergendo, piuttosto, dalla disposizione in parola la precisa volontà del legislatore di riaffermare, anche nella subiecta materia, la validità delle regole generali sancite dal codice di rito.

Ciò perché un opposto approdo ermeneutico postulerebbe una previsione espressa che non si riscontra nella norma de qua, il cui dettato conferma, con chiarezza, l’ammissibilità del sequestro preventivo con finalità impeditiva anche se disposto nei confronti del cessionario, in conformità alle regole generali di natura processuale.

3. La decisione assertiva della sussistenza del “fumus” del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti a fronte della condotta di chi, avendo monetizzato il credito derivante dalla realizzazione di opere suscettibili di fruire dell’agevolazione fiscale del cd. “superbonus 110%” mediante la sua cessione o lo sconto in fattura, ...

Meritevole di menzione risulta, inoltre, Sez. 3, n. 42012 del 13/10/2022, De Martino, Rv. 283767-01, pronunzia in cui il giudice di legittimità ha affermato il principio di diritto così massimato: «In tema di giudizio cautelare avente ad oggetto reati tributari, integra il “fumus” del delitto di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti la condotta di chi, avendo monetizzato il credito derivante dalla realizzazione di opere suscettibili di fruire dell’agevolazione fiscale del cd. “superbonus 110%” mediante la sua cessione o lo “sconto in fattura” ex art. 121 d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, effettui la fatturazione “in acconto” di spese relative a opere non ultimate o per le quali non sia stato emesso, da un tecnico abilitato, uno “stato di avanzamento lavori” attestante l’esecuzione di una porzione dell’intervento “agevolabile” e la congruità delle spese per esso sostenute, posto che l’emissione di tali fatture mira a simulare l’esistenza di spese in concreto non ancora sopportate e a creare fittiziamente il presupposto costitutivo del diritto alla detrazione».

Nello specifico, i giudici di legittimità, in una vicenda processuale relativa all’eseguito sequestro preventivo di quote societarie e di crediti d’imposta, in parte, nella diretta disponibilità delle medesime società e, in parte residua, trasferiti a terzi cessionari, hanno affermato, in via preliminare, che la fruizione dei bonus fiscali, e quindi anche del superbonus 110%, è indissolubilmente vincolata alla completa esecuzione degli interventi edili suscettibili di agevolazione.

Hanno inoltre precisato che, ove il soggetto esecutore di uno di tali interventi intenda monetizzare nell’immediato il credito nascente dall’esecuzione di opere che possono beneficiare dell’incentivo fiscale mediante la sua cessione o il cd. “sconto in fattura” e non voglia attenderne l’ultimazione, è tenuto, con riguardo a tutti i bonus edilizi, a far data dall’entrata in vigore del d.l. n. 157 del 2021 (cd. “decreto antifrode”), a presentare “stati di avanzamento dei lavori” emessi da un tecnico abilitato, che attestino l’esecuzione di una porzione dell’intervento “agevolabile” e la congruità delle spese all’uopo sostenute.

Hanno concluso, infine, che, nel caso in cui l’esecutore di un intervento “agevolabile” emetta fatture in acconto per spese relative ad opere non ultimate o rispetto alle quali non sia stato rilasciato dal tecnico il prescritto stato di avanzamento lavori, attestante le indicate condizioni, ricorre il “fumus” del delitto di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000.

4. La decisione indicativa delle condizioni necessarie perché il terzo cessionario di crediti d’imposta, di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modifiche, dalla l. n. 77 del 2020, sia tenuto indenne dal sequestro preventivo dei medesimi funzionale alla confisca.

Da ultimo, assume particolare rilevanza Sez. 3, n. 45558 del 16/11/2022, PMT c/Poste Italiane s.p.a., Rv. 284054-02, decisione con riguardo alla quale risulta enunciato il principio di diritto di seguito trascritto: «In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., è persona estranea al reato, nei confronti della quale non può essere disposta la misura di sicurezza ai sensi dell’art. 240, comma terzo, cod. pen., colui il quale non abbia tratto vantaggi dall’altrui attività criminosa e che sia in buona fede, non potendo conoscere, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, l’utilizzo del bene per fini illeciti. (Fattispecie di annullamento con rinvio della decisione del tribunale del riesame con cui era stato annullato il vincolo disposto, per la ritenuta insussistenza del credito d’imposta, nei confronti del terzo cessionario ex art. 121 d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, relativa alla disciplina del cd. “superbonus 110%”)».

