PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE I - GIURISDIZIONE E COMPETENZA

  • reato
  • giurisdizione militare
  • giurisdizione penale
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO I

LA GIURISDIZIONE ORDINARIA E LA GIURISDIZIONE SPECIALE NEL CASO DI CONNESSIONE TRA REATI COMUNI E REATI MILITARI

(di Maria Eugenia Oggero )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 Gli argomenti posti a fondamento delle decisioni oggetto del contrasto. - 3 La soluzione recepita dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

La Prima Sezione ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite della questione controversa: «se, in caso di connessione tra un reato militare ed un reato ordinario più grave, la questione di competenza giurisdizionale derivante dall’applicazione della regola di cui all’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., soggiaccia alla disciplina di cui all’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., ossia alla regola della rilevabilità o dell’eccepibilità, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare ovvero, se questa manchi, entro il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen.».

In senso più ampio, il tema affrontato riguarda la questione se il riparto tra la giustizia ordinaria e quella militare attenga alla competenza, con sussistenza dei suddetti limiti alla rilevabilità dell’eventuale difetto, o alla giurisdizione, il cui difetto, ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen., è invece rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento: dalla soluzione della questione dipende, di conseguenza, l’estensione della giurisdizione militare rispetto a quella ordinaria.

Nel caso di specie, l’imputato era stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale Militare per più episodi integranti ciascuno i reati di diserzione aggravata, simulazione di infermità aggravata, truffa militare aggravata, allontanamento illecito aggravato, previsti dal Codice penale militare di Pace e, dopo alcuni rinvii del dibattimento, successivi alla sua apertura, il difensore depositava un avviso di conclusione delle indagini emesso dalla giurisdizione ordinaria per il reato di cui agli art. 81, 476 cod. pen. In sostanza, poiché alcuni tra i reati militari contestati erano avvenuti mediante presentazione di documentazione medica ritenuta falsa, il procedimento della giurisdizione ordinaria si riferiva all’uso dei falsi certificati medici ed il reato per cui procedeva la A.G. ordinaria era più grave dei reati militari contestati.

Il difensore eccepiva il difetto di giurisdizione dell’A.G. militare e chiedeva trasmettersi gli atti alla A.G. ordinaria ma il Tribunale rigettava l’istanza, osservando che il difetto di giurisdizione per connessione dovesse essere eccepito nel corso dell’udienza preliminare. L’eccezione di difetto di giurisdizione era stata riproposta, rappresentando il difensore che non avrebbe potuto sottoporla al collegio in precedenza, perché ignaro dell’esistenza del procedimento pendente davanti alla A.G. ordinaria.

Il Tribunale – reiterando il rigetto – concludeva il processo e l’imputato, parzialmente condannato in primo grado per alcuni dei reati a lui contestati, appellava la sentenza riproponendo in appello la questione del difetto di giurisdizione, respinta pure dalla Corte Militare di Appello.

Avverso la decisione, era stato interposto ricorso per cassazione deducendo, con il primo motivo, l’erronea applicazione e interpretazione dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. la questione sollevata riguardava la giurisdizione e non la competenza, cosicché non sarebbe stata soggetta ai limiti di rilevabilità previsti per quest’ultima.

2. Gli argomenti posti a fondamento delle decisioni oggetto del contrasto.

Un primo orientamento - di cui, peraltro, risulta espressione pressoché esclusiva Sez. 1, n. 3975 del 28/11/2013, dep. 2014, Giantesani – ha affermato che la regola dell’art 13, comma 2, cod. proc. pen. sulla connessione non sarebbe funzionale a risolvere questioni di giurisdizione e sarebbe quindi soggetta al limite di rivelabilità di cui all’art. 21, comma 3, cod. proc. pen. La previsione in oggetto non atterrebbe a ipotesi di difetto di giurisdizione perché, quando il reato comune è quello più grave, questo resta in capo alla A.G. ordinaria, così come il reato rientrante nella giurisdizione militare continuerebbe ad essere trattato dalla A.G. militare. Secondo la citata sentenza “Nel caso in esame non ricorre un’ipotesi di difetto di giurisdizione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art.20 cod. proc. pen., posto che il reato di abbandono di posto giudicato dal Tribunale militare è oggettivamente un reato previsto dal cod. pen. mil. Pace” e quindi il riparto di potestà tra giudice ordinario e militare è visto come attinente alla competenza.

Un altro orientamento, rappresentato da Sez. F., n. 47926 del 24/08/2017, Cardaropoli, Rv. 271058-01, non massimata sul punto, ha ritenuto la questione del riparto di autorità decisoria tra giustizia ordinaria e militare attinente alla giurisdizione, e, di conseguenza, il suo eventuale difetto rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

La Corte di cassazione, sul presupposto che la questione riguardasse la giurisdizione e non la competenza, riteneva che la lamentata tardività della questione, eccepita dal Procuratore Generale, “Confligge con la natura di questione rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo e di conseguenza altrettanto liberamente deducibile dalle parti senza doversi attenere al rispetto di determinate e rigide cadenze processuali. L’art. 20 cod. proc. pen., infatti, impone al giudice la verifica della giurisdizione quale adempimento necessario e logicamente anticipato rispetto ad ogni altra indagine su questioni ad esso devolute, verifica da condursi in base ai fatti oggetto dell’imputazione e da rinnovarsi in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, con la conseguente declaratoria di difetto di giurisdizione qualora i presupposti fattuali e normativi subiscano mutamenti rispetto all’accusa originaria col progredire del corso del processo (Sez. 1, n. 4060 del 08/11/2007, Sommer e altri, Rv. 239185-01)”.

Le ragioni di tale secondo orientamento trovavano fondamento anche in ulteriori decisioni, che, pur non affrontando la questione specifica oggetto del contrasto, hanno, in generale, ricostruito il rapporto tra autorità ordinaria e autorità militare come attinente alla giurisdizione: al riguardo, sono state indicate le sentenze Sez. 1, n. 44514 del 28/9/2012, Nacca e altro, Rv. 253825-01; Sez. 1, n. 5680 del 15/10/2014, dep. 2015, D’Ambrosio, Rv. 262461-01; Sez. 1, n. 23372 del 15/5/2015, Miceli, Rv. 263616-01; Sez. 1, n. 36418 del 21/5/2002, Vito, Rv. 222526-01; Sez. 1, n. 48461 del 9/9/2019; Sez. 1 n. 25352 del 15/1/2019; Sez. 1 n. 11619 del 26/2/2021, quest’ultima, in particolare, contiene plurimi riferimenti giurisprudenziali e afferma chiaramente versarsi in ipotesi di questione di giurisdizione.

Il regime del riparto tra quelle che sono abitualmente indicate come “le due giurisdizioni” in caso di reati connessi è oscillato tra il principio di prevalenza della giurisdizione militare e quello inverso. Nel codice Rocco si estendeva la giurisdizione militare anche a soggetti estranei al comparto e a fattispecie che non tutelavano interessi militari. Con l’entrata in vigore della Costituzione, quella prevalenza divenne inconciliabile con l’art. 103 Cost. e vi pose fine la legge n. 167 del 1956 che riscrisse l’art. 264 cod. pen. mil. Pace, disciplinante la connessione tra reati comuni e militari con il riconoscimento alla giurisdizione ordinaria di quella vis actractiva fino ad allora attribuita alla giurisdizione militare.

Nell’attuale codice di rito, la prevalenza della giurisdizione ordinaria risulta temperata dalla regola (art. 13, comma 2, cod. proc. pen.) per cui la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare; regola che mira ad evitare una riduzione eccessiva della giurisdizione militare, alla luce di un principio di ragionevolezza (Corte cost., ord. n. 204 del 2001).

Infatti, come è stato rilevato anche da Sez. U., n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006, Maldera, Rv. 232661-01, il codice di rito vigente ha modificato radicalmente la disciplina della connessione tra reati di competenza del Giudice ordinario e reati di competenza del Giudice militare, quasi capovolgendola. L’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce, al riguardo, che “Fra reati comuni e reati militari la connessione dei procedimenti opera soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare, avuto riguardo ai criteri previsti dall’art. 16, comma 3, cod. proc. pen. In tale caso, la competenza per tutti i reati è del Giudice ordinario”.

In un primo tempo – così, Sez. 1, n. 12782 del 23/11/1995, De Marco, Rv. 203165-01, Sez. 1, n. 1399 del 15/12/1999, dep. 2000, Moccia, Rv. 215228-01 – la giurisprudenza di legittimità si era orientata nel senso di ravvisare nell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. la regola cui fare esclusivo riferimento nella disciplina dei rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare in caso di connessione, precisando che l’art. 264 cod. pen. mil. pace, modificato dalla legge n. 167 del 1956, art. 8, che prevedeva la competenza dell’autorità giudiziaria in caso di concorso di più persone nel reato e di nesso teleologico tra reati, doveva ritenersi abrogato dalla successiva disposizione del codice di procedura penale del 1988. Successivamente, era stato però affermato che l’art. 264 cod. pen. mil. Pace e l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. disciplinano fattispecie non del tutto omogenee, posto che l’art. 264 riguarda soltanto le ipotesi di delitti e non di reati in genere, come è previsto dall’art. 13 cod. proc. pen., comma 2 e che i casi di connessione previsti dal codice militare sono parzialmente diversi da quelli indicati dall’art. 12 cod. proc. pen. (così, Sez. 1, ord. n. 4527 del 20/1/2005, Rv. 230437-01 e, in motivazione, Sez. U., n. 1684 del 14/12/1994, dep. 1995, Trombetta, Rv. 200041-01) per cui non poteva affermarsi l’abrogazione tacita del citato art. 264. Sul punto, si era anche pronunciata, successivamente, la Prima sezione della Corte (Sez. 1, n. 16439 del 3/3/2005, Tria, Rv. 231578-01), aggiungendo che “Il problema dell’abrogazione, totale o parziale, dell’art. 264 non ha decisiva influenza sulla definizione della questione relativa alla giurisdizione in caso di concorso di civili e di militari nello stesso delitto militare, per la precisa ragione che, una volta escluso che tale situazione rientri nell’ambito di operatività dell’art. 13 codice di rito, comma 2, è inevitabile riconoscere che la soluzione accolta dalla uniforme giurisprudenza di questa Corte discende direttamente dall’art. 103 comma 3 della Carta fondamentale. La piena fondatezza di tale enunciato risulta evidente quando si considera che la Corte costituzionale ha costantemente affermato la regola della tassatività della giurisdizione speciale e della prevalenza della giurisdizione ordinaria”.

In estrema sintesi, i tratti salienti caratterizzanti gli orientamenti giurisprudenziali esposti possono essere pertanto schematizzati nei seguenti termini:

1) l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace e non vi sono casi di attribuzione di procedimenti connessi all’autorità giudiziaria ordinaria diversi da quello in cui il reato comune è più grave di quello militare; perciò, nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione rispetto a queste ultime è del Giudice militare;

2) l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. non ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 cod. pen. mil. Pace; le due disposizioni risultano collegate e in applicazione della seconda nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione è esclusivamente in capo al Giudice ordinario;

3) l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. presuppone una pluralità di reati, comuni e militari, ed è quindi inapplicabile nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari; in questo caso l’attribuzione al Giudice ordinario della giurisdizione rispetto a tutti i concorrenti discende direttamente dall’art. 103, comma 3 della Carta fondamentale.

3. La soluzione recepita dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto, in condivisione del secondo orientamento, affermando il principio così massimato: «La disposizione di cui all’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., relativa alla connessione tra reati comuni e reati militari attiene, in conformità all’art. 103, comma terzo, Cost., a questione di giurisdizione e non di competenza, sicché la sua violazione è deducibile o rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi dell’art. 20, cod. proc. pen.» (Rv. 282847-01).

Hanno osservato che “La ripartizione di giurisdizione e di competenza è rigida e non discrezionale”, portato del principio costituzionale del “giudice naturale precostituito per legge” e che l’operazione tesa ad individuare il giudice in capo al quale sussiste la giurisdizione è scelta logicamente preliminare - e perdurante, data la sua dimensione dinamica, nel corso del processo - rispetto al tema della competenza (per materia, per territorio, per connessione), individuata nell’ambito di una determinata giurisdizione.

Ciò considerato, con riferimento al rapporto tra autorità giudiziaria ordinaria e militare, la Corte non dubita trattarsi - sulla scorta delle norme costituzionali (art. 102, primo e secondo comma, art. 103 Cost.) e delle pronunce della Corte costituzionale (cfr., tra l’altro, le sentenze n. 78 del 1989, n. 429 del 1992, n. 271 del 2000) - di profilo attinente alla giurisdizione, per cui, in un’ottica costituzionalmente orientata, deve concludersi che la giurisdizione ordinaria risulti prevalente rispetto alla giurisdizione militare, che occupa lo spazio di mera concorrenza rispetto alla prima, qualora l’autore del reato sia un militare (limite soggettivo), si tratti di fatto previsto come reato dal codice penale militare e il reato sia stato infine commesso durante il servizio (limite oggettivo).

Date tali premesse, le Sezioni Unite affermano pertanto che “La lettura delle norme costituzionali e l’interpretazione di esse fornita dalla Corte Costituzionale (Corte cost., n. 429 del 1992, n.d.r.) e dalle Sezioni Unite in precedenza ricordate (Sez. U., n. 5135 del 25/10/2005 (dep. 2006), Maldera, Rv. 232661-01, Sez. U. n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694-01, n.d.r.) non permettono dubbi sull’attinenza alla giurisdizione – e non alla competenza – del rapporto tra autorità giudiziaria ordinaria e autorità giudiziaria militare”.

Ne discende, secondo la Corte, che l’art. 13, comma 2, cod. proc. Pen. sia stato dettato per stabilire la giurisdizione del giudice militare e/o del giudice ordinario nell’ipotesi di connessione di procedimenti per reati comuni e reati militari, chiarendo che “La natura della questione come attinente alla giurisdizione comporta l’applicazione dell’art. 20 cod. proc. Pen., ai fini del regime e delle eccezioni e della conseguente non operatività dell’art. 21 cod. proc. Pen., dettato per le questioni attinenti alla competenza”.

E, inoltre, “La circostanza che l’art. 20 cod. proc. Pen. non riproduca una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 21, comma 3, cod. proc. Pen. è ulteriormente indicativa della volontà del legislatore di riservare una regolamentazione diversa al regime del difetto di giurisdizione rispetto alla mera incompetenza per connessione”.

In conclusione, posto che il riparto di potestà tra giudice militare e giudice ordinario attiene alla giurisdizione e non alla competenza, anche il precetto di cui all’art 13, comma 2, cod. proc. Pen. si inquadra nel medesimo riparto, con la conseguenza che la sua violazione integra un difetto di giurisdizione, deducibile o rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 20 cod. proc. Pen.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze Corte di cassazione:

Sez. U., n. 1684 del 14/12/1994, dep. 1995, Trombetta, Rv. 200041-01;

Sez. 1, n. 12782 del 23/11/1995, De Marco, Rv. 203165-01;

Sez. U., n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214694-01;

Sez. 1, n. 1399 del 15/12/1999, dep. 2000, Moccia, Rv. 215228-01;

Sez. 1, n. 36418 del 21/5/2002, Vito, Rv. 222526-01;

Sez. 1, ord. n. 4527 del 20/1/2005, Rv. 230437-01;

Sez. 1, n. 16439 del 3/3/2005, Tria, Rv. 231578-01;

Sez. U., n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006, Maldera, Rv. 232661-01;

Sez. 1, n. 4060 del 08/11/2007, Sommer e altri, Rv. 239185-01;

Sez. 1, n. 44514 del 28/9/2012, Nacca e altro, Rv. 253825-01;

Sez. 1, n. 3975 del 28/11/2013, dep. 2014, Giantesani;

Sez. 1, n. 5680 del 15/10/2014, dep. 2015, D’Ambrosio, Rv. 262461-01;

Sez. 1, n. 23372 del 15/5/2015, Miceli, Rv. 263616-01;

Sez. F, n. 47926 del 24/08/2017, Cardaropoli, Rv. 271058-01;

Sez. 1, n. 25352 del 15/1/2019;

Sez. 1, n. 48461 del 9/9/2019;

Sez. 1, n. 11619 del 26/2/2021;

Sez. U., n. 8193 del 25/11/2021 (dep. 2022), Blonda, Rv. 282847-01.

Sentenze Corte costituzionale:

Corte cost. n. 204 del 2001;

Corte cost. n. 78 del 1989;

Corte cost. n. 429 del 1992;

Corte cost. n. 271 del 2000.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE II - LE PARTI

  • giurisdizione penale
  • danno
  • giurisdizione
  • pubblica amministrazione
  • diritto all'immagine

CAPITOLO I

IL DANNO ALL’IMMAGINE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contrasto interpretativo. - 3 I rapporti tra giurisdizione ordinaria e contabile. - 4 La soluzione. - 4.1 Segue: la tesi del rinvio “mobile”. - Elenco sentenze citate

1. Premessa.

Con sentenza Sez. 6, n. 5534 del 20/05/2021 (dep. 2022), Marcon Aldo, Rv. 282884-01 la Corte, in tema di danno all’erario, ha affermato il principio, cosi` massimato: “Il danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione è risarcibile anche quando derivi dalla commissione di reati comuni. (In motivazione la Corte ha precisato che, anche a seguito delle modifiche normative disposte con il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174 ed in ragione del perdurante rinvio “mobile” contenuto nell’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, all’abrogato art. 7, legge n. 97 del 2001, l’azione risarcitoria non può ritenersi esperibile in relazione ai soli delitti dei pubblici agenti contro la pubblica amministrazione, indicati nell’art. 7 cit.).”.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto configurabili profili di responsabilità per danno erariale a carico di esponenti dell’amministrazione militare, preposti alle procedure di appalto, per delitti di turbata libertà degli incanti, in relazione alle modalità di affidamento diretto e gare informali per l’esecuzione di lavori in economia, anche in prorogatio e rinnovo di precedenti committenze.

I ricorrenti contestavano, tra gli altri motivi, la disposta condanna al risarcimento per danno all’immagine della Pubblica Amministrazione (Ministero della difesa), non avendo la Corte di appello tenuto conto di quanto disposto dall’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, che limiterebbe la risarcibilità del danno di immagine alla P.A. ai “soli casi previsti dalla legge” e quindi alle fattispecie delittuose di cui agli artt. da 314 a 335-bis cod. pen., escludendola in relazione al delitto contestato di turbata libertà degli incanti.

Sulla questione del danno all’immagine, la Corte rileva che tale componente di danno è circoscritta normativamente dal d.l. n. 78 del 2009, conv. in legge n. 102 del 2009, essendo limitata la possibilità di esercizio della relativa azione di danno erariale, ai sensi dell’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2011.

La norma di rinvio prevede, in particolare, un obbligo di comunicazione al competente procuratore regionale della Corte dei conti della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo primo del titolo secondo del libro secondo del codice penale (art. 314-355 cod. pen., “delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”), affinché promuova l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato.

La norma, pertanto, disciplina essenzialmente i casi in cui la sentenza di condanna andava comunicata alla Procura contabile, al fine di garantire un raccordo tra la giurisdizione penale e quella contabile.

Tuttavia, propone una rivalutazione del dato normativo alla luce delle profonde modifiche intervenute, per effetto delle parziali abrogazioni introdotte dal d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, suscettibili di incidere sugli stessi limiti posti alla configurabilità della responsabilità dei pubblici dipendenti per danno all’immagine della amministrazione pubblica.

2. Il contrasto interpretativo.

Sul tema della operatività dei limiti alla configurabilità del danno all’immagine della P.A., ossia se esso sia limitato ai soli reati richiamati dall’art. 7 legge n. 97 del 2001 ovvero se possa configurarsi anche in presenza di reati comuni che, per la qualità dell’agente e le modalità della condotta, abbiano leso l’immagine ed il prestigio della pubblica amministrazione, si è manifestato un contrasto interpretativo nella giurisprudenza della Corte al quale, illustrati i contenuti ermeneutici delle opposte tesi, la Sesta sezione ha cercato di dare soluzione.

Come sopra evidenziato, il d.lgs. n. 174 del 2016, che ha introdotto il codice della giustizia contabile, riorganizzando le previgenti norme in un corpus normativo organico, ha previsto espresse abrogazioni parziali della normativa in tema di danno all’immagine della P.A.

In particolare, l’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009 è stato modificato mediante l’abrogazione del primo periodo, per effetto della previsione di cui all’art. 4, all. 3, lett. h), d.lgs. n. 174 del 2016). Al contempo, il medesimo art. 4, all. 3, lett. g), ha abrogato l’art. 7 della legge n. 97 del 2001, cui il cit. art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009 faceva rinvio, senza tuttavia eliminare il rinvio previsto in tale ultima disposizione.

In conseguenza, i limiti ed i modi per l’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine sarebbero attualmente dettati da una norma – l’art. 7 legge n. 97 del 2001 – che è stata abrogata proprio per effetto dello stesso provvedimento normativo che ha modificato anche l’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009.

Di qui la questione interpretativa circa la configurabilità del danno all’immagine anche in relazione alla commissione di reati diversi da quelli indicati dall’attualmente abrogato art. 7 legge n. 97 del 2001.

Secondo la ricostruzione operata dal Collegio della Sesta sezione, una prima tesi, più restrittiva, richiamando il dato letterale della disposizione cui l’art. 17, comma 30-ter, affermava che l’azione risarcitoria per il danno all’immagine subìto dalla pubblica amministrazione è esercitabile soltanto con riferimento ai delitti contro la P.A. previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, con esclusione, quindi, dei reati “comuni” posti in essere da soggetti appartenenti ad una pubblica amministrazione (Sez. 2, n. 35447 del 21/10/2020, Ventre, Rv. 280311-01; conf. Sez. 6, n. 48603 del 27/09/2017, Cardinali, Rv. 271567-01, in tema di abuso di ufficio, in cui la Corte, escludendo la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del giudice contabile in tale materia, ha ritenuto non violato il principio del ne bis in idem e legittima la liquidazione in favore della P.A. del danno patrimoniale e morale derivante dal reato commesso da un pubblico dipendente, nonostante per il medesimo fatto fosse stata già promossa l’azione dinanzi al giudice contabile; Sez. 2, n. 14605 del 12/03/2014, Del Toso, Rv. 260022-01).

La più recente delle richiamate pronunce (Ventre) considera anche il mutato quadro normativo per effetto del d.lgs. n. 174 del 2016, alla cui luce conferma l’interpretazione restrittiva.

Nelle sentenze citate si fa esplicito riferimento alla sentenza C. cost. n. 355 del 2010, secondo cui deve ritenersi che «il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipendente di questa» e non già «che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria», sicché «la norma deve essere univocamente interpretata… nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria».

La Corte costituzionale, fatta tale premessa, ha ritenuto che «la scelta di non estendere l’azione risarcitoria anche in presenza di condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso da quelli espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente irragionevole», in quanto «il legislatore ha ritenuto... nell’esercizio della predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’ente pubblico».

Un opposto orientamento, cui la Sesta sezione ha ritenuto di aderire, ha affermato che il danno subito dalla pubblica amministrazione per effetto della lesione all’immagine è risarcibile anche qualora derivi dalla commissione di reati comuni posti in essere da soggetti appartenenti ad una pubblica amministrazione (Sez. 2, n. 41012 del 20/06/2018, C., Rv. 274083-03; conf., Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata, Rv. 270517-01; Sez. 3, n. 05481 del 12/12/2013, dep. 2014, P., Rv. 259132-01).

Si premette che la richiamata affermazione di C. cost. n. 355 del 2010, non sarebbe preclusiva rispetto a tale opposta interpretazione, attesa la non vincolatività, quanto al principio espresso, di una sentenza di rigetto della Corte delle leggi.

Per tale via, tale secondo orientamento ritiene che il danno all’immagine, rientrando nella generale categoria dei danni risarcibili in sede civile, ben potrebbe configurarsi anche in ipotesi diverse da quelle disciplinate dall’art. 7 legge n. 97 del 2001.

Né sussisterebbe preclusione dalla valutabilità del danno all’immagine solo dopo che la pronuncia di condanna sia passata in giudicato, trattandosi di condizione valida solo in sede di giudizio contabile, non impeditiva dell’esercizio dell’azione di responsabilità innanzi alla giurisdizione ordinaria, se del caso, attraverso la costituzione di parte civile.

Si fa leva sulla reciproca autonomia della giurisdizione penale e della giurisdizione contabile, anche in caso di azione di responsabilità derivante da un medesimo fatto di reato commesso da un pubblico dipendente.

3. I rapporti tra giurisdizione ordinaria e contabile.

Come accennato, a supporto della tesi secondo cui la normativa in tema di danno da immagine non ha una valenza generale, bensì disciplina unicamente i casi in cui tale danno può essere oggetto dell’azione contabile, va anche richiamata la consolidata giurisprudenza in tema di rapporti tra le due giurisdizioni.

Il rapporto di indipendenza tra le plurime azioni esperibili trova fondamento, secondo la Sesta sezione, nelle peculiari modalità di esercizio dell’azione civile nel processo penale, con riferimento al danno derivante direttamente dal reato ex art. 185 cod. pen.

Si prende atto della affermazione contenuta in Sez. 6, n. 35205 del 16/03/2017, Mineo, Rv. 277074-01, secondo cui «la giurisdizione penale e la giurisdizione contabile sono reciprocamente autonome anche in caso di azione di responsabilità derivante da un medesimo fatto di reato commesso da un pubblico dipendente e l’eventuale interferenza che può determinarsi tra i relativi giudizi incide solo sulla proponibilità dell’azione di responsabilità e sulla eventuale preclusione derivante dal giudicato, ma non sulla giurisdizione, nel senso che l’azione di danno può essere esercitata in sede civile o penale, ovvero davanti alla Corte dei conti, solo a condizione che l’ente danneggiato non abbia già ottenuto un precedente titolo definitivo per il risarcimento integrale di tutti i danni. (Fattispecie in tema di abuso di ufficio, in cui la Corte, escludendo la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del giudice contabile in tale materia, ha ritenuto non violato il principio del ne bis in idem e legittima la liquidazione in favore della P.A. del danno patrimoniale e morale derivante dal reato commesso da un pubblico dipendente, nonostante per il medesimo fatto fosse stata già promossa l’azione dinanzi al giudice contabile)».

La Corte esclude che ci sia spazio per una questione di giurisdizione anche quando i giudizi investano un medesimo fatto materiale, ma, per la possibile coesistenza di azioni di natura risarcitoria, che possono essere esercitate contestualmente in sede civile o penale, ovvero innanzi alla Corte dei Conti, riconosce l’esistenza di una possibile “interferenza” tra i giudizi, pur se limita l’effetto preclusivo del giudicato formatosi nell’una o nell’altra sede solo quando costituisca titolo per l’integrale risarcimento dell’ente danneggiato (in tal senso, Sez. 6, n. 03907 del 13/11/2015 - dep. 2016, Zaccaria, Rv. 266110-01; Sez. 6, n. 48603 del 27/09/2017 - dep. 2017, Cardinali, Rv. 271568-01).

La citata giurisprudenza delle Sezioni penali si conforma al principio espresso dalle Sezioni Unite civili in tema di responsabilità erariale, secondo cui la giurisdizione civile e quella penale, da un lato, e la giurisdizione contabile, dall’altro, sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali anche quando investono un medesimo fatto materiale (Sez. U civ., n. 26582 del 28/11/2013, Rv. 628611-01; Sez. U civ., n. 11 del 04/01/2012, Rv. 621202-01).

Ancor prima, le medesime Sezioni Unite civili, con riferimento al caso di un dipendente di un ente comunale di assistenza condannato in sede penale al risarcimento dei danni in favore del Comune in conseguenza del reato di truffa aggravata in danno della P.A., hanno escluso la sussistenza di una riserva di giurisdizione della Corte dei conti sulla determinazione del danno patrimoniale e morale (Sez. U civ., n. 22277 del 26/11/2004, Rv. 578129-01).

Giova richiamare sul punto il principio espresso da Sez. U civ., n. 06581 del 24/03/2006, Rv. 587422-01, che, nel dichiarare inammissibile un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per la contemporanea pendenza di un giudizio di responsabilità, ha rilevato che la giurisdizione del giudice contabile non viene meno in seguito alla sentenza definitiva di condanna generica al risarcimento dei danni contro i soggetti chiamati a rispondere del danno erariale, in dipendenza della costituzione della P.A. come parte civile nel processo penale, per i medesimi fatti dedotti in sede di giudizio contabile. La suddetta deduzione, infatti, evidenzia non una questione di giurisdizione ma una questione afferente ai limiti della proponibilità della domanda avanti al giudice contabile (e, quindi, concerne i limiti interni della sua giurisdizione), sotto il profilo dell’esercizio di analoga azione risarcitoria avanti al giudice penale e del conseguente pericolo di violazione del principio del ne bis in idem (conf. Sez. U civ., n. 00822 del 23/11/1999, Rv. 531406-01).

La proponibilità dell’azione di danno in sede penale o civile – o, nell’ipotesi inversa, dell’azione di responsabilità – trova, dunque, un unico limite nel fatto che l’ente danneggiato abbia già ottenuto un titolo per il risarcimento di tutti i danni patiti. Solo in tal caso le azioni di danno e di responsabilità si pongono in rapporto di reciproca preclusione. L’integrale ristoro del danno patito dalla pubblica amministrazione non potrà lasciare spazio per iniziare o proseguire una diversa azione di risarcimento, pena la violazione del principio del ne bis in idem.

Il rapporto di indipendenza tra le plurime azioni esperibili trova fondamento nelle peculiari modalità di esercizio dell’azione civile nel processo penale, con riferimento al danno derivante direttamente dal reato ex art. 185 cod. pen.

Si osserva, in particolare, che l’azione di risarcimento esercitata dalla P.A. in sede penale – al pari di quella in sede civile – è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola Amministrazione attrice, mentre il giudizio promosso per i medesimi fatti innanzi alla Corte dei conti dal Procuratore contabile, nell’esercizio dell’azione obbligatoria che gli compete, è volto alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria. La differenza funzionale tra l’azione di risarcimento del danno (esercitata in sede penale o civile) e quella di accertamento della responsabilità amministrativo-contabile del pubblico dipendente è espressa, da ultimo, da Sez. civ. 3, n. 14632 del 14/07/2015, Rv. 636278-01, che nega che possa essere ipotizzata la violazione del principio del ne bis in idem tra il giudizio civile introdotto dalla P.A., avente ad oggetto l’accertamento del danno derivante dalla lesione di un suo diritto soggettivo conseguente alla violazione di un’obbligazione civile, contrattuale o legale, o della clausola generale di danno aquiliano, da parte di soggetto investito di rapporto di servizio con essa, ed il giudizio conseguente all’esercizio (obbligatorio) dell’azione di competenza del Procuratore della Corte dei conti per i medesimi fatti (cfr. relazione di questo Ufficio del Massimario di orientamento della giurisprudenza n. 81 del 2017).

Sulla base di tali osservazioni, parrebbe superabile la preoccupazione evidenziata nella cit. C. cost. n. 355 del 2010, secondo cui, ove non si riconoscesse valenza generale alla disciplina sul risarcimento del danno all’immagine, l’esito del giudizio di danno sarebbe diverso a seconda della giurisdizione dinanzi alla quale viene attivato.

Invero, la giurisdizione ordinaria e quella contabile – ciascuna sulla base dei diversi presupposti legittimanti le rispettive azioni – non si porrebbero in contrasto, ma si compenetrerebbero tra di loro, con la conseguenza che, a fronte di un danno unitario, occorrerà esclusivamente valutare se vi sia stata o meno l’integralità del risarcimento, dovendosi escludere la possibilità di una duplicazione o sovrapposizione di sentenze di condanna, che determinerebbero un’indebita locupletazione in capo al danneggiato con aggravio del responsabile dell’illecito.

4. La soluzione.

Alla luce del rinnovato quadro normativo e della ricostruzione dei rapporti tra giurisdizione ordinaria e contabile, Sez. 6, n. 5534 del 20/05/2021, Marcon, Rv. 282884-01-02, aderisce alla soluzione meno restrittiva tra quelle in contrasto, valorizzando la valenza generale della regola di cui all’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, anche alla luce delle motivazioni contenute in C. cost. n. 355 del 2010.

Ai fini del riconoscimento di una portata generale della norma, supera l’apparente ostacolo della collocazione sistematica del cit. art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, inserita in un più ampio provvedimento normativo volto espressamente a razionalizzare e disciplinare i controlli contabili e l’ambito di intervento della Corte dei conti.

Il dato letterale della norma non indica, secondo la Corte, un limite generale rispetto alla risarcibilità del danno da immagine, ma prevede esclusivamente un limite di tipo processuale per l’esercizio dell’azione risarcitoria in sede di giudizio contabile. Dunque, la norma deve essere letta non in senso di limite sostanziale alla configurabilità dello specifico danno erariale, ma in senso processuale, che impone, nel caso di sentenza di condanna per reati rispetto ai quali è certa o, quanto meno, altamente probabile la sussistenza di un danno all’immagine per la P.A., la comunicazione della sentenza di condanna e della conseguente azione della Procura presso la Corte dei conti.

In buona sostanza, l’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, andrebbe letto nel senso che – in presenza della condanna per determinati reati – la Procura presso la Corte dei conti deve necessariamente attivarsi anche per verificare la sussistenza del danno all’immagine. Ciò non implicherebbe affatto che – al di fuori di tali angusti limiti – non possa riconoscersi ugualmente la sussistenza del suddetto danno, anche nella diversa sede della giurisdizione ordinaria.

Né è di ostacolo a tale soluzione l’orientamento consolidatosi nella giurisdizione contabile (C. conti, Sez. riunite, n. 8 del 2015), che fa leva sull’attrazione del danno all’immagine nell’ambito della più generale responsabilità amministrativa, ritenendo che la natura punitiva imponga un’interpretazione letterale della norma che escluda possibili ampliamenti dei casi di risarcimento del danno all’immagine. Il danno all’immagine – quanto meno nell’ordinamento civilistico – non integra una sanzione, bensì un mero risarcimento a fronte dell’illecito commesso. Ne consegue che ritenere l’ammissibilità del risarcimento, anche al di fuori dei limiti previsti nell’ambito della giurisdizione contabile, non costituisce frutto di una interpretazione estensiva, bensì rientra nella ordinaria applicazione dei principi dettati dagli artt. 1218 e 2043 cod. civ.

Del resto, l’art. 185 cod. pen. indica un canone generale (ed autonomo) di imputazione della responsabilità risarcitoria del danno patrimoniale o non patrimoniale, come conseguenza alla commissione di “ogni reato”, mentre le disposizioni di cui agli artt. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009 e 7 legge n. 97 del 2001 sono di ambito settoriale, riguardando il giudizio contabile (ad esempio, la seconda disposizione fa esclusivo riferimento ai dipendenti «di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica»).

La Corte recepisce, sul punto, gli approdi della giurisprudenza civile di legittimità, sopra analizzati, che configurano il danno all’immagine della P.A., sia esso perseguito dinanzi alla Corte dei conti o davanti ad altra A.G., come danno patrimoniale da “perdita di immagine”, di tipo contrattuale, avente natura di danno-conseguenza (tale, comunque, da superare una soglia minima di pregiudizio) e la cui prova può essere fornita anche per presunzioni e mediante il ricorso a nozioni di comune esperienza.

Si tratta, in particolare, di danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.

Infine, la Sesta sezione rileva che sul tema della risarcibilità del danno all’immagine vi è stato un nuovo intervento della Consulta (C. cost. n. 191 del 2019), pur non pronunciatasi nel merito della legittimità costituzionale del novellato art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, ma dell’art. 51, commi 6 e 7, all. 1, d.lgs. n. 174 del 2016, «nella parte in cui esclude l’esercizio dell’azione del PM contabile per il risarcimento del danno all’immagine conseguente a reati dolosi commessi da pubblici dipendenti a danno delle pubbliche amministrazioni, dichiarati prescritti con sentenza passata in giudicato pienamente accertativa della responsabilità dei fatti ai fini della condanna dell’imputato al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite».

Il Giudice delle leggi, nel ritenere inammissibile la questione prospettata, ha osservato come il giudicante rimettente non abbia adeguatamente vagliato l’aspetto – preliminare rispetto a quello della necessità o meno di una sentenza di condanna – dell’ammissibilità del danno all’immagine della P.A. anche in relazione a reati comuni, posti in essere in danno dell’amministrazione, diversi da quelli precedentemente individuati dall’art. 7 legge n. 97 del 2001, omettendo di valutare se il richiamo, contenuto nell’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, ad una norma non più vigente sia configurabile come rinvio “mobile”, tale che la sopravvenuta abrogazione della norma richiamata ne escluderebbe l’applicazione, ovvero abbia natura “fissa”, cristallizzando la pregressa limitazione ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.

Incidentalmente, la Consulta ha rilevato l’obiettiva incertezza normativa conseguente al fatto che, per effetto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 174 del 2016, «è rimasta in vita la norma che circoscrive la proponibilità della domanda a casi specifici; a tale scopo, tuttavia, detta norma continua a fare rinvio ad una previsione che lo stesso codice ha contestualmente abrogato».

4.1. Segue: la tesi del rinvio “mobile”.

La Sesta sezione, con la cit. sentenza Marcon, prende atto del recente arresto di Sez. 2, n. 35447 del 21/10/2020, Ventre, Rv. 280311-01, che ha affermato che «nel caso di specie si sia in presenza proprio di un rinvio “recettizio” o “fisso”, consistente nella integrazione della disposizione del 2009 con quella del 2001 che entra così a far parte del contenuto precettivo della disposizione in cui questa viene “incorporata” risultando perciò, la disposizione “incorporante”, insensibile alle vicende modificative o abrogative che riguardino la norma richiamata.

Prospetta una consapevole opposta interpretazione del rinvio in esame, privilegiando la tesi del rinvio “mobile”. A tal fine, valorizza la funzione processuale della norma richiamata di cui all’art. 7 legge n. 97 del 2001, riguardante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”)

Il rinvio inserito all’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009 è funzionale a richiamare una categoria di reati per la quale è stata già riconosciuta la necessità del raccordo tra giustizia penale e contabile ed è dettato dal fatto che ove fosse stata modificata la norma base - da individuarsi nell’art. 7 legge n. 97 del 2001 - non si sarebbe dovuti intervenire anche sulla disposizione dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. n. 78 del 2009, secondo una consolidata tecnica normativa che ricorre a tali forme di richiamo proprio per garantire il contestuale adeguamento di due norme funzionalmente collegate, lì dove intervenga una modifica normativa. Del resto, si osserva, la natura ricettizia del rinvio dipende essenzialmente dalla voluntas legis, posto che si tratta di una particolare modalità di formulazione del testo normativo, mediante il quale si rinvia ad un’altra previsione senza riprodurne il contenuto.

Nel caso di specie, secondo la Corte, è evidente l’intenzione del legislatore di richiamare la norma tenendo conto anche delle sue possibili modifiche. In altri termini, l’abrogazione dell’art. 7 legge n. 78 del 2001 esprime la scelta di produrre un effetto abrogativo della limitazione della risarcibilità del danno all’immagine ad una limitata cerchia di reati.

Tale soluzione, del resto, è quella che meglio si armonizza con la complessiva risistemazione dei rapporti tra giustizia penale e contabile, desumibile dall’art. 51, comma 7, d.lgs. n. 174 del 2016, che, con una formulazione in gran parte sovrapponibile a quella dell’art. 7 legge n. 78 del 2001, prevede che «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».

Se, nel vigore della precedente normativa, la trasmissione della sentenza era prevista solo nel caso di condanna per determinati reati, attualmente il medesimo incombente è previsto per «tutti i delitti commessi a danno» delle pubbliche amministrazioni.

Ciò conferma come la funzione di selezione delle condanne rilevanti anche in sede di danno erariale, prima affidata all’art. 7 legge n. 97 del 2001, attualmente è svolta dall’art. 51, comma 6, d.lgs. n. 174 del 2016.

La modifica non è un mero adattamento sistematico del testo, atteso che la nuova disposizione ha ampliato la categoria dei reati rispetto ai quali può ricorrere un danno erariale, non più limitata ai «delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale» (come previsto dall’art. 7), bensì ricomprendente tutte le ipotesi di reato commesse in danno della P.A. e, quindi, anche le fattispecie comuni in concreto comportanti una lesione per la pubblica amministrazione.

Infine, sempre a sostegno della tesi del rinvio “mobile”, la Corte evidenzia che nel periodo di vigenza della suddetta normativa sono intervenuti rilevanti modifiche al catalogo dei reati ricompresi nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, essendo state introdotte nuove fattispecie, quali l’induzione indebita (art. 319-quater cod. pen.) o la corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 cod. pen.), alle quali, diversamente opinando, non sarebbe applicabile l’art. 17, comma 30-ter, cit. nel rinvio testuale ai delitti elencati al capo I del titolo III del libro secondo del codice penale, in vigore alla data di introduzione della norma “richiamante”, con conseguente irragionevole esclusione della risarcibilità del danno all’immagine anche per reati – si pensi in particolare a quello introdotto all’art. 319-quater cod. pen. – che hanno una offensività pari se non maggiore a quelli per i quali era già prevista tale forma di risarcimento.

Ne deriva, secondo il Collegio, un’interpretazione della locuzione attualmente contenuta all’art. 51, all. 1, d.lgs. n. 174 del 2016, lì dove si prevede la comunicazione delle sentenze di condanna emesse in relazione a “tutti i delitti commessi a danno» delle pubbliche amministrazioni”, nel senso di “una previsione aperta, rispetto alla quale il criterio selettivo non è più costituito dall’indicazione nominalistica del tipo di reato, bensì dal fatto che l’illecito sia stato commesso “a danno” della P.A., con conseguente configurabilità in capo al colpevole ed al soggetto civilmente responsabile dell’obbligo di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, costituitasi parte civile, in applicazione del canone generale di cui all’art. 185, comma 2, cod. pen.

. Elenco sentenze citate

Sentenze Corte Costituzionale:

Corte cost. n. 355 del 2010;

Corte cost. n. 191 del 2019.

Sentenze della Corte di cassazione penale:

Sez. 3, n. 05481 del 12/12/2013, dep. 2014, P., Rv. 259132-01;

Sez. 2, n. 14605 del 12/03/2014, Del Toso, Rv. 260022-01;

Sez. 6, n. 03907 del 13/11/2015 - dep. 2016, Zaccaria, Rv. 266110-01;

Sez. 2, n. 29480 del 7/02/2017, Cammarata, Rv. 270517-01;

Sez. 6, n. 35205 del 16/03/2017, Mineo, Rv. 277074-012013-01;

Sez. 6, n. 48603 del 27/09/2017, Cardinali, Rv. 271567-01, Rv. 271568-01;

Sez. 2, n. 41012 del 20/06/2018, C., Rv. 274083-03;

Sez.2, n. 35447 del 21/10/2020, Ventre, Rv. 280311-01;

Sez. 6, n. 5534 del 20/05/2021 (dep. 2022), Marcon, Rv. 282884-01.

Sentenze della Corte di cassazione civile:

Sez. U civ., n. 822 del 23/11/1999, Rv. 531406-01;

Sez. U civ., n. 22277 del 26/11/2004, Rv. 578129-01;

Sez. U civ., n. 06581 del 24/03/2006, Rv. 587422-01:

Sez. U civ., n. 00011 del 04/01/2012, Rv. 621202-01;

Sez. U civ., n. 26582 del 28/11/2013, Rv. 628611-01.

Sentenze Sezioni civili:

Sez. civ. 3, n. 14632 del 14/07/2015, Rv. 636278-01.

Sentenze Corte dei Conti:

Corte dei Conti, Sezioni riunite, n. 8 del 2015.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE III - INDAGINI PRELIMINARI

  • giudice
  • procedura penale

CAPITOLO I

LE SEZIONI UNITE ANCORA IN TEMA DI ABNORMITÀ: POTERI DECISORI DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI INVESTITO DELLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 La questione controversa. Il profilo funzionale dell’interrogatorio. - 2 L’auspicata completezza delle investigazioni. - 3 La abnormità processuale: un trend “contenitivo”. - 4 Poteri di impulso del giudice per le indagini preliminari e garanzia di nuove iscrizioni. - Elenco sentenze citate

1. La questione controversa. Il profilo funzionale dell’interrogatorio.

Con sentenza n. 10728, pronunciata il 16/12/2021 e depositata il 24 marzo 2022, Fenucci, Rv. 282807-01, le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto così massimato: “Non è abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari non accolga la richiesta di archiviazione e restituisca gli atti al pubblico ministero perché effettui nuove indagini consistenti nell’interrogatorio dell’indagato, trattandosi di provvedimento non solo non avulso dall’ordinamento processuale, ma anzi espressione di poteri riconosciuti al giudice, e ciò anche nel caso in cui l’interrogatorio debba espletarsi con riguardo ad un reato diverso da quello per il quale l’archiviazione sia stata richiesta”.