La decisione cui è riferito il principio in oggetto – come è dato desumere dall’inserimento nell’abstract della fattispecie – ha natura di annullamento con rinvio della pronunzia del tribunale del riesame, caducatoria, a sua volta, del vincolo reale in precedenza disposto nei confronti del cessionario del credito d’imposta ex art. 121 d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modifiche, dalla legge n.77 del 2020, in ragione della ritenuta insussistenza di detto credito.

Orbene, nell’occasione la Suprema Corte, dopo aver chiarito che, nella vicenda concreta, il sequestro preventivo oggetto d’impugnativa era stato disposto in funzione della confisca dei beni ablati, ha ribadito innanzitutto quanto in precedenza affermato nella sentenza n. 40867/2022 (pronunzia “gemella” di quella n. 40865/2022, scrutinata al par. 2), sostenendo segnatamente che, per effetto della cessione del credito d’imposta da parte del beneficiario, non si verifica l’estinzione del suo diritto alla detrazione, con contestuale costituzione ex nihilo di un diritto di credito in capo al cessionario, né si attiva un fenomeno novativo, ma si determina, piuttosto, l’evoluzione della prima situazione giuridica soggettiva nella seconda, espediente tecnico necessario per consentire la cessione a terzi, ritenuta dal legislatore funzionale a incentivare la fruizione del beneficio.

Il giudice di legittimità ha ribadito, inoltre, che fornisce riscontro all’esistenza di un nesso di derivazione tra il credito ceduto e l’originario diritto alla detrazione il disposto di cui all’art. 121, comma 6, d.l. n. 34 del 2020, che prevede la possibilità che siano chiamati a rispondere, in caso di concorso con il beneficiario dell’incentivo, sia il fornitore di beni o servizi, sia il cessionario del credito.

La Suprema Corte ha confermato, poi, che non smentisce il proprio assunto quanto sancito dall’art. 28-ter d.l. n. 4 del 2022, convertito, con modifiche, dalla legge n. 25 del 2022, secondo cui «l’utilizzo dei crediti d’imposta di cui agli articoli 121 e 122 del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020, nel caso in cui tali crediti siano oggetto di sequestro disposto dall’Autorità giudiziaria può avvenire, una volta cessati gli effetti del provvedimento di sequestro, entro i termini di cui agli articoli 121, comma 3, e 122, comma 3, del medesimo d.l. n. 34 del 2020, aumentati di un periodo pari alla durata del sequestro medesimo, fermo restando il rispetto del limite annuale di utilizzo dei predetti crediti d’imposta previsto dalle richiamate disposizioni».

Ha affermato infatti che non può sostenersi che la possibilità, riconosciuta al cessionario, di utilizzare i crediti in compensazione o per ulteriori trasferimenti quando vengano meno gli effetti del vincolo si traduce nell’insensibilità degli stessi rispetto alla misura cautelare, emergendo dalla disposizione de qua la volontà del legislatore di riaffermare, anche nella materia di cui trattasi, la validità delle regole generali sancite dal codice di rito.

Tanto chiarito, la Suprema Corte, nel focalizzare l’attenzione sulla vicenda concreta che aveva condotto all’emissione del decreto di sequestro preventivo funzionale alla confisca, poi caducato dal tribunale del riesame, ha affermato che, dovendosi ritenere inesistente un credito d’imposta “non reale”, qual è, come nel caso sottopostole, quello che trova la propria scaturigine nella commissione del delitto di emissione di false fatturazioni per operazioni inesistenti, deve logicamente concludersi che presenta di certo tali caratteristiche il credito d’imposta che derivi, per effetto di cessione, da un diritto alla detrazione sorto in capo al cedente in esito ad operazioni fraudolente.

Il giudice di legittimità ha ulteriormente evidenziato che, ove un credito d’imposta recante le indicate caratteristiche sia portato in compensazione dal cessionario nella consapevolezza della sua inesistenza, è ragionevole ritenere che si profilino, a carico del predetto, elementi di responsabilità per il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000.

Alla stregua di tali considerazioni, venendo in rilievo nel caso di specie un provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni ablati, ha aggiunto che si rende necessario accertare, per poter escludere l’applicabilità della misura nei confronti del cessionario del credito d’imposta, che il predetto sia estraneo al reato per non aver ricavato da esso vantaggi od altre utilità e che versi inoltre in una situazione di buona fede.

Al fine precipuo di perimetrare l’ambito di tale accertamento, rimesso, per la sua natura fattuale, al giudice del rinvio, la Corte ha, infine, evidenziato che il cessionario dei crediti d’imposta che provvede a monetizzare il credito al cedente consegue da tale operazione un indubbio vantaggio economico, posto che i crediti sono ceduti a un valore inferiore a quello nominale, sicché, per l’utile che consegue dall’altrui attività criminosa, difficilmente potrà essere ritenuto “persona estranea al reato”.

Per altro verso, ha posto in rilievo che la sussistenza della condizione di buona fede del cessionario dovrà essere accertata tenendo conto degli obblighi di vigilanza su di lui incombenti per effetto delle disposizioni antiriciclaggio di cui al d.lgs. n. 231 del 2007 e delle istruzioni sulle comunicazioni di dati e informazioni riguardanti operazioni sospette, impartite, in data 11/02/2021, dall’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, impositive di controlli necessariamente precedenti la monetizzazione dei crediti ceduti.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione:

Sez. 3, n. 40865 del 21/09/2022, Decio, Rv. 283701-01;

Sez. 3, n. 42012 del 13/10/2022, De Martino, Rv. 283767-01;

Sez. 3, n. 45558 del 16/11/2022, PMT c/Poste Italiane s.p.a., Rv. 284054-02.

  • reato tributario
  • confisca di beni

CAPITOLO III

L’APPLICABILITÀ DELLE SS.UU., N. 42415/2021,C., AL PROFITTO DEI REATI TRIBUTARI

(di Giuseppe Marra )

Sommario

1 I principi espressi dalle Sez. U., n.10561/2014, Gubert, in materia di profitto nei reati tributari, nonché dalle Sez. U., n.31617/2015, Lucci, in tema di confisca diretta di somme di denaro. - 2 Le puntualizzazioni svolte dalle Sez. U., n. 42415/2021, C., in particolare sulla confisca diretta del denaro costituente profitto o prezzo del reato. - 3 Principi sostenuti dalla successiva giurisprudenza relativamente alla confisca del denaro, ex art. 12-bis, d.lgs. n.74 del 2000, nei procedimenti per reati tributari. - Indice delle sentenze citate

1. I principi espressi dalle Sez. U., n.10561/2014, Gubert, in materia di profitto nei reati tributari, nonché dalle Sez. U., n.31617/2015, Lucci, in tema di confisca diretta di somme di denaro.

La tematica del sequestro preventivo e della successiva confisca, diretta o per equivalente, di somme di denaro individuate come profitto o prezzo del reato, ha interessato la Suprema Corte da molti anni, la quale, infatti, è intervenuta più volte sulla questione anche tramite il suo massimo Consesso. Per quanto qui di interesse, si richiameranno però, in estrema sintesi, solo due decisioni delle Sezioni Unite: la sentenza n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 25864-01, nonché la sentenza n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437-01.

La prima decisione, Sez. U. n.10561/2014- Gubert, si segnala perché la Suprema Corte ha affermato che il concetto di profitto o provento di reato, legittimante il sequestro preventivo e successivamente la confisca “… deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende nella sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata dell’attività criminosa”. Sulla base di siffatto principio le Sezioni unite hanno, quindi, espressamente qualificato come profitto il risparmio di spesa ottenuto dal reato tributario (ad es. l’omesso versamento delle imposte dovute), ritenendo di conseguenza configurabile la confisca diretta del denaro corrispondente all’imposta evasa, rimasto nel patrimonio della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio il reato sia stato commesso. Non può sfuggire che la natura fungibile del bene denaro diventa l’architrave del ragionamento giuridico svolto, poiché ciò che rileva ai fini della confisca diretta è l’accrescimento patrimoniale illecito, sia nella forma diretta, sia come conseguenza indiretta di un reato, come può accadere nel caso di evasione fiscale penalmente rilevante.