Il tema controverso, cui la Corte, nella sua massima espressione nomofilattica, ha dato soluzione, attiene ai poteri decisori che competono al giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di archiviazione ed implica, anzitutto, l’individuazione del profilo funzionale dell’interrogatorio.

Si era radicato nella giurisprudenza di legittimità, al riguardo, un contrasto ermeneutico schematizzabile nei termini che seguono.

Un primo e più risalente indirizzo muoveva dall’inquadramento dogmatico dell’interrogatorio quale atto di contestazione dell’addebito, avente finalità esclusivamente difensive, previsto a garanzia dell’indagato.

Come è dato evincere dalla lettura congiunta degli artt. 375 e 65 cod. proc pen., l’interrogatorio presuppone, in senso logico e cronologico, l’acquisizione di elementi astrattamente integranti un’ipotesi di reato sufficientemente definita e non può costituire oggetto di un supplemento investigativo, perché ontologicamente non ha valenza di mezzo istruttorio, non avendo l’indagato alcun dovere di renderlo, né di fornire elementi di riscontro alla tesi d’accusa. Disporne l’espletamento in questa peculiare fase procedimentale - secondo tale esegesi – significa imporre al pubblico ministero il compimento di un atto nullo, determinativo di stasi irreversibile del procedimento, per una finalità puramente esplorativa.

Di qui la tesi della abnormità, espressa da plurimi arresti, alcuni anche datati nel tempo (Sez. 5, n. 2293 del 14/05/1999, Vio, Rv. 213733-01; Sez. 6, n. 1783 del 19/12/2005, dep. 2006, Grilli, Rv. 233388-01; Sez. 3, n. 23930 del 27/05/2010, B., Rv. 247875-01; Sez. 6, n. 1052 del 14/11/2012, dep. 2013, Argenio, Rv. 253650-01; Sez. 2, n. 15299 del 21/12/2012, dep. 2013, Trisolino, Rv. 256480-01).

Secondo una divergente linea ricostruttiva, impostasi più di recente, l’interrogatorio è invece atto a natura mista, anche istruttoria, sicché l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, richiesto dell’archiviazione, restituisca gli atti all’organo dell’Accusa, disponendone l’assunzione, non riveste i caratteri della abnormità.

Non quelli dell’abnormità strutturale, in quanto non evidenzia aspetti di eccentricità e, geneticamente, una simile decisione è pur sempre espressione dei poteri conferiti dal sistema al giudice per le indagini.

Non quelli dell’abnormità funzionale, potendo il pubblico ministero darvi corso, se l’indagato consenta a sottoporvisi, senza che ne derivi una stasi non superabile dell’iter procedimentale, e senza alcuno sviamento del profilo funzionale dell’atto (Sez. 3, n. 47717 del 10/10/2003, Angelini Rv. 226727-01; Sez. 5, n. 43841 del 10/05/2005, Bottoli, Rv. 233056-01; Sez. 6, n. 47351 del 06/12/2007; Bastianello, Rv. 238390-01; Sez. 2, n. 36936 del 28/09/2011, Giacoia Rv. 251139-01; Sez. 6, n. 48573 del 14/03/2019, Calcano, Rv. 277412-01; Sez. 5, n. 29879 del 15/09/2020, PMT, Rv. 279700-01).

2. L’auspicata completezza delle investigazioni.

Al fine di dirimere l’alternativa, un’utile direttrice ermeneutica è stata tracciata dalla Corte costituzionale che, in ripetuti arresti, a proposito del controllo di legalità in questa fase demandato al giudice per le indagini preliminari, aveva da tempo ritenuto essere immanente al sistema un’istanza di tendenziale «completezza» delle investigazioni (v. sent. n. 478 del 1993 e sent. n. 88 del 1991), a salvaguardia del principio di obbligatorietà dell’azione penale, presidiato dall’art. 112 Cost., dovendosi consentire:

- al pubblico ministero di assumere causa cognita le proprie determinazioni in relazione all’esercizio dell’azione penale;

- all’imputato di esprimere ragionata opzione per i riti alternativi.

Su tale base logica, le Sezioni Unite hanno ritenuto corretto il secondo degli orientamenti antagonisti, il quale attribuisce natura polivalente all’interrogatorio.

Accanto alla vocazione propriamente difensiva, non meno rilevante è il suo potenziale “ricostruttivo” in fatto, atteso che il contraddittorio con l’indagato, tanto più se lo stesso non sia stato escusso prima, può favorire l’emersione di elementi cognitivi capaci di dare impulso ad ulteriori investigazioni; elementi che potranno, in ogni caso, essere di ausilio alla decisione che il giudice è chiamato ad assumere - avuto riguardo alle prospettive di evoluzione dibattimentale dell’accusa – a fronte dell’alternativa archiviazione/ordine di formulare l’imputazione coatta.

La tesi della natura anche investigativa dell’interrogatorio trova supporto in una fitta trama di disposizioni codicistiche.

Basti pensare che le risultanze dell’interrogatorio possono essere utilizzate contra reum (arg. ex art. 64, comma 3, cod. proc. pen.); gli esiti dell’interrogatorio sono utilizzabili nel giudizio abbreviato (art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen.); l’interrogatorio costituisce passaggio procedimentale ineludibile per la formulazione del giudizio di evidenza della prova, presupposto del giudizio immediato (art. 453 cod. proc. pen.); la confessione resa in sede di interrogatorio può offrire, a date condizioni, prova autosufficiente di responsabilità del confitente e, altresì, presupposto del giudizio direttissimo (art. 449, comma 5, cod. proc. pen.).

Deve considerarsi, ancora, che i tempi del preavviso a rendere interrogatorio possono essere contratti, ai sensi dell’art. 364, comma 5, cod. proc. pen., per l’esigenza di non pregiudicare la ricerca e l’assicurazione delle fonti di prova, e che può essere disposto l’accompagnamento coattivo della persona sottoposta ad indagini che, senza addurre legittimo impedimento, non si sia presentata a rendere interrogatorio, secondo quanto previsto dall’art. 376 cod. proc. pen.

Altro argomento a sostegno della interpretazione preferita fonda sulla giurisprudenza di matrice eurounitaria.

Vale per l’interrogatorio quanto affermato sulla natura istruttoria dell’esame dibattimentale, ribadita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza della Prima Sezione, 8 luglio 2021, Maestri ed altri c. Italia, n. 20903/15, la quale ha ritenuto la violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU, per non avere la corte di appello italiana disposto d’ufficio l’esame degli imputati, necessario per lo scrutinio dell’elemento soggettivo del reato, in relazione alla riqualificazione operata solo in secondo grado (§§52 e ss.), sottolineando come all’esame non potessero assimilarsi le spontanee dichiarazioni, le quali non sono “sollecitate” dal giudice, che si limita passivamente a riceverle, senza potere investigare i temi che ritiene rilevanti per l’accertamento di responsabilità (§ 59).

D’altra parte, proprio la fluidità dell’accusa nella fase, ancora “acerba”, delle indagini, in cui l’atto imputativo non è cristallizzato ma ha il solo scopo di garantire all’interrogando la possibilità di rispondere alle domande con cognizione degli addebiti e di esporre le proprie discolpe, contribuisce ad assegnare all’interrogatorio una funzione investigativa; funzione che l’esercizio – meramente eventuale - del diritto al silenzio non fa venir meno, sol che si pensi che anche dal silenzio sono traibili in via residuale argomenti di riscontro obiettivo all’ipotesi d’accusa, sia pure in presenza di univoci elementi dimostrativi.

3. La abnormità processuale: un trend “contenitivo”.

Altro nucleo logico della decisione in commento è la categoria della abnormità processuale.

Ancorandosi alle elaborazione giurisprudenziale, stratificata nel tempo, delle Sezioni Unite, la sentenza in disamina ribadisce la nozione di abnormità quale patologia degli atti processuali che, per singolarità di contenuto, siano avulsi dal sistema normativo ovvero che, pur costituendo astrattamente manifestazione di legittimo potere, si esplichino fuori dai casi consentiti e dalle ipotesi previste (ipotesi di carenza di potere in concreto), al punto da determinare una stasi irreversibile del processo, situazione alla quale viene equiparata ogni alterazione della sequenza procedimentale che operi in senso indebitamente regressivo (Sez. U., n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094-01; Sez. U., n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603-01; Sez. U., n. 22909 del 31/05/2005, Minervini, Rv. 231163-01; Sez. U., n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590-01; Sez. U., n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, Battistella, Rv. 238240-01).

Dunque, è abnorme l’atto che evidenzi un’anomalia genetico-strutturale che lo rende eccentrico rispetto al sistema, e così pure l’atto connotato da uno sviamento funzionale, in quanto determinativo di stasi del procedimento (la quale, intanto assume rilievo, in quanto il procedimento stesso non possa proseguire se non attraverso il compimento di un atto nullo). Posto tale inquadramento dogmatico, la Corte aderisce alla prospettiva per la quale deve escludersi che l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero perché proceda ad interrogatorio sia connotata:

• da anomalie strutturali, perché lo schema giuridico adoperato è contemplato dal sistema normativo ed è espressione di un potere assegnato dall’ordinamento proprio al giudice per le indagini preliminari;

• da anomalie funzionali, perché da un lato il pubblico ministero può dar corso all’interrogatorio nei limiti in cui è consentito dal codice di rito, senza che ciò determini alcuna impasse, dall’altro non è sindacabile il grado di specificità degli ulteriori accertamenti che il giudice abbia demandato al pubblico ministero di compiere.

Da rilevare, conclusivamente sul punto, che le Sezioni Unite espressamente si allineano al trend di progressivo restringimento della categoria dell’abnormità, che non tollera interpretazioni estensive in quanto derogatoria al principio di tassatività delle nullità (art. 177 cod. proc. pen.) e dei mezzi di impugnazione (art. 568 cod. proc. pen.), nata dalla elaborazione giurisprudenziale quale rimedio extra ordinem, correttivo alla mancanza di strumenti ordinari di gravame, lato sensu intesi, avverso patologie dell’atto processuale radicali e di pregnante gravità.

Un istituto di chiusura, dunque, di cui non abusare per la tenuta complessiva del sistema basato sulla regola aurea della tipicità dei mezzi di impugnazione.

4. Poteri di impulso del giudice per le indagini preliminari e garanzia di nuove iscrizioni.

Da ultimo, la pronuncia focalizza l’ulteriore questione - sollecitata dalla peculiarità della vicenda in scrutinio e non di poco momento – inerente al se rientri nei poteri di impulso del giudice per le indagini preliminari, ex art. 409, comma 4, cod. proc. pen. l’ordine di procedere ad interrogatorio in relazione ad ipotesi di reato diversa da quella già iscritta, ovvero se tale iniziativa determini una indebita invasione di campo da parte del giudice in un’area, quella dell’esercizio dell’azione penale, riservata alla pubblica accusa.

L’abnormità è stata esclusa anche in tale ipotesi, con talune imprescindibili puntualizzazioni.

Dall’ampiezza dei poteri di controllo sulla notitia criminis, che spettano al giudice per le le indagini in funzione della completezza dell’inchiesta - in premessa richiamati - discendono due corollari, su cui, ancora una volta, risulta prezioso il contributo di riflessione della Corte costituzionale (sentenze n. 96 del 2014, n. 34 del 1994 e n. 88 del 1981):

• il giudice investito della richiesta di archiviazione non è vincolato alla prospettazione dell’accusa, potendo disporre, all’esito di una valutazione complessiva dei fatti portati alla sua attenzione, non da altri sindacabile, ulteriori investigazioni in relazione ad ipotesi di reato anche diverse da quelle formulate originariamente;

• specularmente, il pubblico ministero può sviluppare in piena autonomia il tema di indagine che gli viene devoluto con l’ordine di assumere l’interrogatorio.

E tuttavia, nell’ipotesi in cui le indagini debbano essere estese ad ipotesi di reato diverse (così come nel caso in cui si estendano a soggetti diversi), non può essere disposta l’imputazione coatta da parte del giudice, atteso che le regole di legalità formale impongono all’organo inquirente, a tutela sia delle sue prerogative di organo propulsivo dell’accusa, che dei diritti del soggetto investigato, la previa iscrizione nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen.

Sotto tale profilo, la pronuncia sembra dunque conferire maggiore dinamismo alla relazione pubblico ministero-giudice per le indagini preliminari in rapporto alle determinazioni relative al mancato esercizio dell’azione penale, da un lato consentendo che il giudice solleciti inediti approfondimenti al fine di ampliare la piattaforma cognitiva su cui fondare il proprio convincimento, dall’altro - ai medesimi fini di completezza ed utilità dell’inchiesta - astenendosi dal comprimere gli spazi di autonomia del pubblico ministero in ordine al tema devoluto, ferma restando, tuttavia, l’osservanza delle garanzie per il soggetto indagato.

Dunque una relazione dialogante, nel rispetto delle prerogative di ciascuno degli organi che ne sono parte.

. Elenco sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 5, n. 2293 del 14/05/1999, Vio, Rv. 213733-01;

Sez. 3, n. 47717 del 10/10/2003, Angelini Rv. 226727-01;

Sez. 5, n. 43841 del 10/05/2005, Bottoli, Rv. 233056-01;

Sez. 6, n. 1783 del 19/12/2005, dep. 2006, Grilli, Rv. 233388-01;

Sez. 6, n. 47351 del 06/12/2007 Bastianello, Rv. 238390-01;

Sez. 3, n. 23930 del 27/05/2010, B., Rv. 247875-01;

Sez. 2, n. 36936 del 28/09/2011, Giacoia Rv. 251139-01;

Sez. 6, n. 1052 del 14/11/2012, dep. 2013, Argenio, Rv. 253650-01;

Sez. 2, n. 15299 del 21/12/2012, dep. 2013, Trisolino, Rv. 256480-01;

Sez. 6, n. 48573 del 14/03/2019, Calcano, Rv. 277412-01;

Sez. 5, n. 29879 del 15/09/2020, PMT, Rv. 279700-01;

Sentenze della Corte di cassazione a Sezioni Unite:

Sez. U., n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603-01;

Sez. U., n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094-01;

Sez. U., n. 22909 del 31/05/2005, Minervini, Rv. 231163-01-01;

Sez. U., n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, Battistella, Rv. 238240-01-01;

Sez. U., n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590-01;

Sez. U., n. 10728 del 16/12/2021 dep. 24 marzo 2022, Fenucci, Rv. 282807-01.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE IV - MISURE CAUTELARI

  • giudice
  • procedura penale
  • carcerazione
  • arresto
  • violenza

CAPITOLO I

IL DIRITTO AL CONTRADDITTORIO DELLA PERSONA OFFESA NEI DELITTI COMMESSI CON VIOLENZA ALLA PERSONA

(di Vincenzo Galati )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 Gli orientamenti contrastanti. - 2.1 L’ammissibilità del ricorso per cassazione. - 2.2 L’inammissibilità del ricorso per cassazione. - 3 La soluzione di Sez. U., n. 36754 del 2022. - 4 La coerenza con la normativa sovraordinata e gli strumenti di tutela della persona offesa secondo la soluzione adottata. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

Con ordinanza n. 5551 del 4 giugno 2021 la Sesta sezione della Corte di cassazione, ha rimesso alla decisione delle Sezioni Unite la soluzione del contrasto interpretativo in merito all’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto nell’interesse della persona offesa che assuma la lesione del contraddittorio di cui all’art. 299, comma 3, cod. poc. pen. nel sub-procedimento cautelare all’esito del quale sia stata revocata o sostituita la misura cautelare coercitiva, diversa dal divieto di espatrio o dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Nella fattispecie, la violazione del contraddittorio si era realizzata per avere il giudice emesso il provvedimento di modifica della misura cautelare, prima del decorso del termine di due giorni lavorativi previsto per la presentazione di memorie da parte della persona offesa alla quale era stata regolarmente notificata l’istanza di sostituzione della misura.

2. Gli orientamenti contrastanti.

Il contrasto sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere è caratterizzato dalla presenza di orientamenti differenziati sulla questione di rilievo.

2.1. L’ammissibilità del ricorso per cassazione.

Secondo un primo orientamento, è ammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla persona offesa avverso il provvedimento di revoca o sostituzione della misura cautelare emesso senza la preventiva interlocuzione prevista dall’art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen.

Sez. 6, n. 6717 del 05/02/2015, D., Rv. 262272-01 ha esaminato il caso in cui il giudice procedente aveva disposto la revoca della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare con la prescrizione di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa per i reati di cui agli artt. 572, 582 e 585 cod. pen.

Il ricorso per cassazione proposto dal difensore della parte civile del procedimento penale, con correlata deduzione della violazione dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. per essere stata notificata alla parte la sola ordinanza di revoca della misura e non anche l’istanza di revoca o sostituzione della stessa, è stato ritenuto ammissibile.

La Corte ha individuato la ratio della disciplina introdotta nei commi 3 e 4-bis dell’art. 299 cod. proc. pen. nell’esigenza di «rendere partecipe la vittima di determinate tipologie di reato dell’evoluzione della posizione cautelare dell’indagato, ovvero dell’imputato, consentendole di presentare, entro un breve lasso temporale, memorie ai sensi dell’art. 121 c.p.p., al fine di offrire all’autorità giudiziaria procedente la conoscenza di ulteriori elementi di valutazione pertinenti all’oggetto della richiesta e garantire in tal modo la possibilità di instaurare un adeguato contraddittorio con la vittima del reato all’interno dell’incidente cautelare».

Ha anche precisato che, pur non essendo stato previsto un termine entro il quale il giudice debba pronunciarsi sull’ammissibilità della richiesta in assenza della notifica, la previsione per cui l’adempimento deve essere eseguito contestualmente alla presentazione della richiesta «sembra lasciar intendere che quest’ultima debba essere dichiarata immediatamente inammissibile, se non corredata dell’avviso alla parte offesa, o, quantomeno, dell’avvio della procedura di notifica».

Nella sentenza è stato compiuto un rinvio alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/29/CE recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

Tale Direttiva impegna gli Stati membri a realizzare significativi progressi nel livello di tutela delle vittime in tutta l’Unione, in particolare nei procedimenti penali, assicurando loro il diritto di ricevere informazioni dettagliate, al fine di prendere decisioni consapevoli in merito alla loro partecipazione al procedimento; informazioni che potrebbero essere relative anche allo stato del procedimento.

La sentenza ha, inoltre, segnalato l’ampiezza del diritto della persona offesa ad essere informata atteso che esso comprende notizie relative allo stato del procedimento, ma anche alla scarcerazione o all’evasione del soggetto sottoposto alla misura cautelare e le eventuali misure attivate per la protezione della vittima nel caso di rimessione in libertà dell’autore del reato.

In tale prospettiva, il mancato adempimento degli oneri informativi determina l’inammissibilità della richiesta di revoca o sostituzione della misura in quanto afferente non solo alla necessaria conoscenza dell’evoluzione dei diversi «snodi procedimentali», ma anche, più direttamente, alla «facoltà di agire della vittima» della quale è espressione la possibilità di depositare le memorie nei due giorni successivi alla presentazione dell’istanza a norma dell’art. 121 cod. proc. pen.

L’arresto è stato ribadito da Sez. 6, n. 6864 del 09/02/2016, P., Rv. 266542-01 con la quale è stato affermato il principio per cui «nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, la persona offesa può dedurre con ricorso per cassazione l’inammissibilità dell’istanza di revoca o sostituzione di misure cautelari coercitive (diverse dal divieto di espatrio e dall’obbligo di presentazione alla p.g.) applicate all’imputato, qualora quest’ultimo non abbia provveduto contestualmente a notificarle, ai sensi dell’art. 299, comma quarto bis, cod. proc. pen., l’istanza di revoca, di modifica o anche solo di applicazione della misura con modalità meno gravose».

La Corte ha individuato la ratio delle innovazioni apportate all’art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen. dal d.l. n. 93 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2013 in quella di garantire l’interlocuzione della persona offesa apprestando le proprie difese e fornendo elementi idonei a «rappresentare situazioni che sconsiglino la revoca o la sostituzione richieste».

Ha richiamato, inoltre, le fonti normative sovranazionali fra le quali la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza delle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011, ratificata con legge 77 del 2013 e la, già ricordata, Direttiva 2012/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, attuata con d.lgs. n. 212 del 2015 che ha introdotto l’art. 90-ter cod. proc. pen. con il quale è stato previsto l’obbligo di comunicazione alla persona offesa che ne faccia richiesta, nei procedimenti per delitti con violenza alla persona, dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione delle misure di sicurezza detentive, oltre che la notizia dell’evasione dell’imputato o del condannato.

Nel riconoscere il diritto di proporre il ricorso per cassazione a seguito della mancata notificazione della richiesta avanzata dall’indagato/imputato in sede cautelare, la Corte ha precisato che assumono rilievo «prerogative specificamente riconosciute alla persona offesa a propria tutela» e che la stessa persona offesa, «in ossequio al quadro di diritti e facoltà più ampiamente riconosciute alle vittime di reato», deve ritenersi legittimata a far valere.

A completamento del ragionamento, è stato affermato che il sostegno all’interpretazione adottata risiede nella possibilità di «integrare la previsione di cui all’art. 311 cod. proc. pen.» tramite il richiamo alle «norme che riconoscono il diritto della persona offesa al contraddittorio cartolare, implicanti altresì la possibilità di dedurre il vizio inerente al mancato rispetto del contraddittorio (di ciò è ad esempio espressione l’art. 409, comma 6, cod. proc. pen.)».

Nello stesso senso va ricordata la sentenza Sez. 1, n. 51402 del 20/06/2016, Zacheo, che nell’affermare l’ammissibilità del ricorso per cassazione della parte civile per l’omesso adempimento, da parte dell’imputato, dell’onere di notifica dell’istanza di sostituzione della misura di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., non si è soffermata sulla ratio dell’affermata proponibilità del ricorso da parte del soggetto processuale non destinatario della notifica dell’istanza cautelare.

L’affermazione, infine, è stata ulteriormente ribadita da Sez. 5, n. 7404 del 20/09/2016, dep. 2017, D., Rv. 269445-01 che ha espresso il principio di diritto per cui nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona (nella specie, stalking), è ammesso il ricorso per cassazione della persona offesa avverso l’ordinanza con cui si dispone la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva in atto, al fine di far valere la violazione del disposto di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. e la mancata declaratoria di inammissibilità dell’istanza di modifica cautelare di cui sia stata omessa la notifica.

Anche in questo caso la Corte ha segnalato la rilevanza delle modifiche introdotte all’art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen. nel senso di una più pregnante ed ampia considerazione dei diritti delle vittime dei reati alla luce anche della normativa sovranazionale più volte citata.

Nell’affrontare espressamente la questione del rimedio esperibile da parte della persona offesa pretermessa dal procedimento cautelare, la Corte ha rilevato che osta alla tesi (della quale si dirà) secondo cui, in tal caso, sarebbe ammissibile solo l’appello ex art. 310 cod. proc. pen. (norma di stretta interpretazione) la circostanza che la norma consenta ai soli Pubblico ministero, imputato e suo difensore la proponibilità di quell’impugnazione.

Il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione osta alla estensione del rimedio alla persona offesa.

Né sarebbe possibile ritenere configurabile la legittimazione alla proposizione del ricorso per saltum di cui all’art. 311 cod. proc. pen. essendo quest’ultimo esperibile solo contro le ordinanze dispositive della misura coercitiva.

É stato quindi ritenuto che la persona offesa possa proporre il ricorso per cassazione a norma dell’art. 111, comma 7, Cost. ove è prevista la proponibilità del ricorso contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale, nonché sulla base dell’art. 568, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale.

Sul punto dell’inammissibilità del rimedio dell’appello ex art. 310 cod. proc. pen., detta sentenza si pone in consapevole contrasto con Sez.5, n. 35735 del 31/03/2015, S., Rv. 265866-01, dalla quale è stato tratto il principio di diritto per cui «è inammissibile il ricorso per cassazione proposto per saltum dalla persona offesa del delitto di atti persecutori (c.d. stalking) - avverso il provvedimento del Gip di inammissibilità della richiesta di revoca dell’ordinanza di modifica della misura cautelare degli arresti domiciliari con quella dell’obbligo di dimora nei confronti dell’indagato - in quanto avverso i provvedimenti di sostituzione o modifica delle misure cautelari è ammesso esclusivamente il rimedio dell’appello, previsto dall’art. 310 cod. proc. pen., mentre il ricorso immediato per cassazione può essere proposto, ex art. 311, comma secondo, cod. proc. pen., soltanto contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva e solo nel caso di violazione di legge nonché, ex art. 568, comma secondo, cod. proc. pen., contro i provvedimenti concernenti lo “status libertatis” non altrimenti impugnabili».

2.2. L’inammissibilità del ricorso per cassazione.

L’orientamento che contrasta con quello maggioritario è espresso da Sez. 5, n. 54319 del 17/05/2017, B., Rv. 272005-01 con la quale è stato sostenuto che nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, è inammissibile il ricorso per cassazione della persona offesa avverso l’ordinanza con cui si sia disposta la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva (diversa dal divieto di espatrio o dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), in atto nei confronti dell’indagato, senza procedere alla notifica alla stessa persona offesa dell’istanza, ai sensi dell’art. 299, comma 3, cod. proc. pen.

La Corte ha segnalato, in primo luogo, la rilevanza sistematica e generale del tema affrontato in quanto «l’annullamento di un’ordinanza de libertate formalmente viziata (ma comunque necessariamente migliorativa dello status della persona già sottoposta a misura cautelare) comporta giocoforza il ripristino della situazione anteatta, nuovamente valutabile solo una volta garantito il contraddittorio pretermesso. Con il risultato di introdurre possibili forme di limitazione della libertà personale, sia pure nei confronti di soggetti già in precedenza gravati da restrizioni, sulla base di iniziative imputabili a parti private, piuttosto che all’ufficio del Pubblico ministero».

Dopo avere dato atto del quadro della giurisprudenza di legittimità in termini sostanzialmente sovrapponibili a quelli tratteggiati nell’ordinanza di rimessione, la Corte ha messo in rilievo come la persona offesa non figuri tra i soggetti legittimati dagli artt. 310 e 311 cod. proc. pen. a presentare, rispettivamente, appello o ricorso per cassazione avverso i provvedimenti de libertate.

Si tratta di norme disciplinanti specifici mezzi di impugnazione insuscettibili, quindi, di applicazione oltre i casi tassativamente previsti.

In ciò si evidenzia una differente impostazione rispetto alla sentenza precedentemente citata.

Non è stata condivisa neppure la prospettiva secondo cui il ricorso per cassazione, nella fattispecie, dovrebbe ritenersi ammissibile alla luce dell’art. 111 Cost. trattandosi di norma, anch’essa, di «stretta interpretazione» volta a «imporre che i soggetti legittimati all’impugnazione siano solo colui che soffre della limitazione della propria libertà (ovvero il suo difensore) e l’organo chiamato a tutelare le ragioni – pubbliche – sottese all’esigenza eccezionale di limitare la libertà altrui».

Inoltre, la Corte ha precisato, quanto al richiamo operato dal contrario orientamento teso a valorizzare l’interpretazione dell’art. 409 cod. proc. pen. alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 353 del 1991, che l’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla persona offesa che, nonostante ne avesse fatto richiesta in sede di denuncia o successivamente, non abbia ricevuto notizia della richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico ministero, è stata ritenuta conforme al sistema delineato dal legislatore e al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

In sostanza, ciò che ha segnalato la Corte di cassazione nell’arresto in esame è che la Corte costituzionale è pervenuta alla conclusione citata tenendo conto di un quadro d’insieme che contemplava già l’impugnabilità dell’ordinanza emessa senza il rispetto delle forme dell’art. 127 cod. proc. pen. (essendo già prevista l’ammissibilità del ricorso per cassazione da parte della persona offesa che si oppone alla richiesta di archiviazione pronunciata all’esito di un’udienza della quale non ha ricevuto alcun avviso).

Poiché, nel caso di specie, «rimedi siffatti non si rinvengono in alcuna disposizione normativa», andrebbe, piuttosto, tenuto conto dell’orientamento secondo cui il ricorso per cassazione proposto dalla persona offesa non costituita parte civile va dichiarato inammissibile perché proposto da soggetto non avente diritto in assenza di alcuna conforme previsione di legge.

In tal senso, è stato fatto rinvio ai precedenti costituti da Sez. 7, n. 48896 del 15/11/2012, Bossi, Rv. 253927-01 e Sez. 5, n. 17802 del 14/03/2017, M., Rv. 269714-01.

In particolare, con quest’ultima sentenza è stato richiamato l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui il ricorso per cassazione presentato dalla persona offesa non costituita parte civile va dichiarato inammissibile perché proposto da non avente diritto in mancanza di una specifica norma che legittimi l’impugnazione.

Lo strumento idoneo ad assicurare il contemperamento del diritto al contraddittorio assegnato alla persona offesa e la tutela della libertà personale dell’indagato/imputato (suscettibile di essere compresso solo a seguito di iniziativa del Pubblico ministero) è stato individuato nell’art. 572 cod. proc. pen. che indica nel Pubblico ministero «l’organo istituzionalmente preposto a “mediare” le richieste di impugnazione della parte offesa, in tutti i casi in cui la legge non attribuisce a quest’ultima un potere di impugnazione diretta».

3. La soluzione di Sez. U., n. 36754 del 2022.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 36754 del 14/07/2022, O., Rv. 283509-01, hanno pronunciato il principio di diritto come di seguito massimato: «nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, la persona offesa non è legittimata ad impugnare, neanche con il ricorso per cassazione, l’ordinanza che abbia disposto la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva, diversa dal divieto di espatrio o dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in violazione del diritto di intervento per mezzo di memorie riconosciutole dall’art. 299, comma 3, cod. proc. pen., ma può chiedere al pubblico ministero di proporre impugnazione ai sensi dell’art. 572 cod. proc. pen.»

Nel risolvere la questione, la Corte ha richiamato l’orientamento secondo cui l’inammissibilità dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare personale applicata nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, prevista dall’art. 299, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dall’ art. 2, d.l. n. 93 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2013, quale conseguenza della mancata notifica della richiesta medesima, a cura della parte richiedente alla persona offesa, è rilevabile d’ufficio e non può essere sanata fino al formarsi del giudicato.

In tal senso Sez. 2, n. 29045 del 20/06/2014, Isoldi, Rv. 259984-01; Sez. 2, n. 33576 del 14/07/2016, Fassih, Rv. 267500-01; Sez. 5, n. 43103 del 12/06/2017, Urso, Rv. 271009-01; Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, dep. 2018, A., Rv. 272215-01.

Con riguardo alla violazione del contraddittorio per essere stata emessa l’ordinanza di modificazione della misura prima del decorso del termine per la presentazione di memorie da parte della persona offesa, la sentenza ha messo in evidenza la mancanza di una qualsiasi sanzione espressa reputando, così, non percorribile una «soluzione diversa da quella di ritenere che l’inosservanza del termine dilatorio resti priva di conseguenze e che nel provvedimento adottato in violazione della disposizione posta a tutela del diritto partecipativo della persona offesa sia comunque valido».

Da ciò la delimitazione dello spazio anche per un eventuale ricorso per cassazione con il quale si intenda sottoporre alla Corte di legittimità la situazione conseguente all’adozione del provvedimento senza il rispetto del predetto termine atteso che, in tal caso, non potrebbero essere fatte valere violazioni processuali, non vertendosi in tema di norme assistite dalla previsione di invalidità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.

La Corte ha aderito all’orientamento minoritario secondo cui è escluso che la vittima di reati commessi con violenza alla persona possa impugnare il provvedimento con cui il giudice decide sulla richiesta di revoca o sostituzione di una misura cautelare

Ha precisato che ciò vale sia nel caso di omessa notifica, che in quello di inosservanza del termine dilatorio di due giorni per la presentazione di memorie.

In tal senso, è stato ritenuto «dirimente» il principio di tassatività delle impugnazioni per come descritto dall’art. 568 cod. proc. pen., evidenziando come tra i soggetti destinatari del diritto di proporre impugnazione, non figuri la persona offesa.

Né, allo scopo di ampliare l’ambito soggettivo dei legittimati a proporre impugnazione, potrebbe farsi ricorso all’art. 111, comma settimo, Cost. atteso che «la previsione costituzionale assicura la garanzia oggettiva del controllo di legittimità su ogni provvedimento in materia di libertà personale, ma non in favore di qualsivoglia soggetto: essa non si occupa in alcun modo del tema dei legittimati al ricorso e non può dunque essere utilizzata per ampliarne, in difformità dalle previsioni di legge, la platea».

É stata altresì esclusa la possibilità di assegnare alla persona offesa la qualifica di parte del procedimento cautelare segnalando che l’eventuale attribuzione di quella qualità non potrebbe costituire la premessa per l’attribuzione del potere di impugnazione, dovendosi operare il procedimento inverso: l’esame dei poteri e delle facoltà della persona offesa costituiscono il parametro per verificarne la qualità di parte.

Proprio dall’analisi dettagliata delle norme che descrivono il ruolo della persona offesa nel procedimento cautelare e nel processo principale, le Sezioni Unite sono pervenute alla conclusione di cui sopra.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è stata messa in rilievo la sostanziale assenza della persona offesa nella fase applicativa della misura, in occasione dei provvedimenti di revoca o sostituzione della stessa, anche adottati in sede di udienza preliminare o nel giudizio, quando viene dichiarata la perdita di efficacia della misura, così come nel caso di modificazioni connesse all’impugnazione del titolo cautelare.

A tale proposito la Corte ha segnalato lo spazio «episodico» attribuito alla persona offesa anche in ragione della «dubbia accettabilità di situazioni in cui le limitazioni alla libertà personale, anche se nei confronti di soggetti già raggiunti da restrizioni cautelari, possa essere conseguenza di iniziative non riconducibili alla parte pubblica».

Peraltro, anche nel processo principale, il ruolo della persona offesa è limitato alla presentazione di memorie e di indicare elementi di prova, oltre ad una serie di diritti informativi (artt. 90-bis, 90-ter, comma 1, 90, ter, comma 1-bis, 369, 406, 415-bis, cod. proc. pen.) che non ne «strutturano un ruolo di parte», bensì di un «soggetto processuale la cui partecipazione non condiziona la progressione processuale».

Il quadro non muta se si considerano gli specifici diritti spettanti alla persona offesa in determinati momenti dello sviluppo del procedimento (artt. 224-bis, 360, 394, 398, comma 3, 401, comma 1, 401, comma 3, 401, comma 5, cod. proc. pen.) e, in particolare, in quello di archiviazione (artt. 408, commi 2, 3 e 3-bis, 411, comma 1-bis, 410, 411, 409, comma 2, cod. proc. pen.), oltre al diritto di proporre reclamo davanti al tribunale in composizione monocratica nei casi di nullità del decreto o dell’ordinanza di archiviazione.

Si tratta di diritti di impugnazione limitati e descritti da norme insuscettibili di costruire un paradigma generico della persona offesa quale parte processuale.

Qualifica che viene assunta al momento della eventuale costituzione di parte civile.

4. La coerenza con la normativa sovraordinata e gli strumenti di tutela della persona offesa secondo la soluzione adottata.

L’esclusione del potere di impugnazione non è stato ritenuto contrastare con la normativa sovranazionale.

Il Considerando 33 della Direttiva 2012/29/UE prevede, infatti, che «le vittime dovrebbero essere informate in merito all’eventuale diritto di presentare ricorso avverso una decisione di scarcerazione dell’autore del reato, se tale diritto esiste nell’ordinamento nazionale» lasciando, così, alla normativa nazionale la scelta se apprestare strumenti di tutela giurisdizionale alle vittime in punto di regime cautelare applicabile all’indagato/imputato.

Analogamente, è stata richiamata la citata Convenzione di Istanbul che fa carico agli Stati di adottare le misure necessarie a garantire alle vittime di essere ascoltate e di fornire elementi di prova e, in generale, di essere ascoltate e informate che «non si traduce per necessità nella previsione del potere di impugnazione, ben potendo trovare negli ordinamenti statuali altre forme di concretizzazione».

La lettura proposta è stata, infine, ritenuta compatibile con la Costituzione appartenendo alla insindacabile discrezionalità legislativa la scelta di assegnare alla persona offesa il potere di impugnazione delle ordinanze di cui all’art. 299 cod. proc. pen.

Lo strumento processuale attraverso il quale la persona offesa riceve tutela in materia di impugnazione nella materia in esame è stato, quindi, ritenuto essere quello descritto dall’art. 572 cod. proc. pen. secondo cui, fra gli altri, la parte civile e la persona offesa non costituita parte civile possono proporre al Pubblico ministero richiesta motivata di impugnazione ad ogni effetto penale.

Nel caso in cui il giudice provveda senza prendere in esame i fatti e gli argomenti prospettati dalla persona offesa questa può sollecitare l’impugnazione del Pubblico ministero sia per far valere eventuali violazioni del contraddittorio, sia questioni di natura afferente il merito della decisione assunta.

Anche la necessità di una motivazione nel caso in cui il titolare del potere di impugnazione decida di non raccogliere la sollecitazione della persona offesa consente di ritenere conforme alle fonti sovraordinate la soluzione adottata.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze Corte di cassazione:

Sez. 7, n. 48896 del 15/11/2012, Bossi, Rv. 253927-01;

Sez. 2, n. 29045 del 20/06/2014, Isoldi, Rv. 259984-01;

Sez. 6, n. 6717 del 05/02/2015, D., Rv. 262272-01;

Sez.5, n. 35735 del 31/03/2015, S., Rv. 265866-01;

Sez. 6, n. 6864 del 09/02/2016, P., Rv. 266542-01;

Sez. 1, n. 51402 del 20/06/2016, Zacheo;

Sez. 2, n. 33576 del 14/07/2016, Fassih, Rv. 267500-01;

Sez. 5, n. 7404 del 20/09/2016, dep. 2017, D., Rv. 269445-01;

Sez. 5, n. 17802 del 14/03/2017, M., Rv. 269714-01;

Sez. 5, n. 54319 del 17/05/2017, B., Rv. 272005-01;

Sez. 5, n. 43103 del 12/06/2017, Urso, Rv. 271009-01;

Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017, dep. 2018, A., Rv. 272215-01;

Sez. U., n. 36754 del 14/07/2022, O., Rv. 283509-01.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE V - PARTECIPAZIONE AL PROCESSO

  • giudizio
  • procedura penale
  • domicilio
  • avvocato

CAPITOLO I

LA LEGITTIMITÀ DELLA NOTIFICA AL DIFENSORE EX ART. 161, COMMA 4, COD. PROC. PEN., IN CASO DI IRREPERIBILITÀ DEL DESTINATARIO NEL DOMICILIO DICHIARATO, ELETTO O DETERMINATO

(di Fulvio Filocamo )

Sommario

1 Il principio affermato dalle Sezioni Unite. - 2 Gli orientamenti in contrasto. - 3 Tra conoscenza reale e legale. - 4 Il procedimento di notifica. - 5 La soluzione prescelta. - Indice delle sentenze citate

1. Il principio affermato dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con la sentenza pronunciata il 25/11/2021, dep. 2022, n. 14573, D., hanno affermato il principio di diritto così massimato: «La mancata notifica a mezzo posta per irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato, eletto o determinato per legge, attestata dall’addetto al servizio postale, comporta, a norma dell’art. 170 cod. proc. pen., senza necessità di ulteriori adempimenti, la consegna dell’atto al difensore ex art.161, comma 4, cod. proc. pen., salvo che l’imputato, per caso fortuito o forza maggiore, non sia stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato od eletto, dovendosi, in tal caso, applicare le disposizioni degli artt. 157 e 159 cod. proc. pen.» (Rv. 282848-02).

2. Gli orientamenti in contrasto.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza del 23/09/2021 in cui la Sesta Sezione, in una fattispecie relativa alla notificazione della citazione a giudizio, ha evidenziato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale relativo al rapporto sotteso alle norme di cui agli artt. 161, comma 4, e 170, comma 3, cod. proc. pen. sulla legittimità della notificazione eseguita mediante consegna al difensore, ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., nel caso in cui l’addetto al servizio postale incaricato della notificazione abbia, in precedenza, attestato la irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato o eletto.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale maggioritario (Sez. 5, n. 9320 del 9/02/2021, Pallanza; Sez. 2, n. 32239 del 30/10/2020, Russo; Sez. 3, n. 37168 del 30/09/2020, F., Rv. 280820-01 e Sez. 2, n. 57801 del 29/11/2018, Nita, Rv. n. 274892-01), la notificazione eseguita con consegna al difensore, ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. era considerata affetta da nullità assoluta se, dopo che l’addetto al servizio postale ha accertato l’irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato o eletto, non fossero state attivate le modalità di notifica ordinarie, ai sensi dell’art. 170, comma 3, cod. proc. pen. Questa ultima disposizione stabilisce che «qualora l’ufficio postale restituisca il piego per irreperibilità del destinatario, l’ufficiale giudiziario provvede alla notificazione nei modi ordinari»; da ciò si era ritenuta insufficiente l’attestazione di irreperibilità effettuata dall’addetto al servizio postale incaricato, considerata non equivalente a quella accertata dall’ufficiale giudiziario. Detta opzione ermeneutica si basava dunque sul dato letterale della norma secondo il quale il legislatore avrebbe considerato minusvalente l’accertamento del servizio postale rispetto a quello effettuato dall’ufficiale giudiziario. 3. L’opzione ermeneutica in contrasto, rappresentata dalla sentenza della Prima Sezione n. 23880 del 05/05/2021, Usai, Rv. 281419-01, aveva, invece, ritenuto immune da vizi la notificazione eseguita con consegna al difensore, ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., nel caso in cui l’agente del servizio postale incaricato della notificazione attestasse l’irreperibilità del destinatario presso il domicilio dichiarato o eletto, costituita anche solo dall’assenza temporanea del destinatario al momento dell’accesso o la non agevole individuazione del luogo specificato, potendo trovare applicazione l’art. 170, comma 3, cod. proc. pen. sulla modalità ordinaria di notificazione da parte dell’ufficiale giudiziario solamente in relazione all’ipotesi di prima notifica all’imputato non detenuto. Detta interpretazione, ritenuta preferibile dal Collegio remittente sulla base di un’interpretazione logico-sistematica nonostante il dato testuale dell’art. 170, comma 3, cod. proc. pen. potesse condurre a privilegiare la soluzione opposta, si basava sull’analisi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. il quale prevede che la notificazione sia effettuata presso il difensore quando, pur avendo l’indagato o l’imputato, non detenuto o internato, provveduto a dichiarare o ad eleggere domicilio per le notificazioni, non sia comunque possibile effettuarle nel luogo così specificato, anche per insufficienza o inidoneità delle indicazioni fornite. La giurisprudenza aveva ritenuto applicabile detta norma anche qualora il destinatario che avesse indicato il luogo ove ricevere le notificazioni risultasse trasferito o anche solo momentaneamente assente da quel domicilio (tra le altre, Sez. 5, n. 51111 del 17/10/2017, Gueye, Rv. 271819-01) ovvero lo avesse cambiato in modo irrituale (Sez. 7, n. 24515 del 23/01/2018, Pizzichello, Rv. 272824-01) e, una volta accertata l’inidoneità del domicilio indicato, fosse possibile effettuare tutte le notificazioni successive al difensore, senza dover ripetere il tentativo presso il luogo già accertato come inidoneo (Sez. 4, n. 3930 del 12/01/21, Lo Presti, Rv. 280383-01).