L’ulteriore sviluppo di questa impostazione si trova nella citata sentenza Sez. U., n. 31617/2015, Lucci, che in massima ha affermato: “Qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato”. Nella motivazione, la Suprema Corte ha poi precisato che soltanto nell’ipotesi in cui sia impossibile la confisca di somme di denaro (ad es. per incapienza del conto corrente di riferimento) potrà sorgere la possibilità giuridica di procedere ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato, sempre in misura corrispondente al valore del profitto o prezzo del reato.

Si è ritenuto di richiamare i principi di questi due importanti arresti giurisprudenziali, perché essi sono stati, in tutta evidenza, la base della successiva sentenza, Sez. U., n. 42415 del 27/05/2021, C., Rv. 282037-01, che in motivazione, infatti, ha sostenuto di voler ribadire i principi già espressi dalle Sezioni Unite Gubert e Lucci (in particolare da quest’ultima decisione) in tema di confisca diretta del prezzo o profitto monetario, salvo aggiungere importanti precisazioni.

Tuttavia, va evidenziato che in tema di confisca nei procedimenti per reati tributari, la Terza Sezione competente in materia, anche dopo la citata sentenza delle Sezioni Unite – Lucci, ha comunque mantenuto un’interpretazione rigorosa dei principi generali in ordine al nesso di pertinenzialità del profitto del reato, anche nel caso in cui esso sia costituito da somme di denaro.

In particolare è stato affermato che “la natura fungibile del reato non consente la confisca diretta delle somme depositate sul conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse non possono in alcun modo derivare da reato..”, difettando perciò la caratteristica indefettibile del profitto, pur sempre necessaria per poter procedere, in base alle definizioni ed ai principi di carattere generale, al sequestro ed alla confisca in via diretta. (cfr. Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, dep. 27/02/2018, in proc. Barletta e altro, Rv. 272353 -01; Sez. 3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307-01; Sez. 3, n. 6348 del 4/10/2018, dep. 11/02/2019, Torelli, Rv. 274859-01; Sez. 3, n. 31516 del 29/09/2020, “Casa di Cura Trusso s.p.a.” in liquidazione, Rv. 280152-01, nonché Sez.3, n. 36215 del 31/03/2021, Tornincasa). I casi esaminati dalla Terza Sezione avevano in comune il fatto che le somme di denaro oggetto di ablazione, erano pervenute sui conti correnti delle società che avevano evaso le imposte, in data successiva alla consumazione del reato da parte del legale rappresentante delle stesse. Nei casi di reati tributari omissivi, il tempus commissi delicti è individuato dalla data di scadenza del termine di versamento dell’imposta, per cui le somme accrescitive del patrimonio finanziario del reo, successive alla predetta data, non sono state considerate profitto del reato tribu- tario.

2. Le puntualizzazioni svolte dalle Sez. U., n. 42415/2021, C., in particolare sulla confisca diretta del denaro costituente profitto o prezzo del reato.

La sentenza Sez. U., n. 42415 del 27/05/2021, C., Rv. 282037-01, ha affermato, quindi, in massima il seguente principio di diritto: “La confisca del denaro costituente profitto o prezzo del reato, comunque rinvenuto nel patrimonio dell'autore della condotta, e che rappresenti l'effettivo accrescimento patrimoniale monetario conseguito, va sempre qualificata come diretta, e non per equivalente, in considerazione della natura fungibile del bene, con la conseguenza che non è ostativa alla sua adozione l'allegazione o la prova dell'origine lecita della specifica somma di denaro oggetto di apprensione”. Il caso in esame aveva per oggetto il sequestro preventivo di denaro considerato profitto o prezzo del reato di cui all’art. 346-bis cod. pen., in parte poi dissequestrato dal Tribunale del riesame con riguardo alle sole somme accreditate sul conto corrente dell’autore del reato solo in data successiva alla commissione dell’illecito, per le quali era stato, perciò, escluso il nesso di pertinenzialità con il reato stesso. Il ricorso per Cassazione era finalizzato ad escludere dal sequestro anche le somme di denaro, antecedenti alla consumazione del reato, di cui l’indagato aveva fornito la prova della loro derivazione lecita, tra cui, ad esempio, somme accreditate da Equitalia con bonifici tracciati.