3. Tra conoscenza reale e legale.

Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla questione, illustrano preliminarmente gli elementi sostanziali dell’istituto della notificazione, diretto a contemperare l’esigenza di conoscenza reale dell’atto processuale e quella di stabilirne il regime di conoscenza legale. Si afferma, quindi, come la funzione specifica della notificazione sia quella far conoscere l’atto processuale al destinatario per instaurare il contraddittorio e l’effettivo esercizio del diritto di difesa, aggiungendo che è rimessa al legislatore la determinazione delle modalità attraverso le quali, bilanciando i diversi interessi, si riesca a realizzare lo scopo della conoscibilità dell’atto processuale da parte del destinatario. Da qui, il rispetto delle forme, previsto a pena di nullità dagli artt. 171 e 177 cod. proc. pen., consente di considerare valida la notifica indipendentemente dall’effettiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario. Si ricorda, inoltre, come si sia evoluto l’assetto normativo dal previgente codice Rocco, il quale prescindeva dalla conoscenza effettiva ritenendo sufficiente la conoscenza legale come scopo delle notificazioni, mentre il nuovo codice di rito, con l’influenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e le riforme intervenute con il d.l. n. 17 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 60 del 2005, e con la legge n. 67 del 2014, tende a superare la dicotomia tra conoscenza legale, raggiungibile con il solo rispetto delle forme imposte, e quella effettiva. Con particolare riferimento alla notificazione della vocatio in iudicium, l’attuale assetto normativo è diretto a garantire la conoscenza effettiva del processo a carico dell’imputato, come sollecitato da più decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno criticato il previgente sistema legale di presunzione di conoscenza degli atti processuali. Si citano sul punto le decisioni Brozicek c. Italia del 19 dicembre 1989 e T. c. Italia del 28 agosto 1991, le quali hanno affermato che la situazione di irreperibilità o latitanza dell’imputato non poteva essere interpretata come una sua consapevole rinuncia a comparire in udienza. Si menzionano, inoltre, le successive pronunce Somogyi c. Italia del 18 maggio 2004 e Sejdovic c. Italia del 10 novembre 2004 che hanno evidenziato come la presenza dell’imputato in udienza sia un elemento d’importanza fondamentale e condizione irrinunciabile per il rispetto delle garanzie del “giusto processo”. Ancora, con le decisioni Kollcaku c. Italia e Pititto c. Italia del 8 febbraio 2007, si ricorda come la notificazione nei confronti del contumace debba avere condizioni formali e sostanziali atte a garantire l’effettivo esercizio dei diritti di difesa che possono 4 essere ridotti dall’esigenza di salvaguardare la corretta amministrazione della giustizia dall’abuso degli stessi ovvero dall’inequivoca rinuncia volontaria di partecipare al processo da parte dell’imputato dopo che sia stato correttamente e validamente citato a giudizio. La giurisprudenza convenzionale richiama lo Stato a impegnarsi perché sia verificata l’effettività della conoscenza e la volontà di non essere presente in udienza. In alcuni casi la stessa Corte europea (sentenze Kimmel c. Italia del 2 settembre 2004, Booker c. Italia del 14 settembre 2006 e Zaratin c. Italia del 23 novembre 2006) consente di considerare determinate circostanze come indicative della conoscenza da parte dell’imputato delle accuse mossegli nonché dell’esistenza processo, considerando la sua assenza quale rinuncia a presenziare. Il Supremo consesso prosegue con la disamina del sistema processuale italiano riportando la prescrizione, contenuta nella legge 28 aprile 2014, n. 67, che la parte deve essere personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e del luogo dell’udienza, nonché la disposizione dell’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. secondo la quale il giudice, al fine di verificare la conoscenza della chiamata in giudizio da parte dell’imputato, può valorizzare la notifica, non effettuata personalmente, quando vi sia la prova della conoscenza del procedimento a seguito della dichiarazione o elezione di domicilio ovvero della nomina di un difensore di fiducia effettuata da parte dell’imputato o, ancora, che lo stesso sia stato destinatario di una misura restrittiva della libertà personale o, infine, siano stati acquisiti elementi che dimostrino che egli ha certamente avuto notizia del procedimento o che si sia volontariamente sottratto ad esso. Su questi indici di conoscenza si riporta quanto affermato da Sez. U., n. 23948 del 28/11/2019, dep. 2020, Ismail, Rv. 279420-01, secondo cui essi non possono essere considerati quali presunzioni di conoscenza, come nel previgente sistema processuale modificato dalla riforma del 2005, perché ciò costituirebbe una violazione delle norme convenzionali interpretate dalla Corte Edu. Si cita, al fine di rimarcare come l’interpretazione giurisprudenziale di legittimità abbia fornito una lettura convenzionalmente orientata dell’art. 420-bis cod. proc. pen. in termini di effettività della conoscenza della chiamata in giudizio, anche la sentenza a Sezioni Unite n. 14498 del 26/11/2020, dep. 2021, Lovric, la quale, in tema di rescissione del giudicato, ha affermato che «l’art. 629-bis cod. proc. pen. si pone in stretta correlazione con le previsioni dell’art. 420-bis cod. proc. pen. e offre una forma di tutela all’imputato non presente fisicamente in udienza, mediante la possibilità di riproposizione di un mezzo straordinario di impugnazione, che realizza la reazione ripristinatoria del corretto corso del processo per situazioni di mancata partecipazione del soggetto accusato, in dipendenza dell’ignoranza colpevole della celebrazione del processo stesso, che non siano state intercettate e risolte in precedenza in sede di cognizione, senza instaurare alcun automatismo con riferimento alle condizioni che, ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen. autorizzano il giudice della cognizione a procedere in sua assenza». Si aggiunge, inoltre, come la decisione a Sezioni Unite n. 7635 del 30/09/2021, dep. 2022, Costantino abbia evidenziato che l’ordinamento conferisce importanza alle condizioni di effettività dell’esercizio del diritto dell’imputato a intervenire in udienza e che solo la verifica da parte del giudice della rimozione di eventuali ostacoli a detta partecipazione può consentire di considerare l’assenza dell’interessato come riferibile a una sua libera scelta. Si sottolinea, quindi, come, in assenza della certezza effettiva di conoscenza del processo, questo debba essere sospeso. Detta affermazione si pone in antitesi con il previgente sistema contumaciale che, sulla base della notifica ritenuta regolare, riconosceva all’imputato inconsapevole il solo diritto a impugnare, previa restituzione nel termine. Attualmente, invece, il processo in absentia presuppone la regolarità della notifica (immutato l’art. 420, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui prevede che il giudice debba disporre la rinnovazione della citazione di cui si sia accertata e dichiarata la nullità) e che si sia accertato che l’imputato abbia saputo del processo, del contenuto delle accuse, della data e il luogo dell’udienza e che, nonostante ciò, abbia deciso liberamente di non presenziare.

4. Il procedimento di notifica.

Ciò premesso, venendo alla risoluzione del quesito sulla corretta interpretazione dell’art. 170, comma 3, cod. proc. pen., nel caso d’irreperibilità - accertata dall’agente postale notificante - del destinatario che abbia dichiarato o eletto domicilio, la sentenza del Supremo Collegio ricostruisce lo schema normativo alla base del procedimento notificatorio. Partendo dall’art. 148 cod. proc. pen., secondo il quale «le notificazioni degli atti, salvo che la legge disponga altrimenti, sono eseguite dall’ufficiale giudiziario o da chi ne esercita le funzioni», il successivo art. 170 consente che possano essere effettuate attraverso gli uffici postali secondo le relative norme speciali rappresentate dalla legge n. 890 del 1982. Detta legge, con l’art. 1, autorizza l’ufficiale giudiziario a servirsi del servizio postale pur richiedendo, con il successivo art. 3, che la relata di notificazione venga redatta dall’ufficiale giudiziario indicando l’ufficio postale incaricato. Dall’analisi di queste norme emerge la titolarità della funzione notificatoria in capo all’ufficiale giudiziario di cui l’addetto al servizio postale rappresenta un alter ego. La legge speciale non contiene alcun riferimento al regime delle sanzioni processuali cosicché anche l’attività di notificazione a mezzo posta riferibile all’ufficiale giudiziario è soggetta alle regole generali di cui agli artt. 171 e 177 cod. proc. pen. Da ciò si desume l’equiparazione delle due modalità, già affermata da Sez. U., n. 15 del 08/04/1998, Marzaioli, Rv. 210540-01, con i limiti, propri del processo penale, rappresentati dalla diversa volontà dell’autorità giudiziaria procedente ovvero dall’esigenza di forme particolari che risultino incompatibili con il servizio postale. Il medesimo principio di equivalenza è stato affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 211 del 13/5/1991 la quale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 170 cod. proc. pen. in relazione all’art. 8, comma 2, legge n. 890 del 1992, rispetto agli artt. 24, comma secondo e 3, comma primo, Cost. Desunta l’equipollenza del procedimento notificatorio svolto dal titolare (ufficiale giudiziario) ovvero dal sostituto incaricato (servizio postale), dai dati normativi esaminati discende che la notificazione a mezzo posta, di cui all’art. 170 cod. proc. pen. (mutuato dall’art. 178 del codice di rito del 1930), è consentita sia per la prima notifica all’imputato non detenuto che nel caso di domicilio dichiarato o eletto. 6. La Corte prosegue l’analisi della questione richiamando alcune precedenti pronunce a Sezioni Unite in materia di notificazioni. Secondo il dettato normativo di cui agli artt. 157 e 161 e seguenti cod. proc. pen., come interpretato da Sez. U., n. 19602 del 27/03/2008, Micciullo, le notificazioni all’imputato non detenuto possono essere effettuate con due modalità diverse e alternative, stante anche l’incipit dell’art. 157 cod. proc. pen. che sancisce «salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162». La prima si riferisce al caso in cui l’imputato non abbia avuto ancora contatti con l’autorità giudiziaria ovvero con la polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen., dovendosi in tal caso procedere con la sequenza descritta all’art. 157 cod. proc. pen., mentre la seconda è relativa alla diversa ipotesi che il contatto vi sia stato con il contestuale invito diretto all’interessato a indicare un domicilio ove recapitare gli atti da notificare. Anche le successive pronunce a Sezioni Unite n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone e n. 58120 del 22/06/2017, Tuppi, hanno confermato la completezza del procedimento notificatorio descritto dagli articoli da 161 a 164 del codice di rito per l’ipotesi di domicilio eletto o dichiarato che è alternativo a quello previsto dall’art. 157 cod. proc. pen. per la prima notificazione all’imputato non detenuto. L’imputato, che abbia scelto dove ricevere le comunicazioni processuali formali, viene, infatti, informato del dovere di aggiornare ogni eventuale successiva variazione ai sensi dell’art. 161, commi 1 e 2, cod. proc. pen., non potendosi più applicare nei suoi confronti la sequenza di cui all’art. 157 cod. proc. pen., limitata solamente alla prima notificazione, da riservarsi all’imputato non detenuto che non abbia ancora ricevuto l’invito a indicare il domicilio dedicato a dette comunicazioni. Sempre la pronuncia “Tuppi” ha specificato che, a seguito della prima notificazione regolarmente effettuata all’imputato e nel caso di nomina del 7 difensore di fiducia, le successive si eseguono mediante consegna al difensore ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen.; diversamente, in caso di già intervenuta dichiarazione o elezione di domicilio, detta ultima norma non si applica. La sentenza “Pedicone” ha precisato che il rinvio disposto dall’art. 163 cod. proc. pen. alle formalità descritte dall’art. 157 non si riferisce ai luoghi ove effettuare la notifica, indicati nel corpo degli artt. 161 e 162, ma alle persone che possono ricevere l’atto da notificare con le cautele sulla riservatezza previste al comma 6 dell’art. 157. La medesima decisione, nel caso di rifiuto di ricevere l’atto o dell’assenza del destinatario (imputato o domiciliatario) ovvero delle altre persone ritenute idonee alla ricezione nel domicilio già indicato, integra l’ipotesi di impossibilità della notificazione con conseguente sostituzione del destinatario con il difensore ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., non potendosi più applicare la procedura descritta all’art. 157, comma 8, che, come detto, è riservata alla prima notificazione all’imputato non detenuto mai avvisato dell’onere di scegliere dove ricevere le comunicazioni relative al processo. Coerentemente con queste decisioni a Sezioni Unite, si richiama la giurisprudenza maggioritaria (si citano Sez.6, n. 24864 del 19/04/2017, Ciolan, Rv. 270031-01; Sez. 6, n. 52174 del 06/10/2017, Martinuzzi, Rv. 271560-01; Sez. 3, n. 12909 del 20/01/2016, Pinto, Rv. 268158-01; Sez. 6, n. 42548 del 15/09/2016, Corradini, Rv. 268223-01) la quale ha affermato che, per integrare l’ipotesi di “impossibilità” della notifica, ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod. proc. pen., è sufficiente l’attestazione dell’assenza dell’imputato nel domicilio dichiarato o del domiciliatario nel domicilio eletto, senza che sia necessaria alcuna ulteriore ricerca, doverosa solo quando non si sia riuscito a provvedere alla notificazione nei modi previsti dall’art. 157, richiamato dall’inciso iniziale dell’art. 159 cod. proc. pen. Conseguentemente, la temporanea assenza dell’imputato o la non facile individuazione del luogo indicato come domicilio consentono il ricorso all’alternativa prevista dall’art. 161, comma 4, cod. proc. pen. L’inidoneità del domicilio indicato è quindi ravvisabile nelle ipotesi di impossibilità effettiva di notificazione, escluso il caso fortuito e la forza maggiore, e quando le indicazioni rese dall’interessato non risultino funzionali a realizzare lo scopo per cui sono state fornite qual è l’esito positivo della notificazione. Laddove, invece, il destinatario risulti sconosciuto, trasferito, irreperibile, deceduto ovvero l’indirizzo sia inesatto, insufficiente o inesistente si applica l’art. 9, legge n. 890 del 1982, come modificato dall’art. 1, comma 461, legge n. 205 del 2017, con la conseguente necessità di documentare la relativa circostanza accertata dall’agente postale con un’attestazione datata e sottoscritta nell’avviso di ricevimento e successiva restituzione del plico al mittente.

5. La soluzione prescelta.

La Corte, infine, confermata l’equivalenza delle notificazioni eseguite dall’ufficiale giudiziario ovvero dall’ufficiale postale incaricato, sulla base di quanto già esposto conclude reputando «valida l’attività di ricerca svolta dall’agente postale e pienamente fidefacienti le sue attestazioni di merito» (sul punto si indicano Sez. 2, n. 9544 del 19/02/2020, Bianchi; Sez. 2, n. 33870 del 18/6/2019, De Martino; Sez. 3, n. 7865 del 12/01/2016, Vecchi). Così, a risoluzione della questione rimessa, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno stabilito che l’art. 170, comma 3, cod. proc. pen., nel disporre che in caso di restituzione per irreperibilità del destinatario «l’ufficiale giudiziario provvede alle notificazioni nei modi ordinari», vada interpretato nel senso che si debba far riferimento alle modalità, diverse e alternative, previste dal codice di rito: segnatamente, nel caso di prima notifica di cui all’art. 157 cod. proc. pen., disponendo nuove ricerche ai sensi dei successivi artt. 159 e 160, mentre, invece, intervenuta la scelta del domicilio di cui all’art. 161, fatto salvo il caso fortuito o la forza maggiore che abbia impedito di comunicare la sostituzione del luogo prescelto (con applicazione degli artt. 157 e 159), provvedendosi alla notificazione presso il difensore già nominato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze Corte di cassazione:

Sez. U., n. 15 del 08/04/1998, Marzaioli, Rv. 210540-01;

Sez. U., n. 19602 del 27/03/2008, Micciullo;

Sez. U., n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone;

Sez. 3, n. 7865 del 12/01/2016, Vecchi;

Sez. 3, n. 12909 del 20/01/2016, Pinto, Rv. 268158-01;

Sez. 6, n. 42548 del 15/09/2016, Corradini, Rv. 268223-01;

Sez. 6, n. 24864 del 19/04/2017, Ciolan, Rv. 270031-01;

Sez. U., n. 58120 del 22/06/2017, Tuppi;

Sez. 6, n. 52174 del 06/10/2017, Martinuzzi, Rv. 271560-01;

Sez. 5, n. 51111 del 17/10/2017, Gueye, Rv. 271819-01;

Sez. 7, n. 24515 del 23/01/2018, Pizzichello, Rv. 272824-01;

Sez. 2, n. 57801 del 29/11/2018, Nita, Rv. n. 274892-01;

Sez. 2, n. 33870 del 18/6/2019, De Martino;

Sez. U., n. 23948 del 28/11/2019, dep. 2020, Ismail, Rv. 279420-01;

Sez. 2, n. 9544 del 19/02/2020, Bianchi;

Sez. 2, n. 32239 del 30/10/2020, Russo;

Sez. 3, n. 37168 del 30/09/2020, F., Rv. 280820-01;

Sez. U., n. 14498 del 26/11/2020, dep. 2021, Lovric;

Sez. 4, n. 3930 del 12/01/21, Lo Presti, Rv. 280383-01;

Sez. 1, n. 23880 del 05/05/2021, Usai, Rv. 281419-01;

Sez. U., n. 7635 del 30/09/2021, dep. 2022, Costantino;

Sez. U., n. 14573 del 25/11/2021, dep. 2022, D., Rv. 282848-02.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE VI - PROCEDIMENTI SPECIALI

  • giudice
  • procedura penale
  • lavoro non remunerato
  • sospensione di pena
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO I

PATTEGGIAMENTO E SECONDA RICHIESTA DI SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA: SUBORDINAZIONE AGLI OBBLIGHI EX ART. 165, PRIMO COMMA, COD. PEN. E CONSENSO DELL’IMPUTATO. SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA E DURATA MASSIMA DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA NON RETRIBUITA

(di Maria Eugenia Oggero )

Sommario

1 Le questioni rimesse all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La natura del patteggiamento nella giurisprudenza di legittimità. - 3 La soluzione delle Sezioni Unite al primo quesito. - 4 La questione posta con il secondo quesito. - 5 La risposta al secondo quesito. - Indice delle sentenze citate

1. Le questioni rimesse all’esame delle Sezioni Unite.

La Quinta Sezione ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto giurisprudenziale, un duplice ordine di temi:

-circa la possibilità per il giudice, in caso di richiesta di definizione del processo con “patteggiamento”, di subordinare d’ufficio la sospensione condizionale della pena a uno degli obblighi previsti dall’art. 165, primo comma, cod. pen. e, in particolare, alla prestazione di attività lavorativa non retribuita, in assenza di esplicito consenso dell’imputato;

-circa la durata massima della prestazione lavorativa non retribuita in favore della collettività a cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena che, secondo alcune decisioni, andrebbe commisurata alla durata della pena sospesa (ex art. 165, comma primo, cod. pen.), mentre, secondo altre pronunce, non potrebbe comunque superare il limite massimo di sei mesi, per il combinato disposto degli artt. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. e 54 d.lsg. n. 274 del 2000.

ll Collegio rimettente ha preliminarmente evidenziato che la decisione impugnata concerne la disciplina dell’art. 165, comma primo e secondo, cod. pen., come modificato con legge n. 145 del 2004 che, oltre alla previsione di subordinazione della sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività, “se il condannato non si oppone” – provvedendo a eliminare l’inciso “Salvo che ciò sia impossibile” - ha altresì introdotto l’obbligo di subordinare la seconda sospensione condizionale della pena a uno degli obblighi previsti al comma primo.

Nella giurisprudenza di legittimità, si erano registrate soluzioni contrastanti, sia sulla questione della necessità o meno di un’espressa manifestazione di volontà da parte dell’imputato al fine di subordinare la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività, sia riguardo alla questione dell’applicabilità a tale prestazione del limite massimo di sei mesi previsto dall’ordinamento del giudice di pace per la durata del lavoro di pubblica utilità.

Il contrasto giurisprudenziale sul primo tema si registrava anche al di fuori del perimetro del procedimento speciale in oggetto per estendersi alla facoltà del giudice, ove l’imputato non avesse opposto rifiuto, di subordinare la seconda sospensione condizionale alla prestazione di lavoro non retribuito: il preliminare tema centrale riguarda il contenuto che deve assumere la “non opposizione” del condannato alla prestazione di lavoro non retribuito a favore della collettività.

Una prima tesi si era orientata a ritenere che, nella richiesta di sospensione condizionale della pena da parte di chi ne abbia già fruito, sarebbe implicitamente espresso il consenso alla subordinazione - obbligatoria ex lege - del beneficio rispetto alla prestazione dell’attività lavorativa (non retribuita) in favore della collettività.

Secondo una diversa lettura giurisprudenziale, la “non opposizione” del condannato richiederebbe invece una esplicita e personale manifestazione di volontà, anche nel caso di concessione del beneficio a persona che ne abbia già fruito. Viene pure in gioco, nell’ambito del patteggiamento, il potere del giudice di imporre, d’ufficio, una condizione estranea al patto intervenuta tra le parti, laddove, per l’appunto, nulla abbiano stabilito circa la (pur obbligata) subordinazione della sospensione condizionale all’attività lavorativa, aspetto sul quale si erano formati due differenti orientamenti: secondo il primo, la richiesta di patteggiamento, subordinata alla sospensione condizionale della pena da parte di chi abbia già fruito, in passato, del beneficio, implica di per sé la “non opposizione” alla prestazione di lavoro non retribuito, mentre la tesi incentrata sull’impossibilità da parte del giudice di alterare l’accordo tra le parti - essendo il medesimo preposto alla mera ratifica del patto - esclude la facoltà di modificarne il contenuto, anche laddove il beneficio debba essere necessariamente subordinato, ai sensi dell’art. 165, comma secondo, cod. pen., alla prestazione di attività non retribuita.

Le più numerose decisioni, favorevoli a ritenere implicito, nella richiesta di definizione concordata del processo con subordinazione alla sospensione condizionale della pena, il consenso all’adempimento di uno degli obblighi previsti all’art. 165, comma primo, cod. pen., richiamano la natura obbligatoria della prescrizione, ove il beneficio sia richiesto per la seconda volta (Sez. 3, n. 7604 del 22/10/2019, dep. 2020, F., Rv. 278601-01; Sez. 3, n. 4426 del 24/10/2019, dep. 2020, Nicolosi, Rv. 278396-01; Sez. 5, n. 49481 del 13/11/2019, P., Rv. 277520-01; Sez. 5, n. 11269 del 16/01/2019, Varaschin; Sez. 5, n. 51755 del 17/10/2018, Carlesi; Sez. 6, n. 19882 del 24/04/2018, M., Rv. 273275-01; Sez. 6, n. 11383 del 29/01/2018, Steiner; Sez. 5, n. 13534 del 24/01/2017, Colangelo, Rv. 269395-01; Sez. 6, n. 13984 del 04/03/2014, Rosiello, Rv. 259460-01).

Il gruppo più esiguo di pronunce (Sez. 3, n. 25349 del 10/04/2019, Icardi, Rv. 276006-01; Sez. 6, n. 44775 del 2015, Ferrante; Sez. 2, n. 38783 del 26/10/2006, Sorce, Rv. 235381-01), incentrando il ragionamento sulla natura negoziale del patteggiamento, ha invece escluso che il giudice possa subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di uno degli obblighi ex art. 165, comma primo, cod. pen., qualora tale aspetto non abbia costituito oggetto di accordo: in particolare (cfr. sentenza n. 25349 del 2019, cit.), muovendo dal decisum della Sez. U. Zanlorenzi, cit., era stato sviluppato il ragionamento per cui, se è vero che la seconda sospensione condizionale deve obbligatoriamente essere subordinata agli obblighi, tuttavia la statuizione (obbligatoria) non presenta un contenuto prefissato. Sia la scelta della specifica misura da applicare, sia le modalità di sua esecuzione sono rimesse alla discrezionalità del giudice, ex art. 165, comma secondo, cod. pen.

Di conseguenza, il contenuto discrezionale della condizione apposta alla concessione della sospensione condizionale deve formare oggetto di esplicito consenso e di accordo tra le parti per cui il giudice non potrà che respingere integralmente (per violazione dell’art. 165, comma secondo, cod. pen.) la richiesta di patteggiamento subordinata alla sospensione condizionale, avanzata da un imputato che ne abbia precedentemente beneficiato e che non espliciti, nell’accordo, il consenso all’adempimento (pur obbligatorio) degli obblighi.

Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite si muove dall’analisi del vigente testo normativo, successivo alle modifiche intervenute con legge n. 145 del 2004. L’elenco degli adempimenti previsti dal novellato art. 165, comma secondo, cod. pen. contempla la possibilità per il giudice di ordinare la prestazione di attività lavorativa non retribuita a favore della collettività, se l’imputato non si oppone. É stato eliminato l’inciso finale del secondo comma (“salvo che ciò sia impossibile”), in quanto la prestazione lavorativa oggetto di subordinazione dipende esclusivamente dalla volontà dell’imputato, nella forma della “non opposizione”.

Appare evidente come il tema logicamente prioritario riguardi tuttavia la natura del patteggiamento, per come esso è stato costruito dal legislatore del processo penale.

2. La natura del patteggiamento nella giurisprudenza di legittimità.

Nella giurisprudenza consolidata sull’istituto di cui all’art. 444 cod. proc. pen., l’accordo viene qualificato come un negozio bilaterale processuale che si perfeziona con la ratifica del giudice (così, Sez. 3, n. 10286 del 13/02/2013, Matelliano, Rv. 254980-01; Sez. 4, n. 16832 del 11/04/2008, Karafi, Rv. 239543-01; Sez. 3, n. 18735 del 27/03/2001, Ciliberti, Rv. 219852-01), impostazione che ha trovato conferma nella disposizione, introdotta con legge n. 103 del 2017, di cui all’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. e, ancor prima, nelle decisioni della Corte costituzionale in tema di art. 444 cod. proc. pen. (Corte cost., n. 313 del 1990 di parziale incostituzionalità dell’art. 444 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentiva al giudice di valutare la congruità della pena indicata dalle parti e, quindi, di rigettare, per l’effetto, tale richiesta; n. 66 del 1990, n. 251 del 1991, n. 155 del 1996, n. 294 del 2002, decisioni che hanno chiarito quale sia il rapporto tra la componente negoziale del rito e lo spazio cognitivo del giudice).

Anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite – Sez. U., n. 5882 del 11/05/1993, Iovine, Rv. 193417-01 e n. 10 del 1993, Zanlorenzi, cit – ha posto l’accento, in sintonica armonia con giurisprudenza costituzionale, sulla vincolatività, per il giudice, dei termini dell’accordo intervenuto tra le parti. In coerente sviluppo, sono state pronunciate le sentenze delle Sezioni Unite n. 5777 del 27/03/1992, Di Benedetto, Rv. 191136-01; n. 4901 del 27/03/1992, Cardarilli, Rv. 191128-01, le quali evidenziavano come l’art. 444 cod. proc. pen. costituisca la base legale del patteggiamento e finisca quindi per definire il contenuto dell’accordo tra le parti e il confine del suo carattere vincolante per il giudice.

Le successive pronunce del massimo consesso che hanno affrontato e risolto le diverse questioni insorte intorno all’applicazione del rito speciale de quo hanno tenuto in conto gli assunti delle due decisioni citate Iovine e Zanlorenzi (cfr., tra le altre, Sez. U., n. 35738 del 27/05/2010, Calibé, Rv. 247841-01; Sez. U., n. 17781 del 29/11/2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518-01; Sez. U., n. 18 del 21/06/2000, Franzo, Rv. 216431-01), mentre non contravvengono al rispetto del potere dispositivo delle parti e all’intangibilità dell’accordo quelle decisioni che hanno definito l’ambito delle statuizioni adottabili da parte del giudice in via autonoma rispetto alle parti: non viola l’accordo intervenuto tra le parti l’applicazione, da parte del giudice, delle sanzioni amministrative accessorie che conseguono di diritto alla decisione di responsabilità (cfr., Sez. U., n. 21369 del 2019, dep. 2020, Meizani, Rv. 279349-01, Sez. U., n. 20 del 21/06/2000, Cerboni, Rv. 217018-01; Sez. U., 20 del 27/10/1999, Fraccari, Rv. 214638-01).

Anche l’evoluzione normativa, segnata, in ultimo, dalla legge n. 3 del 2019, che ha introdotto il comma 3-bis dell’art. 444 cod. proc. pen., si colloca nel solco della valorizzazione della vocazione negoziale del rito, seguito la legge n. 134 del 2021, che ha conferito delega al Governo per la modifica del codice di rito e dal successivo d.lgs. n. 150 del 2022.

Del resto, si è progressivamente delineata una duplice funzione del patteggiamento: accanto alla natura di rito a carattere premiale, ha preso corpo una seconda attitudine, ovvero garantire all’imputato la prevedibilità della decisione attraverso una sorta di preventivo controllo sul contenuto della sentenza (cfr., sul punto, Corte cost. n. 394 del 2002 e, in ambito sovranazionale, Corte EDU, 29/04/2014, Natsvlishvili e Togonidze contro Georgia), per cui è fatto divieto al giudice di integrare il patto siglato tra le parti, nell’esercizio di mere facoltà riconosciutegli dalla legge, giacché, così operando, verrebbe meno la prevedibilità del contenuto della decisione.

3. La soluzione delle Sezioni Unite al primo quesito.

Prendendo le mosse dalle tratteggiate le premesse, le Sezioni Unite hanno affermato il principio così massimato: «Nel procedimento speciale di cui all’art. 444 cod. proc. pen., l’accordo delle parti sull’applicazione di una pena detentiva di cui viene chiesta la sospensione condizionale deve estendersi anche agli obblighi ulteriori eventualmente connessi ex lege alla concessione del beneficio, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione anche su tali elementi, la sospensione non può essere accordata e, qualora al suo riconoscimento sia subordinata l’efficacia della stessa richiesta di applicazione della pena, questa deve essere integralmente rigettata” (Vedi, Sez. U., n. 10 del 1993, Rv. 194064-01; Sez. U., n. 5882 del 1993, Rv. 193417-01)». (Rv. 283191-01).

4. La questione posta con il secondo quesito.

La seconda questione portata alla cognizione delle Sezioni Unite sorge dal contrasto, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, circa l’applicabilità del limite di durata massima di sei mesi, stabilito dall’art. 54, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000 - afferente alla pena alternativa del lavoro di pubblica utilità prevista per i reati di competenza del giudice di pace – con riferimento alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività cui il giudice può subordinare la sospensione condizionale della pena, ex art. 165, comma primo e secondo, cod. pen.

Secondo un primo orientamento (Sez. 5, n. 8454 del 06/12/2019, dep. 2020, Magli; Sez. 4, n. 20297 del 05/03/2015, Iannone, Rv. 263861-01), il rinvio operato dall’art. 18-bis cit. ai commi 2 e 3 dell’art. 54 cit. imporrebbe di ritenere che la durata della prestazione lavorativa non retribuita sia sottoposta al limite massimo di sei mesi per sei ore settimanali (salvo richiesta del condannato di svolgere un maggior numero di ore settimanali, mai comunque superiore a otto ore pro die, per abbreviare i tempi di esecuzione), sempre che la durata della pena sospesa non sia stata stabilita in misura inferiore, come stabilito all’art. 165, comma primo, cod. pen. (in tale senso, Sez. 3, n. 17131 del 24/05/2015, Solina, Rv. 263238-01; Sez. 1, n. 32649 del 16/06/2009, Lattore, Rv. 244844-01).

Nell’avviso di un secondo orientamento della giurisprudenza di legittimità, la durata massima della prestazione lavorativa sarebbe invece esclusivamente disciplinata dall’art. 165, comma primo, cod. pen., secondo cui essa va parametrata alla (durata della) pena sospesa, con la conseguente esclusione dei limiti (più favorevoli, per quanto riguarda il tetto massimo di sei mesi) stabiliti per il lavoro di pubblica utilità dall’art. 54, commi 2 e 3, d.lgs. n. 274 del 2000. Invero, l’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. limita il richiamo di tali previsioni, “in quanto compatibili” per cui l’applicazione – secondo l’orientamento in oggetto – non atterrebbe alla durata della prestazione, già compiutamente disciplinata dall’art. 165 cod. pen. (Sez. 3, n. 6519 del 16/09/2019, dep. 2020, Megaadi, Rv. 278596-01; Sez. 7, n. 6898 del 14/12/2018, dep. 2019, Chamba Guerrero, Rv. 276350-01).

Alcune pronunce (Sez. 3, n. 6519 del 16/09/2019, Megaadi, cit.), pur aderendo a tale filone esegetico, hanno tuttavia ritenuto (in sintonia con l’opposto orientamento) che la durata (minima) della prestazione lavorativa non retribuita debba far riferimento al plafond di dieci giorni prevista dall’art. 54, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000, stante il rinvio a tale disposizione operato dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. ed altresì considerata la mancanza di un’autonoma regolamentazione sul punto da parte del codice penale.

5. La risposta al secondo quesito.

Tratteggiando il profilo storico del lavoro di pubblica utilità, già contemplato dal Codice Zanardelli, più di recente preceduto dal “lavoro sostitutivo” di cui agli artt. 102 e 105 della legge n. 689 del 1981, introdotto, nell’attuale forma, dall’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, che l’ha elevato a pena principale per i reati di competenza del giudice di pace, altresì previsto, secondo peculiari declinazioni, dall’art. 73, comma 5-bis del d.P.R. n. 309 del 1990, dagli artt. 224-bis e 186, comma 9-bis cod. strada e, infine, dall’art. 168-bis, comma terzo, cod. pen. (quale condizione cui è subordinata la messa alla prova), le Sezioni Unite sottolineano il dato che, nel caso in esame, l’istituto integra la condizione alla quale può ovvero deve essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.

La misura appare dunque finalizzata a potenziare gli aspetti di probation insiti nella sospensione condizionale della pena, ragione per cui la prestazione dell’attività lavorativa assume una funzione non omologabile a quella di una sanzione. L’art. 165 cod. pen. (laddove commisura alla durata della pena sospesa l’attività non retribuita) e l’art. 54, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000 (che stabilisce, quale limite massimo dell’attività, il tetto di sei mesi, qualora la pena sia stata irrogata e sospesa sia superiore ai sei mesi) non si pongono in rapporto di reciproca incompatibilità, bensì di complementarità, considerato il rinvio dell’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. alle disposizioni dettate dall’ordinamento del giudice di pace.

E, considerata la peculiare funzione – certo afflittiva ma non punitiva - che, nell’ambito dell’istituto della sospensione condizionale della pena, assume lo svolgimento dell’attività non retribuita, si comprende il motivo per cui il legislatore (a differenza di quanto avviene per l’art. 73, comma 5-bis, d. P.R. n. 309 del 1990 e nell’art. 186, comma 9-bis del cod. strada, contesti in cui la misura presenta natura sanzionatoria) non abbia fissato in maniera autonoma i limiti di durata del lavoro di cui si tratta.

Conseguentemente e per concludere, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio, così massimato: «La durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività soggiace al limite di sei mesi, previsto dal combinato disposto agli artt. 18 bis disp. coord. trans. cod. pen. e 54, comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, nonché a quello, se inferiore, stabilito dall’art. 165, comma primo, cod. pen. in relazione della misura della pena sospesa». (Rv. 283191-02).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze Corte di cassazione:

Sez. U., n. 4901 del 27/03/1992, Cardarilli, Rv. 191128-01;

Sez. U., n. 5777 del 27/03/1992, Di Benedetto, Rv. 191136-01;

Sez. U., n. 10 del 11/05/1993, Zanlorenzi, Rv. 194064-01;

Sez. U., n. 5882 del 11/05/1993, Iovine, Rv. 193417-01;

Sez. U., 20 del 27/10/1999, Fraccari, Rv. 214638-01;

Sez. U., n. 18 del 21/06/2000, Franzo, Rv. 216431-01;

Sez. U., n. 20 del 21/06/2000, Cerboni, Rv. 217018-01;

Sez. 3, n. 18735 del 27/03/2001, Ciliberti, Rv. 219852-01;

Sez. U., n. 17781 del 29/11/2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518-01;

Sez. 2, n. 38783 del 26/10/2006, Sorce, Rv. 235381-01;

Sez. 4, n. 16832 del 11/04/2008, Karafi, Rv. 239543-01;

Sez. 1, n. 32649 del 16/06/2009, Lattore, Rv. 244844-01;

Sez. U., n. 35738 del 27/05/2010, Calibé, Rv. 247841-01;

Sez. 3, n. 10286 del 13/02/2013, Matelliano, Rv. 254980-01;

Sez. 6, n. 13984 del 04/03/2014, Rosiello, Rv. 259460-01;

Sez. 4, n. 20297 del 05/03/2015, Iannone, Rv. 263861-01;

Sez. 3, n. 17131 del 24/05/2015, Solina, Rv. 263238-01;

Sez. 6, n. 44775 del 20/10/2015, Ferrante;

Sez. 5, n. 13534 del 24/01/2017, Colangelo, Rv. 269395-01;

Sez. 6, n. 11383 del 29/01/2018, Steiner;

Sez. 6, n. 19882 del 24/04/2018, M., Rv. 273275-01;

Sez. 5, n. 51755 del 17/10/2018, Carlesi;

Sez. 7, n. 6898 del 14/12/2018, dep. 2019, C. Guerrero, Rv. 276350-01;

Sez. 5, n. 11269 del 16/01/2019, Varaschin;

Sez. 3, n. 25349 del 10/04/2019, Icardi, Rv. 276006-01;

Sez. 3, n. 6519 del 16/09/2019, dep. 2020, Megaadi, Rv. 278596-01;

Sez. U., n. 21369 del 26/09/2019, dep. 2020, Meizani, Rv. 279349-01;

Sez. 3, n. 7604 del 22/10/2019, dep. 2020, F., Rv. 278601-01;

Sez. 3, n. 4426 del 24/10/2019, dep. 2020, Nicolosi, Rv. 278396-01;

Sez. 5, n. 49481 del 13/11/2019, P., Rv. 277520-01;

Sez. 5, n. 8454 del 06/12/2019, dep. 2020, Magli;

Sez. U., n. 23400 del 27/01/2022, Rv. 283191-01;

Sez. U., n. 23400 del 27/01/2022, Rv. 283191-02.

Sentenze Corte costituzionale:

Corte cost., n. 313 del 1990;

Corte cost. n. 66 del 1990;

Corte cost. n. 251 del 1991;

Corte cost. n. 155 del 1996;

Corte cost. n. 294 del 2002;

Corte cost. n. 394 del 2002.

Sentenze Corte europea:

Corte EDU, 29/04/2014, Natsvlishvili e Togonidze contro Georgia.

  • reato
  • giudice
  • procedura penale
  • alleggerimento della pena

CAPITOLO II

L’ERRONEA APPLICAZIONE DELLA MISURA DELLA DIMINUENTE PREVISTA PER UN REATO CONTRAVVENZIONALE GIUDICATO CON RITO ABBREVIATO INTEGRA UN’IPOTESI DI PENA ILLEGITTIMA E NON DI PENA ILLEGALE

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione controversa e l’ordinanza di rimessione. - 3 Gli orientamenti contrapposti. - 4 Lo scenario giurisprudenziale alla base del dibattito. - 5 La pena illegale: i diversi orientamenti di legittimità. - 6 L’illegalità “sostanziale” della pena. - 7 L’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e la sua natura. - 8 La pronunzia delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 47182 del 31/03/2022, dep. 2022, Savini, Rv. 283818-01, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Qualora la pena concretamente irrogata rientri nei limiti edittali, l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della misura della diminuente, prevista per un reato contravvenzionale giudicato con rito abbreviato, integra un’ipotesi di pena illegittima e non già di pena illegale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto preclusa, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., la relativa questione in quanto non dedotta con i motivi di appello)”, così ponendo argine ad un contrasto di giurisprudenza sul tema della rilevabilità da parte della Corte di cassazione dell’erronea riduzione della pena prevista per un reato contravvenzionale nella misura di un terzo, anziché della metà, non prospettata con l’atto di appello.

2. La questione controversa e l’ordinanza di rimessione.

La questione trae origine dal ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Milano che, nel confermare la condanna per il reato di cui all’art. 186, commi 2, lett. b) e 2-sexies, d. Igs. 30 aprile 1992, n. 285 emessa all’esito del giudizio abbreviato dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, aveva mantenuto ferma la riduzione della pena nella misura di un terzo, anziché della metà, in contrasto con quanto previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 44, legge 23 giugno 2017, n. 103.

La Quarta Sezione, investita del ricorso, registrato un contrasto di giurisprudenza sul tema della rilevabilità da parte della Corte di cassazione dell’erronea riduzione della pena prevista per un reato contravvenzionale nella misura di un terzo, anziché della metà, nel caso in cui la questione, non prospettata con l’atto di appello, sia stata proposta solo con il ricorso per cassazione, con ordinanza n. 46024 del 16 dicembre 2021, depositata in data 17 dicembre 2021, ha sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite al fine di chiarire: «se, in tema di reati contravvenzionali, nel caso in cui il giudice riduca la pena, per il rito abbreviato, nella misura di un terzo, e non invece della metà, come previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., la Corte di cassazione possa disporre la riduzione in tale ultima misura pur se la questione non sia stata prospettata con l’atto di appello ma unicamente col ricorso per cassazione».

3. Gli orientamenti contrapposti.

Gli orientamenti che si registrano sul tema sono due.

Secondo un primo orientamento – seguito da Sez. 2, n. 28306 del 25/06/2021, Perrella, Rv. 281804-01; Sez. 3, n. 34077 del 31/03/2021, Xu Dexiang; Sez. 4, n. 6510 del 27/01/2021, Di Maria, Rv. 280946-01; Sez. 1, n. 22313 del 08/07/2020, Manto, Rv. 279455-01 – l’applicazione della più favorevole riduzione per il rito nella misura della metà, anziché di un terzo, introdotta per le contravvenzioni dalla legge n. 103 del 2017, pur essendo applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, non può essere fatta valere con il ricorso per cassazione ove non sia stata richiesta nel giudizio d’appello celebrato nella vigenza della nuova legge, non vertendosi in un’ipotesi di pena illegale, bensì di errata applicazione di una legge processuale, il cui vizio è denunciabile solo con gli ordinari mezzi di gravame.

Tale linea ermeneutica, che si fonda su una nozione restrittiva di «pena illegale», intesa come sanzione non prevista dalla legge per specie o quantità o esito di errore nel computo aritmetico, ritiene che nel caso di quantificazione operata in violazione del criterio di riduzione stabilito dalla legge processuale, si verifichi un’ipotesi di «pena illegittima», emendabile esclusivamente mediante gli ordinari mezzi di impugnazione, con i quali l’imputato deve chiedere l’esatta commisurazione della stessa (Sez. 1, n. 28252 del 11/06/2014, Imparolato, Rv. 261091-01).

Di diverso avviso è quella giurisprudenza di legittimità – Sez. 4, n. 37820 del 12/10/2021, Vleru; Sez. 4, n. 38633 del 05/10/2021, Cavina; Sez. 4, n. 24897 del 18/05/2021, Bara, Rv. 281488-01 – secondo cui, in tema di giudizio abbreviato celebrato dopo le modifiche introdotte all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. dalla legge n. 103 del 2017, nel caso di omessa riduzione nella misura della metà della pena inflitta con sentenza di condanna per contravvenzione, è ammissibile il ricorso per cassazione volto a far valere l’erronea applicazione della diminuente per il rito abbreviato, pur se non devoluta alla corte territoriale con l’atto di appello.

Tale filone interpretativo muove dalla natura sostanziale degli effetti della riduzione in parola, per cui, sebbene l’art. 442 cod. proc. pen. si inserisca nell’ambito della disciplina processuale e non di quella sostanziale, tuttavia l’inscindibile connessione tra profili processuali ed effetti sostanziali comporta, in applicazione del principio previsto dall’art. 25, comma 2, Cost. (Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752-01) e di quanto stabilito dall’art. 2, comma 4, cod. pen. – divenuto ormai lo strumento interno di attuazione del principio sovranazionale della retroattività della lex mitior –, la rilevabilità d’ufficio dell’errore.

4. Lo scenario giurisprudenziale alla base del dibattito.

Quale premessa alla risoluzione della questione devoluta, le Sezioni Unite hanno evidenziato che il terreno sul quale si agita il contrasto coinvolge, per un verso, la generale rilevabilità dell’illegalità della pena da parte del giudice dell’impugnazione, ancorché inammissibile, e, per altro verso, la riconducibilità o meno della pena erroneamente determinata alla categoria della pena illegale.

Quanto al primo tema, le Sezioni Unite hanno osservato che sul punto si registrano nella giurisprudenza di legittimità due orientamenti.

Per il primo, più restrittivo – al quale ha aderito Sez. 5, n. 15817 del 18/02/2020, Di Rocco, Rv. 279252-01, secondo cui «in caso di inammissibilità del ricorso per ragioni diverse dalla tardività, non può essere rilevata d’ufficio, in assenza di uno specifico motivo di doglianza, l’illegalità della pena per l’erronea applicazione, da parte del tribunale, per i reati di competenza del giudice di pace, delle sanzioni previste dal codice penale in luogo di quelle di cui agli artt. 52 e ss. d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274» –, l’illegalità della pena è rilevabile d’ufficio e, quindi, sindacabile indipendentemente dalla deduzione della specifica doglianza in sede di impugnazione, a condizione che:

-il ricorso non sia inammissibile - in quanto l’inammissibilità del ricorso impedisce il passaggio del procedimento all’ulteriore grado di giudizio e inibisce la cognizione della questione e la rivisitazione del decisum (Sez. 5, n. 24926 del 03/12/2003, dep. 2004, Marullo, Rv. 229812-01; Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 23063-01);

-l’esame della questione rappresentata non comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito, incompatibili con il giudizio di legittimità (Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612-01).

Per un secondo orientamento, l’inammissibilità del ricorso non è di ostacolo all’intervento officioso sulla pena illegale, «atteso che il principio di legalità ex art. 1 cod. pen. e la funzione della pena, come concepita dall’art. 27 Cost., non appaiono conciliabili con la applicazione di una sanzione non prevista dall’ordinamento» (Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763-01; Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684-01; Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Rv. 258651-01; Sez. 4, n. 17221 del 02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714-01), posto che «l’intero sistema processualpenalistico […] non sopporta l’irrogazione di pena illegale, per i fondamentali principi costituzionali di libertà che ne sono sottesi, e per il principio del favor rei che, altrimenti, risulterebbe in concreto vanificato» (Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Porreca, Rv. 242973-01).

Allineandosi al solco già arato da Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697-01; Sez. U., n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327-01; Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-6; Sez. U., n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857-9; Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016, dep. 2017, Jomle, Rv. 268593-01; Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, C., Rv. 272090-01; Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018, dep. 2019, Elgendy, Rv. 276320-01, in tempi recenti, Sez. 5, n. 13787 del 30/01/2020, Ottoni, Rv. 279201-01, traendo spunto dall’insegnamento Sez. U., n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265108-01, ha affermato che occorre distinguere tra l’inammissibilità pronunziata per tardività – nel qual caso deve escludersi in radice la possibilità di instaurare un valido rapporto di impugnazione – e le altre cause di inammissibilità e, sulla base di tale premessa, ha argomentato che il ricorso proposto per motivi non consentiti (art. 606, comma 2-bis, cod. proc. pen.), è idoneo, a differenza del ricorso tardivo, ad instaurare un valido rapporto processuale e consente alla Corte di cassazione di rilevare di ufficio l’illegalità della pena.

Anche sul diverso tema della riconducibilità, o meno, alla categoria della pena illegale della pena determinata in maniera erronea all’esito del giudizio celebrato con rito abbreviato, si articolano due filoni giurisprudenziali.

Un primo orientamento – seguito da Sez. 1, n. 28252 del 11/06/2014, Imparolato, Rv. 261091-01; Sez. 1, n. 22313 del 08/07/2020, Manto, Rv. 279455-01 – esclude che la pena erroneamente ridotta possa ritenersi illegale e, quindi, emendabile d’ufficio da parte della Corte di cassazione, in quanto non si tratta di una pena non prevista dalla legge per specie o quantità, ma solo di «una determinazione operata in violazione del criterio di riduzione, stabilito dalla legge processuale», sicché il motivo con il quale si intende far valere siffatta violazione è inammissibile qualora non dedotto in appello (Sez. 4, n. 6510 del 27/01/2021, Di Maria, Rv. 280946-01).

Di segno opposto l’orientamento espresso da Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Torna, Rv. 253562-01, ripreso, di recente, da Sez. 3, n. 38474 del 31/05/2019, Lasalvia, Rv. 276760-01, secondo cui l’erronea applicazione della diminuzione prevista per il rito abbreviato, costituisce «un palese errore materiale di calcolo nella determinazione della pena» che comporta la sostanziale illegalità della pena inflitta, sia pure solo in punto di quantum.

5. La pena illegale: i diversi orientamenti di legittimità.

Le Sezioni Unite, ponendosi in posizione critica rispetto a quelle pronunce che, nel sostenere una linea ermeneutica, hanno mutuato principi e argomenti proposti per vicende diverse da quella sottoposte al loro vaglio – talora adottando principi formulati in tema di illegalità sopravvenuta della pena, nel diverso tema della pena illegale ab origine, talaltra assimilando pene che eccedono i limiti edittali a pene determinate in violazione di norme processuali o, ancora, traendo da specifiche ipotesi di ritenuta recessività del giudicato sostanziale un generale principio di soccombenza di esso a istanze legaliste, senza indicarne i fondamenti –, hanno evidenziato che «solo se è da ritenere illegale la pena ridotta in misura erronea rispetto a quanto previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. è necessario occuparsi […] dell’odierna concezione del giudicato sostanziale e della sua ipotetica flessibilità» e del principio di legalità della pena.

Dunque, sulla premessa che nello Stato di diritto non è in discussione che la pena inflitta dal giudice debba essere legale, ovvero prevista dalla legge, le Sezioni Unite hanno rammentato che «il riconoscimento di una “illegalità” della pena» ha richiesto da parte del Giudice delle leggi «un approfondimento della portata precettiva dell’art. 25, comma 2, Cost., il cui testo non espone con assoluta evidenza il principio nulla poena sine lege».

Invero, la Corte costituzionale, superando sia le incertezze scaturite dalla variazione testuale che l’art. 25 Cost. propone rispetto all’art. 1 cod. pen., sia le posizioni teoriche inclini a tenere distinti, rispetto al tema della legalità, il precetto penale e la sanzione, si è disallineata dall’assunto secondo cui non sarebbe costituzionalmente garantito il principio di legalità della pena sancito nell’art. 1 cod. pen., così affermando che l’art. 25, comma 2, Cost. «dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individualizzazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge» (Corte cost., sent. n. 15 del 1962), quale garanzia contro l’arbitrio del giudice, in quanto «solo il legislatore […] può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali» (Corte cost., sent. n. 447 del 1998).

In tale prospettiva, le Sezioni Unite hanno dato atto delle numerose decisioni con le quali la Corte costituzionale - dopo aver osservato che, affinché la pena sia conforme al dettato costituzionale, il legislatore è tenuto a soddisfare sia il principio di determinatezza e, pertanto, a individuare, in modo non arbitrario, il tipo, il contenuto e la misura della pena (Corte cost., sent. 131 del 1970), sia il principio della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena (Corte cost., sent. n. 149 del 2018) - se, per un verso, è giunta a sottolineare la necessità di una individualizzazione della pena e, pertanto, a esprimere sia un giudizio di tendenziale incoerenza delle pene fisse al dettato costituzionale (Corte cost., sent. n. 67 del 1963; n. 50 del 1980; n. 118 del 1973; ord. n. 91 del 2008), sia un’indicazione preferenziale per la mobilità della pena, in quanto «previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il volto costituzionale del sistema penale» (Corte cost., sent. n. 222 del 2018), per altro verso, ha sottolineato che la mobilità della pena, entro la previsione di un minimo e di un massimo, a sua volta, non è libera da vincoli correlati alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta, in quanto, diversamente, «la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario» (Corte cost., n. 299 del 1992).

Osservano le Sezioni Unite che la pena «costituzionale», determinata dal legislatore secondo le direttrici del Giudice delle leggi e individualizzata dal giudice, è espressione «della coesistenza di due domini, quello del legislatore e quello del giudice, tra loro interrelati e tuttavia non confondibili. L’uno è espressione del potere di determinare il disvalore del tipo (ed eventualmente del sottotipo) astratto; l’altro del potere di determinare il disvalore del fatto concreto», sicché «nel commisurare la pena, il giudice si confronta […] con due vincoli legali: quelli del primo tipo tendono a preservare le fondamentali opzioni legislative in ordine al disvalore del fatto reato astrattamente inteso; gli altri indirizzano e regolano la discrezionalità giudiziale nell’apprezzamento del disvalore del fatto reato storicamente concretizzatosi ai fini della individualizzazione della pena».

Ne deriva che, se, per un verso, «ogni violazione del primo travolge le prerogative del legislatore ed i valori per i quali esse sono riconosciute» e implica che la pena così determinata sia illegale, diversamente, «la violazione delle regole che disciplinano l’uso del potere commisurativo – che resti rispettoso della determinazione legale – pone invece una questione di legittimità della pena».

Sulla scorta di tali insegnamenti, le Sezioni Unite hanno condiviso il principio di diritto secondo cui gli errori nell’applicazione delle diverse discipline, che entrano in gioco nella commisurazione della pena, danno luogo ad una pena illegale solo se la pena indicata in dispositivo è per genere, specie o per valore minimo o massimo, diversa da quella che il legislatore ha previsto per il reato al quale viene ricondotto il fatto storico, là dove, invece, è illegittima la pena commisurata sulla base della errata applicazione della legge o non giustificata secondo il modello argomentativo normativamente previsto (Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729-01; Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, De Paola, Rv. 266080-01; Sez. 2, n. 14307 del 14/03/2017, Musumeci, Rv. 269748-01; Sez. 5, n. 23911 del 20/02/2019, Calogiuri; Sez. 3, n. 35485 del 23/04/2021, P., Rv. 281945-01; Sez. 2, n. 46765 del 09/12/2021, Bruno, Rv. 282322-01).

Le Sezioni Unite, dunque, dissentono dal diverso orientamento – seguito da Sez. 4, n. 5064 del 06/11/2018, dep. 2019, Bonomi, Rv. 275118-01; Sez. 6, n. 17119 del 14/03/2019, P., Rv. 275898-01 – che predica l’illegalità non già della pena, bensì del trattamento sanzionatorio, ovvero del complessivo regime di attuazione della statuizione sulla pena, sul presupposto che un simile ampliamento del concetto di pena illegale «trasmoda rispetto ai termini di esso, andando a ricomprendere non solo la illegalità della sanzione in senso tecnico ma anche la illegittimità di taluno degli aspetti ad essa pena accessori, quali gli eventuali vizi dei termini della sua applicazione ovvero, [...] della sospensione della sua applicazione; una siffatta interpretazione, se appare conforme alla esegesi della espressione “trattamento sanzionatorio”, dovendo in esso ricomprendersi tutti gli aspetti legati alle modalità con le quali viene applicata la punizione derivante dalla trasgressione di una disposizione penale, non appare, invece, corrispondere al generalmente inteso concetto di pena illegale» (Sez. 3, n. 35485 del 23/04/2021, cit.).

6. L’illegalità “sostanziale” della pena.

Prima di concludere il percorso argomentativo posto a fondamento del principio di diritto affermato, le Sezioni Unite hanno inteso dissipare anche il dubbio in merito all’esistenza di un’autonoma ipotesi di «sostanziale illegalità» della pena, discendente dal carattere macroscopico dell’errore di calcolo, che distingue tra una pena illegale nella specie e/o nella quantità «senza alcuna giustificazione rinvenibile nella sentenza (frutto, cioè, di mero ed esclusivo errore macroscopico)» e una pena non illegale perché determinata all’esito di «un (per quanto discutibile o addirittura erroneo) apparato argomentativo» (Sez. 1, n. 20466 del 27/01/2015, Nardi, Rv. 263506-01; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879-01), sottolineando che nelle pronunce, intervenute in vicende riguardanti i poteri del giudice dell’esecuzione, al quale è precluso di modificare le erronee statuizioni del giudicato, la distinzione operata tra pena illegale, perché priva di alcuna giustificazione, e pena illegale, perché espressione di un erroneo apparato argomentativo, non definiscono ‹‹un diverso concetto di pena illegale, ma la condizione di esercizio del potere di intervento del giudice dell’esecuzione di fronte ad una pena illegale».

In conclusione, osservano le Sezioni Unite, «la macroscopicità dell’errore non è fattore costitutivo della illegalità della pena».

7. L’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e la sua natura.

Definito il concetto di pena illegale ab origine rispetto a quello di pena illegittima, i giudici del Supremo consesso si sono soffermati sulla natura della disposizione di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., e hanno richiamato quella giurisprudenza convenzionale (Corte EDU, sent. Scoppola c/Italia del 17/09/2009), costituzionale (sent. n. 210 del 2013; sent. n. 260 del 2020) e di legittimità (Sez. U., n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo, Rv. 189398-01; Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649-01; Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752-01; Sez. 4, n. 5034 del 15/01/2019, Lazzara, Rv. 275218-01; Sez. 2, n. 14068 del 27/02/2019, Selvaggio, Rv. 275772-01), secondo cui sussiste uno stretto collegamento tra la disciplina processuale e quella sostanziale, in ragione della ricaduta che la prima ha sulla tipologia e durata delle pene applicabili in caso di condanna.

Ad avviso del Supremo consesso, l’orientamento non si pone in contrasto con quella giurisprudenza che, ribadita la funzione di mero incentivo – sotto il profilo sia premiale che di rapida definizione dei procedimenti – accordata alla scelta del rito allo stato degli atti (Corte cost., sent. n. 284 del 1990; Corte cost., sent. n. 277 del 1990), ha sottolineato la non incidenza dalla diminuente processuale sulla legalità della pena (Sez. U., n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 18785-01; Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, Rv. 226595-01; Sez. 6, n. 58089 del 16/11/2017, Wu, Rv. 271954-01; Sez. U., n. 35852 del 22/02/2018, Cesarano, Rv. 273547-01; Sez. 2, n. 18558 del 20/02/2020, Larosa, Rv. 279147-01), in quanto, non attenendo «alla valutazione del fatto-reato e alla personalità dell’imputato, non contribuisce a determinare in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa, consistendo in un abbattimento fisso e predeterminato connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice» (Sez. U., n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace, Rv. 280539-01).

Nel dare atto della differente posizione assunta da Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, D’Onofrio, Rv. 271526-01, secondo cui «le norme del codice di procedura penale che regolano i riti premiali nella parte in cui disciplinano le riduzioni di pena devono essere intese come norme regolatrici di “sanzioni”», sicché «l’accesso ad un rito nei casi non consentiti con conseguente applicazione del premio sanzionatorio connesso configura una situazione in cui viene applicata una pena illegale», le Sezioni Unite hanno evidenziato che si tratta di una «affermazione che viene sostenuta con il richiamo ai principi espressi da Sez. U., Ercolano (e dalla correlata giurisprudenza convenzionale), dai quali non può ricavarsi che la rilevanza del profilo sostanziale della riduzione processuale vada oltre l’ambito della successione di leggi penali nel tempo».

Né, ad avviso delle Sezioni Unite, argomenti critici possono trarsi da Sez. U., n. 20214 del 27/03/2014, Frija, Rv. 259078-01, secondo cui ‹‹il rigetto o la dichiarazione d’inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato non subordinata a integrazioni istruttorie, quando deliberati illegittimamente, pregiudicano, oltre alla scelta difensiva dell’imputato, la sua aspettativa di una riduzione premiale della pena. Ne consegue il diritto dell’imputato, che abbia vanamente rinnovato la richiesta del rito prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di recuperare lo sconto sanzionatorio all’esito del giudizio. (Fattispecie in tema di richiesta di giudizio abbreviato formulata in udienza preliminare e dichiarata intempestiva in base a un’errata interpretazione del termine preclusivo)››, in quanto l’affermazione rimarcata nella pronuncia atteneva ad un contesto che, riguardando l’appellabilità dell’eventuale rinnovato rigetto del rito abbreviato condizionato da parte del giudice del dibattimento sotto il profilo dell’’illegalità’ della pena inflitta, non aveva la necessità di distinguere tra pena illegale e pena illegittima.

8. La pronunzia delle Sezioni Unite.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno condiviso l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la determinazione della pena operata non applicando o erroneamente applicando il criterio di riduzione previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. integra una violazione della legge processuale, sicché la pena risulta illegittima, ma non illegale (e Sez. 1, n. 28252 del 11/06/2014, Imparolato, Rv. 261091-01; Sez. 1, n. 22313 del 08/07/2020, Manto, Rv. 279455-01; Sez. 4, n. 6510 del 27/01/2021, Di Maria).

Alla luce della motivazione così riassunta è stato formulato il principio di diritto di cui innanzi e dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso la sentenza di conferma della condanna, emessa all’esito del giudizio abbreviato, ad una pena ridotta nella misura di un terzo, anziché della metà, per il reato di cui all’art. 186, commi 2, lett. b), e 2-sexies, d. lgs. n. 285 del 1992, sul presupposto che trattandosi di una pena illegittima, e non illegale, in quanto ricompresa entro i limiti stabiliti dal legislatore, la violazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non è rilevabile d’ufficio dal giudice di legittimità.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 1, n. 3048 del 15/10/1973, dep. 1974, Zulini, Rv. 126759-01;

Sez. 4, n. 3369 del 22/01/1985, Laranga, Rv. 168651-01;

Sez. 5, n. 6280 del 21/03/1985, De Negri, Rv. 169897-01;

Sez. 2, n. 11230 del 04/07/1985, Gioffrè, Rv. 171202-01;

Sez. U., n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 187851-01;

Sez. U., n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo, Rv. 189398-01;

Sez. U., n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239-01;

Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, Rv. 226595-01;

Sez. 5, n. 24926 del 03/12/2003, dep. 2004, Marullo, Rv. 229812-01;

Sez. U., n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229173-01;

Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 2306360-01;

Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Porreca, Rv. 242973-01;

Sez. U., n. 43055 del 30/09/2010, Dalla Serra, Rv. 248380-01;

Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763-01;

Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Torna, Rv. 253562-01;

Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879-01;

Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729-01;

Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684-01;

Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612-01;

Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651-01;

Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649-01;

Sez. U., n. 20214 del 27/03/2014, Frija, Rv. 259078-01;

Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697-01;

Sez. 1, n. 28252 del 11/06/2014, Imparolato, Rv. 261091-01;

Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108-01;

Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014, Tanzi, Rv. 260326-01;

Sez. U., n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327-01;

Sez. 1, n. 20466 del 27/01/2015, Nardi, Rv. 263506-01;

Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-06;

Sez. U., n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857-09;

Sez. U., n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106-01;

Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111-01;

Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, De Paola, Rv. 266080-01;

Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016, dep. 2017, Jomle, Rv. 268593-01;

Sez. 5, n. 51726 del 12/10/2016, Sale, Rv. 268639-01;

Sez. 2, n. 14307 del 14/03/2017, Musumeci, Rv. 269748-01;

Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, D’Onofrio, Rv. 271526-01;

Sez. 6, n. 58089 del 16/11/2017, Wu, Rv. 271954-01;

Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, C., Rv. 272090-01;

Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752-01;

Sez. U., n. 35852 del 22/02/2018, Cesarano, Rv. 273547-01;

Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018, dep. 2019, Elgendy, Rv. 276320-01;

Sez. 4, n. 5064 del 06/11/2018, dep. 2019, Bonomi, Rv. 275118-01;

Sez. 4, n. 5034 del 15/01/2019, Lazzara, Rv. 275218-01;

Sez. 5, n. 23911 del 20/02/2019, Calogiuri;

Sez. 2, n. 14068 del 27/02/2019, Selvaggio, Rv. 275772-01;

Sez. 6, n. 17119 del 14/03/2019, P., Rv. 275898-01;

Sez. 4, n. 17221 del 02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714-01;

Sez. 3, n. 38474 del 31/05/2019, Lasalvia, Rv. 276760-01;

Sez. 5, n. 13787 del 30/01/2020, Ottoni, Rv. 279201-01;

Sez. 5, n. 15817 del 18/02/2020, Di Rocco, Rv. 279252-01;

Sez. 1, n. 22313 del 08/07/2020, Manto, Rv. 279455-01;

Sez. U., n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace;

Sez. 4, n. 6510 del 27/01/2021, Di Maria, Rv. 280946-01;

Sez. 3, n. 34077 del 31/03/2021, Xu Dexiang;

Sez. 3, n. 35485 del 23/04/2021, P., Rv. 281945-01;

Sez. 4, n. 24897 del 18/05/2021, Bara, Rv. 281488-01;

Sez. 2, n. 28306 del 25/06/2021, Perrella, Rv. 281804-01;

Sez. 4, n. 38633 del 05/10/2021, Cavina;

Sez. 4, n. 37820 del 12/10/2021, Veru;

Sez. 2, n. 46765 del 09/12/2021, Bruno, Rv. 282322-01.

Sentenze della Corte Costituzionale:

C. cost., n. 15 del 1962;

C. cost., n. 67 del 1963;

C. cost., n. 62 del 1966;

C. cost., n. 104 del 1968;

C. cost., n. 131 del 1970;

C. cost., n. 50 del 1980;

C. cost., n. 277 del 1990;

C. cost., n. 282 del 1990;

C. cost., n. 284 del 1990;

C. cost., n.23 del 1992;

C. cost., n. 299 del 1992;

C. cost., n. 447 del 1998;

C. cost., n. 210 del 2013;

C. cost., n. 149 del 2018;

C. cost., n. 222 del 2018;

C. cost., n.260 del 2020;

C. cost., n. 63 del 2022.

Sentenze della Corte EDU:

Kokkinakis c. Grecia n. 14307/88;

Scoppola c. Italia n.10249/03;

Kafkaris c. Cipro nn. 24027/07, 11949/08, 36742/08, 66911/09 e 67354/09;

Del Rio Prada c. Spagna n. 42750/09;

Camilleri c. Malta n. 42931/10.

  • procedura penale
  • circostanza aggravante
  • circostanza attenuante
  • esecuzione della pena

CAPITOLO III

LA PENA DETERMINATA A SEGUITO DELL’ERRONEA APPLICAZIONE DEL GIUDIZIO DI COMPARAZIONE TRA CIRCOSTANZE ETEROGENEE CONCORRENTI É ILLEGALE SOLO NEL CASO IN CUI SI DISCOSTI DAI LIMITI EDITTALI STABILITI DAL LEGISLATORE

(di Michele Toriello )

Sommario

1 La questione controversa e gli orientamenti contrapposti. - 2 La pronuncia delle Sezioni unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa e gli orientamenti contrapposti.

Nel febbraio del 2022 è stata rimessa alle Sezioni unite, da parte della Quinta sezione penale, una nuova questione relativa alla perimetrazione della nozione - mai definita normativamente - di “pena illegale”.

I giudici rimettenti, chiamati a scrutinare il ricorso per cassazione presentato avverso una sentenza di applicazione della pena, avevano rilevato che l’imputato, recidivo, tratto a giudizio per rispondere del delitto di furto pluriaggravato (gli erano state contestate ben quattro circostanze: l’aver approfittato di condizioni di minorata difesa; l’aver agito in almeno tre persone; l’aver agito in edificio destinato a pubblico servizio; l’ingente valore della refurtiva), aveva definito la propria posizione con l’applicazione di una pena calcolata in maniera erronea: ed invero, gli erano state riconosciute le circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza che, tuttavia, era stato limitato alla sola recidiva.

L’imputato si era, pertanto, doluto dell’impropria esclusione dal giudizio di bilanciamento delle altre circostanze aggravanti, e, dunque, della illegalità della pena finale, parametrata alla ben più severa cornice edittale prevista dall’art. 625, comma secondo, cod. pen. per il delitto di furto pluriaggravato (reclusione da tre a dieci anni, multa da € 206 ad € 1.549), piuttosto che a quella, che sarebbe venuta in rilievo ove il giudizio di equivalenza fosse stato esteso a tutte le circostanze in comparazione, prevista per il furto semplice dall’art. 624, comma primo, cod. pen. (reclusione da sei mesi a tre anni, multa da € 154 ad € 516).

Rilevata la palese violazione, da parte del giudice di merito, delle regole codicistiche che, in caso di concorso di circostanze eterogenee, non consentono di limitare il giudizio di bilanciamento solo ad alcune di esse (salvo il caso, non ricorrente nella specie, delle circostanze privilegiate), i giudici rimettenti si sono interrogati sulla possibilità di iscrivere il caso di specie nell’ultimo dei possibili motivi di ricorso per cassazione elencati dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.: quello afferente l’illegalità della pena.

Nell’ordinanza di rimessione si illustra che le Sezioni unite hanno, negli ultimi anni, individuato ipotesi di pena illegale ulteriori rispetto al “classico” caso della pena di specie diversa da quella prevista dalla legge, ovvero superiore o inferiore, per quantità, ai limiti edittali: si è, dunque, ritenuta illegale anche la pena connotata da un deficit di proporzione tra illecito e sanzione, conseguente all’applicazione di norme sostanziali successivamente dichiarate incostituzionali (Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-01/264207-01), ovvero successivamente sostituite da norme più favorevoli al reo (Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110-01/265111-01); tuttavia, nelle sue due più recenti pronunce in argomento (Sez. U., n. 40986 del 19/7/2018, Pittalà, Rv. 273934-01; Sez. U., n. 21368 del 26/9/2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348-01), il massimo collegio nomofilattico ha rimarcato che, nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, l’accordo si forma sulla sanzione finale, e non sulle operazioni attraverso le quali essa viene calcolata, e che, dunque, non può reputarsi illegale la sanzione che risulti complessivamente legittima, pur se viziata da un errore di calcolo.

Si illustra, altresì, che, «a fronte di una nozione di illegalità della pena che le Sezioni Unite tendono ad estrarre “in purezza”», la giurisprudenza delle sezioni semplici ha dato una risposta tutt’altro che univoca alle diverse questioni di illegalità, invocate a norma dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., afferenti a vizi dei passaggi intermedi del procedimento di determinazione della pena finale.

Ed invero, l’orientamento più rigoroso, ad avviso del quale l’errore di calcolo non può di per sé solo rendere illegale la pena (Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019, Rosettani, Rv. 275915-01; Sez. 5, n. 51736 del 12/10/2016, Lopis, Rv. 268850-01; Sez. 5, n. 15413 del 28/01/2020, Rama, Rv. 279080-01), è avversato dalle pronunce che, in epoca recente, hanno annullato senza rinvio le sentenze impugnate: Sez. 4, n. 10688 del 05/03/2020, Tonoli, Rv. 278970-01, relativa ad un caso di omesso aumento della pena base per la continuazione con gli altri reati in contestazione, e Sez. 6, n. 4726 del 20/01/2021, Casati, Rv. 280875-01, relativa ad un caso in cui l’aumento della pena base per la continuazione, nei confronti di imputato recidivo reiterato, era stato calcolato in misura inferiore a quella imposta dalla legge.

I giudici rimettenti hanno, da ultimo, rilevato che il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità si è riverberato anche sul caso - oggetto del ricorso scrutinato - dell’applicazione di una pena calcolata sulla base di un giudizio di comparazione delle circostanze eterogenee effettuato in violazione dell’art. 69, comma terzo, cod. pen.: mentre Sez. 5, n. 9818 del 27/01/2021, Santese, Rv. 280626-01, e Sez. 5, n. 24054 del 23/05/2014, Restaino, Rv. 259894-01, hanno ritenuto l’illegalità della pena, Sez. 6, n. 28031 del 27/04/2021, Di Bernardo, Rv. 282104-01, e Sez. 5, n. 19757 del 16/04/2019, Bonfiglio, Rv. 276509-01, hanno ritenuto estraneo al perimetro applicativo dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. il caso della pena che, pur se viziata dall’errore che ne ha inquinato il calcolo, sia comunque corrispondente, per specie e quantità, a quella prevista dalla fattispecie incriminatrice.

Il ricorso è stato, conseguentemente, rimesso alle Sezioni Unite, in ordine al seguente quesito: «se configuri “pena illegale”, ai fini del sindacato di legittimità sul patteggiamento, quella fissata sulla base di un’erronea applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, in violazione del criterio unitario previsto dall’art. 69, comma terzo, cod. pen.».

2. La pronuncia delle Sezioni unite.

Sez. U., n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886-01, ha risolto il contrasto giurisprudenziale, enunciando il principio di diritto che è stato così massimato: «La pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonché 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge.(Fattispecie relativa a procedimento di applicazione della pena)».

Le Sezioni unite hanno preliminarmente rilevato che la sentenza impugnata ha violato le disposizioni codicistiche sul carattere unitario del giudizio di bilanciamento, che deve riguardare tutte le circostanze contestate e ritenute dal giudice, non essendo consentito di limitarlo ad una o soltanto ad alcune di esse.

Hanno, poi, illustrato i due orientamenti che hanno generato il contrasto.

Ad avviso del primo, la legalità della pena patteggiata, in relazione all’osservanza dei limiti edittali, «va valutata considerando non soltanto la pena conclusivamente determinata, ma anche i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione (tra i quali rientrano anche quelli inerenti al bilanciamento delle circostanze eterogenee concorrenti)»; il principio è stato affermato tanto in relazione ad errori che avevano portato «all’applicazione di una pena la cui ritenuta illegalità costituiva oggettiva conseguenza delle valutazioni effettuate, o comunque dell’omissione di valutazioni che sarebbero state vincolate, e non meramente discrezionali» (ad esempio: un aumento per la recidiva o per la continuazione inferiore a quello prescritto dalla legge; una pena base computata in misura inferiore al minimo edittale; un giudizio di bilanciamento effettuato in violazione delle regole codicistiche), quanto in relazione ad «errori che avevano portato all’applicazione di una pena la cui illegalità era meramente eventuale, perché condizionata all’esito di valutazioni doverose, ma omesse, per essere stato operato il giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti e soltanto alcune delle circostanze aggravanti concorrenti» (come nel caso delle sopra citate sentenze Restaino e Santese).

Secondo altro orientamento, invece, «l’illegalità della pena va determinata avendo riguardo alla pena finale applicata, non anche ai passaggi intermedi che portano alla sua determinazione, poiché soltanto il risultato finale delle predette operazioni di computo della pena costituisce espressione ultima e definitiva dell’incontro delle volontà delle parti»: sarebbe, dunque, illegale solo la pena non corrispondente, per specie o per quantità, a quella astrattamente prevista dalla fattispecie incriminatrice, sicché, rispettata questa condizione, rimarrebbe ininfluente, ai fini che qui rilevano, la violazione delle regole dettate in tema di bilanciamento delle circostanze, ovvero di quelle relative all’aumento della pena per la continuazione tra i reati.

Dopo aver osservato che analoga dicotomia interpretativa è configurabile anche in relazione alla sentenza che abbia ratificato il concordato in appello ex art. 599-bis cod. proc. pen., le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover aderire al secondo degli orientamenti illustrati.

Nelle motivazioni della sentenza si evidenzia che la disciplina recentemente introdotta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 - che ha, tra l’altro, inserito il comma 2-bis nell’art. 448 cod. proc. pen. - persegue finalità deflattive perfettamente coerenti con le peculiarità del procedimento di applicazione della pena: ed invero, «il consenso prestato dall’imputato, personalmente o a mezzo procuratore speciale, all’applicazione della pena in relazione al fatto-reato contestato, correttamente qualificato, rende superfluo lo svolgimento di un giudizio di impugnazione “a cognizione piena”»; ciò nondimeno, l’applicazione di una pena illegale non può ritenersi «sic et simpliciter legittimata dall’intervenuto consenso dell’imputato», trattandosi, al contrario, proprio di uno dei residui casi nei quali la sentenza può essere impugnata davanti ai giudici di legittimità.

Ricostruendo i caratteri e l’esatto perimetro della pena illegale, le Sezioni Unite hanno messo in luce che «Il principio di legalità della pena informa di sé tutto il sistema penale, vale sia per le pene detentive che per le pene pecuniarie, e comporta che pena legale sia soltanto quella prevista dall’ordinamento giuridico e non eccedente, per genere, specie o quantità, il limite legale; esso opera sia in fase di cognizione che di esecuzione, e vieta l’esecuzione di una pena (anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria) che non trovi fondamento in una norma di legge, perché avulsa da una pretesa punitiva dello Stato», e che la legalità della pena è un valore garantito, dall’art. 1 cod. pen., dall’art. 25, comma secondo, e dall’art. 27, comma terzo, Cost., nonché, a livello sovranazionale, dall’art. 7, § 1, della Convenzione EDU, dall’art. 49 della Carta di Nizza e dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881.

Ciò posto, le Sezioni Unite hanno evidenziato che «attraverso la predeterminazione di limiti astratti per ciascuna specie di pena, e di limiti edittali riferibili a ciascun reato, il legislatore fissa - per ciascuna pena e per ciascun reato - il minimum cui possa riconoscersi concreta valenza rieducativa ed il limite massimo oltre il quale la pena perderebbe la predetta valenza e si risolverebbe nell’inflizione di una mera e non rieducativa sofferenza»: sono, dunque, questi i confini della pena illegale, nel senso che è certamente tale la pena che non corrisponde, per specie ovvero per quantità (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal codice penale, mentre tale non è la pena che, pur se inficiata da «un vizio nell’iter di determinazione della sua entità», si mantenga entro la cornice edittale, addivenendo ad un risultato dosimetrico al quale «sarebbe stato possibile giungere attraverso diversa modulazione dei vari passaggi intermedi».

Dunque, facendo propri alcuni passaggi motivazionali di alcune sue recenti pronunce (le sentenze Savini, Miraglia e Savin), le Sezioni unite hanno ribadito che «nell’ambito della categoria dell’illegalità della pena, non rientra la sanzione che risulti conclusivamente legittima, pur essendo stata determinata seguendo un percorso argomentativo viziato», e che la violazione da parte del giudice delle regole che disciplinano l’uso del potere commisurativo pone, quando risulti comunque rispettata la dosimetria predeterminata dal legislatore, non una questione di legalità, ma di semplice legittimità della pena: come già osservato dalla sentenza Savini, «gli errori nell’applicazione delle diverse discipline che entrano in gioco nella commisurazione della pena danno luogo ad una pena illegale solo se la risultante (ovvero la pena indicata in dispositivo) è per genere, specie o per valore minimo o massimo diversa da quella che il legislatore ha previsto per il tipo (o sottotipo) astratto al quale viene ricondotto il fatto storico reato. Fuori da tale caso, la pena è illegittima, ove commisurata sulla base della errata applicazione della legge o non giustificata secondo il modello argomentativo normativamente previsto».

La sentenza Sacchettino ha concluso la propria disamina riassumendo e schematizzando gli approdi delle più recenti elaborazioni delle Sezioni Unite: «In continuità con il proprio consolidato orientamento, che si pone in armonia con il principio di legalità della pena come costituzionalizzato e come altresì riconosciuto dalle fonti sovranazionali, le Sezioni Unite ribadiscono, pertanto, ancora una volta, che “pena legale” è quella:

- del genere e della specie predeterminati dal legislatore entro limiti ragionevoli;

- comminata da una norma (sostanzialmente) penale, vigente al momento della commissione del fatto-reato, o, se sopravvenuta rispetto ad esso, più favorevole di quella anteriormente prevista;

- determinata dal giudice, nel rispetto della cornice edittale, all’esito di un procedimento di individualizzazione che tenga conto del concreto disvalore del fatto e delle necessità di rieducazione del reo.

“Pena illegale” è, conseguentemente, quella che si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, perché diversa per genere, per specie o per quantità da quella positivamente prevista».

La pena può, dunque, essere illegale solo perché di genere o di specie diversa da quella predeterminata dal legislatore, ovvero perché la dosimetria non si rispecchia, per eccesso o per difetto, in quella risultante dalle norme sostanziali.

A tale ultimo proposito, la sentenza in commento ha ulteriormente chiarito che «Quanto all’individuazione delle ipotesi di pena illegale per quantità (sia in difetto che in eccesso), deve farsi riferimento:

- sia alla misura stabilita per ciascuna pena dagli artt. 23 e seguenti del codice penale, nonché, a fronte del concorso di più circostanze aggravanti, dagli artt. 65 e seguenti del codice penale, ed, in presenza del concorso di più reati, dagli artt. 71 e seguenti, dello stesso codice;

- sia ai limiti edittali minimi e massimi fissati in astratto da ciascuna norma penale incriminatrice.

Non è, pertanto, illegale la pena conclusivamente corrispondente per genere, specie e quantità a quella legale, anche se determinata attraverso un percorso argomentativo viziato da una o più violazioni di legge: gli errori relativi ai singoli passaggi interni che conducono alla determinazione della pena risultano, infatti, privi di rilievo, ove non abbiano comportato la conclusiva irrogazione di una pena illegale nel senso in precedenza indicato».

Calando questi principi al caso di specie, quello del delitto circostanziato, se ne ricava che la pena legale è quella ricompresa tra il «minimo della pena prevista per la fattispecie attenuata» ed il «massimo della pena prevista per la fattispecie aggravata. Soltanto in presenza della violazione dei predetti limiti la pena in concreto irrogata dal giudice risulterebbe “illegale”; diversamente, la pena determinata entro i predetti limiti, ma in violazione delle disposizioni dettate dall’art. 69 cod. pen. risulterebbe meramente “illegittima”, ma non anche “illegale”».

La sentenza Sacchettino ha, infine, chiarito che i principi in tema di pena illegale devono necessariamente trovare applicazione anche in relazione alle sentenze ex art. 444 cod. proc. pen., nelle quali la pena «viene applicata in attuazione di un accordo che si forma non tanto sulle operazioni di computo attraverso le quali la pena indicata viene determinata, bensì sul risultato finale delle predette operazioni, ovvero sulla pena della quale si chiede conclusivamente l’applicazione. Dalla natura negoziale dell’accordo sulla pena e dall’individuazione del relativo oggetto (il “risultato finale”) discende una evidente ricaduta sul piano della sindacabilità, in riferimento alla determinazione della pena stessa, della sentenza di “patteggiamento”: la generale irrilevanza degli errori relativi ai vari “passaggi” attraverso i quali si giunge al “risultato finale”, a meno che essi non comportino l’applicazione di una pena illegale. Può, quindi, concludersi che anche nel “patteggiamento” non rilevano, se non si traducono in una pena illegale, gli errori relativi ai singoli passaggi interni per la determinazione della pena concordata, tra i quali gli errori compiuti nell’iter di determinazione della pena base».

All’affermazione del principio di diritto secondo cui «la pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge», ha fatto, così, seguito la declaratoria di inammissibilità del ricorso, avendo l’imputato dedotto un vizio del procedimento commisurativo che ha portato all’applicazione di una pena semplicemente illegittima, in quanto, nonostante il palese errore di diritto che ne ha inficiato l’iter determinativo, essa risulta, per un verso, «rispettosa dei limiti astrattamente previsti per la reclusione dall’art. 23 cod. pen. (da quindici giorni a ventiquattro anni) e per la multa dall’art. 24 cod. pen. (da cinquanta a cinquantamila euro)», e, per altro verso, ricompresa «nell’ambito della cornice edittale prevista dall’art. 625, comma secondo, cod. pen. (reclusione da tre a dieci anni e multa da duecentosei a millecinquecentoquarantanove euro)».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze Corte di cassazione:

Sez. 5, n. 24054 del 23/05/2014, Restaino, Rv. 259894-01;

Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-01;

Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207-01;

Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110-01;

Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111-01;

Sez. 5, n. 51736 del 12/10/2016, Lopis, Rv. 268850-01;

Sez. U., n. 40986 del 19/7/2018, Pittalà, Rv. 273934-01;

Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019, Rosettani, Rv. 275915-01;

Sez. 5, n. 19757 del 16/04/2019, Bonfiglio, Rv. 276509-01;

Sez. 4, n. 10688 del 05/03/2020, Tonoli, Rv. 278970-01;

Sez. 5, n. 15413 del 28/01/2020, Rama, Rv. 279080-01;

Sez. U., n. 21368 del 26/9/2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348-01;

Sez. 5, n. 9818 del 27/01/2021, Santese, Rv. 280626-01;

Sez. 6, n. 4726 del 20/01/2021, Casati, Rv. 280875-01;

Sez. 6, n. 28031 del 27/04/2021, Di Bernardo, Rv. 282104-01;

Sez. U., n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886-01.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE VII - IMPUGNAZIONI

  • giudice
  • procedura penale
  • esecuzione della pena

CAPITOLO I

LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI PENA ILLEGALE: LA SENTENZA MIRAGLIA

(di Stefania Riccio )

Sommario

1 Premessa. - 2 I termini del contrasto giurisprudenziale. - 3 I rapporti tra ricorso inammissibile e cause di non punibilità. I contributi delle Sezioni Unite pregresse. - 4 La pena geneticamente illegale. Poteri della Corte di cassazione. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Ad aprire la terna delle decisioni con cui, nell’anno decorso, le Sezioni Unite hanno ricostruito in una prospettiva di sistema la nozione di pena illegale, esaminandone alcune delle più rilevanti - e divisive - implicazioni processuali, è la sentenza n. 38809 del 31 marzo 2022, Miraglia, Rv. 283689-01, da cui è stato estratto il principio di diritto così massimato: “Spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., il potere, esercitabile anche in presenza di ricorso inammissibile, di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione “ab origine” contraria all’assetto normativo vigente perché di specie diversa da quella di legge o irrogata in misura superiore al massimo edittale.(Fattispecie relativa ad irrogazione della pena detentiva per il reato di cui all’art. 582 cod. pen., in luogo delle sanzioni previste, per i reati di competenza del giudice di pace, dall’art. 52, d.lgs. n. 274 del 2000)”.

La questione, rimessa alle Sezioni Unite dalla Quinta Sezione, attiene allo spazio cognitivo del giudice di legittimità in relazione alla illegalità c.d. genetica della pena e ha avuto impulso dai contrasti interpretativi maturati nella giurisprudenza quanto al rapporto tra cause di inammissibilità del ricorso per cassazione e rilevabilità d’ufficio della pena illegale.

Nella vicenda in scrutinio, in cui era stata irrogata dai giudici di merito la pena della reclusione per il reato di lesioni, in luogo delle sanzioni tipizzate dall’art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 peri reati devoluti alla competenza del giudice di pace, la violazione di legge non era stata dedotta tra i motivi di ricorso che, tempestivamente proposto dall’imputato, risultava tuttavia inammissibile. Sulla specificità della fattispecie è stato dunque calibrato il quesito: “se, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa”.

Un quesito selettivo, dunque, focalizzato sui rapporti tra le preclusioni processuali correlate al principio devolutivo, così come declinato nel giudizio per cassazione, in cui il thema decidendum è delimitato dai vizi del provvedimento impugnato ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., e i poteri di rilievo officioso previsti dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen.; un quesito che solo lambisce, senza alcuna pretesa di esaurirlo, il tema ampio e divisivo della illegalità della pena, qui valutato limitatamente alla ipotesi di illegalità della sanzione per contrarietà all’assetto normativo vigente.

2. I termini del contrasto giurisprudenziale.

Venendo ai termini dell’alternativa, un primo e più risalente indirizzo escludeva la rilevabilità di ufficio della illegalità della pena in presenza di ricorso inammissibile, sul presupposto logico-giuridico che l’esistenza di una causa di inammissibilità precluda la formazione di un valido rapporto di impugnazione, così da inibire la cognizione del giudice superiore (in tal senso, Sez.5, n. 1341 del 13/12/2003, dep. 2004, Marvullo, Rv. 229812-01, e Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 230636-01; Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612-01).

Un diverso orientamento argomentava che l’istanza di porre rimedio ad una pena illegalmente determinata fosse prevalente pure in carenza dei requisiti di ammissibilità del ricorso e legittimasse l’attivazione dei poteri di rilievo officioso che competono alla Corte ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220-01; Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693-01; Sez. 5, n. 24128del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763-01; Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108-01; Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018, dep. 2019, Elgendy, Rv. 276320-01; Sez. 4, n. 17221 del02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714-01).

In tale scenario – osservano le Sezioni Unite - specialmente alcuni arresti hanno offerto significativi approfondimenti sullo specifico tema della pena illegalmente determinata in relazione ai reati di competenza del giudice di pace, che ripropongono la medesima divaricazione diposizioni teoriche.

Secondo una prima linea interpretativa, espressa da Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016, dep. 2017,Jomle, Rv. 268593-01, occorre considerare il portato di:

- Sez. U., n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106-07-08-09, per cui l’errore non è emendabile in fase esecutiva, giacché, con riferimento a detti reati, è l’intero modello sanzionatorio a dover essere rielaborato, implicando la rimodulazione scelte tra soluzioni alternative per specie (multa, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità) e quantità, che richiedono l’appezzamento complessivo di tutti i parametri commisurativi, con la conseguenza che la rideterminazione non sarebbe un’operazione “matematicamente scontata”, bensì un nuovo giudizio, eccentrico rispetto allo spazio di manovra del giudice della esecuzione;

- Sez. U., n. 46653, 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110-1, per cui il trattamento sanzionatorio migliorativo, conseguente a successione di leggi, va applicato pur in presenza di un ricorso che sia inammissibile per qualunque ragione, tranne che per tardività.

Leggendo tali coeve decisioni in una prospettiva unitaria, la sentenza Jomle costruisce il seguente sillogismo argomentativo: 1) l’errore nell’applicazione della pena relativa ai reati di competenza del giudice di pace non può trovare rimedio in fase esecutiva; 2) l’unica ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione che impedisce di emendare ex officio la pena illegale è quella dovuta alla tardività della sua presentazione; 3) ergo, non vi sono ragioni ostative al rilievo d’ufficio della illegalità della sanzione da parte del giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto.

Al medesimo filone si ascrivono Sez. 5, n. 51726 del 12/10/2016, Sale, Rv. 268639-01 e Sez. 5, n.13787 del 30/01/2020, Ottoni, Rv. 279201-01, per le quali le pene erroneamente determinate peri reati in questione sono suscettibili di modifica pur quando l’inammissibilità del ricorso derivi, rispettivamente, da manifesta infondatezza o dalla proposizione di motivi non consentiti.