La sentenza C., partendo dal principio già consolidato in giurisprudenza- secondo cui, se il prezzo o il profitto del reato è rappresentato da una somma di denaro, essa si confonde con le altre componenti del patrimonio del reo e perde, perciò stesso, rilievo giuridico la sua identificabilità fisica - ne ha ricavato le logiche conseguenze, ossia che ai fini della confisca diretta “…da un lato, quindi, non occorrerà ricercare lo stesso numerario – le medesime banconote – conseguito dall’autore come diretta derivazione del reato da lui commesso, e, dall’altro, nessuna rilevanza sarà attribuibile all’eventuale esistenza di altri attivi monetari in ipotesi confluiti nel patrimonio del reo, foss’anche a seguito di versamenti di denaro aventi origine lecita nel suo conto corrente”. Ed ancora sul punto della prova dell’esistenza del nesso di pertinenzialità con il reato, ha affermato che con riferimento al denaro esso “…non può essere inteso come fisica identità della somma confiscata rispetto al provento del reato, ma consiste nella effettiva derivazione dal reato dell’accrescimento patrimoniale monetario conseguito dal reo, che sia ancora rinvenibile, nella stessa forma monetaria, nel suo patrimonio. É tale incremento monetario che rappresenta il provento del reato suscettibile di ablazione, non il gruzzolo fisicamente inteso”. In estrema sintesi, il provento del reato non è più la specifica somma di denaro che si confonde con altre somme in possesso del reo, bensì l’accrescimento patrimoniale monetario conseguito dall’attività illecita.

Il passaggio finale di tale ricostruzione giuridica è che, una volta provato con gli ordinari standard probatori l’accrescimento patrimoniale derivante dal reato, non è poi consentito all’indagato/imputato paralizzare la confisca diretta di somme di denaro presenti nella sua disponibilità fornendo la prova dell’origine lecita di componenti finanziarie del suo patrimonio, circostanza ormai divenuta irrilevante per il più volte descritto fenomeno di confusione delle somme di denaro, senza, però, che ciò intacchi principi costituzionali o convenzionali che presidiano l’effettività del diritto di difesa.

Va però sottolineata una circostanza molto importante ai fini della rappresentazione chiara della giurisprudenza in esame: il caso affrontato dalle Sezioni Unite, n. 42415/2021, C., non riguardava somme di denaro acquisite al patrimonio del ricorrente in data successiva alla consumazione del reato, per le quali, invece, come già detto, il Tribunale del riesame aveva già provveduto al dissequestro, ritenendo che difettasse il nesso di pertinenzialità con il reato.

3. Principi sostenuti dalla successiva giurisprudenza relativamente alla confisca del denaro, ex art. 12-bis, d.lgs. n.74 del 2000, nei procedimenti per reati tributari.

La questione del sequestro e poi della confisca di somme di denaro è di regola presente nei procedimenti relativi a reati tributari, ai sensi dell’art. 12-bis,d.lgs. n.74 del 2000, dato l’oggetto proprio di questi illeciti; in essi, poi, è molto frequente il caso in cui beneficiario della condotta penalmente rilevante è una persona giuridica, a cui, si affianca, ovviamente, la persona fisica autore del reato. Sul punto è opportuno ricordare che la giurisprudenza, a partire dai principi espressi dalla citata sentenza Sez. U. n. 10561/2014, Gubert, è pacifica nell’affermare che è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato. Solo nel caso in cui non sia possibile procedere alla confisca diretta, si può procedere alla confisca per equivalente, procedendo quindi nei confronti dei beni nella disponibilità dell’autore del reato, ove sia un soggetto diverso dalla persona giuridica beneficiaria dell’attività illecita.

Nel 2022 la Terza Sezione ha pronunciato due importanti sentenze, in cui sono stati approfonditi funditus i temi giuridici oggetto di questo capitolo, tenendo, ovviamente, in massimo conto dei principi giuridici espressi dalle Sezioni Unite, n. 42415/2021, C., nel 2021.