In consapevole dissenso rispetto a tale opzione esegetica si pongono, invece, Sez. 5, n. 15817del 18/02/2020, Di Rocco, Rv. 279252-01 e la conforme Sez. 5, n. 41172 del 25/09/2019, Stigliano, le quali escludono la generica rilevabilità di ufficio della illegalità della pena detentiva applicata in luogo delle sanzioni previste dal giudice di pace, evidenziando come le varie ipotesi di difformità dal tipo legale non possano essere considerate come una unitaria categoria concettuale, ed equiparate a tali fini, così svilendo l’ontologica diversità tra situazioni tra loro eterogenee. Alcuna reductio ad unum è possibile, invero, tra la illegalità della pena come originariamente inflitta e le ipotesi, di cui si sono via via occupate - come vedremo – le Sezioni Unite dell’ultimo decennio, di pene “divenute” illegittime per fatti sopravvenuti, quali l’abolitio criminis, le modifiche normative migliorative cadute su norme diverse da quelle incriminatrici ma comunque incidenti sul trattamento sanzionatorio, la declaratoria di illegittimità costituzionale.

Per tali arresti, soprattutto i limiti individuati da Sez. U Butera alla possibilità di emendare la pena illegale in executivis costituiscono ostacolo al rilievo officioso del vizio in sede di legittimità.

3. I rapporti tra ricorso inammissibile e cause di non punibilità. I contributi delle Sezioni Unite pregresse.

Al fine di dirimere la delineata contrapposizione, le Sezioni Unite in esame si muovono su un duplice piano.

In primis, considerano la complessa elaborazione teorica, scandita da plurimi arresti di nomofilachia, sul rapporto che si instaura tra ricorso inammissibile e le cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen., e ciò in ragione della tendenza ad assimilare ad esse, per analogia, il rilievo della pena illegale (Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693-01).

Dalle pronunce sul tema si desume che tale rapporto è stato ricostruito in termini di regola a eccezione, prevalendo in linea di massima la inammissibilità, salvo specifiche ipotesi derogatorie; ciò perché l’art. 129 cod. proc. pen. non è norma che rivesta una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità e, soprattutto, non attribuisce al giudice dell’impugnazione uno spazio decisorio autonomo, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, quanto piuttosto cristallizza una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura, presupponendo la proposizione di una impugnazione valida.

Degno di attenzione, al riguardo il contributo di riflessione di Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015,dep. 2016, Ricci, Rv. 266818-01, le quali, nel sancire che l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente di rilevare d’ufficio l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso, hanno ritenuto che la verifica negativa di ammissibilità abbia valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi indagine di merito ed impedisca il dispiegarsi dell’effetto devolutivo ope legis. La sentenza Ricci costituisce, al proposito, l’approdo di una serie di decisioni che hanno consentito il superamento del dualismo - retaggio del regime delle impugnazioni del codice del 1930 - tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute del ricorso, favorendone la ricomposizione in una categoria sostanzialmente unitaria. In un più risalente passato, Sez. U., n. 21 del 11/11/1994, Cresci, Rv. 199903-01, ribadite da Sez.U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211469-01, avevano ritenuto che un atto di impugnazione carente dei requisiti formali tipizzati dall’art. 581 cod. proc. pen. precludesse ab origine l’instaurarsi di un valido rapporto di impugnazione e l’avvio della corrispondente fase processuale, così da impedire al giudice di dichiarare eventuali cause di non punibilità; solo l’atto impugnatorio conforme al paradigma di cui all’art. 581 cit. - si era affermato – ha forza propulsiva per l’accesso all’ulteriore grado di giudizio, con la conseguenza che le altre cause di inammissibilità tipizzate, quali i motivi di ricorso diversi da quelli consentiti, o manifestamente infondati, o concernenti violazioni di legge non dedotte in appello (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.), dovessero, invece, considerarsi sopravvenute e non ostative al rilievo delle cause di non punibilità ex art. 129 cod. proc. pen.

Successivamente, una sequenza di decisioni ha progressivamente ampliato il ventaglio delle cause di inammissibilità che impediscono il rilievo della non punibilità, in armonia con la disciplina positiva, sostanzialmente uniforme, della struttura del ricorso per cassazione, così da favorire il superamento della residuale dicotomia.

In tale linea evolutiva Sez. U., n. 15 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981-01, ritennero ostativi al rilievo delle cause di non punibilità tutti i casi enunciati dall’art. 591 cod. proc. pen. (ad eccezione della rinuncia all’impugnazione) e quelli di inammissibilità ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen.,con esclusione della ipotesi di inammissibilità per manifesta infondatezza, la quale comporta, diversamente dalle altre, un’incursione nell’area delle statuizioni di merito e comunque uno scrutinio di tipo contenutistico del ricorso.

In progressione, Sez. U., n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531-01 e Sez. U., n. 32 del02/11/2000, D. L., Rv. 217266-01 e Sez. U n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164-01, in tema di prescrizione, stimarono essere impeditive dell’operatività ex officio di tale causa estintiva tanto la manifesta infondatezza del ricorso, quanto la aspecificità dei motivi (nella specie, limitati alla sola deduzione della maturata prescrizione) posti a suo fondamento, in quanto anche esse tali da deprivare l’atto di critica della forza propulsiva necessaria per l’accesso all’ulteriore grado.

Le Sezioni Unite Ricci, all’esito di questo lungo percorso evolutivo, hanno ribadito la necessità di distinguere la duplice dimensione del giudicato. Al verificarsi delle cause di inammissibilità si concretizza il giudicato sostanziale, che rende il provvedimento intangibile; la successiva declaratoria di inammissibilità da parte del giudice ad quem è meramente ricognitiva di una situazione già esistente e cristallizza il giudicato formale, determinando la irrevocabilità della sentenza, che apre la fase esecutiva. In un’ottica sostanzialista della dinamica impugnatoria, tale ricostruzione attua un ragionevole contemperamento tra favor impugnationis, da una parte, e necessità, dall’altra, che il ricorso sia conforme all’archetipo normativo e non invece servente al fine di procrastinare la formazione del titolo esecutivo, mediante la prospettazione di censure meramente strumentali o pretestuose.

Sotto diverso profilo, le odierne Sezioni Unite rilevano come, a fronte di un percorso che ha finito con l’assegnare centralità al giudicato - nel quale sono insite ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici - siano emerse insopprimibili istanze di “flessibilizzazione” della sua intangibilità (v. Corte cost. n. 210 del 2013), al fine di garantire altri confliggenti valori, anch’essi dotati di dignità costituzionale, ai quali il legislatore ha inteso assicurare il primato. Tali istanze si sono poste in modo particolarmente pregnante con riferimento alla legalità della pena, sia pure riguardata nella peculiare declinazione della illegalità c.d. sopravvenuta, derivante, cioè, dalla illegittimità costituzionale di norme e/o da mutamento normativo in melius, successivi alla definizione del giudizio di cognizione.

Appartengono a questo ambito di pronunce, che hanno proseguito l’opera di revisione critica del “dogma” della intangibilità del giudicato, anzitutto Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651-01 e Rv. 258649-01, pronunciatesi in relazione all’esecuzione di una sanzione penale irrogata con giudizio abbreviato, divenuta illegale in rapporto all’art. 7, § 1,della Convenzione Edu (come accertato da Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia),per effetto di una modifica normativa sopravvenuta.

Pur nel riconoscimento della innegabile portata valoriale del giudicato, alla cui stabilità fisiologicamente ambisce la giurisdizione, in tale pronuncia le Sezioni Unite osservarono che va nondimeno garantita la conformità a legge della pena, a partire dalla sua irrogazione e fino alla completa espiazione, giacché il rapporto esecutivo permane sub iudice sino a tale momento, ed il meccanismo di adeguamento non può trovare ostacolo nel dato formale della c.d. “situazione esaurita”.

Il giudicato, già simbolo di una visione autoritaria del potere punitivo statuale, deve allora cedere rispetto alla “più alta valenza fondativa dello statuto della pena”. Se la sua forza di resistenza –che, tradotta nel divieto di bis in idem, ha anch’essa una funzione di garanzia individuale –permane integra quanto all’accertamento del fatto, ciò non toglie che essa possa, e anche debba, diventare recessiva quanto alla determinazione della pena, a fronte di “evidenti e pregnanti compromissioni in atto del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà della persona.

Su tale sostrato teorico, le Sezioni Unite Ercolano teorizzarono, dunque, l’ammissibilità di un intervento in executivis sulla pena diretto a rimuovere eventuali effetti, ancora perduranti, della sua illegalità.

Nella medesima prospettiva assiologica, di bilanciamento tra i valori sottesi al giudicato ed altri diritti costituzionalmente protetti, Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697-01, Rv. 260695-01 e 260700-01, stabilirono che alla rimodulazione della pena, ove debba provvedersi alla rimozione degli effetti pregiudizievoli incidenti sul trattamento sanzionatorio che trovino la propria scaturigine in una norma dichiarata incostituzionale, sebbene diversa da quella incriminatrice, e sempre che non si tratti di effetti irreversibili perché esauriti, deve attendere il giudice dell’esecuzione, e ciò anche nel caso in cui il provvedimento “correttivo” da adottare non abbia contenuto rigidamente predefinito, bensì implichi penetranti poteri di accertamento e di valutazione.

Una comune matrice con le menzionate decisioni evidenziano Sez. U., n. 26259 del 29/10/2015,dep. 2016, Mraidi, Rv. 266872-01, le quali, a proposito del rapporto tra giudicato e abolitio criminis, sostennero che l’irrevocabilità della sentenza che non abbia rilevato la intervenuta abrogazione della norma incriminatrice non è ostativa alla revoca, in fase esecutiva, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen.

Tali arresti, rafforzativi piuttosto della valenza di garanzia individuale del giudicato, si saldano idealmente con Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111-01, le quali sancirono il diritto dell’imputato, in caso di successione di norme, ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., anche nel caso di ricorso inammissibile ed a prescindere dall’articolazione di un motivo inerente al trattamento sanzionatorio, nonché con le coeve Sez. U n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205-06.

Da questo trend di progressiva espansione, per via pretoria, dei margini di intervento post rem iudicatam per ripristinare la legalità della pena, si deduce come tale finalità ben possa legittimare l’erosione del giudicato sostanziale. Orientano in tal senso la vocazione rieducativa della sanzione penale, che ne costituisce il tratto identitario ex art. 27 Cost., nonché i correlati principi costituzionali e convenzionali di uguaglianza e proporzionalità. Come osservato dal Giudice delle leggi, il finalismo rieducativo di cui all’art. 27 Cost. implica, difatti, l’osservanza costante del “principio di proporzione” tra qualità/quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra, ed è tale rapporto proporzionale, riflesso del principio di uguaglianza, a tenere in equilibrio le istanze di difesa sociale e di tutela delle posizioni individuali, sottese alla sanzione penale (v. Corte cost., n. 409 del 1989).

In sintesi: per le Sezioni Unite, le deroghe alla intangibilità del giudicato devono trovare fondamento giustificativo nella lesione di un diritto o di una garanzia fondamentale della persona.

4. La pena geneticamente illegale. Poteri della Corte di cassazione.

L’ulteriore snodo ermeneutico con cui le Sezioni Unite si sono confrontate nella decisione in commento è la nozione di pena illegale che, mai definita normativamente, va dedotta “in negativo” dal principio di legalità e dai contributi della Corte costituzionale.

Il principio è cristallizzato nell’art. 25 Cost., il quale dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice e va letto in sinergia con l’art. 27 Cost., nonché, nel sistema delle fonti multilivello, con l’art. 7 della Convenzione EDU, che pone divieti di applicazione retroattiva della legge penale e, al tempo stesso, di applicazione estensiva o analogica di essa. In una declinazione più ampia, proiezioni del principio di legalità si rinvengono nell’art. 49 della Carta di Nizza, che al par. 3, si riferisce al principio di proporzionalità e nell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre1977, n. 881, il quale impone l’obbligatoria applicazione della legge sopravvenuta più favorevole.

Premesso tale sintetico inquadramento di sistema, le Sezioni Unite osservano come la nozione di illegalità della pena vada ricostruita con particolare rigore esegetico, sicché deve dissentirsi dagli arresti giurisprudenziali che, accogliendo, invece, un’accezione estesa, vi hanno ricondotto la difformità dal tipo legale degli istituti che, anche indirettamente, incidono sul trattamento sanzionatorio (cfr. Sez. 4, n. 5064 del 06/11/2018, dep. 2019, Bonomi, Rv. 275118-01, ai fini della verifica di ammissibilità del ricorso avverso la sentenza di patteggiamento ex art. 448, comma2-bis, cod. proc. pen.; Sez. 6, n. 17119 del 14/03/2019, P., Rv. 275898-01). Ogni dilatazione del concetto, diretto ad inserirvi taluno degli aspetti ad essa pena accessori, quali gli eventuali vizi dei termini ovvero la sospensione della sua applicazione (Sez. 3, n. 35485 del 23/04/2021, P., Rv. 281945-01) finisce con l’essere operazione esorbitante e non consentita.

Avuto riguardo alla specifica ipotesi di illegalità che viene in rilievo nel caso concreto posto al vaglio delle Sezioni Unite - irrogazione di una pena diversa per specie da quella prevista dalla fattispecie incriminatrice - il tema è certamente meno divisivo di quanto non lo siano altre ipotesi di non conformità della pena alle previsioni normative.

L’immanenza, nella disciplina processuale, dei valori espressi dalla Carta fondamentale in tema di protezione della libertà personale (art. 13 Cost.) e di individuazione delle funzioni della pena (art. 27 Cost.) legittima l’intervento officioso del giudice di cassazione ed il superamento del giudicato sostanziale, dal momento che la pena che sia avulsa dall’assetto normativo vigente, per specie, genere o quantità, attesta, in definitiva, un abuso del potere discrezionale attribuito al giudice, con usurpazione dei poteri esclusivi del legislatore (in tal senso Sez. 2, n. 12991 del 19/02/2013, Stagno, Rv. 255197-01; Sez. 5, n. 44897 del 30/09/2015, Galizia Lima, Rv. 265529-01;Sez. 1, n. 33326 del 14/02/2017, Vizzaccaro; Sez. 1, n. 40896 del 28/03/2017, Pucci.).

Di tal che, indipendentemente dall’operatività del meccanismo devolutivo, e dunque anche in presenza di un ricorso inammissibile, nulla osta alla correzione della pena illegale, al fine di assicurare il rispetto di ciò che è il fondamento giustificativo dell’esercizio della potestà sanzionatoria.

Di contro, rinviandosi sul punto alle argomentazioni svolte da Sez. U Della Fazia, si osserva come fuoriescono dal perimetro della illegalità non solo l’inosservanza del canone di proporzionalità, ma anche i vizi che attengono al concreto esercizio del potere discrezionale assegnato al giudice di merito, vale a dire l’erronea applicazione dei criteri commisurativi e, in generale, delle determinazioni intermedie di una pena comunque legittima nel suo valore finale, perché rientrante nei limiti edittali; vizi i quali configurano, a ben vedere, profili di illegittimità cui l’ordinamento reagisce apprestando i rimedi processuali delle impugnazioni, da esperire nel rispetto dell’ordinario criterio devolutivo e senza possibilità di incidere sul giudicato sostanziale.

Da ultimo, le Sezioni Unite Miraglia si confrontano criticamente con l’approccio restrittivo di Sez. U. Butera in materia di margini di intervento del giudice dell’esecuzione sulla pena illegale, che ritengono possa essere superato.

Dall’ampia panoramica giurisprudenziale prima ripercorsa emerge come il ripensamento del ruolo del giudice della esecuzione abbia relativizzato la distinzione, un tempo anelastica e formale, fra cognizione ed esecuzione. Da fase meramente complementare del processo, sul presupposto della inderogabile necessità di un accertamento definitivo e della conseguente impossibilità di configurare segmenti cognitivi successivi, allo stato tale fase appare essere, senza che ciò comporti alcuna distonia di sistema, significativamente più giurisdizionalizzata, sotto il profilo delle garanzie e anche dei possibili esiti definitori.

Non appare pertanto persuasiva la tesi di Sez. U, Butera per cui il giudice dell’esecuzione dovrebbe limitarsi ad intervenire sulla pena illegale, nell’esercizio dei poteri suppletivi di cui all’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., a condizione che la commisurazione si risolva in una operazione matematicamente scontata e non implichi esercizio di discrezionalità.

Al contrario, pur nel rispetto delle regole definite dal legislatore (per le quali, ad es., il lavoro di pubblica utilità potrà essere applicato solo su richiesta del destinatario, ai sensi dell’art. 54,comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000), non è eccentrico rispetto all’attuale assetto regolativo che il giudice dell’esecuzione rimoduli, anche in termini flessibili, il trattamento sanzionatorio illegale, quanto ai reati di competenza del giudice di pace, all’esito di valutazioni che investono, prima ancora che la quantificazione, la stessa individuazione di una pena all’interno del catalogo di cui all’art. 52 del d.lgs. 274 del 2000.

Conclusivamente, trova allora definitiva conferma l’orientamento per cui, simmetricamente ed in coerenza con il principio di ragionevole durata del processo, spetta alla Corte di cassazione il potere di rilevare ex officio, pur in presenza di un ricorso inammissibile, il vizio radicale della sanzione illegalmente applicata per genere, specie e quantità, così da anticipare gli esiti obbligati della fase esecutiva.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione a Sezioni Unite:

Sez. U., n. 21 del 11/11/1994, Cresci, Rv. 199903-01;

Sez. U., n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211469-01;

Sez. U., n. 15 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981-01;

Sez. U., n. 32 del 02/11/2000, De Luca Rv. 217266-01;

Sez. U. n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164-01;

Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651-01 e 258649-01;

Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, Rv. 260695-01 e 260700-01;

Sez. U., n. 37107 del 26/2/2015, Marcon, Rv. 264857-01-858-859-01;

Sez. U., n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110-01, 265111-01;

Sez. U., n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106-07-08-09;

Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015, (dep. 2016), Ricci, Rv. 266818-01.

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693-01;

Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220-01;

Sez. 5, n. 1341 del 13/12/2003, dep. 2004, Marvullo, Rv. 229812-01;

Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 230636-01;

Sez. 1, n. 8405 del 21/01/2009, Porreca, Rv. 242973-01;

Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763-01;

Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684-01;

Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612-01;

Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108-01;

Sez. 4, n. 19765 del 21/01/2015, Ivascu, Rv. 263476-01;

Sez. 5, n. 13589 del 19/02/2015, P.G. in proc. B., Rv. 262943-01;

Sez. 5, n. 552 del 07/07/2016, (dep. 2017) Jomle, Rv. 268593-01;

Sez. 5, n. 51726 del 12/10/2016, Sale, Rv. 268639-01;

Sez. 5, n. 37931 del 05/05/2017, T., Rv. 270824-01;

Sez. 2, n. 7188 del 11/10/2018 (dep. 2019), Elgendy, Rv. 276320-01;

Sez. 4, n. 17221 del 02/04/2019, Iacovelli, Rv. 275714-01;

Sez. 5, n. 41172 del 25/09/2019, Stigliano;

Sez. 5, n. 13787 del 30/01/2020, Ottoni, Rv. 279201-01;

Sez. 5, n. 15817 del 18/02/2020, Di Rocco, Rv. 279252-01.

  • giudice
  • giudizio
  • pubblico ministero
  • ordinanza
  • procedura penale
  • azione dinanzi a giurisdizione penale

CAPITOLO II

PROVVEDIMENTI ABNORMI: L’ORDINANZA DEL GUP AI SENSI DELL’ART. 33-SEXIES COD. PROC. PEN., ERRONEITÀ DEL PRESUPPOSTO E ABNORMITÀ

(di Maria Eugenia Oggero )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La nozione di atto abnorme nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. - 3 Abnormità e atti del giudice dell’udienza preliminare. - 4 La soluzione recepita dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

La questione per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: «se sia abnorme il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare che, ai sensi dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che, per il reato per il quale è stato richiesto il rinvio a giudizio, l’azione penale debba essere esercitata con citazione diretta a giudizio».

Investite dalla Terza Sezione della questione, le Sezioni Unite hanno proceduto, in primis, alla ricostruzione della natura e della funzione dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., norma contenuta nel capo VI-bis del Titolo I del codice di rito, introdotto con il d.lsg. n. 51 del 1999, istitutivo del giudice unico di primo grado, quale disposizione finalizzata ad assicurare il corretto riparto di attribuzioni ma altresì a garantire il più rapido accesso alla fase dibattimentale nei casi in cui sia prevista la citazione diretta a giudizio.

La previsione di cui all’art. 33-sexies cod. proc. pen. - prevista per il caso in cui il giudice dell’udienza preliminare, rilevato che per il reato in contestazione deve procedersi con la citazione diretta a giudizio, disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’emissione del decreto di citazione a giudizio - assicura la distinzione delle competenze e delle sequenze procedimentali, secondo il regime subentrato alla precedente previsione con la quale, diversamente, si affidava al giudice dell’udienza preliminare il potere di emettere, in tale ipotesi, il decreto di citazione diretta a giudizio.

Nel caso oggetto di decisione il pubblico ministero aveva correttamente esercitato l’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio ai sensi dell’art. 550 cod. proc. pen. in relazione al reato di cui all’art. 4 d.lsg. n. 74 del 2000, punito con la reclusione di anni quattro e mesi sei per effetto delle modifiche apportate con d.l. n. 124 del 2019, conv., con modificazioni, in legge n. 157 del 2019, cornice che aveva sostituito la precedente, meno severa: processualmente, non assume rilievo che la contestazione riguardasse un fatto commesso sotto la vigenza della disciplina sanzionatoria più favorevole, giacché al momento dell’esercizio dell’azione penale era in vigore la norma più rigorosa e quindi l’azione penale doveva essere esercitata mediante richiesta di rinvio a giudizio (artt. 416, 550 cod. proc.), per effetto del disposto di cui all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale - secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo - dalla quale si trae argomento per affermare che, in materia processuale, opera il principio del tempus regit actum, (come in particolare chiarito dalle sentenze Sez. U., n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, Rv. 260927-01 e Sez. U., n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, in motivazione).

Si è pertanto ritenuto che, con riferimento all’esercizio dell’azione penale e al riparto di attribuzioni, l’interprete debba far riferimento alla disciplina vigente nel momento in cui l’atto è compiuto, e che, nell’esegesi dell’art. 550 cod. proc. pen., il rinvio a limiti edittali previsti da norme sostanziali vada inteso come rinvio “fisso”, apprezzabile nel momento dell’applicazione della norma, e non “mobile”, in quanto correlato alla pena applicabile secondo il criterio di cui all’art. 2 cod. pen. (Sez. 2, n. 9876 del 12/02/2021, Macrì, Rv. 280724-01).

In definitiva, l’azione penale era stata esercitata correttamente con la richiesta di rinvio a giudizio ed era dunque erronea l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 33-sexies cod. proc. pen. giacché comportante un’indebita regressione del procedimento.

2. La nozione di atto abnorme nella giurisprudenza delle Sezioni Unite.

Il punto nodale della questione riposa sulla qualificazione di tale ordinanza in termini di abnormità.

Premesso che la categoria dell’abnormità, pur non contemplata dalla legge, ha trovato spazio nell’elaborazione giurisprudenziale, le Sezioni Unite hanno rimarcato come essa risponda all’esigenza di assicurare la legalità di ogni sequenza processuale e garantire, attraverso l’impugnazione di atti che determinino l’alterazione di tale sequenza (pur non essendo affetti da nullità o inutilizzabilità) e siano lesivi delle prerogative delle parti, la loro eliminazione attraverso il ricorso per cassazione.

É certamente escluso che possa generare abnormità ogni violazione (non altrimenti tipizzata) della legge processuale poiché, così opinando, si contravverrebbe al principio di tassatività delle nullità e dei mezzi d’impugnazione; essa viene quindi in gioco solamente per quei vizi dell’atto che siano imprevedibili e non previsti dalla legge, tali da alterare l’ordinata sequenza del rito e lesivi per le parti.

Rimarcato il confine tra abnormità strutturale e abnormità funzionale e richiamata la giurisprudenza – Sez. U., n. 7 del 26/04/1989, Goria, in motivazione, Sez. U., n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603-01; Sez. U., n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094-01; Sez. U., n. 33 del 22/11/2000, Boniotti, Rv. 217244-01; Sez. U., n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227355-01; Sez. U., n. 22909 del 31/05/2005, Minervini, in motivazione; Sez. U., n. 11 del 09/07/1997, Quarantelli, Rv. 208221-01 e Sez. U., n. 34536 del 11/07/2001, Chirico, Rv. 219587-01) – le Sezioni Unite hanno incentrata l’attenzione soprattutto sulla nozione di abnormità funzionale (determinata dal compimento di un atto processuale che, pur non estraneo al sistema, sia tale da determinare un’indebita stasi del processo e l’impossibilità di proseguirne l’ordinata sequenza): e ciò, sul rilievo che il processo è una sequenza ordinata di atti, finalizzati all’emissione della decisione finale e la regressione ad una fase anteriore, se si esplica oltre ogni ragionevole limite, al di là dei casi consentiti e delle ipotesi previste, finisce per stravolgere - pur quando sia espressione di un potere legittimo - sia il profilo funzionale, sia quello strutturale (Sez. U., n. 19 del 18/06/1993, Garonzi, Rv. 194061-01; Sez. U., n. 8 del 24/03/1995, Cirulli, in motivazione; Sez. U., n. 10 del 09/07/1997, Baldan, Rv. 208220-01; Sez. U., n. 4 del 31/03/2001, Romano, in motivazione; Sez. U., n. 22807 del 29/05/2002, Manca, Rv. 221999-01).

La decisione delle Sez. U., n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590-01 ha delineato - ricordano le Sezioni Unite Scarlini - una nozione di abnormità che, pur nel solco giurisprudenziale segnato dalle precedenti decisioni, appare volta a ridimensionare l’automatismo tra il vizio e la regressione indebita del procedimento.

Se il sistema processuale è ontologicamente ispirato al principio di non regressione (cfr. Corte cost., n. 236 del 2005), l’abnormità postula lo sviamento dalla funzione giurisdizionale ovvero richiede che quell’atto (anche se previsto dalla legge) sia impiegato al di fuori dell’area assegnata alla sua funzione e alla sua ragion d’essere: ne discende la riconducibilità ad un fenomeno unitario dell’abnormità strutturale e di quella funzionale.

Si versa in ipotesi di abnormità funzionale, quando il provvedimento del giudice impone al pubblico ministero un adempimento che si traduce nel compimento di un atto nullo, rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo: nei rapporti giudice-pubblico ministero (in un sistema che non ammette la possibilità di conflitto nel caso di contrasto tra i medesimi), l’organo d’accusa deve infatti conformarsi alle decisioni del giudice.

3. Abnormità e atti del giudice dell’udienza preliminare.

Con riferimento precipuo all’udienza preliminare - fase interessata alla questione rimessa alle Sezioni Unite - si è ricordato come la decisione Sez. U., n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, Battistella, Rv. 238240-01, abbia apportato ulteriori elementi all’elaborazione di cui si tratta, sviluppando il tema della regressione indebita, quale violazione dell’ordo processus di tale fase.

Muovendo dal rilievo che la fase dell’udienza preliminare deve assicurare il consolidamento dell’imputazione (tenuto anche conto delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale in materia), è stato ripercorso l’iter che s’impone al giudice nel caso in cui rilevi la genericità e l’indeterminatezza dell’imputazione medesima – con l’obbligo di invitare il pubblico ministero a precisare e integrare l’imputazione, sicché soltanto nella sua persistente inerzia può essere disposta la restituzione degli atti ai fini dell’emissione di una nuova richiesta di rinvio a giudizio – per cui, ove il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero sia stato assunto ex abrupto, il potere di controllo (pur strutturalmente correlato alla funzione del giudice dell’udienza preliminare) dovrà ritenersi esercitato fuori dei limiti previsti, dandosi un atto affetto da abnormità funzionale, tra l’altro lesivo dell’efficienza e della ragionevole durata del processo.

Il modulo procedurale previsto all’art. 33-sexies cod. proc. pen. riguarda soltanto, rimarcano le Sezioni Unite, i casi in cui il vizio nella modalità di esercizio dell’azione penale discenda dalla stessa imputazione, escludendo che la riqualificazione possa giustificare la regressione del processo, in quanto l’alternativa decisoria di cui dispone il giudice dell’udienza preliminare si muove tra sentenza di non luogo a procedere e rinvio a giudizio.

In tal senso, le Sezioni Unite hanno richiamato le decisioni, delle Sezioni semplici, Sez. 5, n. 10531 del 20/02/2018, Lazzarini, Rv. 272593-01; Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014, Longhi, Rv. 261397-01; Sez. 1, n. 10666 del 27/01/2015, Comparone, Rv. 262694-01; Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162-01).

4. La soluzione recepita dalle Sezioni Unite.

Alla luce dell’art. 33-sexies cod. proc. pen. e dell’intero sistema processuale, rispetto al quale la regressione costituisce evento eccezionale, si è considerata quindi atipica la regressione del processo per effetto della riqualificazione del fatto, di conseguenza assumendo carattere abnorme l’ordinanza con cui il giudice dell’udienza preliminare, previa riqualificazione, restituisca gli atti al pubblico ministero per la citazione diretta a giudizio: si verifica così l’alterazione dell’ordo processus, poiché il provvedimento viola il principio di non regressione (il processo, quale sequenza ordinata di atti, per natura è volto alla decisione finale), i principi di efficienza e di ragionevole durata del processo (art. 111, comma secondo, Cost.) e crea una stasi indebita del processo, ponendo il pubblico ministero (impossibilitato a sollevare conflitto ex art. 28 cod. proc. pen.) nella necessità di uniformarsi alla qualificazione prospettata dal giudice.

Secondo le Sezioni Unite, non sarebbe idoneo il rimedio previsto all’art. 550, comma 3, cod. proc. pen., secondo cui è dato al pubblico ministero di sollevare la relativa eccezione davanti al giudice del dibattimento, se non ammettendo – ciò che non può essere invece ritenuto ammissibile – che tale giudice possa operare in quella fase (non decisoria e a ristretta base cognitiva) una diversa qualificazione del fatto, mentre sussiste un sostanziale parallelismo tra le norme di cui agli artt. 33-sexies e art. 550, comma 3, cod. proc. pen., entrambe disciplinanti l’eventuale vizio scaturito dalla contestazione del pubblico ministero.

Le Sezioni Unite Scarlini hanno quindi concluso - sulla base delle ragioni esposte - nel senso dell’abnormità del provvedimento di indebita restituzione degli atti al pubblico ministero, anche nei casi in cui lo stesso non sia frutto di riqualificazione del fatto da parte del giudice.

In conclusione, il contrasto è stato risolto con l’affermazione del principio di diritto così massimato: «É abnorme, e quindi ricorribile per cassazione, l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, investito della richiesta di rinvio a giudizio, disponga, ai sensi dell’art. 33-sexies cod. proc. pen., la restituzione degli atti al pubblico ministero sull’erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio, trattandosi di un atto che impone al pubblico ministero di compiere una attività processuale “contra legem” e in violazione dei diritti difensivi, successivamente eccepibile, ed è idoneo, pertanto, a determinare una indebita regressione, nonché la stasi del procedimento». (Rv. 283552-01).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. U. n. 7 del 26/04/1989, Goria, Rv. 181304-01;

Sez. U. n. 19 del 18/06/1993, Garonzi, Rv. 194061-01;

Sez. U., n. 8 del 24/03/1995, Cirulli, Rv. 201545-01;

Sez. U., n. 10 del 09/07/1997, Baldan, Rv. 208220-01;

Sez. U., n. 11 del 09/07/1997, Quarantelli, Rv. 208221-01;

Sez. U. n. Sez. U. n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603-01;

Sez. U. n. 26 del 24711/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094-01;

Sez. U., n. 33 del 22/11/2000, Boniotti, Rv. 217244-01;

Sez. U., n. 4 del 31/03/2001, Romano, Rv. 217760-01;

Sez. U., n. 34536 del 11/07/2001, Chirico, Rv. 219587-01;

Sez. U., n. 22807 del 29/05/2002, Manca, Rv. 221999-01;

Sez. U., n. 19289 del 25/02/2004, Lustri, Rv. 227355-01;

Sez. U., n. 22909 del 31/05/2005, Minervini, Rv. 231163-01;

Sez. U. n. 3821 del 17/01/2006, Timofte, Rv. 232592-01;

Sez. U., n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, Battistella, Rv. 238240-01;

Sez. 5, n. 31975 del 10/07/2008, Ragazzoni, Rv. 241162-01;

Sez. U., n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590-01;

Sez. U., n. 44895 del 17/07/2014, Pinna, Rv. 260927-01;

Sez. 3, n. 51424 del 18/09/2014, Longhi, Rv. 261397-01;

Sez. 1, n. 10666 del 27/01/2015, Comparone, Rv. 262694-01;

Sez. 5, n. 10531 del 20/02/2018, Lazzarini, Rv. 272593-01;

Sez. 2, n. 9876 del 12/02/2021, Macrì, Rv. 280724-01;

Sez. U., n. 37502 del 28/04/2022, Scarlini, Rv. 283552-01.

Sentenze della Corte costituzionale:

Corte cost., n. 236 del 2005.

  • prescrizione della pena
  • procedura penale
  • prescrizione dell'azione
  • azione civile

CAPITOLO III

PRESCRIZIONE DEL REATO MATURATA PRIMA DELLA SENTENZA DI CONDANNA E STATUIZIONE SUGLI EFFETTI CIVILI

(di Aldo Natalini )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 La valorizzazione del legame tra “sopravvenienza” della causa estintiva e “validità” della condanna alle statuizioni civili. - 3 La soluzione recepita dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

La Seconda Sezione ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite della questione controversa: «se il giudice di appello, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione maturata prima della pronuncia della sentenza impugnata per effetto di una valutazione “discrezionale” difforme rispetto a quella operata dal giudice di primo grado, come nei casi di esclusione della recidiva qualificata o di eliminazione di una circostanza aggravante o di formulazione di un diverso giudizio di comparazione tra le circostanze del reato, possa ugualmente decidere sull’impugnazione, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, ovvero debba revocare le statuizioni civili di cui alla sentenza di primo grado».

La questione, di particolare portanza, poteva dar luogo – per la Sezione rimettente – ad un contrasto giurisprudenziale, laddove non si ritenesse il contrasto già ravvisabile.

Un primo indirizzo – richiamandosi al risalente principio affermato da Sez. U., n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211191-01, secondo cui è illegittima la sentenza d’appello nella parte in cui, accertato il maturare della prescrizione del reato prima della pronuncia di primo grado, confermi le statuizioni civili in questa contenuta – affermava che il verificarsi della causa estintiva “a monte” della sentenza di condanna in primo grado comporta comunque l’inapplicabilità dell’art. 578 cod. proc. pen., indipendentemente dalla ragione per la quale l’estinzione del reato venga rilevata dal giudice dell’impugnazione. Ciò in quanto non è ravvisabile alcuna distinzione tra i fattori che escludono i presupposti di operatività dell’art. 578 cod. proc. pen., qualora l’estinzione del reato sia maturata prima della sentenza di primo grado (Sez. 4, n. 27393 del 22/03/2018, Fasolino, Rv. 273726-01; Sez. 6, n. 33398 del 19/09/2002, Rusciano, Rv. 222426-01; Sez. 5, n. 17370 del 14/03/2003, Ministeri, Rv. 224195-01; cfr. altresì Sez. 1, n. 06681 del 02/05/1995, Ferrigno, Rv. 201903-01, che ha escluso la conferma delle statuizioni civili della sentenza di condanna appellata, a fronte dell’estinzione del reato deliberata in appello in seguito all’esclusione di un’aggravante che osti alla declaratoria di amnistia, perché gli effetti della sentenza di appello vanno riportati al momento di quella di primo grado; Sez. 4, n. 03844 del 28/01/1994, Mangini, Rv. 197962-01).

Secondo altro orientamento, invece, il giudice d’appello che dichiari la prescrizione maturata in epoca antecedente la sentenza di condanna (non perché erroneamente non rilevata dal primo giudice, bensì) a seguito di un apprezzamento diverso riferito al regime circostanziale – quale la valutazione discrezionale costituita dalla ritenuta concedibilità di attenuanti generiche considerate equivalenti alle contestate aggravanti (art. 69 cod. pen.) – ha pur sempre il potere-dovere di decidere sull’impugnazione penale ai soli effetti delle statuizioni civili, in applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 12315 del 18/01/2005, Sgarbi, Rv. 231430-01; Sez. 4, n. 21569 del 16/01/2007, Centanini, Rv. 236717-01; Sez. 5, n. 9092 del 19/11/2008, dep. 2009, Gallo, Rv. 243323-01; Sez. 3, n. 10229 del 24/01/2003, G.E.; Sez. 5, n. 39446 del 08/05/2018, Cerone: fattispecie in cui la Corte d’appello aveva rilevato che l’estinzione del reato per prescrizione, maturata in primo grado, era conseguita all’esclusione della recidiva qualificata).

2. La valorizzazione del legame tra “sopravvenienza” della causa estintiva e “validità” della condanna alle statuizioni civili.

Ripercorsi i termini della questione, le Sezioni Unite (Sez. U., n. 39614 del 28/04/2022, dep. 2022, Di Paola e altro, Rv. 283670-01), nel dare risposta al quesito prestando adesione al primo indirizzo, hanno preso le mosse dai principi già espressi, a livello massimamente nomofilattico, nella sentenza Citaristi (Sez. U., n. 10086 del 13/07/1998, cit.) che per prima aveva messo in luce lo stretto ed inscindibile legame esistente tra “sopravvenienza” della causa estintiva del reato e “validità” della condanna alle statuizioni civili nel grado immediatamente precedente.

A tali principi, del resto, si è conformata la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo la quale, qualora il giudice d’appello, nel pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, accerti che la stessa è maturata in epoca antecedente alla sentenza di primo grado, deve contestualmente revocare le statuizioni civili in essa contenute (Sez. 3, n. 41583 del 10/09/2021; Sez. 4, n. 27393 del 22/03/2018, Fasolino, cit.), con la conseguenza che, in tal caso, è illegittima la condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili (Sez. 3, n. 15245 del 10/03/2015, P.C. e C. in proc. C. e altri, Rv. 263018-01; Sez. 4, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli, Rv. 261815-01; Sez. 3, n. 09081 del 21/02/2013, Colucci, Rv. 255054-01), così come al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile (Sez. 5, n. 32636 del 16/04/2018, Suraci e altro, Rv. 273502-01; Sez. 6, n. 09081 del 21/02/2013, cit.; Sez. 2, n. 5705 del 29/01/2009, Somma e altro, Rv. 243290-01).

La Corte ha altresì condiviso le argomentazioni della sentenza Fasolino secondo cui «quando la decisione di condanna di primo grado venga riformata per essere intervenuta una causa estintiva prima della sua pronuncia – prescrizione all’epoca già maturata – osta al mantenimento del potere di provvedere sui soli effetti civili, il disposto dell’art. 538, comma 1, cod. proc. pen., secondo il quale il giudice decide sulla domanda di restituzione o risarcimento solo quando pronuncia sentenza di condanna. Il giudice dell’impugnazione, infatti, non può esercitare poteri che il giudice di prima cura non può validamente esercitare» (Sez. 4, n. 27393 del 22/03/2018, Fasolino, cit.).

Nel percorso argomentativo della decisione delle Sezioni Unite si sottolinea come la fattispecie di cui all’art. 578 cod. proc. pen. – avente natura derogatoria ed eccezionale e, quindi, di stretta interpretazione (art. 14 disp. prel. c.c.) – si riferisca all’ipotesi in cui il fatto estintivo (principalmente la prescrizione del reato) non abbia alcuna interferenza temporale con la condanna (penale) dell’imputato, essendo intervenuto in un momento successivo quando non ne può pregiudica, quindi, la validità. Viceversa, nel caso in cui l’estinzione del reato per prescrizione sia maturata prima della condanna in primo grado, ma venga “constatata” solo in sede d’appello, l’istituto in esame non può più operare, poiché la condanna emessa per un reato che – sia pure in base a una decisione successiva – era in realtà già prescritto non può reputarsi “validamente emessa”; e ciò indipendentemente dal fatto che la declaratoria di estinzione del reato derivi dalla “correzione” di un errore del giudice di prima istanza nel computo del tempo necessario a prescrivere, ovvero da una diversa valutazione “discrezionale” che determini un accorciamento del termine prescrizionale. Difatti – argomentano le Sezioni Unite – «se il giudice di primo grado, rispetto alla medesima regiudicanda, avesse operato una valutazione identica a quella del giudice dell’impugnazione (ad esempio escludendo una recidiva qualificata, o un’aggravante ad effetto speciale) che lo avesse condotto a rilevare l’estinzione del reato, la condanna non sarebbe stata emessa e, conseguentemente, non sarebbero state adottate le statuizioni sui capi civili» (§ 11).

Secondo il giudice massimamente nomofilattico la distinzione – prospettata dall’indirizzo disatteso – tra omessa rilevazione, da parte del giudice della condanna, dell’avvenuto decorso della prescrizione al momento della decisione e declaratoria di prescrizione maturata in epoca antecedente alla pronuncia di primo grado per effetto di un diverso apprezzamento, da parte del giudice d’appello, delle circostanze, è priva di un riferimento normativo idoneo a giustificare la diversità di regime tra le due situazioni. In realtà – obietta la Corte – non può esservi distinzione alcuna, quoad effectum, «tra una prescrizione dichiarata dal giudice dell’appello che rilevi un errore di calcolo del primo giudice e una prescrizione che venga dichiarata “ora per allora” per effetto di una diversa valutazione degli elementi che sorreggono il termine prescrizionale. Anche il diverso giudizio comparativo fra circostanze o l’esclusione di un’aggravante speciale, quando operati dal giudice dell’appello in riforma della sentenza di primo grado, sono rilevazione di errori di diritto sostanziale o processuale. Infatti, il giudice applica la legge (principio di legalità) e, quando si discosta dal giudizio del grado precedente sui predetti elementi, lo fa rilevando una violazione di legge sostanziale o processuale, ossia un errore di diritto, ma pur sempre un errore. Esattamente come fa il giudice d’appello, quando rileva che il primo giudice ha errato nell’applicazione delle norme sul calcolo della prescrizione» (§ 13).

Conclusivamente, la statuita inapplicabilità dell’art. 578 cod. proc. pen. a tutte le ipotesi in cui l’estinzione del reato (per prescrizione) si collochi “a monte” della sentenza di condanna in primo grado comporta che debba essere senz’altro disposta la revoca delle statuizioni civili precedentemente adottate, con conseguente esclusione di ogni valutazione del giudice (penale) dell’impugnazione in ordine alla responsabilità dell’imputato. La parte civile viene, in tal modo, onerata di promuovere l’azione civile nella sede naturale, senza che ciò rappresenti un pregiudizio, avuto particolare riguardo alle connotazioni di accessorietà e di separatezza dell’azione civile rispetto a quella penale e alle connesse facoltà di scelta consapevole del danneggiato tra il promovimento dell’azione civile e la costituzione di parte civile nel giudizio penale. Peraltro, anche nel caso di revoca delle statuizioni civili da parte del giudice dell’impugnazione che rilevi l’estinzione del reato maturata prima della condanna deliberata in primo grado, la parte civile (titolare di un interesse concreto e attuale in tal senso) può «pretendere che il giudizio penale non si arresti alla contestata prescrizione del reato, ma prosegua al fine di valutare se la stessa sia stata erroneamente o meno dichiarata e di ottenere così il risultato che, con la propria costituzione, la parte civile stessa si prefiggeva» (così, sia pure in relazione ad ipotesi diversa, Sez. U., n. 28911 del 28/03/2019, Massaria c. Papaleo, Rv. 275957-01-02, § 4.1).

3. La soluzione recepita dalle Sezioni Unite.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il quesito di massima importanza rimesso all’esame delle Sezioni Unite è stato risolto con l’affermazione del principio di diritto così massimato: «In tema di decisione sugli effetti civili ex art. 578, comma 1, cod. proc. pen., il giudice di appello che, nel pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione del reato, pervenga alla conclusione - sia sulla base della semplice “constatazione” di un errore nel quale il giudice di prime cure sia incorso, sia per effetto di “valutazioni” difformi - che la causa estintiva è maturata prima della sentenza di primo grado, deve revocare le statuizioni civili in essa contenute» (Rv. 283670-01).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 4, n. 3844 del 28/01/1994, Mangini, Rv. 197962-01;

Sez. 1, n. 6681 del 02/05/1995, Ferrigno, Rv. 201903-01;

Sez. U., n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211191-01;

Sez. 6, n. 33398 del 19/09/2002, Rusciano, Rv. 222426-01;

Sez. 5, n. 17370 del 14/03/2003, Ministeri, Rv. 224195-01;

Sez. 3, n. 10229 del 24/01/2003, G.E.;

Sez. 1, n. 12315 del 18/01/2005, Sgarbi, Rv. 231430-01;

Sez. 4, n. 21569 del 16/01/2007, Centanini, Rv. 236717-01;

Sez. 5, n. 9092 del 19/11/2008, dep. 2009, Gallo, Rv. 243323-01;

Sez. 2, n. 5705 del 29/01/2009, Somma e altro, Rv. 243290-01;

Sez. 3, n. 9081 del 21/02/2013, Colucci, Rv. 255054-01;

Sez. 4, n. 44826 del 28/05/2014, Regoli, Rv. 261815-01;

Sez. 3, n. 15245 del 10/03/2015, P.C. e C. in proc. C. e altri, Rv. 263018-01;

Sez. 4, n. 27393 del 22/03/2018, Fasolino, Rv. 273726-01;

Sez. 5, n. 32636 del 16/04/2018, Suraci e altro, Rv. 273502-01;

Sez. 5, n. 39446 del 08/05/2018, Cerone;

Sez. U., n. 28911 del 28/03/2019, Massaria c. Papaleo, Rv. 275957-01-02;

Sez. 3, n. 41583 del 10/09/2021;

Sez. U., n. 39614 del 28/04/2022, dep. 2022, Di Paola e altro, Rv. 283670-01.

  • pubblico ministero
  • procedura penale
  • esecuzione della pena
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO IV

L’AMMISSIBILITÀ DEL RICORSO PER CASSAZIONE DA PARTE DEL PUBBLICO MINISTERO AVVERSO LA SENTENZA CHE OMETTA L’APPLICAZIONE DI UNA PENA ACCESSORIA

(di Fulvio Filocamo )

Sommario

1 La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite. - 2 Il potere d’impugnazione del pubblico ministero. - 3 Gli orientamenti in contrasto. - 4 La procedura applicabile. - 5 I principi affermati dalle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite.

Con ordinanza n. 15636 del 15/03/2022, la Quinta sezione della Corte di cassazione, rilevata l’esistenza di un contrasto interpretativo, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite sulla questione “Se sia ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza che ometta l’applicazione di una pena accessoria, ovvero debba in tal caso il pubblico ministero ricorrere al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 676 cod. proc. pen.”.

Secondo un primo orientamento, quando si sia affermata la responsabilità dell’imputato, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 20 cod. pen. e 662 cod. proc. pen. e 183 disp. att. cod. proc. pen., alla condanna devono conseguire di diritto le pene accessorie, per cui, ove se ne sia omessa l’applicazione, il pubblico ministero non potrebbe proporre impugnazione per l’omissione, ma solamente chiederne l’applicazione al giudice dell’esecuzione (Sez. 6, n. 13789 del 20/01/2011, PG in proc. Fiorito, Rv. 249908-01 e, tra le altre, Sez. 3, n. 10199 del 08/10/1997, PG in proc. Aprile, Rv. 209636-01; Sez. 1, n. 45381 del 10/11/2004, PG in proc. Tinnirello e altro, Rv. 230129-01). La medesima opzione ermeneutica è stata, di recente, affermata dalla sentenza Sez. 5, n. 47604 del 28/10/2019, PG C/ Cagnoli, Rv. 277547-01, con cui è stato ribadito il principio secondo cui il pubblico ministero, ove si dolga dell’omessa applicazione delle pene accessorie conseguenti di diritto alla condanna, invece di proporre impugnazione, deve chiederne l’applicazione al giudice dell’esecuzione ai sensi del combinato disposto degli artt. 20 cod. pen. e 662 e 676 cod. proc. pen. e, con riferimento alle pene accessorie predeterminate nella durata, anche ai sensi dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen.; tali decisioni sono state ritenute in linea con Sez. 1, n. 23661 del 29/04/2014, Anselmi, Rv. 259690-01 e Sez. 1, n. 22067 del 01/02/2011, P.M. in proc. Hu Zhiyu, Rv. 250227-01, con le quali si è affermato che spetta al giudice dell’esecuzione, ove non vi abbia provveduto il giudice di cognizione con la sentenza di condanna, l’applicazione delle pene accessorie del reato tributario, previste dall’art. 12 d.lgs. n. 74 del 2000, per una durata pari alla pena principale. Nello stesso senso è stata individuata anche Sez. 5, n. 51390 del 21/06/2018, P.G. C/ Suddin Sham, Rv. 274453-01, la quale ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza in cui sia stata omessa la pena accessoria della pubblicazione della sentenza, conseguente di diritto alla condanna per il reato di cui all’art. 474 cod. pen.

La soluzione opposta è stata, invece, adottata da Sez. 6, n. 1578 del 26/11/2020, Touimi, Rv. 280582-01, con la quale è stato affermato il principio secondo cui è ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato che abbia omesso di irrogare la pena accessoria, essendo tale omissione emendabile direttamente dalla Corte, ai sensi dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 67, della legge n. 103 del 2017, non essendo necessario l’esercizio di un potere discrezionale. Detta decisione, per ritenere l’omissione rimediabile anche nel corso del giudizio di legittimità, ha fatto riferimento a quanto disposto dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., che, consentendo alla Corte di cassazione di annullare senza rinvio la sentenza impugnata, ha ampliato i poteri decisori nel giudizio di legittimità, ove sia possibile adottare i provvedimenti necessari. Si è, infatti, sottolineato che il precedente orientamento era rispettoso della normativa vigente prima della modifica all’art. 620 cod. proc. pen., introdotta dalla novella del 2017, mentre attualmente si potrebbe sostenere che, in assenza dell’esercizio di poteri discrezionali, sia possibile applicare la pena accessoria a seguito di ricorso per cassazione. Ciò non sarebbe, infatti, impedito dalla norma di cui all’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., la quale sottintende che la sentenza sia già passata in giudicato e che la questione debba essere proposta al giudice dell’esecuzione essendo ormai preclusa la possibilità di impugnazione ordinaria. Detta interpretazione è stata seguita anche da Sez. 2, n. 42003 del 24/09/2021, PG C/ Mahmood, Rv. 282206-01, mentre con Sez. 6 n. 46089 del 09/11/2021, PG C/ De Luca, Rv. 282399-01, è stato chiarito che, essendo ordinariamente ammissibile il ricorso per cassazione del Procuratore generale in caso di omessa applicazione della pena accessoria, è necessario valutare se la pena accessoria pretermessa dal giudice di primo grado sia di durata fissa, con applicazione del disposto di cui all’art. 620, comma 1, lett. l) cod. proc. pen., ovvero se sia necessario il potere discrezionale del giudice per determinarne la durata senza considerare la correlazione, stabilita dall’art. 37 cod. pen., tra pena principale e pena accessoria. Ciò perché la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 222 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui prevedeva le pene accessorie fallimentari di durata fissa decennale, anziché fino a dieci anni, e le Sezioni Unite, con sentenza n. 28910 del 28/2/2019, Suraci, a seguito di tale dichiarazione d’illegittimità costituzionale, hanno affermato che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo e uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ai sensi dell’art. 37 cod. pen., così modificando il proprio precedente orientamento costituito da Sez. U., n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262328–01. Da ciò discende che, per irrogare una pena accessoria non predeterminata, la sentenza dovrebbe contenere una motivazione che consenta di controllare, con l’esercizio del diritto di impugnazione, l’uso del potere discrezionale rimesso al giudice ai sensi degli artt. 132 e 133 cod. pen., sì che detta pena accessoria non potrebbe essere applicata in sede di esecuzione.

2. Il potere d’impugnazione del pubblico ministero.

Preliminarmente, le Sezioni Unite affrontando la questione rimessa loro, hanno valutato il quadro normativo vigente sul potere del pubblico ministero di impugnare i provvedimenti giudiziari di merito, rilevando che la lettera dell’art. 593, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, lett. a), d. lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, non avrebbe consentito nel caso di specie l’appello del pubblico ministero avverso la sentenza oggetto del ricorso per cassazione. Detta previsione legislativa, infatti, consente al pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna in primo grado — salvo che la stessa sia pronunciata all’esito di giudizio abbreviato o in applicazione di pena richiesta dall’imputato sulla quale il pubblico ministero abbia dissentito, ovvero delle disposizioni della sentenza in materia di misure di sicurezza — solo quando essa modifichi il titolo del reato, escluda la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o disponga una pena di specie diversa da quella prevista per il reato contestato. Avendo escluso che il caso in esame rientrasse tra tali ipotesi, l’impugnazione non poteva essere qualificata come ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 569 cod. proc. pen., richiamato per il giudizio di legittimità dall’art. 608, comma 4, cod. proc. pen. Non potendo, quindi, appellare la sentenza di primo grado, il pubblico ministero ha proposto ricorso per cassazione quale unico mezzo di impugnazione consentitogli dall’attuale assetto normativo.

Ciò premesso, si è considerato che il ricorso era stato presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello ai sensi dell’art. 608, comma 1, cod. proc. pen., secondo il quale tale facoltà è attribuita, in modo indifferenziato, fatti salvi i casi diversamente disciplinati, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e al Procuratore generale presso la Corte di appello (Sez. U., n. 22531 del 31/05/2005, Campagna, Rv. 231056-01, sul potere del Procuratore generale d’impugnazione dei provvedimenti emessi da tutti i giudici del distretto), prescindendo, ai sensi dell’art. 570, comma 1, cod. proc. pen., dalle conclusioni assunte dal rappresentante del pubblico ministero nell’udienza in esito alla quale è stato pronunciato il provvedimento impugnato, anche in caso di acquiescenza ovvero d’impugnazione “concorrente”. In questo ultimo caso, la norma fa salva la deroga di cui all’art. 593-bis cod. proc. pen., introdotto con l’art. 3, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, per effetto della quale il Procuratore generale può proporre appello avverso la sentenza di primo grado solo nei casi di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del Procuratore della Repubblica. Sez. U., “Campagna” ha peraltro specificato che la legittimazione “indifferenziata” del pubblico ministero di poter impugnare i provvedimenti giudiziari di primo grado è ribadita dalle disposizioni sugli adempimenti processuali strettamente funzionali all’esercizio del diritto di impugnazione di cui agli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lett. d), cod. proc. pen., che prevedono rispettivamente la comunicazione al Procuratore generale dell’avviso di deposito della sentenza di primo grado e la decorrenza dalla data di tale comunicazione del termine per la tempestiva impugnazione di tale Ufficio.

3. Gli orientamenti in contrasto.

Successivamente a tali valutazioni, le Sezioni Unite hanno analizzato il primo degli orientamenti in contrapposizione fondato sulla preclusione processuale desumibile dal tenore letterale dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 47604 del 28/10/2019, Cagnoli, Rv. 277547-01; Sez. 5, n. 51390 del 21/06/2018, Suddin, Rv. 274453-01; Sez. 2, n. 5691 del 15/01/2013, Di Leonardo; Sez. 2, n. 42112 del 27/09/2012, Affinita; Sez. 6, n. 13789 del 20/01/2011, Fiorito, Rv. 249908-01; Sez. 5, n. 32158 del 24/04/2009, Rossi; Sez. 7, n. 5742 del 11/12/2008, dep. 2009, Celentano; Sez. 7, n. 24969 del 03/04/2008, Ciavatta; Sez. 3, n. 10199 del 08/10/1997, Aprile, Rv. 209636-01), secondo il quale “quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge nella specie e nella durata, il pubblico ministero ne richiede l’applicazione al giudice dell’esecuzione se non si è provveduto con la sentenza di condanna”. Si è rilevato, inoltre, che nel medesimo filone vi era un’altra pronuncia (Sez. 1, n. 22385 del 12/05/2009, De Pieri e altro) che, richiamato il principio di tassatività delle impugnazioni, ha ritenuto che la procedura in sede di esecuzione dovesse ritenersi come esclusiva sulla base dell’espressa previsione normativa.

L’orientamento opposto è, invece, basato sulla possibilità concorrente di ricorrere per cassazione, prima dell’irrevocabilità della sentenza di merito, da parte del pubblico ministero che intenda chiedere al giudice di legittimità l’applicazione della pena accessoria omessa nel giudizio di cognizione. La Corte rileva a proposito che la disposizione di cui all’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., contiene già in sé l’indicazione dei due necessari presupposti per applicare la relativa procedura: la pena accessoria deve conseguire di diritto alla condanna e deve essere predeterminata dalla legge nella specie e nella durata. Da questo rilievo si è, da parte della giurisprudenza di legittimità, ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione almeno nei casi in cui l’applicazione della pena accessoria richiedesse una valutazione discrezionale del giudice, anche sull’individuazione della natura e della durata della pena stessa (Sez. 6, n. 46089 del 9/11/2021, De Luca, Rv. 282399-01). Tale osservazione ha consentito di ritenere compatibile la procedura della richiesta in fase esecutiva con il ricorso per cassazione, essendo peraltro dette soluzioni fruibili in base alla diversa fase processuale. Il procedimento di esecuzione previsto dall’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. presuppone, in quanto tale, il passaggio in giudicato della sentenza nella quale sia stata omessa l’applicazione di una pena accessoria. Così respinto il carattere di esclusività della procedura in sede esecutiva, è stata ammessa la possibilità di poter provvedere all’omissione prima del passaggio in giudicato della sentenza con gli ordinari mezzi di impugnazione tra cui anche il ricorso per cassazione (Sez. 6, n. 1578 del 26/11/2020, Touimi, Rv. 280582-01).

Sotto diverso angolo visuale, la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione anche in base al rilievo che, nella disciplina del giudizio di legittimità, vi sono norme che consentono alla Corte di cassazione di applicare direttamente la pena accessoria omessa nel giudizio di merito. Tra queste l’art. 620, lett. l), cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 67, n. 103 del 2017, che prevede quale caso di annullamento senza rinvio quello in cui la Corte ritiene, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, di adottare nello stesso giudizio di cassazione i provvedimenti necessari a sanare il vizio rilevato (Sez. 5, n. 16162 del 17/01/2022, Aragon, Rv. 283013-01; Sez. 2, n. 42003 del 24/09/2021, Mahmood Arshad, Rv. 282206-01; Sez. 6, Touimi, già citata).

Altre precedenti pronunce avevano considerato applicabile la procedura di rettificazione prevista per il giudizio di cassazione dall’art. 619 cod. proc. pen., con specifico riguardo alla modifica della pena di cui al comma 2 (Sez. 2, n. 38713 del 24/06/2015, Manzo, Rv. 264801-01; Sez. 6, n. 4300 del 10/01/2013, Grossi, Rv. 254486-01; Sez. 6, n. 48443 del 20/11/2008, Funari, Rv. 242427-01; Sez. 4, n. 23134 del 14/05/2008, Di Girolamo, Rv. 240304-01).

Sono state citate, nel medesimo senso, alcune pronunce relative alla mancata menzione della pena accessoria nelle sentenze di applicazione di pena emesse ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., le quali, pur non affrontando specificamente il tema della possibile alternativa tra l’incidente di esecuzione e il ricorso per cassazione, hanno ritenuto questo ultimo come ammissibile (Sez. 3, n. 30285 del 19/04/2021, Shtogaj, Rv. 281858-01; Sez. 6, n. 20108 del 24/01/2013, Derjaj, Rv. 256224-01; Sez. 4, n. 39065 del 5/07/2012, Salillari, Rv. 253725-01).

Ritenuto condivisibile dalla Corte questo ultimo indirizzo ermeneutico, si è voluto quindi precisare che, sempre in relazione all’art. 620, lett. l), cod. proc. pen., alcune decisioni (Sez. 1, n. 7909 del 22/01/2013, Imberbe, Rv. 254916-01, richiamata dalla successiva Sez. 6, n. 3253 del 21/01/2016, Rebai, Rv. 266501-01), valorizzando in termini logico-sistematici proprio la previsione, ai sensi dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., della possibilità di adire il giudice dell’esecuzione per rimediare all’omessa applicazione della pena accessoria, hanno rilevato come non vi fosse alcuna ragione per ritenere che un’analoga richiesta non potesse essere proposta nel giudizio di cognizione, con gli ordinari mezzi di impugnazione, prima dell’irrevocabilità della sentenza.

Il Massimo Consesso nomofilattico ha così ritenuto che lo strumento normativo di intervento nel giudizio di legittimità, in accoglimento del ricorso, sia l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, previsto dall’art. 620 lett. l) cod. proc. pen. e non la rettificazione di cui all’art. 619, comma 2, cod. proc. pen. La ragione di questa scelta viene individuata nel requisito applicativo della rettificazione che è definito sostanzialmente nei limiti di un mero errore materiale, “terminologico quanto al nomen juris della sanzione, ovvero aritmetico nella determinazione della stessa”. Il diverso caso dell’omessa applicazione della pena accessoria oltrepassa evidentemente detti limiti poiché rappresenta, in realtà, un vero e proprio vizio della sentenza di condanna che risulta priva di una sua disposizione necessaria per legge.

Rispetto all’art. 619 cod. proc. pen., le Sezioni Unite hanno individuato “la ratio della norma nell’esigenza di evitare l’annullamento della decisione impugnata in tutte le occasioni nelle quali si possa rimediare a errori o cadute di attenzione del giudice a quo lasciando inalterato il contenuto decisorio essenziale della sentenza impugnata” (Sez. U., n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211072-01). Si era, peraltro, già evidenziato come essa fosse una norma speciale e derogatoria della generale disciplina della correzione di errori materiali ai sensi dell’art. 130 cod. proc. pen., nella parte in cui consente alla Corte di cassazione di procedere direttamente alla correzione anche in presenza della condizione ostativa posta alla facoltà al giudice competente a conoscere dell’impugnazione ove questa sia dichiarata inammissibile (Sez. 3, n. 30286 del 09/03/2022, Nardelli, Rv. 283650-01; Sez. 3, n. 19627 del 04/03/2003, Fascetto, Rv. 224846-01; Sez. 1, n. 2149 del 27/11/1998, dep. 1999, Velardi D., Rv. 212532-01).

L’art. 619 cod. proc. pen., con l’art. 130 cod. proc. pen., condivide il “fondamento definitorio dell’errore che giustifica la mera correzione in luogo dell’annullamento”, come affermato, sempre dalle Sezioni Unite, “nella definizione dell’errore correggibile quale divergenza evidente e casuale fra la volontà del giudice e il correttivo mezzo di espressione, della quale costituiscono manifestazioni tipiche l’errore linguistico e quello immediatamente rilevabile dal contesto interno della sentenza” (Sez. U., n. 7945 del 31/01/2008, Boccia, Rv. 238426-01).

La differenza tra l’errore sanabile, con la procedura di correzione o con la rettificazione nel giudizio di legittimità, e il vizio che impone, invece, l’annullamento della sentenza impugnata, è stato ravvisato – in negativo - nell’irrilevanza dello stesso rispetto al contenuto decisorio, e - in positivo - nell’evidente difformità tra “il dato testuale e l’effettiva volontà del decidente”. Nel caso di omessa applicazione della pena accessoria, queste due condizioni risultano mancare poiché l’assenza della pena accessoria prevista come obbligatoria per legge influisce sul contenuto decisorio della sentenza, rendendola carente di una parte dispositiva necessaria e può risultare come non rilevabile icto oculi quale difformità testuale rispetto alla volontà decisoria.

Esclusa la possibilità di considerare l’omissione in esame come un errore materiale correggibile con lo strumento offerto al giudice di legittimità, a questi fini, dal citato art. 619, essa viene considerata al pari di un vizio rimediabile con l’ordinario esito dell’annullamento della sentenza impugnata in accoglimento del ricorso. Da effettuarsi senza rinvio, ove ricorrano i requisiti - previsti dall’art. 620, lett. l), cod. proc. pen., nell’attuale formulazione introdotta dall’art. 1, comma 67, legge n. 103 del 2017 - i quali sono stati definiti dalle Sezioni Unite come sussistenti in tutti i casi in cui il rinvio sia superfluo, potendo il Giudice di legittimità decidere anche con valutazioni discrezionali, purché condotte sulla base degli elementi di fatto accertati e delle statuizioni adottate dal giudice di merito, e a condizione che non siano necessari ulteriori accertamenti (Sez. U., n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831-01), come ravvisabile nel caso esaminato ove la pena accessoria omessa, predeterminata nella specie e nella durata, segue di diritto alla condanna. Diversamente, in caso di applicazione della pena accessoria non automatica per effetto della sola condanna ovvero quando la pena abbia una durata non fissa, ma determinabile in concreto dal giudice, se gli accertamenti e le statuizioni del giudice di merito non consentono di assumere in sede di legittimità le determinazioni sull’applicazione della pena accessoria o sulla quantificazione della sua durata, con una valutazione discrezionale strettamente vincolata dal contenuto di tali accertamenti e statuizioni, l’annullamento della sentenza impugnata deve essere pronunciato con rinvio, affidando al giudice così individuato le relative determinazioni.

4. La procedura applicabile.

Rispetto al procedimento in sede esecutiva, esperibile ai sensi dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna priva della disposizione relativa alla pena accessoria, la Corte ha ritenuto opportuno precisare quale debba essere lo strumento procedurale idoneo allo scopo. Secondo la giurisprudenza di legittimità più risalente, si era ritenuto che il giudice dell’esecuzione potesse avvalersi della procedura della correzione di errore materiale ai sensi dell’art. 130 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 23661 del 29/04/2014, Anselmi, Rv. 259689-01; Sez. 1, n. 43085 del 17/10/2012, Alberghina, Rv. 253701-01). Detto indirizzo ermeneutico è stato poi superato dalle Sezioni Unite, riconducendo l’intervento in materia alle competenze esplicitamente attribuite al giudice dell’esecuzione dall’art. 676, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. U., n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B.). Questa conclusione, poi riproposta dall’indirizzo che riteneva esclusivamente il procedimento in sede esecutiva quale rimedio all’omessa applicazione della pena accessoria (Sez. 5, n. 47604 del 28/10/2019, Cagnoli, Rv. 277547-01), è stata di recente ribadita e riaffermata dalle Sezioni Unite — con riguardo all’omessa disposizione della sanzione amministrativa accessoria della revoca dell’indennità di disoccupazione e della pensione sociale o di indennità civile — evidenziando che l’art. 676 cod. proc. pen. individua il procedimento di esecuzione come l’unico rimedio per integrare il giudicato con la pena accessoria già omessa, escludendo la possibilità di ricorrere in detta fase alla procedura di correzione dell’errore materiale (Sez. 1, n. 3627 del 11/01/2022, Nicosia, Rv. 282497-01).

Dopo la decisione a sezioni Unite n. 6240 del 2014, in relazione alle forme procedurali da adottare nel procedimento ex art. 183 disp. att. cod. proc. pen., secondo le considerazioni già espresse con la sentenza “Nicosia” si è ritenuto che il giudice dell’esecuzione potesse adottare, anche d’ufficio, lo schema di cui all’art. 130 cod. proc. pen. per emendare un proprio provvedimento che contenga un errore materiale. Quando la sentenza sia divenuta irrevocabile, quindi non più modificabile dal giudice della cognizione che l’ha emessa, la competenza passa al giudice dell’esecuzione, con le forme del procedimento di cui all’art. 666 cod. proc. pen. a seguito di apposita richiesta di parte, rientrando le pene accessorie tra le materie di sua competenza ex art. 676 cod. proc. pen.

Dalle considerazioni così espresse, sono stati affermati i seguenti princìpi di diritto: “la sentenza che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del Procuratore della Repubblica che del Procuratore generale a norma dell’art. 608 cod. proc. pen.”, pur specificando che “resta impregiudicato il potere del pubblico ministero, una volta passata in giudicato la sentenza, di attivare, a norma degli artt. 662 e 183 disp. att. cod. proc. pen., nei casi di pena accessoria predeterminata nella durata, il procedimento di esecuzione, da tenersi nelle forme dell’art. 676 cod. proc. pen., non trovando applicazione l’art. 130 cod. proc. pen.”.

5. I principi affermati dalle Sezioni Unite.

Dalle considerazioni che precedono sono stati affermati i princìpi di diritto così massimati:

«La sentenza di condanna che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del Procuratore della Repubblica che del Procuratore generale a norma dell’art. 608 cod. proc. pen.». (Rv. 283574-01);

«La Corte di cassazione, ove rilevi l’illegittima omessa applicazione di pena accessoria predeterminata nella durata, pronuncia l’annullamento senza rinvio ai sensi dell’art. 620, lett. l), cod. proc. pen., mentre non può ricorrere alla rettificazione di cui all’art. 619 comma 2, cod. proc. pen. (In motivazione la Corte ha specificato che il presupposto della rettificazione consiste nell’esigenza di emendare solamente la specie o qualità della pena, mentre l’omissione di quest’ultima, integrante un vizio della sentenza, rende la decisione carente di una disposizione necessaria)». (Rv. 283574-02);

«Nel caso di sentenza di condanna passata in giudicato, spetta al giudice dell’esecuzione, su iniziativa del pubblico ministero, porre rimedio, a norma degli artt. 662 cod. proc. pen. e 183 disp. att. cod. proc. pen., alla omessa applicazione di una pena accessoria predeterminata nella durata, con procedimento da tenersi nelle forme dell’art. 676 cod. proc. pen., non potendo trovare applicazione l’art. 130 cod. proc. pen.». (Rv. 283574-03).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 3, n. 10199 del 08/10/1997, PG in proc. Aprile, Rv. 209636-01;

Sez. 3, n. 10199 del 08/10/1997, Aprile, Rv. 209636-01;

Sez. U., n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211072-01;

Sez. 1, n. 2149 del 27/11/1998, dep. 1999, Velardi D., Rv. 212532-01;

Sez. 3, n. 19627 del 04/03/2003, Fascetto, Rv. 224846-01;

Sez. 1, n. 45381 del 10/11/2004, PG in proc. Tinnirello e altro, Rv. 230129-01;

Sez. U., n. 22531 del 31/05/2005, Campagna, Rv. 231056-01;

Sez. U., n. 7945 del 31/01/2008, Boccia, Rv. 238426-01;

Sez. 7, n. 24969 del 03/04/2008, Ciavatta;

Sez. 4, n. 23134 del 14/05/2008, Di Girolamo, Rv. 240304-01;

Sez. 6, n. 48443 del 20/11/2008, Funari, Rv. 242427-01;

Sez. 7, n. 5742 del 11/12/2008, dep. 2009, Celentano;

Sez. 5, n. 32158 del 24/04/2009, Rossi;

Sez. 1, n. 22385 del 12/05/2009, De Pieri e altro;

Sez. 6, n. 13789 del 20/01/2011, PG in proc. Fiorito, Rv. 249908-01;

Sez. 1, n. 22067 del 01/02/2011, P.M. in proc. Hu Zhiyu, Rv. 250227-01;

Sez. 4, n. 39065 del 5/07/2012, Salillari, Rv. 253725-01;

Sez. 2, n. 42112 del 27/09/2012, Affinita;

Sez. 1, n. 43085 del 17/10/2012, Alberghina, Rv. 253701-01;

Sez. 6, n. 4300 del 10/01/2013, Grossi, Rv. 254486-01;

Sez. 2, n. 5691 del 15/01/2013, Di Leonardo;

Sez. 1, n. 7909 del 22/01/2013, Imberbe, Rv. 254916-01;

Sez. 6, n. 20108 del 24/01/2013, Derjaj, Rv. 256224-01;

Sez. 1, n. 23661 del 29/04/2014, Anselmi, Rv. 259690-01;

Sez. U., n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262328-01;

Sez. 2, n. 38713 del 24/06/2015, Manzo, Rv. 264801-01;

Sez. 6, n. 3253 del 21/01/2016, Rebai, Rv. 266501-01;

Sez. U., n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831-01;

Sez. 5, n. 51390 del 21/06/2018, P.G. C/ Suddin Sham, Rv. 274453-01;

Sez. U., n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286-01;

Sez. 5, n. 47604 del 28/10/2019, PG C/ Cagnoli, Rv. 277547-01;

Sez. 6, n. 1578 del 26/11/2020, Touimi, Rv. 280582-01;

Sez. 3, n. 30285 del 19/04/2021, Shtogaj, Rv. 281858-01;

Sez. 2, n. 42003 del 24/09/2021, PG C/ Mahmood, Rv. 282206-01;

Sez. 6, n. 46089 del 09/11/2021, PG C/ De Luca, Rv. 282399-01;

Sez. 1, n. 3627 del 11/01/2022, Nicosia, Rv. 282497-01;

Sez. 5, n. 16162 del 17/01/2022, Aragon, Rv. 283013-01;

Sez. 3, n. 30286 del 09/03/2022, Nardelli, Rv. 283650-01.

  • giudice
  • pubblico ministero
  • procedura penale
  • diritto degli stranieri
  • esecuzione della sentenza
  • espulsione

CAPITOLO V

OMESSA STATUIZIONE DELLA MISURA DI SICUREZZA DELL’ESPULSIONE DELLO STRANIERO NELLA SENTENZA DI CONDANNA IN SEDE DI ABBREVIATO. LA PROSPETTIVA IMPUGNATORIA DEL PUBBLICO MINISTERO

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 La soluzione delle Sezioni Unite sul mezzo di impugnazione esperibile. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

La questione rimessa alle Sezioni Unite trae origine da un contrasto di giurisprudenza sulla impugnabilità da parte del pubblico ministero della sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione, di cui all’art. 86 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, se, sotto tal profilo, sia appellabile innanzi al tribunale di sorveglianza ricorribile per cassazione e, ove si ritenga esperibile il ricorso, se, in caso di annullamento, il rinvio debba essere disposto al tribunale o del giudice per le indagini preliminari che ha emesso la sentenza impugnata ovvero al tribunale di sorveglianza competente ai sensi dell’art. 680, comma 2, cod. proc. pen.

Nel caso concreto, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Torino aveva impugnato la sentenza di condanna per il reato di cui agli artt. 81, cpv. e 110 cod. pen. e 73, comma quinto, e 80, comma primo, lett. a), del d.P.R. n. 309 del 1990, emessa dal G.u.p. del Tribunale di Torino all’esito del giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, per aver omesso di disporre nei confronti dell’imputato la misura di sicurezza della espulsione dal territorio dello Stato, di obbligatoria adozione, ove sia stata accertata la pericolosità sociale dell’imputato, ai sensi dell’art. 86, comma primo, del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990.

Il contrasto di giurisprudenza segnalato emerge dal maturare di due opposte soluzioni al quesito, espressione di orientamenti giurisprudenziali tra loro non componibili.

Un primo orientamento, segnalato come maggioritario, ritiene ammissibile il solo ricorso in cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza di condanna resa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire sull’applicazione della misura di sicurezza dello straniero dal territorio dello Stato ex art. 86 del d.P.R. n. 309 del 1990, e, nel caso di annullamento della sentenza, proprio per la ritenuta inappellabilità della sentenza, individua, quale giudice di rinvio, il tribunale che ha emesso la pronuncia impugnata, e non il tribunale di sorveglianza ex artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen.

La soluzione è espressa dalla recente Sez. 6, n. 29544 del 07/10/2020, PG c/ Zheng Qiu, Rv. 279890-01 che ha ribadito la più remota Sez. 1, n. 27798 del 25/06/1998, El Kahdri, Rv. 240909-01.

Sez. 6, n. 29544 del 07/10/2020, cit., ripercorrendo la motivazione di Sez. 4, n. 35977 del 07/05/2019, PMT c. Belguith Sami, Rv. 276863-01, riconosce portata derogatoria dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., in tema di impugnazione delle sentenze rese a seguito di abbreviato, rispetto alle disposizioni sulla competenza funzionale di appello del tribunale di sorveglianza sulle misure di misure di sicurezza diverse dalla confisca, con conseguente prevalenza, nella apparente antinomia normativa, dei limiti alla legittimazione alla impugnazione del pubblico ministero, al quale è consentito il solo ricorso per cassazione in relazione alla omessa applicazione della misura di sicurezza obbligatoria, come nel caso della espulsione dello straniero dallo Stato (conf. ex multis, Sez. 1, n. 01834 dell’11/01/2011, Poeta, non massimata sul punto; Sez. 1, n. 27798 del 25/06/2008, El Khadri, Rv. 240909-01).

Nei cit. arresti la Corte osserva che la particolarità del mezzo di gravame previsto dall’art. 680, comma 2, cod. proc. pen. non giustifica la disapplicazione della generale preclusione stabilita per il pubblico ministero dall’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. di proporre “appello” avverso le sentenze di condanna emesse all’esito del giudizio abbreviato (salvo che esse abbiano modificato il titolo del reato). La definizione in termini di “appello”, ai sensi dell’art. 680, comma 3, cod. proc. pen., dell’impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure di sicurezza trova la propria ratio negli evidenti connotati di merito di cui è intrisa la necessaria valutazione di pericolosità sociale del condannato e, in quanto tale, non si sottrae all’osservanza delle disposizioni generali sulle impugnazioni. Fermo restando il divieto per il pubblico ministero di appellabilità della sentenza di condanna pronunciata nel giudizio abbreviato, allo stesso non è affatto precluso di proporre ricorso per cassazione a norma dell’art. 606 cod. proc. pen., censurando l’omessa statuizione in punto di applicazione obbligatoria della misura di sicurezza dell’espulsione nei confronti dello straniero condannato, e chiedendone l’annullamento con rinvio, per il necessario giudizio di pericolosità sociale dell’imputato e per le conseguenti determinazioni circa la misura di sicurezza.

La soluzione ribadisce il principio espresso da Sez. 3, n. 32173 del 08/05/2018, P., Rv. 273693-01, secondo cui, in caso di annullamento il rinvio deve essere disposto dinanzi al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., proprio per la non appellabilità della sentenza di condanna emessa all’esito del giudizio abbreviato (conf., su tale ultima soluzione, Sez. 4, n. 26572 del 15/09/2020, Sambou Lamin; Sez. 5, n. 32047 del 10/06/2014, Dulap e le più recenti Sez. 5, n. 34818 del 20/09/2021, P.C. c. Sekyere; Sez. 1, n. 7516 del 26/02/2020, P.G. c. Cadoni, Rv. 278625-01 e Sez. 5, n. 01196 del 04/12/2020, dep. 2021, Tafi´f, Rv. 280136-01).

Un contrario e più recente orientamento, espresso da Sez. 6, n. 16798 del 25/03/2021, P.G. c. Sillah, Rv. 281515-01 si pone in consapevole dissenso rispetto all’orientamento tradizionale (nella medesima prospettiva interpretativa, Sez. 6, n. 53938 del 20/11/2018, P.G. c. Bourilahrach, e Sez. 6, n. 49934 del 25/09/2018, P.G. c. Mbosi).

La sentenza P.G. contro Sillah rileva che, per effetto del combinato disposto dell’art. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen., l’impugnazione delle sole disposizioni contenute nella sentenza gravata riguardanti l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca non possono che essere rimesse alla competenza del tribunale di sorveglianza, che ha natura funzionale e non derogabile. Uniche ipotesi di deroga, normativamente previste, sono i casi in cui l’impugnazione abbia ad oggetto la confisca ovvero anche un altro capo della sentenza che non riguardi esclusivamente gli interessi civili, oltre alla misura di sicurezza personale («tutte le sentenze, di condanna o di proscioglimento, indipendentemente dal grado e dalla fase in cui siano state emesse e dal rito processuale scelto, allorché la impugnazione riguardi esclusivamente una misura di sicurezza personale […] possono essere impugnate soltanto di fronte al Tribunale di sorveglianza»).

L’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., nel sancire la inappellabilità da parte della pubblica accusa delle sentenze di condanna emesse in esito a giudizio celebrato con il rito abbreviato, costituisce previsione derogatoria ed eccezionale rispetto alla regola generale in tema di impugnazioni di cui all’art. 593 cod. proc. pen., come tale di stretta interpretazione e non suscettibile di incidere sulla normativa, di carattere sistematico e generale, che assegna al tribunale di sorveglianza la impugnazione avverso le sentenze di condanna o di proscioglimento concernente le sole statuizioni sulle misure di sicurezza diverse dalla confisca. La soluzione trova fondamento anche sul piano esegetico, nel richiamo alla «coerenza interna derivante dalla riserva competenziale», che individua il tribunale di sorveglianza come organo giudiziario specializzato in tema di misure di sicurezza.

2. La soluzione delle Sezioni Unite sul mezzo di impugnazione esperibile.

Sulla questione principale, riguardante l’impugnazione esperibile da parte del pubblico ministero, avverso la sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di disporre la misura di sicurezza dell’espulsione dell’imputato straniero dal territorio dello Stato, le Sezioni Unite hanno ritenuto condivisibile l’orientamento maggioritario, valorizzando l’esegesi del dato normativo.

Il principio di diritto affermato è stato così massimato: «La sentenza di condanna, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione prevista dall’art. 86 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è, sotto tale profilo, appellabile dal pubblico ministero innanzi al tribunale di sorveglianza ex art. 680 cod. proc. pen., bensì impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 608 cod. proc. pen., con rinvio, in caso di annullamento, al medesimo giudice ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.».

Le Sezioni Unite evidenziano, in primo luogo, che il dettato dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. depone chiaramente per la non appellabilità della sentenza di condanna da parte del pubblico ministero, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato.

Analizzano anche l’accezione ampia di tale nozione elaborata dalla giurisprudenza della Corte. A titolo esemplificativo, sono richiamati gli arresti di Sez. 6, n. 01651 del 12/11/2019, dep. 2020, Rv. 278215-01, che ammette il gravame del pubblico ministero avverso la sentenza che, contraddicendo una contestazione di concorso formale di reati, stabilisca l’assorbimento della fattispecie meno grave in quella piu` grave; Sez. 5, n. 15713 del 02/02/2018, Balla, Rv. 272840-01, che lo ammette avverso la sentenza che riqualifichi in eccesso colposo di legittima difesa l’originaria contestazione di omicidio preterintenzionale).Il mutamento del titolo di reato, determinando l’appellabilità tout court della sentenza, comporta l’impugnabilita`, da parte del pubblico ministero, non solo della decisione concernente la diversa qualificazione giuridica, ma di ogni altro aspetto della sentenza di condanna, nei limiti di cui all’art. 593, comma 1, cod. proc. pen.

La piana interpretazione della lettera dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen. trova conferma nella legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, di cui la norma costituisce attuazione, laddove all’art. 2, punto 53, prevede limiti alla appellabilita` della sentenza emessa nell’ambito del rito abbreviato, nonché nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale (in G.U., suppl. ord. n. 2, n. 250 del 24 /10/1988, p. 106) che individua la ratio dei limiti dell’appellabilita` della sentenza emessa nel giudizio abbreviato nell’esigenza di imprimere cadenze acceleratorie al giudizio, sia in primo grado che in fase d’impugnazione, onde addivenire celermente alla definizione del processo. In tale quadro, la previsione della possibilita` per il pubblico ministero di appellare la sentenza con cui venga modificato il titolo di reato costituisce ipotesi eccezionale.

Del resto, la previsione di siffatti limiti alla appellabilità del pubblico ministero ha resistito al vaglio di costituzionalità, in quanto la Corte costituzionale ha rilevato che il principio di parita` tra le parti non implica una necessaria simmetria tra i poteri di impugnazione della decisione giudiziale (C. cost. n. 305 del 1992; C. cost. n. 363 del 1991). E ciò anche dopo la riforma attuata dalla legge n. 479 del 1999, per la quale non è più richiesto il consenso del pubblico ministero per l’instaurazione del giudizio abbreviato (C. cost. n. 421 del 2011; C. cost. n. 347 del 2002), dovendo riservarsi le maggiori possibilita` di impugnazione al soggetto che, sia pure di propria ed esclusiva iniziativa, sopporta la limitazione tipica del giudizio abbreviato e cioe` la valorizzazione di elementi probatori non acquisiti in contraddittorio (C. cost. n. 26 del 2007; C. cost. n. 165 del 2003).

L’esegesi letterale investe, poi, la univoca riferibilità della preclusione all’appellabilità ex art. 443, comma 3, cod. proc. pen. alle “sentenze” di condanna, termine unitario che fa espresso riferimento al complesso delle statuizioni contenute nel provvedimento giurisdizionale escludendo che sia proponibile appello avverso singoli capi penali della sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato.

Tale preclusione opera, secondo le Sezioni Unite, anche con riferimento all’impugnazione in materia di misure di sicurezza innanzi al tribunale di sorveglianza, espressamente qualificata come appello ex art. 680, commi 1 e 3, cod. proc. pen. Come rilevato in Sez. 1, n. 27798 del 25/06/2008, El Khadri, Rv. 240909-01, si riscontrano evidenti connotati di merito nella valutazione di pericolosita` sociale del condannato, che costituisce il necessario presupposto della applicazione o meno della misura di sicurezza.

L’impugnazione ex art. 680 cod. proc. pen. ha i caratteri e la natura giuridica di appello anche sotto il profilo strettamente procedimentale, con riferimento alle regole che disciplinano la competenza territoriale del tribunale di sorveglianza, per le impugnazioni contro le sole disposizioni concernenti le misure di sicurezza, avuto riguardo al distretto giudiziario di appartenenza del tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado (Sez. 1, n. 14602 del 10/01/2011, Pucci, Rv. 249736-01); alle forme del procedimento camerale partecipato, trovando applicazione le disposizioni di cui all’art. 599 cod. proc. pen., il quale rinvia alle forme dell’udienza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 25207 del 15/04/2019, Rv. 275846-01); all’operativita` dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. sul divieto di reformatio in peius, per effetto del richiamo all’osservanza delle disposizioni generali in materia di impugnazioni, contenuto nell’art. 680, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 48786 del 28/05/2013, Rv. 258659-01).

Le Sezioni Unite non ritengono condivisibile l’argomento logico-sistematico sul quale fa leva la tesi favorevole all’ammissibilita` dell’appello di fronte al tribunale di sorveglianza.

Nessun argomento a sostegno può trarsi da Sez. U., n. 03423 del 29/10/2020, (dep. 2021), Gialluisi, Rv, 280261-01. Da tale decisione l’orientamento favorevole alla ammissibilità dell’appello fa derivare l’autonomia delle vicende processuali correlate all’impugnazione delle misure di sicurezza disposte con sentenza di condanna (Sez. 1, n. 02260 del 26/03/2014, dep. 2015, Rv. 261891-01; Sez. 1, n. 06371 del 31/01/2006, Brusco, Rv. 233443-01), da attribuire alla competenza funzionale del tribunale di sorveglianza, dalla cui decisione dipende la sola esecuzione delle misure di sicurezza ordinate con sentenza, analogamente alle vicende relative all’impugnazione dei soli capi civili, che non condiziona l’eseguibilita` della pena, a norma dell’art. 573, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 16798 del 25/03/2021, Rv. 281515-01).

In realtà, come argomentato in sentenza, Sez. U Gialluisi, intervengono sul tema del giudicato progressivo in relazione alla diversa tematica relativa al regime delle impugnazioni della misura di sicurezza personale.

Nella sentenza, infatti, si mette in luce l’autonomia tra le statuizioni relative al reato e alla pena e quelle afferenti alle misure di sicurezza personali, che hanno percorsi distinti, anche in sede esecutiva.

L’esecutivita` della sentenza in caso di giudicato progressivo non presuppone la definitivita` della decisione in ordine alle misure di sicurezza, inidonee ad influire sui connotati che devono caratterizzare la pena suscettibile di esecuzione. Il legislatore ha individuato per l’impugnazione della misura di sicurezza un percorso del tutto autonomo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, cod. proc. pen., non potendo da ciò derivarsi, per quanto attiene specificamente al giudizio abbreviato, la assoggettabilità delle statuizioni inerenti alle misure di sicurezza a un regime impugnatorio diverso da quello dei capi penali della sentenza.

Le Sezioni Unite, dunque, non ritengono che l’affermazione di una competenza funzionale del tribunale di sorveglianza ex art. 579, comma 2, cod. proc. pen., in caso di impugnazione del solo capo della sentenza relativo all’applicazione della misura di sicurezza personale e al giudizio di pericolosita` (Sez. 6, n. 36535 del 22/09/2010, D., Rv. 248597-01; Sez. 6, n. 36535 del 22/09/2010, D., Rv. 248597-01; nonché sulla competenza funzionale del tribunale di sorveglianza, ex plurimis, Sez. 1, n. 51869 del 30/09/2019, Cruz Guzman, Rv. 277860-01; Sez. 1, n. 03645 del 22/12/2017, N.L.; Sez. 5, n. 45650 del 26/09/2012, L. G.; Sez. 6, n. 26096 del 06/05/2004, Veizi, Rv. 229645-01) possa costituire valido argomento a sostegno della tesi favorevole alla appellabilità.

L’architettura delle disposizioni processuali, di contro, esclude che la competenza del tribunale di sorveglianza in materia di impugnazione delle disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza possa definirsi generalizzata o che possa ritenersi che il tribunale di sorveglianza sia un organo specializzato in subiecta materia.