La prima sentenza, in ordine temporale, è la seguente: Sez.3, n. 11086 del 4/02/2022, Pulvirenti, Rv. 283028-01, massimata nei seguenti termini: “In tema di reati tributari, le somme di denaro affluite sul conto corrente della gestione commissariale di una società ammessa a procedura di amministrazione straordinaria in data successiva alla consumazione del delitto ad opera del suo amministratore non sono suscettibili di confisca diretta, in quanto, non derivando da reato, non ne costituiscono il profitto. (In motivazione, la Corte ha precisato che tali somme, costituenti, in specie, l'acconto sul prezzo di cessione di un compendio di beni, non costituiscono profitto del reato di omesso versamento delle ritenute dovute, di cui all'art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, neanche sotto forma di risparmio di spesa e che, pertanto, non sono suscettibili di essere sottoposte a sequestro finalizzato alla confisca diretta, potendo essere, invece, sottoposti a sequestro finalizzato alla confisca per equivalente i beni nella disponibilità dell'amministratore di fatto della società).”

L’esame della decisione non può prescindere dalla breve descrizione del caso di specie, che consente di comprendere anche gli interessi economici sottesi al ricorso, promosso dall’amministratore di fatto di una società, ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria, indagato per il delitto di omesso versamento delle ritenute operate quale sostituto di imposta (art.10-bis, d.lgs. n.74 del 2000). Il provvedimento impugnato emesso dal Tribunale del riesame riguardava il sequestro preventivo per equivalente disposto dal G.I.P. su conti correnti dell’amministratore di fatto, il quale, invece, lamentava, che sarebbe stato possibile, di contro, procedere al sequestro in via diretta delle somme giacenti sul conto corrente della gestione commissariale della società in amministrazione straordinaria, certamente in via prioritaria rispetto alle disponibilità pecuniarie rinvenibili in capo alle persone fisiche indagate. La difesa del ricorrente evidenziava, a tal fine, che il saldo attivo presente sul conto corrente della gestione commissariale al momento dell’adozione della misura rappresentava, comunque, un’utilità generata dal risparmio di spesa a suo tempo conseguito illecitamente dalla società, che, diventando perciò profitto del reato tributario, avrebbe potuto essere aggredito in via diretta dalla misura cautelare reale, facendo salvo perciò il patrimonio personale del ricorrente.

La Terza Sezione ha rigettato il ricorso perché infondato. Il cuore della decisione sta nell’affermazione secondo cui non era possibile considerare profitto del reato le somme di denaro affluite sul conto corrente della gestione commissariale della società in data successiva alla commissione del reato, in particolare derivanti da un’operazione lecita e oggettivamente riscontrabile di cessione di un compendio immobiliare compiuto dai commissari giudiziali. La sentenza in più passaggi ha affermato che la decisione “non collide..” con il principio di diritto affermato dalla sentenza delle richiamate Sezioni unite n. 42415/2021, C. Del resto, quest’ultima decisione non prendeva in considerazione il caso di somme di denaro acquisite lecitamente dalla società, ma successivamente alla data di commissione del reato, individuata nella scadenza dell’obbligo tributario. Il dato temporale dell’afflusso di denaro rispetto alla commissione del reato, ha consentito, perciò, alla sentenza n. 11086/2022 – Pulvirenti, di non mettersi in contrasto con i principi affermati l’anno precedente dalle Sezioni unite, rimanendo, invece, conforme all’orientamento prevalente della Terza Sezione sopra segnalato.