Secondo il disposto dell’art. 579, comma 1, cod. proc. pen., tale competenza deve essere circoscritta ad ipotesi concettualmente, oltre che operativamente, ben definite, nell’ambito della fase cognitiva di impugnazione. Essa viene meno, allorché l’impugnazione venga proposta anche per un altro capo della sentenza che non riguardi esclusivamente gli interessi civili, involgendo ulteriori questioni poste dalla regiudicanda (responsabilita`, qualificazione giuridica del fatto, sussistenza o insussistenza di una circostanza attenuante o aggravante, trattamento sanzionatorio ecc.), con conseguente attribuzione della competenza alla Corte di appello in applicazione della regola generale (cfr. Sez. 2, n. 29625 del 28/05/2019, A., Rv. 276450-01, Sez. 1, n. 02260 del 26/03/2014, dep. 2015, Rv. 261891-01, Sez. 1, n. 02457 del 16/12/2008, Pedone, Rv. 242812-01, e Sez. 1, n. 06371 del 31/01/2006, Brusco, Rv. 233443-01). Attribuzione che permane anche qualora la stessa sentenza sia impugnata per i capi penali da una parte diversa da quella che ha proposto impugnazione per le sole statuizioni relative alle misure di sicurezza, per la necessita` di un simultaneus processus che privilegi lo stretto legame esistente tra accertamento del reato e giudizio di pericolosita` sociale, con conseguente devoluzione dell’intera regiudicanda al giudice competente a conoscere dell’impugnazione avverso i capi penali (Sez. 5, n. 07848 del 13/03/1990, Maruca, Rv. 184521-01).

Le Sezioni Unite evidenziano, poi, le differenze con il regime relativo all’appellabilita` delle sentenze emesse al termine del rito ordinario, a seguito della modifica dell’art. 593, comma 1, cod. proc. pen. ad opera dell’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 11 del 2018, che ha allineato la disciplina per il giudizio ordinario al regime previsto per il giudizio abbreviato. La disposizione prevede che il pubblico ministero possa proporre appello avverso le sentenze di condanna solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Permane, tuttavia, in ordine alla questione in esame, una insanabile alterita` testuale: l’art. 593, comma 1, a differenza dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., richiama espressamente gli artt. 579 e 680 cod. proc. pen., dando la possibilità, in sede di giudizio ordinario, al pubblico ministero che intenda impugnare la sentenza di condanna esclusivamente in ordine al capo concernente le misure di sicurezza, diverse dalla confisca, di proporre appello innanzi al tribunale di sorveglianza.

Inoltre, l’art. 593, comma 1, cod. proc. pen. fa espressamente salva la previsione di cui all’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., confermando la possibilità dell’appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato nel solo caso di sentenza che muti la qualificazione giuridica del fatto.

La connessa questione dell’individuazione del giudice di rinvio in caso di annullamento della sentenza di condanna per la sola omessa statuizione in ordine alla misura di sicurezza personale trova agevole soluzione sulla base delle esposte argomentazioni a sostegno della tesi che esclude la possibilità di appello.

Le Sezioni Unite affermano che, non essendo abilitato il pubblico ministero ad appellare la sentenza pronunciata in sede di rito abbreviato, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il ricorso per cassazione dal medesimo proposto avverso la decisione che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione non puo` essere considerato ricorso per saltum, con la conseguenza che non trova applicazione il disposto dell’art. 569, ultimo comma, cod. proc. pen., secondo cui il giudice competente per il giudizio di rinvio e` il giudice competente per l’appello. Ne deriva che il giudice del rinvio è lo stesso organo che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 1, n. 32173 del 13/07/2018, P., Rv. 273693-01).

Ne consegue che l’’ppello presentato dal pubblico ministero dinanzi al tribunale di sorveglianza deve essere qualificato come ricorso per cassazione, in ossequio al principio generale di cui all’art. 568, comma 5, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 07516 del 07/02/2020, Cadoni, Rv. 278625; Sez. 4, n. 35977 del 13/08/2019, Belguith Sami, Rv. 276863-01; Sez. 1, n. 27798 del 25/06/2008, El Khadri, Rv. 240909). Nel caso in cui, invece, il tribunale di sorveglianza, ritenendo erroneamente la propria competenza, sia addivenuto ad una pronuncia, quest’ultima andra` annullata senza rinvio (Sez. 3, n. 34805 del 01/07/2009, Torna, Rv. 244570-01).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 1, n. 27798 del 25/06/2008, El Khadri, Rv. 240909-01;

Sez. 1, n. 1834 dell’11/01/2011, Poeta;

Sez. 5, n. 32047 del 10/06/2014, Dulap Dumitru;

Sez. 3, n. 32173 del 08/05/2018, P., Rv. 273693-01;

Sez. 6, n. 49934 del 25/09/2018, P.G. c. Mbosi;

Sez. 6, n. 53938 del 20/11/2018, P.G. c. Bourilahrach;

Sez. 4, n. 35977 del 07/05/2019, PMT c. Belguith Sami, Rv. 276863-01;

Sez. 4, n. 26572 del 15/09/2020, P.G. c. Sambou Lamin;

Sez. 1, n. 07516 del 26/02/2020, P.G. c. Cadoni, Rv. 278625-01;

Sez. 6, n. 29544 del 7/10/2020, P.G. c. Zheng Qiu, Rv. 279890-01;

Sez. 5, n. 01196 del 4/12/2020 (dep. 2021), Tafi´f, Rv. 280136-01;

Sez. 6, n. 16798 del 25/03/2021, P.G. c. Sillah, Rv. 281515-01;

Sez. 5, n. 34818 del 20/09/2021, P.C. c. Sekyere.

  • procedura penale
  • testimonianza
  • prova

CAPITOLO VI

RIFORMA IN APPELLO DELLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE E “GARANZIE COMPENSATIVE” NEL CASO IN CUI SIA IMPOSSIBILE PROCEDERE ALLA RINNOVAZIONE DELLA PROVA DICHIARATIVA PER DECESSO, IRREPERIBILITÀ O INFERMITÀ DEL TESTE

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 La soluzione delle Sezioni Unite. - 3 Le linee di continuità con le precedenti decisioni nel quadro della interpretazione della Corte EDU. - 4 Limiti all’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

La questione rimessa alle Sezioni Unite trae origine da un potenziale contrasto interpretativo in ordine all’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva nel giudizio di appello ed alla preclusione alla decisione di riforma della sentenza assolutoria di primo grado nel caso in cui si verifichi l’impossibilità di procedervi (nel caso di specie, a causa del decesso del soggetto da esaminare).

Il contrasto nasce dalla affermazione, contenuta in Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267490-01 - non condivisa dal Collegio rimettente - secondo cui è preclusa la possibilità della riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado ex actis in caso di impossibilità di riascolto del dichiarante (il principio è stato così massimato: «Nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione della concludenza delle dichiarazioni ritenute decisive, l’impossibilità di procedere alla necessaria rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa - ad esempio per irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare - preclude il ribaltamento del giudizio assolutorio ex actis, fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all’esame non dipenda né dalla volontà di favorire l’imputato né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte.»).

Nel caso concreto, a seguito della decisione di annullamento della condanna dell’imputato, in riforma della decisione assolutoria di primo grado, per la riscontrata violazione del principio espresso da Sez. U., Dasgupta, in ragione della erronea rivalutazione, meramente cartolare in secondo grado, del contributo narrativo offerto al processo dalla coimputata (Sez. 1, n. 48293 del 13/07/2017), il giudice del rinvio si è trovato nell’impossibilità di applicare la regola di diritto enunciata, non potendo procedere al nuovo esame della dichiarante, perché nelle more deceduta. Ha, quindi, disposto l’acquisizione ex art. 512 cod. proc. pen. dei verbali delle dichiarazioni predibattimentali rese dalla coimputata. Nell’ordinanza istruttoria il giudice del rinvio ha osservato che l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa «non esclude espressamente l’applicabilità al giudizio di appello degli artt. 512 e 513 cod. proc. pen., in linea con l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 603 c.p.p., commi 3 e comma 3-bis, in relazione all’art. 111 Cost., comma 5». Di qui, pervenendo ad una decisione di riforma sfavorevole per l’imputato, il potenziale contrasto con la c.d. “regola Dasgupta” enunciata nella sentenza di annullamento, in cui si fa riferimento al divieto di “conseguenze pregiudizievoli” per l’imputato in caso di “eventuale rifiuto” del dichiarante di sottoporsi a esame.

Al fine prevenire un possibile disallineamento o contrasto all’interno della giurisprudenza di legittimità, nell’ordinanza di rimessione si era evidenziata la necessità di salvaguardare, sul piano ermeneutico e nel rispetto della funzione nomofilattica del giudice di legittimità ex art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., la linea di sostanziale continuità del rinnovato quadro normativo voluto dal legislatore del 2017 con i principi espressi da Sez. U., Dasgupta e da Sez. U., n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787-01, proponendo una lettura del nuovo comma 3 bis dell’art. 603 cod. proc. pen. allineata al diritto vivente espresso, in forma di obiter, da Sez. U., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430-01.

Si osserva, in primo luogo, che il principio espresso da Sez. U., Dasgupta, Rv. 267490-01, si riferisce in via principale all’ipotesi di impossibilità di rinnovazione della prova dichiarativa del cd. teste vulnerabile, restando affidata al giudice la valutazione circa l’insuperabile necessità della reiterazione dell’atto istruttorio, così introducendo una flessibilità che mitiga l’apparente formulazione in termini assoluti dell’obbligo istruttorio. Si propone una interpretazione costituzionalmente orientata del nuovo art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., consentendo l’art. 111, comma 5, Cost. che eccezionalmente, nei casi regolati dalla legge, “la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita” (C. cost. n. 440 del 2000; C. cost. ord. n. 375 del 2001, ove si è precisato che l’oggettiva impossibilità di ripetizione dell’atto dichiarativo, rientrante nella sfera dell’art. 512 cod. proc. pen. potrebbe «derivare da morte, irreperibilità, infermità che determina una totale amnesia del testimone»).

Inoltre, la soluzione alla questione non può non tener conto della scelta del legislatore di introdurre il nuovo comma 3 bis dell’art. 603 cod. proc. pen., che disciplina l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in appello, indizio significativo della estraneità a tale obbligo di una supposta preclusione assoluta all’overturning sfavorevole per l’ipotesi che la rinnovazione dell’esame del dichiarante sia divenuta impossibile (a causa del suo decesso), nei termini indicati da Sez. U., Dasgupta, potendo l’obbligo di rinnovazione, essere soddisfatto attraverso la lettura di atti predibattimentali ex art. 512 cod. proc. pen.

Di qui l’osservazione che la preclusione per il giudice di appello alla riforma della sentenza di assoluzione si tradurrebbe in «una sorta di “regola di esclusione probatoria”, che non trova alcun riscontro nella disciplina positiva, ivi compresa quella di cui alla legge n. 103 del 2017, né è prevista o imposta dall’art. 111, comma 5, Cost., nella richiamata interpretazione che ammette la deroga al principio del contraddittorio per i casi di accertata impossibilità oggettiva, riferibili a “fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante”, tra i quali rientra la morte dello stesso».

Del resto, la possibilità di una deroga al principio del contraddittorio viene ammessa anche da Corte EDU, sia nella sentenza Corte EDU, 05/07/2011, Dan c. Moldavia (sub § 33, ove in via incidentale si afferma che «vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perché, per esempio, egli o ella è deceduto/a»), sia in successive pronunce (Corte EDU, Sez. I, sentenza 29/06/2017, Lorefice c. Italia; Corte EDU, Sez. II, 10/11/2020, Dan c. Moldavia n. 2). In particolare, si segnalano due pronunce della Grande Camera (Corte EDU, 15/12/2011, Al-Khawaja e Tahery contro Regno Unito e Corte EDU, 15/12/2015, Schatschaschwili contro Germania) che hanno interpretato in modo più flessibile la regola basata sulla “prova sola o determinante”, tale da far ritenere, nell’interpretazione del diritto vivente (Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531-01), «compatibile con le garanzie convenzionali la condanna fondata su dichiarazioni decisive assunte in via unilaterale, ogni volta che il sacrificio del diritto di difesa (ovvero l’impossibilità di interrogare direttamente il teste fondamentale) sia bilanciato da “adeguate garanzie procedurali”[...]».

Ove ricorrano idonee garanzie procedurali (cfr. Sez. 6, n. 50994 del 26/03/2019, D., Rv. 278195-03; conf. Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148-01), anche nel caso in cui la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia impedita dal sopravvenuto decesso del teste, la dichiarazione non sottoposta al vaglio del contraddittorio può comunque giustificare la decisione di condanna e, quindi, il superamento della presunzione di innocenza, ma la presenza di una sentenza assolutoria di primo grado configura la necessità di un “rafforzamento” degli oneri motivazionali in quanto la decisione assolutoria del primo giudice è sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa (in tal senso, la citata Sez. U., Troise).

Nell’ordinanza di rimessione la Quinta sezione si sforza di fornire possibili soluzioni applicative, alternative o cumulative, alla non condivisa “regola di esclusione probatoria” espressa da Sez. U., Dasgupta, tali da assicurare che l’overturning sfavorevole su prova cartolare sia bilanciato da una base probatoria ed un apparato giustificativo, in linea con le garanzie processuali richieste dai prìncipi costituzionali e con quelli convenzionali.

L’obbligo di motivazione “rafforzata” dell’overturning sfavorevole, nel caso di impossibilità di procedere alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa per il decesso del soggetto da esaminare, potrebbe in concreto: richiedere una confutazione dell’opposta valutazione della prova dichiarativa in quanto collegata a sue evidenti fratture logico-argomentative ovvero al suo fondarsi su accadimenti o rapporti considerati dal giudice di primo grado sulla base di un travisamento di dati probatori; inoltre, in applicazione della regola b.a.r.d., imporre al giudice di appello un incisivo esercizio dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.; infine, dover dar conto di elementi di riscontro alla prova dichiarativa non rinnovata dotati di peculiare attitudine confermativa, così da superare la presunzione d’innocenza “rafforzata” connessa alla assoluzione in primo grado e sopperire al mancato riascolto del dichiarante.

2. La soluzione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con sentenza pronunciata alla camera di consiglio del 30/09/2021, dep. 2022, n. 11586, D., hanno affermato il principio di diritto così massimato: «La riforma, in grado di appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa decisiva sia divenuta impossibile per decesso del dichiarante, e tuttavia la relativa decisione deve presentare una motivazione rafforzata sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, acquisibili dal giudice anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., ivi compresa la possibilità di lettura delle dichiarazioni predibattimentali già rese dal suddetto deceduto.» (Rv. 282808-01).

Le Sezioni Unite analizzano in via preliminare il percorso seguito dalla giurisprudenza sul tema del “ribaltamento” della sentenza assolutoria di primo grado, mostratasi particolarmente sensibile alle indicazioni interpretative provenienti dalla Corte europea di diritti dell’uomo (Corte EDU).

In applicazione delle linee interpretative dettate da Corte EDU, 5 novembre 2011, Dan c. Moldavia (in precedenza, Corte EDU, 7 luglio 1989 Bricmont c. Belgio, e poi, ex plurimis, in quelle Corte EDU, 27 giugno 2000, Constantinescu c. Romania; Corte EDU, 15 luglio 2003, Sigurbòr Arnarsson c. Islanda; Corte EDU, 18 maggio 2004, Destrehem c. Francia; Corte EDU, 21 gennaio 1999, Garcia Ruiz c. Spagna), Sez. U Dasgupta ha sigillato un legame strettissimo con l’orientamento della Corte di Strasburgo, richiedendo in caso di overturning sfavorevole non solo una motivazione rafforzata, ma qualificando come “assolutamente necessaria” la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., in ragione della esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del “ragionevole dubbio”, replichi l’andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte. Ove si verifichi l’impossibilità di procedere alla rinnovazione, ad esempio a causa di irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare, «non vi sono ragioni per consentire un ribaltamento ex actis», fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all’esame non dipenda dalla volontà di favorire l’imputato, né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte. La violazione di tale obbligo configura, secondo Sez. U., Dasgupta, un vizio di motivazione della decisione di appello e non una violazione di legge.

Sez. U., Dasgupta, individua, tuttavia, una deroga all’obbligo di rinnovazione nel caso in cui il propalante sia un soggetto vulnerabile (ad es., il minore, soprattutto se vittima di reati), per il quale è fatta salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessita` di sottoporlo, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress, ovvero alla possibilità di fondare il proprio convincimento sulle dichiarazioni precedentemente rese, quando sia provato che la sottrazione all’esame non dipenda da attività illecite poste in essere da terzi.

La regola tendenzialmente rigida espressa da Sez. U., Dasgupta, dunque, non è posta in termini assoluti, ma presenta un rilevante fattore di flessibilità nel caso del teste “vulnerabile”, affidando al giudice la valutazione in ordine all’insuperabile necessità della rinnovazione della prova dichiarativa.

L’assetto normativo nel quale è maturato il principio espresso da Sez. U., Dasgupta, è stato profondamente modificato dalla legge n. 103 del 2017, che ha introdotto il comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen. (sul profilo della successione di leggi processuali in materia di impugnazioni, le Sezioni Unite richiamano il proprio arresto Sez. U., n. 27614 del 29/03/2017, Lista, Rv. 236537-01). La disposizione, con la quale il legislatore ha inteso recepire le regole del giusto processo secondo l’interpretazione dell’art. 6 Convenzione EDU - come necessità dell’organo giurisdizionale di esaminare il comportamento del propalante nella sua complessità, al fine di pervenire ad una giusta decisione -, prevede che, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone (sempre) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

La littera legis del nuovo comma 3-bis s’ispira sicuramente a quelle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno ritenuto violato l’art. 6 §§, 1 e 3 lett. d), Conv. EDU nel caso di condanna per la prima volta in appello di un imputato, già prosciolto in primo grado, sulla scorta di una mera rivalutazione delle prove dichiarative, senza che siano stati riesaminati i testimoni (o i dichiaranti in genere) a richiesta di parte o di ufficio (Corte EDU, 29 giugno 2017, Lorefice c. Italia). Nulla dice la nuova disposizione circa l’ambito di estensione dell’obbligo di rinnovazione: se l’immediatezza debba essere sempre garantita ovvero siano ammesse ipotesi derogatorie; ovvero se l’ascolto delle fonti orali sia divenuto conditio sine qua non per rovesciare l’esito assolutorio; ovvero ancora, se, in talune situazioni - ed eventualmente quali - si possa pronunciare condanna ex actis.

Una ulteriore ipotesi di deroga all’obbligo di rinnovazione viene ravvisata dalla giurisprudenza della Corte nella possibilità di acquisizione, a determinate condizioni, della prova dichiarativa cartolare ai sensi dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 55068 del 26/09/2017, Panariello, Rv. 271552-01, nel caso in cui sia accertata la subornazione del testimone e non sussistano elementi indicativi di una successiva modifica di tale condizione; Sez. 2, n. 50035 del 19/09/2018, Gentiluomo, Rv. 247619-01, secondo cui la fattispecie di cui all’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. rientra nell’ambito di quelle eccezioni al principio di oralità ipotizzate dalla stessa Corte EDU e previste dall’art. 111, comma 5, Cost. a norma del quale «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilita` di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».).

La stessa Corte EDU (Corte EDU, 15/12/2011, Tahery e Al-Kawaja c. Regno Unito; Corte EDU, 22/11/2012, Tseber c. Repubblica Ceca; Corte EDU, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania) afferma che il preteso obbligo di rinnovazione non promana – né è imposto - dal diritto convenzionale. La Corte europea reputa in contrasto con la garanzia convenzionale «non tanto l’uso della testimonianza documentale, quanto l’operazione di overturning effettuata su un compendio probatorio deprivato rispetto a quello esaminato dai giudici di prima istanza». Di qui l’ammissibilità di una pronuncia di condanna fondata su dichiarazioni predibattimentali cartolari (Corte EDU, Dan c. Moldavia, ammette la possibilità di celebrare un giudizio cartolare in situazioni di irripetibilità oggettiva, come la morte del testimone ed anche ove il dichiarante abbia esercitato il diritto al silenzio su circostanze che potrebbero condurlo alla sua incriminazione), qualora esse risultino accompagnate da adeguate garanzie procedurali (Corte EDU, Sez. II, Kashlev v. Estonia del 26 aprile 2016 e Sez. IV, 27 giugno 2017 Chiper c. Romania).

I parametri elaborati dalla giurisprudenza della Grande Camera sono stati recepiti nella citata sentenza Corte EDU, “Dan n. 2” nella parte in cui si ribadisce che il giudizio di appello deve essere un processo a tutti gli effetti, connotato da oralità e immediatezza nell’assunzione della prova, salva la possibilità di rinuncia dell’interessato, e si affida al giudice dell’impugnazione l’attribuzione della qualifica di main evidence o meno ad una prova testimoniale, e a dover motivare la conseguente necessità di procedere alla rinnovazione (in senso conforme, Corte EDU, Sez. III, 28 gennaio 2020, sul caso Lobarev ed altri c. Russia).

Inoltre, Corte EDU, Sez. I, 22 ottobre 2020, Tondo c. Italia, ha evidenziato che il diritto ad un processo equo esige che ad una prima condanna dell’imputato in appello si possa pervenire soltanto previa riassunzione delle prove decisive in virtù dell’art. 6, § 1, Conv. EDU, quando il giudice di appello non si limiti ad una nuova valutazione di elementi di natura puramente giuridica, ma allorché si pronunci su una questione fattuale come la credibilità del testimone, la cui valutazione e` un atto complesso che merita una nuova escussione.

Infine, Corte EDU, Sez. I, 25/03/2021, Di Martino e Molinari c. Italia (ric. n. 15931/15 e 16459/15) attesta il disallineamento tra il principio dell’equo processo di matrice convenzionale e l’interpretazione del diritto “vivente” delle norme processuali. Con la sentenza in esame, la Corte europea, pur ribadendo che l’overturning dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado deve passare attraverso la rinnovazione della prova decisiva ai fini della condanna, quale condizione necessaria dell’equità del procedimento, ha escluso che nel caso di giudizio abbreviato si realizzi necessariamente una violazione della norma convenzionale nel caso in cui non si proceda a rinnovazione della prova cartolare, per le peculiari dinamiche del giudizio a prova contratta. Il diritto al confronto nell’assunzione della prova dichiarativa viene meno alla luce della opzione per il rito alternativo e delle eventuali integrazioni probatorie disposte dal giudice in primo grado.

Del resto, l’art. 111 Cost. non tutela il principio di immediatezza in via diretta, ma all’interno del processo accusatorio, e fa parte di quella gamma di principi necessariamente da porre a raffronto con l’intero quadro dei valori ricavabili dalla stessa Costituzione. La Corte costituzionale, in ragione della natura non assoluta ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) del diritto della parte alla nuova audizione, che secondo l’interpretazione convenzionale “ammette eccezioni”, ha sollecitato il legislatore ad introdurre «presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio» del diritto in questione (C. Cost., n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007).

3. Le linee di continuità con le precedenti decisioni nel quadro della interpretazione della Corte EDU.

Il rinnovato quadro normativo e le aperture della Corte EDU fanno da sfondo agli interventi delle Sezioni Unite per dirimere i dubbi di compatibilità tra l’art. 6 Convenzione EDU ed il principio del fair trial, declinato dalla giurisprudenza delle Corti europee, con il sistema di nuova assunzione della prova dichiarativa in appello nel caso in cui si intenda riformare l’esito assolutorio di primo grado, vincolando l’adempimento a determinate condizioni.

Sez. U., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430-01, Rv. 272431-01 ha affermato che, anche nel caso di overturning assolutorio, pur non sussistendo un obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, il giudice d’appello è comunque tenuto ad un preciso onere motivazionale, offrendo una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, valutando la possibilità anche di riassumere, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (il principio è massimato in Rv. 272430-01). Le Sezioni unite si sono spinte ad offrire una lettura interpretativa della nuova previsione del comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen., certamente funzionale alla conclusione di insussistenza dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di overturning assolutorio, rafforzata dal fatto che lo stesso legislatore ha voluto un simile obbligo solo nel caso di decisione di condanna.

Sotto tali aspetti Sez. U., Troise, hanno chiarito come, anche dopo l’introduzione della novella normativa, il giudice di appello non è obbligato a disporre una rinnovazione “generale e incondizionata” dell’attività istruttoria svolta in primo grado. L’attività probatoria deve essere concentrata solo sulla fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero, attraverso la richiesta di una nuova rotazione da parte del giudice di appello. Viene circoscritto l’ambito applicativo della nuova rinnovazione, richiedendo che essa debba consistere nella previsione di una nuova mirata assunzione di prove dichiarative, ritenute da giudice d’appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilità. Il requisito della decisività si ricava il rapporto alla rilevanza utilità della prova stessa in vista della decisione.

Con la sentenza Patalano le Sezioni Unite individuano lo spazio operativo dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa imposto dalla norma sia con riferimento al caso in cui l’impugnazione del pubblico ministero si riferisca ad un giudizio ordinario, sia all’ipotesi in cui essa si innesti su un rito abbreviato, non sussistendo preclusioni all’esercizio dei poteri officiosi assegnati al giudice d’appello dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. in tale tipo di giudizio su prova “contratta”, il cui scopo, nel caso di condanna in appello, rimane comunque il superamento di ogni ragionevole dubbio, in ragione del principio del giusto processo.

L’obbligo di rinnovazione, nel caso di overturning di condanna, ha un ambito di applicazione circoscritto rispetto a quello ipotizzabile in astratto: da un lato, in relazione ai casi concreti oggetto di giudizio, atteso che l’orientamento maggioritario di legittimità esclude l’applicabilità dei “criteri Dasgupta” nell’ipotesi in cui il giudice abbia riformato la sentenza assolutoria di primo grado non già in base al diverso apprezzamento di una prova dichiarativa, bensì all’esito della differente interpretazione della fattispecie concreta, fondata su una complessiva valutazione dell’intero compendio probatorio; dall’altro, perché le Sezioni Unite escludono che il principio di immediatezza abbia un ruolo assorbente e prevalente, costituendo piuttosto, in quanto privo di autonoma garanzia costituzionale, un fondamentale carattere del contraddittorio, modulabile dal legislatore sulla base dell’incidenza dell’oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere. Ne deriva che tale principio diviene recessivo dove non venga in questione il relativo canone applicativo.

La stessa giurisprudenza della Corte costituzionale non individua nel principio di immediatezza un diritto assoluto della parte, ma ne ammette regolamentazioni volte ad impedirne usi strumentali e dilatori (C. cost., ord. n. 205 del 2010, C. cost. ord. n. 318 del 2008; C. cost. ord. n. 67 del 2007; C. cost. ord. n. 124 del 2019).

Infine, Sez. U., Pavan Devis, nell’estendere l’obbligo di rinnovazione alla prova tecnica, e nella specie alle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento, costituenti prova dichiarativa in quanto veicolate nel processo a mezzo del linguaggio verbale, hanno segnato, come già anticipato sopra, una nuova tappa nel percorso risolutivo del problema della «ontologica contraddittorietà della decisione sulla colpevolezza dell’imputato derivante da due sentenze dal contenuto antitetico [...] fondate sulle medesime prove» e «sulla modalità processuale, con la quale si deve garantire il diritto di difesa e del contraddittorio [...]» (§ 2 del Considerato in diritto).

Il dato testuale l’art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., nel caso in cui la rinnovazione si riveli impossibile, non esclude dunque il ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado e, del resto. Sez. U., Dasgupta, nel caso di soggetto vulnerabile, affida al giudice il ruolo di “regolatore di interessi”, riconosciuto anche dalla giurisprudenza della Corte EDU.

L’introduzione del comma 3-bis nel corpo dell’art. 603 cod. proc. pen., ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, consolida dell’interpretazione convenzionale del principio di complessiva equità del processo, in linea con l’art. 111, comma 5, Cost..

Si legittima la previsione di una specifica fattispecie derogatoria all’obbligo di riassunzione della prova dichiarativa, nei casi di accertata impossibilità oggettiva della rinnovazione, come nel caso di sopravvenuto decesso della propalante, trattandosi di casi riferibili a “fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni rese in precedenza, a prescindere dall’atteggiamento soggettivo” (C. cost. n. 440 del 2000) ed in accordo con la linea tracciata dalla giurisprudenza della Corte EDU, che individua uno iato tra la fattispecie convenzionale di “complessiva equità” del processo (nei termini indicati nelle due sentenze della Corte EDU, Grande Camera, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito e Schatschaschwili c. Germania, cit.) e l’elaborazione interna del principio di immediatezza istruttoria. In tal modo sono espressamente sottratti all’obbligo di rinnovazione i casi di impossibilità materiale (ad es., morte del testimone), o di tipo giuridico, di riassunzione della prova, ed in cui non vi sarebbe margine per la lesione della garanzia convenzionale, dovendo il giudice limitarsi ad accertare la causa di impedimento, senza svolgere osservazioni sul comportamento del testimone e sulla sua incidenza sull’esito del processo.

4. Limiti all’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa.

Le Sezioni Unite prendono atto che la più recente giurisprudenza della Corte EDU ha ridimensionato il rigore interpretativo della regola basata sulla prova determinante, introducendo un elemento di flessibilità rappresentato dal valore della equità complessiva del processo, affidando al giudice di apprezzare la consistenza di tutti i tuoi contrappesi in grado di compensare, globalmente, le restrizioni delle prerogative difensive causate dall’utilizzazione di una prova non verificata in contraddittorio.

Per effetto dei citati fattori compensativi, funzionali ad una complessiva equità del processo, il giudice, nel caso in cui sia divenuta impossibile la ripetizione in giudizio delle dichiarazioni testimoniali, nel disporre l’acquisizione mediante lettura delle dichiarazioni rese in fase predibattimentale viola la regola fondamentale del necessario contraddittorio.

Gli arresti della Corte offrono una soluzione, in tema di letture dibattimentali, a possibili punti di frizione dell’esigenza di evitare la dispersione di materiali cognitivi con la garanzia del contraddittorio nella formazione della prova, inteso nella duplice declinazione, oggettiva e soggettiva, quale metodo euristico, di accertamento giudiziale, e quale diritto dell’imputato al confronto con le fonti di accusa.

Sul tema, Sez. 6, n. 02296 del 13/11/2013, Frangiamore, Rv. 257771-01, ha ritenuto non configurabile la violazione dell’art. 6 Conv. EDU in un caso in cui le dichiarazioni predibattimentali, acquisite in dibattimento ex art. 512-bis cod. proc. pen., non possono considerarsi determinanti al fine di sostenere la fondatezza dell’accusa, la quale era risultata provata alla luce di ulteriori emergenze processuali; Sez. 6, n. 43899 del 28/06/2018, Tropeano, Rv. 274278-01, ha attribuito rilevanza probatoria secondaria alle dichiarazioni, acquisite ex art. 512 cod. proc. pen., provenienti da soggetto non reperibile, con la conseguenza che non possono essere poste a fondamento della condanna in mancanza di altri elementi di prova, essendo necessario inquadrarle in un ambito più ampio nel quale non assumano rilievo decisivo o preponderante. Infine, Sez. 6, n. 50094 del 26/03/2019, D., Rv. 278195-03, ha affermato che “le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. possono costituire, conformemente all’interpretazione espressa dalla Grande Camera della Corte EDU con le sentenze 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c/ Regno Unito e 15 dicembre 2015, Schatschaachwili c/ Germania, la base determinante dell’accertamento di responsabilità, purché l’assenza di contraddittorio sia controbilanciata da solide garanzie procedurali, individuabili nella esistenza di elementi di riscontro, che corroborino quei contenuti dichiarativi.”.

In altri arresti (Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531-01; Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148-01) si puntualizza la nozione di “garanzie procedurali” idonee a compensare il deficit di contraddittorio. Queste si sostanziano, da un lato, nell’accurato vaglio di credibilità dei contenuti accusatori, effettuato anche attraverso lo scrutinio delle modalità di raccolta, e, dall’altro, nella compatibilità di tali contenuti con i dati di contesto. La verifica di tali garanzie si presenta alternativa a quella dell’esistenza di elementi di conferma esterna ai contenuti accusatori.

Le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. possono, dunque, costituire, in armonia con i canoni interpretativi espressi dalla Grande Camera della Corte EDU, la base determinante dell’accertamento di responsabilità purché l’assenza di contraddittorio sia controbilanciata da solide garanzie procedurali, individuabili nell’esistenza di elementi di riscontro, che corroborino quei contenuti dichiarativi sotto il profilo della attendibilità della fonte.

Le garanzie procedurali, che devono controbilanciare la mancanza di contraddittorio, realizzano l’equità del processo, il “giusto processo” sancito dall’art. 111 Cost.

Espresso è il richiamo alla necessità di “adeguate garanzie compensative, che si sostanziano in un obbligo di motivazione “rafforzata” della sentenza che si fondi sulla prova già acquisita e su elementi ulteriori, idonei compensare il sacrificio del contraddittorio.

Il rafforzamento delle argomentazioni motivazionali, secondo quanto insegnato da Sez. U., Troise deve essere particolarmente incisivo ed avere ad oggetto la dichiarazione “decisiva” resa in primo grado e non più replicabile, attraverso un esame e una valutazione di tutti gli elementi riguardanti la credibilità del soggetto e l’attendibilità del suo narrato, per poi verificarne le aporie logiche e argomentative e il fondamento erroneo dei fatti e rapporti valorizzati dal primo giudice. Inoltre, deve avvenire anche su basi oggettive, dal raffronto con ulteriori elementi da acquisirsi, anche d’ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, che riqualifichino il quadro probatorio disponibile nel giudizio di secondo grado.

Elemento centrale del giudizio è rappresentato dal canone dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, come cristallizzato dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., che, nel formulare in termini assoluti l’obbligo di rinnovazione, sia pur circoscritto alle ipotesi di gravame esperito dal p.m. avverso la sentenza di proscioglimento, sembra aver voluto porre una garanzia più rigida a salvaguardia dell’imputato assolto in primo grado, al fine di consentirgli di partecipare nuovamente all’esame incrociato della fonte di prova dinanzi al giudice chiamato a rivalutarne la responsabilità. Diverso è, infatti, il tenore del nuovo comma 3-bis, che impone (in via automatica) la riassunzione della prova dichiarativa unicamente in caso di appello dell’accusa, a fronte della eventualità di un ulteriore segmento istruttorio ai sensi del comma 3 dell’art. 603 cod. proc. pen., che può essere disposto solo ove il giudice lo ritenga assolutamente necessario.

Le Sezioni Unite esaltano l’onere del giudice di ricercare e acquisire, anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all’art. 603 cod. proc. pen., gli ulteriori elementi compensativi della prova dichiarativa divenuta impossibile. Resta immutata, in tale prospettiva, la funzione dell’appello come mezzo di controllo, che consente al giudice di arricchire, a richiesta di parte o di ufficio, il compendio probatorio valutabile oggetto di acquisizione della prova dichiarativa cartolare.

Tra i poteri d’ufficio del giudice d’appello rientra anche la possibilità di lettura degli atti assunti nel procedimento ex artt. 598 e 603, comma 3, cod. proc. pen., al fine di accertare la credibilità del teste deceduto e l’attendibilità e la coerenza del suo narrato attraverso la ricostruzione dei suoi apporti conoscitivi; ovvero l’acquisizione, ex art. 512 cod. proc. pen., dei verbali di dichiarazioni predibattimentali rese dal testimone, nelle more deceduto.

Le garanzie procedimentali, che possono giustificare sia il superamento della presunzione di innocenza rafforzata, legata all’intervenuta assoluzione, sia la mancanza del contraddittorio, possono anche non operare cumulativamente, spettando alla discrezionalità del giudice, in rapporto alla necessità di integrazione probatoria, valutare se sia necessario o meno ricorrere ad una rinnovazione anche ufficiosa dell’istruzione dibattimentale oppure sia sufficiente una motivazione rafforzata con gli opportuni riscontri.

In particolare, secondo la chiara indicazione delle Sezioni Unite, quanto più sia particolarmente estesa la rinnovazione istruttoria, in funzione della necessità di ricomporre il quadro probatorio, tanto più il giudizio di appello si avvicina alla forma di un novum iudicium, che trova la sua ragion d’essere nella necessità di dover superare la mancanza del contraddittorio, insieme alla presunzione rafforzata di innocenza per effetto della preesistente pronuncia assolutoria.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 6, n. 2296 del 13/11/2013, Frangiamore, Rv. 257771-01;

Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267490-01;

Sez. U., n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787-01;

Sez. 2, n. 55068 del 26/09/2017, Panariello, Rv. 271552-01;

Sez. U., n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430-01, Rv. 272431-01;

Sez. 6, n. 43899 del 28/06/2018, Tropeano, Rv. 274278-01;

Sez. 2, n. 50035 del 19/09/2018, Gentiluomo, Rv. 247619-01;

Sez. 6, n. 50994 del 26/03/2019, D., Rv. 278195-03;

Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531-01;

Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148-01.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE VIII - RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

  • competenza degli Stati membri
  • diritto internazionale-diritto interno
  • diritto dell'UE-diritto nazionale
  • diritto penale internazionale

CAPITOLO I

RAPPORTI CON LE AUTORITÀ GIUDIZIARIE STRANIERE E PRINCIPALI QUESTIONI IN TEMA DI RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE STRANIERE

(di Maria Elena Mele )

Sommario

1 I presupposti per il riconoscimento delle sentenze straniere. Normativa di riferimento. - 2 Il riconoscimento delle sentenze degli Stati membri dell’Unione europea ai fini della recidiva e di ogni altro effetto penale. - 3 Il riconoscimento delle sentenze degli Stati membri dell’Unione europea ai fini delle pene accessorie. - 4 Il riconoscimento delle sentenze degli Stati membri dell’Unione europea di condanna con sospensione condizionale della pena, o con sanzioni sostitutive. - 5 Riconoscimento delle sentenze straniere e reato continuato. - 6 Riconoscimento delle sentenze straniere e incidente di esecuzione. - 7 La procedura di riconoscimento delle sentenze straniere. - 8 Esecuzione di misure cautelari coercitive nello Stato membro dell’Unione europea. - Indice delle sentenze citate

1. I presupposti per il riconoscimento delle sentenze straniere. Normativa di riferimento.

Il tema del riconoscimento delle sentenze straniere è stato ripetutamente affrontato dalla Corte di cassazione nell’anno in rassegna. Sono stati in particolare puntualizzati taluni profili concernenti le sentenze pronunciate dalle autorità giudiziarie di Stati membri dell’Unione europea e gli effetti alle stesse riconosciuti a prescindere dal loro formale riconoscimento. È stato inoltre affrontato il tema dell’ambito di operatività della procedura prevista dall’art. 730 cod. proc. pen., nonché dei limiti del sindacato del giudice italiano chiamato ad operare detto riconoscimento.

È opportuno, innanzitutto, richiamare Sez. 6, n. 8881 del 13/12/2021, dep. 2022, El Janati, Rv. 283046-01, la quale ha chiarito l’ambito di riferimento della disciplina del mutuo riconoscimento delle sentenze emesse dagli Stati membri, affermando che essa riguarda soltanto le sentenze di condanna e non già quelle di assoluzione. Queste ultime, infatti, non costituiscono oggetto di regolamentazione da parte delle norme internazionali e convenzionali e dei principi generali di diritto internazionale. Nell’ambito dell’ordinamento interno tale conclusione trova conferma nella lettura sistematica degli artt. 696 e ss. cod. proc. pen., la cui disciplina si incentra sul nesso riconoscimento-esecuzione delle decisioni, mentre per le sentenze di assoluzione non è prevista alcuna esecuzione.

Ulteriore profilo oggetto di disamina nell’anno in rassegna, è costituito dal diverso parametro invocabile, ai fini del procedimento da seguire per il riconoscimento delle sentenze straniere, a seconda che venga in considerazione una sentenza di condanna emessa da uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero la pronuncia di uno Stato extra europeo. Al riguardo, Sez. 6, n. 13169 del 03/03/2022, G., Rv. 283140-01 ha chiarito che nel primo caso non si applica l’art. 733 cod. proc. pen., ma viene in rilievo la specifica disciplina dettata dagli artt. 9 e ss. d.lgs. n. 161 del 2010, recante disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea.

Pertanto, ai fini della verifica dei requisiti per il riconoscimento della sentenza straniera e, specificamente della valutazione dell’avvenuta citazione a giudizio del condannato dinanzi all’Autorità straniera e del rispetto del suo diritto ad essere interrogato in una lingua a lui comprensibile, con l’assistenza di un difensore, trova applicazione l’art. 13, comma 1, lett. i), n. 1, d.lgs. n. 161 del 2010, in forza del quale rileva la positiva attestazione contenuta nel certificato di cui all’art. 4 della decisione quadro. Tale attestazione, ha precisato la Corte, è sufficiente ai fini di detta valutazione, dal momento che l’Autorità di esecuzione non può sottoporre la decisione da riconoscere ad un controllo di merito, trattandosi di un sindacato che, in via generale, le è precluso dall’art. 696-quinquies cod. proc. pen.

Sez. 2, n. 43572 del 14/09/2022, Vesendi, Rv. 283978-01 ha invece affrontato il tema dei presupposti per il riconoscimento della sentenza straniera di condanna emessa dall’Autorità giudiziaria di uno Stato extraeuropeo (nella specie, si trattava di sentenza della Repubblica di San Marino), in relazione al quale viene in rilievo il rispetto dell’art. 733 cod. proc. pen.

La Core ha affermato che il vaglio cui è chiamato il giudice nazionale in ordine alla sussistenza dei presupposti individuati da tale disposizione richiede la verifica della assenza di profili di contrasto della sentenza straniera con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato italiano e i principi del giusto processo. Tale controllo – ha ribadito la Corte, richiamando Sez. 6, n. 16877 del 05/02/2019, Battarra, Rv. 275646-01 – deve essere effettuato in modo completo, esaminando il contenuto non solo della sentenza straniera di primo grado, ma altresì di quella di appello che deve essere specificamente acquisita. La Corte d’appello deve quindi accertare l’osservanza, nell’ambito del procedimento dello Stato estero, del principio del contraddittorio nella formazione della prova, e deve perciò verificare che l’imputato sia stato ritualmente citato in giudizio, gli sia stato riconosciuto il diritto ad essere interrogato in una lingua a lui comprensibile, vi sia stata la nomina di un difensore d’ufficio e la sua partecipazione all’escussione dei testi.

Con specifico riferimento alla verifica del limite di cui all’art. 733, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la sentenza in esame ha rilevato che nel nostro ordinamento non è espressamente costituzionalizzato il principio del doppio grado giurisdizionale di merito. Tuttavia, ha evidenziato come, in virtù degli artt. 10 e 117, comma 1, Cost., hanno assunto valenza privilegiata i principi internazionali (e, specificamente, recati dal Patto internazionale per i diritti civili e politici e dalla Convenzione EDU) che riconoscono al soggetto condannato per fatti aventi rilevanza penale il diritto alla revisione, al riesame o alla rivalutazione della decisione da parte di un organo giurisdizionale di diversa o ulteriore istanza.

Pertanto, si è affermato che la Corte d’appello, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera, è tenuta a verificare se siano stati concessi al condannato dall’ordinamento estero mezzi ordinari di impugnazione o di revisione di qualsiasi portata. Nella fattispecie esaminata, la Seconda sezione ha escluso la violazione dell’art. 733, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., dal momento che, avverso la decisione di primo grado, era stata assicurata al condannato la possibilità di proporre appello, il quale tuttavia era stato dichiarato inammissibile in quanto tardivo, e il ricorrente non aveva dedotto l’esistenza di circostanze di fatto o di diritto che avessero inciso sulla impossibilità di proporre tempestivamente l’appello.

2. Il riconoscimento delle sentenze degli Stati membri dell’Unione europea ai fini della recidiva e di ogni altro effetto penale.

Sez. 6, n. 29949 del 16/06/2022, PG c/ Alesci, Rv. 283614-01 ha affrontato la questione dei rapporti tra l’istituto del riconoscimento, previsto dall’art. 730 cod. proc. pen., della sentenza di condanna irrevocabile emessa dal Tribunale di uno Stato estero e il meccanismo del mutuo riconoscimento tra gli Stati dell’Unione europea delle decisioni di condanna ai fini della recidiva ed ogni altro effetto penale.

La pronuncia in esame ha innanzitutto ricostruito il quadro normativo di riferimento richiamando la decisione quadro 2008/675/GAI, la quale ha stabilito il principio secondo cui ad una decisione di condanna pronunciata in uno Stato membro dovrebbero attribuirsi negli altri Stati membri effetti equivalenti a quelli riconosciuti alle condanne nazionali conformemente al diritto nazionale, sia che si tratti di effetti di fatto, sia che si tratti di effetti di diritto processuale o sostanziale esistenti nel diritto nazionale.