A diverse conclusioni è, invece, giunta la sentenza Sez. 3, n. 42616 del 20/09/2022, L’Angolana s.r.l., Rv. 283714-01, massimata nei seguenti termini: “In tema di reati tributari, la confisca, ex art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, delle somme di denaro affluite sul conto corrente intestato alla persona giuridica anche successivamente alla commissione del reato da parte del suo legale rappresentante, ha natura di confisca diretta in quanto le stesse costituiscono comunque profitto del reato, risolvendosi in un vantaggio per il suo autore il risparmio di spesa conseguente all'omesso versamento delle imposte. (Fattispecie di sequestro finalizzato a confisca).”. Con il ricorso era stato impugnato il sequestro preventivo di somme di denaro rinvenute sul conto corrente della società beneficiaria dei contestati reati tributari, eccependo che la misura cautelare aveva sottoposto a vincolo somme di denaro di provenienza lecita, pervenute sul conto bancario in data successiva alla scadenza dell’obbligazione tributaria. Il ricorrente, a tal fine, precisava che le Sezioni Unite, n. 42415/2021, C., si riferivano ad una fattispecie in cui il sequestro aveva interessato somme di denaro giacenti sul conto in data anteriore alla commissione del reato tributario; la difesa richiamava, invece, la giurisprudenza che aveva ritenuto illegittimo il sequestro di somme entrate nel patrimonio del reo in base ad un credito sorto dopo la commissione del reato (Sez. 6, n. 6816 del 29/01/2019, Sena, Rv. 275048-01). La sentenza della Corte ha rigettato il ricorso, incentrando le proprie argomentazioni sul fatto che la sentenza delle Sezioni Unite, n. 42415/2021, C., richiamata come punto di riferimento della decisione, ha espresso un principio di carattere generale, che deve ritenersi applicabile senza dubbio anche ai reati tributari, nei quali il profitto del reato è rappresentato dal cosiddetto “risparmio di spesa”, non essendo rinvenibile alcuna ragione di distinzione con il profitto costituito da un “accrescimento economico”.

In base a questo assunto, può, pertanto, ritenersi che l’illecito arricchimento consistente nel mancato esborso delle somme dovute in relazione all’obbligo tributario, permane nel patrimonio dell’ente che ha beneficiato dell’evasione d’imposta, anche successivamente alla scadenza del termine di adempimento e sino a che non venga, eventualmente, estinto il debito tributario stesso. Sotto questo profilo, perderebbe perciò significato la limitazione temporale delle somme aggredibili connessa alla data di consumazione del reato tributario, in quanto il “risparmio di spesa” produrrebbe effetti positivi nel patrimonio della società anche dopo la scadenza della data di versamento delle imposte dovute.

In conclusione, si può, tuttavia, affermare che il contrasto evidenziato sopra appare limitato ad un solo punto, quello relativo alla confisca diretta delle somme pervenute dopo la commissione del reato, circostanza che non si verifica necessariamente in tutti i procedimenti. La giurisprudenza sembra, invece, consolidarsi, anche a seguito dei molteplici interventi delle Sezioni Unite, su alcuni importanti principi che si potrebbero considerarsi come basilari nello sviluppo delle argomentazioni a sostegno delle tesi esposte, anche, dalle due ultime sentenze citate. In primo luogo vi è piena condivisione nell’affermare quanto ai reati tributari: che il profitto va inteso come il “risparmio di spesa” conseguente al mancato versamento delle imposte dovute; che è legittima la confisca diretta del profitto, derivante dall’illecito commesso dal legale rappresentante, rimasto nella disponibilità della persona giuridica, non potendosi considerare l’ente una persona estranea al detto reato; che la natura fungibile del denaro consente la confisca diretta delle somme rinvenute sul conto corrente della società che ha beneficiato dell’illecito tributario, a prescindere dall’accertamento dello specifico nesso di pertinenzialità tra le somme sequestrate/confiscate e il reato perseguito, in ragione del fenomeno di confusione delle somme di denaro più volte richiamato, in particolare, come detto, dalla sentenza Sez. U., n. 42415/2021, C., che viene richiamata da tutte le pronunce come precedente di riferimento.

. Indice delle sentenze citate

Sez. U., n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 25864-01;

Sez. U., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437-01;

Sez. U., n. 42415 del 27/05/2021, C., Rv. 282037-01;

Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, dep. 27/02/2018, in proc. Barletta e altro, Rv. 272353 -01;

Sez. 3, n. 41104 del 12/07/2018, Vincenzini, Rv. 274307-01;

Sez. 3, n. 6348 del 4/10/2018, dep. 11/02/2019, Torelli, Rv. 274859-01;

Sez. 6, n. 6816 del 29/01/2019, Sena, Rv. 275048-01;

Sez. 3, n. 31516 del 29/09/2020, “Casa di Cura Trusso s.p.a.” in liquidazione, Rv. 280152-01;

Sez.3, n. 36215 del 31/03/2021, Tornincasa;

Sez. 3, n. 11086 del 4/02/2022, Pulvirenti, Rv. 283028-01;

Sez. 3, n. 42616 del 20/09/2022, L’Angolana s.r.l., Rv. 283714-01;