In attuazione di tale decisione, il d.lgs. n. 73 del 2016, all’art. 3 ha sancito il principio della assimilazione delle decisioni di condanna adottate dalle autorità giurisdizionali di un altro Stato membro a quelle domestiche, ai soli fini degli effetti che il precedente giudicato spiega nell’ambito di un nuovo procedimento penale secondo la legge nazionale. Tale disposizione stabilisce che dette decisioni di condanna sono valutate anche in assenza di riconoscimento e, purché non contrastino con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere.

La pronuncia in esame ha, altresì, evidenziato che il d.lgs. n. 74 del 2016, nel modificare il Testo unico n. 313 del 2002 in materia di casellario giudiziale, all’art. 5-bis, relativo al Casellario giudiziale Europeo, prevede la diretta iscrizione delle condanne pronunciate in un altro Stato membro dell’Unione europea nei confronti di cittadini italiani trasmesse all’Ufficio centrale, senza necessità del previo riconoscimento, a differenza di quanto disposto dall’art. 3 per il Casellario giudiziale ordinario, ove è prevista l’iscrizione delle condanne definitive, anche pronunciate da autorità straniere, se siano riconosciute ai sensi dell’art. 730 cod. proc. pen.

Sulla base di tale complesso normativo, la Sesta Sezione ha ribadito il principio (già affermato da Sez. 1, n. 25157 del 22/02/2017, dep. 2018, Cat, Rv. 273049-01), secondo il quale l’art. 3 d.lgs. n. 73 del 2016, per le sentenze di condanna pronunciate da autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione europea esclude la necessità del previo giudizio di riconoscimento ai sensi dell’art. 730 cod. proc. pen. per far assumere rilevanza, in sede di esecuzione in Italia, della pena inflitta da sentenza emessa da giudice dello Stato membro, alle statuizioni contenute nella sentenza estera ai soli fini indicati dalla stessa norma, coincidenti con quelli di cui art. 12, comma 1, n. 1), cod. pen.

Il principio di “equivalenza” tra la precedente condanna emessa da uno Stato membro e quella emessa dal giudice nazionale quanto agli effetti concernenti la recidiva e gli altri effetti penali della condanna, nonché quelli ulteriori indicati dall’art. 3, d.lgs. n. 73 del 2016, è stato poi ribadito da Sez. 6, n. 49120 del 16/09/2022, PG c/Greco, Rv. 284042-01 (non massimata sul punto). Tale pronuncia ha, altresì, avuto cura di precisare che il meccanismo della “presa in considerazione” della sentenza emessa dallo Stato membro non solo è circoscritta ai suddetti fini, ma non equivale al suo automatico riconoscimento.

3. Il riconoscimento delle sentenze degli Stati membri dell’Unione europea ai fini delle pene accessorie.

La Corte ha affrontato la questione della possibilità di riconoscimento delle sentenze straniere anche allo scopo di applicare le pene accessorie previste dal nostro ordinamento in relazione al reato per il quale è intervenuta la condanna da parte di uno Stato straniero, come previsto dall’art. 12, primo comma, n. 2, cod. pen. Si tratta in tal caso di stabilire se, per effetto del riconoscimento, sia possibile applicare per i medesimi fatti giudicati all’estero una pena ulteriore e diversa rispetto a quella irrogata dall’autorità giudiziaria straniera.

Sez. 6, n. 49120 del 16/09/2022, PG c/Greco, Rv. 284042-01, non massimata sul punto, ha esaminato la questione con riguardo al ricorso proposto dal Procuratore generale avverso la sentenza della Corte d’appello che aveva escluso il riconoscimento, ex art. 730 cod. proc. pen., della sentenza di condanna di un Tribunale tedesco, ai fini, oltre che della recidiva, della applicazione delle pene accessorie.

La Corte ha innanzitutto escluso che la possibilità di riconoscimento al suddetto scopo sia prevista dalla decisione quadro 2008/675/GAI, e dal d.lgs. n. 73 del 2016, che ad essa ha dato attuazione, dal momento che entrambi si riferiscono alla valutazione di precedenti decisioni di condanna pronunciate in altro Stato membro nei confronti della stessa persona “per fatti diversi” da quelli per cui procede l’Autorità giudiziaria italiana. Nel caso in esame, invece, si tratterebbe di applicare pene accessorie riferibili al “medesimo fatto” oggetto della sentenza straniera.

La pronuncia in esame ha allora verificato la possibilità che, anche con riguardo alle sentenze di condanna di uno Stato membro, sia applicabile l’art. 730 cod. proc. pen. ai fini del riconoscimento degli effetti penali per “gli stessi fatti” considerati dalla pronuncia straniera. Tale disposizione, infatti, prevede il riconoscimento delle sentenze straniere per gli effetti di cui all’art. 12, primo comma, nn. 1, 2 e 3, cod. pen., e perciò, oltre che ai fini della recidiva, degli altri effetti penali, della dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, anche ai fini delle pene accessorie. A tale soluzione è tuttavia di ostacolo il principio del ne bis in idem operante in ambito eurounitario, desumibile dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali e dall’art. 54 della Convenzione di Shengen, il quale è volto a tutelare l’individuo contro la possibilità che gli venga inflitta una seconda pena e, ancor prima, contro la prospettiva di subire un secondo processo per il medesimo fatto. Il riconoscimento di una sentenza straniera allo scopo di applicare una pena ulteriore rispetto a quella irrogata con tale decisione, per il medesimo fatto per cui la persona è già stata giudicata all’estero, violerebbe tale principio. È pur vero – ha ricordato la Corte – che secondo la giurisprudenza europea e costituzionale può ammettersi un doppio binario sanzionatorio per il medesimo illecito senza che sussista tale violazione allorché tra i due procedimenti vi sia una connessione sostanziale e temporale “sufficientemente stretta”. Tuttavia, la sussistenza di tale connessione deve essere verificata in concreto attraverso l’esame della sentenza straniera, mirando ad evitare che la persona resti ingiustificatamente esposta ad una situazione di incertezza protratta nel tempo.

Applicando tali principi alla fattispecie esaminata, la Sesta sezione ha rilevato come la connessione cronologica, oltre a non essere illustrata dal ricorrente, neppure ricorreva, dal momento che la sentenza di condanna emessa dall’autorità giudiziaria tedesca era divenuta definitiva nel 1998 (si veda, sulla medesima questione, ed in senso conforme, nell’anno successivo a quello qui in rassegna, Sez. 6, n. 11145 del 12/01/2023, PG c/Imbrosciano, in corso di massimazione).

4. Il riconoscimento delle sentenze degli Stati membri dell’Unione europea di condanna con sospensione condizionale della pena, o con sanzioni sostitutive.

Il d.lgs. n. 38 del 2016 dà attuazione alle disposizioni della decisione quadro 2008/947/GAI, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento, tra Paesi dell’Unione europea, delle sentenze di condanna con sospensione condizionale della pena, o con sanzioni sostitutive, ovvero delle decisioni di liberazione condizionale, che impongano obblighi e prescrizioni.

Tale disciplina è stata esaminata da Sez. 1, n. 49733 del 18/11/2022, Rugiero, Rv. 283839-01, con riguardo ad una sentenza di condanna estera con la quale era stata dispostala sospensione condizionale della pena sotto vigilanza. La Corte ha ricordato come il citato decreto, all’art. 10, prevede che la Corte d’appello adegui le sanzioni incompatibili, per durata o tipologia, con quelle previste dall’ordinamento interno, disponendo che, se la natura o la durata degli obblighi e delle prescrizioni impartiti, ovvero la durata della sospensione condizionale della pena, delle sanzioni sostitutive o della liberazione condizionale dalla sentenza sono incompatibili con la disciplina prevista dall’ordinamento italiano per corrispondenti reati, la Corte di appello procede ai necessari adeguamenti, con le minime deroghe necessarie rispetto a quanto previsto dallo Stato di emissione. Tale attività di adeguamento, tuttavia, per espressa previsione normativa non può comportare l’aggravamento, per contenuto o durata, degli obblighi e delle prescrizioni originariamente imposti.

La Prima sezione ricorda come tale principio di non aggravamento è sancito anche dall’art. 735, comma 3, cod. proc. pen., nonché dall’art. 10 della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983, ratificata con legge n. 334 del 1988 e rileva come il suo rispetto debba essere garantito non solo dalla Corte d’appello in sede di riconoscimento della sentenza straniera in Italia, ma da ogni altra autorità che, anche successivamente, intervenga a disciplinare le modalità di esecuzione della pena.

Per tale ragione la Suprema Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che, nel determinare le prescrizioni dell’affidamento in prova, adattandole a quelle dell’istituto di diritto rumeno della sospensione condizionale sotto vigilanza, aveva imposto al condannato le limitazioni aggiuntive del divieto di lasciare la regione di residenza e dell’obbligo di permanenza domiciliare notturna, ritenendo che esse eccedessero la gamma delle prescrizioni e dei divieti che connotano l’istituto del diritto rumeno.

5. Riconoscimento delle sentenze straniere e reato continuato.

Sez. 1, n. 32212 del 15/06/2022, PG c/Perna, Rv. 283565-01 ha ribadito il principio per cui non è applicabile la disciplina della continuazione tra un reato giudicato in Italia e un reato giudicato con sentenza emessa da uno Stato membro. Il vincolo della continuazione, infatti, non rientra tra le ipotesi in relazione alle quali, ai sensi dell’art. 12 cod. pen., può essere dato riconoscimento alle sentenze straniere(nello stesso senso si erano già pronunciate Sez. 1, n. 17502 del 23/01/2020, Lazri, Rv. 279364-01; Sez. 5, n. 48059 del 02/10/2019, Balzano, Rv. 277650-01). La medesima conclusione vale anche nel caso in cui la sentenza straniera sia già riconosciuta in Italia e l’applicazione del regime della continuazione sia richiesta in sede esecutiva.

Tale conclusione non muta a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 73 del 2016 che, all’art. 3, nello stabilire gli effetti in relazione ai quali viene attribuita rilevanza alle sentenze pronunciate dagli Stati membri, ha reiterato le medesime indicazioni di cui all’art. 12 cod. pen. per quanto attiene alle finalità per le quali detta valutazione è consentita. Il regime del reato continuato, infatti, non può essere considerato un “effetto penale” della condanna, dal momento che esso implica un giudizio di merito.

La Corte ha perciò affermato che l’impossibilità di riconoscere a tale effetto le sentenze straniere determina il difetto di sovranità dello Stato italiano e il conseguente difetto di giurisdizione del giudice penale nella rideterminazione della pena inflitta con sentenza dell’autorità giudiziaria straniera, sicché, mancando uno spazio di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria nazionale, l’applicazione della disciplina della continuazione tra un reato giudicato in Italia e altro reato giudicato all’estero determina l’irrogazione di una pena illegale, per violazione degli artt. 12 cod. pen. e 696 cod. proc. pen. La pronuncia in esame ha infatti evidenziato come per il reato giudicato all’estero il condannato dovrebbe scontare una pena ulteriore rispetto a quella comminata per il reato giudicato in Italia, senza poi poter opporre tale esecuzione allo Stato estero.

La Prima sezione ha poi affermato che spetta al giudice dell’esecuzione il potere di rimuovere la pena illegale. Ciò in quanto il principio di legalità, il quale è enunciato dall’art. 1 cod. pen. ed implicitamente riconosciuto dall’art. 25, secondo comma, Cost., non opera solo in sede di cognizione, ma permea l’intero sistema. Le Sezioni unite hanno evidenziato il ruolo complementare a quello di cognizione assegnato alla fase dell’esecuzione, nonché i penetranti poteri di accertamento e valutazione riconosciuti al giudice di questa fase dal codice di rito, anche e proprio in relazione alla legalità della pena, Tale valutazione non può infatti ritenersi ostacolata dalla formazione del giudicato, «non potendosi tollerare che uno Stato di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale» (Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013,dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651-01; Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260700-01).

6. Riconoscimento delle sentenze straniere e incidente di esecuzione.

Dell’ambito dell’incidente di esecuzione e del ruolo del giudice ad esso preposto si è occupata specificamente Sez. 1, n. 46923 del 21/10/2022, Papucci, Rv. 283783-01.

Tale pronuncia ha, innanzitutto, ribadito il principio (già affermato da Sez. 6, n. 315 del 28/01/1998, Caresana, Rv. 210374-01) secondo cui, anche nel caso di riconoscimento di sentenze straniere, sono deducibili con l’incidente di esecuzione esclusivamente i vizi attinenti al titolo esecutivo e non è possibile riproporre eccezioni relative al giudizio, a meno che o si tratti di inesistenza del titolo esecutivo (sentenza emessa a non judice) o di illegittimità intrinseca - e quindi inesigibilità - della pena, allorché la stessa non sia prevista dalla legge o ecceda, per specie o quantità, il limite legale. Vi è pertanto la possibilità di proporre incidente di esecuzione, ex art. 670 cod. proc. pen., in relazione alle sentenze di riconoscimento di pronunce straniere quando si lamenti un vizio attinente alla formazione del titolo esecutivo.

Di regola, l’esecutività del provvedimento penale discende dalla sua irrevocabilità, salvo che sia disposto diversamente. Allorché il passaggio in giudicato della sentenza dipenda dalla sua mancata impugnazione, si rende necessario verificare che l’inerzia della parte soccombente non sia dipesa dalla mancata conoscenza della decisione. Tale verifica è demandata al giudice dell’esecuzione, il quale deve accertare l’esistenza e la correttezza del procedimento notificatorio degli atti dell’iter processuale finalizzato a dare attuazione al provvedimento, con la conseguenza che, ove ne riscontri l’inesistenza o l’irritualità, deve disporne la rinnovazione previa sospensione dell’esecuzione.

Il medesimo compito spetta al giudice dell’esecuzione anche con riguardo alle sentenze di riconoscimento di decisioni straniere. In particolare, al fine di verificare l’esecutività di tale pronuncia in conseguenza della sua mancata impugnazione, egli deve accertare l’esistenza e la correttezza del procedimento notificatorio dell’avviso di deposito della decisione, dal momento che è da tale atto che decorre il termine di impugnazione per la parte che non ha partecipato al giudizio.

L’ambito della valutazione rimessa al giudice dell’esecuzione è stata affronta anche da Sez. 6, n. 37496 del 16/09/2022, Pop, Rv. 283934-01. Con tale pronuncia, la Sesta sezione, ponendosi in continuità con un orientamento consolidato, ha ribadito il principio per cui non sono deducibili in sede di esecuzione le questioni attinenti al merito del giudizio di riconoscimento delle sentenze penali estere (Sez. 4, n. 1348 del 06/10/1994, dep. 1995, Rv. 200970-01; Sez. 6, n. 44601 del 15/09/2015, S., Rv. 265882-01). Nella fattispecie esaminata, il ricorrente aveva proposto ricorso avanti alla Corte d’appello volto a dichiarare l’estinzione della pena della reclusione irrogata dall’autorità giudiziaria straniera e riconosciuta eseguibile nello Stato italiano, sul rilievo che il reato per cui il ricorrente era stato condannato all’estero non era previsto come tale anche dalla legge italiana. Nel dichiarare inammissibile il ricorso, la Suprema Corte ha affermato che il dedotto difetto di doppia punibilità costituiva questione relativa al merito, la quale non poteva essere dedotta in sede esecutiva, ma avrebbe dovuto essere proposta in sede di impugnazione della sentenza della Corte d’appello di riconoscimento della pronuncia straniera.

7. La procedura di riconoscimento delle sentenze straniere.

Nell’anno in rassegna la Corte di cassazione è tornata ad esaminare i requisiti della procedura di riconoscimento delle sentenze penali straniere ai sensi dell’art. 730 cod. proc. pen.

Sez. 6, n. 49120 del 16/09/2022, PG c/Greco, Rv. 284042-01 ha affermato che a tal fine è necessaria la previa acquisizione dallo Stato di condanna, con gli strumenti di cooperazione giudiziaria, della decisione integralmente tradotta. Tale principio (già affermato da Sez. 6, n. 2442 del 04/11/2011, dep. 2012, Mostacciuolo, Rv. 251560-01) è stato ribadito con riguardo ad una fattispecie in cui il Procuratore generale aveva promosso la procedura di riconoscimento ex art. 730 cod. proc. pen. sulla base del mero “avviso”, ricevuto dal Ministero della giustizia, della esistenza di una sentenza di condanna emessa da autorità giudiziaria straniera.

La pronuncia in esame ha affermato che tale avviso non è sufficiente per poter neppure attivare la procedura di riconoscimento, così come non basta la sua traduzione “per estratto”, contenuta nel bollettino ministeriale, ma è necessario che la sentenza straniera sia acquisita attraverso gli strumenti di cooperazione giudiziaria a ciò preposti, e che sia integralmente tradotta in lingua italiana.

Tale affermazione trova il proprio fondamento nella considerazione che solo l’integrale conoscenza della sentenza del cui riconoscimento si tratta permette alla Corte d’appello di operare un adeguato controllo sul requisito della non contrarietà ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato, e consente, in particolare, di valutare la sua conformità ai canoni del giusto processo.

8. Esecuzione di misure cautelari coercitive nello Stato membro dell’Unione europea.

Nell’anno in rassegna deve essere segnalata Sez. 1, n. 8864 del 03/02/2022, Pocev, Rv. 282756-01, la quale ha dato seguito al nuovo orientamento interpretativo inaugurato nell’anno precedente da Sez. 4, n. 37739 del 15/09/2021, Garcia, Rv. 281950-01 in ordine alla questione concernente la possibilità che l’esecuzione delle decisioni che impongono misure alternative alla detenzione cautelare possa essere eseguita nello Stato membro in cui l’interessato abbia la residenza.

Su tale questione, e con specifico riguardo alla misura cautelare degli arresti domiciliari, la Corte si era in precedenza pronunciata in senso negativo, affermando che tale misura non potesse essere compresa tra quelle cui si riferisce il d.lgs. n. 36 del 2016 che ha dato esecuzione alla decisione quadro 2009/829/GAI. In particolare, si era ritenuto che l’ipotesi contemplata dall’art. 4, lett. c) del citato decreto, il quale fa riferimento alla misura che impone l’obbligo di rimanere in un luogo determinato, eventualmente in ore stabilite, fosse riconducibile alla misura dell’obbligo di dimora, ma non a quella degli arresti domiciliari (Sez. 3, n. 26010 del 29/04/2021, Syski, Rv. 281937-01).

Da tale conclusione si era discostata nel 2021 la sentenza della Quarta sezione sopra richiamata, la quale, interpretando il d.lgs. n. 36 del 2016 in modo conforme alla decisione quadro e coerente con la finalità di creare uno spazio comune europeo, evitando discriminazioni basate sulla residenza, aveva ritenuto che anche la misura degli arresti domiciliari dovesse ritenersi rientrare nelle ipotesi di cui all’art. 4, lett. c) del predetto decreto legislativo.

Tale interpretazione è stata ribadita nel 2022 da Sez. 1, n. 8864 del 2022 cit. Essa ha riaffermato il principio secondo il quale la misura degli arresti domiciliari può trovare esecuzione nello Stato membro in cui l’interessato ha la propria residenza, dal momento che essa deve ritenersi ricompresa tra le misure che prevedono «l’obbligo di rimanere in un luogo determinato, eventualmente in ore stabilite», cui fa riferimento l’art. 4, lett. c), d.lgs. n. 36 del 2106.

A favore di tale soluzione, ad avviso della Corte, depongono più fattori. Innanzitutto, le caratteristiche dell’obbligo descritto dalla richiamata disposizione, che risultano analoghe a quelle di cui all’art. 284 cod. proc. pen., il quale impone l’obbligo di rimanere presso il luogo di esecuzione degli arresti, ma consente al contempo al giudice di autorizzare il soggetto ad esso sottoposto di allontanarsi per fronteggiare le proprie esigenze di vita, in orari predeterminati.

Inoltre, tale conclusione risulta coerente con la salvaguardia dei principi fondanti lo spazio comune europeo in materia di giustizia, che costituisce una delle finalità della decisione quadro, espressa dal Considerando 5), ed in particolare quella di adottare misure idonee a garantire che una persona sottoposta a procedimento penale non residente nello Stato del processo non riceva un trattamento deteriore rispetto alla persona ivi residente.

La Corte, infine, rileva come l’equiparazione degli arresti domiciliari alla detenzione in carcere non sia di ostacolo alla prospettata soluzione, dal momento che si tratta di una assimilazione solo quanto agli effetti giuridici, mentre la misura domiciliare si pone pur sempre come una alternativa a quella custodiale.

Per tali ragioni, la pronuncia in esame ha escluso la sussistenza dei presupposti per disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea al fine di chiarire il significato della espressione «obbligo di rimanere in un luogo determinato», cui fa riferimento l’art. 8.1.c) della decisione quadro, dal momento che tale significato risulta sufficientemente chiaro alla luce delle finalità espresse dalla medesima decisione e della insussistenza del rischio che possa esserne pregiudicata la corretta ed uniforme interpretazione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 4, n. 1348 del 06/10/1994, dep. 1995, Rv. 200970-01;

Sez. 6, n. 315 del 28/01/1998, Caresana, Rv. 210374-01;

Sez. 6, n. 2442 del 04/11/2011, dep. 2012, Mostacciuolo, Rv. 251560-01;

Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651-01;

Sez. U., n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260700-01;

Sez. 6, n. 44601 del 15/09/2015, S., Rv. 265882-01;

Sez. 1, n. 25157 del 22/02/2017, dep. 2018, Cat, Rv. 273049-01;

Sez. 6, n. 16877 del 05/02/2019, Battarra, Rv. 275646-01;

Sez. 5, n. 48059 del 02/10/2019, Balzano, Rv. 277650-01;

Sez. 1, n. 17502 del 23/01/2020, Lazri, Rv. 279364-01;

Sez. 3, n. 26010 del 29/04/2021, Syski, Rv. 281937-01;

Sez. 4, n. 37739 del 15/09/2021, Garcia, Rv. 281950-01;

Sez. 6, n. 8881 del 13/12/2021, dep. 2022. El Janati, Rv. 283046-01;

Sez. 1, n. 8864 del 03/02/2022, Pocev, Rv. 282756-01;

Sez. 6, n. 13169 del 03/03/2022, G., Rv. 283140-01;

Sez. 6, n. 29949 del 16/06/2022, PG c/ Alesci, Rv. 283614-01;

Sez. 1, n. 32212 del 15/06/2022, PG c/Perna, Rv. 283565-01;

Sez. 6, n. 37496 del 16/09/2022, Pop, Rv. 283934-01;

Sez. 2, n. 43572 del 14/09/2022, Vesendi, Rv. 283978-01;

Sez. 6, n. 49120 del 16/09/2022, PG c/ Greco, Rv. 284042-01;

Sez. 1, n. 46923 del 21/10/2022, Papucci, Rv. 283783-01;

Sez. 1, n. 49733 del 18/11/2022, Rugiero, Rv. 283839-01;

Sez. 6, n. 11145 del 12/01/2023, Imbrosciano, in corso di massimazione.

PARTE TERZA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE IX - ESECUZIONE

  • carcerazione
  • detenuto
  • regime penitenziario
  • esecuzione della pena
  • diritti umani

CAPITOLO I

LO SPAZIO INDIVIDUALE MINIMO INTRAMURARIO: L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA PRONUNCIA DELLE SEZIONI UNITE “COMMISSO”

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 Lo spazio minimo vitale…e non solo. - 2 La giurisprudenza di legittimità precedente alla pronuncia “Commisso”. - 3 La pronuncia Sez. U. “Commisso”. - 4 I dubbi irrisolti e gli indirizzi giurisprudenziali che ancora si agitano sul tema. - 5 Il punto della Cassazione civile. - Indice delle sentenze citate.

1. Lo spazio minimo vitale…e non solo.

Decidere quali siano le condizioni idonee a garantire ai detenuti lo spazio minimo vitale all’interno degli istituti penitenziari è diventato il leit motiv dei nostri tempi, caratterizzati dall’eccessiva affluenza carceraria, cui si è cercato di porre rimedio attraverso scelte politiche e legislative indirizzate all’accesso alle misure alternative alla carcerazione.

Partendo dal concetto di umanità e dall’assunto secondo cui la detenzione disposta legalmente non sia affatto incompatibile con il rispetto della persona, si è animata la riflessione sui diritti dei detenuti in generale, sull’effettiva tutela degli stessi, sulle prerogative e sulle guarentigie poste a salvaguardia della loro dignità, sulla funzione risocializzativa della pena detentiva, sulla verifica delle modalità e condizioni della detenzione al fine di verificarne il carattere inumano o degradante.

In quest’ottica, l’attenzione si è focalizzata anche sul tema delle dimensioni dello spazio vitale intramurario riconosciuto al detenuto, che non può non assumere rilievo dirimente quando si discute di soggetti privati della libertà personale, costretti alla vita detentiva e a una permanenza forzata in ambienti che per definizione sono ristretti.

Sullo specifico tema delle dimensioni dello spazio vitale, la legislazione penitenziaria, senza alcuna ulteriore specificazione, si limita a distinguere, negli edifici penitenziari, i locali destinati alle «esigenze di vita individuale» e quelli destinati allo « svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose» (art. 5 ord. penit.), nonché a prevedere un’«ampiezza sufficiente» per gli ambienti nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati (art. 6 ord. penit.)

La mancata previsione di tasselli a garanzia di una condizione detentiva all’interno delle celle che sia rispettosa dei precetti di cui all’art. 3 Cedu, nonché l’assenza di una tipizzazione delle condotte integratrici il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti, hanno sollecitato il legislatore a proseguire quanto già iniziato con la modifica degli artt. 35 e 69 ord. pen. e con l’inserimento dell’art. 35-bis ord. pen., attuati con il d. legge n. 146 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, che garantiscono il diritto del detenuto a presentare reclamo al magistrato di sorveglianza in tutti i casi di violazioni della normativa penitenziaria da parte dell’Amministrazione da cui possa derivare un grave e attuale pregiudizio all’esercizio dei suoi diritti.

Invero, il legislatore ha rafforzato il sistema di tutela a favore dei detenuti con la previsione di due azioni, autonome e complementari – rispettivamente disciplinate dall’art. 35-bis e dall’art. 35-ter ord. pen., inserito, quest’ultimo, con il d.l. n. 92 del 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 117 del 2014 –, che consentono al detenuto:

- di essere sottratto in modo tempestivo a una condizione detentiva contraria al senso di umanità, grazie a un intervento di tipo preventivo-inibitorio, con possibilità di esecuzione coattiva;

- di conseguire un ristoro per una violazione già subita, grazie a una tutela di tipo risarcitorio-compensativa.

La disciplina vigente nel nostro sistema rappresenta il precipitato della pronunzia della Corte EDU, Torreggiani c. Italia, del 08/01/2013, con la quale l’organo giurisdizionale sovranazionale ha affermato la necessità da parte dello Stato italiano di predisporre una forma effettiva di riparazione alla carcerazione subita in condizioni contrarie a quanto stabilito dall’art. 3 CEDU – nella specie, determinata da una situazione di «grave sovraffollamento» carcerario» –, attraverso la previsione di rimedi di tipo preventivo e di tipo compensativo.

Pertanto, in ottemperanza al monito della decisione “Torreggiani”, il legislatore domestico ha stabilito all’art. 35-ter ord. pen. che:

-nel caso in cui il pregiudizio di cui all’art. 69, comma 6, lett. b) ord. pen. – derivante «dall’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti» –, si prolunghi per un periodo non inferiore ai quindici giorni, rientra nel potere del magistrato di sorveglianza disporre in via prioritaria la riduzione della pena ancora da espiare «nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio»;

-nel caso in cui qualora il periodo di pena ancora da espiare sia «tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale», il magistrato di sorveglianza può provvedere anche a una riparazione di tipo economico, predeterminato nel quantum, in favore di colui che ha subito le conseguenze della violazione del suo diritto a non patire, nel corso dell’esecuzione di una misura restrittiva, trattamenti contrari al senso di umanità convenzionalmente e costituzionalmente riconosciuto.

É bene precisare che si tratta di rimedi che, a differenza di quelli preventivi di cui all’art. 35-bis ord. pen., non sono esperibili avverso una qualsiasi violazione dei diritti del soggetto detenuto, ma solo avverso violazioni di entità tale da comportare la compromissione del diritto del detenuto a non subire condizioni detentive inumane e degradanti che si siano protratte per almeno quindici giorni (cfr. Sez.1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220-01; Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898-01; Sez. 1, n. 43722 del 11/06/2015, Salierno).

La peculiarità del contenuto precettivo dell’art. 35-ter ord. pen. – determinato attraverso un meccanismo di rinvio “mobile” agli indirizzi interpretativi elaborati dalla Corte EDU –, non solo consente al giudice nazionale di applicare in favore del detenuto i rimedi risarcitori nei casi in cui la Corte EDU, direttamente adita da questi, potrebbe condannare lo Stato italiano per violazione dell’art. 3 della Convenzione, ma impone all’autorità giudiziaria la costante conoscenza e analisi delle decisioni emesse dalla Corte sovranazionale sul tema in questione.

Invero, le pronunce della Corte EDU assolvono non solo all’ordinaria finalità di orientamento sul modus interpretativo della disposizione, cui i giudici nazionali sono ordinariamente tenuti in virtù dell’art. 117, comma 1, Cost. (Corte cost., sent. n. 348 e n. 349 del 2007; Corte cost., sent. n. 68 del 2017; n. 49 del 2015; n. 276 del 2016; n. 36 del 2016), ma entrano, attraverso una clausola di rinvio formale, nell’ordinamento nazionale quale fonte cui è demandata la determinazione della fattispecie.

2. La giurisprudenza di legittimità precedente alla pronuncia “Commisso”.

L’individuazione dei criteri da adottare ai fini del computo della superficie lorda della cella ha generato questioni giuridiche e contrapposti orientamenti giurisprudenziali.

Sin dai primi anni successivi alla pronuncia “Torreggiani”, la prevalente giurisprudenza di legittimità ha adottato il criterio del computo della superficie lorda, detratta l’area occupata dagli arredi (Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924-01; Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Vecchina, Rv. 262352-01, non massimata sul punto; Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 2014, Carnoli), intendendo il concetto di spazio minimo individuale in cella collettiva come quella superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto e idonea al suo movimento, da cui la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto.

L’orientamento, conforme all’evoluzione della giurisprudenza convenzionale, pur non assumendo una posizione specifica sul tema del letto, affermava con chiarezza che per spazio minimo individuale in cella collettiva dovesse intendersi lo spazio in cui il soggetto detenuto può muoversi all’interno della cella (Corte EDU, MuršiC c. Croazia del 20/10/2016). Si convalidava, pertanto, l’opzione interpretativa di forte presunzione di trattamento degradante nel caso di disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai tre metri quadri, tuttavia compensabile con la brevità della permanenza in tale condizione, sia con l’esistenza di una sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, sia con l’esistenza di un’adeguata offerta di attività esterne alla cella, sia con le buone condizioni complessive dell’istituto, sia con l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti.

Dunque, ad avviso di una linea esegetica, lo spazio minimo necessario per assicurare al soggetto ristretto il movimento all’interno della cella va calcolato al netto degli ingombri degli arredi fissi che, in quanto tali, impediscono il moto, ricompreso, tra gli arredi fissi, anche il letto a castello, non facilmente amovibile, indipendentemente dalla “vivibilità” dello stesso per l’assolvimento di altre funzioni (Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv. 269514-01; Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 2017, Agretti; e Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087-01), a differenza degli arredi facilmente amovibili (Sez. F., n. 39207 del 17/8/2017, Gongola) tra i quali i letti «singoli» (Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 2017, Triki; Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 2017, Agostini; Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti; Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 2017, Lorefice).

Di diverso avviso quella giurisprudenziale di legittimità che, accedendo alla nozione di superficie lorda della cella, con la sola esclusione dell’area riservata ai servizi igienici, computa anche lo spazio occupato dagli arredi di qualunque tipo, tenuto conto dei fattori compensativi e di un regime detentivo non “chiuso”, ma “semi-aperto”. (Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355-01; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296-01; Sez. 6, n. 18016 del 18/04/2018, Breaz; Sez. Fer, n. 37610 del 31/07/2018, Ibra; Sez. F, n. 38920 del 21/08/2018, Astratinei; Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, Rv. 271513-01; Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu; Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008-01; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211-01).

3. La pronuncia Sez. U. “Commisso”.

Interrogata sul tema dello spazio minimo vitale all’interno degli istituti penitenziari, Sez. U., n. 6551 del 20/09/2020, dep. 2021, Commisso, Rv. 280433-01 ha affermato che «nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello», così dando riscontro alla giurisprudenza convenzionale secondo la quale, per un verso, alla privazione della libertà personale non deve conseguire il sacrificio di altri diritti e, per altro verso, le restrizioni conseguenti alla detenzione sono legittime solo ove necessitate da ragionevoli esigenze legate alla reclusione stessa, di talché le modalità di esecuzione della restrizione in carcere non devono provocare all’interessato un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione (Corte EDU, 8/2/2006 Alver c. Estonia).

Con la pronuncia “Commisso”, il Supremo consesso, evidenziato che ogni qualvolta lo spazio a disposizione del detenuto sia inferiore a tre metri quadri ricorre una presunzione iuris tantum di violazione dell’art. 3 CEDU – eventualmente superabile solo in presenza di altri fattori in grado di compensare la carenza di spazio vitale –, ha approfondito altri due passaggi contenuti nella sentenza “MuršiC”, con la quale il giudice sovranazionale, per un verso, ha escluso dal computo dello spazio personale disponibile in cella la superficie destinata ai servizi igienici e, per altro verso, ha incluso quella occupata dai mobili, dando rilievo alla concreta possibilità per i detenuti di muoversi normalmente all’interno della cella.

Superando interpretazioni divergenti sulla nozione di “spazio disponibile” – inteso talora come “superficie materialmente calpestabile”, talaltra come “superficie che assicuri il normale movimento nella cella” – e valorizzando il dato letterale dell’etimologia del sostantivo della lingua italiana “mobile” – interpretato come oggetto che può essere spostato all’interno della cella –, la pronuncia “Commisso” ha escluso dal computo dello spazio minimo disponibile in cella per ciascun detenuto gli arredi fissi e, tra questi, il letto a castello, e non, invece, gli altri arredi facilmente amovibili, ritenendo irrilevante la fruibilità di quest’ultimo per l’assolvimento di altre funzioni, quali il semplice riposo o le attività sedentarie, non rispondenti alla primaria esigenza di movimento.

Rispondendo all’ulteriore quesito sottoposto al suo vaglio, volto a individuare il valore da attribuire ai fattori compensativi e a superare la presunzione iuris tantum di violazione dell’art. 3 CEDU nel caso in cui lo spazio a disposizione minimo vitale del detenuto sia inferiore a tre metri quadri, le Sezioni unite hanno affermato che «in tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati, previsti dall’art. 35-ter ord. pen, i fattori compensativi, costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se congiuntamente ricorrenti, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati, mentre, nel caso di disponibilità di uno spazio individuale compreso fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi concorrono, unitamente ad altri di carattere negativo, alla valutazione unitaria delle condizioni complessive di detenzione» (Rv. 280433-02).

4. I dubbi irrisolti e gli indirizzi giurisprudenziali che ancora si agitano sul tema.

Pur interrogata sul punto, la pronuncia “Commisso” non sembra aver fornito un’esplicita risposta in merito alla possibilità di escludere dal computo dello spazio minimo vitale all’interno della cella anche la superficie occupata dal letto singolo, ma si è limitata a lasciare “aperta” la riflessione sulla specifica questione, tant’è che, ancora oggi, nella giurisprudenza di legittimità si registra un contrasto sul tema che involge la modalità di calcolo dello spazio fruibile dal detenuto, necessario a garantirgli il normale movimento, nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 3 CEDU.

Il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite, secondo cui «nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello» (Rv. 280433-01), e la spiegazione articolata in motivazione – «in quanto non trasportabili per via della pesantezza e dell’ancoraggio al suolo o alle pareti, diversamente dai tavolini, dalle sedie e dai letti singoli che «possono essere spostati da un punto all’altro della camera (sono, quindi, “mobili”)» - ha alimentato dubbi in merito alla modalità di calcolo nel caso in cui il letto singolo sia ancorato al suolo, o, se pur non fissato al suolo, sia difficilmente movibile per l’esiguità degli spazi disponibili o perché, se diversamente posizionato, finirebbe con il rappresentare un ostacolo al movimento all’interno della cella.

Sulla questione si agitano differenti orientamenti.

Secondo una prima linea esegetica della giurisprudenza di legittimità, che attua una rigorosa applicazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite, solo i letti a castello, in quanto fissi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile al movimento nella cella (Sez. 1, n. 45181 del 16/09/2021 Arena; Sez. 1, n. 35616 del 10/06/2021, Emeka ), mentre la superficie occupata dal letto singolo – analogamente agli armadietti appesi alle pareti, agli sgabelli e ai tavoli – non riduce l’area calpestabile e, dunque, la libera fruizione dello spazio trattandosi di arredo sempre amovibile (Sez. 1, n. 23282 del 29/04/2021, Di Vincenzo; Sez. 1, n. 43741 del 21/10/2021, Mitrea).

Su tale linea interpretativa si è mossa Sez. 5, n. 139 del 30/09/2021, dep. 2022, Karroudi, secondo cui la ragione per la quale il letto singolo non deve essere detratto dalla superficie della cella, indipendentemente dalla circostanza che esso sia assegnato all’istante o ad altro detenuto, si rinviene nella circostanza che, diversamente dal letto a castello, che occupa non solo la superficie “bassa”, ma anche il volume sovrastante, il letto non a castello consente il suo utilizzo anche come seduta.

Sulla stessa linea, più di recente, Sez. 1, n. 12774 del 15/03/2022, D.A.P., Rv. 282850-01 – seguendo il ragionamento già articolato da Sez. 6, n. 39197, del 28/10/2021, Burlui; Sez. 1, , n. 45181 del 16/09/2021, Arena; Sez. 1, n. 2597 del 12/01/2021, Masalmeh, e successivamente ripreso da Sez. 1, n. 20786 del 26/02/2022, Molé – ha affermato che «in tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati previsti dall’art. 35-ter ord. pen., ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, deve essere computato anche lo spazio occupato dai letti singoli, sebbene in uso ad altri detenuti, in quanto arredi suscettibili di spostamento, anche temporaneo, per garantire il movimento all’interno della camera».

Con la pronuncia “Molè”, la Prima sezione ha osservato che «con la decisione Sez. U n. 6551 del 24.9.2020, dep. 2021, si è affermato che nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. Le Sezioni Unite, in particolare, hanno preso posizione circa la necessità di consolidare l’orientamento basato nulla nozione “funzionale” dello spazio vitale minimo inteso quale spazio destinato al movimento, il che determina […] la non computabilità nello spazio “utile”‘ di “arredi che non si possono in alcun modo spostare” . Si opera riferimento espresso ai letti a castello e agli armadi fissi, strutture che determinano la “inaccessibilità strutturale” degli spazi fisici su cui insistono. Di contro, si è ritenuto che i letti singoli - senza altra specificazione - possono per loro natura essere spostati per facilitare l’esercizio fisico e dunque la superficie occupata da tale tipologìa di arredo va calcolata nel computo dello spazio minimo utile».

Diversamente, Sez. 1, n. 18681 del 26/04/2022, n. 18681, Campisi ritiene che, se è vero che il principio affermato dalla pronuncia “Commisso” si riferisce espressamente allo spazio occupato dal letto a castello, la cui superficie deve essere detratta da quella complessiva della stanza al fine di verificare il rispetto della superficie minima pro-capite, è anche vero che non esclude che anche la superficie occupata dai letti singoli debba essere detratta nel caso in cui questi siano ancorati al suolo «perché non sono, in questo caso, “mobili”», diversamente dal caso in cui siano spostabili.

Più di recente, in maniera radicale, con pronuncia del 20/12/2022 – divulgata con notizia di decisione n. 4/2022 , della quale, a oggi, non risulta depositata la motivazione –, la Prima sezione al quesito «se, in tema di rimedi risarcitori di cui all’art. 35-ter ord. penit., ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, rilevante ai sensi dell’art. 3 CEDU, così interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, vada detratta, ed eventualmente a quali condizioni, anche la superficie occupata dal letti singoli», ha risposto che «va detratta la supeficie occupata dai letti singoli, compresi i letti non ancorati al suolo».

5. Il punto della Cassazione civile.

Accogliendo un’interpretazione più favorevole ai detenuti, la giurisprudenza di legittimità che si è formata nelle sezioni civili della Corte di cassazione ritiene sottraibile dal calcolo della superficie complessiva disponibile per i soggetti ristretti lo spazio occupato dal letto, sia esso a castello o singolo, in quanto in entrambi i casi risulta compromesso il “movimento” del detenuto (Sez. 1 civ., n. 4096 del 20/02/2018, Rv. 647236-01), Seppur vero, infatti, che lo spazio occupato dal letto singolo è fruibile per il riposo e l’attività sedentaria, è anche vero che tali funzioni organiche vitali sono fisiologicamente diverse dal “movimento”, il quale postula, per il suo naturale esplicarsi, uno spazio ordinariamente “libero” (Sez. 3 civile, n. 16896 del 04/12/2018, dep. 2019; Sez. 3 civile, n. 25408 del 13/03/2019; Sez. 3 civile, n. 1170 del 27/11/2019, dep. 2020, Rv. 656636-01; Sez. 1 civile, n. 506424 del 24/02/2021; Sez. 6, n. 5441 del 18/02/2022).

. Indice delle sentenze citate.

Sentenze della Corte di cassazione:

Sez. 1, n. 5728 del 19/12/2013, dep. 2014, Berni, Rv. 257924-01;

Sez. 1, n. 5729 del 19/12/2013, dep. 2014, Carnoli;

Sez. 1, n. 53011 del 27/11/2014, Vecchina, Rv. 262352-01;

Sez. 1, n. 43722 del 11/06/2015, Salierno;

Sez. 1, n. 12338 del 17/11/2016, dep. 2017, Agretti;

Sez. 1, n. 13124 del 17/11/2016, dep. 2017, Morello, Rv. 269514-01;

Sez. 1, n. 16418 del 17/11/2016, dep. 2017, Lorefice;

Sez. 1, n. 24086 del 17/11/2016, dep. 2017, Agostini;

Sez. 1, n. 40520 del 17/11/2016, dep. 2017, Triki;

Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211-01;

Sez. 6, n. 5472 del 01/02/2017, Mihai, Rv. 269008-01;

Sez. 1, n. 44866 del 27/04/2017, Foti;

Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087-01;

Sez. F, n. 39207 del 17/8/2017, Gongola;

Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, Rv. 271513-01;

Sez. 2, n. 48401 del 19/10/2017, Ghiviziu;

Sez. 1 civ., 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 647236-01;

Sez. 6, n. 18016 del 18/04/2018, Breaz;

Sez. F, n. 37610 del 31/07/2018, Ibra;

Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296-01;

Sez. 3 civ., n. 16896 del 04/12/2018, dep. 2019;

Sez. F, n. 38920 del 21/08/2018, Astratinei;

Sez. 3 civ., n. 25408 del 13/03/2019;

Sez. 1, n. 35537 del 30/05/2019, Fragalà;

Sez. 3 civ., n. 1170 del 27/11/2019, dep. 2020, Rv. 656636-01;

Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra;

Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355-01;

Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220-01;

Sez. U., n. 6551 del 20/09/2020, dep. 2021, Rv. 280433-01;

Sez. U., n. 6551 del 20/09/2020, dep. 2021, Rv. 280433-02;

Sez. 1, n. 2597 del 12/01/2021, Masalmeh;

Sez. 1 civ., n. 506424 del 24/02/2021;

Sez. 1, n. 23282 del 29/04/2021, Di Vincenzo;

Sez. 1, n. 35616 del 19/06/2021, Emeka;

Sez. 1, n. 45181 del 16/09/2021, Arena;

Sez. 5, n. 139 del 30/09/2021, dep. 2022, Karroudi;

Sez. 1, n. 43741 del 21/10/2021, Mitrea;

Sez. 6, n. 39197, del 28/10/2021, Burlui;

Sez. 6, civ., n. 5441 del 18/02/2022;

Sez. 1, n. 20786 del 26/02/2022, Molé;

Sez. 1, n. 12774 del 15/03/2022, D.A.P., Rv. 282850-01;

Sez. 1, n. 18681 del 26/04/2022, Campisi.

Sentenze della Corte costituzionale:

Corte cost., sent. n. 348 del 2007;

Corte cost., sent n. 349 del 2007;

Corte cost., sent n. 49 del 2015;

Corte cost., sent. n. 36 del 2016;

Corte cost., sent. n. 68 del 2017.

Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo:

Corte EDU, 8/02/2006 Alver c. Estonia;

Corte EDU, 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia;

Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016, MuršiC c. Croazia.